S. TOMMASO D`AQUINO

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S. TOMMASO D’AQUINO
LA RISCOPERTA DI ARISTOTELE
Nell’Alto Medioevo era conosciuto e studiato solo l’Organon di Aristotele, vale a dire l’insieme dei
trattati di Logica, non erano noti invece i libri di Metafisica e di Fisica. La filosofia medievale, fino
all’XI secolo, aveva valorizzato soprattutto il pensiero di Platone, che era sembrato più facilmente
conciliabile con la dottrina cristiana.
Nel XII secolo, invece, attraverso i rapporti con il mondo islamico (rapporti conflittuali, con le
Crociate, ma anche rapporti di scambio economico e culturale), giunsero in Occidente tutte le opere
di Aristotele, che erano state scoperte, tradotte e commentate dai filosofi arabi musulmani (tra i
filosofi musulmani i più importanti interpreti e commentatori di Aristotele furono Avicenna e
Averroè). Nei secoli XI-XII nacquero in Europa anche le Università, e all’interno di esse lo studio
della filosofia assunse una grande importanza (come introduzione allo studio della teologia). La
filosofia insegnata nelle Università medievali, caratterizzata da sistematicità e rigore logico, venne
chiamata “scolastica”.
Tra i docenti e gli studenti di filosofia e teologia delle Università europee la “nuova” filosofia di
Aristotele suscitò grandissimo interesse, sia perché essa costituiva appunto una novità, sia perché
essa appariva molto solida dal punto di vista razionale. Tuttavia la filosofia di Aristotele appariva
incompatibile con il cristianesimo, soprattutto per due punti: 1) Dio non vi è presentato come
Creatore, e il mondo viene considerato eterno; 2) la teoria dell’anima come forma del corpo rende
problematica l’immortalità dell’anima individuale (anche se Aristotele affermava l’immortalità
dell’intelletto agente). Anche il forte naturalismo del pensiero aristotelico faceva sì che molti filosofi
e teologi cristiani guardassero con sospetto alla filosofia di Aristotele e preferissero sempre il
pensiero di Platone, più spirituale e religioso. Per questo gli Statuti dell’Università di Parigi
vietarono la lettura delle opere di Aristotele nei corsi di filosofia, ma il divieto venne ben presto
infranto e dimenticato.
San Tommaso d’Aquino fu il filosofo e teologo cristiano che “raccolse la sfida” del pensiero di
Aristotele e che lo studiò e lo valorizzò, realizzando una nuova sintesi tra cristianesimo e
aristotelismo.
Tommaso fece questa scelta per due motivazioni: 1) in primo luogo egli era convinto che se il
pensiero di Aristotele era davvero razionale, non poteva essere in contrasto con la fede cristiana, e
quindi si poteva realizzare una sintesi tra aristotelismo e cristianesimo correggendo quei pochi
elementi dell’aristotelismo che, essendo in contrasto con il cristianesimo, sarebbero risultati
insostenibili anche dal punto di vista razionale.
2) in secondo luogo Tommaso pensava che Aristotele, con il suo naturalismo, con la sua valutazione
positiva dell’esperienza, era molto più vicino al cristianesimo dello spiritualismo platonico. Infatti è
vero che la dottrina cristiana afferma che Dio è “puro spirito”, però afferma anche che la materia è
creata da Dio, e inoltre afferma che il Figlio di Dio si è fatto uomo, assumendo un corpo materiale.
Quindi per il cristianesimo la materia non può essere considerata “il male”, mentre lo spiritualismo
platonico considera negativamente la materia e la dimensione corporea.
Per Tommaso era particolarmente urgente mettere in evidenza la differenza tra il cristianesimo (che
pone all’origine di tutto lo spirito, ma non condanna la materia), e il platonismo (che invece
condanna la materia e la considera causa prima del male), perché al suo tempo si stava diffondendo
l’eresia dei Catari, i quali condannavano appunto la materia e la corporeità, e predicavano un’ascesi
estrema, che doveva portare all’estinzione totale della vita sulla terra. I Catari si presentavano come i
“veri” cristiani, quindi Tommaso voleva far capire che in realtà essi erano molto lontani sia
dall’insegnamento di Gesù Cristo, sia da una rappresentazione razionale della realtà.
