La gestione del cinghiale (Sus scrofa L.) in Italia, con cenni su

La gestione del cinghiale (Sus scrofa L.) in Italia,
con cenni su biologia e distribuzione
(Mammalia: Suiformes: Suidae)
Vatore Roberto, Pignataro Camillo, Vicidomini Salvatore
Fondazione Iridia, Museo Naturalistico, Via Forese, 84020 Corleto Monforte (SA)
e-mail: [email protected] - [email protected] - [email protected]
1. INTRODUZIONE
2. DISTRIBUZIONE, BIOLOGIA, ETOLOGIA
2.1 Diffusione in Italia del cinghiale
2.2 Caratteristiche morfologiche
2.3. Biologia ed etologia
2.4. Alimentazione
3. PARAMETRI DI POPOLAZIONE
3.1. Distribuzione
3.2. Consistenza
3.3. Densità
3.4. Struttura e dinamica di popolazione
3.5. Incremento utile annuo
3.6. Modello strutturale della popolazione di cinghiali
4. DANNI
4.1. Cause dei danni
4.2. Tipologie di danno
5. GESTIONE
5.1. Aspetti generali
5.2. Quadro normativo
5.3. Misure di gestione del cinghiale
5.4. Gestione del cinghiale in aree protette
5.5. Prevenzione dei danni da cinghiale
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6. DISCIPLINARE PER IL RISARCIMENTO DEI DANNI
6.1. Segnalazione danni
6.2. Accertamento danni
6.3. Modalità di liquidazione
7. CONCLUSIONI
8. BIBLIOGRAFIA
8.1. SITI CONSULTATI
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1. INTRODUZIONE
Motivazioni. - Questo lavoro viene estratto da una tesi di laurea conseguita da
uno degli autori (R.V.) durante l‟anno accademico 2006-2007 presso l‟Università
degli Studi Federico II, sede di Portici, in Scienze Forestali. Il taglio pertanto sarà
tecnico-scientifico e i dati forniti sono stati rilevati direttamente dalle fonti
bibliografiche consultate.
Generalità. - Le interazioni fra la fauna selvatica e le attività antropiche sono
continue e spesso conflittuali. L‟impatto degli agro-ecosistemi sulle popolazioni dei
selvatici così come i danni alle colture agro-forestali causati dagli stessi animali,
sono in costante aumento. Le esigenze della fauna selvatica da un lato, e degli
agricoltori dall‟altro dovrebbero trovare punti d‟incontro che tengano conto dei
rispettivi bisogni. In quest‟ottica, le azioni di prevenzione rappresentano sempre la
soluzione più indicata per salvaguardare il lavoro degli agricoltori. Nel caso di specie
particolarmente problematiche poi, di fianco ad interventi di prevenzione, devono
essere attuate politiche di gestione e di controllo delle popolazioni per ridurne
l‟impatto, utilizzando, in primo luogo, metodi eco-compatibili e, in alcuni casi,
intervenendo mediante piani mirati di abbattimento.
Scopo del lavoro è eseguire una disamina delle politiche di gestione e
controllo delle popolazioni di cinghiale (Sus scrofa L.: Suidae: Suiformes) mirate a
ridurre il forte impatto negativo che questa specie selvatica ha sulle attività agricole
ed in misura minore sul patrimonio forestale, con particolare riferimento alle diverse
strategie di prevenzione danni.
Cenni tassonomici. - Il cinghiale (Sus scrofa L.) appartiene al superordine
degli Ungulati che comprende un vasto ed eterogeneo gruppo di mammiferi
caratterizzati dalla presenza della parte terminale delle dita (falangette) ricoperte da
unghie particolarmente robuste, dette zoccoli. Il superordine è suddiviso negli ordini
Perissodattili e Artiodattili al quale ultimo appartiene il cinghiale, che ha come
caratteristica diagnostica la presenza di un numero pari di dita. Nel cinghiale il terzo
e il quarto dito sono rivestiti dallo zoccolo; il primo dito manca sempre, mentre il
secondo e il quinto possono essere sviluppati e, nel qual caso, prendono il nome di
“guardie”, o essere piccoli rudimenti laterali sollevati sul fianco del piede, nel qual
caso sono denominati “zoccoletti o speroni”; tali rudimenti non toccano terra quando
l‟animale cammina normalmente al passo, ma se ne possono osservare i segni in
terreni molto molli, per esempio nei terreni innevati.
2. DISTRIBUZIONE, BIOLOGIA, ETOLOGIA
2.1 Diffusione in Italia del cinghiale
In passato il cinghiale era presente in gran parte del territorio italiano. A
partire dalla fine del 1500 la sua consistenza si è progressivamente rarefatta a causa
della persecuzione diretta cui venne sottoposto da parte dell'uomo. Estinzioni locali
successive si registrarono in Trentino (XVII secolo), Friuli e Romagna (XIX secolo)
e Liguria (1814); il picco negativo venne raggiunto negli anni immediatamente
successivi alla seconda guerra mondiale quando le ultime popolazioni presenti sul
versante adriatico della penisola scomparvero. Tra gli anni '50 si è osservata un
deciso incremento delle popolazioni e demografico in generale con conseguente
ampliamento dell'areale. Tra i fattori responsabili dell'esplosione demografica del
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cinghiale (anche nel resto d'Europa) si devono citare: recupero da parte del bosco di
zone precedentemente utilizzate per l'agricoltura e la pastorizia; progressivo
spopolamento di vaste aree di media montagna, sia a livello alpino che, soprattutto,
appenninico; diminuzione della persecuzione diretta; massiccia introduzione di
soggetti catturati all'estero; incremento del numero di allevamenti italiani. Il
ripopolamento effettuato a scopo venatorio con animali di ceppo centro-europeo, e
spesso con soggetti derivanti da incroci con il suino domestico, ha contribuito a
creare un cinghiale “moderno” con una notevole variabilità fenotipica.
Attualmente, in Italia, il cinghiale è presente in 90 province su 103, con una
consistenza stimata intorno ai 300.000 – 500.000 capi; le poche aree in cui è assente
sono le regioni dell‟arco Alpino situate a quote oltre il limite della vegetazione
arborea e circoscritte zone del versante Adriatico (vedi cartina sottostante). Nuclei
più o meno isolati sono presenti in alcune zone della Penisola centrale, in Sicilia e
parte in Sardegna. In Italia, la specie Sus scrofa è presente come cinghiale
maremmano (Sus scrofa majori de Beaux et Festa, 1927), cinghiale centroeuropeo
(Sus scrofa scrofa L.) e cinghiale sardo (Sus scrofa meridionalis Forsyth Major,
1882). Il quadro relativo delle conoscenze circa le densità e l'evoluzione delle
diverse popolazioni italiane rimane tuttora alquanto carente. Da un recente studio
effettuato (Scandura et al., 2005) utilizzando un set di 10 loci microsatelliti e
l‟analisi del DNA mitocondriale è emerso che la popolazione goriziana è
geneticamente diversa da quella del centro-sud Italia e ascrivibile al morfotipo
balcanico; la popolazione sarda risulta complessivamente ben differenziata da quelle
peninsulari, mentre in Italia centrale, a fronte di una certa omogeneità riscontrata
nelle popolazioni selvatiche, i nuclei attualmente isolati, originati con capi
maremmani, sono risultati piuttosto divergenti tra loro, come probabile conseguenza
della deriva genetica (Scandura et al., 2005).
Si ritiene, comunque, che la diffusione delle popolazioni attuali presenti in
Italia abbia seguito diverse tappe a partire da una iniziale colonizzazione spontanea,
seguita poi da un massiccio ricorso a immissioni di soggetti esteri e di incroci con
forme domestiche, che hanno determinando la quasi scomparsa della sottospecie S. s.
majori. (Amici e Serrani, 2004).
L‟elevata plasticità ecologica permette al suide di frequentare tutte le
situazioni ambientali con disponibilità di copertura vegetale di tipo legnoso tra cui:
faggete (situate anche a quote superiori ai 1000 metri s.l.m.); boschi misti di faggio,
abete bianco, abete rosso, ecc.; boschi a predominanza di conifere (pinete, abetine,
lariceti); macchia mediterranea (Fig. 2.1.1. e 2.1.2.).
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Fig. 2.1.1. Macchia mediterranea (loc. Badia – Cava dei Tirreni SA).
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Fig. 2.1.2. Macchia mediterranea (loc. Badia – Cava dei Tirreni SA).
2.2 Caratteristiche morfologiche
Il cinghiale è caratterizzato morfologicamente da dimorfismo sessuale: i
maschi adulti raggiungono un peso vivo compreso tra gli 80 e i 200 kg e hanno
un‟altezza al garrese di 90 – 110 cm; le femmine, più piccole, raggiungono un peso
vivo variabile fra i 60 e i 150 kg e un‟altezza al garrese di 70-90 cm. (Massei e
Genov, 2000; Scandura et al., 2005).
Il muso è corto e tozzo con zanne visibili dall‟età di 3-4 anni in poi, mentre
per le femmine il muso è allungato a cono. La dentatura è costituita da 44 denti, la
cui formula dentaria è 3I-1C-4P-3M / 3I-1C-4P-3M (3 incisivi, 1 canino, 4
premolari e 3 molari per arcata: Boitani e Mattei, 1991).
L‟esame della struttura dentaria nel cinghiale, si è dimostrato un metodo di
facile applicazione e buona attendibilità per la determinazione dell‟età degli
individui. Tale metodo prevede la verifica dell‟eruzione e del pareggiamento dei
molari della mandibola. Al riguardo, bisogna considerare che mentre gli incisivi, i
canini e i premolari compaiono inizialmente come denti “da latte” e successivamente
vengono sostituiti da quelli definitivi (ad eccezione del primo premolare, che invece
erompe direttamente come dente definitivo), i molari compaiono direttamente come
denti definitivi. L‟eruzione dei molari ha luogo gradualmente a partire dal primo
molare all‟età di un anno; a 14-15 mesi spunta il secondo molare che pareggia con il
primo a due anni; infine, il terzo molare spunta a circa 26 mesi per poi pareggiare
con gli altri due all‟età di tre anni. Da questo momento in poi l‟età dell‟individuo
viene stimata in base al grado di usura dei molari; pertanto, all‟età di tre anni il
primo molare, già presente da due anni, presenterà un‟usura ben evidente e se, tale
grado di usura interesserà anche il secondo molare allora l‟animale avrà quattro anni;
allo stesso modo, se anche il terzo molare sarà usurato l‟animale avrà cinque anni.
Caratteristica distintiva, sempre nell‟ambito della struttura dentaria e rappresentante
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il trofeo del cinghiale, è la conformazione dei canini; quelli inferiori, che nei maschi
arrivano a una lunghezza di 12-14 cm, prendono il nome di “difese” e sono più
lunghi di quelli superiori che, invece, prendono il nome di “cote” (Boitani e Mattei,
1991).
Nel maschio il treno anteriore è maggiormente sviluppato del posteriore e
risulta ben evidente il pennello o ciocca. Nella femmina la massa corporea è
distribuita in modo omogeneo e, anche a distanza, sono visibili i capezzoli in numero
di 8-10 (Falaschini, 1996).
Per quanto riguarda il mantello, il cinghiale, come gli altri ungulati, presenta
un mantello primaverile, di colore grigio con setole corte e sottili e assenza di
sottopelo (borra), e un mantello autunnale di colore bruno-nerastro con setole lunghe
e spesse circondate da fitto sottopelo. Sono conosciuti rari casi di albinismo
(Falaschini, 1996).
Il colore del mantello, assieme ad alcune caratteristiche morfologiche,
rappresenta uno dei caratteri distintivi delle classi di età dei cinghiali: la classe degli
striati comprende gli individui fino a 4 mesi circa, i cui sessi sono indistinguibili,
presentano mantello striato e coda corta sopra il tallone (Fig. 2.2.3.); la classe dei
rossi comprende individui di 5-12 mesi, i cui sessi anche in questo caso sono
indistinguibili, mantello rossiccio e coda corta sopra il tallone (Fig. 2.2.4.); infine vi
è la classe dei neri, con differenze sessuali apprezzabili, che comprende sia i subadulti di 1 anno di età che gli adulti di età superiore ad un anno, che presentano il
mantello (invernale) di colore nero, la coda che supera il tallone, abbondantemente
negli esemplari di età avanzata (Fig. 2.2.5., Fig. 2.2.6.).
La muta primaverile ha luogo nei mesi di maggio-giugno, quella autunnale in
settembre-ottobre; la prima è più vistosa in quanto in autunno i peli estivi cadono più
uniformemente e non a ciocche. In riferimento ai tempi di muta, i primi a mutare
sono i giovani, seguono gli adulti e per ultimi gli anziani, insieme alle femmine
gravide e in lattazione. Le prime regioni corporee interessate dalla muta sono le
zampe e le parti inferiori, seguono i fianchi ed infine il corpo e il dorso (Massei e
Toso S, 1993).
