Istituto MEME: Il rischio di recidiva di reato. Osservazione di un caso

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UNIVERSITE EUROPEENNE JEAN MONNET
ASSOCIATION INTERNATIONALE SANS BUT LUCRATIF
BRUXELLES - BELGIQUE
THESE FINALE EN
“SCIENCES CRIMINOLOGIQUES”
IL RISCHIO DI RECIDIVA DI REATO
OSSERVAZIONE DI UN CASO CLINICO ALL’INTERNO DELLA
RESIDENZA SANITARIA PSICHIATRICA CASA ZACCHERA
Relatore: Dr.ssa Barbara Sangiorgi
Specializzando: Dr.ssa Giorgia Rori
Matricola: 2398
Bruxelles, 9 ottobre 2015
ISTITUTO MEME S.R.L.- MODENA ASSOCIATO UNIVERSITÉ EUROPÉENNE JEAN MONNET A.I.S.B.L. BRUXELLES
Giorgia Rori – Scuola di Specializzazione Triennale in Scienze Criminologiche - TERZO ANNO A.A. 2014 - 2015
Indice dei Contenuti
1. Introduzione …………………………..………………...………………………….. 3
2. Casa Zacchera: Residenza Sanitaria Psichiatrica ………………..…………………. 5
3. Teorie …………………………………………...…………………………............ 13
3.1. Pregiudizi sull'omicidio compiuto dallo schizofrenico ………………..………… 20
3.2. Approcci cognitivi all'omicidio dello schizofrenico ……………...……………… 23
3.3. Varie tappe della dinamica omicidaria dello schizofrenico ……………………. 24
3.4. Significato dell'atto omicidario per lo schizofrenico ……………………….…... 37
3.5. Schizofrenia e recidiva omicidaria …………………….………….…….………… 39
4. Valutazione del rischio di violenza ……………………………..……………….... 42
4.1. Aggressività e violenza …………………………………………….……............… 42
4.2. Problematiche e strumenti per la misurazione di comportamenti aggressivoviolenti …………………………………..…………………………….………….….. 52
5. Caso clinico ……………………………………………………………….....……. 61
5.1. Il suo percorso. Dallo S.L.i.E.V. – Centro Psichiatrico Forense
Gonzaga dell’OPG a Casa Zacchera ……………………………….….……..…. 63
5.2. Verbale del primo incontro tra l'Equipe di Casa zacchera e la famiglia ….… 67
5.3. L'evento reato …………………………………………………..……………....….... 70
6. Gli strumenti utilizzati per la valutazione del rischio di recidiva …………..…..… 72
6.1. Colloquio clinico e colloquio criminologico ……………..……………………… 72
6.2. Osservazione del comportamento nella quotidianità ………………..……….... 77
6.3. I test ……………………………………………………………..……….….………... 77
7. Cronogramma del percorso …...……………………………………………….… 111
8. Genogramma …………………………...…………………………………….….. 113
9. Assessment: HCR20 ………………………………...………………………...… 114
10. Conclusioni ………………………...…………………………..……….……… 129
11. Bibliografia ………………………...………………………………..…………. 134
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1. Introduzione
Questo lavoro è nato dall’idea sia di approfondire e conoscere meglio la
probabilità di recidiva di reato nei pazienti con diagnosi psichiatrica, sia di
ampliare maggiormente la mia esperienza clinica in merito a tali pazienti,
avvicinandomi professionalmente alla loro storia personale e psicopatologica.
L’esperienza scelta per studiare questa tematica si riferisce alla realtà della
Residenza Sanitaria Psichiatrica Casa Zacchera, dedicata ad ospitare folli-rei che
sono stati prosciolti totalmente o parzialmente per il reato commesso a causa
della loro malattia mentale.
Dapprima ho voluto ampliare nei vari aspetti la realtà della Residenza, andando a
conoscere nel vivo le persone ospitate, il personale che vi lavora e soprattutto
come si articola la quotidianità all’interno, in quanto ritengo importante per
parlare di un caso clinico, conoscere la realtà in cui abita e che vive tutti i giorni.
La stesura della tesi ha così considerato un caso clinico di un paziente ospite di
questa Residenza, cercando di conoscere meglio la sua storia familiare, il suo
percorso psicopatologico e giuridico prima dell’arrivo a Casa Zacchera, la
permanenza in tale Struttura, osservando così fin dall’inizio le caratteristiche
personali e psicopatologiche del paziente, la sua capacità relazionale sia con gli
altri ospiti, sia con il personale della Residenza, le risorse personali e lavorative
del paziente e non di ultima importanza le dinamiche familiari ritenute piuttosto
conflittuali, soprattutto con la mamma.
L’osservazione del caso clinico avviene in modo puntuale nel primo mese dal suo
arrivo a Casa Zacchera, per poter valutare da subito e in un periodo di breve
tempo la possibilità o meno della sua permanenza in struttura per restituire al
Magistrato una risposta in merito alla possibilità o meno della permanenza
dell’ospite a Casa Zacchera.
Dopo l’osservazione iniziale del primo mese di permanenza dell’ospite presso la
Residenza, e la decisione insieme al Magistrato e ai Servizi territoriali di
provenienza di proseguire in tale struttura il percorso riabilitativo del paziente, si
inizia a pensare e a progettare un “cammino” specifico e personale per il paziente.
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Successivamente alla descrizione e approfondimento della
struttura con
peculiarità e obiettivi, ho fatto riferimento a processi teorici riguardanti per lo più
il reato di omicidio e la connessione tra questo tipo di reato e la psicopatologia, in
particolare alla schizofrenia, approfondendo così aspetti e problematiche che
questo comporta; Successivamente ho esposto il caso clinico, l’evento reato che
ha condotto il paziente ad intraprende un percorso giuridico, e la valutazione
della possibilità di recidiva di reato attraverso l’utilizzo di teorie e tecniche che
nel panorama clinico sono state studiate da vari autori.
Questo lavoro, oltre che permettermi di approfondire e conoscere più da vicino
il percorso psicopatologico e criminologico del caso clinico scelto, valutando così
in connessione al reato commesso dal paziente, la possibilità di rischio di
recidiva, mi ha permesso altresì di verificare l’efficacia degli strumenti utilizzati
dall’equipe di Casa Zacchera per la valutazione del grado residuo di pericolosità
sociale e della stima del rischio di reiterazione del reato: obiettivo peculiare.
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2. Casa Zacchera: Residenza Sanitaria Psichiatrica
Questa Residenza è nata nell’ottobre 2007 in attuazione di un progetto pilota
della Regione Emilia Romagna dedicata a pazienti emiliano romagnoli
provenienti dagli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (OPG), oggi da REMS; l’allora
Cooperativa “Sadurano Salus” (ora “Generazioni”) in accordo con l'AUSL di
Forlì ha avviato l'attività di questa struttura intermedia.
Il progetto è stato finalizzato a sperimentare la praticabilità ed efficacia di presidi
residenziali, in grado di favorire una significativa riduzione dei tempi di
internamento presso gli OPG, oggi REMS, sollecitando così la realizzazione dei
successivi programmi di presa in carico del paziente da parte dei servizi
territoriali dopo un adeguato periodo di permanenza presso Casa Zacchera.
Non è stato contemplato l'utilizzo di questa struttura per il trattamento di pazienti
psichiatrici prosciolti inviati direttamente dal Magistrato, in alternativa preventiva
al ricovero in OPG dal 1° aprile 2015 REMS; Come indicato dalla L.9/12 e
seguenti modifiche il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari prevede
una progettazione complessiva di attività, in cui si inserisce la costruzione delle
REMS.
Il programma complessivo avviato dalla Regione Emilia Romagna comprende
una serie di interventi specifici per la realizzazione dei percorsi terapeutico
riabilitativi finalizzati al recupero e reinserimento sociale dei pazienti internati
provenienti dagli ospedali psichiatrici giudiziari.
Secondo la classificazione vigente in Emilia Romagna, Casa Zacchera si è
qualificata dunque, come una struttura residenziale a carattere sanitario, per
trattamenti socio riabilitativi, intermedi tra OPG, oggi REMS e territorio.
Essa è finalizzata all'obiettivo peculiare della valutazione del grado residuo di
pericolosità sociale e del rischio di reiterazione di reato per ogni paziente
ospitato; sono previsti percorsi personalizzati terapeutico/riabilitativo e
risocializzanti ad elevata specificità.
Su disposizione del Magistrato di sorveglianza i pazienti possono essere inseriti
presso Casa Zacchera con licenza finale esperimento dall'OPG (e successivo
passaggio alla Misura di Sicurezza non detentiva della libertà vigilata), o
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direttamente in libertà vigilata o con Misura di Sicurezza provvisoria
della
Libertà Vigilata (se ancora in attesa di sentenza definitiva) o in Misura di
Sicurezza Provvisoria dell’Affidamento ai servizi sociali (se seminfermi).
Durante lo svolgimento dei programmi di trattamento individualizzato, l’equipe
della struttura, in condivisione con il servizio territoriale competente, informa
periodicamente, sull’evoluzione del caso, il Magistrato che, per le sue funzioni
valida e autorizza il proseguimento del programma, modulando le prescrizioni di
volta in volta adeguate al caso stesso ed al contesto. Ordinariamente il vincolo
giuridico, viene mantenuto per tutto il tempo della permanenza presso Casa
Zacchera e nella maggior parte dei casi anche al momento della dimissione dalla
struttura, per proseguire il programma socio-riabilitativo in altri contesti
terapeutici.
Per quanto riguarda gli interlocutori dell’equipe di Casa Zacchera, in interazione
diretta o indiretta con vario grado di responsabilità e varie forme di
collaborazione e complementarietà:
- Magistratura di Sorveglianza.
- Ospedale Psichiatrico Giudiziario (OPG di Reggio Emilia) - REMS di Bologna
e/o Parma.
- Dipartimento Salute Mentale di competenza (CSM: Equipe Territoriale con
psichiatra referente, assistente sociale, infermiere).
- Avvocati e altro soggetti di rilievo giuridico (Amministratore di sostegno,
Curatore, Tutore).
- Carabinieri e/o Autorità di Vigilanza di competenza.
- UEPE Ufficio Esecuzione Penale Esterna. Si tratta di un ufficio periferico del
Ministero della Giustizia/Dipartimento Amministrazione Penitenziaria (DAP) alle
dipendenze del Provveditorato Regionale Amministrazione Penitenziaria
(PRAP).
- Familiari e altre figure di riferimento significative.
- Servizi Sanitari e Sociali del territorio (AUSL di Forlì, Enti locali, altri Enti).
- Altre Strutture Residenziali.
- Enti di Formazione professionale.
- Datori di lavoro.
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L'individuazione dei pazienti destinabili a Casa Zacchera avviene in accordo tra
la direzione dell'OPG, e la direzione del DSM di competenza.
I pazienti, esclusivamente di sesso maschile, sono individuati in base a criteri di
eleggibilità definiti in riferimento ad aspetti di ordine clinico e criminologico ed
in base ad una riconosciuta compatibilità con le caratteristiche funzionali di Casa
Zacchera, tenendo conto del basso livello di sorveglianza e della tipologia
dell'offerta assistenziale e trattamentale qualificanti la struttura.
All'atto dell'inserimento del paziente è necessario che avvenga un adeguato
passaggio di informazioni e di indicazioni fra direzione dell' OPG, oggi REMS e
l’equipe di Casa Zacchera.
Di norma dopo un primo periodo di osservazione viene confermata o meno alla
direzione dell' OPG, oggi alla REMS, la compatibilità del quadro clinico e
comportamentale del paziente con le caratteristiche operative della struttura e
quindi l'indicazione a proseguire il trattamento previsto.
E' fondamentale che, per ogni paziente ospitato, a partire dal primo
imprescindibile momento di accordo si realizzi un rapporto di collaborazione tra
l’equipe della struttura e i servizi territoriali ai fini della definizione e
realizzazione del programma di trattamento, nonché della definizione ed
attuazione del piano relativo alla successiva dimissione dalla struttura.
L'esperienza di questi anni di attività ha dimostrato l’importanza di sollecitare o
rinforzare il legame tra il servizio territoriale ed il paziente stesso, sostenuto e
incentivato dall’equipe di Casa Zacchera, a beneficio del paziente e del percorso
che in questo contesto è tenuto a fare.
Va segnalato che altrettanto significative si sono dimostrate le possibilità di
intermediazione e modulazione dell'equipe della Struttura
sulla relazione
reciproca fra paziente e famiglia.
La struttura ospita 16 pazienti, che si avvalgono del lavoro di un’ equipe
composta da: due psicologi, presenti per 50 ore durante la settimana, due medici
psichiatri che prestano servizio per 25 ore settimanali, due infermieri presenti per
12 ore al giorno e 7 Operatori Socio Sanitari che coprono le 24 ore.
Per quanto riguarda la tipologia dei reati di cui i pazienti si sono resi autori, si
evidenziano diverse tipologie con livelli differenti di gravità: minacce, atti
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persecutori, resistenza a pubblico ufficiale, stalking, reati sessuali, maltrattamenti,
tentato omicidio in tra/extrafamiglia, omicidio in tra/extrafamiglia.
L'età dei pazienti è compresa tra i 27 e i 58 anni, e le diagnosi prevalenti sono
schizofrenia, disturbo delirante, disturbo schizoaffettivo, e disturbi di personalità
gravi e indotti da sostanze.
Al momento delle dimissione per la maggior parte i pazienti vengono inseriti in
residenze psichiatriche protette, alcuni sono rientrati in OPG, altri ancora a
domicilio o in gruppi appartamento.
Durante la permanenza in struttura, si possono attivare tirocini formativi per gli
ospiti, anche in collaborazione con servizi territoriali, in vari settori di attività
produttiva, sia all'interno che all'esterno della struttura, coinvolgendo le aziende
produttive del territorio limitrofo.
La giornata ordinaria è organizzata in maniera tendenzialmente libera mirando
ad accordare le esigenze di tutti coloro che (pazienti e operatori), vivono la
struttura nel rispetto delle norme di convivenza di base.
Come si è detto esistono momenti di attività peculiarmente sollecitate dagli
operatori socio sanitari e dedicate alla autogestione della struttura, quali la
manutenzione della casa e la pulizia degli spazi comuni interni ed esterni.
Queste occasioni, oltre al valore strettamente pratico, acquistano anche una
significativa valenza relazionale tra i pazienti e tra pazienti ed operatori. La
terapia farmacologica, concordata con l'equipe territoriale competente, è
ordinariamente somministrata dagli infermieri.
È caratteristica dell'impegno degli operatori una polivalenza funzionale che, al di
là delle specifiche competenze assistenziali e sanitarie di ciascuno, consente
all'organizzazione, l'elasticità necessaria per rispondere alle molteplici esigenze,
con interscambio di ruoli per molte attività, che richiedono come denominatore
comune un impegno collettivo.
E’ importante che i pazienti possano percepire armonia e coerenza operativa
dell'equipe e nutrire fiducia nella stessa. Nel corso della settimana sono possibili
anche numerose occasioni di interazione ordinaria fra pazienti e comunità civile
allargata, a partire dai momenti del pranzo e della cena, che vengono consumati
presso un ristorante limitrofo. Sono frequenti gli spostamenti (tramite automezzi)
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di ospiti ed operatori fuori dalla Residenza per i viaggi nella cittadina di
Castrocaro Terme ed anche in altre località, con scopo sia ricreativo, sia
organizzativo per rispondere ad esigenze della struttura e dei pazienti stessi:
servizio postale, approvvigionamenti, accesso a sedi di attività lavorativa, visite
mediche, visite a familiari.
Va sottolineata la complessità di questa organizzazione che deve rispettare, le
prescrizioni decise dal Magistrato per ciascun paziente, oltre a tenere in
considerazione le valutazioni di circostanza operate dall'equipe della Struttura.
I rapporti con i familiari non sono rigidamente disciplinati, ma per ogni paziente
si cerca di individuare la frequenza e la modalità più coerente con le esigenze del
progetto personalizzato, sia per quanto riguarda gli incontri presso Casa Zacchera
e sia per permessi fruibili preso ambiti esterni.
Fra i familiari ed operatori esiste la massima facilitazione al dialogo in momenti
estemporanei o anche in momenti predefiniti. Si richiamano qui di seguito i
momenti più strutturati in senso terapeutico e riabilitativo a favore dei pazienti:
- intermediazione costante con lo Psicologo e con lo Psicologo Coordinatore della
Struttura;
- colloquio con i Medici Psichiatri;
- colloqui di sostegno psicologico individuale;
- supporto infermieristico;
- confronto tra un singolo paziente e le figure professionali in occasione delle
riunione di equipe settimanale;
- un “gruppo di socializzazione” a cadenza settimanale partecipato da tutti gli
ospiti e operatori della struttura.
Si segnalano anche altre forme di attività ricreativa e risocializzante organizzate
all'interno della struttura o nel contesto della cooperativa, fra cui un gruppo di
attività musicale a cadenza settimanale, attività/gioco di calcetto con cadenza
circa settimanale, attività di nuoto che si svolge settimanalmente presso la piscina
comunale di Forlì, attività di arte-terapia, anch’essa con frequenza settimanale,
passeggiate che si svolgono in zona limitrofa alla struttura, e durante l'estate
l'utilizzo di una piscina esterna presso colline limitrofe.
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Tali attività possono variare nel corso del tempo in base all’organizzazione
dell’equipe, ma soprattutto in base alle esigenze degli ospiti.
Casa Zacchera si propone dunque al paziente come un contesto di apprendimento
e/o rinforzo di competenze sociali primariamente fondato sul potenziale di
relazionalità interpersonale, propria della cornice gruppale in cui si inscrive la
quota prevalente delle consuetudini, delle dinamiche e delle iniziative, fermo
restando l’attenzione alla individualità di ogni singolo paziente.
La dimensione gruppale nelle sue molte forme, occasioni e modalità di
declinazione, costituisce una risorsa che ha il valore di un “bene relazionale” che,
se riconosciuto dal paziente ne sollecita il sentimento di appartenenza al gruppo
stesso e di responsabilizzazione sui diritti e su doveri della convivenza.
