Anna Maria Monteverdi, Nuovi media, nuovo teatro. Teorie e

Anno III– Numero 8
Anna Maria Monteverdi, Nuovi media, nuovo teatro. Teorie e pratiche tra teatro e
digitalità, Franco Angeli, Milano 2011, pp. 280
Nel corso del Novecento i linguaggi artistici hanno dovuto fare i conti con l’avvento della
televisione e del cinema che hanno ampliato a dismisura le possibilità di “riproducibilità
tecnica” del reale aprendo così a nuove modalità espressive ancora non esplorate,
sperimentate o note. E anche il teatro, proprio in quanto forma artistica, non si è potuto
sottrarre ad esse, anzi, per certi versi, è stato l’intrinseco bisogno del mondo teatrale
contemporaneo di rompere con un certo tipo di pratiche “tradizionali” a far sì che il teatro
abbia deliberatamente cercato se stesso fuori dal teatro, «separandosi dalle sue istituzioni
ufficiali per vagare in lungo e in largo oltre i suoi limiti, cercando modi e strategie per
dimenticarlo, liberarsi dai condizionamenti del già acquisito, ignorando strategicamente
tutto ciò che non apparteneva al proprio mondo»1.
Tuttavia, alla luce delle nuove tecnologie apparse ad oggi nel panorama mondiale,
questa è solo la preistoria perché, come ammette la stessa autrice, «il teatro ha assimilato
le nuove tecnologie e i nuovi media per utilizzarli con naturalezza (almeno apparente)
nelle diverse fasi della vita di uno spettacolo o di un progetto: nella fase ideativa,
attraverso la progettazione di computer aided di scene-spazio, luci e suoni; e, per quanto
riguarda i coreografi e in generale il movimento degli attori, attraverso software che
visualizzano il movimento umano nello spazio; durante le prove, attraverso le registrazioni
che permettono di fissare l’effimero gesto dell’attore; nella gestione di luci e suoni da parte
dei tecnici nel corso delle repliche; nell’uso (ormai invasivo e banalizzato) di proiezioni,
video e altre attrezzerie elettroniche in scena (l’irruzione tecnologica più evidente al
pubblico, ma certo non l’unica); nella promozione dello spettacolo (magari con un clip o un
promo inviato alla direzione di un teatro o di un festival, e naturalmente attraverso i siti
web); per documentare un allestimento, in vista di eventuali riprese»2.
Il testo di Anna Maria Monteverdi Nuovi media, nuovo teatro. Teorie e pratiche tra
teatro e digitalità, che raccoglie articoli, interventi e interviste dell’autrice sorti anche dalla
felice esperienza della rivista online «ateatro.it» nata nel 2001, cerca di ripercorrere le più
fruttuose sperimentazioni italiane e internazionali – come, ad esempio, Dumb Type, Studio
azzurro, Giardini Pensili, Fortebraccio teatro, Motus, Big Art Group, Robert Lepage,
Xlabfactory – esplorando le forme ibride e le proposte attraverso le quali la digitalità ha
fatto incursione non solo sul palcoscenico modellato dalla maestria del regista, ma anche
nella percezione sia dello spettatore sia dell’attore sconvolgendo assetti sociali ed estetici
e aprendo prospettive inedite per la messa in scena. Infatti, «il multimediale digitale
propone modalità tecniche ed espressive sia di rottura che di continuità: rottura
rappresentata dalla tecnologia di sintesi numerica, in base alla quale non c’è più un
rapporto generativo con la realtà materiale, e continuità con alcuni motivi cardine del
modernismo, tra i quali: l’unione dei linguaggi – anche quelli della tecnica –, la
1
V. Valentini, Dopo il teatro moderno, Giancarlo Politti Editore, Milano 1989, p. 8.
O. Ponte di Pino, Introduzione in A. M. Monteverdi, Nuovi media, nuovo teatro. Teorie e pratiche tra teatro
e digitalità, Franco Angeli, Milano 2011, p. 32.
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partecipazione allargata dell’evento spettacolare, la creazione di un ambiente dalla totalità
percettiva e sinestetica»3.
