Università di Bologna
Polo Scientifico Didattico di Rimini
Dipartimento di Discipline Storiche
imaGo
Laboratorio di ricerca storica e di documentazione iconografica
I percorsi
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Laboratorio di ricerca storica e di documentazione iconografica sulla condizione
giovanile nel XX secolo *
Paolo Sorcinelli
* Questo saggio è una rielaborazione di un intervento pubblicato in « Storia e futuro» rivista di storia e storiografia
www.storiaefuturo.com n. 5 ottobre 2004.
1. “Non si potrebbe rinunziare alla fotografia”
Una decina d’anni dopo la pubblicazione della prima edizione della sua Storia sociale della
fotografia, Ando Gilardi faceva questa considerazione: «La fotografia ha un secolo e mezzo, ma
con essa da tempo si producono in un giorno qualunque più immagini di quante non ne siano state
realizzate con tutti gli altri mezzi nella storia dell’uomo».
In effetti, nella seconda metà dell’Ottocento la fotografia è già un fenomeno sociale e di massa.
Grazie a fotografi ambulanti e agli studi fotografici la fotografia si afferma come la
democratizzazione del ritratto e penetra a livello di mentalità collettiva il principio che la fotografia
può essere usata per canalizzare sentimenti e stati d’animo, fissare i ricordi, testimoniare affetti,
lasciare un segno della propria esistenza, documentare il tempo che passa. Il successo della scoperta
di Daguerre, dopo pochi decenni, è immediato e coinvolge ogni livello di vita. Così si esprime il
fotografo fiorentino
Carlo Brogi in Il ritratto in fotografia. Appunti per chi posa con una
introduzione di Paolo Mantegazza e scritti vari di altri (Firenze 1896, p. 78): «Questa scienza od
arte, come dir si voglia, che il genio francese introdusse nello scibile umano, si è largamente diffusa
in tutto il mondo civile, raggiungendo in poco tempo progressi sorprendenti, ed ormai si può dire
che la Fotografia sia oggidì divenuta un elemento necessario al viver moderno. Non si potrebbe fare
a meno del vapore, del telegrafo e di altri portati del progresso, come non si potrebbe rinunziare alla
fotografia».
Concepita come una delle prime invenzioni meravigliose della civiltà industriale, nell’immaginario
collettivo la realtà della macchina fotografica concorre a rafforzare ulteriormente il più generale
mito dell’industria, del progresso tecnologico derivante dall’introduzione delle macchine e
dell’aumento di capacità produttiva che queste comportavano. In questo senso, l’economista inglese
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Thomas Malthus aveva sottolineato che le invenzioni e l’introduzione di macchine potevano
supplire al declino della capacità produttiva della terra e, accrescendo la massa dei beni prodotti ed
estendendo il mercato sia all’interno che all’esterno, offrire nuove possibilità di impiego alla classe
lavoratrice. E, su queste basi, il socialista utopista francese Saint-Simon guardava l’industria come
fondamento di un nuovo tipo di società. Nel saggio L’industria (1817) affermava che in quel
momento era necessario «gettare le basi di una costruzione nuova», riconducendo la politica, la
morale, la filosofia «alla loro vera occupazione, che è quella di costruire la felicità sociale», e ne
indicava la garanzia nell’industria, concepita come «l’unica fonte di ogni ricchezza e di ogni
prosperità» (Opere, Utet 1975, p. 263). L’industria, e più propriamente le macchine, concorrevano a
diffondere nell’immaginario collettivo la fiducia nel progresso tecnologico che salva l’umanità, il
mito del benessere materiale. Allo stesso modo, l’esistenza concreta delle macchine fotografiche
alimentavano l’ideazione, nonché la progettazione vera e propria, di macchine capaci di sfruttare le
risorse naturali a beneficio di tutti, come per esempio macchine per produrre calore, luce e cibo. Era
un processo circolare e correlativo, in quanto, da un lato, il mito della fotografia contribuiva ad
alimentare quello globale della società industriale; dall’altro, questo stesso mito alimentava quello
della fotografia. Non solo. A sua volta, la fotografia contribuiva a diffondere peculiarmente
nell’immaginario collettivo l’idea della livellazione sociale, in quanto, affermava il già citato Brogi,
essa «non ha privilegi: attraverso la camera oscura passano tante immagini della donna come
dell’umile popolana; quella dell’artista celebrata e della divette da caffè-concerto, il ceffo del
delinquente come la vittima sconosciuta dell’altrui malvagità! La fotografia è alla portata di
chiunque, e la sola differenza che può passare fra un ritratto e l’altro, sarà di stile o di metodo, ma la
sostanza rimane eguale per tutti. Il Ritratto fotografico come fa bella mostra di sé nei salotti
eleganti, così è penetrato anche nelle più modeste stanze e negli abituri di campagna» (p. 80). Un
utile ufficio, quindi, sia sul piano individuale che collettivo.