Fig. 2.2.3. classe di età: striati.
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Fig. 2.2.4. classe di età: rossi.
Fig. 2.2.5. classe di età: neri (maschio).
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Fig. 2.2.6. classe di età: neri (femmina).
Tra le ghiandole cutanee le sudoripare sono diffuse in tutto il corpo con
funzione di riconoscimento individuale; quelle carpali hanno funzione di richiamo
sessuale e quella prepuziale, attiva in particolare nel periodo accoppiamenti svolge
anch‟essa la funzione di richiamo sessuale.
2.3. Biologia ed etologia
Gli individui raggiungono la maturità sessuale “fisiologica” all‟età di un anno
mentre quella “sociale” è raggiunta all‟età di cinque anni per i maschi e a due anni
per le femmine. La gestazione dura in media 112-130 giorni, al termine della quale si
ottengono, generalmente, 4-8 nati per parto. Lo svezzamento dei piccoli ha luogo a
3-4 mesi. La durata media di vita è di circa dieci anni (Massei e Toso, 1993).
Per quanto riguarda i ritmi circannuali, la sequenza delle diverse fasi ha inizio
con gli accoppiamenti e la conseguente dispersione dei sub-adulti. Di norma il
periodo degli accoppiamenti va da novembre a gennaio; in questo periodo i maschi
adulti, attratti dalle femmine in estro, si spostano nelle aree occupate dai branchi
femminili. L‟ingresso del maschio all‟interno del branco misto governato dalle
femmine è contrassegnato da fenomeni di aggressività degli individui adulti che
determinano un disagio nei giovani maschi dell‟anno (i rossi), che come
conseguenza si comportano da “satelliti” del branco, mantenendosi a distanza di
sicurezza dai maschi adulti, mentre i maschi sub-adulti che ancora vivevano nel
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branco femminile si disperdono in modo definitivo. Nei mesi di febbraio-marzo i
branchi si ricompongono, per cui si osservano gruppi di femmine e giovani e branchi
unisessuali o misti di sub-adulti. I maschi adulti, in virtù della mole e delle “armi”
che possiedono, tendono a vivere isolati (in questo caso vengono detti solenghi)
oppure riuniti a formare piccoli gruppi (in tal caso vengono detti verri). Talvolta è
osservabile al seguito del maschio adulto un giovane dello stesso sesso detto
scudiero. Nei branchi femminili, l‟organizzazione sociale è di tipo matriarcale:
l‟unità di base è rappresentata dalla femmina con i piccoli dell‟anno, cui si possono
aggiungere le femmine di cucciolate precedenti con la rispettiva prole. Tra le
femmine dello stesso branco esistono relazioni di parentela e tutte le femmine
collaborano alla difesa dei piccoli e dei giovani adottando strategie note come
“vigilanza cooperativa” e “difesa sociale” ed è inoltre frequente il fenomeno
dell‟adozione. I branchi sono ordinati gerarchicamente ed obbediscono ad una
femmina capobranco. In aprile-maggio si concentrano i parti e in conseguenza di ciò
si verifica un temporaneo scioglimento dei branchi femminili, nonché la dispersione
dei sub-adulti. In prossimità del parto, le femmine gravide si allontanano dal branco
per approntare il nido per il parto o lesta che consiste in un accumulo di materiale
vegetale (foglie, erba, zolle) a formare un ammasso alto circa un metro e largo due,
accumulato dalla femmina in una depressione scavata nel terreno col grifo (Massei e
Toso, 1993).
2.4. Alimentazione
Il cinghiale è una specie onnivora opportunista, in grado di colonizzare, ma
soprattutto utilizzare, ambienti anche molto diversi purché provvisti di acqua,
alimento e una buona copertura vegetale che gli garantisca rifugio e tranquillità,
ragion per cui è possibile trovarlo sia in pianure intensamente coltivate, sia in zone
montane situate al limite della vegetazione arborea. La composizione della dieta
varia in funzione della disponibilità di cibo dell‟ambiente. Gli alimenti di origine
animale, che rappresentano soltanto il 10%, comprendono invertebrati, micromammiferi, uova e carogne; gli alimenti di origine vegetale rappresentano, invece, il
90% e comprendono: ghiande, castagne, faggiole, cereali, erba medica, bulbi, frutti
selvatici, rizomi e radici che vengono estratte con il grifo, causando in questo modo
grandi danni alle colture e ai terreni mediante lo scavo di buche e devastando i campi
coltivati soprattutto di mais, grano e orzo (Fratoni e Piastrelli, 1984).
Per quanto riguarda l‟apparato digerente, il cinghiale è un monogastrico;
tramite un particolare processo fermentativo, che si svolge a livello intestinale, è in
grado di ottenere una buona resa energetica dalla componente vegetale della dieta.
D‟altro canto, l‟assenza della ruminazione permette una digestione solo grossolana
delle fibre e per questo motivo se ne rinvengono frammenti nelle feci (Falaschini,
1996). Per questa specie la disponibilità di acqua rappresenta un fattore di
fondamentale importanza, del quale non va sottovalutato l‟indubbio effetto benefico
dal punto di vista igienico-sanitario e non solo (Massei e Genov, 2000).
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3. PARAMETRI DI POPOLAZIONE
Qualunque intervento di politica gestionale della fauna selvatica, come il
controllo della popolazione, gli interventi di prevenzione dei danni, o una corretta
pianificazione del prelievo venatorio, devono partire dalla conoscenza di alcuni
semplici parametri demografici come distribuzione, consistenza, densità, struttura,
incremento utile annuo.
3.1. Distribuzione
Per distribuzione di una popolazione s‟intende la definizione delle aree dove
la specie considerata è presente. Le informazioni circa la distribuzione del cinghiale
si ottengono mediante osservazione diretta degli animali, oppure indirettamente
attraverso il rilievo dei segni di presenza. Informazioni attendibili si possono ottenere
anche da persone accreditate come agricoltori, cacciatori, personale del Corpo
Forestale dello Stato, ecc. In Italia, negli ultimi 30 anni, l‟areale di distribuzione del
cinghiale si è addirittura quintuplicato a seguito dello spopolamento delle aree rurali,
dell‟espansione delle aree boscose e della ridotta utilizzazione del territorio da parte
dell‟uomo. Basti pensare che con l‟abbandono di alcuni territori, le risorse alimentari
che prima erano fonte principale di sostentamento per le famiglie contadine, come i
frutti del bosco di latifoglie (e.g.: castagne), o per gli animali domestici (e.g.:
faggiole, ghiande), sono ora lasciati a disposizione della fauna selvatica. Questi fatti,
in alcune situazioni, hanno consentito lo sviluppo delle specie animali, come il
cinghiale, che erano in grado di usare tali alimenti. Anche la cospicua immissione di
capi centroeuropei (e.g.: Cecoslovacchia, Polonia, Ungheria) per ripopolamento di
aree a scopo venatorio, ha favorito la diffusione di questa specie. Il fatto che gli
animali provenienti dall‟estero si siano evoluti in contesti ambientali completamente
diversi da quelli della nostra penisola, viene evidenziato dalle diverse caratteristiche
morfologiche e fisiologiche di tali popolazioni rispetto quelle autoctone (Amici e
Serrani, 2004).
3.2. Consistenza
La consistenza, ovvero il numero di animali presenti per una specie, razza o
popolazione, è un parametro molto difficile da determinare per il cinghiale a causa
delle sue abitudini crepuscolari-notturne, della predilezione per ambienti boscosi, e
per l‟elevata mobilità sul territorio. Pertanto, nella determinazione della consistenza,
si parla di “consistenza minima accertata”. Attraverso il rilevamento dei segni
indiretti della presenza degli individui è possibile determinare la distribuzione e la
consistenza della popolazione su un territorio. Eloquenti segni di presenza del suide
sono i complessi di buche e solchi, fino a 40 cm di profondità e alcune decine di mq
di estensione, prodotti mediante il comportamento di grufolamento o rooting,
provocato dall‟utilizzo del grifo come vero e proprio “aratro” col quale scava alla
ricerca di tuberi, radici e piccoli invertebrati. Tale manifestazione può talvolta
interessare vaste superfici coltivate e/o boscose (Fig. 3.2.1. e 3.2.2.) (Amici e
Serrani, 2004). Altri segni di presenza sono le impronte, i trottoi, le deiezioni, gli
insogli e i grattatoi, che rappresentano ottimi indicatori anche se richiedono una
preparazione specifica da parte dell‟operatore che deve essere in grado di distinguere
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tali segni da quelli di altri ungulati, in modo particolare daino e capriolo, la cui
presenza talvolta può essere confusa con quella del cinghiale.
Le impronte di un maschio adulto di cinghiale misurano 8-12 cm di
lunghezza. Quando un individuo è in movimento, ovvero quando cammina
normalmente al passo, sul terreno è possibile visualizzare l‟impronta dello zoccolo,
mentre su terreni morbidi o innevati, dove la pressione esercitata dal peso del corpo
fa sì che le zampe possano scendere più in profondità, è possibile visualizzare anche
i piccoli rudimenti laterali, gli speroni, che sono situati a circa 2 cm dallo zoccolo
(Fig. 3.2.3.).
L‟abitudinarietà che contraddistingue la specie negli spostamenti produce i
trottoi, detti più semplicisticamente sentieri, che sono segni evidenti del passaggio
degli animali dovuti a intenso calpestio (Fig. 3.2.8.). Le deiezioni hanno forma
tondeggiante o allungata ed hanno un diametro di 3-5 cm. (Fig. 3.2.4.). La necessità
di fare bagni di fango, operazione legata soprattutto alla presenza di ectoparassiti
(zecche e pulci), e ad esigenze di termoregolazione, fa si che gli insogli vengano
regolarmente frequentati dai cinghiali. Gli insogli, di norma, vengono realizzati in
pozze con acqua ferma e fangosa (Fig. 3.2.5. e 3.2.6.). Il fango, una volta essiccato
ingloba gli ectoparassiti che vengono allontanati dalla cute mediante strofinio su
alberi o pietre; è nelle immediate vicinanze degli insogli che si rinvengono infatti i
cosiddetti grattatoi, riconoscibili in quanto sono formati da solchi (a seguito dello
sfregamento delle zanne) e da un‟area scortecciata (Fig. 3.2.7.). Infine è possibile
rilevare la presenza del cinghiale anche attraverso il ritrovamento di setole lasciate
sia su arbusti e cespugli che sul filo spinato utilizzato per il contenimento del
bestiame brado (Amici e Serrani, 2004). L‟individuazione di tutti questi segni di
presenza aiuta a conoscere la distribuzione e la consistenza delle popolazioni, infatti
in condizioni ottimali di rilevamento, è possibile stimare per una data area il numero
di cinghiali presenti in un determinato periodo di tempo. Se poi tale operazione viene
standardizzata, mantenendo costanti tutti i parametri di rilevamento (area d‟esame,
sforzo ricognitivo, periodo dell‟anno, ecc.) i dati pluristagionali ottenuti, forniscono
informazioni quantitative sulla popolazione (Amici e Serrani, 2004).
3.3. Densità
La densità è un parametro che prevede la conoscenza del numero di individui
in funzione di una superficie di riferimento che in genere è il Km2. Tale valore è
molto variabile nell‟arco di un anno e ciò dipende da diversi fattori quali natalità,
mortalità, emigrazione, immigrazione, caratteristiche territoriali, distribuzione
spazio-temporali delle risorse, ecc., ragion per cui va definita in funzione del
periodo.
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Fig. 3.2.1. Area con grufolate.
Fig. 3.2.2. Grufolate in primo piano.
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Fig. 3.2.3. Impronta.
Fig. 3.2.4. Deiezioni.
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Fig. 3.2.5. Insoglio.
Fig. 3.2.6. Insoglio.
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Fig. 3.2.7. Grattatoio.
Fig. 3.2.8. Trottoio (o sentiero).
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Fig. 3.6.1. Il cinghiale con un suo comune competitore, il daino
(allevamento “Ristorante vecchie fornaci” loc. Badia – Cava dei
Tirreni – SA).
Per gli ungulati, di solito, la densità è riferita ad un periodo specifico
dell‟anno, ovvero al termine dell‟inverno e al periodo precedente gli accoppiamenti.