Ed è proprio a partire da questi tre Leitmotiv che l’autrice evidenzia un aspetto – nel
quale risiede forse la vera sfida dell’oggi – che è comune ad alcune di queste
sperimentazioni: l’interattività. Ovvero la creazione di contesti digitali performativi virtuali
che trasformano il palcoscenico in una piattaforma informatica in cui diversi agenti
possono operare contemporaneamente attraverso il coinvolgimento sensoriale del
pubblico e la mediazione tra performer e computer. Del resto, «l’estetica contemporanea
ha spostato il vedere dagli occhi al tatto nel senso che la percezione dell’immagine mette
in gioco oltre alla vista il tatto, per cui si ascolta con tutto il corpo»4. Pertanto, come
sostiene Anna Maria Monteverdi, lo spettatore a teatro non è più solamente testimone5,
ma partecipa alla messa in scena dal momento che, seguendo le parole di Gadamer,
«l’essere dello spettatore è determinato dal suo “assistere” allo spettacolo. Assistere è
qualcosa di più che il semplice trovarsi presente insieme a qualcosa d’altro. Assistere
significa partecipare. [F] Essere spettatore è dunque un modo autentico di partecipare»6.
Tuttavia, bisogna ricordare che per quanto immersiva possa essere, una realtà virtuale
non è mai una simulazione perfetta della realtà, è un’esperienza che certamente accade,
ma la cui qualità è profondamente diversa da ciò che possiamo classificare come “realtà
relazionale”.
Perciò, se, da un lato l’interattività riapre un dialogo – riconoscendo che un
processo di creazione e di informazione non è completo se non vi è l’assunzione di
responsabilità anche da parte del fruitore, il quale diviene non più solo spettatore, ma
produttore di esperienza7 – dall’altro, proprio perché accade un dialogo, non dobbiamo
dimenticarci di prendere in considerazione anche l’attore. Attore (o performer che sia) che
si presenta come corpo aumentato perché, attraverso le nuove tecnologie, si sta
praticando uno straordinario ampliamento della maschera teatrale e delle sue possibilità
espressive e sceniche, tanto da arrivare a chiedersi se esista davvero qualcosa che
differenzi l’attore in carne e ossa dalla supermarionetta digitale o dal suo doppio
elettronico. Anna Maria Monteverdi afferma, infatti, che grazie ai nuovi media si possono
costruire infiniti mondi possibili, anche se qui una distinzione tra “virtuale” e “possibile”
pare doverosa: il primo riguarda l’attuazione del contenuto di una memoria digitale che
dipende, però, dall’interazione col fruitore, rimanda a una configurazione dinamica di forze
che hanno un’intrinseca tendenza a realizzarsi in forme non totalmente precostituite; il
secondo, invece, contiene in sé la possibilità della non attuazione, un’attuazione che
attende di essere realizzata e che dipende, non da terzi (nel caso del teatro, dal pubblico),
bensì dallo stesso soggetto agente (ovvero l’attore)8. Tali parole sembrano ricordarci come
3
A. M. Monteverdi, Nuovi media, nuovo teatro, cit., p. 78.
V. Valentini (a cura di), Drammaturgie sonore. Teatri del secondo Novecento, Bulzoni Editore, Roma 2012,
p. 21.
5
Cfr. J. Grotowski, Per un teatro povero, Bulzoni Editore, Roma 1970.
6
H. Gadamer, Verità e metodo, Bompiani, Milano 1983, p. 157.
7
Cfr. P. Rosa, Rapporto confidenziale su un’esperienza interattiva, in S. F. Cirifino, P. Rosa, L. Sangiorgi (a
cura di), Studio Azzurro. Ambienti sensibili. Esperienze tra interattività e narrazione, Electa, Milano 1999.
8
Per un maggior approfondimentodi questo confronto tra le categorie di “virtuale” e “possibile” e, più in
generale, del loro rapporto con il reale, si rimanda a R. Diodato, Estetica del virtuale, Bruno Mondadori,
Milano 2005.
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la distinzione ontologica tra uomo e macchina si giochi ancora una volta nel campo, non
solo dell’intenzionalità, del lógos e della responsabilità, ma anche della libertà9.
