PRO DADA NEL CENTENARIO (101) DEL DADAISMO

LEGGERE IL NOVECENTO
PRO DADA
NEL CENTENARIO (101)
DEL DADAISMO
di Marcello Carlino
Nel nichilismo che connota la posizione
dadaista si rinviene una coscienza critica che
tiene a distanza programmi iperuranici, miraggi
di antropologia sociale, autoinvestiture illusorie
e tentazioni metafisiche (presto, nel futurismo,
a rischio di convalida delle logiche di sviluppo
– realistiche assai – di economia e società).
Dalla nascita se ne contano centouno, per il vero. Ma se festeggiare il centenario del dadaismo è
atto dovuto volendosi cercare occasione per rammentare la sua ragguardevole statura
d’avanguardia, festeggiarlo ex post, scaduto da un anno, è cosa come nessuna acconcia, quindi da
farsi improrogabilmente. Conveniente di sicuro all’anticonformismo del movimento di Tzara, che
mai mancò di irridere alle celebrazioni e di dichiararsi discorde dai riti consueti, praticando semmai
differimenti spaesanti per i quali la matematica e il tempo sono semplici opinioni (e i repertori
iconografici soccorrono a darne testimonianza); nient’affatto assimilabile, per contro, al
riconoscimento ed alla conseguente ratifica, divenuti a lungo andare un refrain, della condizione
postuma che gli è stata attribuita tra le note sue più caratteristiche.
Sia detto papale papale, prendendo a pretesto la topica colossale di questa sua domiciliazione sulla
scena di un tramonto definitivo e irredimibile, di cui avrebbe coscienza e, standovi ad agio suo,
offrirebbe rappresentazione. È da considerarsi incongrua, ed anzi risibile, quale che sia la classifica
di merito perciò stilata, l’indicazione tipica di appartenenza postmoderna etichettata per l’arte e per
le operazioni scrittorie dadaiste, in ragione del loro presunto attestarsi, senza progetto e senza
programma, nello spazio della fine, pervenuta ad esaurimento la forza propulsiva della cultura
occidentale. E, se non è una boutade, grida vendetta l’opinione, su niente fondata, prima made
America e poi esportata in Europa, per la quale l’avanguardia mossasi nel 1916 a Zurigo
funzionerebbe da prototipo – dalle prestazioni già ottimali – e precorrerebbe con la sua poetica
l’ideologia dominante nel tardo Novecento, un’ideologia adoperata per nome di un’epoca di lungo
corso poiché ritenuta indissolubile, ut unum, dai processi economici e sociali che si supponevano
avervi svolgimento e costituirvi la base strutturale.
Non vi sono tracce di postmodernismi preformati, e ben previsti a venire, sulla spinta di una
presunta complessione postuma; e non v’è dunque nulla da spartire, neppure in chiave di
prefigurazione, con la deriva a mio parere corriva ed anzi reazionaria, che in tanti hanno teorizzato
o seguito o convalidato pedissequamente negli scorsi decenni. Altro che postumo, insomma, tanto
che, spacciato per sventatamente nonsensico e nichilisticamente disfattista, Pasolini nel suo Salò,
condannando con un dispositivo che per altri collegi giudicanti sarebbe sembrato perfino premiale,
gli imputa una corresponsabilità culturale nella determinazione del Novecento peggiore, che ha
generato mostri (una aberrazione, quella di Pasolini, che gli fa torto, contravveniente alla cultura di
cui più volte ha fornito prova; in breve, una luttuosa filippica carica di ideologismo improvvido e di
malmostoso risentimento per le tendenze inscritte in una scelta d’avanguardia, presso gli accoliti di
Tzara manifestatesi al meglio): il dadaismo ha aperto non chiuso e ha mandato ad effetto, piuttosto,
una sua funzione inaugurale, capace di regalare a futura memoria intendimenti e protocolli di azione
artistica utilissimi.
Eccone un regesto: un repertorio di segni particolari, da tenersi bene a mente, che comprovano
corretti, raccomandabili orientamenti e che hanno indirizzato ricerche tra le migliori dei decenni
passati, suggerendo per esse strumenti e metodi.
La pronuncia costituisce un’eccezione nell’arco di quegli anni; e i natali svizzeri non ne sono le sole
cause agenti: il dadaismo rifiuta la guerra e non vuol saperne di interventismi, tanto meno
tambureggianti come li strombazzò il nostro futurismo. Ora che ci si spende nel rammentare tempi e
contesti del primo conflitto mondiale, distinguendo le diverse posizioni assunte, e mentre è lontana
poco più di un lustro, con la celebrazione anniversaria, la santificazione avvenuta dell’avanguardia
di Marinetti, non guasterebbe sottolineare come il gruppo di Tzara si sia schierato dalla parte giusta
(cosa che, per esempio, Pasolini avrebbe avuto l’obbligo di vagliare, prima di annotare a registro
una imputazione di correità per irrazionalismo, così che convaliderebbe gli orrori della storia, e
prima di depositare una condanna senza appello). E ciò in nome di una visione dei ruoli intellettuali
che non asseconda nessun revanchismo sociale, nessun attivismo da compensazione di un delirio di
onnipotenza frustrato, nessuna supponenza da mosca cocchiera. Che è tanto davvero, se solo si
istruisce una valutazione comparativa.