L’organizzazione complessiva della attività è anche volta a facilitare e sfruttare
nel maggior grado possibile il potenziale di relazionalità diffusa nel contesto
cooperativo, in cui è inserita Casa Zacchera, e nella rete più estesa delle occasioni
offerte dal territorio esterno.
Per una buona organizzazione ed efficacia delle attività giornaliere è
imprescindibile un momento rituale e codificato di passaggio delle consegne tra
gli operatori al cambio di turno.
Settimanalmente esiste poi una riunione di lavoro dell’intera equipe, dedicata alla
discussione dei casi, delle situazioni e delle eventuali criticità; alla elaborazione
di proposte di intervento; all’approfondimento di temi a valenza formativa; al
confronto di volta in volta con un singolo paziente, spesso in presenza dell’equipe
del DSM territoriale.
Per le specificità di Casa Zacchera sono ovviamente importanti alcune
considerazioni
a
proposito
della
possibile/prevedibile
evenienza
di
comportamenti di carattere trasgressivo o di altra valenza critica sul piano
comportamentale (in termini di aggressività agita o di turbativa della omeostasi
del gruppo) da parte dei pazienti, nonché dei problemi di gestione di queste
criticità da parte dell’equipe e delle possibilità di metabolizzazione in seno alla
casa.
Si rileva che a Casa Zacchera il cardine normativo del comportamento di ogni
singolo paziente è prima di tutto e soprattutto rappresentato dal vincolo giuridico
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imposto dal Magistrato e dalle conseguenti prescrizioni di obbligo e di divieto,
questo avviene per le caratteristiche del mandato progettuale, per gli aspetti
logistici – spaziali ed organizzativi (a cominciare dalla mancanza di un perimetro
di recinzione invalicabile e di altre barriere strutturali), per lo stile di convivenza
in essa impostato, per le modalità delle relazioni tra operatori e paziente e per
molti degli aspetti di funzionamento sopra accennati.
Questo rappresenta per il paziente un elemento costitutivo del principio di realtà a
cui è indotto a fare costante riferimento; ma è anche elemento ordinatore per le
regole di vita nella struttura, in costante ricerca di equilibrio fra rigore e
ragionevole flessibilità.
Le scelte tattiche e/o strategiche per la gestione delle possibili criticità
comportamentali sono operate secondo un registro di valutazione del senso e
della gravità dell’episodio, riferito ai seguenti criteri principali relativamente alla
relazione che il comportamento all’esame ha con lo stato psicopatologico e
clinico del paziente; al suo riflesso sul clima nel gruppo dei pazienti, anche in
rapporto alle possibilità di accettazione empatica e solidale del singolo paziente e
del suo comportamento; al riverbero sul gruppo degli operatori e sulle possibilità
di supporto permissivo e gestione del evento.
L’incrocio di queste variabili determina la soglia di tollerabilità delle varie
criticità comportamentali in un delicato punto di equilibrio anche con quanto
condizionato dal vincolo giuridico (e relative prescrizioni) cui è soggetto il
paziente.
Questa soglia di tollerabilità è molto elevata presso Casa Zacchera e ciò è in
relazione con lo stile di conduzione proprio della struttura, gli aspetti qualitativi
della convivenza in essa e la “ capacità di tenuta” dell’equipe che, per l’impegno
necessario a confrontarsi costruttivamente con l’episodio critico (facendo
attenzione alle variabili sopra richiamate) deve poter contare su una buona
coesione e su una propensione ottimistica, alimentate dalla esperienza e dalla
formazione sul campo.
In ogni circostanza dunque viene tenuto nel debito conto, da un lato quanto può e
deve essere tollerato, mediato e gestito al fine di tutelare l’andamento e le
prospettive del percorso terapeutico - riabilitativo del paziente e dall’altro lato
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quale sia il peso e la conseguenza di un gesto o di un comportamento a fronte del
dispositivo prescrittivo fissato dal Magistrato di Sorveglianza.
Gli ospiti necessitano di un approccio terapeutico riabilitativo, che favorisca un
reinserimento graduale nella società.
Per questo e non solo, la struttura rappresenta una tappa del viaggio che le
persone ospitate intraprendono uscendo dall’istituzione totale e nella quale il
pensiero guida è quello di conservare la speranza di una prosecuzione di vita
dignitosa e rispettosa di sé e degli altri.1
1
Missiroli L., Presentazione Casa Zacchera nel 2007 – Aggiornato nel 2014 (documento non
pubblicato).
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3. Teorie
Prima di analizzare i vari approcci teorici, ritengo utile un accenno alla diagnosi
di schizofrenia paranoide: uno dei diversi tipi di schizofrenia, una malattia
mentale cronica in cui una persona perde il contatto con la realtà (psicosi).
La schizofrenia paranoide è una grave condizione permanente che può portare a
complicazioni, tra cui comportamento lesivo.
Segni e sintomi di schizofrenia paranoide possono includere:
- Allucinazioni uditive, come il sentire voci.
- Paranoie.
- Ansia.
- Rabbia.
- Distanza emotiva.
- Violenza.
- Comportamento polemico.
- Pensieri e comportamenti lesivi.
Deliri e allucinazioni sono i sintomi che contraddistinguono la schizofrenia
paranoide:
- Deliri. Si può credere che il governo stia monitorando ogni movimento o che un
collega voglia avvelenare il pranzo. Si può anche avere manie di grandezza – la
convinzione che si possa volare o che si è famosi. I deliri possono anche causare
aggressività o violenza.
- Allucinazioni uditive. Un’allucinazione uditiva è la percezione di un suono o
voci ricorrenti che nessun altro sente.
Gli approcci teorici seguiti per approfondire il presente caso clinico, spaziano
dall’approccio psicodinamico di O. F. Kernberg 2, alla psichiatria psicodinamica
di Glen O. Gabbard 3; considerando inoltre aspetti di psicopatologia e crimini
2 Kernberg O. F., 2004, Narcisismo, aggressività e auto distruttività nella relazione
psicoterapeutica, Raffaello Cortina, pp. 31-50.
3 Gabbard O. G., 2002, Psichiatria Psicodinamica, Raffaello Cortina.
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violenti A. E. Skodol 4, un accenno ad aspetti di psicopatia R. D. Hare 5, fino alla
psichiatria forense, criminologia ed etica psichiatrica a cura di Vittorio Volterra6.
Tali spunti teorici, come detto pocanzi sono stati percorsi proprio pensando al
caso clinico scelto, in quanto sia per la diagnosi clinica, sia per la storia di vita ,
sono emersi vari aspetti che rispecchiano diverse dimensioni teoriche.
Secondo Kernberg non vi sono dubbi rispetto alla prevalenza dell’aggressività
nel comportamento, nelle fantasie e nelle dinamiche psichiche dei pazienti con
disturbi gravi della personalità; ma i teorici, i clinici continuano a discutere sul
carattere dell’aggressività umana: è innata quindi un istinto o una pulsione, o è
secondaria alla frustrazione e ai traumi? Ovvero l’aggressività è il risultato delle
esperienze precoci o della genetica e della costituzione? Si è accettato in teoria, la
possibilità che i fattori genetici e costituzionali, come anche i fattori ambientali e
psicodinamici possano avere un ruolo importante (in uno schema bio - psicosociale); rimane il problema di come concettualizzare l’aggressività e di come
comprendere il ruolo che essa gioca nello sviluppo della psicopatologia grave.
La teoria biologica contemporanea ha sviluppato una visione integrata degli
istinti e dell’ambiente, secondo la quale esistono disposizioni innate, attivate in
circostanze ambientali specifiche a mettere in atto pattern comportamentali
specifici; queste disposizioni determina l’attivazione di una sequenza di
comportamenti esplorativi e consumatori e questa catena di eventi porta
all’organizzazione di queste sequenze di comportamenti che designano come
istinti.
Le disposizioni comportamentali innate e gli eventi ambientali che le elicitano
costituiscono gli elementi strutturali del comportamento istintivo. In un lavoro
Kernberg che questo modo di intendere gli istinti può essere applicato anche alla
teoria psicanalitica e ciò ha portato a far intendere le pulsioni (libido e
aggressività)
come sistemi motivazionali attivati sia dagli istinti sia
dall’ambiente.
4 Skodol A. E., 2000, Psicopatologia e crimini violenti, Centro Scientifico Editore, pp.1-31, pp.
33-54.
5 Hare R. D., 2009, La Psicopatia. Valutazione diagnostica e ricerca empirica, casa Editrice
Astrolabio.
6 Volterra V., 2005, Psichiatria Forense, Criminologia ed Etica Psichiatrica, Masson, pp.207-288.
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Gli affetti sono modalità di reazione innate costituzionalmente e gerarchicamente
determinate che, sin dai primi giorni di vita sono stimolate, in primo luogo da
varie esperienze psicologiche e biologiche e poi dallo sviluppo delle relazioni
oggettuali.
La rabbia in questa teoria rappresenta l’affetto di base dell’aggressività intesa
come pulsione e le sue vicissitudini sono in grado di chiarire le origini dell’odio
e dell’invidia. Kernberg crede che sia la capacità di amare, sia quella di odiare
siano innate; richiedono un’attivazione degli impulsi ambientali.
Un affetto specifico che occupa una posizione fondamentale nel comportamento
umano è l’odio.
L’odio deriva dalla rabbia, l’affetto primario intorno al quale si raccoglie la
pulsione dell’aggressività; nella psicopatologia grave, l’odio può evolvere
trasformandosi in un imperio soffocante, diretto sia contro il sé, sia contro gli
altri.
E’ un affetto complesso che può diventare la componente maggiore della
pulsione aggressiva, oscurando gli altri affetti aggressivi sempre presenti, quali
l’invidia o il disgusto.
L’odio è un affetto aggressivo complesso; In contrapposizione all’acuzie delle
reazioni di rabbia e agli aspetti cognitivi facilmente mutevoli dell’ira e della
rabbia, l’aspetto cognitivo dell’odio è cronico e stabile.
L’odio si presenta anche con radici caratteriali che implicano forti
razionalizzazioni e corrispondenti distorsioni delle funzioni dell’io e del super-io.
Lo scopo primario di un individuo divorato dall’odio è di distruggere il suo
oggetto, un oggetto specifico della fantasia inconscia, e i derivati consci di tale
oggetto; sull’oggetto, al fondo, è diretto sia un bisogno sia un desiderio e la sua
distruzione è ugualmente un bisogno e un desiderio.
L’odio non è sempre patologico: come risposta al pericolo oggettivo e reale di
una distruzione fisica o psicologica, a una minaccia per la sopravvivenza di se
stessi e di coloro che si amano, l’odio è una normale elaborazione della rabbia,
tesa a eliminare quel pericolo. Ma, di solito, subentrano motivazioni inconsce che
intensificano l’odio, per esempio nella ricerca di vendetta.
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Quando l’odio è una predisposizione caratteriale cronica, riflette sempre la
psicopatologia dell’aggressività.
Una forma estrema di odio richiede l’eliminazione fisica dell’oggetto e può
trovare espressione nell’omicidio o in una radicale eliminazione dell’oggetto, che
può essere generalizzata sotto forma di distruzione simbolica di tutti gli oggetti,
ossia di tutte le relazioni potenziali con Altri significativi, a volte questa forma di
odio trova espressione nel suicidio, dove il Sé è identificato con l’oggetto odiato e
l’autoeliminazione è il solo modo di distruggere l’oggetto stesso.
Proseguendo ancora con l’approccio psicodinamico ho ritenuto importante
considerare le caratteristiche dell’aspetto paranoide come evidenziate nel testo di
G. O. Gabbard; dove si distingue la posizione schizoparanoide, come una
modalità fondamentale di organizzazione dell’esperienza che permane nella
psiche umana per tutta la durata del ciclo vitale, dove pensieri e sentimenti
pericolosi o spiacevoli vengono scissi, proiettati fuori di sé e attribuiti agli altri;
dal disturbo paranoide di personalità dove, ciò che lo caratterizza è uno stile
pervasivo di pensare, sentire e relazionarsi agli altri particolarmente rigido e
invariante, caratterizzato inoltre da mancanza di flessibilità; e l’esperienza che il
paziente ha degli altri è discontinua, nessuna relazione è percepita come duratura
nel tempo.
Continuando nell’approfondimento teorico, considerando come evidenziato nel
testo di Psicopatologia e crimini violenti di Skodol; il crimine violento e la
psicopatologia di Asse I (il DSM IV considera in Asse I i disturbi psichiatrici
maggiori quali Schizofrenia, Disturbi deliranti, Depressione, Disturbo Bipolare,
Disturbi d’ansia, Dipendenze patologiche, mentre appartengono all’Asse II i
disturbi di personalità) sarebbero significativamente correlati.
L’autore utilizza un vasto materiale biografico, esperienze in unità psichiatrico
forensi e la revisione della letteratura per giungere alle seguenti osservazioni: la
maggior parte dei reati violenti, tra cui l’omicidio, nascerebbe da atti impulsivi,
aggressivi dettati dal momento. I disturbi di personalità che soggiacciono a tali
atti sono con molta probabilità quello irritabile-esplosivo, quello paranoide e,
occasionalmente quello borderline o depressivo. I molti omicidi commessi da
soggetti spinti dall’impulso o dal rancore, di solito coinvolgono soggetti con tratti
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esplosivi o paranoidi. La personalità paranoide può prendere qualunque strada
come fattore predisponente all’omicidio.
Schneider definiva come tratti chiave del disturbo paranoide l’essere combattivo,
l’essere aggressivo e litigioso. Un sentimento che emerge in questo tipo di
personalità è la rabbia, risentimento insieme ad un senso di indignazione motivata
si combinano a formare un’alta varietà di personalità paranoide.
Considerando inoltre l’analisi del nostro caso clinico e l’emergere di qualche
aspetto psicopatico, non ho potuto non considerare nell’approfondimento teorico,
tratti della psicopatia evidenziati da Robert D. Hare, in particolare tratti emotivi
ed interpersonali.
Gli psicopatici sono spesso loquaci e brillanti, possono conversare in modo
piacevole e divertente, sono capaci di rispondere rapidamente con battute argute e
sono abili nel raccontare storie improbabili, ma convincenti, che proiettano su di
loro una luce positiva. Possono essere molto efficaci nel presentarsi bene,
recitando quasi in modo meccanico; a volte sebbene gli psicopatici affermino di
avere obiettivi specifici, come per esempio obiettivi lavorativi presenti
mentalmente anche nel caso del nostro paziente, mostrano una scarsa
comprensione dei requisiti necessari per conseguirli e raggiungerli.
Di rilievo nelle persone psicopatiche è, una sorprendente mancanza di interesse
per gli effetti devastanti che le loro azioni hanno sugli altri, sono spesso sinceri
sull’argomento dichiarando di non provare senso di colpa.
Presente inoltre è la mancanza di empatia, incapacità di costruirsi una
rappresentazione mentale ed emotiva dell’altra persona; si riscontra anche una
certa discontinuità in ambito lavorativo, con assenze frequenti e talvolta
inaffidabilità.
Prendendo ancora in considerazione la violenza e la patologia mentale, si è
osservato in ambiti di ricerca come emerge nel testo di cosmologie violente, che
gran parte della “violenza” osservata nelle persone mentalmente malate non
avviene a caso, ma è motivata e da mettere in relazione con sintomi psicotici.
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Appellandosi al criterio della razionalità all’interno dell’irrazionale, Link e
Steuve7 (1994) invitano a ragionare sul fatto che se un individuo affetto da
disturbi mentali si sente minacciato e se i suoi meccanismi di controllo sono
compromessi, allora la violenza diviene con più probabilità una risposta
comprensibile – così come quando essa è percepita quale difesa nei confronti di
comportamenti vissuti come manipolativi nei suoi confronti. E’ per questa
ragione che il “delirio di riferimento”e il “delirio di controllo” risultano essere più
associati, rispetto ad altre forme di delirio, alla condotta violenta.
I reati gravi commessi in particolari circostanze da alcune persone mentalmente
disturbate, non devono condurre ad affermazioni di carattere generale sul fatto
che tutti gli individui affetti da disturbi mentali siano potenzialmente più violenti
del resto della popolazione.
Da una ricerca italiana parlando sempre di violenza e patologia mentale, la
prevalenza percentualmente rilevante di violenza commessa tra i soggetti
psichiatrici riguarda quelli più gravi, di sesso maschile,in modo speciale quelli
affetti da disturbo schizofrenico, o quelli con disturbi correlati ad uso di sostanze,
con un esordio precoce di malattia , che non hanno intrapreso e/o mantenuto un
efficace trattamento psicofarmacologico o hanno mostrato scarsa compliance al
trattamento.
Stabilire una relazione causale tra violenza e malattia mentale è pertanto un
problema complesso, che ha ricadute concrete a vari livelli sui pazienti, su coloro
che prestano le cure, sui legislatori e su cui gestisce i progetti all’interno delle
comunità.
Proseguendo ancora, di notevole importanza tra gli stimoli ambientali, nello
specifico quelli provenienti dai genitori. Approfondimenti fatti sui bambini
hanno confermato che oltre agli stimoli intellettuali, sono fondamentali per i
neonati i coinvolgimenti emotivi, e che l’assenza della madre determina in una
certa percentuale di casi una crescita scorretta con permanenti disturbi del
comportamento.
Difatti, la definizione “ delle strutture neuro anatomiche del cervello avviene in
funzione dell’ambiente relazionale in cui il bambino si trova immerso, e se gli
7 Ceretti A., Natali L., 2009, Cosmologie violente. Percorsi di vite criminali. Raffaello Cortina
Editore, p. 84.
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stimoli sono scorretti lo sviluppo delle reti neuronali può risultare anch’esso
alterato”.8
Le teorie “sull’attaccamento” (Dazzi, Madeddu, 2009, pp. 63-68)9 hanno dato
grande rilievo alla relazione che i bambini hanno con i loro caregiver (Bowlby,
1969-1980),10 esplicitando che “nell’attaccamento insicuro”gli stessi caregiver
possono diventare uno stimolo minaccioso/frustrante , che favorisce aggressioni
di tipo reattivo.
Le madri brave a “controllare” senza far ricorso ad atteggiamenti autoritari
aiutavano i loro bambini a imparare a spostare l’attenzione verso gli aspetti meno
frustranti dell’ambiente – una strategia modellata in un’interazione diadica.