Pertanto, sebbene l’autrice stessa manifesti l’esigenza, avvertita come pericolo
teoretico, di tener conto quanto le tecniche possano avere un impatto sulle estetiche, il
volume si presenta a tratti compilativo, soffrendo a volte di mancata problematizzazione
delle categorie filosofiche, estetiche e teatrali messe in campo. L’autrice cita
sapientemente – e ciò è dimostrato anche dalla ricca sezione bibliografica che chiude il
volume – correnti, teorie e pratiche che a partire dal Nuovo Teatro10 del secondo
Novecento si sono diffuse, dapprima, in Europa e, successivamente, negli Stati Uniti,
tuttavia la ricognizione storica dell’attuale stagione tecno-teatrale non è sufficiente. La
questione non sta nello stabilire se abbia ragione Arnold Aroson che vede nella tecnologia
il fattore di declino del teatro di ricerca11, oppure Georges Banu secondo il quale la
resistenza al tecnologico sia destinata a fallire12, piuttosto bisogna cercare di comprendere
la natura di queste realtà ibride e liminali che, attraverso l’utilizzo dei nuovi media,
vengono a crearsi a teatro, analizzando quando i nuovi dispositivi digitali cessano di
essere semplici strumenti e diano vita, invece, a una nuova e possibile configurazione
estetica. Dobbiamo indagare non solo le dinamiche di questi scambi e contaminazioni tra
teatro e digitalità, ma soprattutto dobbiamo “renderne ragione” altrimenti allontaniamo una
volta per tutte il teatro stesso dal raggiungimento di quella dignità estetica che da sempre
rincorre. Rischiamo, come accade a Brenda Laurel, di confondere il computer con una
vera e propria rappresentazione drammatica13 semplificando alcune problematiche della
pratica teatrale tipiche del processo di fruizione e di creazione. Oppure, ancora, di credere
con Svoboda che la tecnica sia capace di azione drammatica14 dimenticando la profonda
differenza tomista tra actus hominis e actus umani. Si tratta, invece, di andare ad indagare
le somiglianze di famiglia15.
Perché se, come afferma Walter Benjamin, «ciò che vien meno nell’epoca della
riproducibilità tecnica è l’aura dell’opera d’arte. [F] La tecnica della riproduzione, così si
potrebbe formulare la cosa, sottrae il prodotto all’ambito della tradizione. Moltiplicando la
riproduzione, essa pone al posto di un evento unico una serie quantitativa di eventi»16,
allora il problema risiede proprio nella determinazione qualitativa di queste serie
quantitativa di eventi.
Forse la questione è posta bene dal regista Richard Schechner in Restored
behaviour17 il quale, già prima dell’avvento della digitalità, aveva compreso come il
9
Cfr. G. Bertagna, Dall’educazione alla pedagogia. Avvio al lessico pedagogico e alla teoria dell’educazione,
La Scuola, Brescia 2010.
10
Cfr. M. De Marinis, Il nuovo teatro, Bompiani, Milano 2000.
11
Cfr. A. Aroson, American Avant-guarde theatre: a history, Routledge, New York, London 2000.
12
Cfr. G. Banu, Théâtre et tecnologie ou Celui qui dit oui/celui qui dit non, in «Du théâtre», n. 10.
13
Cfr. B. Laurel, Computer as theatre, Addison Wesley, New York 1991.
14
Cfr. J. Svoboda, I segreti dello spazio teatrale, Ubulibri, Milano 1995.
15
V. Valentini, Teatro in immagine. Eventi performativi e nuovi media, Bulzoni Editore, Roma 1987, p. 17.
16
W. Benjamin, Das Kunstwerk in Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit [1955], trad. it. a cura di
E. Filippini, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Arte e società di massa [1966], Einaudi,
Torino 2000, p. 23.
17
R. Schechner, Restoration of Behaviour, in «Visual Communication», vol. 7, n. 3, 1981. Il saggio fu poi
revisionato con una terza stesura inedita nel 1983. Tr. it. a cura di V. Valentini, Sul recupero di
comportamenti passati, in R. Schechner, La teoria della performance: 1970-1983, Bulzoni Editore, Roma
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rapporto tra autentico e recuperato (o riprodotto) si giocasse in una zona liminale nella
quale non troviamo fissità, ma plasticità, nella quale non si ha riproduzione dell’identico,
bensì di qualcosa che a suo modo è unico, di un’unicità che non è certo l’unicità del fare
artistico o dell’opera con aura.
Mabel Giraldo
(Scuola internazionale di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro Università degli Studi di Bergamo)
1984, p. 213 (questa è una versione rivisitata di una precedente traduzione a cura di R. Bianchi, Ripristino
Comportamento, in «Quarta Parete», Tirrenia Stampatori, pp. 67 e ss).
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