LA CRISI DELL’IO DAL SOGGETTIVISMO COME MOTIVO FONDANTE DELLA FILOSOFIA MODERNA “Tutto ciò che è reale è razionale, tutto ciò che è razionale è reale” G.W. Hegel Se vogliamo veramente comprendere il motivo essenziale che ha attraversato, costituendone la peculiarità, tutto il pensiero moderno, non possiamo non prendere le mosse da colui che, ormai per unanime consenso, ne è considerato l’iniziatore: Renato Cartesio. L’importanza che il pensatore francese ha assunto dal punto di vista teoretico in quella svolta che il pensiero ha operato agli inizi della modernità, sta nell’aver dato alla categoria del soggetto una nuova valenza speculativa, elevandola a elemento prioritario del pensiero. Non che prima il soggetto non era considerato dalla filosofia greca o medievale, ma era per così dire subordinato ai grandi problemi ontologici o teologici . Cartesio sbarazzandosi di tutte le argomentazioni tradizionali proponeva un soggetto non più assoggettato, dedotto o ricavato dall’essere, ma autofondante cioè che trovava in se medesimo le ragioni della propria esistenza. Era questo il grande guadagno ottenuto: la possibilità assunta dall’uomo di potersi emancipare da qualsiasi verità vincolante eteronoma, data per certa anticipatamente e quindi dogmaticamente, senza la possibilità di poterne pervenire con quella metodologia critica di cui soltanto il soggetto è capace. “Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua intelligenza” con queste parole kant, in risposta alla domanda che cos’è l’Illuminismo, descriveva l’uscita dall’uomo dal suo stato di minorità che lo aveva caratterizzato nella sua storia precedente. Ma sarà comunque Hegel, l’elaboratore della forma più compiuta e complessa dell’ idealismo, a portare questa “ uscita “ alla sue più estreme conseguenze, attraverso l’affermazione che la realtà è dominata in tutti i suoi aspetti dalla ragione dell’io, espressa nel celebre motto: “ tutto ciò che è reale è razionale, tutto ciò che è razionale è reale “ ALL’ANNUNCIO DELLA CRISI DELL’IO ( I CONTESTATORI DEL SISTEMA HEGELIANO ) “Il soggetto del gran sogno della vita è in un certo senso uno soltanto: la volontà di vivere” A. Schopenhauer La prospettiva inaugurata da Cartesio, come abbiamo visto, troverà il suo momento più felice nell’Idealismo tedesco, ma proseguirà, sia pure con accenti differenti nel positivismo che pretenderà di imprimere attraverso la categoria del soggetto assoluto il suo modello scientista ad ogni settore della realtà. Se però osserviamo meglio il pensiero filosofico ai primi anni dell’800 non possiamo non considerare due autorevoli voci controcorrente, nonché i più grandi contestatori del sistema hegeliano, i quali, con straordinaria preveggenza annunceranno quella crisi e prepareranno il terreno al pensiero successivo: Schopenhauer e Kierkegaard. Pur pervenendo a due filosofie assai diverse, bisogna anzitutto dire che entrambi sono accomunati dalla contestazione del principio ispiratore della filosofia di Hegel: il razionalismo. Il primato della coscienza, che aveva trovato nell’idealismo di Hegel la sua più alta celebrazione, viene sostituito da Schopenhauer dal primato della volontà di vita, dove questa va intesa in primo luogo al di fuori di qualsiasi legge di motivazione, non trattandosi come voleva l’idealismo di un prodotto della coscienza, ma caratterizzata da una cieca irrazionalità portatrice di dolore e distruzione. Non quindi la conoscenza e poi la volontà, ma la conoscenza come esito della volontà, quell’”immotivata volontà di esistere” a cui l’uomo occidentale ha sempre voluto sottrarsi. La filosofia della coscienza, che Platone ha inaugurato con il concetto di anima e che Cartesio ha ribadito col primato del cogito, subirà con Schopenhauer il primo momento di precarietà e inconsistenza, in cui la realizzazione dell’individuo risulterà estremamente problematica essendo mossa passivamente da quel principio metafisico cieco e irrazionale che è la volontà; con la conseguente