Le effigi "da vestire". Note antropologiche

VIRGO GLORIOSA: PERCORSI DI CONOSCENZA, RESTAURO E
TUTELA DELLE MADONNE VESTITE
Atti del Convegno organizzato in occasione di Restauro 2005 - Salone dell’Arte del restauro e
della Conservazione dei Beni Culturali e Ambientali, Ferrara 9 aprile 2005
Le effigi “da vestire”. Note antropologiche
Elisabetta Silvestrini
Le effigi religiose “da vestire” rappresentano un oggetto di studio di natura
complessa, nel quale si intersecano aspetti e contenuti diversi, e talvolta in conflitto tra
loro. Nell’ambito del cattolicesimo italiano ed europeo, le effigi religiose “da vestire”
appartengono alla storia delle religioni e alla storia della devozione, alla storia sociale ed
economica, alla storia dell’arte, all’antropologia; in quanto oggetti polimaterici, offrono,
come è stato giustamente sottolineato, e come testimonia l’organizzazione del convegno
Virgo Gloriosa, anche una importante occasione di lavoro e di riflessione nell’ambito
dei temi della conservazione e del restauro.
Tra i più rilevanti aspetti antropologici che riguardano questo argomento1, non si
può non considerare, in primo luogo, il tema dell’antropologia del simulacro. Non è
possibile ovviamente, in questa sede, ripercorrere la millenaria discussione teologica e
gli eventi storici che, nell’ambito del cattolicesimo, hanno contrassegnato il rapporto tra
divinità, corpi dei santi e loro reliquie, e simulacri, fino a giungere al tema degli oggetti
a contatto con il corpo della divinità o con i simulacri – particolarmente le vesti, che in
antropologia rappresentano una estensione del corpo ed una sede dove si trasferiscono,
appunto per contatto, le proprietà di quest’ultimo.
Come è noto, nella storia del cattolicesimo le immagini ed i simulacri hanno avuto, nel
tempo, valori e ruoli diversi: dalla funzione comunicativa e dal valore pedagogico, tipici
soprattutto del periodo medievale e della Controriforma, si è via via manifestata nella
Chiesa ufficiale la contrazione di questa funzione pedagogica, con la promozione, a
1
I temi di interesse antropologico che, in questo intervento, vengono brevemente riassunti sono stati trattati con maggiore
ampiezza in E.Silvestrini, Abiti e simulacri. Itinerario attraverso mitologie, narrazioni e riti, in R.Pagnozzato (a cura di),
Donne, Madonne, Dee. Abito sacro e riti di vestizione, gioiello votivo, “vestitrici”: un itinerario antropologico in area
lagunare veneta, Padova, Il Poligrafo, 2003, pp. 15-65. Si vedano anche, per le tematiche antropologiche e storicoartistiche, R.Pagnozzato, Madonne della Laguna. Simulacri “da vestire” dei secoli XIV-XIX, Roma, Istituto per
l’Enciclopedia Italiana, 1993; E. Silvestrini, Simulacri “da vestire”. Cultura materiale, antropologia dell’abbigliamento,
antropologia dell’immagine, in I. Benga - B. Neagota (a cura di), Religiosità popolare tra antropologia e storia delle
religioni, Cluj-Napoca (Romania), Presa Universitară Clujeană, 2002, pp.321-326; M.Albert-Llorca, Les Vierges
miraculeuses. Légendes et rituels, Paris, Gallimard, 2002; P.Refice-V.Conticelli-S.Gatta (a cura di), Madonnine
agghindate. Figure devozionali vestite dal territorio di Arezzo, Edizione a cura della Soprintendenza BAP-PSAE per la
Provincia di Arezzo, Città di Castello, 2005; S. Glori-P.Santoni (a cura di), La devozione dei laici. Confraternite di Roma e
del Lazio dal Medioevo ad oggi, “Erreffe” (La Ricerca Folklorica), 52 (ottobre 2005), in particolare i saggi di Marcello
Arduini, Franca Fedeli Bernardini, Amarilli Marcovecchio, Elisabetta Silvestrini; C.Galassi (a cura di), Sculture da vestire.
