La psicanalisi e gli psicanalisti

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La psicanalisi e gli psicanalisti
Gabriele Lodari
La strategia di Freud per una politica della psicanalisi è sempre sostenuta,
indirizzata, guidata, dall’invenzione teorica e dalla ricerca. Egli non assoggetta
mai la ricerca incessante alla politica; al contrario, la stessa politica è guidata
per lui dalla ricerca. La psicanalisi e la sua strategia pubblica, quindi la politica,
sono per Freud orientate dall’inafferrabilità dell’oggetto della pulsione, l’oggetto
originario e non localizzabile. Infine, la politica come la clinica freudiana sono
entrambe teorie dell’oggetto, ossia dell’oggetto della pulsione. Si tratta di
riconoscere che i pilastri della riflessione freudiana in ogni campo (politico,
religioso, scientifico, culturale) sono eretti in assenza di fondamento. In
principio è l’atto di parola, potrebbe riassumere il senso e il valore dell’indagine
freudiana. E’ facile avvertire come la constatazione del fallimento del tentativo
di afferrare e localizzare l’oggetto della pulsione, si rifletta in generale nei testi
freudiani proprio come indagine sul fallimento della civiltà.
L’etica della psicoanalisi occorre che sia anche l’etica della politica. La politica
stessa per mantenere il primato che si merita di regina delle scienze occorre si
adegui all’etica della psicanalisi che poi costituisce l’autentica e pragmatica
esperienza di vita per ciascuno. La rivoluzione freudiana è, insomma, radicale e
ci costringe a interrogarci sul valore e sull’autenticità di qualsiasi scienza, di
qualsiasi pratica sociale e culturale.
In una lettera a Groddeck Freud scrive che la psicanalisi è un’attività
eminentemente sociale. Non di uno solo. Non in un’opera di isolamento.
Eppure è tale in una condizione di solitudine. L’inconscio è una logica singolare
mai data una volta per sempre, e richiede l’inafferrabilità dell’oggetto.
Nel 38 Freud aggiungerà che la psicanalisi non ha la prospettiva di diventare
benemerita e popolare. La singolarità dell’oggetto esige che lo psicanalista non
si trinceri in un’opera di isolamento, eppure simultaneamente che non rinunci
alla sua solitudine, condizione dell’oggetto e, paradossalmente, del kairos,
dell’incontro fortunato. E’ forse proprio questo atteggiamento che rischia oggi
ancora di rendere attaccabile la psicanalisi, soprattutto in Italia, anzi
addirittura la rende a rischio d’incriminazione. Oggi, sempre più, il protocollo
parrebbe esigere una socializzazione regolamentata, quindi una burocrazia e
poi una standardizzazione dell’intervento, persino dell’ascolto. Oggi è davvero
compromessa quella bella solitudine dello psicanalista che non teme neanche
la follia (non intesa ovviamente come parodia estenuata cioè pazzia
distruttiva), è compromessa la solitudine come arte della ricerca e
dell’invenzione le quali, politicamente, non possono che riflettersi in un
atteggiamento che può anche apparire spregiudicato, senza eccessivi scrupoli,
o comunque non in linea con il canone sociale. Eppure era proprio Freud a
esprimersi in questi termini espliciti nella lettera al pastore Pfister: “occorre
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che l’analista non si risparmi, che si esponga, che non badi alle
regolamentazioni, che agisca come un pittore che dà fuoco ai mobili di casa per
scaldare lo studio alla modella. Occorre una condotta differente in ciascun
caso”.
D’altra parte, Freud non considera necessario per la formazione dell’analista
alcun titolo accademico, proprio per salvaguardare l’originario dell’esperienza.
L’analisi non è medica (vedi anche la lettera a Eintingon), e queste sono le
cose sulle quali cerchiamo di insistere in Lunipsi. Possiamo decisamente
affermare che la posizione di Freud è estrema, forse perché del tutto
consapevole che proprio l’atto dell’analista è tale. L’atto che non deborda nella
parola è, invece, proprio l’atto dell’estremista terrorista, quello che vuole
essere esemplare, quello della ritorsione e della vendetta, iper-morale, quello
che cioè non è più un atto ma un’azione di morte.