Accanto ad un uso privato, la fotografia assurgeva anche ad un ruolo pubblico e sociale: la
fotografia veniva usata per fissare gli eventi della storia, per studiare e documentare la malattia
psichiatrica, per comunicare gli eventi, per supportare il controllo sociale con la schedatura visiva
dell’identità individuale, per allargare l’immaginario erotico.
2. Questioni storiografiche e metodologiche
Nel 1888 il “British Journal of Photography” lancia un appello per la creazione di un grande
archivio storico della fotografia nella convinzione che le immagini “sarebbero state i documenti più
preziosi entro un secolo”; Robert Taft negli anni Trenta ripropone la questione caldeggiando la
costituzione di grandi archivi fotografici come una “replica visiva del passato”, mentre Jean Albert
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Keim, nel 1974, torna a sostenere l’uso sistematico dell’immagine fotografica come testimonianza
del proprio tempo.
Traccia visiva della storia, la fotografia per la ricerca storica contemporanea si rivela come uno
strumento fondante per lo studio di mentalità, affetti, emozioni, un documento che consente di
indagare, a più livelli, i diversi modi di pensare, immaginare, rappresentare di una determinata
epoca, oltre che a costituire, nella maggior parte dei casi in ambito di storia della cultura materiale,
vera e propria fonte primaria. Confrontando, infatti, la fotografia con altre fonti relative sia al
documento fotografico sia al suo contenuto, ci troviamo di fronte alla possibilità di documentare
storicamente la cultura, sia quella che si manifesta nella mentalità, nei comportamenti, nei costumi,
nei riti, nei simboli, sia la cultura materiale, gli oggetti veri e propri.
Eppure la fotografia come documento storico stenta ad affermarsi. Gli storici usano le immagini
come corredo ausiliario, quasi mai come documento, come fonte storica autonoma. I motivi
principali di tali fenomeni sono diversi: fra essi il fatto che una fotografia coglie una staticità
temporale, mentre l’analisi storica presuppone un processo, un flusso temporale; il fatto che la
fotografia descrive la superficie, il mondo sensibile, ma oscura la realtà profonda. In realtà
entrambe queste proposizioni tendono a nascondere che a storici, economisti e sociologi manca un
linguaggio per leggere le immagini nella loro ottica disciplinare. E, viceversa, manca un linguaggio
“unico” per leggere le immagini in un’ottica interdisciplinare, trasversale. Ma perché questo è
possibile ad esempio per l’iconografia medievale (vedi Ariès, Duby, Le Goff) e non per l’immagine
contemporanea?
E’ difficile individuare uno statuto alla fotografia come fonte: ha una natura, si può dire, ambigua.