Il risultato della sintesi di Tommaso è una filosofia cristiana, che riconosce in Dio l’origine di tutta la
realtà, ma nello stesso tempo valorizza l’uomo e la natura, riconoscendone l’autonomia.
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RAGIONE E FEDE, FILOSOFIA E TEOLOGIA
Per S. Tommaso, come per S.Agostino e per S.Anselmo d’Aosta, la fede e la ragione non si escludono a
vicenda e non possono contraddirsi, anzi si integrano in un rapporto in cui la fede orienta e guida la ricerca
razionale, e la ragione chiarisce e conferma la fede.
Tuttavia Tommaso approfondisce il rapporto fra fede e ragione distinguendone rigorosamente i ruoli e gli
ambiti.
Ragione e fede sono due modi diversi di conoscere: la ragione si basa sull’evidenza intrinseca della verità, la
fede si basa sull’autorità di Dio che si rivela.
Perciò la filosofia, fondata sulla ragione, e la teologia, fondata sulla fede, sono due scienze diverse e
autonome.
Non tutte le verità, soprattutto per quanto riguarda Dio, sono raggiungibili con la sola ragione. Il mistero di
Dio in se stesso (la natura di Dio, la Trinità) è conoscibile solo per mezzo della fede (cioè credendo alla
rivelazione) e, poiché Dio è il fine ultimo dell’uomo, la rivelazione si è resa necessaria perché l’uomo potesse
conoscerlo e conseguirlo.
Altre verità, come per esempio l’esistenza e l’unicità di Dio, possono essere conosciute dalla ragione
autonomamente, “con le sue sole forze”.
Tra le verità di fede e le verità di ragione non si può dare vera contraddizione, Dio infatti è la sorgente sia della
verità rivelata sia della nostra natura razionale per mezzo della quale conosciamo la verità; è quindi falsa la
dottrina della “doppia verità” e della irriducibile antinomia tra i risultati della ricerca filosofica e i risultati
della ricerca teologica.
Filosofia e teologia sono dunque distinte, ma possono intrecciarsi e aiutarsi reciprocamente. La filosofia può
aiutare la teologia in tre modi: 1) può dimostrare con la sola ragione alcune verità come l’esistenza di Dio e
l’immortalità dell’anima che costituiscono dei “preambula fidei” cioè preparano alla fede (non si può credere
in ciò che Dio ha rivelato se non si crede che Dio c’è); 2) la filosofia può chiarire, mediante similitudini e
analogie, le verità di fede; 3) la filosofia può ribattere le obiezioni che sono mosse alla fede sul piano
razionale, dimostrando che sono false o infondate.
D’altro lato la teologia può offrire alla filosofia una guida nella sua ricerca; infatti alcune verità, di per sé
raggiungibili con le sole forze della ragione, sarebbero raggiunte solo da pochi, con difficoltà e con molti
errori, se non si avesse l’aiuto della rivelazione divina.
Alla base di questa concezione circa i rapporti tra ragione e fede (autonomia e distinzione da un lato,
consonanza e reciproco aiuto dall’altro) sta una convinzione profonda di Tommaso espressa nel principio “la
grazia non abolisce la natura, ma la perfeziona”, il che significa che la rivelazione divina non rende inutile
l’esercizio della ragione (che è la caratteristica propria della natura umana), ma piuttosto la porta a perfezione
orientandola e completandola.
LA CONCEZIONE METAFISICA DELL’ESSERE COME SOMMA PERFEZIONE
Nella sua filosofia , Tommaso riprende e utilizza tutta una serie di concezioni aristoteliche: ad esempio la
dottrina dell’atto e della potenza, della materia e della forma, della sostanza e degli accidenti, delle quattro
cause ecc.