Le madri “rifiutanti” non riuscivano, al contrario ad applicare con successo il
modello della distrazione per ridurre la frustrazione, e in più modellavano in
situazioni impegnative, risposte primarie improntate alla rabbia.
Le prime relazioni di attaccamento non hanno, la sola funzione di proteggere il
piccolo d’uomo nella sua vulnerabilità, ma anche quella di organizzare il
funzionamento cerebrale e di creare un ambiente in cui la capacità di padronanza
e di se stessi possa essere acquisita attraverso la creazione di una struttura
rappresentativa per gli stati mentali.
Questo processo può essere minato da diversi fattori precocemente o in fasi più
avanzate, in contesti familiari e/o scolastici, con metodi violenti o no: in ogni
caso il denominatore comune che conduce alla violenza è rappresentato, dalla
momentanea inibizione della capacità di comunicare o di interpretare.
Se le prime esperienze di vita favoriscono una capacità di interpretazione delle
relazioni sufficientemente buona per poi poter sopportare alcune situazioni
negative, anche di maltrattamenti, allora non assisteremo a un costante ricorso di
comportamenti violenti.
Un ulteriore approfondimento in merito a disturbi psichici e quadri clinici di
malattie mentali, a cura di Vittorio Volterra evidenzia, come i crimini violenti
8 Soresi, 2005, in Ceretti A., Natali L., 2009, Cosmologie violente. Percorsi di vite criminali, pp.
72- seg., Raffaello Cortina Editore.
9 Dazzi, Madeddu, 2009 in Ceretti A., Natali L., 2009, Cosmologie violente. Percorsi di vite
criminali, pp. 63-68, Raffaello Cortina Editore p. 72.
10 Bolwby, 1969-1980, in Ceretti A., Natali L., 2009, Cosmologie violente. Percorsi di vite
criminali, Raffaello Cortina Editore p. 72.
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compiuti da soggetti affetti da schizofrenia venivano attuati durante uno
scompenso clinico in fase acuta; ed un peggioramento dei sintomi della
schizofrenia, in particolari quelli psicotici, come per esempio allucinazioni
uditive imperanti, deliri a contenuto persecutorio, mancanza di insight nei
confronti della malattia ecc. influiscono sulla possibilità di comportamenti
violenti. I soggetti schizofrenici che si adeguano al trattamento farmacologico, e
che presentano quindi un buon compenso clinico, vedono ridursi enormemente il
rischio di compiere crimini violenti.
All’interno delle caratteristiche cliniche associate ad un maggior rischio di
criminalità vi è la comorbidità psichiatrica: l’abuso o la dipendenza di alcolici, il
disturbo antisociale di personalità.
Altri studi hanno evidenziato infine come il delitto commesso a opera di soggetti
affetti da schizofrenia sia perpetrato solitamente nei confronti di persone
conosciute, familiari o amici, in ambienti domestici, piuttosto che nei confronti di
sconosciuti.
3.1. Pregiudizi sull’omicidio compiuto dallo schizofrenico
Allorquando un soggetto schizofrenico mette in atto un comportamento violento
di tipo omicidi ario, è frequente che questo venga valutato e giudicato sulla base
di numerosi pregiudizi fondati ora su false mitologie popolari ora su opinioni o
“teorie” personali.
Tali pregiudizi, spesso molto lontani dalla realtà clinica, hanno una buona
distribuzione “trasversale”nella popolazione coinvolgendo sia le persone comuni,
sia gli organi di stampa e, non raramente, gli stessi operatori nel campo della
salute mentale.
Per quanto concerne gli operatori della salute mentale, è comprensibile come un
approccio al problema del comportamento violento basato su un atteggiamento
pregiudiziale non potrà che rendere ancora più complessi la valutazione
diagnostica e il trattamento di tali pazienti.
Al fine di tentare di migliorare il processo diagnostico e terapeutico con i pazienti
violenti, è parso utile in questo specifico contesto, illustrare alcuni dei pregiudizi
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che più frequentemente sono evocati nei casi di un comportamento violento quale
l’omicidio o il tentano omicidio compiuto dallo schizofrenico.
A tale proposito, un pregiudizio diffuso, sia in ambito clinico, sia in ambito
giudiziario, è che il comportamento violento di uno schizofrenico sia legato in
modo esclusivo e specifico all’attività delirante e allucinatoria del soggetto,
soprattutto se tali sintomi presentano contenuti imperativi di comando o
tematiche persecutorie.
In altre parole lo schizofrenico, in caso di omicidio legato esclusivamente alla
malattia, ucciderebbe perché vittima, egli stesso, di una sintomatologia specifica
in cui si percepisce comandato da “forze superiori” o perché, nel suo vissuto
soggettivo a “contaminazione psicopatologica”, ritiene d’essere gravemente
minacciato dalla vittima.
Pur essendo, questa, un’evenienza clinica possibile, i dati mettono in luce che, in
riferimento alla psicopatologia, poco più del 50% degli omicidi viene eseguito in
relazione a un’attività delirante (Nivoli et al, 1996).
In questo ambito di pazienti, in circa la metà è possibile rinvenire un’attività
produttiva florida (intuizioni deliranti a contenuto persecutorio ecc.) nella quale
effettivamente il soggetto schizofrenico può percepirsi in pericolo per la propria
integrità fisica, mentre in altri casi l’attività delirante può essere caratterizzata da
contenuti mistici, di sacrificio, di influenzamento, di grandezza, ecc.
Al contrario, risultano estremamente rari, a un approfondito vaglio clinico, i casi
in cui l’omicidio può essere attribuibile a fenomeni dispercettivi esclusivamente a
carattere imperativo.
Infine non si può non ricordare che esistono motivazioni del tutto indipendenti e
scollegate da qualsiasi delirio e, in questo senso, del tutto sovrapponibili a quelle
degli omicidi compiuti dal soggetto non dichiarato infermo di mente (omicidio
nel corso di rapina, nel corso di violenza carnale, per conflitti di interesse
economici, per gelosia, per litigi banali in stati di ebbrezza alcolica ecc.).
Nell’omicidio come manifestazione della malattia, è pregiudizio diffuso che
l’agito omicidi ario dello schizofrenico possa essere il sintomo di ingresso in una
psicosi non ancora manifestata e diagnosticata da un punto di vista clinico: la
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cosidetta “fase medico-legale della schizofrenia” (Nivoli,1974; Nivoli et
al,1996).11
Secondo questo pregiudizio, il soggetto schizofrenico potrebbe giungere
all’omicidio proprio perché, non essendo stata diagnosticata e adeguatamente
trattata psicofarmaco logicamente, la malattia sarebbe in condizioni di
“esplodere” in maniera tanto eclatante.
In realtà gli omicidi compiuti da pazienti schizofrenici permette di rilevare che in
circa il 60% dei casi, al momento dell’atto, i pazienti erano già in trattamento
psichiatrico.
A tale proposito è da sottolineare la difficoltà per lo psichiatra non solo nel
formulare una corretta diagnosi di schizofrenia (talvolta sottostimata quando non
“confusa” con altre entità cliniche) ma anche nel trattamento e nella gestione di
alcuni pazienti schizofrenici.
Alla luce di quanto affermato sopra, l’analisi dei rapporti esistenti tra schizofrenia
e comportamento violento omicidiario non può basarsi su pregiudizi
acriticamente accettati senza un adeguato confronto con i dati fattuali.
E’ utile sottolineare, ai fini terapeutici, e preventivi, alcune importanti avvertenze
per lo psichiatra.
La prima è la necessità di non essere vittima di “scotomi diagnostici” (per
esempio, non formulare diagnosi errate di depressione maggiore in uno
schizofrenico schizoaffettivo giunto a colloquio in fase acuta dopo un tentato
suicidio e con una prevalente, vistosa e mascherante sintomatologia depressiva
ecc.).
La seconda è di valutare sempre la diatesi omicidi aria secondo lo stress model (e
cioè la presenza di un sub-strato biologico e socioculturale che predispone il
singolo schizofrenico al comportamento violento soprattutto nelle recidive e nelle
vittime multiple) (Silverton, 1988)12.
11
Volterra V., 2005, Psichiatria Forense, Criminologia ed Etica Psichiatrica, Masson, pp.207-288.
(Nivoli,1974; Nivoli et al, 1996) p. 209.
12
Volterra V., 2005, Psichiatria Forense, Criminologia ed Etica Psichiatrica, Masson, pp.207-288.
(Silverton, 1988) p. 210.
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La terza avvertenza è di mantenere a lungo termine un controllo farmaco terapico
dell’aggressività (in molti casi di recidiva di violenze di pazienti schizofrenici, i
farmaci erano stati inadeguatamente sospesi o il loro dosaggio era insufficiente).
Nell’ambito poi di una concezione allargata della struttura di malattia mentale
sono da tenere in particolare considerazione le relazioni psicopatologiche tra
soggetto schizofrenico e vittima (Ellemberg, 1979).13
Ugualmente, nell’omicidio dello schizofrenico non possono non essere
valorizzati la diagnosi psichiatrica del livello di avanzamento della progettualità
di violenza e i segni clinici premonitori del futuro passaggio all’azione violenta.
Le osservazioni fattuali che precedono non hanno la pretesa di esaurire il
complesso problema della violenza omicidi aria messa in atto dal soggetto
schizofrenico: possono però ridurne i pregiudizi stimolando una maggiore
comprensione psicopatologica dell’atto con i concreti risvolti in tema soprattutto
di prevenzione farmacologica e psicoterapica.
3.2. Approcci cognitivi all’omicidio dello schizofrenico
Di fronte a un paziente che oltre ad avere una grave patologia di mente,come la
schizofrenia, abbia anche commesso un importante passaggio all’atto violento
omicidi ario, il terapeuta ha la possibilità di utilizzare differenti approcci
metodologici per tentare di comprenderne il comportamento violento in maniera
che ciò risulti utile ai fini diagnostici, terapeutici, e preventivi.
Tali possibili differenze di approccio a un unico problema trovano origine, oltre
che dall’oggettività complessa dei fattori determinanti del comportamento umano
(fattori biologici, psicologici, psichiatrici, e sociali ecc.) anche da una certa
variabilità personologica e formativa del perito.
Confrontarsi, nella pratica clinica, con uno schizofrenico autore di un
comportamento violento omicidiario solleva difficoltà e interrogativi di non facile
soluzione.
13
Volterra V., 2005, Psichiatria Forense, Criminologia ed Etica Psichiatrica, Masson, pp. 207-288.
(Ellenberger, 1979) p. 210.
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In linea generale, di fronte a un caso clinico di questo tipo, il perito non potrà
trascurare a priori la possibilità di un passaggio all’atto aggressivo non
necessariamente collegato in maniera diretta con la malattia mentale. Allo stesso
tempo tuttavia dovrà confrontarsi oltre che con importanti sintomi di ordine
psicotico, anche con meccanismi di difesa arcaici ed estremamente coinvolgenti
dal punto di vista contro attitudinali.
Egli poi non potrà esimersi dal considerare tutte le comorbilità del processo
schizofrenico: sarà costretto, per esempio, a considerare stati depressivi reattivi
da perdita e da abbandono che si possono accompagnare, nell’ambito di un
pensiero psicotico, alla messa in atto di azioni grandiose e compensatorie.
Inoltre, è da sottolineare che, nonostante i vari approcci all’omicidio dello
schizofrenico si possano descrivere separatamente (Approccio biologico,
psicosociale, etologico, antropologico, ecc.), nella realtà clinica il tentativo di
comprendere cause e motivi dell’azione dissociale induce il perito a cercare le
motivazioni più profonde e specifiche del passaggio all’azione omicidiaria
attraverso cause che variano tra quelle biologiche, psicodinamiche, sociali ecc.
3.3. Varie tappe della dinamica omicidiaria dello schizofrenico
Lo schizofrenico può compiere un omicidio con grandi diversità di motivazioni,
che vanno da quelle più facilmente comprensibili fino a quelle più oscure.
E’ possibile affermare che più un caso clinico è studiato in profondità, più in
generale la dinamica legata all’omicidio manifesta una tendenza a perdere i suoi
aloni di mistero e di imprevedibilità.
Con questa osservazione non si vuole però sottovalutare la difficoltà di una
comprensione profonda dell’omicidio compiuto dagli schizofrenici.
Nell’ambito di un lungo processo che porta lo schizofrenico a compiere
l’omicidio, è stato possibile isolare alcuni punti sia legati alle dinamiche
omicidiarie presenti nella psicologia dell’uomo considerato sano di mente, sia
legata alla patologia specifica degli schizofrenici.
Queste tappe permettono di tracciare una sorta di cammino che lo schizofrenico
percorre prima di arrivare al compimento dell’omicidio.
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Le quattro fasi principali attraverso cui uno schizofrenico omicida compie il suo
tragitto omicida rio sono le seguenti (Nivoli, 1974):14
- la nascita della situazione di pericolo;
- la ricerca delle cause;
- la ricerca delle soluzioni;
- l’omicidio come tentativo di risoluzione di una situazione pericolosa.
Prima tappa: la nascita della di pericolo situazione
In questa tappa la persona accumula frustrazioni, insuccessi, disagi,soprattutto sul
piano sociale.
E’ da sottolineare che tutte queste frustrazioni sono obiettive, reali e possono
essere altresì alla base della dinamica di un comportamento aggressivo per una
serie di individui che non sono né schizofrenici, né malati di mente.
Ai fallimenti sociali sono inoltre da aggiungere, nel caso dello schizofrenico, tutte
le frustrazioni legate alla malattia che rendono assai più difficili i suoi rapporti
interpersonali e trasformano la realtà in una situazione pericolosa per la sua
libertà di espressione e la sua integrità fisica e psichica.
Tra queste situazioni vissute dal soggetto, che sono obiettivamente e realmente
frustranti, possiamo ricordare per esempio la famiglia schizofrenogena e
criminogena, la perdita brusca dell’attività lavorativa, le relazioni disturbate, la
stigmatizzazione sociale legata alla malattia mentale, le frustrazioni legate alle
terapie psichiatriche ambulatoriali, agli internamenti in servizi psichiatrici, i
ritardi e le imprecisioni nella diagnosi della malattia, gli effetti frustranti di
alcune terapie, e di certi terapeuti, e le interazioni stimolanti e scatenanti il
passaggio all’azione che la persona può avere nei confronti della vittima.
Per quanto concerne i complessi problemi delle famiglie schizofrenogene proprie
di quegli schizofrenico che hanno compiuto un omicidio, è possibile sottolineare
l’alta percentuale di malati mentali e l’alta emotività espressa presenti nelle
famiglie dei futuri schizofrenici omicidi.
Si tratta di fattori che mettono in luce come molti schizofrenici che hanno
compiuto un delitto provengano da una situazione familiare ricca di patologia
14
Volterra V., 2005, Psichiatria Forense, Criminologia ed Etica Psichiatrica, Masson, pp. 207-288.
Nivoli, 1974, p. 216.
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mentale ereditaria e funzionale nei rapporti tra i vari membri: fattori che non
hanno certo favorito l’equilibrio psicologico necessario a una corretta
socializzazione.
Anche per le famiglie criminogene è possibile sottolineare la presenza,
nell’anamnesi degli schizofrenici futuri autori di un omicidio, di numerosi
comportamenti delinquenziali, e violenti tra i familiari, spesso accompagnati da
una valorizzazione di sottoculture che eleggono il comportamento violento come
mezzo principale per gestire i rapporti interpersonali.
Questo dato di fatto sottolinea come lo schizofrenico sia stato in contatto e abbia
potuto apprendere una socializzazione per imitazione e per identificazione basata
su un comportamento antigiuridico violento, impostato
e valorizzato per
risolvere i problemi interpersonali.
Seconda tappa: ricerca delle cause
Quando lo schizofrenico è profondamente frustrato e si percepisce in una
situazione penosa segnata da notevoli disagi, concentra la sua attenzione
soprattutto sul mondo esterno, che considera come la vera e unica fonte di
pericolo per la propria esistenza, non solo fisica ma anche morale e psichica.
Lo schizofrenico in questa ricerca delle cause delle frustrazioni, e del possibile
pericolo che minaccia la sua libertà tanto fisica quanto psichica, passa attraverso
due tappe caratteristiche: la pluralizzazione delle cause di pericolo e la
concretizzazione delle cause di pericolo.
1 Pluralizzazione delle cause di pericolo
Nella pluralizzazione delle cause di pericolo tutto e tutti diventano motivo di
preoccupazione e di pericolo per la libertà fisica e psichica dello schizofrenico.
Per meglio comprendere questa affermazione è indispensabile considerare il
grande travaglio psichico, ben conosciuto in ambito clinico, che può
accompagnare le varie forme di alterazione del sentimento di realtà sino a veri e
propri deliri.
Ricordiamo l’allargamento dell’alone semantico, il sentimento di estraneità, i
fenomeni di depersonalizzazione e di derealizzione, sino a veri e propri stati
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d’animo deliranti che possono concretizzarsi in deliri a contenuti strutturati assai
specifici e articolati.
Senza approfondire il campo clinico che va dall’alone semantico sino al delirio di
persecuzione più strutturato, sotto il profilo soprattutto clinico-criminologico,
considereremo in particolare, in relazione all’omicidio dello schizofrenico diversi
stati d’animo; Uno degli stati d’animo che si può presentare è percepire il mondo
come strano, irreale e successivamente fonte di ansia e perplessità, dove lo
schizofrenico riesce sempre meno a comprendere il significato di quanto si svolge
attorno alla propria persona (Callieri et al, 1959).15
Successivamente si può verificare il mutamento pauroso, dove si verifica una
presa di coscienza da parte della persona, non solamente di un cambiamento
attorno alla propria persona, ma di qualcosa che assume il carattere preciso di
malevolo, minaccioso e pericoloso nei propri confronti.
In altre parole non solo “tutto e tutti stanno cambiando”, ma “tutto e tutti
diventano una minaccia” e una possibile sorgente di pericolo per la propria
esistenza fisica e psichica.
In questa fase lo schizofrenico diventa più ansioso, irritabile, agitato, anche sul
piano comportamentale, e può manifestare passaggi all’azione non controllati.
Inoltre lo schizofrenico può altresì vivere sentimenti di catastrofe imminente.