E ciò impedisce ad essa di essere ridotta a semplice strumento di comunicazione: in tal senso
implica una continua sovrapposizione di piani di lettura e sconfinamenti da un settore disciplinare
all’altro. A riguardo, la semiologia, l’antropologia, la critica d’arte, la storia della fotografia
forniscono alcuni strumenti fondamentali per interpretare le immagini, alimentando in questo modo
un approccio interdisciplinare dal punto di vista epistemologico che metodologico. Inoltre, la
pratica di una corretta critica delle fonti, l’individuazione dell’autore, della data, dell’evento, del
committente, la valutazione sull’autenticità e sull’attendibilità di una fonte, l’individuazione di tutti
gli strumenti utili per la lettura del contenuto di essa, il non limitare la lettura a un unico documento,
laddove la quantità e la serialità consentono di ridurre l’indeterminatezza, sono principi che valgono
in generale riconosciuti come fondanti nella pratica dello storico. E, dunque, perché non applicarli
anche alla fotografia storica?
Secondo un concetto positivista, ogni immagine dovrebbe valere mille parole; in realtà le immagini
sono come i documenti scritti, i documenti d’archivio: di per sé sono muti, e dunque occorre un
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lavoro di destrutturazione, di interpretazione, di critica, di analisi perché riescano a porsi come una
“fonte” per la ricostruzione storica.
3. imaGo: un laboratorio in progress
Oggi si calcola che in un anno si producano 10 miliardi di fotografie. Quale uso si fa di tutto questo
materiale? La maggior parte serve per la cronaca, a livello pubblico, oppure a livello privato, per la
nostalgia e per il rimpianto di qualcosa che è stato; in alcuni casi la fotografia viene recuperata per
la produzione di fotolibri che troppo spesso però appartengono alla collana del “mulino bianco”, e
cioè del “come eravamo”.
Andrea Emiliani in un saggio dal titolo L’archivio totale della città, pubblicato in un volume del
1992, Fotografia e fotografi a Bologna, scrive: «L’enorme avvolgente sapore dell’archivio totale,
del vissuto collettivo che emana dalla fotografia storica, non è ancora riuscito a invadere
adeguatamente la nozione di memoria positiva, e sembra piuttosto limitarsi, ogni volta, al ricordo di
costume e alla citazione personale. La grande divulgazione della fotografia, insomma, anziché
imporsi come il primo, gigantesco archivio della società moderna, ha finito per agevolare l’uso
personale e intimistico dell’informazione. Questo grande strumento non possiede ancora la potenza
evocativa del documento archivistico e storico tradizionale».
Non è un caso che imaGo online, il Laboratorio di Ricerca storica e di Documentazione
iconografica, inaugurato nel 2004 nel Polo Scientifico e Didattico di Rimini, abbia lo stesso nome
del catalogo delle opere grafiche conservate nei musei, biblioteche e archivi dell’Emilia Romagna.
C’è infatti la consapevole “presunzione” di catalogare una parte delle raccolte fotografiche
familiari. Un recupero di immagini “spontanee e anonime” (destinate altrimenti a restare nascoste)
che raffigurano l’esistenza quotidiana del loro tempo, non per leggerle come se fossero dei nodi nel
fazzoletto, ma come un reticolo di segni, di tracce, dei veri e propri documenti su cui interpretare il
passato.
Il progetto imaGo va in questa direzione: far parlare le immagini, nella consapevolezza, come
ricorda Antonio Tabucchi in Si sta facendo sempre più tardi (Feltrinelli 2001, p. 24), che, di fronte
ad «un album di fotografie, di uno qualsiasi, di una persona qualsiasi, come me, come te, come
tutti», ci si accorge che «la vita è lì, nei diversi segmenti che stupidi rettangoli di carta rinchiudono
senza lasciarla uscire dai loro stretti confini». Il problema è tutto qui: la fotografia è uno«stupido
rettangolo di carta» e allo storico è demandato il compito di leggere «la vita gonfia, impaziente» che
sta dentro o dietro «quel rettangolo di carta». Più o meno stupido, più o meno importante, ma
sempre nella consapevolezza che la fotografia costituisce una straordinaria documentazione per
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l’analisi e la comprensione del passato e delle trasformazioni generazionali. E’ ormai sempre più
palpabile il distacco che i giovani manifestano nei confronti della storia, anche di quella più recente.