Ma il suo pensiero non può essere ridotto a un puro e semplice aristotelismo, sia perché Tommaso fa proprie
anche alcune concezioni platoniche, neoplatoniche, agostiniane e arabe, sia, soprattutto, perché egli trasforma
le concezioni aristoteliche operando una sintesi originale.
Infatti la sintesi tomista di aristotelismo, cristianesimo e platonismo non è semplicemente una somma di diversi
apporti filosofici, ma è una concezione organica che trae ordine e coesione da un principio nuovo: “l’essere è
la suprema perfezione delle cose”.
L’essere, per Tommaso, non è solo il primo concetto che l’uomo ha (nozione comune generalissima, per cui
conosciamo ogni cosa come essere e diciamo che ogni cosa è essere), ma è anche, e soprattutto, la suprema
perfezione di ogni cosa, ciò che costituisce una qualsiasi realtà e fa sì che essa effettivamente esista («Fra
tutte le cose l’essere è la più perfetta», «L’essere è ciò che vi è di più intimo in ciascuna cosa; ciò che
penetra più profondamente in tutte le cose», «L’essere è ciò per cui una essenza esiste realmente»).
Per comprendere l’originalità di questa posizione di Tommaso occorre tenere presente che per Platone la
suprema perfezione era l’idea e per Aristotele la suprema perfezione era la forma; inoltre nel pensiero
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neoplatonico, che influenzò il pensiero di molti Padri e filosofi cristiani, la suprema perfezione era il Bene, e
quindi Dio era concepito innanzi tutto come “Bonum”.
Per Tommaso ogni ente concreto, realmente esistente, è costituito dall’essenza e dall’essere (“actus essendi” è
il termine specifico usato da Tommaso, e indica proprio l’atto di esistere).
L’essenza è il quid di una cosa, vale a dire la nozione espressa dal nome e dalla definizione della cosa; essa mi
dice che cosa è quell’ente concreto.
Ma se ci fermiamo all’essenza di una cosa non abbiamo ancora colto l’ente concreto, ciò che esiste realmente.
Infatti: «ogni essenza può essere concepita senza che si sappia se esiste o non esiste; posso infatti
comprendere che cosa è l’uomo, o che cosa è la fenice, e tuttavia ignorare se esistano o non esistano
realmente».
Soltanto l’essere, l’actus essendi, realizza l’essenza, che in se stessa non ha nessuna reale consistenza.
L’essenza per Tommaso è soltanto una vuota potenzialità, che si realizza quando ad essa si unisce l’essere.
Ricordiamo che per Aristotele la forma era l’atto della materia; per Tommaso però anche la forma per esistere
in atto deve avere l’actus essendi, per questo Tommaso dice che l’actus essendi è l’attualità di ogni atto, la
perfezione di ogni perfezione.
Se l’essere è la suprema perfezione delle cose Dio va inteso prima di tutto come Essere; l’essere è il nome più
appropriato che possiamo attribuire a Dio (la Bibbia conferma questa concezione filosofica con il celebre
passo dell’Esodo in cui Dio dice: «Io sono Colui che è»), anzi l’essere è la stessa essenza di Dio. Infatti se
l’essere è la suprema perfezione l’essenza di Dio non può essere qualcosa di diverso. Dunque in Dio essenza
ed essere coincidono, il che vuol dire che Dio esiste necessariamente; invece in tutte le cose create l’essenza
non si identifica con l’essere, il che vuol dire che sono contingenti, cioè esistono ma potrebbero anche non
esistere, esistono non perché sono l’essere ma perché hanno l’essere, e hanno l’essere perché Dio le ha create
donando loro l’essere, facendole partecipare al proprio essere. (il concetto di partecipazione è di origine
platonica; tuttavia in Platone la partecipazione era partecipazione alle idee, che modellavano una materia
preesistente)
Se l’essere delle cose create è partecipazione all’essere di Dio il rapporto fra il mondo creato e il Creatore è un
rapporto di analogia: analogia vuol dire che tra Dio e le creature vi è sia somiglianza, sia dissomiglianza.