Per il cinghiale, in particolare, tale parametro va riferito ad un arco di tempo più
ampio, praticamente tutto l‟anno, in quanto non esiste un preciso periodo
riproduttivo, anche se è possibile osservare una certa concentrazione dei parti in
primavera-estate, quando la maggiore disponibilità di alimenti ricchi di sostanze
nutritive facilita l‟allattamento e lo svezzamento dei piccoli. Per evitare eventuali
distorsioni nella stima della densità, dovuta principalmente all‟attività venatoria, la
valutazione deve essere effettuata al di fuori di tale stagione (Amici e Serrani, 2004).
3.4. Struttura e dinamica di popolazione
La struttura di una popolazione rappresenta la composizione, espressa in
percentuale, della popolazione per classi di età e sesso. Nelle popolazioni naturali il
rapporto femmine/maschi è di solito paritario, spesso con una leggera, quasi
impercettibile, prevalenza delle femmine; valori che si discostano da ciò sono indice
di squilibrio all‟interno della popolazione o di peculiari pressioni selettive. Per
quanto attiene la proporzione tra le classi di età, in genere quelle giovanili sono le
più rappresentate ma sono anche quelle che presentano mortalità più elevata. Tale
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rapporto fornisce importanti informazioni circa la dinamica di popolazione pur
essendo riferita ad un intervallo di tempo limitato; in linea generale si può ritenere
che popolazioni con elevate percentuali di giovani e di piccoli sono in crescita,
mentre popolazioni con basse percentuali di piccoli e giovani sono stabili o in
declino. Ogni popolazione, naturalmente, tende a mantenere in maniera dinamica
una struttura ottimale ed in equilibrio con le condizioni dell‟ambiente. Popolazioni
lontane dall‟equilibrio si dicono destrutturate (Amici e Serrani, 2004).
3.5. Incremento utile annuo
Le variazioni di una popolazione da un anno all‟altro, tenuto conto dei fattori
positivi e negativi (natalità, immigrazione; mortalità, emigrazione), viene detto
incremento utile annuo, lo si esprime con l‟acronimo I.U.A. e si ottiene dalla
differenza tra la popolazione stimata nell‟anno in corso e quella stimata l‟anno
precedente rapportandola alla popolazione dell‟anno precedente. L‟I.U.A., è un
parametro fondamentale nella stesura di un piano gestionale venatorio che tenda a
stabilire la percentuale di individui prelevabile senza intaccare la popolazione
originaria. Va altresì considerato che tale parametro può subire da un anno all‟altro
forti oscillazioni che dipendono principalmente dalle condizioni ambientali. Per
evitare di intaccare la popolazione originale, è necessario prevedere prelievi di
individui inferiori all‟I.U.A. (Amici e Serrani, 2004).
3.6. Modello strutturale della popolazione di cinghiali
Per quanto riguarda il cinghiale, il modello strutturale di una popolazione
naturale è caratterizzato da diversi fattori tra cui: a) un‟elevata incidenza di nuovi
nati, con una percentuale maggiore del 100 % (in pratica, la popolazione, da un anno
all‟altro, aumenta più del doppio); tale valore è fortemente condizionato dalla
disponibilità di frutti forestali che ne influenza la prolificità (molto spesso è stato
riscontrato che, in annate di abbondanza di ghiande e di faggiole, si possono avere
anche sino a due parti per femmina); b) una bassa incidenza di anziani, e quindi, una
popolazione prevalentemente giovane; c) presenza di adulti, sia dal punto di vista
fisiologico che sociale, pari ad ¼ del totale degli individui di una popolazione; d)
rapporto sessi vicino alla parità (1:1,3); e) rapporto giovani di un anno/femmine
adulte completamente a vantaggio dei giovani.
Spesso, a seguito delle attività gestionali eseguite in maniera non corretta,
talvolta legate ad un interesse venatorio che tenda a privilegiare l‟abbattimento di
individui di maggiori dimensioni, nonché ad una attività di controllo non selettiva, si
commettono azioni sinergiche di destrutturazione che alterano le proporzioni naturali
e tendono al “ringiovanimento” eccessivo della popolazione. Questa condizione,
unitamente al fenomeno di “inquinamento genetico” cui il cinghiale è
particolarmente soggetto, produce effetti deleteri, i più evidenti dei quali sono
elevata erraticità dei branchi e distribuzione delle nascite su periodi ben più ampi di
quelli naturali.
Per quanto riguarda la dinamica di popolazione, tra i fattori limitanti di
origine naturale sono da annoverare il clima, la predazione e le patologie. In linea
generale i casi di mortalità associati ad abbondanti nevicate o rigore climatico sono
scarsi, ma ciò non esclude che, in particolari contesti ambientali, si possano
presentare casi di mortalità dovuti a condizioni estreme di clima. Per quanto riguarda
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le specie predatrici, il lupo esercita la predazione sulle giovani classi; la lince, ove
presente, preda soltanto giovani e piccoli e la volpe è in grado di predare solo ed
esclusivamente i piccoli. La specie si dimostra piuttosto resistente nei confronti delle
malattie, mentre è facilmente soggetta ad alcune patologie quali tubercolosi, peste
suina, trichinosi.
Tra i fattori di origine antropica, in grado di influenzare la dinamica della
popolazione, va menzionato il randagismo canino, il bracconaggio, gli incidenti con
automezzi, il contatto con suini domestici. Si ritiene che il fenomeno del randagismo
canino sia ridotto a pochi casi all‟anno, in quanto i cani si dimostrano, nei confronti
del cinghiale, predatori meno efficienti del lupo. Il bracconaggio è, invece, un fattore
di mortalità non trascurabile; la casistica comprende l‟utilizzo dei lacci e lo sparo di
notte da automezzi. Un fattore di mortalità probabilmente trascurabile o comunque
ridotto a pochi casi segnalati ogni anno è rappresentato dagli incidenti con
automezzi. Per quanto concerne il contatto con i suini domestici, in aree in cui le
tecniche di allevamento rendono possibili contatti tra forma domestica e selvatica,
esistono rischi di incrocio e conseguente trasmissione di patologie.
Tra i fattori limitanti rientra a pieno titolo anche la competizione
interspecifica. L‟uso di risorse alimentari e dello spazio da parte di un individuo
limita la disponibilità delle stesse per un altro animale. Il cinghiale può competere
con diverse specie: si ritiene che possa esistere un certo grado di antagonismo, per lo
più in relazione al consumo di frutti forestali, con il cervo, il daino (Fig. 3.6.1.) e il
muflone; con il capriolo, invece, i casi di interferenza negativa sono molto ridotti;
con l‟orso si ipotizza una competizione di tipo alimentare tra le due specie, entrambe
onnivore e con spiccata tendenza alla ricerca del cibo mediante attività di scavo
(Amici e Serrani, 2004).
4. DANNI
4.1. Le cause dei danni
La presenza di coltivazioni agrarie situate in prossimità di ambienti boschivi
rappresenta una indubbia fonte di attrazione alimentare per gli animali selvatici. I
danni causati dal cinghiale in tutti paesi dove la specie è presente assumono una
notevole importanza quando i seguenti fattori sono rilevabili: densità degli animali
troppo elevata rispetto alle risorse naturali; habitat non idoneo a causa dell‟eccessivo
disturbo; maggior presenza di coltivo rispetto al bosco; squilibrio nella struttura della
popolazione.
Esiste un correlazione inversa tra le disponibilità alimentari e i danni alle
colture: in annate caratterizzate da forti produzioni di frutti forestali, principalmente
ghiande, il cinghiale si rivolge in misura ridotta alle coltivazioni limitrofe; nelle
annate, invece, caratterizzate da carenze di disponibilità alimentari di origine
forestale, l‟animale rivolge la sua ricerca all‟esterno. In quest‟ultimo caso,
ovviamente, va considerato che i danni dipendono anche dalla disposizione
territoriale dei campi e dei boschi, dallo sviluppo del perimetro forestale, dalla
vicinanza delle aree di rifugio, rispetto alle colture (Amici e Serrani, 2004).
E‟ stato evidenziato che una destrutturazione della popolazione per la
maggiore presenza di giovani può rivelarsi una causa determinante dei danni. Infatti,
i gruppi dominanti formati da due o tre scrofe anziane, malgrado il loro nomadismo,
presentano una certa stabilità frequentando di preferenza la foresta, mentre i gruppi
di giovani scrofe insieme a soggetti di età inferiore a due anni si spingono verso i
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margini della foresta e quindi in vicinanza delle colture. Uno dei fattori ritenuti
responsabili della destrutturazione sociale delle popolazioni di cinghiale è
rappresentato dalla mancanza di un prelievo di tipo selettivo. Infatti, se gli
abbattimenti non colpiscono a sufficienza la classe dei giovani si può avere un
eccessivo ringiovanimento della popolazione con conseguente aumento
dell‟erratismo dei giovani che si dimostrano meno diffidenti nei confronti dell‟uomo.
Da non sottovalutare anche l‟effetto provocato dal disturbo antropico. A
causa delle abitudini crepuscolari e notturne che caratterizzano tale specie, talvolta,
quando le notti sono corte, gli animali vanno alla ricerca dell‟alimento anche nelle
prime ore del mattino, pertanto se vengono disturbati si approvvigioneranno di fonti
alimentari a più rapido utilizzo e quindi delle essenze coltivate (Mussa e Debernardi,
1988).
4.2. Tipologie di danno
I danni provocati dal cinghiale possono essere raggruppati in due tipologie:
nei confronti delle specie forestali e delle colture agrarie. Nei primi è opportuno
ricordare che il danno esiste se vengono compromesse le funzioni del bosco, come
ad esempio la protezioni dalle valanghe. Per contro è inappropriato parlare di danno
vero e proprio quando l‟azione del suide non pregiudica il futuro della pianta
“colpita” e quindi in maniera più estesa l‟intero bosco. Il danneggiamento di una
pianta forestale si verifica quando vengono compromessi crescita e normale sviluppo
che, nei casi più gravi può condurre anche alla morte. Il danno maggiormente
rilevabile causato da questa specie è rappresentato dallo scortecciamento, ovvero la
rimozione dello strato più esterno del tronco di una pianta, che mettendo a nudo la
porzione xilematica, rende la pianta indifesa e di conseguenza più suscettibile di
attacchi da parte di marciumi e carie (Fig. 4.2.1.). Accanto allo scortecciamento,
vanno considerati altresì i danni da scalzamento radicale e da grufolamento. L‟azione
di grufolamento da parte degli animali, per la ricerca di semi, tuberi e piccoli animali
presenti sotto lo strato fogliare caduto a terra, provoca l‟alterazione degli strati
superficiali del sottobosco favorendo l‟azione erosiva delle acque meteoriche che
creano problemi maggiori nelle aree caratterizzate da una pendenza più spinta.
D‟altro canto, la minore quantità di terreno a disposizione delle piante si traduce in
una ridotta riserva idrica nei periodi di maggiore siccità. In un quadro più generale,
va considerato inoltre che l‟interazione delle diverse tipologie di danno sul
popolamento forestale, pregiudica la ri-crescita e nei casi più gravi, determina lacune
della copertura delle chiome. I danni rilevabili a livello arboreo ed arbustivo sono
conseguenza di un già avvenuto deterioramento delle principali caratteristiche del
suolo e della copertura erbacea ed arbustiva che su di esso insiste. Pertanto, la
manifestazione del danno sulle specie ad alto fusto deve essere considerato come un
“indicatore tardivo” di uno stato di sofferenza già in atto.
Molto più rilevanti sono invece i danni alle colture agrarie; quelle più colpite
sono i cereali, le colture sarchiate, le foraggere e le arboree da frutto. Per quanto
riguarda i cereali, il mais è la specie più appetita e quindi, è maggiormente presa di
mira soprattutto negli appezzamenti situati ai margini delle aree boschive. Gli
attacchi sono concentrati nel periodo che va dalla fase di semina a quella di
maturazione piena delle cariossidi. Nella fase di germinazione il cinghiale scava dei
lunghi solchi nel terreno seguendo le file di seminato e danneggiando superfici anche
molto estese. I danni alle colture di altri cereali, tra cui il frumento tenero e l‟avena,
hanno luogo nel periodo immediatamente successivo alla semina e sono dovuti
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principalmente all‟attività di grufolamento per la ricerca di tuberi, radici e micromammiferi. Con la stessa modalità vengono danneggiate le piante negli stadi
fenologici successivi. Particolarmente grave può essere il danno che si realizza
quando la coltura è nella fase di maturazione, infatti può esserci sia il prelievo diretto
delle cariossidi, che hanno ormai raggiunto la maturazione commerciale, sia
l‟abbattimento delle piante: anche se la parte consumata del raccolto supera di molto
quella abbattuta. Le patate sono molto apprezzate dal cinghiale, soprattutto se
accompagnate dalla presenza dei vermi dei quali è ghiotto. La modalità con la quale
si procura i tuberi è la stessa: con il grifo scava il solco dissotterrando i tuberi che, se
non vengono consumati, rimangono in superficie esposti alla luce ed inverdiscono
perdendo ogni valore commerciale.