Come è tanto che con Dada, e fin dalla scelta del nome, si realizzi una coscienza del relativo.
Nessun fondamentalismo, che è vizio comune, origine di una pletora di distorsioni e di scelte
sopraffattrici, appartiene all’avanguardia zurighese. Alla intitolazione sillabante (sillabava in poesia
il nostro Palazzeschi, che quanto alla guerra guerreggiata sui fronti si dichiarava neutrale e che
qualche prossimità al movimento battezzatosi nel 1916 è certo che la mostra) e alla sua pertinenza
ai cavallucci del linguaggio infante, corrisponde infatti la natura di anti-manifesti dei manifesti, con
la cui pubblicazione non si vuole asseverare alcunché di puntuale e definito, di duraturo. Arte e
letteratura, in veste d’avanguardia, si qualificano, già in debutto, per la capacità di riconoscere i loro
limiti storicamente determinati e la annunciano come prassi a venire. Nel nichilismo che connota la
posizione dadaista si rinviene una coscienza critica che tiene a distanza programmi iperuranici,
miraggi di antropologia sociale, autoinvestiture illusorie e tentazioni metafisiche (presto, nel
futurismo, a rischio di convalida delle logiche di sviluppo – realistiche assai – di economia e
società). Un’avanguardia capace di autocritica; un’avanguardia che sa sopportare la contraddizione
di incaricarsi di un’autocritica dell’avanguardia e dei suoi statuti: la lezione del gruppo di Tzara è
anche questa e non è piccola, così acuti sono gli accenti della sua radicalità. Occorre forse ribadire
che proprio il fondamentalismo è alla base delle scelte più esecrande e degli eventi più rovinosi che
hanno caratterizzato il Novecento e che continuano a punteggiare questi ultimi decenni? e che il
fondamentalismo autorizza processi estetizzanti e conduce alla estetizzazione della politica, la quale
è la forma autentica della destinazione eteronoma e quindi della negazione dell’arte? e che una
tendenza a scoprirsi in una condizione relativa è la premessa di una laicità libera che muove atti di
demistificazione?
La forza demistificatrice, che cresce sovvertendo e dirompe in tutta credibilità allorché non lascia
zone franche e allorché si concede la necessaria libertà dell’auto-demistificazione, è quanto di
propositivo distingue il dadaismo e lo tiene lontano da qualunque premonizione del
postmodernismo, alla cui teoria abilitano, viceversa, la ripresa acclimatante, la contaminazione, la
dismissione di un atteggiamento critico. E la demistificazione operata dall’avanguardia dadaista ha
talune modalità di intervento precipue. L’accoglienza e la promozione del caso, per tutto ciò che il
caso ha di sparigliante e per tutto ciò che di “altro” esso traina, sono indicazioni prioritarie, in
predicato di promuovere applicazioni di grande portata innovativa, perché affrancate da
presupposizioni esoteriche e da proiezioni mistiche quali nella vague simbolista, perché assecondate
dal gioco e aperte all’irruzione del comico e del riso, altra grande virtù dell’avanguardia di Tzara ed
altro segno peculiare in dismisura rispetto alle consorelle storiche, che troppo sono state solite
prendersi sul serio.
Il comico, come i grandi teorici dell’arte hanno saputo insegnarci, è fatto di richiamo al corpo, è
sostanziato di materia. Ebbene, non c’è movimento novecentesco che si sia più matericamente
esposto, che più abbia una sua diatesi materialistica. Materiale è la base del collage, con cui si
provano le possibilità del caso; e al lavoro con la materia è il montaggio che nel dadaismo ottiene le
sue prime licenze e fa i suoi primi esercizi, in attesa di consegnarsi alle esperienze di avanguardia
artistica e di sperimentazione espressiva che hanno inciso profondamente nel Novecento. Offerte di
materia e restituzioni dell’arte alla materia sono i recuperi di cose smesse, l’uso di materiali un
tempo banditi dal territorio della pittura e della scultura, recuperi e uso che appaiono anticipare
tanto della ricerca del secondo Novecento, da Burri all’arte povera, dall’installazione all’arte
pubblica e d’ambiente che molto fa conto sul riciclo; antimetafisico è l’approccio alla materia del
significante, messa in esponente così da poter dare sbocco alle più convincenti esperienze
sinestetiche, dalla poesia visiva all’arte concreta.. Ed è nella chiave di una processualità
materialistica il repechage di oggetti della quotidianità, gli equivalenti del letterale-materiale
linguistico nel testo letterario, prestati al ready made; e cioè decontestualizzati per essere
ricontestualizzati nello spazio dimensionale del polisenso. Il che poi rappresenta la demistificazione
– dal versante dello straniamento, e per effetto concomitante di auto-demistificazione – della logica
fattuale del feticismo della merce; il che è anche un annuncio dell’arte concettuale su cui in specie
si riversa l’impegno metalinguistico proprio della migliore cultura artistica del Novecento. Questa
cultura artistica, ne sono convinto, ha ancora molto da dirci, incamminati come siamo, con non poca
pena per gli stati generali di arte e letteratura, e non solo di arte e letteratura, nel terzo millennio; ad
essa, come al dadaismo che ne è all’origine, non dobbiamo smettere di prestar attenzione, di volgere
domande.