perdita del libero agire del soggetto umano che diviene così il deterministico prodotto delle pulsioni e dei bisogni naturali in cui si palesa la volontà e non potendo più fare affidamento su una ragione universale garante di tutto e di tutti. L’influsso di questo pensiero sulla cultura a lui successiva è stato molto grande, merita comunque di essere segnalato quello su Nietzsche, ( di cui più avanti tratteremo ). Pur partendo dalle medesime critiche al pensiero di Hegel (dando sempre per scontato che esso rappresenti il punto conclusivo del secolare sviluppo della filosofia razionalistica), ben diverso si presenta il pensiero di Kierkegaard. La distanza che prende da Schopenhauer può essere focalizzata nel fatto che mentre quest’ultimo partiva dalla concezione di un individuo assoggettato ad un principio infinito, in Kierkegaard, al contrario, l’individuo è pensato nella sua valenza irrimpiazzabile e come il più adeguato punto di vista a partire dal quale è possibile affrontare tutti i problemi della filosofia. Si capisce che allora l’attacco all’ hegelismo è ancora più radicale, essendo quest’ultimo il tentativo estremo di spiegare la realtà attraverso un ordine sistematico, totalitario, chiuso, e quindi incapace di pensare l’assoluta singolarità dell’esistente, intesa come processo sempre aperto alla possibilità. Il capovolgimento della metodologia hegeliana porterà Kierkegaard ad una riflessione profonda sul singolo individuo, riflessione posta a partire da una categoria che gioca un ruolo cruciale nel suo pensiero, quella dell’esistenza. L’Esistenza dell’uomo in senso etimologico vuol dire infatti “esser fuori “, fuori dai modelli sistematici e astratti della ragione universale che pretende di riassorbire l’individuale nell’universale, e quindi inserito in una dinamica di illimitate possibilità in cui ogni volta è chiamato a rispondere. Di qui la sua indecisione, la sua instabilità di fronte alle alternative possibili, che proprio perché caratterizzate da quella alta dose di “ non necessità “ traducono la sua libertà di agire in un insormontabile sentimento di angoscia, quel puro sentimento della possibilità che lo ribalta in un orizzonte di radicale “finitezza”. Questa nuova prospettiva è ancora maggiormente illuminata da un’altra tematica centrale del suo pensiero, quella dell’esperienza religiosa. Adamo in un primo momento, come si è soliti ricordare, viveva in uno situazione di completa innocenza caratterizzato da uno stato di ignoranza, come è potuto pervenire successivamente alla coscienza di sé? Non sicuramente secondo un passaggio logico, bensì con un taglio netto, con una rottura, che è il peccato originale. Solo il peccato, il pesante stato di angoscia che esso produce ha portato Adamo a comprendere il suo essere individuo, il suo essere finito di fronte alla figura infinita di Dio. Questo senso di essere colpevoli è la pietra di paragone più pertinente per poter pervenire a se stessi, che porterà Kierkegaard ad affermare la correlatività tra il “singolo “ e la “ fede “ come unico accesso per poter pensare un’ esistenza “ autentica “. NIETZSCHE E FREUD: LA CRISI DELL’IO COME MANIFESTAZIONE EPOCALE DEL PENSIERO “ Io conosco la mia sorte. Si legherà un giorno al mio nome il ricordo di una crisi, come non ce ne fu un’altra simile sulla terra.” F.Nietzsche Abbiamo prima messo in evidenza l’influsso che Schopenhauer ha esercitato sul pensiero di Nietzsche perché esso rappresenta un nodo davvero rilevante all’inizio del suo pensiero. È lo stesso Nietzsche leggendo “il mondo come volontà e rappresentazione” a riconoscere il suo debito, scriverà infatti più tardi: << avevo davanti a me uno specchio nel quale vidi il mondo, la vita e il mio stesso animo >>. Il punto di partenza è quindi il medesimo: l’io è un derivato di quelle pulsioni che a null’altro tendono che all’immotivata volontà di esistere. La condizione dell’uomo, quindi, lungi dal costituirsi attraverso idee equilibrate e trasparenti, versa in