Nero Alberti da Sansepolcro e la produzione di manichini lignei in una bottega del Cinquecento, Electa, 2005.
partire dall’Ottocento, di un accesso alla divinità più spirituale e più meditato. A partire
da questo periodo, si afferma sempre più una cesura tra la concezione spiritualistica
della religione, da un lato, e la “devozione”, dall’altro, quest’ultima considerata come
una pratica religiosa secondaria e quasi superstiziosa. In antropologia la devozione
rappresenta invece un tema molto importante, perché rivelatore della relazione personale
e diretta che i fedeli attuano nei confronti della divinità e dei santi; il rapporto volontario
e personale è, tuttavia, culturalmente condiviso, e incanalato in una dimensione culturale
anche quando sembra avere carattere individuale. Nella letteratura antropologica, inoltre,
il simulacro della divinità viene definito come un oggetto intermedio, una soglia, tra la
realtà terrena e la realtà divina2; ne consegue, quindi, che molto importanti, sempre
nell’ambito della devozione, appaiano l’aspetto ed il meccanismo della visione. La
visione che i devoti praticano significa vedere, contemplare, venerare il simulacro;
significa anche utilizzare il sistema dei valori estetici culturalmente condivisi – non solo
e non tanto, dunque, dal punto di vista degli artisti, sempre innovatori, quanto dal punto
di vista dei fedeli. La visione dell’immagine religiosa, che può essere bidimensionale, o
tridimensionale3, implica il riferimento ad altre visioni, come l’apparizione ed il sogno,
che al di là delle istanze prettamente individuali – oggetto di studio, come sappiamo,
delle neuroscienze, della psichiatria e della psicanalisi – appartiene pienamente, negli
aspetti culturalmente condivisi, ai temi dell’antropologia. In questo ambito si pone
infatti il tema dello scarto tra la cultura visiva ed i valori estetici condivisi nella
comunità dei fedeli, da un lato, e l’estetica che appartiene agli artisti o ai responsabili
della chiesa locale, dall’altro: le differenze nei valori estetici si manifestano, ad esempio,
nel caso in cui i simulacri deteriorati, o ritenuti inadatti al culto, vengano sostituiti;
oppure si possono agevolmente analizzare le differenze tra le tendenze dell’arte religiosa
contemporanea, ed i valori estetici cari alle comunità tradizionali, tra i quali l’amore per
le stoffe elaborate, per i metalli preziosi, per lo scintillìo dell’oro e dell’argento, che
richiamano simbolismi profondamente stratificati nell’immaginario collettivo. Il forte
sentimento di identità – religiosa ma anche territoriale – che viene suscitato dai
simulacri più venerati trova conferma, nella storia delle guerre europee, nei numerosi
episodi di furto e sottrazione delle effigi di culto, da parte degli eserciti vittoriosi, o, al
contrario, nella consuetudine di nascondere, talvolta sotterrare, le statue, da parte delle
comunità dei vinti, per impedirne il saccheggio. Ancora, quel tanto di potenza divina che
si riteneva profuso nel simulacro – e ne abbiamo ampia testimonianza nei
comportamenti cerimoniali dei devoti, che in occasione delle feste e delle processioni
usavano toccare il simulacro con le mani, con il corpo, o con oggetti quali fazzoletti o
altro - si espandeva inevitabilmente anche alle sue vesti: così si ritrova, in diversi
esemplari di Madonne “da vestire”, un culto del mantello, della veste, della cintura,
2
Si veda F.Faeta, Introduzione e “Mirabilis imago. Simboli e teatro festivo, in Id., Il santo e l’aquilone. Per un’antropologia
dell’immaginario popolare nel secolo XX, Palermo, Sellerio, 2000, pp.17-58.
3
A proposito del diverso rapporto di visione e di contemplazione tra immagine bidimensionale e immagine tridimensionale si
veda A. Dupront, Il sacro. Crociate e pellegrinaggi. Linguaggi e immagini, Torino, Bollati-Boringhieri, 1993, pp.102-148.