Troppo spesso questa viene percepita come un inutile esercizio mnemonico, privo di senso e di
agganci con il presente.
Le esperienze didattiche – condotte all’interno dell’insegnamento di Storia sociale – dimostrano che
la ricostruzione del passato attraverso le fotografie conservate in famiglia, contribuisce a creare
attorno alle immagini di bisnonni, nonni e genitori un interesse che può trasformarsi in un reticolo
di conoscenze storiche che vanno aldilà del nucleo familiare, per abbracciare l’intera società, le
visioni e le rappresentazioni del mondo. L’immagine fotografica è una rete di appunti che
l’obiettivo ha schiacciato in un’immagine d’assieme. La scomposizione dei diversi tasselli permette
di fornire di ciascuna immagine una lettura diacronica e comparativa delle mutazioni strutturali e
delle mentalità collettive attraverso i cicli generazionali.
In questo senso imaGo online è orientato principalmente al potenziamento di un database di
immagini inedite, tratte dagli archivi familiari sulla condizione giovanile nel XX secolo in
collaborazione con quanti operano o dispongono di raccolte fotografiche per dar vita ad iniziative
didattiche, editoriali ed espositive. Le immagini raccolte e inserite nel database sono catalogate
all’interno di queste macro-categorie di lettura:
•
Politica
•
Lavoro
•
Tempo libero
•
Vacanze
•
Motorizzazione
•
Affettività
•
Amicizia
•
Mode
•
Costumi
•
Famiglia
•
Scuola
•
Musica
•
Matrimoni
•
Riti
Attualmente sono consultabili più di 10.000 records.
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4. Orientamenti e percorsi di ricerca
E’ a partire dalla compenetrazione dei “linguaggi” e dei settori della storia sociale, laddove la
profondità del legame tra il reale e l’immaginario sono considerati versanti da confrontare e non da
contrapporre, che prendono fisionomia dal punto di vista storiografico ed epistemologico i criteri di
catalogazione digitale del materiale documentario nelle macro-categorie suddette. In particolare, per
quanto riguarda la politica è l’orientamento alla categoria della “soggettività” che induce a
focalizzare come campo di studio i percorsi individuali, indagando sia le espressioni e i
comportamenti visibili, sia i sentimenti di appartenenza dei singoli individui in relazione alle
diverse forme di militanza politica e civile. Ciò allo scopo di tentare di individuare le tappe
principali che ha avuto, nel corso del Novecento, il rapporto dei giovani con i partiti, i movimenti, e
tutto quanto è riconducibile alla dimensione politica, ponendo in evidenza le diverse forme di
espressione individuale all’interno della dimensione pubblica e dell’agire collettivo.