una situazione di incertezza legata agli istinti, in pieno accordo con la natura, con tutta quella dose di caos che gli è propria. La sua critica a quel lungo processo di razionalizzazione operato dal pensiero occidentale raggiungerà tuttavia una più profonda consapevolezza che non negli altri autori sopra trattati, facendo di Nietzsche un punto di riferimento ineludibile per tutta la filosofia del novecento. Il suo merito va ricercato anzitutto nel suo disincanto che gli ha permesso di smascherare e di decostruire tutto quel pensiero che a partire da Socrate, ma più esplicitamente da Platone, ha creduto di poter pervenire alla verità attraverso la postulazione di un mondo ideale, trascendente, in sé, che in quanto mondo vero è sovraordinato al mondo sensibile e di cui il soggetto umano è l’esclusivo interprete; teorizzazione questa che inevitabilmente viene a cadere man mano che l’uomo riesce a prendere consapevolezza della propria condizione. Questa condizione troverà nel suo pensiero la sua più seria esplicitazione, ed è lo stesso Nietzsche a dircelo quando pensava se stesso come: << il primo perfetto nichilista d’Europa >>. Ma che cos’è propriamente il nichilismo? È ancora lo stesso Nietzsche a dircelo: << Nichilismo: manca il fine; la risposta al perché?; che cosa significa nichilismo?- che i valori supremi si svalutano >>. Il lungo sogno del razionalismo occidentale viene dunque a finire, poiché presto il mondo ideale si rivelerà illusorio, irraggiungibile, e quindi inevitabilmente inconsistente; che cosa rimane a questo punto se non l’uomo solo di fronte a se stesso? ma dire questo non significa anche dire che da questo momento in poi l’uomo non potendo più contare su nessuna consolante garanzia trascendente ( qualunque essa sia: il Bene, Dio, l’Io assoluto ecc., ) è inevitabilmente consegnato alla più estrema precarietà? Nietzsche sa bene l’alta dose di rischio che caratterizza l’uomo contemporaneo, ciò nonostante, e in questo sta il suo grande congedo da Schopenhauer, non vuole concedersi l’annullamento dello spirito umano nel nulla che sarebbe l’etichetta di un nichilismo passivo, bensì in una presa di posizione teorizzata nella figura del superuomo, unico vero interprete di una situazione epocale irrimediabilmente avviata. In un celebre frammento dell’87 chiedendosi: << quali uomini saranno allora i più forti? >> risponde: << i più moderati, quelli che non hanno bisogno di principi e di fede estrema, quelli che non solo ammettono, ma anche amano una buona parte di caso, di assurdità, quelli che sanno pensare, riguardo all’uomo, con una notevole riduzione del suo valore senza diventare perciò piccoli e deboli. >>. Solo ammettendo la sua debolezza la sua non stabilità, solo così l’uomo potrà far fronte, sia pure per piccoli passi, a quella situazione precaria e di radicale crisi, sigillo autentico della nostra epoca. Strettamente connessa alla tematica del nichilismo è da considerare quella dell’eterno ritorno che Nietzshe tratta in perfetta coerenza con lo svilupparsi delle sue tesi; se infatti la nostra epoca si rivela come l’emergere della mancanza di senso che tutto investe, dove vanno a finire quelle categorie di fine di progresso tanto care sia alla concezione Cristiana della storia che allo storicismo di matrice Hegeliana? È chiaro, a questo punto, che anche esse inconsistenti prodotti di una insensata volontà, che mirerebbe piuttosto alla costruzione di questi illusori ideali per garantire la propria conservazione, si perdono nel nulla. Non esiste, dunque, nessuna razionalità garante dell’azione umana, nessuna provvidenza, nessun progresso, solo l’eterno ritorno delle cose e dei fatti, secondo una legge ciclica di un mondo soltanto teso ad accettare se stesso e di ripetersi, non essendo diretto verso nessun fine. Al di là di ogni giudizio di valore che le varie interpretazioni gli hanno attribuito, resta il fatto dell’insistente riemergere, anche in epoca recente, di questo pensiero che ha duramente