Somiglianza perché l’essere di Dio si comunica alle creature, quindi le leggi dell’essere valgono sia per Dio sia
per le creature; dissomiglianza perché comunque c’è una radicale differenza fra Dio, in quanto Egli è l’essere,
e le creature, in quanto esse hanno l’essere per partecipazione.
Da ciò si ricava che noi possiamo conoscere qualcosa di Dio perché possiamo attribuire a Dio le proprietà
positive dell’essere; però nello stesso tempo dobbiamo essere consapevoli che Dio possiede le proprietà
positive dell’essere in modo completamente diverso dalle creature (in modo eminente, cioè perfetto e infinito);
quindi la natura intima di Dio rimane per noi inconoscibile.
TRASCENDENTALI: con questo termine Tommaso indica le proprietà dell’essere, cioè le proprietà
che competono ad ogni ente, anche se in grado diverso. I principali trascendentali sono l’UNO, il
VERO e il BUONO (a questi si può aggiungere il BELLO): l’UNO indica l’unità che caratterizza
ogni ente (p.e. un organismo è formato da parti che però sono collegate tra di loro in modo da formare
un individuo); il VERO indica la conoscibilità e la razionalità dell’ente; il BUONO indica la positività
e l’amabilità dell’ente.
Anche Dio è uno, vero e buono, ma in modo infinito e perfetto, quindi in un modo che sfugge alla
capacità di comprensione della ragione umana.
Emerge da quanto detto finora che una certa conoscenza di Dio è possibile, ma questa conoscenza è
inevitabilmente limitata e imperfetta.
Come abbiamo già detto possiamo conoscere razionalmente l’esistenza di Dio:
Tommaso respinge la prova ontologica o a priori di Anselmo: egli è d’accordo con Anselmo che l’idea di Dio
implichi necessariamente l’esistenza, ma, diversamente da Anselmo e dalla tradizione agostiniana, non ritiene
che nella mente umana sia innata o impressa l’idea di Dio. Per Tommaso l’uomo con la ragione può giungere a
Dio solo a posteriori, partendo cioè dalle creature.
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Tommaso indica “cinque vie” (cinque argomentazioni) con cui si può affermare razionalmente l’esistenza di
Dio: tutte queste argomentazioni sono già state formulate dai filosofi greci, a conferma del loro carattere
razionale, non fideistico.
1) EX MOTU: La prima via parte dalla considerazione del movimento e del mutamento, inteso
aristotelicamente come passaggio dalla potenza all’atto. Secondo Aristotele e secondo Tommaso tutto ciò che
si muove e muta, è mosso da altro (il passaggio dalla potenza all’atto richiede l’intervento di un ente già in
atto); ma se ciò che muove è esso stesso mutevole rimanda ad un altro movente, e questo a un altro ancora.
Ma non si può procedere all’infinito perché in una serie di moventi di cui l’uno sia la causa dell’altro, il
risalire all’infinito significherebbe non trovar mai il perché del mutamento; il processo all’infinito sposta il
problema e non lo spiega, vale a dire non trova la ragione ultima del mutamento. Bisogna dunque affermare
l’esistenza di un primo movente (o motore) in se stesso immutabile. E questo è Dio. (Questa prova risale ad
Aristotele).
2) EX CAUSA: La seconda via si basa sulla concatenazione delle cause efficienti. Ogni ente è causato da
una causa efficiente, la quale rimanda a un’altra causa efficiente e così via. Ma poiché non è possibile risalire
all’infinito nell’ordine delle cause (per le ragioni già esposte), deve esistere una causa efficiente prima, non
causata da altro, che è Dio. (Questa prova è una variante della prima e risale sempre ad Aristotele).
3) EX POSSIBILI ET NECESSARIO: La terza via parte dall’analisi del possibile (o contingente) e del
necessario: tutti gli enti nel mondo nascono e muoiono, e quindi sono contingenti, cioè possono essere o non
essere. Ma se di fatto esistono, devono aver ricevuto l’essere da un ente di per sé necessario. (Questa prova si
basa sulla distinzione tra essenza ed esistenza ed era già stata formulata dal filosofo arabo Avicenna).