Questi stati d’animo non sono necessariamente legati all’esecuzione del delitto; si
tratta di fattori che insieme a numerose altre variabili possono però essere
suscettibili di stimolare e facilitare un atto omicida rio in soggetti predisposti
all’uso della violenza come modalità di risoluzione di conflitti interpersonali.
Un ulteriore stato d’animo è la causalità psicologica proiettata; per quanto
concerne questa,è possibile fare un raffronto, pur con le dovute cautele,
dell’atteggiamento dello schizofrenico verso il mondo esterno, percepito come
ostile e minacciante.
Questa modalità è un’interpretazione psicologica, nella quale sembra quasi che
ogni antecedente necessari odi ogni fatto sia legato all’atto di volontà di
qualcuno, atti di volontà che spesso sono malevoli e aggressivi.
15
Volterra V., 2005, Psichiatria Forense, Criminologia ed Etica Psichiatrica, Masson, pp. 207-288.
Callieri et al, 1959, p. 219.
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Si tratta di uno stile di approccio alla realtà attraverso la “causalità psicologica
proiettata” frequente tra i soggetti paranoidi che tendono a interpretare ogni
avvenimento della vita come l’espressione di una intenzionalità psicologica (che
si può manifestare a livello clinico con strutture deliranti a contenuto
persecutorio).
Molti schizofrenici prima di compiere il delitto si percepivano in stato di pericolo
anche se non riuscivano a conoscere esattamente quale esso fosse, quale fosse il
loro nemico, o i loro nemici, quali fossero esattamente i fatti e le percezioni alla
base del loro sentimento di essere in pericolo riguardo alla loro integrità fisica e
psichica.
2 Concretizzazione delle cause di pericolo
A una primitiva concezione di un mondo percepito come ostile, minaccioso e
pericoloso, poco per volta nello schizofrenico si fa strada la convinzione che
solamente qualcosa o qualcuno sia la causa della situazione di pericolo fisico,
morale o psichico.
Questo processo che parte dalla pluralizzazione delle cause di pericolo, cioè un
mondo indistinto dove “tutti e tutto sono pericolosi”, sino ad arrivare alla
convinzione che solo “qualcuno o qualcosa è pericoloso”prende il nome di
concretizzazione (Arieti, 1959).16
Lo schizofrenico è ancora capace di una concettualizzazione astratta, ma con
l’aumentare dell’ansia compie la trasformazione dell’astratto in concreto.
La concretizzazione, cioè il passaggio da un sentimento astratto a un’immagine
concreta, non è un processo specifico dello schizofrenico e non è certamente in
tutti i casi legata alla commissione di un omicidio.
Il processo di concretizzazione è presente nell’attività onirica, nelle produzioni
degli artisti e dei poeti ecc., che trasformano un’idea stratta in un’immagine
concreta.
Gli schizofrenici, allorquando uccidono, non lo fanno sempre sotto l’effetto di un
delirio a contenuto specifico; possono, infatti, uccidere anche se non sono affetti
da un delirio a contenuto specifico, ma per stati d’animo deliranti, mutamenti
16
Volterra V., 2005, Psichiatria Forense, Criminologia ed Etica Psichiatrica, Masson, pp. 207-288.
Arieti, 1959, p. 220.
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paurosi, causalità psicologiche proiettate o per altri motivi legati a dinamiche che
non concernano psicopatologie specifiche della schizofrenia come la gelosia, la
vendetta ecc.
Spesso presentano una pluralizzazione delle cause di pericolo che si trasforma in
una loro concretizzazione, cioè identificano tra le persone un soggetto che diventa
per loro la vera e unica causa di pericolo per l’esistenza fisica e psichica e che
quindi debbono distruggere ed eliminare fisicamente.
Considerando quanto precede, si può mettere in luce che la plurilizzazione e la
concretizzazione delle cause di pericolo rappresentano due meccanismi attraverso
cui lo schizofrenico, con una logica improntata alla psicopatologia, cerca di
identificare la fonte di tutte le sue frustrazioni sociali, del suo malessere
esistenziale e dei danni che gli vengono causati dalla malattia.
Alla fine di questa fase lo schizofrenico crede di aver trovato le ragioni alle sue
frustrazioni e di sapere che cosa o chi è all’origine dei suoi sentimenti di essere in
pericolo fisico e psichico.
Terza Tappa: ricerca della soluzione
In questa tappa di avvicinamento all’esecuzione dell’omicidio, lo schizofrenico
cerca di risolvere la sua percepita situazione di pericolo esistenziale, psichico e
fisico. Le modalità per risolvere questa situazione ritenuta estremamente
frustrante, penosa, ansiogena e pericolosa sono numerose e sono più o meno
adeguate alla realtà.
Queste soluzioni possono essere divise almeno in tre categorie:
a) allontanamento dalla situazione di pericolo;
b) impatto con la situazione di pericolo;
c) annullamento della situazione di pericolo.
Allontanamento dalla situazione di pericolo
In questo caso, lo schizofrenico, individuata una causa di pericolo per la propria
esistenza, cerca di allontanarsi.
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In tal senso devono essere intese certe fughe, viaggi, e anche tentativi di suicidio
che possono precedere l’omicidio.
Poco prima di commettere il reato, infatti alcuni hanno manifestato la tendenza a
fuggire dal proprio ambiente.
In qualche caso lo schizofrenico è stato in grado di precisare i motivi della sua
fuga: “scappare dai persecutori” o “dalle cattive influenze che lo minacciavano”.
In altri casi lo schizofrenico, pur non essendo in grado di spiegare le ragioni della
fuga o del viaggio, può aver modo di affermare: “Avevo bisogno di andarmene,
di allontanarmi, di fuggire”.
Impatto con la situazione di pericolo
Allorquando lo schizofrenico sceglie l’impatto con la situazione di pericolo, per
poterla risolvere può domandare aiuto a qualche ente o a qualche persona.
In generale, questa domanda di aiuto è posta ai servizi pubblici come ai servizi
psichiatrici, alla polizia, alla giustizia e, più raramente, a singoli individui.
Circa un quarto degli schizofrenici che hanno commesso un omicidio aveva
chiesto poco tempo prima del delitto di essere preso in carico da un servizio
psichiatrico.
Soggettivamente questo bisogno di essere accuditi e protetti era stato verbalizzato
come il tentativo di porre rimedio a un eccessivo nervosismo, alla paura di fare
delle stupidaggini, al timore di arrecare danno a qualcuno.
In questi casi, talvolta, la mancanza di posti disponibili, o un errore di valutazione
clinica della gravità della malattia e della possibilità del passaggio all’atto, hanno
impedito la rapida e utile presa in carico del soggetto.
Lo schizofrenico può attaccare la situazione di pericolo attraverso minacce rivolte
a chi ritiene il suo persecutore o la causa del suo disagio.
Molti schizofrenici che compiono un omicidio lo preannunciano prima di
compierlo, con differenti modalità.
In alcuni casi sono state formulate minacce in modo chiaro e indirizzato a una
persona specifica; in altri casi è solo segnalata la l’intenzione vaga di uccidere.
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Il significato delle minacce è complesso, per cui non possono essere considerate
sempre e automaticamente il primo passaggio di una progressione ineluttabile
verso l’omicidio.
Esse, infatti, possono avere differenti significati per il soggetto; da una parte
possono rappresentare una domanda di aiuto alterata, a volte possono
rappresentare, da parte da chi le fa, un tentativo di rinforzo della propria volontà
di uccidere.
Tra questi due estremi, domanda di aiuto, e rafforzamento di una volontà
omicidiaria, possono esistere molte altre interpretazioni delle minacce.
E’ importante, soprattutto nel caso degli schizofrenici, non sottovalutare il
significato simbolico che le minacce, possono rivestire in un tentativo di dominio,
da parte del soggetto, del mondo esterno.
Lo schizofrenico, infatti, può nutrire l’illusione che sia sufficiente esprimere un
desiderio, in particolare elaborato, secondo una certa verbalizzazione o un
determinato rituale, per ottenere un cambiamento della realtà o modificare il
corso degli avvenimenti a proprio vantaggio.
L’impiego delle minacce negli schizofrenici che hanno commesso un omicidio è
stato soprattutto legato al tentativo di neutralizzare le cause di pericolo che
secondo il paziente lo stavano minacciando.
Annullamento della situazione di pericolo
Oltre all’allontanamento e all’attacco alla situazione di pericolo, lo schizofrenico
può altresì utilizzare, proprio basandosi sulla propria psicopatologia, dei tentativi
di annullamento della situazione di pericolo secondo modalità ideative psicotiche.
In questo senso, lo schizofrenico può servirsi, per esempio, di contenuti deliranti
per poter annullare la situazione di pericolo.
Così vi sono deliri di vulnerabilità che possono mettere lo schizofrenico di fronte
alla possibilità di non risentire la situazione di pericolo.
Altri deliri di onnipotenza possono portare lo schizofrenico a considerare la
possibilità di risolvere ogni problema e di continuare a vivere in un mondo
psicotico privo di pericoli.
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In conclusione la terza tappa, e cioè il tentativo di risolvere la situazione di
pericolo, contiene elementi fondamentali del passaggio all’atto, utili a un valido
intervento psichiatrico.
Prima di uccidere la maggior parte degli schizofrenici cerca di risolvere la propria
situazione esistenziale con mezzi che sono diversi da quella dell’uccisione e
distruzione fisica di una persona. E’ soprattutto a questo livello che le modalità di
prevenzione dell’omicidio possono essere precostituite e messe in atto.
E’ necessario poter comprendere le modalità che lo schizofrenico usa per non
giungere all’omicidio allo scopo di interrompere il percorso obbligato verso la
commissione del delitto. Se tutto ciò non è prevenuto e le tappe del delitto
possono continuare, dopo aver cercato di risolvere la situazione di pericolo con le
fughe, i viaggi, i tentativi di suicidio, i deliri, la richiesta di aiuto, lo schizofrenico
che diventerà omicida passerà all’atto omicida rio.
Quarta tappa: omicidio come tentativo inadeguato di risolvere la situazione di
pericolo
E’ stato osservato clinicamente che nello schizofrenico la decisione di uccidere
non nasce improvvisamente come “un fulmine a ciel sereno”, ma attraverso
progressive tappe e passaggi psicologici che possono essere alla base tanto del
passaggio all’atto dell’assassino dichiarato sano di mente, quanto del soggetto
psicotico.
Tuttavia, in quest’ultima fase del delitto, saranno descritti soprattutto questi
meccanismi più ricchi di psicopatologia che possono essere alla base
dell’omicidio compiuto dallo schizofrenico e che sostanzialmente danno un
significato di inutilità funzionale (a livello di logica) all’atto che è stato compiuto.
Omicidio per eliminazione dell’aggressore immaginario
Questo genere di delitto è, generalmente, lungamente meditato e annunciato
direttamente alla vittima in modo chiaro e inequivocabile.
La vittima fa parte, in genere, del microcosmo sociale che ruota attorno al
paziente. Quest’ultimo, dopo aver tentato numerosi modi per risolvere la
situazione di pericolo (domanda d’aiuto, tentativo di suicidio, allontanamento,
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fughe, minacce), decide infine di passare all’azione, cercando di distruggere, cioè
uccidendola, la persona che, nell’ambito della sua psicopatologia, ritiene,
indipendentemente dalla realtà, essere la causa di tutti i suoi disagi e dei suoi
timori per la propria integrità fisica e psichica.
Omicidio per eliminazione dell’aggressore reale
In questo caso la vittima è stata realmente un tiranno familiare, una persona
violenta nei confronti dei propri familiari; è comprensibile, dunque, la reazione di
difesa dello schizofrenico che ha ucciso la vittima, dove in una costruzione
delirante, lo schizofrenico trasforma l’immagine reale in qualcun altro.
Omicidio per eliminazione degli aggrediti
Lo schizofrenico che si ritiene perseguitato da numerose persone, dopo aver
fallito nella sua difesa, nei tentativi di fuga e nell’attaccare le situazioni di
pericolo, non è in grado di considerare altra situazione di pericolo, non è in grado
di considerare altra soluzione che il suicidio.
Non prova il sentimento di essere in pericolo solamente per se stesso, ma lo
estende anche a quelli che lui è convinto di amare.
In questo caso lo schizofrenico prima di suicidarsi, uccide una o tutte le persone
che secondo lui possono essere in pericolo di vita.
Si tratta di una forma di “suicidio allargato”, con l’apparenza di una aggressione
altruistica , per non lasciare le persone che dice di amare in un mondo cattivo e
crudele, vittime di un preciso persecutore, o di vari persecutori non identificati.
Questa rassomiglianza tra l’omicidio come “eliminazione degli aggrediti” e
“l’omicidio allargato” del depresso, è fortemente significativa, anche perché
spesso gli schizofrenici caratterizzati da questo passaggio all’atto presentano una
diagnosi di schizofrenia schizoaffettiva, dove è innegabile la presenza di gravi
componenti depressive.
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Omicidio per atto dissuasivo
Questo tipo di omicidio ha l’obiettivo, nella percezione dello schizofrenico, di
intimidire i persecutori tramite una dimostrazione di grande potenza, quale quella
di distruggere una vita.
In questa dinamica lo schizofrenico non è riuscito a scoprire l’identità dei suoi
persecutori perché non ha concretizzato la sua situazione di pericolo; tuttavia
uccide uno sconosciuto comprendendo che è innocente, ma compie ugualmente
l’atto omicida rio per dare una dimostrazione di quanto potente, terribile e crudele
possa essere.
In questo modo, nella sua percezione, i suoi nemici, vedendo la distruttività di
quello che ha fatto, non lo tormenteranno più avendo paura delle sue reazioni e
finalmente lo lasceranno “vivere in pace”.
Si potrebbe dire che questo omicidio entra in una sorta di “politica di
intimidazione”, seppur patologica, che riguarda dei persecutori ritenuti
sconosciuti.
Con un atto di estrema gravità come l’omicidio, lo schizofrenico cerca di mettere
in guardia tutti quelli che possono perseguitarlo e che lui ritiene responsabili delle
sue frustrazioni e di tutti i pericoli da cui si sente minacciato.
Omicidio per sacrificio propiziatorio
In questo genere di omicidio, lo schizofrenico afferma di aver sentito delle voci, o
di aver avuto delle visioni, che gli ordinavano di uccidere qualcuno, per salvare
altre persone.
Molto frequentemente, in seguito lo schizofrenico abbandona questo linguaggio
simbolico e si esprime più chiaramente: non si trattava di salvare una persona o
l’umanità, ma di salvare la propria vita.
L’omicidio cosiddetto per sacrificio, può essere considerato a livello simbolico
come l’offerta disperata dello schizofrenico che per ottenere una grazia, e cioè un
cambiamento della sua vita frustrata, penosa, minacciata e piena di pericoli, è
pronto a pagare il prezzo che pensa essere più alto per potersi salvare.
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Se l’atto dissuasivo fa parte di una “politica di intimidazione” verso gli
sconosciuti, l’omicidio come sacrificio propiziatorio può essere considerato, in
certi casi, come il frutto di una “politica propiziatoria” ugualmente indirizzata a
sconosciuti.
Questa interpretazione di ordine generale non esclude la partecipazione a
dinamiche più specifiche quali, per esempio, la proiezione all’esterno di
sentimenti di colpa ecc.
Omicidio per spostamento simbolico
Nel caso di omicidio per spostamento simbolico, l’intenzione omicidiaria nei
confronti di una vittima può essere rapidamente trasferita su un’altra vittima.
La dinamica del pensiero dello schizofrenico è caratterizzata da meccanismi
associativi molto rapidi che non sono ancora completamente chiariti dalla
dinamica.
Queste associazioni rapide, permettono, per esempio, la sostituzione di un
persecutore con una persona che a lui possa rassomigliare.
Talvolta è sufficiente una barba, un accento, una parte del vestito, e il paziente
riesce così a confondere gli attributi con l’identità: si tratta di un ragionamento
paleo logico (Arieti, 1973).17
Generalmente questi omicidi sono preceduti da pericoli di agitazione psichica e
da stati ansiosi che possono avere la durata di parecchi giorni.
Omicidio per concretizzazione dell’aggressività da frustrazioni croniche
In questo caso il delitto è preceduto da un periodo di preparazione nel corso del
quale lo schizofrenico omicida si mostra particolarmente ansioso, agitato dal
punto di vista psichico e motorio e presenta uno stato d’animo delirante, vago,
verbalizzando dei contenuti aggressivi, soprattutto verso il contesto sociale in cui
vive. Questo periodo può essere seguito, apparentemente senza legame, dalla
scarica di tali tensioni emotive in un atto omicida rio che pare arrivare
all’improvviso e di cui, immediatamente dopo, lo schizofrenico non è in grado di
fornire spiegazioni razionali.
17
Volterra V., 2005, Psichiatria Forense, Criminologia ed Etica Psichiatrica, Masson, pp. 207-288.
Arieti, 1973, p. 226.
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Questo genere di omicidio è sovente posto in essere come una tecnica di
esecuzione brutale e appare frequentemente scatenato, almeno a livello più
manifesto, attraverso un’aggressione reattiva di dominanza, di rivalità sessuale su
base irritabile, di controllo sadico, di difesa territoriale ecc.
Si tratta di una delle dinamiche omicida rie tra quelle ancora poco studiate;
Queste dinamiche omicidiarie sono state descritte nell’ambito della discordanza
psicomotoria, crisi classiche di automutilazione, suicidi che traducono una ricerca
di soddisfacimento istintuale aggressivo arcaico nel quale il piacere è legato alla
distruzione dell’oggetto.
Secondo
le
interpretazioni
che
valorizzano
maggiormente
l’aspetto
psicosociologico dell’omicidio si tratta di uno scarico improvviso di frustrazioni
lentamente accumulate che, come una bomba, può esplodere alla più piccola
scintilla.
Questa dinamica generale non esclude l’intervento di processi psicologici più
specifici della schizofrenia: per esempio, la concretizzazione da parte del paziente
del suo stato ansioso e aggressivo.
E’ da segnalare, inoltre, la funzione di parafulmine o di capro espiatorio che può
acquisire la vittima.
Non è possibile poi, escludere la partecipazione di un processo di scissione, per il
quale il paziente elimina, distrugge tutti gli oggetti ritenuti cattivi, nel tentativo di
eliminare quelle parti di sé che proietta all’esterno su altre persone.