segnato il nostro tempo. Pur provenendo da una diversa formazione intellettuale è illuminante sottolineare come anche Freud, pur non avendolo letto, perviene alle stesse conclusioni di Nietzsche; indice di una crisi ormai affermatasi in tutti i campi. È Freud ad imprimere all’uomo la terza grande umiliazione storica. Dopo la prima, quella “cosmologica”, che gli è stata inflitta da Copernico, quando lo ha tolto, togliendovi la Terra, dal centro dell’universo e la seconda, quella “biologica”, da Darwin, che lo ha fatto discendere dalla schiera degli animali, adesso è proprio Freud ad inferiorizzarlo, scoprendo che le sue azioni non derivano da una libera scelta, ma sono il prodotto delle passioni e pulsioni inconsce. Il duro colpo, se si osserva bene, è indirizzato soprattutto a quella concezione cristiana, ma anche ad ogni forma di morale che nutriva una profonda fiducia su un concetto di anima unitaria e razionalmente controllabile. Il profondo scandalo e lo scarso interesse che essa suscitò è dunque da ricercare in questo. Ad avviso di Freud esisterebbe una regione, all’interno della nostra mente, chiamata Es, che si sottrae drasticamente al mondo della coscienza. Sbagliare, sognare, dimenticarsi e ogni genere di nevrosi troverebbero la loro spiegazione causale in pulsioni respinte e in desideri rimossi dell’inconscio, ma non cancellate. Il fatto è che anche il primo stadio della nostra vita, cioè il periodo infantile, sarebbe caratterizzato da una serie di istinti e di pulsioni, che sono in primo luogo di natura sessuale, e che queste attraverso un processo di razionalizzazione morale verrebbero censurate, ma non per questo assolutamente neutralizzate. Questo principio biologico-sessuale, lungi dal perdere la sua rilevanza attraverso quel processo di censura, troverebbe manifestazione in quelle circostanze caratterizzate dalle più svariate patologie: nevrosi, lapsus, ecc, consegnando l’anima umana ad una vera e propria frammentazione. È importante osservare come attraverso l’esplicazione della teoria Freudiana veniva drammaticamente a cadere la portata simbolica dell’infanzia intesa come età dell’innocenza e della purezza morale: il bambino, secondo Freud e ben lungi da quell’essere morale che si era sempre creduto, anzi in lui, già dal primo giorno di vita, sono in attività degli intensi bisogni sessuali che alla coscienza comune si mostrano in tutta la loro più estrema perversità. Ecco come Freud chiarifica questo nodo centrale della sua teoria: << il bimbo concentra sulla persona della madre i suoi desideri sessuali e concepisce impulsi ostili contro il padre, considerato come un rivale. Questa è anche, “mutatis mutandis”, l’attitudine della bambina >>; i sentimenti che si formano in questo periodo non sono dunque caratterizzati esclusivamente dall’affabilità e dalla tenerezza ma possono anche tramutarsi nell’odio più profondo, formando quel “complesso” che è inevitabilmente condannato ad una rapida censura. Questo particolare momento può essere efficacemente illuminato, secondo Freud, dal mito di Edipo, figlio del re di Tebe, che nella tragedia greca uccide suo padre e prende in moglie la propria madre; tenendo sempre presente di come le cose in realtà si articolano diversamente: nell’impossibilità di soddisfare il suo desiderio, il bimbo si assoggetta a quel competitore , il genitore di cui è geloso, e costui diviene il suo padrone interiore che nella figura di censore può far svanire la crisi edipica e contemporaneamente far emergere il senso morale da seguire. Dopo quanto detto è facile schematizzare la teoria dell’apparato psichico proposta da Freud. Questo è composto dall’ “Es” che è la sorgente dell’energia biologico-sessuale, e quindi la sede degli impulsi inconsci; dall’ “Ego” che è il rappresentante cosciente dell’ “Es”; ed infine dal “Super-Ego” che, come abbiamo visto sopra, nasce come interiorizzazione dell’autorità familiare e prosegue successivamente attraverso altre figure come per es.: educatori, insegnanti e modelli ideali, traducendo il Super-Ego “paterno” in Super-Ego “sociale”. Si può comprendere ora che L’Ego, punto di riferimento imprescindibile e prioritario del razionalismo occidentale, non gode di nessuna posizione autonoma e privilegiata, ma in verità si trova continuamente a dover commerciare tra le pulsioni aggressive dell’ “Es” e le proibizioni ( siano queste familiari o sociali ) morali del Super-Ego. In altri termini l’individuo è sottoposto a quella spinta biologico-sessuale che è regolata da due principi: quello del piacere e quello della realtà. Attraverso il principio del piacere queste pulsioni tendono a trovare un soddisfacimento immediato e totale, che però quel censore che è il principio di realtà riesce ad incanalare per altre vie come la produzione artistica, la scienza ecc. , quelle vie che Freud chiama le vie della civiltà. Ma il momento più pericoloso per l’uomo subentra quando le repressioni del principio di realtà sono cosi consistenti da impedire qualsiasi deviazione sostitutiva, costringendolo nella più totale nevrosi che è ben sintetizzata dalle stesse parole di Freud: “l’Io non è più padrone nemmeno in casa propria”. MARTIN HEIDEGGER: L’ESISTENZA DELL’ “IO” INTESA COME “VIVERE PER LA MORTE” Il lavoro filosofico dei pensatori sopra trattati non poteva rimanere nell’anticamera a lungo: tutto il pensiero del novecento, infatti, scopri irrimediabilmente l’affermarsi in modo radicale di quella crisi dell’io precedentemente non presa sul serio e quella vasta corrente filosofica contemporanea che si affermerà dopo la I guerra mondiale sotto il nome di Esistenzialismo non poteva non prendere le mosse dalla constatazione della grande crisi dell’Hegelismo come orizzonte epocale del pensiero. Martin Heidegger, che di questa corrente è uno dei maggiori rappresentanti, cominciava la sua opera che lo avrebbe reso noto al panorama filosofico, cioè Essere e Tempo, denunciando l’inadeguatezza da parte della metafisica tradizionale di poter pervenire alla verità attraverso l’identificazione della categoria dell’essere con quella della semplice presenza o per usare un termine più tecnico con l’oggettività. Era questo, dunque, il problema da cui Heidegger prendeva le mosse: quello dell’incomprensione da parte del pensiero del senso dell’essere in generale. Problema che è importante sottolineare fin d’ora non era quello dei filosofi precedentemente trattati ma che nonostante tutto lo condurrà ad esaminare una tematica tanto cara soprattutto a Kierkegaard: quella dell’esistenza, della condizione umana, che Heidegger valuterà come il percorso più originario per poter pervenire ad una comprensione dell’essere in generale. Se infatti la metafisica ha sempre voluto presupporre un Ente ( Dio, il Soggetto Assoluto ecc. ) in forza del quale si poteva dare ragione di ogni realtà era dunque opportuno in primo luogo sbarazzarsi di qualsiasi categoria data per certa anticipatamente, e dunque partire da quella condizione umana più irriducibile alle astrattezze dei concetti. Come lo stesso Heidegger ci dice in ogni problema è possibile distinguere: 1. ciò che si domanda, 2. ciò a cui si domanda, 3. ciò che si trova domandando, e in questo senso c’è un cercato ( l’essere ), un ricercato ( il suo senso ) e un interrogato presso cui si cerca. Questo interrogato non può però essere un ente qualsiasi, o per dirla con Heidegger una semplice presenza oggettiva; gli enti infatti possono essere molti: vegetali, animali, cose ecc. ma solo l’uomo può vantare un rango primario per fungere da interrogato, solo l’uomo proprio perché è l’unico ad essere originariamente aperto alla comprensione dell’essere. Heidegger precisando questa cruciale posizione dell’uomo dirà che dal granello di sabbia a Dio gli enti <<sono>> ma non <<esistono>>, non sono aperti, cioè, a quella originaria manifestazione dell’essere. Dire questo, signica intendere il termine ex-sistere nel suo senso etimologico, cioè come star