oggetti di per sé già carichi di simbolismi stratificati nella cultura del cattolicesimo. In
diverse situazioni, come ad esempio nel caso della Madonna del Carmine di Trastevere a
Roma, piccoli pezzi del mantello venivano asportati dai fedeli, nel corso della
processione, e tenuti in casa come preziose e taumaturgiche reliquie; per quanto riguarda
la cintura, invece, si può segnalare la cintura dell’abito della Madonna delle Grazie di
Artena (RM), che in occasione della festa viene ricoperta di gioielli. Altri temi
significativi riguardano, come è noto, gli aspetti della vestizione: vestizione che veniva
eseguita in modo completo, o quasi, nei confronti della statua tridimensionale, ma che
poteva riguardare anche le immagini bidimensionali, come applicazione di stoffa sulla
superficie delle immagini stesse, o come “rivestimento” di gioielli4. Il culto tributato ai
simulacri non può prescindere, infine, dal tema del dono, che nel caso delle effigi “da
vestire” acquista nuovi e particolari significati. I doni alla divinità non sono sempre di
carattere votivo: se in molti casi essi costituiscono il ringraziamento per una grazia
ricevuta, o una offerta che accompagna, invece, una richiesta di grazia, per Gian Paolo
Gri5 i doni ai simulacri possono essere considerati come una forma di “preghiera
materializzata”, il desiderio dei fedeli di mettersi in un rapporto di devozione personale e
diretta con la divinità, l’intenzione di “votarsi” al santo. Nel rapporto personale, quasi
una identificazione, che i devoti instaurano nei confronti della divinità rientra anche la
donazione di vesti usate personalmente: nel Settecento è stata molto diffusa, tra le donne
nobili e devote, la consuetudine di donare ai simulacri della Vergine abiti di gala
indossati nelle cerimonie e nelle feste da ballo; talvolta la donazione, parte di un legato
testamentario, era accompagnata dalla richiesta di poter indossare, per la sepoltura, abiti
monacali o comunque molto semplici6. La donazione di abiti di gala alle effigi della
Vergine presenta diversi aspetti e significati: si trattava del dono di un oggetto
intrinsecamente prezioso, per il tessuto, la confezione, i ricami; era un modo per votarsi
alla divinità ed identificarsi con essa; poteva costituire, infine, un atto penitenziale, di
rinuncia ai piaceri e di preparazione alla morte. In ogni caso, gli abiti da ballo donati
dalle nobildonne venivano riadattati, con l’aggiunta di passamanerie e di ricami, perché
potessero essere più consoni ad una utilizzazione in ambito religioso e liturgico.
La consuetudine di donare alle effigi “da vestire” abiti festivi o cerimoniali è,
comunque, documentata anche in tempi più recenti. A Taverna (CZ), come nei centri
vicini di Maranise e Sorbo, era uso tradizionale che subito dopo le nozze la sposa,
anziché allontanarsi, come avviene oggi, nel consueto viaggio di nozze, restasse chiusa
in casa per sette giorni, e ne uscisse il giorno successivo con indosso un abito speciale,
festivo, detto “abito degli otto giorni”. Si ha testimonianza che una devota, all’inizio del
Novecento, abbia donato all’effigie della Madonna Addolorata, posta nella chiesa di
4
Come esempi di effigi tridimensionali che appaiono “rivestite” di gioielli si vedano il Gesù Bambino dell’Aracoeli a Roma,
purtroppo trafugato, o la Madonna di Loreto di Surbo (LE).
5
G.Gri, Ori e Madonne. I gioielli votivi dei simulacri “da vestire” veneziani, in R.Pagnozzato, Donne Madonne Dee,
op.cit., pp.67-97.
6
Si veda R. Pagnozzato, Madonne della Laguna, op.cit.
Santa Barbara a Taverna, il suo “abito degli otto giorni”, e che questo abito, di colore
nero, sia stato fatto indossare all’effigie stessa7.
Il dono esprime, inoltre, anche la volontà di “arricchire” e valorizzare l’effigie:
come afferma Gian Paolo Gri, si tratta di una dotazione: il simulacro viene “dotato”
come una sposa, o come una figura della regalità – un re, una regina, un imperatore -, in
altre parole riceve un patrimonio in vesti, in gioielli, indispensabili al suo ruolo di figura
che rappresenta la comunità e il territorio. In questa dimensione si spiegano, pertanto, le
dotazioni collettive, cioè le offerte dei devoti finalizzate a dotare il simulacro di una
nuova corona, di un nuovo abito, di gioielli.