L’atto dello psicoanalista è singolare, procede dall’ascolto e perciò non può che
debordare, non può che essere appunto attuale e pleonastico, fondante,
sostituendosi al posto di ogni logia. E’ l’atto di parola autentica, inedito
ciascuna volta e improntato all’ironia nei confronti della possibilità che possa
darsi un atto standardizzato dettato dal canone o dal protocollo. Mentre
l’occidente tende oggi - è il discorso dell’epoca - a togliere l’atto dalla parola e
ad assoggettarlo al canone. In questo privilegio dell’azione, ovvero dell’atto
senza la parola, o del fantasma di padronanza sull’oggetto, si possono appunto
rinvenire sorprendenti convergenze fra l’amministrazione burocratica e il
terrorismo.
E’ opportuno rilevare che nella lingua francese non esiste il corrispettivo del
termine italiano “pazzia”. Questo termine che etimologicamente deriva dal
latino patior, patire, paziente, insano, ma anche “furioso” (quella di Orlando
non è certo follia, ma pazzia), ammette un suo contrario nella serie di termini
di uso comune quali “assennato”, “ragionevole”, “normale” ecc. Mentre il
termine follia (etimologicamente da “mantice”, “soffietto”, “pallone”) possiamo
dire che non ammette alcun contrario che possa in qualche modo delimitarlo,
fissandone o esaurendone il significato. La follia parrebbe insomma restituire
come ossimoro proprio quella dicotomia che nella pazzia parrebbe restare
irriducibile e già determinata. La pazzia, cui possiamo assimilare il discorso
cosiddetto psicotico, richiama inevitabilmente il rigore di una ragione
indiscussa, proprio perché le si oppone. Ed è propriamente l’impellenza di tale
ragione, il suo intervento sia pure contrastante, a specificare la pazzia.
In definitiva noi osserviamo che la ragione del folle è la ragione dell’Altro, una
ragione mobile (come il “pallone pieno d’aria” cui ancora ci richiama
l’etimologia di questo termine) non fissa e predeterminata, una ragione
artistica e inventiva. Un artista, uno psicanalista, non può che essere folle. Ed
è per non cadere nella pazzia, che la ragione cui si appella non può certo
essere quella del codice morale, del sistema o del canone, dello standard
nell’intervento.
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La stessa pazzia, a ben vedere, non è che una forma di follia trattenuta e
raggelata in grado di esprimersi soltanto come parodia estenuata; un vano
tentativo di mimare o contrastare una ragione che, tuttavia, il pazzo non può
che limitarsi a parodiare. Quello del folle può essere un atto autentico e
inventivo mentre quello del pazzo è soltanto un passaggio all’azione. D’altra
parte la pazzia ha uno statuto ontologico, sia pur negativo, soltanto nel
discorso occidentale, dove può sussistere rifocillandosi proprio con il canone.
La certezza della ragione non può che sfociare in quella della pazzia.
Vi è certo qualche rischio oggi per la psicanalisi e non si tratta solo di quello
relativo all’intromissione dall’esterno da parte delle caste professionali,
medicali o dell’apparato statale. Si tratta del rischio, per così dire, di
un’implosione, ovvero del rischio che da associazione psicanalitica si trasformi
in un’associazione di psicoanalisti. Per quanto abbiamo detto sopra, è cioè
indispensabile, affinché ci sia psicanalisi, come clinica e come teoria (peraltro
indistinguibili) che vi sia la relazione con questo oggetto inafferrabile della
pulsione, che vi sia una clinica e una teoria dell’oggetto per non desistere dalla
ricerca incessante e per tener conto dell’esperienza. Un’associazione di
psicanalisi occorre sia libera, paradossalmente occorre quasi che non esista in
quanto tale; non può esserci l’associazione degli psicoanalisti da una parte e gli
psicoanalisti dall’altra. La relazione di ciascuno occorre sia con questo punto
vuoto che è l’oggetto della pulsione.