4) EX GRADU: la quarta via parte dai gradi di perfezione che troviamo nelle cose. Negli enti troviamo
diversi gradi di perfezione: vi sono diversi gradi di unità, di verità, di bene, di essere e di tutte le altre
perfezioni. Vi sarà dunque anche il grado massimo di tali perfezioni, l’essere sommamente perfetto, da cui
derivano tutti i gradi minori di perfezione, e questo è Dio. (Questa prova risale a Platone).
5) EX FINE: la quinta via parte dalla considerazione della finalità che si riscontra negli enti naturali privi
d’intelligenza. In altri termini si tratta di spiegare la regolarità, l’ordine, l’organizzazione finalistica di enti
privi d’intelligenza: occorre ammettere l’esistenza di un principio ordinatore intelligente, che è Dio (questa
prova risale a Socrate e Platone).
Le cinque vie portano ad affermare l’esistenza di un primo essere immutabile, causa prima, necessario,
sommamente perfetto, ordinatore intelligente. Esso non è ancora il Dio cristiano a cui si può arrivare solo con
la fede.
La ragione tuttavia può ancora dire qualcosa su Dio procedendo per via negativa e per via affermativa. Per via
negativa possiamo escludere da Dio (sommamente perfetto) tutte le imperfezioni delle creature. Per via
affermativa possiamo attribuire a Dio, in modo eminente, come abbiamo già detto, le perfezioni presenti nelle
creature: così possiamo attribuire a Dio, per esempio, l’intelligenza. Ma diciamo che Dio è intelligente per
analogia (l’intelligenza di Dio è simile a quella delle creature, perché l’intelligenza delle creature deriva da
Dio, ma l’intelligenza di Dio è soprattutto dissimile da quelle delle creature, perché è eminente, cioè infinita e
perfetta, e quindi in se stessa incomprensibile per l’uomo.
La teoria di Tommaso cerca quindi di dar ragione sia della conoscibilità di Dio, sia del carattere
approssimativo e imperfetto di tale conoscenza. Scrive in proposito Sofia Vanni Rovighi: “Si sa qualcosa di
Dio, altrimenti non se ne parlerebbe, neppure per negarlo: ma il nostro saper di lui è un non-sapere: Dio è
il Deus absconditus, e si capisce che ci sia chi accentua di più il carattere di sapere e chi accentua di più
quello di non-sapere, anche fra gli interpreti di Tommaso”.
LA CREAZIONE
Le cinque vie permettono di affermare l’esistenza di Dio come causa e intelligenza ordinatrice del mondo,
quindi come creatore.
Secondo Tommaso si può conoscere razionalmente anche che la creazione avviene per libera volontà di Dio e
non per necessità. Infatti se Dio creasse il mondo necessariamente ciò implicherebbe che anche l’esistenza del
mondo è necessaria: sarebbe quindi negata la contingenza della realtà terrena, che secondo Tommaso è invece
un dato di fatto (le creature sono contingenti perché, di fatto, possono essere o non essere, e infatti nascono e
muoiono).
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In secondo luogo un mondo che deriva necessariamente da Dio sarebbe anche un mondo che non è distinto da
Dio (non ci sarebbe più la grande differenza tra l’essere necessario del Creatore e l’essere contingente delle
creature); abolendo questa distinzione il mondo diventerebbe una parte o un aspetto di Dio (panteismo), ma
questo per Tommaso è irrazionale perché ci condurrebbe ad attribuire a Dio le imperfezioni delle creature.
Se Dio ha creato tutte le cose con un atto di libera volontà, tutte le cose sono in se stesse buone: Tommaso su
questo è perfettamente d’accordo con Agostino, però egli estende il principio della bontà delle creature fino ad
affermare che le cose create hanno una loro “natura”, cioè una capacità di agire propria, indipendente dalla
volontà divina, ma comunque orientata al bene. Questo significa per esempio che il comportamento degli
animali, istintivamente orientato alla conservazione della specie, è un comportamento “buono”, che stabilisce
un ordine nella natura e che è conforme alla volontà di Dio; tuttavia è un comportamento che non è
determinato direttamente da Dio, ma che deriva dalla “natura” propria di ogni animale.