Il comportamento innato del grufolare alla ricerca di radici, vermi, larve,
piccoli roditori, determina danni alle colture foraggere di sicuro non trascurabili. Su
un‟area di circa 4-5 metri quadri, un cinghiale è in grado di scavare dei solchi
profondi 8-10 cm causando il rovesciamento sia del suolo che delle piantine che
costituiscono la cotica erbosa facendole seccare e, inoltre, le zone rivoltate
diventeranno a loro volta luogo di colonizzazione da parte delle piante infestanti. I
danni ai prati permanenti (la cui flora ha una composizione molto variabile: loiessa,
loietto, erba mazzolina, festuca dei prati, trifoglio bianco, ginestrino, lupolina, ecc.) e
ai pascoli non trattati con insetticidi sono molto frequenti durante l‟inverno e la
primavera (Mussa e Debernardi, 1988).
I danni maggiori, ovviamente, si registrano a carico dei vigneti caratterizzati
da sistemi di allevamento non troppo alti da terra che nella moderna frutticoltura
vengono definite come forme appiattite verticali basse in quanto le impalcature delle
piante, mediante continue ed accurate potature, vengono tenute basse a scopo sia
funzionale che ornamentale (Lalatta, 1992). Il cinghiale mastica gli acini e succhia il
liquido senza staccare il raspo dalla pianta. Pur essendo il danno limitato a 2-3
settimane prima della raccolta, il danneggiamento può essere di proporzioni rilevanti
(Mussa e Debernardi, 1988). Nelle aree dove l‟agricoltura produce redditi molto
elevati come nel caso delle monocolture di mais, vigneti, frutticoltura, ecc., i danni
economici che si registrano sono sicuramente di notevole entità, ma paradossalmente
diventano ancora più rilevanti quelli che si riscontrano nelle aree considerate
marginali. In queste aree dove l‟agricoltura è di tipo estensiva, la produttività degli
agro-ecosistemi è molto ridotta a causa di fattori di natura fisici (altitudine,
pendenza, clima) e/o socio-economici (mancanza di infrastrutture, tradizione, ecc),
tuttavia svolge un ruolo strategico nella conservazione di un sistema agricolo ecocompatibile e nella tutela idrogeologica e paesaggistica (Amici e Serrani, 2004).
5. GESTIONE
5.1. Aspetti generali
Con il termine di gestione faunistica s‟intende la programmazione e la
pianificazione della presenza di una specie della fauna selvatica in un determinato
territorio mediante l‟adozione di criteri di tecnica faunistica e venatoria che
consentono in primo luogo di limitare il danneggiamento delle colture agricole pur
garantendo un soddisfacente prelievo venatorio. Molti problemi in gestione
faunistica hanno a che fare con decisioni riguardanti: la conservazione degli animali
a rischio di estinzione, il prelievo venatorio e il contenimento preventivo dei danni
all‟agricoltura e all‟ambiente. Un piano per la gestione faunistica provvederà “in
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primis” alla definizione di aree a diversa vocazionalità di un territorio (attraverso
rilevamenti, censimenti, informazioni e ricerche) e che rappresenteranno i distretti di
gestione dove è importante garantire che la densità della popolazione sia compatibile
con i diversi interessi economici. Il grado di idoneità sarà stabilito in base ai seguenti
parametri: estensione della superficie boschiva con analisi delle diverse tipologie
presenti, localizzazione delle colture agricole suscettibili al danneggiamento e
interazione con altre specie selvatiche. L‟adozione dei criteri di idoneità consentirà
in alcune aree il mantenimento di una densità piuttosto bassa, in altre di aumentare il
numero degli animali presenti e in altre ancora l‟eradicazione di alcune specie. Tali
piani dovrebbero interessare i terreni di proprietà pubblica, le aziende faunisticovenatorie, le oasi di protezione e rifugio della fauna, le zone di ripopolamento e
cattura della selvaggina. In definitiva, per una gestione corretta di una popolazione
selvatica è indispensabile seguire due fasi, una conoscitiva e l‟altra applicativa. La
prima prevede la conoscenza di parametri demografici quali: la consistenza, la
struttura, la dinamica, l‟ecologia, la densità; e di parametri riguardanti la
distribuzione come: la definizione dell‟areale della specie, l‟utilizzazione stagionale,
l‟individuazione delle potenziali aree di prelievo, l‟analisi storica. Nella prima fase il
censimento rappresenta uno strumento fondamentale per la conoscenza della densità,
dato principale su cui basare la gestione, in quanto permette confronti spaziali e
temporali, nonché di modulare tempi, modalità e quantità delle operazioni gestionali.
Con la seconda fase, quella applicativa, dopo un‟attenta analisi circa la vocazionalità
del territorio sulla base delle caratteristiche ambientali in relazione alle altre specie
presenti e in relazione alle caratteristiche socio-economiche, si procederà a
pianificare gli interventi di gestione (Toso e Pedrotti, 2001).
Il censimento è uno strumento di estrema importanza sia per scopo puramente
gestionale che scientifico. Come già menzionato più volte, la valutazione della
popolazione sia dal punto di vista numerico che della struttura costituisce il punto
cardine per ogni intervento di gestione del territorio. Le valutazioni quantitative della
specie in oggetto, acquisiscono un sempre maggior significato quando, ripetute nel
tempo, forniscono una serie di dati utili alla determinazione della tendenza della
popolazione. In base alla popolazione che viene monitorata, i censimenti si possono
classificare sostanzialmente in tre categorie: censimenti esaustivi, censimenti per
aree-campione, censimenti per indici di abbondanza. I censimenti esaustivi
consistono in un conteggio completo degli animali che insistono in una determinata
superficie in un dato momento; i censimenti per aree-campione, invece, riguardano il
conteggio completo degli animali presenti in una porzione (o area) di una data
superficie in un dato momento; per rilevare gli indici di presenza espressi come
valori relativi per unità lineari o di superficie sottoposta a conteggio si utilizzano per
l‟appunto i censimenti per indici. Di quest‟ultimo, il più utilizzato è l‟indice
chilometrico di abbondanza (IKA), che si determina mediante il rapporto tra il
numero di segni di presenza rilevati lungo un percorso e i km percorsi. Il vantaggio
di questo tipo di censimento è rappresentato dalla facile realizzazione in quanto basta
un solo operatore; d‟altro canto però non fornisce indicazioni sulla consistenza e
densità, ma da soltanto una stima approssimativa del trend della popolazione.
L‟applicazione dell‟una o dell‟altra metodologia è condizionata da diversi fattori
quali le caratteristiche ecologiche ed etologiche della specie, la densità della
popolazione, la distribuzione, nonché la grandezza e la morfologia dell‟area oggetto
dell‟indagine. Tutti questi elementi condizionano fortemente la possibilità di
individuazione del suide in natura, possibilità che diminuisce in ambienti boschivi
con fitta copertura vegetale, o in periodi dell‟anno in cui gli animali compiono pochi
spostamenti.
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5.2. Quadro normativo
Il quadro normativo nazionale in materia di conservazione delle popolazioni
di cinghiale allo stato selvatico trova il proprio riferimento nella legge 11 febbraio
1992, n. 157 “Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il
prelievo venatorio”, nelle leggi regionali di recepimento della normativa nazionale e
nei regolamenti locali di gestione.
Dal punto di vista giuridico, il cinghiale rientra tra la fauna selvatica oggetto
di tutela da parte della legge nazionale sopra citata. Ai fini venatori, l‟abbattimento è
consentito soltanto in un periodo particolare dell‟anno, precisamente nel periodo
compreso tra il 1° ottobre e il 31 dicembre oppure tra il 1° novembre e il 31 gennaio,
secondo quanto stabilito dall‟art. 18, comma 1, lettera d della suddetta legge. Inoltre
la specie può essere sottoposta anche a piani di controllo numerico, autorizzati dalle
regioni e dalle province, qualora si renda localmente responsabile di danni alle
coltivazioni agricole o determini problemi di carattere sanitario (art. 19, comma 2).
Tali piani di controllo, a prescindere dai tempi e dalle modalità di prelievo stabiliti,
debbono essere effettuati da personale appositamente autorizzato (Toso e Pedrotti,
2001).
5.3. Misure di gestione del cinghiale
Il cinghiale è tra le specie selvatiche, presenti nel nostro paese, una delle più
problematiche dal punto di vista gestionale. Molteplici difficoltà s‟incontrano
nell‟ottenere informazioni affidabili sulle consistenze delle popolazioni e sull‟entità
dei prelievi, a causa delle abitudini notturne e dell‟elevata erraticità, e ciò determina
non pochi problemi connessi alla pianificazione delle attività gestionali rendendo
difficoltosa, di conseguenza, l‟individuazione di una strategia complessiva per la
gestione della specie.
In Italia, la presenza del suide ha un forte impatto sulle attività agricole, basti
pensare che circa l‟80% dei rimborsi dei danni da fauna selvatica viene attribuito, per
i danni causati da questa specie, con percentuali a volta ancora maggiori in alcune
regioni.
Oltre all‟impatto sulle attività agricole, la presenza del cinghiale produce
effetti notevoli anche sulle zoocenosi, ovvero sulle comunità animali che convivono
nelle aree in cui è presente questa specie. L‟impatto può essere sia diretto,
manifestandosi mediante la predazione di uova, piccoli di uccelli che nidificano a
terra e giovani mammiferi, sia indiretto in quanto è oggetto di attività venatoria con
forme di caccia spesso di tipo contenitiva che genera disturbo sulle altre zoocenosi
durante le braccate (Toso, 2006).
Gli effetti negativi scaturiti dalla presenza del suide, su alcune attività di
interesse economico, contribuisce ad acuire i contrasti tra categorie sociali
(cacciatori, agricoltori, enti pubblici) che hanno interessi divergenti. Non è
assolutamente da sottovalutare tale problematica; il proliferare delle richieste di
risarcimento dei danni e di contenimento delle popolazioni e dei piani di gestione e
di controllo conferma la necessità e l‟urgenza di adottare strategie in grado di
appianare conflitti apparentemente insanabili e, nel contempo, di garantire
un‟adeguata conservazione della specie e la prosecuzione di un suo razionale utilizzo
a fini venatori (Toso e Pedrotti, 2001).
Una delle maggiori peculiarità di questa specie è la capacità di adattamento
ad ambienti anche molto diversi tra loro mantenendo popolazioni vitali nonostante le
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continue pressioni a seguito dell‟attività venatoria. Tuttavia, i problemi di gestione
rendono necessario il perseguimento di strategie di conservazione a medio e lungo
termine fondate sull‟individuazione di obiettivi prioritari e realizzate attraverso
azioni in grado di migliorare lo status della popolazione e di ridurre al minimo gli
impatti negativi della specie.
La presenza dell‟animale in una zona definita va accertata mediante
l‟individuazione di segni inequivocabili della sua presenza come: orme, feci,
grattatoi, grufolate, ecc.. Una volta accertata la presenza è necessario stabilire una
rete di monitoraggio continuo che assicuri il reperimento dei dati riguardanti la
distribuzione, la consistenza e le tendenze evolutive della specie su tutto il territorio
in maniera omogenea. Reperite tali informazioni, c‟è poi bisogno che il flusso di dati
dagli enti di gestione locale ai centri in grado di elaborarli, deve essere costante al
fine di mantenere sotto controllo l‟intera situazione e di avere un quadro completo
che consenta di porre in atto un piano gestionale efficiente (Toso e Pedrotti, 2001).
Al riguardo, solo una organizzazione territoriale con l‟impegno attivo di personale di
vigilanza, cacciatori motivati, tecnici faunisti e un controllo continuativo e capillare
del territorio, potrà condurre gradualmente all‟ottenimento di risultati positivi. In
termini operativi si può iniziare dall‟esame dei carnieri mediante analisi delle
struttura demografica degli abbattimenti, dei tassi di prelievo, e così via, unito a
monitoraggi più accurati su aree campione, evidenziandone la biometria e lo studio
del rendimento riproduttivo (Amici e Serrani, 2004).
Per la definizione di un valido protocollo di gestione del cinghiale è
necessario, attraverso il censimento, conoscere i parametri di popolazione. Le
principali tecniche usate allo scopo sono due: censimento in battuta e censimento da
punti di avvistamento fissi.