Per un analista è indispensabile che ci sia una relazione con l’oggetto della
pulsione in una pratica di associazione. Vale anche qui la distinzione sopra
accennata fra pazzia e follia: affinché non vi sia opposizione e contrasto fra la
psicanalisi e psicoanalisti, o anche fra l’associazione e il singolo, occorre che vi
sia ossimoro, occorre paradossalmente che sia garantita e preservata la follia,
occorre la relazione fra una ragione dell’Altro con il punto mobile e insituabile
della pulsione.
In ciascuna associazione psicanalitica occorre comporre in ossimoro
l’alternativa, l’opposizione, l’antinomia. Non si tratta allora di salvaguardare la
diversità, quanto di promuovere la differenza che è in atto nella relazione di
parola. E resta conseguentemente da valutare quanto il fallimento di
un’associazione psicanalitica sia imputabile a modelli imprestati dall’esterno
che la rende dipendente da un discorso ideale o mutuato da altre forme
associative, per esempio quella della chiesa o dell’esercito; come è avvenuto
per l’Associazione Psicanalitica Internazionale fondata da Freud nel 1910,
quando c’era ancora Jung, poi diventata l’IPA, o anche con il fallimento
dell’École freudienne la quale, per attestazione di Lacan medesimo, ha
incontrato lo scacco già per come era nata e che è stata poi sciolta da lui
medesimo con la sua dis-solution.
Quando l’oggetto è fissato come ideale, garantito dall’ideologia del discorso,
non soltanto e a maggior ragione un’associazione psicoanalitica, ma infine
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qualsiasi azienda finanziaria, economica o culturale, è destinata a
burocratizzarsi o a fallire. Per quanto riguarda più strettamente la psicanalisi,
questo rischio è presente, a mio parere, in ogni caso; indipendentemente cioè
dal fatto che la struttura sia quella di una scuola, centralizzata o dipendente da
una Legge dello Stato, oppure che sia una federazione di piccole associazioni
tra loro collegate, ma è facile constatare che la libertà da qualsiasi vincolo
burocratico o istituzionale può essere una garanzia affinché la condizione,
indispensabile per chiamarsi psicanalisi, sia davvero tutelata. Questa
condizione è quella del pragma e del fare, ed esige una relazione di ciascuno
con l’oggetto non rappresentabile e inafferrabile della pulsione. L’oggetto nella
parola. Il compito che credo spetti a Lunipsi, come ad ogni associazione di
psicanalisi, è quello di scogliere ogni diversità per ritrovarla come differenza
nella parola originaria. Proprio l’IPA oggi sopporta la diversità, anzi direi che la
promuove; in tal modo, isolando ciascuno dei suoi membri, ottiene il risultato
di mantenere distaccati e del tutto impermeabili l’assetto istituzionale e la
rigidità dell’impianto burocratico (regole per la supervisione ecc.). Oggi non è
forse la Democrazia cosiddetta a funzionare più o meno allo stesso modo? Fino
a un certo limite è rispettata la diversità, ma è schivata la differenza. La
differenza che esige l’atto di parola e quindi il sembiante. Nelle associazioni di
psicanalisti non si tratta pertanto di preservare la diversità di ciascuna
associazione (finché sussiste una diversità, questa è soltanto indice di
un’elaborazione non ancora attuata) quanto di rintracciare e garantire
continuamente il varco per una differenza nella parola.