Quanto al lavoro è il tentativo di individuare “chi sono” e “dove sono” i giovani lavoratori, a
muovere principalmente la ricerca, i percorsi di indagine, oltre che a verificare in che modo gli
adulti li hanno rappresentati. Viceversa, nella ricerca relativa al tempo libero che, lungi
dall’indagare solo le forme e i modi di vivere il tempo del “non lavoro”, ci si propone di ricostruire,
laddove è possibile, le differenze generazionali e di genere, ponendo in primo piano le scelte
individuali, in parallelo a quelle di gruppo, tra pubblico e privato. Sport, consumo dei mass-media
(dal Secondo dopoguerra), intrattenimenti singoli e collettivi, e pure quelli familiari, sono fenomeni
integranti della vita contemporanea, della sua “sociabilità”. In tal senso, pur richiamandosi anche al
problema della gestione del consenso nella società di massa e ai suoi aspetti istituzionali, politici e
culturali, la storia del tempo libero non si risolve completamente in essi, in quanto è legata anche al
modellarsi di comportamenti sociali, diversamente intesi rispetto a uno specifico uso del tempo
destinato ad attività in qualche modo ricreative. Pertanto, la ricerca sul tempo libero si orienta,
anche e soprattutto, nel campo della sociabilità giovanile. Lungo questa direzione, in stretto legame
con tale tematica, si coniuga l’indagine sulla storia delle vacanze, che possono essere considerate
“fucina” culturale, in cui i giovani in particolar modo, ma non solo, sperimentano nuovi aspetti della
propria identità, nei rapporti sociali, nell’interazione con la natura, in un contesto quindi in cui la
fantasia, e tutto ciò che ad essa si correla, diventa una pratica sociale. Allo stesso modo, il
riconoscere come fondante l’intreccio fra oggetti pratiche e valori come assioma della storia sociale,
è quanto sottende l’opzione di considerare a sé stanti le categorie motorizzazione e musica, laddove
“oggetti” quali per esempio la Vespa, la Cinquecento da un lato, e la chitarra dall’altro, assurgono a
dimensioni di simboli e miti delle radicali trasformazioni avvenute nel mondo giovanile dagli anni
Cinquanta in poi. Come del resto assurgono alla medesima dimensione capi di vestiario come i
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blue-jeans e la minigonna. E, al riguardo, il considerare, in generale, la storia del vestiario come
specchio dell’articolato intreccio dei fenomeni socio-economici, politici, culturali e di costume, è
quanto orienta la catalogazione nelle categorie mode e costume. Tutt’altro che semplice inventario
di immagini, gli usi e i costumi del vestire costituiscono dati di osservazione privilegiata per
analizzare la confluenza di numerosi fattori, quali per esempio l’intreccio continuo tra l’evolversi
della storia delle idee e quella del pensiero economico, la relazione fra i cambiamenti di gusto,
analizzati in chiave antropologica e l’incidenza del progresso scientifico, il meccanismo di
influenza che caratterizza il rapporto tra mass-media e consumatori. Inoltre, il modo in cui si gioca
il “dover essere” e il “voler essere”, quindi tra norma e libertà di espressione è quanto sostiene i
percorsi di indagine relativi ai sentimenti, in particolare di affettività e amicizia, nei loro significati
più ampi e trasversali. Nel contempo, nella forte strutturazione etica, e non solo politica, giuridica,
economica, che connota la storia delle istituzioni, trovano spazio i percorsi analitici relativi a
famiglia, matrimoni, e scuola, referenti particolarmente significativi per ricostruire, laddove è
possibile, anche in questo caso, una storia “scritta” dai giovani al di là delle rappresentazioni fatte
dagli adulti. In particolare, l’obiettivo di indagare in che modo sono state vissute le relazioni fra
mogli e mariti, madri padri e figli, è quanto orienta la ricerca sulla famiglia. Da un lato il modello
ufficiale borghese, codificato nell’Ottocento, dall’altro il modo di concepire quella stessa famiglia,
di vivere e di amare all’interno di essa, dei singoli individui, sviluppando il tema come dimensione
privata e pubblica, come legame-relazione affettiva, politica, economica e sociale. Sotto questo
profilo si evidenzia il ruolo e la funzione cruciale del matrimonio, che per tutto il Novecento occupa
un ruolo centrale nel processo di formazione della famiglia italiana, sebbene nel corso del secolo il