In tal modo il mondo fisico corporeo, pur dipendendo originariamente da Dio, acquista una sua autonomia e
consistenza.
Anche per questo concetto di natura intesa come essenza e principio di azione Tommaso è debitore di
Aristotele; la novità di questa concezione della natura rispetto alla tradizione platonico-agostiniana emerge
anche da un confronto tra la gnoseologia di Agostino e quella di Tommaso.
LA TEORIA DELLA CONOSCENZA
Anche riguardo al problema della conoscenza Tommaso segue l’insegnamento di Aristotele. La prima
conoscenza è quella sensibile: la conoscenza delle cose materiali individuali precede e prepara la conoscenza
intellettiva, infatti attraverso i sensi noi percepiamo le cose e formiamo nella memoria delle immagini sensibili.
Successivamente l’intelletto ricava da queste immagini, con un processo di astrazione, i concetti universali, che
corrispondono perfettamente alle forme delle cose. Tommaso ritiene, seguendo Aristotele, che esista un
intelletto passivo che riceve i concetti universali, e un intelletto attivo che li produce per astrazione; ma, contro
le interpretazioni arabe di Aristotele, Tommaso afferma che sia l’intelletto passivo sia l’intelletto attivo sono
funzioni dell’unica anima razionale individuale.
Infatti Aristotele non aveva chiarito questo punto e il filosofo arabo Averroè lo aveva interpretato
separando l’intelletto dall’anima individuale: per Averroè esisterebbe un intelletto unico per tutti gli uomini.
Dunque per Tommaso l’anima ha in sé la facoltà e la capacità di ricavare dalla conoscenza sensibile i principi
universali, mentre invece per Agostino la conoscenza avveniva, per così dire, in direzione inversa (dai principi
universali alla conoscenza delle cose) ed esigeva l’illuminazione divina; quindi per Agostino la mente non
aveva una capacità di conoscenza propria, non poteva conoscere se non riceveva da Dio i principi universali e
necessari.
IL PROBLEMA DELL’ANIMA
Aristotele aveva affermato che l’anima razionale è la forma del corpo. Questa dottrina aveva il merito di
sottolineare l’unità dell’uomo, il rapporto evidente tra la vita spirituale e la vita corporea, ma sembrava
difficilmente conciliabile con la dottrina cristiana dell’anima immortale (infatti se l’anima è forma del corpo
sembra che debba dissolversi insieme al corpo quando questo muore); fra l’altro Averroè aveva interpretato
Aristotele proprio in questa direzione, cioè aveva negato l’immortalità della singola persona umana.
Pertanto questa dottrina aristotelica era stata respinta dai filosofi cristiani fedeli alla tradizione platonicoagostiniana (Agostino aveva sostenuto che l’anima è sostanza spirituale, di per sé sussistente, e quindi
immortale).
Tommaso ritiene invece di poter confermare la dottrina aristotelica e di poterla conciliare con la dottrina
cristiana dell’immortalità.
Tommaso parte dalla considerazione che la forma è il principio che caratterizza un ente, che caratterizza la
natura e l’agire di un ente. Ora la caratteristica propria, distintiva, dell’ente “uomo” è la razionalità (l’uomo è
un animale razionale), quindi la forma dell’uomo sarà la sua ragione, il suo intelletto (= l’anima razionale o
intellettiva).
D’altra parte il fatto che l’anima razionale o intellettiva sia l’unica forma del corpo è dimostrato
dall’autocoscienza dell’uomo: «é lo stesso identico uomo quello che ha coscienza sia di conoscere
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intellettivamente, sia di sentire; e il sentire implica il corpo». Vale a dire che l’io ha coscienza di essere
sempre lo stesso sia quando pensa o ragiona, sia quando percepisce qualcosa attraverso i sensi corporei.