Invece quasi ovunque, la diversità anziché la differenza nella parola. Per la
confusione che purtroppo dilaga anche nella pletora delle scuole lacaniane, a
partire dall’Associazione mondiale di psicoanalisi, confusione fomentata in
questo caso dal loro gran capo, Miller, il quale è particolarmente prodigo nel
partorire con una certa euforia le sue mostruose creature gnostiche (tra l’altro,
il sembiante è confuso con l’immaginario e quindi convertito, con un parto
plurigemellare, in una serie di sembianti), è postulata la differenza fra il
sembiante e il reale; nessuno che giunga alla conclusione che questa differenza
non si può fare senza, appunto, il sembiante stesso. Ovvero che la differenza è
nella parola. Dando come fissa e già scontata la differenza, è postulata la
diversità; ne consegue a) che ogni cosa non può che fare segno, b) che la
tripartizione del segno è cancellata, c) che consacrata è la cosa anziché la
parola, d) che il reale del godimento è supposto inamovibile, come fosse
anch’esso escluso dalla parola.
La logica dell’Altro, che è anche l’unica logica possibile, non solo nell’ambiente
freudiano, ma anche in quello della ricerca scientifica (fatta esclusione per
l’epistemo-logia), è quella aritmetica (l’inconscio non è rintracciabile dalla
ragione se non in quanto numero), non quella algebrica, e quindi non può che
condurci a constatare che anche la differenza fra l’uno e la molteplicità non è
originaria.
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Il sembiante, l’oggetto nella parola, non è né uno né tanti, bensì all’origine di
questa stessa differenza. Altrimenti la parola è cancellata. Originario nella
logica della psicoanalisi, e in ogni logica che sia degna di questo nome, è il
due. Il sembiante occorre intenderlo come la causa per cui l’uno si differenzia
da sé, anziché dividersi in due. Invece quasi ovunque nelle scuole lacaniane il
due è rimpiazzato dal dualismo, con riferimento privilegiato ovviamente a
quello cartesiano, e l’opposizione fra res extensa e res cogitans, regna ancora
sovrana. Il corpo diventa così il luogo del mistero, se non propriamente il luogo
del mostro o del robot. Nessuno che si accorga che non è il sonno della ragione
(La fantasia priva della ragione produce impossibili mostri: unita alla ragione è
madre delle arti e origine di meraviglie, 1798, Goya) a generare mostri (la
ragione cartesiana, che è poi la ragione vigile del logos d’occidente, li genera, e
come, i suoi mostri, fino all’estremismo di destra o di sinistra!) ma il sonno
della ragione dell’Altro.
I progressi che caratterizzano l’evoluzione del pensiero nell’ambito delle scuole
lacaniane, sono certo sollecitati dal dubbio cartesiano, ma il fatto che il
sembiante si sottragga anche alla presa dell’organizzazione mondiale del
pensiero nella diversità, questo non può che sconcertarli o quantomeno
indispettirli. Ecco infatti Il dispetto che serve per arginare e placare lo
sconcerto per il fatto che il sembiante sfugge anche alla presa della Scuola. In
ogni caso, può loro bastare appunto l’in-differenza, dal momento che ci pensa
sempre il loro capo a inventare la soluzione per evitare qualsiasi sconcerto. E
per costoro il rispetto nei confronti dell’autorità della parola si trasforma
inevitabilmente nel rispetto nei confronti dell’autorità del capo, dunque ancora
nell’Uno (ma a pensarci bene, non è questo in nuce proprio il dispositivo per
cui qualsiasi società si trasforma, come in effetti è storicamente avvenuto, in
una società totalitaria e repressiva?). Nessuna differenza può essere istituita
fra l’IPA e le scuole lacaniane se l’autorità non è intesa come autorità della
parola, ovvero se non è instaurata la tripartizione del segno e dunque il
sembiante.
L’errore di Cartesio non consiste solo nel dualismo, o meglio, proprio il
dualismo è all’origine di una serie di conseguenze a cascata. L’errore consiste
nel fatto di postulare che il dubbio può cadere nel momento in cui non posso
più dubitare di avere un corpo, o di essere un corpo, cioè che Io sono il mio
corpo. E proprio ciò che la ragione freudiana, dell’Altro, ha rimesso in
questione. La credenza nell’essere o nell’avere, quindi la credenza nell’essere e
nell’avere un corpo, procede dalla credenza nell’Altro dell’Altro, dalla credenza
nel nome del nome (e infatti Cartesio non può che rinviare la sua certezza a
Dio), procede in definitiva dalla rappresentazione del sembiante.