Il censimento in battuta è una tecnica che richiede l‟intervento di un numero
elevato di operatori, alcuni appostati su un lato dell‟area da censire e altri in punti
fissi di osservazione localizzati lungo tre lati del perimetro dell‟area battuta. I primi
sono definiti battitori in quanto devono muoversi in linea retta su un unico fronte
facendo rumore e indirizzando i cinghiali nel luogo dove sono appostati altri
operatori che provvedono ad osservare e contare gli individui. I rilievi riguardano il
numero degli animali, il loro sesso e l‟età. Tale metodo permette di ottenere una
densità media dei dati rilevati in più aree di battuta; ovviamente, per minimizzare gli
errori di campionamento è necessario che tali rilevamenti vengano effettuati in
particolari periodi dell‟anno (generalmente da fine aprile agli inizi di maggio)
quando ci si attende una distribuzione omogenea della specie. Non bisogna
anticipare troppo le date di censimento rispetto a questo intervallo di tempo in
quanto gli animali potrebbero non avere ancora definito il territorio e di conseguenza
non avere raggiunto la massima omogeneità di distribuzione. Non bisognerebbe
nemmeno però posticipare l‟epoca dei censimenti in quanto si cadrebbe nel periodo
post-parto con il rischio di causare disturbo e interferenza con la sopravvivenza degli
striati per effetto della dispersione a seguito dell‟allontanamento dal luogo del parto
e dalle rispettive madri. Il censimento in battuta funziona bene in aree pianeggianti o
in zone collinari dove la vegetazione non è troppo fitta; è importante che, al
momento della battuta, gli animali si trovino nelle zone di rimessa, generalmente
aree boscose, in modo tale che durante la fase di battuta possano essere condotti in
aree più aperte e consentire, quindi, una più agevole osservazione. A tal riguardo,
perchè un censimento possa essere considerato attendibile è necessario che la
superficie complessiva delle aree campione rappresenti non meno del 10% delle aree
boscose presenti nell‟area di studio; intorno a questo valore risulta importante tenere
conto che la percentuale di bosco censita dovrebbe aumentare nel caso di aree di
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studio di limitata estensione, e diminuire nel caso contrario. Non bisogna
sottovalutare la scelta delle aree di battuta; essa deve considerare le diverse tipologie
ambientali presenti in ciascuna area di indagine sperimentale perchè viene ad essere
fortemente condizionata la distribuzione degli animali. Per ottenere valori di densità
quanto più vicini alla realtà è importante che le aree campione contengano elementi
rappresentativi del territorio circostante e pertanto è necessario una preliminare ed
accurata analisi. Le abitudini crepuscolari e notturne del cinghiali, nonché la sua
tendenza ad essere frequentemente oggetto di attività venatoria, rende questa specie
censibile soprattutto nelle ore centrali della giornata.
Con il censimento da punti di avvistamento fissi si conta simultaneamente da
più punti di avvistamento il numero di capi presenti in un territorio. Le postazioni
sono dislocate sul territorio in punti considerati vantaggiosi e ognuna sarà dotata di
adeguate attrezzature ottiche (binocolo e cannocchiali) per poter osservare gli
animali anche a distanze superiori ad 1 Km. Devono essere oggetto di osservazione
le aree comprendenti prati, radure, campi coltivati, ecc, che per l‟assenza della
vegetazione arborea ed arbustiva, consentono un agevole avvistamento. La
registrazione dei dati riguardanti i singoli individui avviene su un‟apposita scheda
con allegata cartografia in scala 1:10000. Talvolta si può commettere l‟errore di
conteggiare due volte uno stesso individuo; per cui è di fondamentale importanza
provvedere a riportare sulla scheda sia le indicazioni comuni riguardanti l‟ora, la
specie, il numero degli individui, la classe di sesso e di età, sia la posizione
geografica dell‟avvistamento e l‟eventuale direzione degli spostamenti (Nord, Sud,
Est, Ovest). Questo tipo di censimento per gli ungulati in generale va fatto in
corrispondenza del periodo primaverile quando c‟è la ripresa vegetativa e, quindi, al
primo verde. Relativamente al cinghiale, il periodo della giornata in cui si effettua
questo tipo di censimento, come quello precedentemente descritto, è il tardo
pomeriggio (al tramonto). Talvolta, per consentire una più facile individuazione
degli animali, si provvede all‟utilizzo del foraggiamento a scopo più che altro
attrattivo. Per mettere in pratica questa tecnica è necessario, in primis, allestire per
ciascuna sub-area, dei punti di osservazione, chiamate altane, sollevate almeno 3-4 m
da terra. Il foraggiamento, a base prevalentemente di mais, deve essere predisposto
almeno tre settimane prima dell‟inizio del censimento, distribuendolo in strisce che
partono dal bosco e che convergono verso l‟altana. Successivamente, con il passare
dei giorni, si ridurrà la lunghezza delle strisce fino ad arrivare a contrarle tutte
attorno all‟altana, in questo modo l‟osservatore sarà in grado di contare più
facilmente il numero di animali presenti; tale conteggio va ripetuto per almeno due o
tre volte. Una volta registrati e successivamente elaborati, i dati che si ottengono
corrisponderanno al numero minimo di animali presenti sul territorio, forniranno
indicazioni sulla struttura della popolazione e consentiranno di fare previsioni sugli
incrementi utili annui, quindi, di programmare correttamente il prelievo venatorio se
ritenuto necessario. Inoltre, dalle analisi dei dati raccolti è possibile elaborare delle
carte delle densità obiettivo con lo scopo di contenere le popolazioni di cinghiale
mantenendo la densità medio-bassa in montagna, ridurre drasticamente la densità
nelle aree alto-collinari per la presenza di boschi e coltivazioni e rimuovere la specie
nella fascia basso-collinare (Amici e Serrani, 2004).
Nell‟ambito degli strumenti di programmazione è necessario definire le
vocazionalità dei differenti territori in funzione dell‟idoneità ecologica e socioeconomica della specie. L‟impatto del cinghiale sulle attività agricole e, a livello più
localizzato, sulle fitocenosi forestali e sulle zoocenosi, fa si che i soli criteri ecologici
non risultano sufficienti nella definizione delle strategie di gestione della specie. Si
dovrebbe, pertanto, considerare attentamente anche gli aspetti socio-economici nella
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creazione di una zonizzazione del territorio a livello regionale e provinciale. Al
riguardo, le potenzialità socio-ecologiche del territorio per il cinghiale dovrebbero
prevedere una zonizzazione che individui i settori nei quali la presenza del suide
debba essere esclusa, in quanto non tollerata, e settori dove risulta possibile ed
auspicabile la sua gestione. All‟interno di quest‟ultime, andranno ad essere
individuate differenti livelli di idoneità, sempre in funzione delle caratteristiche
ambientali e dei possibili impatti, che serviranno, per l‟appunto, a definire obiettivi e
strategie di gestione più appropriate. Il grado di idoneità di un territorio alla presenza
del cinghiale dipende dai seguenti fattori (Toso e Pedrotti, 2001): a) l‟estensione
della superficie boscata disponibile; minore è l‟estensione, minore è la presenza di
zone di rifugio e di risorse alimentari naturali; b) il ritmo di fruttificazione delle
diverse essenze arboree presenti su quella superficie, nonché la quantità e la qualità;
c) la maggiore sensibilità dei popolamenti forestali ai danni causati dal cinghiale; d)
la localizzazione delle coltivazioni agricole, la loro importanza e, ovviamente, la loro
suscettibilità al danneggiamento; e) l‟importanza e l‟efficacia dei sistemi di
prevenzione messi in atto; f) le interazioni con le altre specie che presentano
maggiori problemi di conservazione; g) il grado di disturbo arrecato alle altre specie,
soprattutto ungulati selvatici, a seguito dell‟applicazione delle tecniche di gestione
previste per il cinghiale.
In definitiva, gestire una popolazione di cinghiale significa adattare la sua
consistenza e la sua struttura alle capacità dell‟ambiente e nel contempo minimizzare
i danni economici da esso causati (Toso e Pedrotti, 2001).
5.4. Gestione del cinghiale nelle aree protette
Per migliorare la gestione del cinghiale nel nostro paese, uno degli elementi
chiave è l‟integrazione tra gestione nelle aree protette e gestione in quelle aree in cui,
invece, è consentita la caccia. È necessario adottare una strategia che coinvolga
diversi soggetti: aree protette, ambiti territoriali di caccia, aziende faunistichevenatorie e aree contigue.
Il concetto delle aree contigue potrebbe avere un‟importanza notevole nel
migliorare la gestione di questa specie. La Legge 394/91 all‟art. 32 definisce le aree
contigue come una sorta di fascia cuscinetto interposta tra l‟area protetta vera e
propria ed il territorio dove, invece, si pratica l‟attività venatoria (Fig. 5.4.1.). Nel
nostro paese, purtroppo, le aree contigue non sono state mai utilizzate a pieno
nell‟ambito gestionale; la Legge stabilisce che la caccia nelle aree contigue è
consentita esclusivamente ai cacciatori residenti nei Comuni del Parco. Questo è
stato un freno notevole alla costituzione e alla gestione delle aree contigue che
potrebbe essere risolta considerando non tanto la residenza anagrafica, quanto la
residenza venatoria, tale per cui i cacciatori, anche se arrivano da Comuni esterni al
Parco, possono cacciare secondo un regolamento finalizzato alle precipue funzioni
dell‟area contigua stessa (Toso, 2006).
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Area contigua all‟area protetta (giallo)
Area protetta (verde)
Ambito Territoriale di Caccia (ATC) (rosso)
Fig. 5.4.1. Gestione nelle aree contigue alle aree protette.
Un aspetto da tenere presente nella gestione del cinghiale nelle aree protette è
il così detto “effetto spugna” per cui le aree protette (istituite ai sensi della Legge
157/92), ovvero oasi di protezione e zone di ripopolamento e cattura (ZRC),
attraggono i cinghiali durante la stagione di caccia, mentre si spopolano a caccia
chiusa quando si assiste ad uno spostamento dei cinghiali da questi rifugi temporanei
verso il territorio ove non è più presente, almeno momentaneamente, la caccia e
quindi, la pressione di essa sulle popolazioni. Per ovviare a tali problematiche, una
soluzione potrebbe essere affrontata a livello normativo con una cogestione tra ATC
e Ente Parco con interventi gestionali mirati che potrebbero avere ricadute positive
per entrambi enti gestori. Per l‟ente parco, per esempio, si verrebbero ad evitare gli
sconfinamenti dei cacciatori entro i confini dell‟area protetta dove vige il divieto di
caccia; per i cacciatori, invece, potrebbe essere pianificato un prelievo programmato
di alcune specie selvatiche, incrementate da azioni specifiche di ripopolamento
(Morimando e Tassoni, 2004). Il cinghiale come già evidenziato è una specie molto
adattabile nei più disparati contesti ambientali; pertanto, è necessario adottare, ma
soprattutto adattare, un piano di gestione alle continue evoluzioni delle popolazioni e
degli impatti socio-economici, nel senso che l‟obiettivo principale che bisogna
raggiungere non è tanto la riduzione delle popolazioni, quanto la riduzione dei
problemi da esse causati (Toso, 2006). La cattura dei cinghiali con chiusini e
trappole è sicuramente una delle tecniche di prelievo più efficaci nella maggior parte
dei contesti ambientali, anche perchè presenta un ottimo rapporto costi-benefici che
ne rende conveniente l‟utilizzo (Toso, 2006). Le altre tecniche possono svolgere un
ruolo più o meno importante di affiancamento delle catture in funzione di alcuni
fattori ambientali, temporanei e di dimensione umana. Alcuni parchi hanno preferito
affiancare alle normali tecniche di cattura, l‟abbattimento degli individui mediante
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attività venatoria da parte di cacciatori locali abilitati e coordinati dallo stesso Parco
con lo scopo di contenere e allo stesso tempo di compensare eventuali squilibri nelle
popolazioni di cinghiali all‟interno dei Parchi. Le tecniche di prelievo come catture e
abbattimenti, e di conseguenza l‟intera gestione delle popolazioni di cinghiali nelle
aree protette, possono e debbono essere migliorati attraverso regolamenti, protocolli
omogenei per la raccolta dei dati, filiere di utilizzo degli animali prelevati, corsi per
operatori, ecc. (Toso, 2006).