Il tema dell’identità territoriale si può manifestare anche in alcuni aspetti
apparentemente marginali, come, ad esempio, i materiali costituitivi dell’effigie: la
statua di Notre Dame de l’Assomption8, nella Cattedrale di San Michele e Santa Gudula
a Bruxelles, è rivestita interamente di un abito di merletto, inequivocabile riferimento
alla produzione di trine di Bruges, e di altre località del Belgio.
Effigi rappresentative della comunità e del territorio sono anche, come è noto, le
statue collocate all’aperto nelle piazze, utilizzate come portavoce di pensieri e sentimenti
condivisi, oppure vestite, ornate, fatte partecipi di importanti avvenimenti collettivi. A
Roma le statue di Pasquino nella piazza omonima, e quelle di San Pietro e di San Paolo
a Ponte Sant’Angelo comunicavano le opinioni e la satira dei romani non solo attraverso
disegni e testi scritti su fogli, ma anche attraverso abiti in tessuto, adattati alle statue
secondo le circostanze, e tali da sottolineare, in maniera teatrale e più efficace, i
contenuti di quanto si intendeva comunicare.
Una effigie particolarmente rappresentativa da questo punto di vista è la nota
immagine del Manneken Pis, una statua in bronzo del XVII secolo, raffigurante un
bambino intento ad urinare, e collocata al centro di una fontana, nei pressi della GrandPlace a Bruxelles9. Dalla fine del Seicento è documentata l’offerta di abiti, per il
Manneken, da parte di sovrani, dignitari, ambasciatori in visita nella città, in segno di
omaggio alla figura che la rappresenta; attualmente gli abiti, alcuni dei quali piuttosto
moderni, sono più di seicento, e sono conservati all’interno del Museo Civico. La storia
della fontana e della statua del Manneken è costellata di rifacimenti e di sostituzioni, di
furti e ritrovamenti, che testimoniano quanto rilevante sia stata, almeno in passato, la
loro rappresentatività civica e territoriale. Della fontana è documentata l’esistenza fin dal
periodo medievale, e, secondo la tradizione, nei giorni di festa ne veniva fatta sgorgare
la birra. L’esistenza di una statua del Manneken è citata già nel Cinquecento, anche se
due successive statue di bronzo vengono commissionate nel Seicento, esattamente nel
1619 a Jerome Duquesnoy il Vecchio, e nel 1639 a Jacques Van den Broeck. Nelle
vicende della storia militare compaiono diversi episodi, nei quali la statua venne
7
Testimonianza di Nicola Cua, di Maranise di Taverna (CZ).
Il culto di Notre Dame de l’Assomption risale, con una prima effigie, al 1333; l’attuale statua è del 1592.
9
Le notizie sulla storia, le leggende e gli abiti del Manneken Pis sono state desunte dalle guide didattiche del Museo Civico
di Bruxelles.
8
nascosta agli invasori, come nel 1695 quando il Maresciallo di Villeroy prese possesso
di Bruxelles, o venne trafugata: nella metà del Settecento, da parte di alcuni soldati
inglesi durante la guerra di successione austriaca; nel 1747, quando i granatieri francesi
arrivati con l’armata di Luigi XV rubarono la statua, ma il re francese si preoccupò di
farla restituire, e donò alla Città di Bruxelles un abito per il Manneken; nel 1817, per
iniziativa personale di un certo Antoine Lucas; nel Novecento, in diverse occasioni.
Intorno al Manneken Pis sono fiorite numerose narrazioni leggendarie,
strettamente legate alle agiografie di San Vindicien e di Santa Gudula. In una di queste,
il vescovo San Vindicien venne invitato a Bruxelles dal signore della regione, affinché
con le sue preghiere potesse intercedere per lui per la grazia di un erede. Dopo nove
mesi nacque un bambino, il cui primo atto fu quello di urinare così forte da bagnare la
barba di Vindicien; e così il bambino fu chiamato Manneken Pis. Secondo la narrazione,
accadde poi che Gudula, che era stata scelta come madrina per il battesimo, di ritorno al
castello trovò sulla soglia il padre del bambino, che si era innamorato di lei. In un primo
momento Gudula gli diede il benvenuto, ma quando scoprì le sue intenzioni la futura
santa dichiarò: “Il tuo unico figlio non diventerà mai grande e non smetterà mai di
urinare!”. Altri miti che spiegano l’origine della statua: in una battaglia avvenuta nel XII
secolo, un bambino nella culla avrebbe infiammato l’esercito; nel periodo delle Crociate,
un bambino figlio dei conti di Hove avrebbe urinato davanti alle truppe, e la statua
sarebbe stata realizzata con il fine di offrire un simbolico risarcimento; un bambino
perso successivamente ritrovato sarebbe stato ritratto nell’effigie; una strega avrebbe
operato un maleficio su di un bambino, che sarebbe stato condannato ad urinare per
sempre, ma un vecchio mago buono avrebbe salvato il bambino e lo avrebbe sostituito
con una statua.