Io non mi distinguo dal mio corpo, ma neanche tu e neanche lui dal mio corpo:
Io, tu e lui, sono idee dell’oggetto nella parola, pertanto idee del sembiante. I
corpi non sono originariamente distinti prima del sembiante. Quando distinguo
il mio corpo dall’Altro è perché considero qualcosa del mio corpo, isolo il mio
corpo come fosse una cosa data, accertata, quale un organismo o una
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malattia, dal corpo con tutte le sue malattie, quando lo penso come luogo delle
diversità già acquisite, anziché come il non-luogo della differenza in atto.
Anche il corpo si differenzia da sé medesimo e introduce ogni differenza, ogni
varietà, a partire dal sembiante, il punto sempre sfuggente di astrazione.
Invece nelle prolusioni di Jacques Alain il sembiante è sempre escluso, trattato
come mera finzione. Ne consegue che la logica diventa sistema del logos,
ontologia: l’inconscio freudiano si trasforma nel parl-essere (per quanto egli si
trovi costretto ad ammettere che l’essere non precede il parlare). Tutto questo
per una psicoanalisi, a suo dire, rinnovata che si voglia all’altezza del nostro
tempo. Il sintomo si trasforma nel saint-homme, avvalendosi certo delle
intuizioni del suo grande suocero Lacan, ma in realtà travisandole e
sottraendole al contesto in cui erano state formulate; ovvero
sistematizzandole, restituendole all’ontologia.
Nella società dei robot, ove l’autorità della parola è cancellata e prevale
l’ossequio al nome del nome incarnato dal capo, a dissolversi è il sembiante e
irrompono il reale da una parte e la realtà dall’altra, il dualismo, insieme al
fantasma di morte e alla rassegnazione, poiché il reale è inteso ora come il
fondo ineluttabile, cancellato come risorsa e contrapposto a una realtà
fantasmatica; il fare è sostituito dal rituale dell’indaffaramento (ecco la figura
del portaborse), dall’obbedienza al telecomando: l’obbedienza non è più alla
legge della parola ma all’imperativo. Il registro pragmatico della parola richiede
il sembiante, altrimenti come avviene nella società dei robotizzati, l’arte come
condizione indispensabile del fare, è sostituita dal canone, dall’uniforme e dal
conformismo. L’universalismo, nella società robotizzata, è inteso come
garanzia e come risorsa. Il sembiante è ostacolo e quindi risorsa e garanzia,
ma nella società dei robot, è rimpiazzato da un reale non assumibile nella
parola, quindi dalla morte. La rigidità del protocollo e del canone cancellano la
parola originaria e questo può avvenire a livello planetario. Le guerre mondiali
ne sono un esempio anticipatore sufficientemente evidente, ma occorre saperle
leggere in questo modo. Oltre il volontarismo, la generosità, che è una virtù
della parola originaria. Che richiede quindi il sembiante. La generosità è virtù
della parola, il soggetto non può che essere altruista. Il soggetto non può che
rappresentarsi l’Altro, animale gnostico il soggetto catturato nel dualismo,
vuole il bene o vuole il male dell’Altro, ha come fine il bene dell’Altro. Per il
soggetto Io, tu e lui sono ideali, e quindi sostanziali, distinti nel senso di
diversi. Perché il soggetto scarta la differenza nella parola, scarta il non
originario della parola. Io, tu e lui, come idee dell’oggetto sono differenti fra
loro ma non diversi. La differenza occorre sempre ritrovarla, occorre scriverla
ciascuna volta. La differenza non concerne l’interlocutore ma la parola. La
differenza si limita a introdurre il non: non è questo. Può dire soltanto: non è
questo. Non può mai dire è questo. Il non della differenza originaria non
riguarda l’essere o l’avere. Introdurre il sembiante, che sfugge sempre, vuol
dire introdurre il non della parola originaria. Questa è la rimozione freudiana.