5.5. Prevenzione dei danni da cinghiale
Per quanto riguarda i danni all‟agricoltura causati dal cinghiale, il principio
per cui la prevenzione è sempre da preferire alla cura, può essere applicato anche alla
gestione faunistica. Il sistema di prevenzione consente di raggiungere due importanti
finalità: uno di carattere economico quale la riduzione dell‟onere derivante
dall‟indennizzo all‟agricoltore da parte dell‟Ente pubblico, l‟altro di carattere sociale
come il superamento del senso di frustrazione che i danni, anche se rimborsati,
provocano nell‟agricoltore, determinando una profonda avversione nei confronti dei
selvatici (Mussa e Debernardi, 1988). Per prevenire l‟impatto del cinghiale sulle
coltivazioni agricole vengono adottate diverse strategie. Il metodo chimico prevede
l‟utilizzo di sostanze chimiche repellenti che agendo sul sistema gustativo e olfattivo
diminuiscono l‟appetibilità delle specie coltivate. L‟efficacia di azione di queste
sostanze ha una durata non superiore ai 3-4 giorni, trascorsi i quali l‟effetto repulsivo
diminuisce sensibilmente, sia per l‟insorgere di una certa assuefazione da parte degli
animali, sia per il dilavamento del prodotto operato dagli agenti atmosferici. Le
sostanze vengono applicate estensivamente sulle colture annuali e individualmente
nel caso delle piante da frutto o dei vigneti. L‟azione repulsiva è esercitata attraverso
l‟odore che emanano alcune sostanze di degradazione delle proteine come acidi
grassi volatili e composti solforati, oppure attraverso il gusto conferito da tali
sostanze o mediante azione irritante da parte di alcune sostanze che vengono
utilizzate anche come antiparassitari. Il metodo acustico prevede l‟utilizzo di
strumentazioni che emettono segnali sonori con lo scopo di spaventare i cinghiali
allontanandoli dall‟area suscettibile di essere danneggiata. Gli strumenti adoperati a
tal scopo sono cannoncini ad aria compressa oppure apparecchi che emettono versi
di allarme amplificati. Bisogna considerare che non è facile individuare tecniche che
associno ad un buon rapporto costi/benefici una continuità di efficacia nel tempo. Di
norma le tecniche comunemente impiegate manifestano un declino di efficacia che è
proporzionale al tempo di utilizzo; questo accade perchè s‟innesca, più o meno
rapidamente, un fenomeno di assuefazione, per cui è importante concentrare queste
azioni nel periodo in cui il danno manifesta il suo apice. Le recenti esperienze
maturate in alcuni contesti territoriali mostrano che, a fronte della variegata
disponibilità di scelte tecniche, l‟impiego di sistemi che prevedono l‟occlusione
meccanica o elettrica di porzioni di territorio, in particolare presso le coltivazioni
agrarie, in modo da impedire l‟accesso al suide, rappresenta una soluzione che si è
rivelata molto efficace nel tempo. Prima dell‟istallazione della recinzione, sia essa
meccanica o elettrica, è necessario circoscrivere l‟area o l‟appezzamento da
“salvaguardare” poiché, per motivi ecologici, ma soprattutto economici, non risulta
possibile estendere le recinzioni a territori molto vasti. I costi di acquisto e di
istallazione di queste strutture sono piuttosto elevati, e forse giustificati, soltanto
nell‟ambito di coltivazioni ad alto reddito come ad esempio nel caso dei vigneti
D.O.C.; tuttavia, va considerato che poiché la loro durata nel tempo è considerevole,
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i costi possono essere ammortizzati nel medio-lungo periodo. La recinzione
meccanica permanente consiste in una recinzione fatta da reti metalliche interrate, in
grado di impedire l‟accesso alle colture (Fig. 5.5.1. e Fig. 5.5.2.). Dal punto di vista
operativo, l‟installazione comprende una prima fase in cui, una volta determinato il
perimetro dell‟area, si provvede a fissare dei pali (220 x 12-15 cm), generalmente in
castagno o rovere, a circa 100 cm sotto il suolo e 400 cm di distanza del successivo
palo, opportunamente trattati con prodotti preservanti. Successivamente, ai pali
vengono agganciate delle reti in acciaio (maglie: 20 cm; interramento: 30 cm circa).
In aree collinari e montane caratterizzate da elevate pendenze, l‟altezza della rete va
incrementata proporzionalmente: per pendenze di 45° la rete deve avere altezza
doppia. L‟utilizzo di recinzioni elettrificate sembra essere il sistema più efficace
unito al soddisfacente rapporto costi/benefici che lo caratterizza. È possibile
utilizzare due diverse soluzioni tecniche; una che prevede l‟installazione di 2-4 fili
elettrificati, fissati ad una serie di paletti di sostegno di diverso materiale (legno,
fibra di vetro, plastica) mediante appositi isolatori (Fig. 5.5.3. e 5.5.4.), l‟altra che
prevede, invece, l‟impiego di vere e proprie recinzioni con rete composta da riquadri
di maglia di 7 x 10 cm percorse centralmente da alcuni fili elettrificati.
Fig. 5.5.1. Rete metallica a protezione di un campo di patate.
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Fig. 5.5.2. Rete metallica a protezione di un campo di ortaggi.
Quest‟ultima soluzione sembra garantire una maggiore capacità di
contenimento dovuta, in parte, alle caratteristiche costruttive e, in parte, alle
maggiori probabilità di contatto tra i cinghiali ed i fili elettrificati. In ogni caso,
qualunque sia il tipo di recinzione adoperata è fondamentale assicurare un‟adeguata
alimentazione elettrica mediante connessione ad un elettrificatore a batteria a 12 V o
mediante pannelli solari che consentono di avere un‟autonomia di 4 settimane.
Un‟altra soluzione potrebbe consistere nel connettersi direttamente alla linea elettrica
a 220 V. I sistemi migliori sono quelli che emettono impulsi brevi e ad alto
voltaggio; in questo modo, nel caso di corto circuiti a seguito del contatto con erbe o
rami, il sistema rimane efficiente senza l‟interruzione del flusso di corrente. Gli
alimentatori attualmente in commercio riescono a coprire distanze anche molto
elevate dell‟ordine di 10-12 Km.
Le colture agrarie dove l‟elettrificazione trova largo impiego sono il mais, il
sorgo, le patate e il girasole, mentre in subordine vengono le colture foraggere, i
vigneti, i pascoli e i castagneti. L‟efficacia delle recinzioni elettrificate è garantita da
continui ed attenti controlli sul corretto funzionamento dell‟intero sistema; a tal
proposito si usano tester appositamente studiati per sondare l‟impulso direttamente
sul sistema elettrificato (Toso e Pedrotti, 2001).
Accanto ai metodi finora descritti (chimico, acustico e meccanico), ve ne
sono altri che, invece, svolgono un ruolo prettamente dissuasivo nei confronti delle
colture agrarie maggiormente suscettibili di danni; tra questi abbiamo: le colture a
perdere e il foraggiamento dissuasivo.
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Fig. 5.5.3. Rete elettrificata a protezione di campi di patate.
Fig. 5.5.4. Rete elettrificata a protezione di un vigneto.
La predisposizione di colture a perdere rappresenta una valida soluzione lì
dove la densità degli animali è bassa. Si tratta di interventi che mirano ad offrire un
supporto alimentare agli animali, fornendo un alimento ricco e vario soprattutto nelle
fasi più delicate del ciclo annuale. La disposizione di tali colture ai margini delle
aree boscose può, inoltre, risultare utile per ridurre le incursioni dei cinghiali nelle
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coltivazioni da reddito presenti sullo stesso territorio. Con il foraggiamento
dissuasivo si provvede a somministrare direttamente l‟alimento nelle aree boscose
durante i periodi critici dell‟anno, che generalmente corrispondono all‟epoca di
semina degli erbai e dei cereali autunno-vernini, all‟epoca di maturazione delle uve e
della raccolta del mais (settembre-novembre). L‟efficacia di tale sistema consiste
nella riduzione delle abitudini erratiche della specie e si dimostra un‟ottima
soluzione quando la densità degli animali è bassa. Quando invece la densità è medioalta, la quantità di alimento da somministrare è tale da risultare economicamente
insostenibile. L‟alimento maggiormente utilizzato a tal proposito è il mais; la
modalità di somministrazione deve cercare di limitare al massimo i fenomeni di
competizione tra gli individui residenti in una determinata area. Infatti la forte
gerarchizzazione tra i branchi di una stessa zona e all‟interno dello stesso branco fa
si che se la distribuzione non avvenga su ampie strisce di terreno e, con quantità
ridotte, si rischia che una parte degli animali non riesca ad utilizzare il foraggio
artificiale, a discapito dei campi coltivati. Pertanto si può intervenire mediante
foraggiamento, con 40-50 Kg di mais/Km/striscia, con strisce larghe 20 m e lunghe
300 m almeno. È necessario inoltre prevedere diversi punti di foraggiamento in una
stessa area (sufficiente 1 striscia/500-1000 ha) per consentire a tutti i branchi
residenti di usufruire della granella di mais. Per la distribuzione possono essere
utilizzate le seminatrici centrifughe regolate a 50 Kg di granella/Km. Il rifornimento
può essere effettuato ad intervalli di 1-3 giorni a seconda dell‟entità delle
popolazioni presenti sul territorio (Amici e Serrani, 2004).
In alcuni contesti territoriali, dove si accerta che la consistenza numerica
della popolazione dei cinghiali abbia oltrepassato la densità agro-forestale o
addirittura la densità biologica, vengono messi in atto dei meccanismi indiretti di
prevenzione danni che si realizzano mediante opportuni piani di controllo delle
stesse popolazioni. In questo modo, lì dove la predazione naturale non sortisce alcun
effetto sulla riduzione del numero di individui, l‟intervento antropico andrebbe a
contenere l‟incremento numerico entro valori di densità compatibili con le fitocenosi
naturali.
Il cinghiale, per la sua grande vitalità e per l‟elevato tasso di riproduzione, si
moltiplica con grande rapidità. Di seguito sono riportate tre diverse ipotesi di
evoluzione di una popolazione, basate su diversi tassi di natalità, stimando una
perdita annua del 20% (Mussa e Debernardi, 1988).
TASSO DI NATALITÁ
80%
140%
200%
I Annata
144
192
240
II Annata
207
393
580
III Annata
299
845
1392
Tab. 1. Ipotesi di evoluzione di una popolazione di cinghiali in 3 anni consecutivi.
base iniziale = 100; perdita annua = 20%.
Per redigere correttamente un piano di controllo riducendo la consistenza
delle popolazioni si può intervenire mediante catture o abbattimenti. La prima viene
largamente utilizzata anche nell‟ambito della gestione nelle aree protette ed è una
tecnica a basso impatto ambientale che si realizza mediante l‟installazione di chiusini
e di trappole. I chiusini possono essere distinti in due modelli: smontabile o mobile;
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fisso. Il chiusino mobile è costituito da pannelli modulari di forma rettangolare, di
dimensioni di 1,5 x 1,0 m, composti da un‟intelaiatura in ferro alla quale è fissata
una rete elettrosaldata a maglia quadrata di circa 5 cm di lato. Un numero variabile
da 15 a 25 di questi pannelli viene assemblato con legature in filo di ferro ed
ancorato al terreno e agli alberi per la costruzione dell‟intero recinto, la cui superficie
in genere può variare da 15 a 40 mq. Il chiusino fisso ha dimensioni maggiori, è
costituito da pali di legno infissi nel terreno e da rete metallica da recinzione fissata
sui pali ed interrata per almeno 50 cm in profondità. In entrambi i casi i recinti sono
muniti di una o due porte a ghigliottina collegate mediante un filo, al meccanismo di
scatto sul quale l‟animale durante l‟alimentazione salirà facendo sganciare i fili
collegati alle porte che cadranno automaticamente. Per rendere più efficace l‟utilizzo
dei chiusini, e quindi aumentare la probabilità di effettuare catture di più animali
contemporaneamente, è necessario posizionare il meccanismo di scatto nel punto più
distante dagli ingressi, in modo da consentire prima della chiusura della porta
l‟ingresso di più individui. A tal proposito, come esca per attirare gli animali di
sovente si utilizza il mais, sia sottoforma di granaglie che di pannocchie intere, ma si
possono utilizzare anche altri alimenti come castagne, mele, pane secco, ecc. È molto
importante, però, che l‟esca venga distribuita oltre che all‟interno del chiusino anche
nelle immediate vicinanze; utile accorgimento per indurre gli animali, nelle fasi
iniziali, a frequentare i siti di cattura è la posa di lunghe strisce di alimento che,
partendo dal bosco, convergano verso il chiusino non ancora attivato. In alternativa,
o in aggiunta ai chiusini, possono essere utilizzate delle trappole, il cui utilizzo è reso
agevole per la facilità di montaggio e di trasporto, nonché le più ridotte dimensioni
rispetto ai chiusini. Si tratta di strutture completamente chiuse con una superficie di
base di circa 3 mq, costruite assemblando 6 pannelli di varia forma costituiti da
un‟intelaiatura in ferro alla quale è fissata una rete elettrosaldata a maglia quadrata.