L’uomo, nella visione tomista, risulta così profondamente unitario. Un’unica anima intellettiva penetra di sé
tutta la realtà umana, compreso il corpo e le funzioni corporee. L’uomo non ha quindi delle parti in cui è
puramente materia, o animale, poiché tutto in lui è permeato da un unico principio informatore, che è di natura
razionale. La sua dignità di uomo si esprime in tutti i livelli del suo essere, e caratterizza tutte le forme del suo
agire, anche quelle biologicamente in comune con piante e animali.
Riguardo al problema della spiritualità e immortalità dell’anima Tommaso lo risolve affermando che l’anima è
sì la forma del corpo ma non esaurisce le sue funzioni nell’informare il corpo, e quindi ha un suo essere
proprio, indipendente dal corpo. Ciò è dimostrato, secondo Tommaso, dal fatto che l’anima, quando conosce i
concetti universali e le realtà immateriali, opera indipendentemente dal corpo. L’anima pertanto è incorporea e
spirituale, per sé sussistente, e di conseguenza immortale.
LA MORALE e LA POLITICA
L’eterno pensiero di Dio, il pensiero secondo cui sono state create tutte le cose, è anche la “LEGGE
ETERNA” a cui devono obbedire tutte le creature, è il fondamento dell’ordine della natura e dell’oggettività
delle norme etiche.
Questa “legge eterna” non può essere conosciuta in se stessa, compiutamente e perfettamente, dall’intelletto
umano.
Come Dio può essere conosciuto solo imperfettamente, in quanto Egli partecipa il suo essere alla creazione,
così la “legge eterna” può essere conosciuta solo in modo limitato, in quanto è partecipata o “irradiata” alla
creatura razionale. Questa “partecipazione o irradiazione della legge eterna nella creatura razionale” vien detta
“LEGGE NATURALE”: la legge naturale è quindi la consapevolezza razionale di alcuni principi morali che
hanno origine nella Legge eterna (ma che non l’esauriscono): fa parte della legge naturale l’inclinazione di ogni
essere alla conservazione di se stesso, l’inclinazione di ogni essere vivente alla riproduzione, l’inclinazione
dell’essere umano, razionale, alla conoscenza della verità e alla vita in società ecc. in altri termini la legge
naturale consiste in quella consapevolezza del bene e del giusto che ogni uomo, essendo dotato di ragione,
possiede.
Una vita conforme alla legge naturale realizza la natura razionale dell’uomo, gli permette di conseguire una
felicità terrena; tuttavia la suprema realizzazione e la suprema felicità per l’uomo consiste nella visione di Dio,
di cui potremo godere pienamente solo nell’altra vita. Questo è il fine soprannaturale a cui Dio ha elevato
l’uomo per grazia; a cui Dio guida l’uomo con la “LEGGE DIVINA”, che è la legge soprannaturale rivelata
nel Vangelo (per esempio la legge naturale ci impone di “non fare agli altri ciò che non vorremmo fosse
fatto a noi”, il Vangelo invece ci chiede anche di “perdonare le offese”). Essa non toglie valore alla legge
naturale (anche se questa non è sufficiente al conseguimento del fine soprannaturale); anzi la completa e la
corregge, secondo il principio già menzionato “la grazia non abolisce la natura ma la perfeziona”.
La “legge naturale” è ciò che la ragione umana coglie della “legge eterna”: essa orienta interiormente la vita
etica; dalla “legge naturale” deriva la “LEGGE UMANA”, che è coercitiva e regola la vita associata.
Tutti gli uomini, in quanto possiedono la ragione, possono conoscere le legge naturale, tuttavia la legge umana
(in pratica la legge positiva, cioè le leggi degli Stati, per lo più fissate nei codici) si rende necessaria perché
“ci sono dei protervi e proni ai vizi che difficilmente si possono guidare con la persuasione; è quindi
necessario che siano costretti con la forza ed il timore ad evitare il male, affinché, astenendosi almeno per
questo motivo dal far male, lascino in pace gli altri...” La legge umana, pertanto, presuppone uomini
imperfetti ed è coercitiva perché ha la funzione di rendere possibile la pacifica convivenza degli uomini.