La raccolta degli abiti donati all’effigie del Manneken Pis è costituita di numerosi
esemplari moderni; ma gli abiti storici testimoniano del fatto che il dono degli abiti
fosse, in passato, un privilegio delle persone di alto rango. Il primo abito di cui si abbia
documentazione è quello offerto, nel maggio del 1698, da Massimiliano Emanuele,
Elettore di Baviera e Governatore d’Olanda, che in occasione di una festività donò alla
statua un mantello di lana blu. Altri abiti di cui si abbia documentazione storica sono
stati rispettivamente donati da Luigi XV, nel 1747, dal prussiano Barone di Katte, nel
1814, dalla Guardia Civile, nel 1830. Nel 1756 i tesorieri e gli esattori delle tasse di
Bruxelles incaricarono Henri Wauters di vestire e svestire il Manneken quattro volte
all’anno, in occasione delle principali feste della città; a questa data risale il primo
inventario del suo guardaroba. Anche oggi alla statua vengono fatti indossare gli abiti in
alcune date specifiche, tra le quali il 6 aprile, in ricordo dell’entrata degli Stati Uniti
d’America nel secondo conflitto mondiale.
Queste brevi note sulla storia e sulle narrazioni leggendarie che riguardano la
statua del Manneken Pis testimoniano della persistenza di temi culturali relativi al dono
delle vesti ed alla vestizione delle effigi, anche al di fuori della cultura religiosa del
cattolicesimo, negli ambiti civili e municipali di una comunità. Dal punto di vista
antropologico, inoltre, sembrano immediati i riferimenti sia ai comportamenti
devozionali nei confronti dei simulacri di Gesù Bambino – il più noto tra tutti è
certamente il Gesù Bambino di Praga -, con il dono delle vesti e la vestizione, sia ai
materiali leggendari, ampiamente diffusi in area europea, nei quali compare un bambino
che appena nato opera prodigi, parlando per risolvere una situazione rischiosa - in
genere una accusa infamante rivolta alla madre -, o, come in questo caso, per spronare al
coraggio ed al valore l’esercito.
Elisabetta Silvestrini
Soprintendenza PSAE del Lazio,
Piazza San Marco 49, 00186 Roma e
Via Cavalletti 2, 00147 Roma
Università Ca’ Foscari di Venezia
Tel. uff. 06 69624244
Cell. 349 6995203
Fig 1 Madonna di Loreto di Surbo (LE)
Fig 2 Notre Dame de L’Assomption. Bruxelles (Belgio), Cattedrale di San Michele
e di Santa Gudula.
Fig 3 Statua lignea, senza abiti, della
Madonna delle Grazie. Artena (RM).
Fig 4 Madonna delle Grazie rivestita di
abiti e con la cintura di gioielli. Artena (RM).
Fig 5 Madonna delle Grazie. Artena (RM),
primi anni del Novecento.
Fig 6 Madonna del Carmine di
Trastevere, nell’abito bianco donato in
occasione del Giubileo. Roma.
Fig 7 Madonna del Carmine di Trastevere,
in un trasporto processionale. Roma.
Fig 8 Madonna del Carmine di Trastevere.
Roma.
Fig 9 La fontana del Manneken Pils. Bruxelles (Belgio), secolo XIX. Incisione.
Fig 10 La fontana del Manneken Pils. Bruxelles (Belgio).
Fig 11 La statua del Manneken Pils.
Bruxelles (Belgio).
Fig 12 Il Manneken Pils in abito settecentesco. Bruxelles (Belgio), Museo
della Città.
Fig 13 Il Manneken Pils in abito da samurai.
Bruxelles (Belgio), Museo della Città.