NOTA al n. 7 di PLEXUS:
contemporaneità
di Giacomo Di Marco2
Forme
del
patire
d/nella
Nella lettura degli articoli che costituiscono la parte monografica del
n° 7 della rivista Plexus Forme del patire d/nella contemporaneità ho
trovato con piacere conferma
e consonanza con tante mie
considerazioni e riflessioni sullo stato attuale della cura della
sofferenza psichica.
È ormai sufficientemente chiaro che la crisi di paradigmi e di
metodologie di intervento nelle istituzioni deputate alla cura della
sofferenza psichica, e più in generale ogni discorso istituzionale,è
pesantemente condizionata dall’orizzonte culturale e sociale in cui si
iscrive.
Gli articoli presentati fanno, infatti, tutti riferimento ad un mutato
quadro socioculturale, caratterizzato non tanto e non solo da una
nuova e complessa suddivisione degli spazi di cura, con implicito il
rischio di una frammentazione e dispersione degli interventi, quanto
dalla sconcertante scoperta di una perdita e/o trasformazione dei
parametri fondamentali dell’esperienza dello spazio e del tempo:
 la globalizzazione con la perdita del confine, del limite che
segna e rende funzionali le appartenenze;
 la scomparsa del futuro per l’affermarsi di un regime temporale
di tipo presentista.
Sociologi e antropologi della contemporaneità hanno da tempo
stigmatizzato, in slogan fortunati, le caratteristiche socioculturali della
nostra epoca: “Società liquida”,”uomo flessibile” “società dei non
luoghi e dei non tempo”, “uomo senza inconscio”, “uomo
prestazionale”, e indicato la complessità come orizzonte in cui si
iscrive ogni discorso e ogni pratica.
Ma come, questo mutato quadro socioculturale, condiziona e
trasforma sia la psicopatologia che la sua cura?
L’idea di una metamorfosi patografica non è nuova, anzi possiamo
dire che ogni epoca ha avuto la sua patologia emblematica.
Un testo illuminante che esplora il condizionamento della società
postmoderna nel determinare la patologia, per così dire, postmoderna
è stato per me il libro di Alain Ehrenberg La fatica di essere sé stessi
in cui, attraverso una serrata indagine sui rapporti tra società e
depressione, emerge un nuovo ruolo della depressione, che diviene
paradigma per la comprensione dell’uomo contemporaneo, non più
dominato dal conflitto ma dall’ansia narcisistica, cifra non più
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patologica ma espressione di un disagio interiore divenuto ormai
norma. In un’opera più recente La società del disagio. Il mentale e il
sociale, Ehrenberg allarga la sua ricerca esplorando appunto le
correlazioni tra mentale e sociale nella contemporaneità, attraverso
un confronto tra due modelli, il francese e l’americano: dalla sua
analisi emerge chiaramente come i valori predominanti nelle
rispettive scene socioculturali determini forme diverse di espressione,
di rappresentazione, di lettura e terapia della sofferenza psichica.
La principale differenza riguarda, partendo da un comune prevalere
dell’individualismo, il valore che viene assegnato all’autonomia.
Ehrenberg
afferma in maniera sintetica come il concetto di
autonomia divide i francesi,mentre unisce gli americani, a sintetizzare
come la psicopatologia americana abbia sempre più valorizzato i
concetti di self, di autonomia, di emancipazione, mentre quella
francese il conflitto, la ricerca di equilibrio tra individuo e società. In
un momento storico in cui domina la globalizzazione sembra un
controsenso parlare di modelli in termini nazionalistici, ma è indubbio
che la psicopatologia italiana si è sempre mossa tra l’adesione a un
modello europeo e un modello americano, prevalendo in fine la scelta
di quello americano in quanto più consono al regime storico del
presenzialismo e della razionalizzazione economica, in special modo
per le ripercussioni istituzionali.
Cogliere adeguatamente il senso dei cambiamenti e
trasformazioni nelle istituzioni di cura, è difficile per la coesistenza di
vecchi e nuovi regimi di storicità, e per l’intreccio tra questioni
individuali e questioni sociali. Se il regime storico del futurismo
invitava a investire sul futuro come possibilità di realizzazione di
desideri(progetti) individuali e collettivi, il regime presentista lavora
invece per l’immediatezza edonistica. Sul piano della patologia
individuale la sofferenza sembra nascere non più dal tentativo di
rispondere alla domanda che cosa mi è permesso di fare?, ma a
quella sono capace di farlo?
Il regime storico del presentismo ha potuto operare progressivamente
una de-costruzione che non interessa solo gli aspetti organizzativi,
ma anche, come dicevo, quelli relativi al sapere psicopatologico.
L’obiettivo terapeutico, e di seguito la domanda, non è più la
ristrutturazione della personalità, ma la gestione burocratica e
tecnocratica dei rischi e degli insuccessi.
L’obiettivo della psichiatria non è la cura, perché la manutenzione è
sufficiente, e richiede meno tempo per cui appare più opportuno che
gli interventi non si iscrivano in una processualità temporale.