Omicidio per condensazione di un’altra vittima
Gli schizofrenici possono uccidere non solo una ma più vittime, nel corso del
medesimo atto criminale.
In questi casi, le vittime possono essere uccise per motivi molto diversi; La
frequenza con cui gli schizofrenici uccidono più vittime è stato statisticamente
superiore alla media degli altri assassini, dichiarati sani di mente, che in genere
tendono a uccidere solo una vittima.
Non sono chiare le motivazioni per cui uno schizofrenico uccide una seconda
vittima, inoltre queste motivazioni possono variare da un caso all’altro.
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Può trattarsi, infatti, di vittime inglobate in un medesimo delirio, dell’estensione
automatica di una violenza omicidiaria, del comportamento aggressivo della
seconda vittima, che cerca di difendere la prima vittima ecc.
Spesso la seconda vittima è percepita dallo schizofrenico senza un’individualità
precisa, quasi fosse assorbita, sincretizzata, contaminata o meglio condensata
nell’immagine della prima vittima o vittima principale.
Questo tipo di omicidio è chiamato “per condensazione”, tale meccanismo
psichico dove due o più elementi possono fondersi in uno solo, è frequente nel
pensiero dei deliranti e degli uomini primitivi.
La condensazione, inoltre, come processo primario, è implicata nell’elaborazione
onirica, ma (come suggerisce Jung, citato da Arieti,1959)18 può anche essere
presente negli schizofrenici, allorquando sono svegli, in quanto alcuni loro
meccanismi psicologici presentano numerose analogie con i meccanismi
psicologici che regolano la formazione del sogno.
3.4. Significato dell’atto omicida rio per lo schizofrenico
La lunga lista delle variabili cliniche e i numerosi processi psicopatologici che lo
schizofrenico mette in atto nel corso delle tappe descritte per spiegare il cammino
che lo porta all’omicidio possono sembrare frammentate, separate le une dalle
alte. Si tratta dunque di trovare un filo comune che possa unire tutti questi
elementi.
Lo schizofrenico può uccidere per le motivazioni apparentemente più normali
(gelosia, vendetta ecc.), sino a quelle più squisitamente psicotiche e
specificatamente legate alle sua psicopatologia (fusine, condensazione, ecc.).
Inoltre è da rilevare il doppio binario su cui può essere esaminato l’omicidio
compiuto dallo schizofrenico: quello legato alla patologia del comportamento
violento e quello legato alla psicopatologia della schizofrenia. Nonostante queste
limitazioni è possibile ipotizzare uno “scheletro”, e cioè una struttura
fondamentale che ci possa rendere conto del passaggio all’atto, non di tutti gli
18
Volterra V., 2005, Psichiatria Forense, Criminologia ed Etica Psichiatrica, Masson, pp. 207-288.
Jung, citato da Arieti,1959, p. 228.
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omicidi, ma di molti omicidi compiuti dallo schizofrenico, soprattutto
allorquando la patologia del comportamento violento si interseca e si integra con
la psicopatologia della schizofrenia.
Lo schizofrenico che ucciderà è prima di tutto un individuo, che cammina a
ritroso verso l’omicidio, spesso attraverso tentativi maldestri di risoluzione della
situazione di pericolo, per precipitare, poi, spesso non volendo, in un tunnel
sempre più stretto, sempre più buio, sempre più in discesa, in cui all’estremità
incomincia a risentirsi il rumore, stridente e angosciante dell’omicidio, come
unica modalità per risolvere una situazione ritenuta di estremo pericolo personale.
Tutti questi messaggi di richiesta di aiuto, di difficoltà, di rifiuto nella scelta
omicida ria, spesso non sono compresi da chi li ascolta, anche a causa della loro
stranezza, fantasia, incomprensibilità.
Tutte le richieste di aiuto, protezione e cura cadono nell’indifferenza e il
cammino verso l’omicidio si affretta e si accorcia. Così alla fine, dopo aver fallito
nel tentativo di risolvere i propri problemi, di capire qual è la causa, e di non
essere stato in grado di migliorare la propria situazione esistenziale, lo
schizofrenico, sempre più incapace di separare i suoi problemi interni da quelli
esterni, uccide.
Le ragioni profonde per cui un essere umano uccide un altro essere umano non
risiedono certo nella psicopatologia della schizofrenia, ma hanno la loro base
nella psicopatologia della violenza, che può essere tanto presente nei soggetti sani
di mente, quanto nei soggetti malati di mente.
L’esperienza clinica criminologica di ogni giorno non lascia dubbi: la maggior
parte delle persone che uccidono, sono persone secondo la psichiatria forense
sane di mente.
La scelta di dialogare con un coltello in mano, alzato e pronto a colpire per
risolvere i propri problemi personali, non può che essere compresa
approfondendo lo studio sulle motivazioni dell’omicidio in generale.
Lo studio della psicopatologia della schizofrenia può aiutare a meglio
comprendere, allorquando la persona ha già alzato il coltello nelle sue mani ed è
pronta a colpire, su chi, come, e quando, il coltello sarà repentinamente abbassato
per uccidere.
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E’ questo dato che riassume l’ipotesi alla base del trattamento psichiatrico dello
schizofrenico omicida: curare la psicopatologia della violenza e la psicopatologia
della malattia; questa potrebbe anche essere la strada principale per poter meglio
approfondire la comprensione e soprattutto gli aspetti preventivi delle dinamiche
omicida rie in generale.
3.5. Schizofrenia e recidiva omicidiaria
La recidiva di un comportamento omicidiario (omicidio e tentato omicidio) a
opera di soggetti schizofrenici non è un evento raro.
Tuttavia numerosi pregiudizi intervengono, nelle persone comuni ma anche nei
clinici, a rinforzare la convinzione che non sia frequente la ripetizione di una
dinamica violenta.
Dopo il comportamento violento lo schizofrenico lo schizofrenico, generalmente
viene privato della libertà e non ha più la possibilità materiale di commettere un
omicidio.
In alcuni casi l’omicidio è stato compiuto durante uno stato psicotico acuto che si
riduce, si trasforma o scompare con la terapia.
Le motivazioni all’aggressione possono cambiare, ridursi o sparire con
l’uccisione della vittima. Il cambiamento del contesto di vita può ridurre o
annullare alcuni stimoli che hanno contribuito alla dinamica omicidiaria.
Al di là dei pregiudizi rimane tuttavia la constatazione empirica che il
comportamento omicidiario dello schizofrenico presenta una tendenza alla
ripetizione.
Alla luce di quanto precede, è parso utile illustrare alcune dinamiche di specifici
contesti in cui la recidiva può verificarsi che possono risultare di interesse per il
clinico nell’ambito di una miglior conoscenza e gestione di un paziente
schizofrenico che ha avuto un comportamento violento (omicidio e tentato
omicidio).
Uno dei contesti nel nostro studio da prendere in considerazione è il contesto
paranoideo. Tale contesto è caratterizzato da una varietà di dinamiche violente
39
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sulla persona che hanno come denominatore comune una stretta implicazione con
la psicopatologia della schizofrenia paranoide (un’attività delirante strutturata a
contenuto di persecuzione, di grandezza ecc.).
In questo contesto fortemente “contaminato”dalla psicopatologia, si possono
rilevare dinamiche di aggressione che variano tra l’”omicidio schizofrenico puro”
( dove predomina la complessa psicopatologia della schizofrenia la cui dinamica
è spesso incomprensibile) e quello “interferenziale (dove piuttosto che trovare
dinamiche specifiche della schizofrenia si possono trovare dinamiche aggressive
comune ai soggetti sani di mente).
Sia il primo comportamento violento, sia la recidiva possono essere secondo le
verbalizzazioni del soggetto, in relazione con un’attività delirante strutturata.
Da rilevare è che nella recidiva può essere messa in luce una strutturazione
delirante a contenuto diversificato rispetto al delirio presente nel precedente
comportamento violento (in genere si tratta di variazione sul tema della
persecuzione), ovvero è presente lo stesso tipo di delirio ma “spostato” su
un’altra vittima ( che può a livello simbolico, ricordare la prima), o ancora una
“collusione” tra il delirio del paziente e quello di un altro paziente.
Alla luce di quanto detto, è possibile rilevare alcuni elementi di interesse clinico.
Nell’ambito del comportamento violento dello schizofrenico (omicidio e tentato
omicidio) è possibile osservare una stretta interazione tra dinamiche omicida rie
psicotiche e dinamiche omicida rie non psicotiche; è possibile mettere in luce in
uno stesso caso clinico molteplici dinamiche che hanno agito in sinergia tra loro;
infine è possibile rilevare il complesso ruolo che ha la psicopatologia, nella sua
interazione
con
fattori
ambientali
e
psicosociali,
nello
scatenare
un
comportamento violento.
Inoltre le osservazioni che seguono possono favorire una miglior comprensione
clinica finalizzata all’individuazione di strategie preventive.
E’importante conoscere l’anamnesi di un paziente schizofrenico in maniera
approfondita e comprensiva dei precedenti comportamenti violenti.
Particolare attenzione sospettosità vanno dedicati ai dati riferiti del paziente, dai
familiari, da eventuali vittime, i quali, oltre a celare deliberatamente alcune
notizie, possono utilizzare meccanismi di difesa quali la negazione o la
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minimizzazione dei comportamenti violenti e rendere così deficitaria e
incompleta la raccolta anamnestica.
Particolare attenzione va ugualmente prestata ai dati delle cartelle cliniche, che
possono essere incompleti anche in ragione di una certa tendenza a tutelare la
privacy degli individui, ovvero volontariamente non indagati alla luce di
posizioni ideologiche estremizzate.
Conoscere come si è svolto un precedente comportamento violento può essere
indicativo di come può essere un futuro comportamento violento nell’ambito di
dinamiche violente che spesso vedono il ripetersi del medesimo meccanismo.
Mettere in atto una terapia psichiatrica (farmacoterapia) nei confronti di un
paziente schizofrenico omicida è di fondamentale importanza. Tuttavia è utile
segnalare che non è un elemento di garanzia assoluta.
Il trattamento farmacologico è di importanza prioritaria qualora il comportamento
omicida rio si sia inserito in una dinamica prevalentemente di ordine
psicopatologico (per esempio, un’attività delirante). Tuttavia alcune dinamiche di
violenza non sono legate alla psicopatologia dell’individuo in maniera prioritaria
(contesto di difesa fisica, contesto di cultura criminale, contesto sessuale), ma a
dei fattori scatenanti che lo schizofrenico condivide con altri numerosi soggetti
sani di mente. Tale dato può aiutare a comprendere come e perché alcuni
comportamenti violenti si verificano anche quando la sintomatologia psicotica è
clinicamente migliorata.
Ne deriva che l’intervento terapeutico per lo schizofrenico, autore di un
comportamento violento, deve essere indirizzato su due versanti. Da una parte
deve essere posta una corretta diagnosi e impostata un’adeguata terapia
farmacologica; dall’altra si deve fare un’attenta valutazione del comportamento
violento e instaurare un trattamento specifico (Nivoli et al, 1999).19
19
Volterra V., 2005, Psichiatria Forense, Criminologia ed Etica Psichiatrica, Masson, pp. 207-288.
(Nivoli et al, 1999) p. 244.
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4. Valutazione del rischio di violenza
4.1. Aggressività e violenza: definizioni, distinzioni e psicopatologia
Il rapporto tra patologia mentale e comportamento violento è da sempre oggetto
delle riflessioni della comunità psichiatrica e del mondo della giustizia, nel
tentativo di risolvere il complesso percorso che vuole integrare adeguati
trattamenti sanitari per l’utenza psichiatrica violenta, la garanzia della loro stessa
sicurezza personale e la garanzia del mantenimento dell’ordine sociale.
Come abbiamo visto, all’inizio del secolo il trattamento dei pazienti psichiatrici
autori di reato risentiva dell’assunzione di un’equivalenza tra malattia mentale e
pericolosità, che aveva dato come risultato il loro necessario allontanamento dalla
società civile in nome della protezione della sua sicurezza.
Successivamente, le riflessioni condotte da altri punti di vista sulle finalità del
trattamento giuridico-sanitario da rivolgere a questa specifica tipologia di
criminali, avevano indirizzato quella rivoluzione culturale che modificò
sostanzialmente il volto dell’organizzazione dell’assistenza psichiatrica ed in
particolare degli istituti atti ad ospitare tali soggetti, i Manicomi Criminali (Sanza
M., 1999) protezione della sua sicurezza.
Tuttavia, ancora oggi è rimasta fondamentale la questione della gestione del
comportamento violento, anche perché alla ribalta della cronaca continuano a
rimanere, in occasione di delitti efferati così come di episodi meno cruenti, gli
stessi interrogativi: la violenza è innata o acquisita? Chi è affetto da una patologia
mentale, o da alcune in particolare, è più violento della popolazione normale? E’
possibile prevedere un comportamento violento? Quali protocolli operativi
adottare per la gestione di questi casi?
Decenni di studio e ricerca non sono bastati ad ottenere delle risposte univoche a
questi interrogativi, in quanto il concetto stesso di violenza, multi determinato,
sfugge alla possibilità di avere una definizione categoriale netta.
Tentando di punteggiare alcuni concetti importanti, diciamo che, in primo luogo,
si rende necessario discutere sulla possibilità di distinguere tra violenza ed
aggressività.
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In entrambi i casi si tratta della disposizione a mettere in atto un comportamento
lesivo verso altre persone, animali o cose, ma dall’aggressività viene
generalmente esclusa l’intenzionalità, ovvero la consapevolezza dolosa
dell’offesa arrecata, caratteristica invece della prima. Ancora, tradizionalmente
l’aggressività ha motivo di esistere come difesa della propria integrità, del proprio
gruppo o del proprio territorio, o allo scopo di conquista, per affermare la propria
supremazia; la violenza viceversa non mostra di avere le stesse motivazioni e
soprattutto diventa improvvisa, esplosiva, eccessiva nelle sue manifestazioni.
In altre parole: l’aggressività si spiega con la necessità biologica della
sopravvivenza, su una ravvisata minaccia (reale o presunta) per mezzo di un
esame del contesto ambientale circostante, divenendo quindi un comportamento
in qualche modo “adattivo”, solo apparentemente è lo stesso per la violenza, la
quale comunque diviene una reazione non commisurata all’evento minaccioso, e
per questo detta dai più “gratuita”.
Intuitivamente, si può riuscire a definire cosa si intende per aggressività.
Scientificamente, la mancanza di una definizione unitaria deriva dal fatto di
averla considerata, di volta in volta, un istinto, un comportamento, un’emozione.
Se si considera l’aggressività, in modo generico, come un comportamento attivo
volto al soddisfacimento dei propri bisogni e dei propri interessi lungo le
interazioni con gli altri, ed anche ad eventuale discapito dei bisogni e degli
interessi altrui, solo in parte il suo significato collima con quello di violenza, che
richiama un carattere specificatamente ostile.
Infatti, sinonimi di questa accezione di aggressività divengono “determinazione”,
“risolutezza”, “tenacia”, “intraprendenza” fino a “caparbietà”20, perché
l’aggressività è un impeto, una spinta volitiva all’autorealizzazione ed al
raggiungimento di un obiettivo: si pensi ad esempio alle competizioni sportive o
al campo scientifico, in cui si modula l’acquisizione di una sfida verso se stessi
volta a migliorare precedenti prestazioni, con una sfida verso gli altri per ottenere
un vantaggio maggiore al loro cospetto; Non è però detto che il raggiungimento
20
Si identifica in questo caso l’aggressività con le spinte all’autoaffermazione, facendo forza
sull’etimologia di ad-gradior = cammino verso, che di per sé non implica lesività (Fornaro M.,
2004, pag. 12-13).
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dell’obiettivo desiderato, e la sottintesa manifestazione caratteriale del soggetto,
divenga palese espressione di prepotenza, prevaricazione e brutalità verso l’altro,
ovvero divenga un atto violento.
D’altronde, poiché la violenza non ha espressione solo in senso fisico, ma
richiama anche la coercizione morale o psicologica, o l’uso di interazioni verbali
particolarmente spiacevoli, ha senso dire che il movente intimo sia di natura
aggressiva.
Dunque in sostanza: la violenza richiama l’aggressività, ma non sempre è vero il
contrario.
Per questo motivo le indagini sulle cause dei comportamenti aggressivo-violenti è
divenuta nel corso del tempo più importante della necessità di trovare una loro
accurata definizione.
In particolare per ciò che concerne il rapporto tra aggressività e patologia, se da
un lato si è affermata l’idea dell’esistenza di una loro correlazione laddove il
discontrollo degli impulsi diviene inconsapevole, irrazionale e senza un fine, così
che il comportamento violento di un soggetto affetto da patologia psichica si
viene a ritenere una ulteriore espressione della deficitaria capacità di organizzare
il proprio sé e la propria gestione personale nell’adattamento alla vita sociale,
dall’altro è sempre mancata nella nosografia psichiatrica una compiuta
definizione e classificazione del disturbo aggressivo.
L’aggressività infatti, più che un elemento psicopatologico nucleare e
strutturante, si mostra essere un fattore trans nosografico caratterizzante numerosi
e diversi quadri clinici: in alcuni è citata in forma diretta, mentre in altri è
associata ad altre componenti quali rabbia, collera, irritabilità e rancore.
Consideriamo ad esempio i Disturbi del Controllo degli Impulsi Non Classificati
Altrove (NAS) riferiti dal DSM IV-TR: tra essi si annovera la presenza del
Disturbo Esplosivo Intermittente, definito come l’incapacità di resistere agli
impulsi aggressivi che si manifesta con gravi atti aggressivi o distruzione della
proprietà (Criterio A), attuati anche senza sufficienti motivi atti a giustificare la
loro presenza e dunque con grado di aggressività del tutto spropositato rispetto a
qualsiasi fattore psicosociale stressante precipitante (Criterio B).
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Nel Disturbo Esplosivo Intermittente l’azione aggressiva e distruttiva è per il
soggetto al contempo fonte della sua sofferenza e mezzo per alleviare la tensione.