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Nella società dei robot è soppressa la condizione del kairos, ovvero la
condizione per cui un individuo non sia più ridotto a un semplice membro,
elemento del collettivo, ma gli sia possibile divenire “ciascuno”, ovvero si trovi,
con sorpresa, in relazione con l’oggetto della pulsione, il sembiante. L’oggetto
della pulsione, che sostiene la domanda che fa parlare, intervenire, osare, è un
oggetto non inscritto in alcun insieme già istituito, cancella ogni distinzione
possibile che preceda la sua ex-sistenza.
L’insieme, con l’intervento del kairos, si rivela infinito e non più numerabile;
ciascuno è in relazione con l’oggetto della pulsione. Non vi è alcun progresso
nella storia, ma soltanto un succedersi di epoche in cui l’esistenza del kairos,
dell’invenzione e della ricerca è stata resa possibile, quindi l’esistenza di
ciascuno. Le condizioni per tale emergenza restano in gran parte da indagare.
Certo il Rinascimento sembra essere un momento privilegiato per questa
emergenza. Mentre anche la nostra epoca, quella di Internet e della
comunicazione planetaria, non necessariamente garantisce questa condizione.
Nella condizione di emergenza del kairos ci si accorge, con sorpresa, che il
membro dell’insieme, non è un elemento già numerabile di quell’insieme,
quanto la condizione della sua numerabilità. E’ il varco all’infinito della parola.
L’insieme non obbedisce più alla probabilità, o al caso.
Cercare di salvaguardare la condizione del kairos in un’associazione
psicanalitica significa non considerare come oggettivo, quindi stabilito oppure
da stabilire, alcun confine fra la psicanalisi e gli psicanalisti. L’invenzione non
ha certo bisogno di una tale demarcazione la quale, anzi, non fa che soffocarla.
Non importa più se la psicoanalisi sia o non sia una teoria compiuta, se essa
sia destinata a dissolversi o meno. Essa in ogni caso non è un sistema, un
discorso, ma la sua emergenza è autentica se dissolve ogni limite prestabilito,
compreso quello che la separerebbe dalla filosofia o da qualsiasi altra scienza,
linguistica, antropologia, ecc. Nessuna interdisciplinarietà da sopportare o cui
adeguarsi. Oggi è la psicoanalisi a manifestarsi come sintomo di un discorso
(come annotava Lacan), ieri era la filosofia o la teologia, e via dicendo, domani
forse un’altra psicanalisi?
La condizione per l’esistenza di un’associazione di psicoanalisi, o culturale in
senso lato, è quella che rende possibile l’emergenza di “ciascuno”, pertanto
quella dell’invenzione e della ricerca. Il linguaggio che consente l’emergenza
del sembiante, questa la bussola; questo è il linguaggio che è rivolto
all’avvenire, non più ripiegato verso la nostalgia o impegnato nella
riesumazione dei modelli ideali del passato.
Quando l’occasione bussa alle porte, sul momento possiamo non accorgercene
affatto. Quando ce ne accorgiamo cosa avviene? e cosa è avvenuto quando
l’occasione bussava alla porta e non ne accorgevamo? Di cosa non ci
accorgiamo? La solitudine è in parte la condizione del kairos ed è anche la
condizione della situazione di inavvertenza di quanto ci sta accadendo. La
solitudine, l’oblio, perciò l’ingenuità, siamo ingenui. Eppure disposti a,
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orientati, orientati verso che cosa? Se da nulla proveniamo, se nessun
fantasma ci sospinge e ci costringe a seguire una direzione prestabilita? Se
nessuna rappresentazione dell’oggetto ha guidato le nostre strategie di
movimento? Che l’occasione stava bussando alla porta ce ne accorgiamo solo
nell’aprez coup.
Il fantasma genealogico è quello che sopprime il kairos, ovvero il fantasma
algebrico o geometrico che spazializzando la parola, sopprime l’attimo del
kairos. L’attimo del kairos è avulso dal tempo della durata. Concerne l’atto di
parola, ciascun atto.
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