significato delle nozze sia profondamente cambiato. Da un’intervista realizzata nel 1999 ad alcune
persone nate nel 1971-75, è emerso che solo il 12% donne e il 15% uomini considera il matrimonio
un’istituzione ormai superata. Le giovani donne affermano che per sposarsi è necessario prima
completare gli studi (60%), avere un’occupazione adeguata (87%) e disporre di una propria
abitazione, indipendente dai genitori (77%). Tali percentuali sottolineano, da un lato, la centralità
delle nozze, e dall’altro l’importanza del matrimonio come punto di arrivo del processo di uscita
dalla famiglia d’origine, e dell’acquisizione economica. Del resto, il valore dominante al primo
posto oggi per i giovani italiani, è la famiglia, come emerge, tra l’altro, dal Quinto Rapporto IARD
del 2002 sulla condizione giovanile in Italia. Pertanto, famiglia, matrimonio e riti non solo come
contenuti di rappresentazione ma di rapporti, comportamenti pratici e possibilità decisionali tra
pubblico e privato: «Protagonisti delle nozze sono gli sposi: le coppie, grazie al benessere e alla
varietà delle proposte del mercato, possono decidere non solo se accogliere o rifiutare elementi
della tradizione, ma anche fra una vasta gamma di forme in cui esplicitare le ritualità che vogliono
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rispettare. La ritualità che accompagna la celebrazione del matrimonio riflette pertanto la visione
degli sposi del progetto di famiglia e il contesto sociale in cui gli stessi sono inseriti, ma anche il
grado di condizionamento sociale e la possibilità di rottura dall’altro. Attraverso la scelta dei riti i
giovani possono condividere, accettare, rifiutare regole e consuetudini familiari, affermare le
proprie convinzioni, marcare la propria differenza. Tuttavia, è possibile cogliere forti regolarità: la
varietà delle scelte disponibili non impedisce la prevalenza delle forme più consolidate. Quasi
nessuna coppia di sposi italiani di fine Novecento rinuncia alla luna di miele, a un sontuoso
banchetto nuziale, ad alcune caratteristiche della celebrazione (vestito, foto, auto, fiori…)» (M.
Barbagli et al., Fare famiglia in Italia, Il Mulino 2003, p. 128). E, in questo quadro, si fa largo, in
senso più generale, anche l’indagine sui riti, sui quali convergono le trasformazioni delle molteplici
visioni prospettiche, pur mantenendo spesso le medesime forme rappresentative. Nondimeno,
appare centrale la storia della scuola, che nel corso del Novecento diventa una realtà sempre più
presente nella vita di uomini e donne di tutti i ceti e classi. Individuata dalle classi dirigenti come
canale di educazione del popolo e di trasmissione dei modelli dominanti nel processo di
modernizzazione della società, le indagini sulle forme, sui contenuti, sui valori come la famiglia,
l’ordine, la gerarchia, la pace sociale, il ruolo sociale di uomini e donne, il patriottismo, il rapporto
modernità-tradizione, il lavoro, dell’educazione popolare nel processo di massificazione e
modernizzazione della società italiana, concorrono a delineare storicamente il rapporto generazioni
giovanili e scuola, laddove risultano simultaneamente rilevanti gli studi sull’attività dei maestri e
delle maestre, i loro approcci pedagogici, il loro livello di coinvolgimento nel progetto di
educazione e controllo delle masse, i procedimenti di apprendimento della scrittura e della lettura, i
caratteri di mutamento e di continuità di forma e contenuto nei quaderni e negli elaborati scolastici,
l’italiano insegnato (imposto) nella scuola, lingua ancora estranea alla maggior parte degli alunni e
gestita con difficoltà, che se poteva essere sostituita dal dialetto nel discorso orale (molto frequente,
addirittura la norma in ambiente rurale), non poteva essere evitato nelle pratiche di scrittura. In altri
termini, percorsi di ricerca all’incrocio tra storia della pedagogia, storia della scuola, storia
dell’alfabetizzazione e storia della scrittura.
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RISORSE DIGITALI
Per un quadro completo sulle risorse digitali nazionali e internazionali, oltre ad una ampia
bibliografia, cfr. il Dossier “Fotografia e storia” pubblicato nel sito della SISSCO, Società Italiana
per lo Studio della Storia Contemporanea:
http://www.sissco.it/ariadne/loader.php/it/www/sissco/dossiers/foto_e_storia.html/
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