Ad ogni modo tutti i disturbi inclusi nella categoria dei Disturbi NAS
(Cleptomania, Piromania, Gioco D’Azzardo Patologico,ecc.) hanno ragione di
essere in quella mancanza del controllo degli impulsi che orienta l’azione del
soggetto verso condotte più o meno ricorrenti e/o deliberate, qui inclusi al di là di
altri disturbi mentali che potrebbero spiegare gli episodi aggressivi.
In tal senso si intendono, così come la nosografia psichiatrica e la letteratura
hanno indicato: (Biondi M, 2005,pag. 79-131)
- Disturbi Psicotici e la Schizofrenia, dove in stato acuto il comportamento
violento è generalmente presente in qualità di reazione “difensiva” in un
momento di estrema paura ed angoscia derivante da situazioni che il soggetto
interpreta, in modo inadeguato ed esagerato, come minacciose.
Tali reazioni, brevi ed intense, non si considerano “create” dalla malattia, ma
piuttosto come una caratteristica temperamentale o di personalità preesistente alla
stessa, che poi nella fase acuta della malattia il soggetto non riesce più a
controllare.
Tra gli schizofrenici, è generalmente nel sottotipo della Schizofrenia Paranoide
che si individuano i soggetti maggiormente inclini ad acting out di natura
violenta, in virtù del sistema delirante che domina il loro assetto cognitivo; Vale
la pena tuttavia specificare che, per quanto siano molto frequenti i comportamenti
aggressivo - violenti nei soggetti affetti da disturbo psicotico, è stato evidenziato
che il loro rischio venga incrementato dalla comorbidità con l’uso di sostanze o
con la presenza di tratti o Disturbi di Personalità in particolare Borderline,
Antisociale o Narcisistico (Biondi M., 2005, pag. 116-119);
- Disturbi dell’Umore, unipolari e bipolari, laddove la presenza di rabbia,
aggressività e distruttività, per quanto non espressamente riferite, ne costituiscono
di fatto una componente (Overall & Hollister, 1980; Fava et al., 1991; Posternak
& Zimmerman, 2002; Pasquini et al., 2004).
L’Episodio Depressivo Maggiore, ad esempio, può lasciare intendere la
sofferenza depressiva come una struttura fattoriale a tre dimensioni: alla prima,
quella della “tristezza/apatia”, corrispondono le manifestazioni comportamentali
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del pianto, del ritiro e della chiusura emotiva; alla seconda, quella di “ansia
psichica e somatica”, corrispondono le manifestazioni somatiche della sofferenza
depressiva, ovvero la significativa perdita o l’aumento del peso corporeo,
l’insonnia o l’ipersonnia, l’affaticabilità; alla terza, quella appunto della
“rabbia/aggressività”, corrispondono vissuti e manifestazioni di irritabilità,
insofferenza, scatti di rabbia fino al rischio di condotte autolesive e suicidiarie
(Biondi M., 2005, pag. 112-116);
- Disturbi D’Ansia, categoria eterogenea che include gruppi diagnostici con
differenti matrici psicopatologiche e differenti fenomenologie. L’aggressività,
considerata come un sintomo/dimensione, è stata riscontrata in pazienti affetti da:
Disturbo Post-Traumatico da Stress, Disturbo d’ansia generalizzato, Fobia sociale
e Fobia specifica (Posternak e Zimmerman, 2002); Disturbo di Panico (Korn et
al., 1992; Fava et al., 1993); Disturbo Ossessivo-Compulsivo (Millar, 1983;
Pasquini et al., 2003);
- Disturbi del Comportamento Alimentare, che individuano palesi manifestazioni
di auto aggressività non solo in pazienti affetti dalle forme psicopatologiche
classiche (anoressia e bulimia), ma soprattutto nella comorbidità con il Binge
Eating Disorder (Fassino et al., 2003);
- Disturbi di Personalità, nei quali sospettosità, rancore e negativismo si
rintracciano nel Disturbo Paranoide; arroganza, aggressività indiretta e
sfruttamento interpersonale nel Disturbo Narcisistico, nel Disturbo Antisociale e
nel Disturbo Borderline (Buss e Durkee, 1957; Henry et al., 2001).
In generale, il tema dell’analisi del rapporto tra comportamento aggressivoviolento e psicopatologia mentale si può riferire in quattro differenti posizioni
atte a descrivere i nessi tra malattia mentale e violenza, nonché ad indicare in che
termini è possibile prevedere il rischio di recidive di future condotte violente
(Sanza M., 1999, pag. 1-21).
In tal senso infatti, nelle riflessioni poste sulla possibilità di considerare un atto
aggressivo come il risultato di un processo univoco o piuttosto come il risultato di
un processo complesso, l’attenzione si è rivolta alla necessità di gestire gli
episodi di crisi nel breve periodo e di prevederli nel lungo periodo.
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Ovviamente si discute di due cose diverse, laddove si mostra relativamente facile
nel breve periodo adottare uno schema di intervento concreto, generalizzabile e
trasmissibile; mentre si prende atto che nel lungo periodo la presa in carico
dell’utenza psichiatrica violenta deve ridimensionarsi a favore di obiettivi
terapeutici e riabilitativi che, sotto l’aspetto clinico quanto organizzativo,
contemplino il recupero delle competenze sociali previa l’analisi del contesto
culturale ed ambientale che può essere favorevole per alcuni, e negativo per altri.
Ad ogni modo, le riflessioni sulle modalità con le quali un comportamento
aggressivo violento ha origine e si manifesta propendono oggi nel considerare
alla base di qualunque comportamento di questo tipo un’attivazione
psicofisiologica detta arousal, che ha luogo come reazione alla percezione di una
minaccia e si esprime in modificazioni di natura somatica e psico-cognitiva.
Nell’espressione dell’aggressività è stata dunque riconosciuta l’esistenza di un
progressivo processo di desensibilizzazione (escalation) volto alla sua
espressione e scandito dalle seguenti fasi:
1. fase del fattore scatenante: una iniziale modifica del baseline psicoemotivo
ordinario, che si esprime con comportamenti verbali ed espressivi (mimici e
comportamentali) tipici, segna l’avvio del processo di attivazione;
2. fase dell’escalation: caratterizzata da un ulteriore aumento dello stato di
agitazione psicomotoria. Nel caso di pazienti psichiatrici, è in questa fase che si
individua la bontà degli interventi operativi, che nella tempestività di attuazione
trovano già buona parte del loro successo;21
21
In particolare, fondamentale in questa fase è il cosiddetto talk down, un approccio verbale di
negoziazione che mira al contempo al positivo riconoscimento del contenuto emotivo della crisi
personale del soggetto, deviandone però l’esito comportamentale.
Esso si sostanzia in alcuni suggerimenti verbali (usare frasi brevi e dal contenuto chiaro; non
polemizzare; ridurre la tensione dichiarandosi in accordo con quanto sostenuto dal paziente),
prosodici (adottare un tono di voce caldo e rassicurante) e comportamentali (non invadere il suo
spazio e mantenere una distanza utile) dati al clinico che abbia ad occuparsi di episodi di crisi
aggressiva (Maier G.J. & Van Rybroek G.J., 1995; in Eichelman B.S. & Hartwig A.C., 1995 –
pp.73-104). In aggiunta a questa, opportuno è l’allontanamento dal contesto, se fattori ambientali
hanno originato il disagio del soggetto.
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3. fase critica: è la massima fase dell’eccitamento. L’attenzione deve essere posta
sulla tutela della sicurezza e sulla previsione delle conseguenze dell’imminente
comportamento aggressivo;
4. fase del recupero: è l’inizio del percorso di ritorno al baseline iniziale, ma con
ancora il rischio di recettività a nuovi fattori di disturbo. In questa fase, l’aiuto al
paziente è volto alla progressiva rielaborazione dell’episodio, senza forzare con
interventi precoci che potrebbero far riemergere la crisi;
5. fase della depressione post critica: la fase finale, nella quale compaiono nel
paziente sentimenti negativi di colpa, vergogna e rimorso per quanto agito. È qui
che trovano luogo anche percorsi di rielaborazione dell’accaduto che contemplino
la comprensione razionale delle cause che l’hanno originato.
Tornando alle quattro differenti posizioni che sintetizzano gli orientamenti in
merito alla previsione del comportamento aggressivo di pazienti psichiatrici,
partiamo da quella prima posizione specificamente rappresentativa degli assunti
della disciplina psichiatrica di inizio secolo, a sua volta in linea con le opinioni
della dottrina giuridica e con il sentire della collettività.
Nell’asserire l’esistenza di una naturale, costituzionale, imprevedibile pericolosità
sociale dei soggetti affetti da patologia mentale, per quanto poco unitarie fossero
le legislazioni dell’Italia ancora non unita ad inizio secolo, comune era l’idea di
una necessaria “cura” coercitiva verso questa utenza, che doveva essere separata
dalla comunità civile per garantirne il benessere e la sicurezza.
Prima della promulgazione ed applicazione delle Legge 180/1978, il ricovero
coatto a tempo indeterminato nei manicomi si basava sull’esistenza (anche a
lungo termine) di un giudizio di pericolosità che fondava le scelte cliniche.
A sua volta, presupposto di questo atteggiamento di pregiudizio erano le teorie
costituzionaliste ed alcuni studi epidemiologici che attestavano la stretta
connessione tra patologia mentale e violenza.
Tra questi, è nota la cosiddetta “legge di Penrose”, dal nome dello studioso che,
prima della seconda guerra mondiale, in alcuni stati europei attestò per mezzo
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delle sue ricerche un inverso rapporto di proporzionalità tra le immissioni di
pazienti negli ospedali psichiatrici ed alcuni parametri socio-anagrafici: il tasso di
mortalità generale, il tasso di natalità, il tasso di omicidi o altri fenomeni
criminosi. Aumentando il numero di pazienti ammessi negli ospedali psichiatrici,
Penrose aveva osservato una diminuzione della mortalità generale ed una
diminuzione della criminalità.
Anche altri studi epidemiologici, condotti sulla falsa riga di quello di Penrose
(Gunn J., Nicol R., et al., 1973; Taylor 1984), si fondano sull’analisi della
prevalenza dei disturbi psichiatrici tra i detenuti e dell’incidenza dei reati nella
popolazione degli ospedali psichiatrici.
Noi oggi sappiamo che la metodologia usata per tali studi risente dell’effetto della
scelta del campione, preselezionato proprio tra i detenuti degli istituti di pena o
degli ospedali psichiatrici, associato ad una superficiale conoscenza clinica dei
soggetti esaminati, che in una generica associazione tra violenza e patologia non
indagava appieno la specificità psicopatologica.
In tal senso questi studi contribuirono ad una patologizzazione della criminalità e
ad una criminalizzazione della patologia, che ancora oggi in alcuni ambienti
stenta ad essere repressa.
Successivamente, il movimento culturale di difesa civile dei malati mentali
suscitò un nuovo interesse scientifico attorno al tema. Studi di follow-up
dimostrarono l’inattendibilità delle previsioni a lungo termine della pericolosità
sociale, sui riscontri ottenuti dal tasso di recidiva di pazienti dimessi dagli
ospedali psichiatrici, non così cospicuo e comunque non molto diverso dal tasso
di criminalità della popolazione generale.
Allo stesso modo, studi retrospettivi (Hafner e Boker, 1973) sul tasso di alcune
categorie di reato e sulle diagnosi psicopatologiche effettuate sugli autori non
dimostrarono differenze significative al confronto con la popolazione generale:
una maggiore incidenza di criminalità violenta si ha per diagnosi quali
schizofrenia e disturbi affettivi, ma alcuni fattori di personalità, familiari e sociali,
correlati
con
il
disturbo
psichiatrico,
predisposizione al crimine.
49
incidono
maggiormente
sulla
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In sostanza, anche questo secondo filone di studi ebbe origine dal confronto tra
l’incidenza dei reati nella popolazione psichiatrica e l’incidenza dei reati nella
popolazione generale, ma giunse a conclusioni differenti rispetto ai primi studi
descritti: attestando la mancanza di un nesso di causalità tra patologia e
comportamento violento e criminale, e segnalando che gli stessi fattori generici
che incidono sul comportamento criminale per la popolazione generale valgono
per la popolazione psichiatrica (ed ovvero: genere sessuale maschile, giovane età,
uso precoce ed abituale di sostanze stupefacenti e/o alcol, stato socio familiare
disagiato).
Eppure, alla stregua del considerare come parziali i risultati in merito alla
prevedibilità a lungo termine della pericolosità sociale, basati sul pregiudizio che
i malati mentali sono sempre e comunque nella possibilità di commettere
comportamenti violenti, è da considerare l’ipotesi degli studi condotti secondo un
principio di umanizzazione dei trattamenti, impostati allo scopo di ottenere
questo risultato.
In una casuale prevalenza dell’una o dell’altra visione, rimane il problema di
individuare strumenti clinicamente efficaci per la presa in carico degli autori di
reato con vizio di mente, ed il problema di una civile interazione tra la psichiatria
e gli organi della pubblica sicurezza, anch’essi interessati dal canto loro alla
gestione di questi casi.
Così, nello stesso periodo storico di questi studi, prese avvio un terzo metodo di
approccio al problema, centrato soprattutto sulla responsabilità tecnico
professionale da parte degli operatori preposti alla cura ed al trattamento.
Tralasciando il confronto con la popolazione generale, questa terza prospettiva si
rivolse all’analisi delle caratteristiche concrete del comportamento aggressivo: il
tipo di reazione-attacco che ha avuto luogo, i correlati clinici, personologici e
situazionali che l’hanno caratterizzato. Scopo primario divenne inquadrare le
condizioni di prevedibilità sulla base della conoscenza dei fattori di rischio.
Se le stesse variabili socio-demografiche costituiscono fattori di rischio generici
per la popolazione generale e per la popolazione di malati mentali, per i pazienti
ospedalizzati valgono in modo maggiormente significativo le variabili cliniche,
ed in particolar modo: i disturbi del pensiero e la presenza di componenti
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personologiche quali sospettosità/ostilità e agitazione/eccitamento (McNiel e
Binder, 1994).
Eppure, per quanto a questa terza tipologia di studi si possa riconoscere il merito
di un miglioramento metodologico operato con l’uso di strumenti clinici affidabili
e validi nel misurare e qualificare le componenti psichiche e caratteriologiche dei
pazienti aggressivi, essa non rimase priva di critiche.
La disamina della pericolosità a breve termine fu infatti considerata
metodologicamente fallace: per il fatto di porsi nell’intercorrente condizione di
segregazione, che è al contempo risultato della presenza di pericolosità
nell’applicare un giudizio clinico, e status quo permanente nella mancanza di
risorse all’esterno anche se i fattori di rischio sono stati “trattati” adeguatamente;
per il fatto di impiegare variabili predittive troppo ristrette, e per il fatto di basarsi
su deboli criteri di selezione dei casi come ad esempio le percentuali di arresti
negli studi retrospettivi.
Infine, un’ultima tipologia di studi è quella relativa alle indagini su popolazioni
naturali.
Uno dei primi studi condotti in tal senso è ad opera di Swanson et al. (1990) su un
campione composto da una popolazione di 10000 abitanti delle tre metropoli
americane di Baltimora, Raleigh-Dhuram e Los Angeles. I soggetti, valutati con
la Diagnostic Interview Schedule, un’intervista strutturata che consente di
formulare la diagnosi secondo il DSM-III con un questionario composto da 5
item per il comportamento violento, erano stati selezionati a caso.
I risultati della ricerca dimostrarono l’esistenza di un’associazione significativa
tra la popolazione affetta dai quadri psicotici maggiori e le condotte violente,
nonché l’esistenza di un forte effetto delle variabili demografiche (sesso, età,
etnia) e di precedenti episodi di arresto.
Per quanto riguarda l’associazione tra comportamento violento e diagnosi
psicopatologica, lo studio riportò una maggiore incidenza per la doppia diagnosi
di schizofrenia e abuso di sostanze, seguita dalle due categorie “pure” (disturbo
da abuso di sostanze; schizofrenia).
Altro interessante studio che si cita in questa sede è quello condotto da Link e
Stueve (1994) su una popolazione naturale composta da un gruppo di soggetti che
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soffrivano o avevano sofferto di disturbi psichici ed un gruppo di persone scevre
da patologia mentale.
Lo studio giunse a sottolineare che, accertata una correlazione tra le psicosi (e la
loro gravità) e l’adozione di comportamenti violenti o illegali, il loro contributo
generale sul tasso di criminalità è modesto e comunque inferiore rispetto al
fenomeno dell’uso di sostanze stupefacenti (Sanza M., 1999).
4.2.
Problematiche
e
strumenti
per
la
misurazione
dei
comportamenti aggressivo-violenti
Un primo principale problema nella misurazione dell’aggressività risiede nella
possibilità di effettuare una misurazione unitaria, ovvero che integri l’aspetto
soggettivo e quello oggettivo che sono resi manifesti attraverso il comportamento
aggressivo.
Essendo l’aggressività un comportamento multi determinato e variabilmente reso
manifesto, i riscontri che si ottengono con l’impiego di strumenti di
autovalutazione o di scale compilate dall’osservatore sulla base dei dati ricavati
dal colloquio, saranno indicativi delle specificità emotive, cognitive e volitive di
quel soggetto esaminato, in quel momento, e secondo quel senso che egli ha
voluto dare al gesto compiuto.
Occorre inoltre ricordare, e come già indicato nel precedentemente, che nella
maggior parte dei casi l’aggressività non è una condizione stabile e duratura nella
gamma di manifestazioni comportamentali del soggetto, bensì un comportamento
episodico, repentino e spesso non prevedibile.
Al di là dello strumento che l’esaminatore sceglierà per la sua valutazione, dovrà
considerare che la misura ottenuta sarà una misura “parziale” delle tante
componenti che strutturano un carattere o una personalità.
Alcuni Autori hanno suggerito che una misura affidabile, veritiera ed obiettiva
dell’aggressività si avrebbe solo con l’osservazione diretta del soggetto nel
proprio “ambiente naturale”… ma è facilmente intuibile come ciò sia
quantomeno inopportuno, se non impossibile, per il pericolo che tale modalità
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andrebbe a costituire per l’osservatore stesso, questo è possibile in un contesto di
Comunità terapeutica.