Prevalgono gli interventi d’urgenza, gli interventi brevi o le
riabilitazioni senza fine.
Questo atteggiamento operativo viene appunto favorito dalla
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decostruzione della psicopatologia: con il tramonto della diagnosi
categoriale o prototipica e l’affermarsi della diagnosi dimensionale,
abbiamo assistito a come tanti sintomi comportamentali siano stati
elevati al rango di malattie. L’avvento di quella che è stata definita
clinica delle persone fragili ha fatto guadagnare terreno d’intervento
alla psichiatria, ma perdere molto in specificità.
Come afferma Ehrenberg, ӏ nel linguaggio della salute mentale che si
esprimono ormai i numerosi conflitti e le tensioni della cittadinanza in
società, ed è al suo vocabolario che attingiamo le ragioni dell’agire e
modi d’agire su di essi. È attraverso i suoi concetti che comprendiamo i
nostri mali personali come mali comuni, entro un significato più ampio
per le nostre sventure individuali. Nel giardino delle specie
psicopatologiche, raggruppate dalla salute mentale, abbiamo trovato
un linguaggio per la forma individualistica dell’inquietudine umana, per
il timore che l’inevitabile dissoluzione dei legami di dipendenza, senza
cui non esistono individui liberi e uguali, ci conduca a una separazione
reale. Con queste categorie psicopatologiche, possiamo servirci dei
nostri mali per fare società. Esse sono ormai le affezioni elettive della
società, dell’uomo individuo.”
Il malessere è divenuto,quindi, progressivamente, un tratto dei
nostri modi di vita, è cambiato lo statuto sociale della sofferenza
psichica.
In questa situazione il ruolo del tecnico esperto passa in secondo piano
o per lo meno il tecnico interviene quando l’autogoverno si rivela
difettoso, e il più delle volte il guasto viene riparato attraverso l’utilizzo
del farmaco, che finisce per essere l’unico strumento utilizzato.
“L’istituzione, anche la più democratica, si fa infatti sottilmente,
modernamente opprimente, proprio nel suo declinarsi quale
strumento rapido e tecnologicamente avanzato di risposta ai bisogni.
Risiede d’altronde qui il potere segregativo delle istituzioni moderne,
nel trasformare i soggetti in utenti, nel rendere i pazienti dei
consumatori di prestazioni, con il rischio di deresponsabilizzarli
rispetto al senso del progetto che li riguarda, e a quella che è la loro
posizione all’interno dell’istituzione che li accoglie.”
La salute mentale ha così a che fare, a differenza della
psicopatologia tradizionale o della psichiatria classica, con fenomeni
generali della vita collettiva, quelli che dipendono al contempo dalla
coesione sociale e dal significato di quanto accade, vale a dire dalla
coerenza sociale.
Forse è necessario, in una società caratterizzata dall’individualismo
illimitato e dalla presenza di comunità endogamiche, ripensare ai
legami , alle nuove forme di legami, alle disfunzionalità di questi
legami che caratterizzano le attuali forme del patire. Mi pare che
diventi prioritario ricercare e ricostruire una clinica dei legami, capace
di affrontare le nuove forme di sofferenza, individuale e istituzionale,
attraverso l’impegno a cercare di migliorare la capacità di governare
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la regolazione dei legami istituiti.
Tale regolazione dei legami istituiti diviene tuttavia difficile nella realtà
contemporanea, in cui le regole che governano le nostre relazioni
possono essere fatte e disfatte, e tutto appare come modificabile, tutto
ha il senso della durata breve e non più della durata lunga.
Pertanto, per evitare di oscurare la cultura della cura e della
responsabilità, mi pare ancora più utile, per evitare semplificazioni o
sovrapposizioni deresponsabilizzanti, mantenere attiva la differenza tra
la psichiatria e la salute mentale, differenza che può essere formulata
in termini semplici così:
la psichiatria è un idioma locale, specializzato nell’ identificazione e nel
trattamento di problemi particolari (delle malattie dell’ideazione, delle
patologie dell’immaginazione che turbano la vita di relazione), mentre
la salute mentale è un idioma globale, che dà forma e senso ai conflitti
e ai dilemmi della vita sociale contemporanea, attribuendo cause o
ragioni a problemi legati, molto in generale, a interazioni sociali.
Bibliografia
Di Marco Giacomo, La slegatura del legame sociale,
Pordenone, 2009.
L’ippogrifo,
Di Marco Giacomo, Nuove declinazioni del lavoro istituzionale.
Movimenti trasformativi, aspetti problematici e possibili sviluppi,
Seminario inedito Padova, 2009.
Ehrenberg Alain, La fatica di essere sé stessi, Einaudi, Torino, 1999.
Ehrenberg Alain, La società del disagio. Il mentale e il Sociale,
Einaudi, Torino, 2010.
Perniola Mario, Miracoli e traumi della comunicazione, Einaudi, Torino,
2009.
Pulcini Elena, La cura del mondo, Bollati Boringhieri, Torino, 2009.
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