fuori, oltrepassare la realtà semplicemente-presente in direzione della possibilità, con tutto quello che questo termine implica. La differenza radicale che separa il modo di essere dell’uomo da quello delle cose va ricercato dal punto di partenza, i caratteri dell’uomo non saranno quindi l’insieme delle <<proprietà>> che determinano la sua realtà poiché la sua natura è quella di poter essere, dunque quella di non avere una natura o un’essenza. Giunti a questo punto si può capire benissimo che l’esistenza, come luogo esclusivo dell’uomo, non può essere considerato come il luogo occasionale del problema del senso dell’essere in generale, ma la condizione costitutiva della sua possibilità. In parole più semplici non ci può essere problema dell’essere se non c’è l’esistenza. Heidegger chiama più propriamente la situazione dell’uomo con il termine Da-sein , che può essere tradotto in italiano col termine esserci, dove appunto il ci sta ad indicare la situazione concreta dell’uomo intesa sempre in maniera dinamica, come appunto temporalizzazione, che Heidegger chiamerà con il termine progetto. Rapportarsi col mondo significherà allora in primo luogo progettare, l’uomo è nel mondo sempre come ente che si rapporta alle proprie possibilità, e in questo senso incontra le cose inserendole in un progetto, cioè assumendole come strumenti. In questo modo Heidegger riusciva a prendere egregiamente congedo da quel modo abituale di vedere di un certo tipo di filosofia che concepiva l’uomo come occhio puro e distaccato di un mondo totalmente <<oggettivo>>, cioè un mondo di cose in sé che l’uomo aveva la facoltà di spiegare, mostrando che l’in sé delle cose altro non è che un’operazione dell’uomo effettuata in vista di certi scopi, quindi una forma derivata dall’utilizzabilità delle cose che resta la modalità originaria del loro darsi. Ma lo strumento non può mai considerarsi isolato, esso è caratterizzato dal fatto che rimanda ad una totalità di strumenti all’interno della quale si definisce; nel rimando sorge il significato. Essere-nel-mondo non significa esclusivamente avere a che fare con una totalità di cose e strumenti , ma anche avere a che fare con una totalità di significati. Se è dunque vero che essere-nel-mondo significa essere originariamente aperti a una totalità di significati un altro tratto costitutivo dell’esser-ci sarà dunque la comprensione; dove con questo termine non si deve intendere il classico rapporto tra soggetto conoscente e oggetto conosciuto, ma quell’apertura al senso che viene prima di ogni significato specifico e particolare. Da questo momento in poi può emergere in tutta la sua chiarezza una prima conclusione che gioca un ruolo decisivo nel pensiero Heideggeriano: il fatto ,cioè, che ogni situazione teorico-conoscitiva non sorge a partire da una condizione di autosufficienza del pensiero stesso ( quindi da una priorità dell’Io, secondo il principio di un sapere assoluto ) come la filosofia ha sempre ritenuto, ma a partire da una condizione che Heidegger chiama situazione affettiva ( gioia, dolore, noia, angoscia ecc. ) in cui l’uomo inequivocabilmente si trova, al di là di qualsiasi verità formale, e che costituisce quella <<prensione>> più originaria da cui deriva la <<comprensione>> stessa del mondo. Procedendo per questa via il famoso Io puro di Kantiana memoria, cioè una soggettività non contaminata dalla disposizione emotiva, veniva totalmente decostruito, proprio perché la situazione affettiva non dipende dall’esserci ( che in questo caso è come se fosse gettato ), ma siccome condiziona la comprensione del mondo ne consegue che il mondo è qualcosa che sfugge nei suoi fondamenti. La finitezza umana, dopo Kierkegaard, emerge di nuovo con Heidegger in tutta la sua drammaticità, e in tutta la sua opposizione all’Hegelismo che aveva concepito l’uomo come un puro occhio sul mondo da nulla condizionato. Il fatto che l’uomo si trovi gettato nel mondo porterà Heidegger ad analizzare altre due importanti questioni: quella dell’esistenza inautentica e quella dell’esistenza autentica. La preliminare comprensione che l’uomo effettuerà del mondo sarà determinata dalla modalità acritica e irriflessa di comprenderlo che è esplicitamente indicata dal modo <<comune>> di vedere e giudicare le cose; Heidegger chiama questo modo comune di vedere le cose col nome <<Si>> e con queste parole lo illustra: << Ce la spassiamo e ci si diverte come ci si diverte ; leggiamo, vediamo e giudichiamo di letteratura e di arte come si vede e si giudica. Ci teniamo lontani dalla “gran massa” come ci si tiene lontani, troviamo “scandaloso” ciò che si trova scandaloso. Il Si, che non è un esserci determinato, ma tutti ( non però come somma ) decreta il modo di essere della quotidianità >>. Si tratta in termini più semplici di un’esistenza inautentica che sottostà all’assioma << la cosa sta così perché così si dice >>, quella che si appresa dal modo << comune >> di considerare le cose in cui l’esserci, venendo al mondo, s’è trovato. Per l’esserci “gettato nel mondo” la comprensione anonima del Si è inevitabile, e questo conduce Heidegger ad affermare che << in essa e da essa >> si realizza ogni comprensione genuina, ma poi aggiunge che essa rappresenta lo sfondo dal quale il progetto del singolo ha bisogno di staccarsi. Staccandosi, l’esserci realizza un’esistenza autentica, nel senso che fa un’esperienza << propria >> ( il termine autenticità tradotto in tedesco si dice Eigentlichkeit, dove appunto l’aggettivo eigen vuole dire << proprio >> ) delle cose e, facendola, se ne appropria rapportandosi direttamente ad esse. Questo rapportarsi Heidegger lo chiama << cura >>, che vuol dire in primo luogo assumersi responsabilità di fronte alle cose, cioè di rispondere ad esse in modo proprio. Assunta la modalità di progettare in modo proprio l’esserci, che è appunto poter-essere, si imbatte in un’altra questione problematica: tutte le scelte del poter-essere sono in fondo tutte equivalenti: posso scegliere di impegnare la mia vita allo studio, all’arte, al lavoro ecc. e alla fine decidermi per una di esse finendo però sempre al livello del mondo e delle cose. C’è tuttavia una possibilità diversa dalle altre a cui l’uomo non può sfuggire: si tratta della morte. Posso decidere di non studiare di non mangiare ecc., ma non posso decidere di non morire, la morte come possibilità permanente ci dice Heidegger è la possibilità che tutte le altre possibilità divengano impossibili; ma è ancora più importante sottolineare il fatto che essa è la più propria e quindi la più autentica in quanto tocca l’esser-ci nel suo stesso << Ci >>, mentre ogni altra possibilità si colloca all’interno dell’essenza progettuale dell’esserci come suo di modo determinarsi. La morte in parole più semplice è quella possibilità che coglie la mia singolarità, ossia il mio essere proprio, nel modo più radicale poiché nessuno può fronteggiare la mia morte al mio posto. Come possibilità << più autentica >> e << più propria >> lungi dal chiudere l’esserci, la morte può aprirlo alle sue possibilità più autentiche se, invece di essere assunta come un fatto ineluttabile, viene anticipata come ciò che possibilizza le possibilità, come ciò che le fa apparire veramente tali, per cui l’esserci, invece di irrigidirsi in una delle sue possibilità, assume se stesso come un perenne poter-essere. Solo la coscienza della nullità di ogni progetto, solo questo può far pervenire l’uomo alla sua condizione più autentica e originaria, quella del suo essere per la morte, che lungi dal far irrigidire l’uomo ai suoi progetti fonda la drammatica storicità e nullità della sua esistenza. È questo potremmo dire il nocciolo teoretico forte della riflessione esistenzialistica di M. Heidegger, nocciolo che per la complessità e profondità delle tematiche che esso implica non fa altro che mettere in evidenza la maturità e l’ineludibilità che il problema della crisi dell’io ha assunto in epoca contemporanea. Bruno Caracciolo