Per ovviare a tale problematica di sicurezza si potrebbe allora procedere con una
valutazione dell’aggressività in un setting sperimentale, nel quale esercitare un
certo controllo nelle variazioni delle condizioni o stimoli che possono elicitare il
comportamento aggressivo.
Per quanto esperienze in tal senso siano praticabili, esse rimarrebbero comunque
limitate al campo della ricerca in quanto certamente non rapportabili a quello
della clinica.
Esplicitate le obiettive difficoltà nella misurazione dei comportamenti aggressivo
violenti, passiamo adesso ad una breve rassegna degli strumenti maggiormente
utilizzati in campo sperimentale, clinico e forense, allo scopo di fornire o una
generale misurazione dell’aggressività o una specifica individuazione delle sue
componenti principali, per popolazioni estese o per campioni con ristretti criteri
di individuazione.
Partiamo ad esempio dai test psicodiagnostici che per comprovata validità forense
più comunemente vengono utilizzati in ambito peritale: essi consentono già di
indicare l’esistenza ed il grado della componente aggressiva, auto o etero diretta,
nella struttura psichica e di personalità del soggetto posto ad esame dai quesiti di
imputabilità e pericolosità sociale che il Giudice o il Pubblico Ministero pone
all’esperto (Perito o CTU), proprio perché la valutazione delle manifestazioni
della componente aggressiva nonché la valutazione in senso predittivo delle
tendenze da essa possedute ha chiaramente un’importanza determinante.
Considerando ad esempio i cosiddetti test di livello o test dell’efficienza
intellettiva, come la Wechsler Adult Intelligence Scale - Revised (WAIS-R:
Wechsler D., 1955, 1981; ITA 38 1997) 1997) o il Bender Visual Motor Gestalt
Test (Bender L., 1938; ITA 1979), l’esame si rivolgerà alle componenti cognitive
associate alla gestione emotiva ed in particolare verso le istanze aggressive.
I test proiettivi, invece, che per loro natura sono rivolti all’indagine delle
componenti più intime e profonde della personalità, consentono appunto di
analizzare l’aggressività a livello inconscio.
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A livello formale nel test del Disegno della Figura Umana (Machover, 1951;
ITA 1968), la presenza di tratti marcati e l’uso di annerimenti, ricalchi e linea
spezzata e discontinua, una raffigurazione macrografica della figura disegnata e
la sua collocazione sulla parte destra del foglio, costituiscono alcuni indicatori
della presenza di quote di ansia ed angoscia che potrebbero modificarsi in
aggressività; così come a livello contenutistico simbolico, l’accentuazione
dell’espressione del volto o alcuni particolari di “rigidità” della figura
nell’espressione e nell’atteggiamento, ed ancora alcune indicazioni di proiezione
verso l’esterno dell’energia pulsionale (ad es.: braccia e gambe aperte).22
Nel Test di Rorschach (Rorschach, 1921; ITA 1937, 1980), già nella fase di
raccolta si possono trovare indicazioni della presenza di componenti aggressive
intime: chiedendo al soggetto di elaborare una personale interpretazione del
contenuto percettivo elicitato dalla presentazione delle 10 Tavole che
compongono il Test, sia le verbalizzazioni con le quali il soggetto esprime le
proprie interpretazioni (ovvero i termini che utilizza) che il contenuto delle sue
percezioni (le “figure” sollecitate dalla visione delle Tavole)23, costituiscono dei
campanelli di allarme per l’esaminatore.
A livello interpretativo-statistico, vi sono poi due indici specifici da tenere sotto
controllo nel valutare le tendenze autolesive o eterolesive dell’aggressività: è
infatti indicativo ottenere un punteggio elevato all’Indice di Impulsività ed un
punteggio basso all’Indice di Autocontrollo24. Ancora, la presenza di un T.V.I
22
Il test del Disegno della Figura Umana, nella revisione ad oggi utilizzata, consente di valutare
lo sviluppo intellettivo e di personalità del soggetto esaminato. Assolve all’indagine degli aspetti
proiettivi relativi all’identificazione identitaria di natura cronologica, sessuale e di ruolo, in
generale la ricchezza o coartazione della sfera profonda, ed ancora i correlati emotivi dei rapporti
interpersonali con figure familiari, di riferimento o sociali. Per ciò che concerne in particolare la
disamina degli indicatori delle componenti aggressive nel test, nelle declinazioni di predittività in
senso auto ed etero-lesivo, si rimanda alla letteratura di specie. In questa sede si suggerisce il
seguente approfondimento: Abbate L., Capri P., Ferracuti F., La diagnosi psicologica in
Criminologia e Psichiatria Forense. I Tests Psicologici, in Ferracuti F. (a cura di) (1990),
“Trattato di Criminologia, Medicina Criminologica e Psichiatria Forense”, Vol. XIII, Giuffré,
Milano.
23
A titolo puramente esemplificativo, traendo spunto dalle verbalizzazioni fornite dai soggetti
esaminati in alcuni casi peritali da parte di chi scrive, si fa riferimento ad espressioni con
contenuto e forma del tipo: “Una maschera persecutoria e raccapricciante, con gli occhi e la
bozza spalancati” (Tav. I); “Un gatto spiaccicato sulla strada, investito da una macchina” (Tav.
VI); “Macchie di sangue” (Rosso – Tav. II); “Dei feti morti” (Rosso – Tav. III);
“Un’esplosione” (Tav. X).
24
L’Indice di Impulsività e l’Indice di Autocontrollo rappresentano rispettivamente il livello di
attivazione pulsionale dell’Io e la capacità del soggetto di gestire e controllare la propria
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“Intratensivo” è indicativa di tendenze autolesive, all’opposto un T.V.I
“Extratensivo” di tendenze eterolesive25.
Per quanto concerne il Minnesota Multiphasic Personality Inventory – 2 (MMPI2, Hathaway e McKinley, 1943, 1970, 1989; ITA 1995), la predittività di gesti
autolesivi ed eterolesivi si valuta ad esempio in base alla presenza di punteggi
molto bassi (< 40 T) alla Scala K (Correction o Key) ed alla Scala Hy (Hysteria),
e dalla contemporanea presenza di punteggi molto elevati (> 80 T) alla Scala D
(Depression) ed alla Scala Pd (Psychopathic Deviate).26
Certamente, quanto indicato in questa sede per i summenzionati test non è altro
che una sintetica ed orientativa spiegazione di alcuni indicatori in essi utilizzati
per la valutazione delle tendenze aggressive, in termini quantitativi e di qualità.
Una trattazione a parte, oltre questo lavoro, meriterebbe la disamina del
contenuto clinico di ogni test fin qui menzionato (ad esempio, per ciò che
contempla le risposte interpretative alle Tavole del Test di Rorschach), in virtù
della sua complessità applicativa ed interpretativa, e nel rispetto del valore che
questi strumenti hanno nel fornire un quadro più ampio della personalità rispetto
alla finalità primaria che indica il loro utilizzo.
impulsività (Capri P., Lanotte A., Mariani S., 2011, p. 148).
25
Il T.V.I, Tipo di Vita Interiore o Tipo di Risonanza Intima, “riflette l’attitudine fondamentale
della personalità a diretto contatto dell’Io e dell’ambiente che lo circonda” (Bohm, 1969, in
Capri P., Lanotte A., Mariani S., 2011, p. 145).
26
La Scala K valuta lo stile difensivo (inconscio) nei confronti del test; la Scala Hy valuta la
presenza ed il grado di sintomatologia associata al disturbo isterico di conversione, ovvero il
livello di dipendenza affettiva dagli altri ed il tentativo di risolvere un conflitto psichico attraverso
sintomi somatici; la Scala D indaga il tono dell’umore del soggetto, ovvero la presenza e la
qualità di vissuti malinconici, pessimistici o di mancanza di speranza nei confronti del futuro; la
Scala Pd valuta il livello pulsionale dell’Io nei rapporti con il mondo esterno, le norme e le
convenzioni in genere, e dunque specificatamente le caratteristiche relative ad una struttura
antisociale o psicopatica di personalità.
Tutte le Scale che compongono l’MMPI-2 (K è una Scala di Validità; Hy, D e Pd sono Scale
Cliniche), contemplano un range di punteggi che va da < 40 T (T = punteggi ponderati; punteggi
molto bassi) a > 80 T (punteggi molto alti) per la valutazione della validità del test e del livello
psicopatologico posseduto dal soggetto all’atto dell’esame. In particolare, quando K ha punteggi
inferiori al punteggio di soglia minima 40T, si può pensare ad una simulazione o ad
un’esagerazione sintomatica da parte del soggetto sottoposto al test, come estrema difesa o come
forte richiesta di aiuto. Nella disamina dell’orientamento dell’aggressività, punteggi bassi in
questa Scala indicano carenza nella capacità di controllare i propri comportamenti e le proprie
reazioni emotive, orientandosi dunque verso tendenze autolesive di vario ordine e grado. La
contemporanea presenza di punteggi inferiori a 40T alla Scala Hy (indicativi dell’incapacità ad
empatizzare con l’ambiente), e di punteggi elevati (70-80 T o > 80 T) alle Scale D (depressione,
polarizzazioni pessimistiche del pensiero) e Pd (presenza di aggressività, impulsività, incapacità
di valutare le conseguenze del proprio comportamento), può ulteriormente orientare l’esaminatore
verso il rischio di condotte auto lesive.
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Così infatti il DFU ed il Rorschach, che sono definiti test proiettivi e dunque
indicati per la valutazione della struttura profonda di personalità del soggetto
esaminato, hanno un valore che va ben al di là di questa collocazione, poiché
sono utili per la comprensione dello sviluppo intellettivo al pari di quello
emotivo. Peraltro, gli indicatori qui presentati non sono gli unici: anche altri,
durante la siglatura e l’interpretazione di questi test, possono richiamare
l’attenzione dell’esaminatore sulla possibile presenza di istanze impulsive o
aggressive.
E soprattutto, un protocollo psicodiagnostico va sempre guardato nella sua
interezza, ovvero mai per singola risposta, e per mezzo del confronto con le
risultanze di natura clinica che si ottengono, ad esempio, attraverso il colloquio.
Passando adesso in rassegna gli strumenti più conosciuti e che più comunemente
vengono utilizzati per la valutazione specifica delle istanze aggressive e violente,
sempre in ottica predittiva nell’interpretazione comportamentale utile tanto nel
campo clinico classico quanto in quello psichiatrico-forense, possiamo
menzionare:27
1. il Buss Durkee Hostility Inventory - BDHI (Buss e Durkee, 1957; ITA
Castrogiovanni et al., Questionario per la Tipizzazione del comportamento
Aggressivo - QTA, 1982), che è uno degli strumenti più conosciuti, è utile
27
La trattazione che segue contempla gli strumenti riconosciuti dalla comunità scientifica
internazionale per l’indagine specifica dell’aggressività e degli agiti violenti. Poiché abbiamo
detto che tali dimensioni, intese sia come disposizione personologica che come agito (ovvero al
contempo, “causa ed effetto”), non godono ancora di una definizione univoca, ne consegue che gli
strumenti psicodiagnostici che è possibile includere in una ipotetica lista divulgativa sono in
numero largamente superiore anche a quelli qui presentati. Andrebbero infatti inclusi tutti quelli
che si rivolgono all’indagine di componenti “correlate” alla dimensione aggressività-violenza:
quelli che indagano una possibile dimensione psicopatologica sulla base della presenza di alcuni
tratti di personalità (ad esempio: Brief Psychiatric Rating Scale – BPRS, ), sia in senso generale
che verso una specifica struttura di personalità; quelli che esaminano altri disturbi mentali
(schizofrenia e psicosi, ritardo mentale); quelli che approfondiscono la valutazione dei disturbi
dell’umore (depressione, ansia, maniacalità); quelli che valutano l’adattamento sociale; quelli che
esaminano la qualità di vita o i correlati emotivi di specifiche patologie mediche (cancro ed altre
patologie degenerative, AIDS ed altre patologie a trasmissione sessuale, disturbi da carenza di
sonno); quelli che, indagando problematiche specifiche, nella manifestazione delle stesse
rintracciano degli agiti comportamentali di natura aggressiva in senso auto o etero diretto
(pensiamo ad esempio ai disturbi del comportamento alimentare, alle condotte di abuso di
sostanze o alcol, alle parafilie o ai disturbi sessuali, al rischio suicidario); ed infine a quelli che si
rivolgono a categorie specifiche di utenza (i malati mentali, gli adolescenti e giovani).
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nell’esaminare il tipo di aggressività e le modalità della sua espressione, tanto a
livello degli agiti comportamentali (all’atto dell’esame) che come tratto di ostilità
non manifesto. Il questionario si basa su item dicotomici Vero/Falso che
consentono di descrivere l’esaminato secondo le caratteristiche delle 7 Scale che
compongono lo strumento: Aggressività Diretta, Indiretta e Verbale, Irritabilità,
Negativismo, Risentimento e Sospettosità.
Il punteggio si esamina poi sulla base di tre indicatori: Colpa, Aggressività totale
ed un Indice di Inibizione/Disinibizione dell’Aggressività (che si calcola sul
rapporto dei precedenti due punteggi);
2. la State-Trait Anger Expression Inventory - 2 – STAXI - 2 (Spielberger, 1988;
ITA Pedrabissi e Santinello, 1996; Comunian, 2004),28 ideato allo scopo di
indagare, in maniera diretta e rapida essendo una scala di autovalutazione,
l’esperienza della rabbia e le modalità della sua espressione.
Lo strumento ha dimostrato la sua validità non solo con soggetti affetti da
patologia mentale, ma anche nel caso di altre patologie mediche (la rabbia è
infatti una delle componenti personologiche di soggetti affetti da ipertensione,
patologie cardiache o cancro).
Lo strumento distingue tra “rabbia di stato”, stato emotivo e sentimenti soggettivi
di diversa intensità lungo il range fastidio – irritazione – furia, che dipende dal
grado di gestione della frustrazione, e “rabbia di tratto”, disposizione ad agire alle
situazioni frustranti in base allo stato personologico; e distingue la rabbia in base
all’oggetto verso cui l’azione-reazione è diretta, ovvero altre persone o oggetti, o
in modo interiorizzato e dunque trattenuta o soppressa, ed ancora le differenze
individuali dei tentativi di controllo.
Nella versione dell’ultima revisione, attualmente utilizzata, il questionario si
compone di 57 item: invita il soggetto a dire come si sente “generalmente” ed “al
28
Lo State-Trait Anxiety Inventory - STAI è il primo strumento in cui l’ansia-tratto e l’ansia-stato
vengono valutate separatamente. La sua costruzione iniziò nel 1964 e la versione attualmente in
uso è quella che deriva dalla radicale revisione del 1983, denominata Forma Y, e che è costituita
da due sub-scale, una per la valutazione dell’ansia-stato (S-Anxiety Scale) ed una per quella
dell’ansia-tratto (T-Anxiety Scale).
La versione originale dello strumento è quella di Spielberger C.D. (1988), Manual for the StateTrait Anger Expression Inventory, Psychological Assessment Resources, Odessa, FL.
In Italia, Luigi Pedrabissi e Massimo Santinello sono autori della validazione dello State-Trait
Anxiety Inventory – Y (STAI – Y, 1989), revisione della forma dello strumento originale (Forma
X). Al 2004 risale invece, ad opera di Anna Laura Comunian, la validazione dell’ultima revisione
dello STAXI-2.
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momento attuale”, sulla base del grado di accordo su una scala a 4 punti, così da
delineare le 6 Scale che interessano (Rabbia di Stato, Rabbia di Tratto,
Espressione della rabbia all'esterno, Espressione della rabbia all'interno,
Controllo della rabbia all'esterno, Controllo della rabbia all'interno, più un Indice
di espressione della rabbia);
3. il questionario Indicatori della Condotta Aggressiva – Irritabilità e
Ruminazione/Dissipazione (Caprara et al., 1991), che integra i risultati delle
ricerche ad indirizzo psicodinamico e ad indirizzo situazionista, così da giungere
ad una visione integrata del fenomeno “aggressività” che contempli tanto la
componente impulsiva che quella della mediazione cognitiva. Lo strumento si
compone infatti di due Scale, originariamente ideate in forma singola e poi
integrate in un unico protocollo. Ognuna di esse è costituita da 10 item principali
e 5 di controllo per limitare il “response set”:29 si tratta di “affermazioni-stimolo”
per le quali il soggetto deve dichiarare il proprio grado di accordo sulla base di
una scala a 7 punti.
La Scala di Irritabilità (proposta come contributo alla validazione italiana del
BDHI di Buss e Durkee, 1957) indaga la propensione ad agire in modo impulsivo
e dunque l’istinto di reazione anche per le minime provocazioni; la Scala di
Ruminazione/Dissipazione indaga l’elaborazione cognitiva, ovvero il rancore, ed
il deficit di controllo cognitivo sulla condotta e sulle sue conseguenze.30
Nella clinica così come nella ricerca, l’uso di questo strumento può essere
associato con quello del questionario Scala per la Misura della Fragilità Emotiva
(Caprara et al., 1991), volto alla misura dei sentimenti di inadeguatezza sulla
base anche in questo caso di due Scale: quella di Suscettibilità Emotiva, sensibile
ai sentimenti soggettivi di vulnerabilità in situazioni, reali o presunte, di attacco,
29
Le risposte in serie, ovvero la tendenza ad uniformare il proprio giudizio (in questo caso
espresso con l’assegnazione di un valore numero al grado di accordo con le affermazioni
presentate) in occasioni in cui si descrivono o esaminano dimensioni molto omogenee.
30
Come riferimento bibliografico si veda: Buss A., Durkee A. (1957), An inventory for assessing
different kind of hostility, Journal of Consulting Psychology, 21, pp. 343-348. Caprara G.V.
(1983), La misura dell'aggressività: contributo di ricerca per la costruzione e la validazione di
due scale per la misura dell'irritabilità e della suscettibilità emotiva, Giornale Italiano di
Psicologia, X (1), pp. 107-127.