Sul lato corto della struttura, di sezione trapezoidale, c‟è la porta a ghigliottina
collegata al meccanismo di scatto, posizionato in prossimità della parete opposta. Per
quanto concerne le modalità di somministrazione di alimento-esca, valgono le stesse
considerazioni fatte per i chiusini.
In linea generale, tutti i sistemi che vengono utilizzati risultano relativamente
selettivi per quanto riguarda le classi d‟età; infatti, la classe degli adulti, soprattutto
maschi, è la classe che viene catturata con minor frequenza rispetto alla loro
incidenza sul totale della popolazione, mentre la maggior frequenza è a carico delle
classi dei giovani. Tale selettività verso i giovani sembrerebbe riconducibile a due
principali fattori: da una parte la presenza frequente di popolazioni molto giovani,
con media spostata verso classi giovanili, dall‟altra la normale diffidenza e scaltrezza
degli individui adulti che si avvicinano con difficoltà a qualsiasi elemento estraneo al
paesaggio naturale (Toso e Pedrotti, 2001).
Una volta effettuata la cattura, per il trasporto dovranno essere utilizzate delle
apposite casse individuali costruite in legno (120 x 80 x 70 cm lt x lg x h) provviste
di due porte a ghigliottina che debbono essere dotate di sistemi di bloccaccio esterno.
Per agevolare il trasporto, le casse sono dotate di due maniglie.
Molto importante è anche l‟utilizzo di gabbie di contenimento, con lo scopo
di far fronte all‟elevata irruenza e forza del cinghiale durante la manipolazione degli
individui, anche solo per l‟applicazione delle marche auricolari. I cinghiali vengono
fatti entrare uno alla volta accostando la gabbia di contenimento ad un ingresso del
chiusino o della trappola (Toso e Pedrotti, 2001).
Gli strumenti di programmazione devono partire da scelte prevalentemente
politiche mirate, in primis, ad individuare le così dette aree di rimozione. In alcune
aree, in cui il 90% del territorio agro-forestale è interessato da coltivazioni di
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notevole importanza economica, come i seminativi o i frutteti, la presenza del
cinghiale è economicamente inconciliabile; ve ne sono altre, invece, in cui la
presenza del suide è accettabile in parte, per la presenza non pressante
dell‟agricoltura. A prescindere dall‟importanza che può avere una determinata area
dal punto di vista agro-forestale, è necessario definire in ogni caso, delle densità
ottimali, o obiettivo, di tali popolazioni a cui deve corrispondere un livello
accettabile di danni per ciascuna unità di gestione e ciascun distretto di gestione
(Toso, 2006).
Per ciascuna annata vengono realizzate delle stime di consistenza della
popolazione, sulla base di stime di incremento potenziale strettamente dipendenti
dalla struttura e dalla fertilità; in tal modo si viene in possesso di una mole di dati
necessari a quantificare l‟entità e la distribuzione del prelievo effettuato. Con queste
informazioni è possibile, quindi, ipotizzare l‟evoluzione numerica della popolazione
negli anni, verificarla progressivamente e formulare i nuovi piani di prelievo.
Pertanto, la definizione densità-obiettivo consente di stabilire, per ciascuna
unità di gestione, la quota di cinghiali che, a regime, potrà o dovrà essere prelevata
annualmente (Toso e Pedrotti, 2001). Generalmente, circa l‟80% del prelievo
dovrebbe essere costituito da animali in età inferiore ad un anno, il 10% da animali
di due anni, l‟altro 10% da individui anziani di età superiore ai 6 anni (Mussa e
Debernardi, 1988). In alcuni contesti territoriali si preferisce affiancare alle normali
tecniche di cattura, l‟abbattimento degli individui mediante attività venatoria. Il
controllo del cinghiale mediante attività venatoria trova riferimento nell‟art. 19 della
legge n. 157 dell‟11 febbraio del 1992, intitolato per l„appunto “Controllo della
fauna selvatica”. Tale legge stabilisce che: 1) Le regioni possono vietare o ridurre
per periodi prestabiliti la caccia a determinate specie, tra cui il cinghiale
(limitatamente ad un periodo particolare che va dal primo ottobre al 31 dicembre o
dal primo novembre al 31 gennaio), per importanti e motivate ragioni connesse alla
consistenza faunistica o per sopravvenute particolari condizioni ambientali,
stagionali o climatiche o per malattie o altre calamità. 2) Le regioni, per migliorare la
gestione del patrimonio zootecnico, per la tutela del suolo, per motivi sanitari, per la
selezione biologica, per la tutela del patrimonio storico-artistico, per la tutela delle
produzioni zoo-agro-forestali ed ittiche, provvedono al controllo delle specie di
fauna selvatica anche nelle zone vietate alla caccia. Tale controllo, esercitato
selettivamente, viene praticato di norma mediante l‟utilizzo di metodi ecologici su
parere dell‟Istituto Nazionale per la Fauna Selvatica. Qualora l‟Istituto verifichi
l‟inefficacia dei predetti metodi, le regioni possono autorizzare piani di abbattimento.
Tali piani devono essere attuati dalle guardie venatorie dipendenti dalle
amministrazioni provinciali. Queste ultime potranno altresì avvalersi di proprietari o
conduttori dei fondi sui quali si attuano i piani medesimi, purché muniti di licenza
per l‟esercizio venatorio, nonché delle guardie forestali e delle guardie comunali
munite di licenza per l‟esercizio venatorio. 3) Le province autonome di Trento e di
Bolzano possono attuare i piani di cui al comma 2 anche avvalendosi di altre
persone, purché munite di licenza per l‟esercizio venatorio.
Come già sottolineato il controllo demografico per la prevenzione dei danni
può essere eseguita anche con attività venatoria, che può essere condotta con diversi
sistemi: braccata; caccia di selezione; girata.
Con la braccata s‟impiegano più gruppi di cacciatori, di cui alcuni posizionati
lungo punti fissi di tiro (poste) e altri, detti conduttori, che con i relativi cani da
seguita, provvederanno ad individuare gli animali e sospingerli verso le aree di
passaggio obbligato ove si tenterà l‟abbattimento. Tale sistema, da effettuarsi
ovviamente nei modi e nei tempi indicati dal calendario venatorio e dal regolamento
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provinciale di caccia al cinghiale, è però uno strumento di gestione con dei limiti
evidenti legati soprattutto alle sue caratteristiche intrinseche che sono l‟impossibilità
di scegliere il capo da abbattere, e soprattutto il forte impatto che gli uomini e cani,
durante l‟azione di caccia, esercitano sulle altre componenti faunistiche del territorio.
Con questo sistema, oltretutto si rischia di aumentare notevolmente l‟areale di
distribuzione di questa specie con il rischio di avvicinamento alle coltivazioni.
Una variante della braccata, sicuramente più compatibile con le esigenze di
salvaguardia delle altre specie, è la girata. Con tale sistema, molto simile alla
precedente per modalità di esecuzione, si utilizzano normalmente uno o due cani ben
addestrati guidati da un unico conduttore ed un basso numero di cacciatori sistemati
alle poste, limitando in questo modo il disturbo arrecato al territorio per la ridotta
mobilità del cane. L‟azione si svolge seguendo un classico schema: dopo aver
trovato le tracce fresche del cinghiale viene utilizzato un solo cane, con funzione di
limiere, affinché identifichi la rimessa, la cosiddetta “lesta”. Successivamente si
procede a far spostare gli animali senza forzarli eccessivamente, in modo da indurli a
percorrere gli itinerari abituali, così da essere facilmente abbattuti dai cacciatori alle
poste. L‟utilizzo di pochi cani consente al cinghiale di arrivare alle poste lentamente
per cui risulta più agevole il tiro e viene consentita peraltro una più attenta
valutazione del capo da abbattere.
Un altro sistema di caccia, che in assoluto riduce l‟impatto nei confronti delle
altre componenti faunistiche del territorio, fattore importante soprattutto nell‟ambito
della gestione all‟interno delle aree protette o delle zone di ripopolamento e cattura, è
la caccia di selezione (Amici e Serrani, 2004). In definitiva, gli abbattimenti e la
prevenzione devono dare come risultato il mantenimento della densità obiettivo; in
pratica si stabilisce a priori la quota di individui da prelevare tale da limitare la
quantità di danni nel distretto di gestione e, sulla base delle informazioni derivanti
dai capi abbattuti, il cui esame della struttura di popolazione si effettua tramite le
mandibole degli animali abbattuti e gli uteri delle femmine per verificare la
produttività annuale, si stabilisce il piano del successivo prelievo. Solo in questo
modo è possibile, in maniera adattativa, raggiungere gli obiettivi di un corretto
rapporto tra popolazione di cinghiale e contesto territoriale circostante (Toso, 2006).
6. DISCIPLINARE PER IL RISARCIMENTO DEI DANNI
Alcuni ecosistemi, grazie alle loro peculiarità, sono molto sensibili all‟impatto
del cinghiale, la cui presenza è dirompente per i danni che provoca all‟intero
patrimonio agricolo e forestale. Ciascuna Regione, allo scopo di instaurare un
proficuo rapporto tra agricoltori e cacciatori, prepara un Disciplinare che regola e
fissa le modalità per l‟accertamento, la valutazione e la liquidazione del risarcimento
dei danni determinati dalla fauna selvatica alle popolazioni agricole. Il territorio di
Arezzo, ad esempio, è sempre costantemente al primo posto in questa poco
invidiabile classifica. È anche per questo che la Regione Toscana si è dotata da molti
anni di una legge regionale, 3/94, che all‟art. 8 comma 6 lett. C prevede che i Piani
Faunistici Venatori Provinciali contengano i criteri per la determinazione ed il
risarcimento in favore dei proprietari e conduttori dei fondi rustici per i danni causati
dalla fauna selvatica alle produzioni agricole e alle opere approntate su fondi
compresi nelle Oasi e nelle Zone di Protezione, nonché nelle Zone di Ripopolamento
e Cattura.
I diversi disciplinari devono prevedere che i Comitati di Gestione degli Ambiti
Territoriali di Caccia (ATC) determinino ed eroghino i contributi per il risarcimento
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dei danni arrecati alle produzioni agricole dalla fauna selvatica. I criteri enunciati
sono criteri generali validi per gli istituti faunistici e per il Territorio a Gestione
Programmata degli ATC, qualora questi non abbiano adottato un proprio
regolamento. Nel caso che gli ATC adottino specifici regolamenti per la
determinazione dei risarcimenti, le direttive saranno valide per le parti non in
contrasto con i suddetti regolamenti. La Provincia può confermare la delega ai
comitati di Gestione degli ATC relativa alla determinazione ed erogazione dei
contributi per il risarcimento dei danni arrecati alle produzioni agricole all‟interno
delle zone destinate alla protezione della fauna per l‟intera durata del presente Piano
Faunistico Venatorio. L‟ammontare complessivo dei contributi erogati per il
risarcimento dei danni arrecati alle produzioni agricole dalla fauna selvatica è
stabilito da apposita legge regionale.
6.1. Segnalazione dei danni
Coloro che subiscono danni alle colture agricole sono tenuti a segnalarli
all‟organo competente (ATC) in forma scritta al più presto, possibilmente entro 48
ore dall‟accertamento del primo danno da parte del conduttore dei fondi, affinché
possano essere utilmente adottati provvedimenti ed accorgimenti atti a limitare i
danni stessi, almeno 15 giorni prima nel caso in cui si approssimi il periodo della
raccolta, o, in caso di danni alla semina, prima che la coltura raggiunga uno stadio
vegetativo tale da impedire la valutazione del danno e l‟agente che lo ha causato. Le
domande devono essere avanzate usando la modulistica predisposta dall‟Ambito
Territoriale di Caccia competente. La Fig. 6.1.1. riporta un esempio di tali moduli.
Le domande di indennizzo possono essere inoltrate all‟Ambito Territoriale di Caccia
anche tramite le Associazioni degli Agricoltori, utilizzando la modulistica conforme.
In tale domande dovranno essere ben specificati: dati anagrafici o ragione sociale del
richiedente; codice fiscale o partita IVA; dichiarazione di proprietà/possesso e
riferimenti catastali dei terreni interessati dal danno; superficie oggetto di
sopralluogo; coltura danneggiata; stima del danno (es.: prodotto perduto);
indicazione sulla specie che ha causato il danno e la zona di provenienza; descrizione
dell‟attività di prevenzione dei danni adottata; disponibilità a collaborare ai piani di
prevenzione. Nel caso in cui siano danneggiati i vigneti soggetti a disciplinare di
produzione dovrà essere prodotta una copia della denuncia delle uve presentata agli
organismi competenti nei termini di legge.