Di conseguenza la legge umana ha una portata più limitata della legge naturale, infatti le leggi umane regolano
soltanto quegli aspetti del comportamento che riguardano la vita associata e i rapporti fra gli uomini (“le
legge umana non reprime tutti i vizi, ma solo quelli che nuocciono agli altri e che minacciano la
conservazione della società umana... e non comanda tutti gli atti virtuosi, ma solo quelli che sono necessari
al bene comune”).
Le leggi umane possono avere applicazioni diverse, ma devono comunque essere coerenti con la legge naturale,
altrimenti non sono legittime. Per esempio la legge umana può prescrivere pene diverse (a seconda delle
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situazioni storiche e ambientali) per l’omicidio, ma in ogni caso deve essere coerente con la legge naturale che
proibisce l’omicidio.
Tommaso ammette la disobbedienza alle leggi illegittime, ingiuste (perché non conformi alla legge naturale),
come pure ammette la ribellione alla tirannia (il tiranno è l’autorità che non rispetta il diritto naturale) purché
dalla ribellione non scaturiscano per i sudditi mali peggiori della tirannide stessa (p.e. una rivoluzione che
comporti violenze e stragi o che sfoci nell’anarchia)
Questa idea di Tommaso ha avuto un influsso enorme in quanto ha gettato le basi del giusnaturalismo (la
dottrina che fa dipendere il diritto positivo dal diritto naturale) ed ha fornito la giustificazione teorica a tutti i
movimenti che si sono opposti a leggi e ordinamenti ingiusti in nome del diritto naturale.
Poiché la legge umana è stabilita per la conservazione della società umana, per il bene comune, allora ,
secondo San Tommaso, spetta alla collettività ordinare le leggi: “La legge ha come suo fine primo e
fondamentale il dirigere al bene comune. Ordinare qualcosa in vista del bene comune è proprio dell’intera
collettività (multitudo) o di chi fa le veci dell’intera collettività. Stabilire le leggi appartiene dunque
all’intera collettività o alla persona pubblica che ha cura dell’intera collettività, giacché in tutte le cose può
dirigere verso il fine solo colui al quale il fine stesso appartiene”. Tommaso ha così affermato esplicitamente
l’origine popolare delle leggi, anche se poi ha mitigato questo principio “democratico” ammettendo che le leggi
possano essere fatte anche da una persona “che ha cura dell’intera collettività”; inoltre Tommaso ritiene che
tra le forme di governo enunciate da Platone e Aristotele, la migliore sia la monarchia, che è quella che
garantisce meglio l’ordine e l’unità dello Stati, ed è più simile al governo divino del mondo.
Per quanto riguarda la vita in società, Tommaso ritiene, con Aristotele, che la società politica sgorghi dalla
stessa natura dell’uomo. Lo stato non sorge quindi per semplice convenzione, né è una conseguenza del
peccato originale, come riteneva la tradizione agostiniana, bensì è frutto di una naturale inclinazione
dell’uomo, e come tale corrisponde alla legge naturale. Nella riflessione sui rapporti tra Stato e cittadini,
Tommaso segue solo in parte Aristotele nel subordinare il bene individuale del singolo al bene comune dello
Stato. Se infatti è vero che per alcuni aspetti il singolo uomo è subordinato al bene della comunità, per altri
aspetti l’uomo deve realizzare dei valori personali che superano il bene della comunità e che in nessun modo
debbono essere a essa sacrificati. “l’uomo non è ordinato alla comunità politica per tutto se stesso e per
tutto ciò che ha... ma tutto ciò che l’uomo è e ha deve essere ordinato a Dio” , quindi il valore del singolo
uomo, della persona, per cui nessun uomo può essere ridotto a una parte e a uno strumento della società, è
fondato sul rapporto tra l’uomo stesso e Dio.
Una concezione, questa, che il personalismo cristiano contemporaneo ha ripreso per criticare tanto le forme
dell’individualismo quanto quelle del totalitarismo.
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