Le domande di sopralluogo devono essere presentate, in rapporto alla coltura
danneggiata, nel periodo vegetativo, dalla semina al momento del raccolto previsto
dagli usi e consuetudini locali; in tal senso ogni Ambito Territoriale di Caccia può
determinare, all‟atto della stesura del proprio Regolamento, le date di scadenza per
tipologia di coltura.
6.2. Accertamento dei danni
L‟organismo preposto alla erogazione degli indennizzi verifica le richieste
avanzate mediante sopralluoghi, da effettuare di norma entro i 15 giorni lavorativi
successivi alla richiesta di indennizzo e comunque entro i limiti previsti dalla legge.
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Fig. 6.1.1. Modulistica per richiesta di accertamento danni.
I sopralluoghi di accertamento sono effettuati da tecnici incaricati
dall‟Ambito Territoriale di Caccia i quali hanno il compito di verificare e stimare il
danno causato dalla fauna, anche mediante campionamenti, rilevamenti GPS (Global
Positioning System) e/o fotografici. Sull‟apposita modulistica di sopralluogo dovrà
essere riportato: superficie e tipologia della coltura oggetto del sopralluogo; stato
vegetazionale, fitosanitario e produttività della coltura; quantità e/o percentuale di
prodotto perduto; superficie danneggiata; presunta data del danno; presunta
provenienza degli animali che hanno provocato il danno; indicazioni circa opere per
la prevenzione adottate; indicazioni circa opere per la prevenzione di eventuali,
ulteriori danni.
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In caso di richiesta di sopralluoghi per l‟accertamento di danni risultanti
inesistenti, il costo della perizia tecnica sarà a carico del richiedente, che dovrà
corrisponderlo, previa richiesta, entro 120 giorni, all‟Ambito Territoriale di Caccia.
I tecnici incaricati del sopralluogo provvedono ad informare l‟agricoltore
danneggiato circa i metodi e le procedure di prevenzione dei danni normalmente
adottate nei casi similari, indicando i referenti cui rivolgersi per la loro attuazione e
dandone menzione nel verbale di sopralluogo. Al sopralluogo possono presenziare
componenti del Comitato di Gestione dell‟Ambito Territoriale di Caccia o suoi
delegati in veste di osservatori, i medesimi dovranno comunque qualificarsi di fronte
al proprietario o conduttore del fondo agricolo e non prendere parte alla
determinazione del verbale di accertamento. Il tecnico incaricato del sopralluogo
dovrà procedere a una serie di adempimenti. Se ne riportano alcuni, a titolo
indicativo: 1) verifica dei documenti allegati, dei quali è obbligatoria la
certificazione catastale e la cartografia particellare in scala adeguata tale da
consentire l‟individuazione territoriale; per i vigneti certificati (IGT, DOC, DOCG) è
obbligatoria la certificazione del catasto vitivinicolo; 2) in caso di intestazione non
corrispondente fra il certificato catastale ed il titolare della richiesta, procedere alla
verifica della documentazione attestante il titolo di conduzione; 3) accertamento
relativo alla rispondenza della qualità di coltura riportata nel certificato catastale e
quella oggetto della richiesta; 4) valutazione del danno con metodo analitico; 5)
redazione del verbale riportando tutte le informazioni richieste e le annotazioni
necessarie alla successiva definizione del danno da rimborsare, curando con
particolare attenzione l‟aspetto delle definizioni relativa alle cause o concause che
hanno procurato il danno e, se possibile, la provenienza, nonché indicate le misure di
prevenzione eventualmente adottate o, in caso contrario, le motivazioni per cui non
sono state o non possono essere realizzate; 6) la redazione del verbale deve essere
compilato anche in caso di accertamento del danno risultante negativo, riportando
nelle annotazioni le motivazioni; 7) il verbale deve essere firmato dal tecnico
incaricato e dal richiedente o suo rappresentante. Nel caso in cui il richiedente si
rifiuti di firmare la perizia, il tecnico deve informare il medesimo che eventuali
osservazioni dovranno essere fatte con scritto inoltrato all‟Ambito Territoriale di
Caccia entro 10 giorni dalla data del verbale, permettendo di procedere ad eventuali
accertamenti suppletivi o l‟attivazione della Commissione Arbitrale; 8) il tecnico con
la firma del verbale, si assume la responsabilità di quanto accertato in riferimento
alla valutazione del danno.
6.3. Modalità di liquidazione
L‟indennizzo dei danni arrecati dalla fauna selvatica alle colture agricole e
forestali è riservato a coloro che abbiano dato preventiva segnalazione del
danneggiamento, come previsto dalle apposite norme regionali e provinciali. Non
sono indennizzabili i danni relativi a: colture che al momento del sopralluogo siano
già state raccolte o comunque manomesse; colture dove non sia in alcun modo
tecnicamente accertabile la causa del danno; colture ottenute in assenza di tutte o
parte delle operazioni agronomiche normalmente adottate per il tipo di coltura
interessata; colture evidentemente aggredite da infestanti in modo tale da
pregiudicare la normale produzione; impianti di essenze arboree attuati con i
contributi previsti dal Reg. CEE 2080/92 “Arboricoltura da legno” ove non sia stata
prevista in progetto alcuna opera di prevenzione, qualora ammessa dalla normativa
europea; danni provocati da colombe, piccioni, animali domestici e nutrie in quanto
non riconosciuti come specie di fauna selvatica; danni causati da eventi
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metereologici e/o fallanze; danni a colture attuate su terreni posti ad una quota
incompatibile con le caratteristiche agronomiche sue proprie a meno che non venga
prodotta idonea documentazione attestante che la stessa coltura ha ottenuto risultati
rilevanti o apprezzabili negli anni precedenti, restando comunque facoltà dell‟ATC
individuare limitazioni per il rimborso di danni a colture attuate in situazioni
ambientali ritenute incompatibili con le loro specifiche caratteristiche agronomiche;
danni entro la fascia di 200 metri circostanti i confini di aree sottoposte a divieto di
caccia, ovvero di strutture pubbliche o private che non abbiano posto in essere i
programmi di gestione e controllo delle specie selvatiche predisposti o indicati
dall‟Amministrazione Provinciale, per i quali i responsabili dei divieti stessi sono
tenuti all‟indennizzo dei danni. Ogni Ambito Territoriale di Caccia potrà definire un
importo minimo sotto il quale i danni risultano non indennizzabili; tale importo potrà
essere definito in misura proporzionale all‟entità del risarcimento.
Per quanto riguarda i danni risarcibili, ai fini dell‟ammissione al risarcimento
si distinguono due tipologie di danni, quelli direttamente legati ai prodotti agricoli
(colture erbacee: prati e pascoli, foraggere, cerealicole, industriali, oleaginose,
proteoleaginose; colture arboree: frutteti, oliveti, vigneti, castagneti da frutto,
rimboschimenti fino a tre anni dall‟impianto) e quelli indiretti legati ad alcuni tipi di
infrastrutture (sostegno filari in colture arboree; regolazione delle acque; ecc.).
Per quanto concerne i danni alle colture cerealicole, foraggere e pascoli permanenti,
nel caso di danni procurati nella fase di semina o comunque in tempi tali da
consentire le operazioni di risemina, se questi interessano parti consistenti
dell‟appezzamento, deve essere indicata la superficie da riseminare, facendo presente
al richiedente che qualora non provveda non potrà essere riconosciuto alcun
rimborso. Diversamente, nel caso in cui i danni siano di lieve entità e diffusi
sull‟appezzamento, il danno dovrà essere espresso in percentuale e verificato prima
del raccolto. È compito del richiedente inoltrare la richiesta scritta all‟Ambito
Territoriale di Caccia, per un ulteriore sopralluogo prima del raccolto, pena il non
riconoscimento del danno. Qualora venga riconosciuta una percentuale di danno il
richiedente non può procedere alla risemina. L‟Ambito Territoriale di Caccia potrà
svolgere controlli in merito, non risarcendo le risultanze dell‟avvenuta risemina per i
danni già definiti. In presenza di danni arrecati a prato o prato pascolo, la valutazione
dovrà essere fatta in superficie danneggiata e non a fieno. Per i danni causati in fase
di maturazione del prodotto, il risarcimento sarà pari alla perdita del prodotto
definito in sede di valutazione. Per i danni alle colture orticole, il risarcimento viene
determinato secondo i criteri già esposti: superficie danneggiata, prezzo del prodotto,
produzione media della zona. Nell‟ambito dei danni alle colture arboree in attualità
di coltivazione e nel caso specifico dei frutteti, oliveti, vigneti, castagneti da frutto,
quando i danni sono tali da rendere preferibile la sostituzione delle piante, il
risarcimento è basato sul costo delle sostituzioni (messa a dimora completa), con una
integrazione pari al valore del prodotto perduto stimata secondo i parametri
precedentemente indicati. Anche per i rimboschimenti fino a tre anni dall‟impianto,
nel caso di danni tali da rendere necessaria la sostituzione delle piantine danneggiate
(per danni verificatesi entro tre anni dall‟impianto) il risarcimento è basato sul costo
delle sostituzioni (messa a dimora completa).
Il tecnico incaricato del sopralluogo dovrà definire la quantità di prodotto da
risarcire in base alle produzioni medie definite dall‟Ambito Territoriale di Caccia,
tenuto conto delle indicazioni qualitative della coltura danneggiata riportata nel
verbale. Il calcolo dovrà essere effettuato sulla base del prezzario predisposto
dall‟Ambito Territoriale di Caccia ed approvato dall‟Amministrazione Provinciale
per ogni annata agraria. Qualora il richiedente non abbia provveduto ad effettuare
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interventi di prevenzione dei danni secondo le specifiche tecniche contenute nel
paragrafo successivo, l‟Ambito Territoriale di Caccia potrà, in sede di liquidazione,
ridurre l‟importo da corrispondere in percentuale definita, diversificando la riduzione
in rapporto all‟ubicazione del territorio danneggiato. Tale riduzione non potrà essere
comunque applicata se, su richiesta preventiva dell‟agricoltore, l‟ATC non avrà
provveduto al coinvolgimento della o delle squadre di caccia al cinghiale, o di altri
cacciatori, che operano nel territorio interessato al fine di coadiuvare l‟agricoltore
nell‟adozione di misure di prevenzione, compreso la messa in opera di strumenti di
dissuasione. Nel caso in cui l‟agricoltore si sia rifiutato, su esplicita richiesta
avanzata dal Tecnico incaricato del sopralluogo o dalla stessa ATC, di adottare
misure di prevenzione al fine di limitare il protrarsi dei danni, potrà essere applicata
una detrazione maggiore della percentuale definita. Il ripetersi negli anni di danni
diffusi sullo stesso appezzamento di terreno e la mancata adozione di opportuni
metodi di prevenzione può comportare, con provvedimento motivato approvato dal
Comitato dell‟ATC, l‟annullamento totale di qualsiasi rimborso.
7. CONCLUSIONI
Il cinghiale è tra le specie selvatiche quella che arreca attualmente, in Italia,
la maggiore entità dei danni al patrimonio agro-forestale. La sua uniforme
distribuzione e diffusione su tutta la Penisola, fatta eccezione per le regioni dell‟arco
Alpino e di piccole aree del versante Adriatico, nonché l‟elevato tasso di incremento
della popolazione, rendono la specie molto difficile da controllare. La politica di
gestione faunistica sinora adottata nel nostro Paese ha prodotto una serie di problemi:
mancanza di criteri uniformi, nonché di carenze culturali, organizzative e tecniche
della gestione venatoria; presenza della specie anche in aree nelle quali l‟uso
agricolo del territorio è rilevante; immissione non programmata; possibile
introduzione di alcune malattie; rischio di interazioni negative con altre componenti
delle zoocenosi per competizione; elevato disturbo arrecato ad altri elementi della
fauna.
È noto che una popolazione di cinghiali lasciata a se stessa tende a crescere in
maniera esponenziale per assenza di predatori naturali. L‟uomo può intervenire come
predatore “colturale” per controllare la crescita e ridurre i problemi da essa causati,
attraverso mirati piani di assestamento che regolino, con piani di abbattimento
selettivo, il numero di animali da prelevare annualmente. Alcune classi, come per
esempio i piccoli e i subadulti, saranno maggiormente interessate, altre meno. L‟80%
del prelievo dovrebbe essere costituito da animali di età inferiore ad 1 anno, il 10%
da animali di 2 anni e l‟altro 10% da animali anziani. Il criterio generale da adottare
nella gestione responsabile del cinghiale richiede:
1. attuazione di misure di prevenzione o contenimento dei danni a carico di colture a
rischio con responsabilizzazione anche economica dei distretti di gestione dei diversi
ATC;
2. controllo della popolazione attraverso interventi venatori;
3. risarcimento danni che preveda adeguata successiva coltivazione del terreno.
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