58
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offesa o pericolo; e quella di Persecutorietà, sensibile ai sentimenti soggettivi di
tensione nell’anticipazione di una punizione o pericolo imminente;
4. la Hare Psychopathy Checklist - Revised o PCL-R (Hare, 1991, 2003; ITA
Caretti et. al, 2012), lo strumento che indaga e descrive il “costrutto” di
Psicopatia distinguendola dal Disturbo Antisociale di Personalità e dal Disturbo
Dissociale di Personalità. L’indagine si basa sulla raccolta di informazioni
personali sulla storia di vita del soggetto e su un’intervista semistrutturata che
orientano il clinico all’assegnazione di un punteggio da 0 a 2 ad una checklist
composta da 20 item, che descrivono la psicopatia secondo 2 Fattori
(Interpersonale/Affettivo e Devianza Sociale) e 4 Componenti (Interpersonale,
Affettiva, dello Stile di Vita ed Antisociale);31
5. l’Aggression Inventory - AI (Gladue, 1991), con la finalità di valutare il
comportamento aggressivo in qualità di tratto personologico.
Il questionario si compone di 30 item valutati su una scala a 5 punti, e delinea 4
Scale: Aggressività fisica, Aggressività verbale,
Impulsività/Impazienza,
Evitamento. Lo strumento è sensibile all’influenza del genere sessuale nelle
componenti emotive, cognitive e comportamentali della dimensione esaminata:
6. l’Aggression Questionnaire - AQ (Buss e Perry, 1992), complementare al
BDHI di Buss e Durkee (1957), si compone di 29 item che indagano 4 aspetti
dell’aggressività (Scale): Aggressività fisica, Aggressività verbale, Rabbia e
Ostilità. Consente di ottenere una misura quantitativa dell’aggressività e
l’espressione qualitativa della sua manifestazione. Anche questo strumento è
sensibile alle differenze di genere sessuale;
7. la Violence Risk Appraisal Guide - VRAG (Quinsey et al., 1993), uno degli
strumenti più utili in campo forense per indagare il rischio di violenza ed
individuare strategie efficaci per la sua gestione;
31
Poiché questo è uno degli strumenti utilizzati nel presente lavoro, si rimanda al Capitolo
successivo per una descrizione più accurata delle finalità, della struttura e dell’impiego.
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8. la Barratt Impulsiveness Scale - Version 11 – BIS-11 (Barratt e Stanford,
1995), che indaga l’impulsività, ovvero l’azione repentina senza la mediazione
del pensiero, tanto nei pazienti psichiatrici che in soggetti non psichiatrici;
9. la Sexual Violence Risk-20 o SVR-20 (Boer et al., 1997) e la Spousal Assault
Risk Assessment Guide o SARA (Kropp e Hart, 2000), che sono strumenti
specifici per l’individuazione del rischio di commettere atti che rientrano nella
“violenza sessuale” (un’azione, compiuta, tentata o minacciata di un contatto
sessuale con una persona non consenziente o non capace di dare consenso), e per
la previsione della recidiva di violenza tra partners. Stabiliscono un grado di
rischio in termini di basso – medio – alto;
10. il Violence Risk Assessment-20 o HCR-20 (Webster et al., 1997), uno
strumento utile in differenti setting, dal campo psichiatrico a quello più
propriamente forense.
Si compone di 20 item o Fattori – 10 Storici, 5 Clinici e 5 di Risk Management –
ricavati dai riscontri empirici della letteratura in merito agli elementi correlati al
rischio di violenza.
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5. Caso clinico
M. DB all’ingresso a Casa Zacchera aveva circa 40 anni, proveniente da una
famiglia composta da una madre, settantenne e pensionata, in passato impiegata
presso una scuola media, un padre morto per pneumopatia nel 1998 all’età di 70
anni, una sorella,
di 50 anni con un figlio di 35 anni (quasi coetaneo del
paziente), occupato come operatore socio sanitario in una Residenza per anziani.
Fin dai primi anni di vita il paziente è stato cresciuto dalla nonna materna poiché
i genitori lavoravano.
Non si hanno avuto notizie delle tappe di sviluppo psico-fisico.
M. DB si è descritto come tendenzialmente introverso sia durante l’infanzia che
nell’adolescenza (“riesco a parlare solo con le persone che mi ascoltano”).
Ha conseguito il diploma di scuola alberghiera privatamente a causa di qualche
difficoltà scolastica.
In ambito lavorativo è sempre stato occupato come cameriere, prevalentemente
stagionale per circa 15 anni.
I familiari (madre e sorella) hanno riferito grosse difficoltà nella continuità e
costanza della tenuta lavorativa, esprimendosi anche in termini svalutativi nei
suoi confronti, svalutazione che emerge soprattutto da parte della mamma.
Negli anni sembra che il paziente abbia più volte chiesto aiuto per aprire
un’attività lavorativa propria e su questo argomento la conflittualità si è sempre
manifestata e mantenuta alta, non essendosi sentito supportato, dai suoi familiari,
in questa richiesta.
Nell’adolescenza ha fatto un uso sporadico di sostanze stupefacenti (THC) e
alcol, un uso come appena citato saltuario, in occasione di avvenimenti o serate
particolari.
I problemi psichiatrici sembrano essere diventati significativi a 24 anni dopo la
morte del padre: “mi sentivo molto apatico, non volevo uscire di casa”.
In seguito a questo malessere manifestato dal paziente, la madre lo ha
accompagnato in consulenza al Centro di Salute Mentale (CSM) del territorio e
da allora è stato preso in carico dal servizio.
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Non ha mai subito ricoveri in ambito psichiatrico, è stato sempre considerato
dagli operatori del servizio un caso di difficile gestione per scarsa adesione alle
cure e per l’incostanza nel presentarsi ai colloqui, sottolineando anche repentini
cambiamenti di atteggiamento nei loro confronti anche quando partecipava agli
incontri prestabiliti.
M. DB è stato diagnosticato come schizofrenico paranoide.
Nei mesi precedenti il reato pare che l’adesione ai trattamenti farmacologici fosse
peggiorata anche a motivo dei frequenti cambiamenti dei medici psichiatri
referenti.
Erano stati segnalati agiti aggressivi e minacce nei confronti della madre (sembra
essere stata rincorsa con un coltello).
La sintomatologia pare sia stata caratterizzata da ideazione persecutoria, ritiro
sociale, ostilità, rivendicatività, pensiero concreto, pensiero di tipo paranoide,
dispercezioni sotto forma di voci imperative.
Il paziente è stato prosciolto dall’imputazione per il reato, per incapacità di
intendere e di volere al momento del fatto.
Durante i tre anni di detenzione in Ospedale Psichiatrico Giudiziario e poi presso
il Centro Psichiatrico Forense limitrofo all’ospedale psichiatrico presso cui era
internato: “Il Gonzaga”, il quadro clinico è transitato da una situazione
caratterizzata da disagio psicologico, ideazione auto lesiva, svalutazione nei
confronti degli altri, e difficoltà in tutta l’area della socializzazione, a una
maggiore capacità di gestione emotiva della quotidianità.
Nel passaggio al Centro Forense “Il Gonzaga” apparivano inizialmente
soddisfatte le aree del funzionamento di base, dei sintomi psicotici, delle attività
diurne e della compliance al trattamento.
Non erano emersi espliciti comportamenti aggressivi etero diretti.
Nel corso della permanenza il paziente conservò un soddisfacente esame di
realtà, evitando di “barricarsi” dietro interpretazioni paranoidi degli eventi, ma
cercando attivamente il confronto per la risoluzione e la chiarificazione di fatti
percepiti a volte come poco interpretabili.
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Dopo due anni presso questo centro il percorso riabilitativo è proseguito con un
avvicinamento alle sue zone di origine, presso la Residenza Sanitaria Psichiatrica:
Casa Zacchera.
All’ingresso il paziente appariva ben orientato e apparentemente collaborante,
negava le dispercezioni presenti nel passato, ed esprimeva pensieri comprensibili
e con una logica condivisibile.
Spesso utilizzava la preoccupazione per il proprio stato di salute, per entrare in
relazione con gli operatori, la consapevolezza della gravità del reato è sempre
apparsa molto limitata e sempre accompagnata da una freddezza del suo racconto.
Per quanto riguarda le dinamiche familiari, in modo particolare con la mamma, è
sempre stata presente una certa conflittualità, espressa più volte dal paziente
stesso, sia durante la quotidianità, sia durante i colloqui clinici. Tale conflittualità
è stata sempre tenuta sotto controllo da parte dell’equipe, osservando
continuamente il paziente e prendendo in considerazione eventuali variazioni sia
comportamentali, sia psicopatologiche.
Nonostante il mantenimento nei mesi successivi del quadro psicopatologico del
paziente, dove l’ideazione persecutoria pur presente, veniva mascherata e non
espressa, se non attraverso commenti e osservazioni critiche, e dove l’affettività è
sempre rimasta piuttosto coartata, si è assistito ad un allontanamento del paziente
dalla Struttura.
Tale “fuga”, come detto sopra è avvenuta senza che il paziente avesse dimostrato
alcun tipo di disagio psichico, dove il quadro clinico era stabile, e dove non erano
emerse variazioni rispetto al vivere quotidiano.
Dopo l’allontanamento del paziente, e la dinamica intercorsa dopo l’accaduto, il
paziente è stato sottoposto in valutazione clinica presso il Centro di Salute
Mentale del territorio di appartenenza; ancora ad oggi in valutazione per la
definizione del suo percorso riabilitativo.
5.1. Il suo percorso. Dallo S.L.i.E.V. – Centro Psichiatrico Forense
Gonzaga dell’OPG a Casa Zacchera
M. DB prima di giungere a Casa zacchera, trascorre un periodo di tempo presso il
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Centro Psichiatrico Forense “Il Gonzaga” S.L.ì.E.V, facente parte sempre
dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario.
Ho ritenuto opportuno inserire nel mio lavoro una relazione di aggiornamento
sanitario da parte del centro “Il Gonzaga” in merito all’andamento della persona
in questione durante il periodo di permanenza presso di esso, e una relazione di
aggiornamento di fine percorso sempre presso il centro prima di giungere a Casa
Zacchera.
Il contenuto della relazione di aggiornamento ha descritto così il paziente:
Trattasi di un soggetto affetto da Schizofrenia paranoide cronica, allora
condizione di sufficiente compenso psicopatologico; buona era la compliance al
trattamento farmacologico che il paziente assume con regolarità.
In quel periodo evidenziava sintomatologia produttiva florida, né grossolane
alterazioni dell’asse ideo-percettivo.
L’affettività risultava ancora labile, non adeguatamente integra ed armonizzata
nel resto della personalità; a fronte di un funzionamento cognitivo ed operativo
formalmente conservati, emersero frequenti disturbi di natura psico-organica,
quali cefalee, improvvisa astenia, dolori ai polpacci, probabile espressione di
conflittualità nelle relazioni interpersonali (dopo il reato ha manifestato vissuti
deliranti centrati su trasformazioni del corpo).
Per quanto concerne la partecipazione empatica al fatto-reato, essa risultava
ancora deficitaria e solo parzialmente elaborata; nel rievocare i fatti ad esso
connessi, il paziente ammetteva “ di essere dispiaciuto”, ma manifestava scarsa
capacità critica sulle motivazioni che lo avevano condotto all’agito e limitata
auto-responsabilizzazione rispetto al gesto compiuto.
Durante il periodo di degenza presso il Centro “Il Gonzaga” M. DB ha ricevuto
regolarmente visite da parte della sorella e della mamma con le quali ha trascorso
alcune ore all’esterno della Comunità.
Dal 2008 era in trattamento con Anticoagulanti orali (Coumadin) per
tromboembolismo venoso arto inferiore destro con embolia polmonare massima
che ha interessato entrambe le arterie polmonari (era detenuto in carcere dopo
l’evento reato). In accordo con il chirurgo vascolare e sotto stretto controllo ecodoppler, nel 2010 è stato praticato un trattamento con Enoxaparina sodica con
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rapida recidiva.
Anche nel 2012 una sospensione della terapia in atto ha condotto a rapida
recidiva con presenza di trombi all’arto inferiore sinistro, ed immediata ripresa
del farmaco coumadin secondo schema.
La relazione appena scritta si riferiva al novembre 2011.
Successivamente, nello specifico a giugno 2013, veniva così descritto il quadro
psicopatologico del paziente:
Orientato nelle tre dimensioni, di atteggiamento stabilmente collaborante verso
gli Operatori Sanitari.
Il paziente presentava un eloquio e una mimica appropriate, non lamentava
alterazioni senso motorie; Il pensiero era formalmente corretto con lieve tendenza
alla circostanzialità.
I contenuti erano prevalentemente liberi da ideazione patologica, esprimeva talora
sentimenti di smarrimento e perplessità da esperienza di de realizzazione, elicitata
da percepite sensazioni ambientali di natura svalutante ed escludente.
L’affettività era coartata, sebbene negli ultimi mesi era parsa più mobile ed
espressa; il tono dell’umore era stabilmente in asse.
La successiva relazione di aggiornamento clinico, nello specifico a novembre
2013, riassume e descrive il suo percorso e il quadro psicopatologico così:
Si tratta di un paziente che è stato ammesso presso il Centro Psichiatrico Forense
“Il Gonzaga” a novembre 2011, in regime di Libertà Vigilata, proveniente
dall’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Castiglione delle Stiviere.
Un paziente seguito da anni dai Servizi Psichiatrici Territoriali e successivamente
dal presidio dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario per schizofrenia paranoide.
Il paziente è giunto in Comunità dopo tre anni trascorsi in OPG,ha dimostrato un
valido controllo sulla sintomatologia psicotica, un adeguato stile relazionale con
gli altri pazienti ed operatori ed una già testata capacità di trascorrere periodi di
licenza esterni accompagnato dai familiari.
All’ingresso dopo una attenta valutazione, emergevano problemi nell’area del
disagio psicologico, dell’ideazione auto lesiva, e di tutta l’area della
socializzazione, comprendente la vita sociale, la vita di coppia e bisogni sessuali.
Apparivano soddisfatte le aree del funzionamento di base, dei sintomi psicotici,
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delle attività diurne e della compliance al trattamento.
Inoltre non emergevano bisogni relativamente all’aggressività etero diretta e nel
rapporto con le sostanze d’abuso e gli alcolici.
Il paziente nel corso della permanenza presso la Residenza ha conservato un
soddisfacente esame di realtà a fronte dei multiformi stimoli offerti dalla
quotidianità, evitando di barricarsi dietro interpretazioni paranoidi degli eventi,
ma cercando attivamente il confronto per la risoluzione e la chiarificazione di
fatti dalla natura percepiti come poco interpretabile.
M. DB ha espresso esperienze di smarrimento e de realizzazione, dal portato
emotivo ben rappresentato, in cui la realtà perdeva improvvisamente le solite
coordinate che di norma gli attribuiva per diventare paesaggio incerto, poco
decifrabile e potenzialmente avverso.
Il dato clinico di forza e conforto è stato rappresentato dal rapido
ricompattamento psichico operato dal paziente in questi casi e dall’evoluzione
favorevole che a questo esito veniva dato dall’incontro e scambio con i membri
del gruppo curante, che risultava essere maggiormente cercato e ritenuto dal
paziente più utile dal paziente rispetto ad altri ausili ad esempio farmacologici.
Nel corso del tempo si è osservato anche un rafforzamento e una capacità di
tenuta all’esposizione a stimolazioni emotive, rappresentate dai rapporti
sentimentali.
Giunto al Centro il Gonzaga con vissuti di abbandono e rifiuto per la fine di
un’esperienza sentimentale con una ragazza conosciuto in OPG, M. DB ha saputo
mantenere con una ragazza che stava frequentando in quel periodo le distanze
relazionali desiderate, mantenendo vivo un rapporto secondo una propria
chiarezza di intenti e sviluppo.
L’osservazione si replicava nel suo rapporto con i familiari che egli sentiva
spesso telefonicamente e che talvolta andavano a fargli visita per alcuni giorni.
Il paziente ha sofferto senza farsene travolgere da un periodo di malattia che ha
investito la sorella, figura di riferimento nei mesi scorsi.
Si è osservato con interesse e favore i movimenti di apertura e richiesta verso
l’altro esibiti dal paziente dalla seconda metà del suo periodo residenziale, che si
sono rilevati ancora più importanti se si considerava la configurazione di struttura
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della sua personalità di tipo schizoide ed autistico.
Sul versante delle attività, ha mostrato discreta continuità ma buona adattabilità e
affidabilità nelle attività lavorative in cui è stato inserito e verso le quali
esprimeva di più il suo maggior interesse.
Dal punto di vista criminogenetico, è parso che l’intensa produzione di ideazione
delirante persecutoria nei mesi che hanno anticipato il reato combinata da un
contesto ambientale familiare percepito reiteramente come pressante e svalutante
da parte delle reggenti (mamma e nonna), siano risultate variabili decisive nella
commissione del fatto reato.
In questo senso il disegno del percorso riabilitativo ha mirato, come detto, a
mantenere uno stabile equilibrio delle funzioni ideative ed affettive, a fornire un
sostegno dell’autostima del paziente e a sviluppare abilità di espressione assertiva
contrastanti il circuito di passività-aggressività.
Il paziente ha espresso il desiderio di poter far rientro nel territorio di origine; è
stato così considerato il proseguimento del suo percorso riabilitativo, prima di un
eventuale ritorno nel proprio territorio di origine, presso la Struttura “Casa
Zacchera”.
5.2. Verbale di primo incontro tra l’equipe di Casa Zacchera e la
famiglia
La sorella durante l’incontro ha esordito rilevando la bellezza della struttura.
Immediatamente dopo l’apertura dell’incontro, ha espresso di trovare in buone
condizioni il fratello.
Riferisce inoltre che si sentono quotidianamente; Il paziente durante il colloquio
ha affermato di non avere fretta nel suo percorso ed in questa occasione l’equipe
ha ricordato sia alla famiglia, sia a M. DB il regolamento interno, per cui il primo
mese il paziente non potrà uscire da Casa Zacchera a parte per le visite mediche
o impegni di tipo giuridico.
La sorella ha chiesto se a Casa Zacchera è possibile poter fare uscite con il
fratello e poter uscire per qualche ora per una passeggiata o per un pranzo;
esprimendo il desiderio che questo possa avvenire, anche data la “poca” distanza
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nel raggiungere il fratello, rispetto a dove era prima. A tale proposito l’equipe ha
ricordato che tutte le decisioni in merito al paziente e anche agli eventuali
spostamenti è necessario l’accordo con i Servizi del Territorio di provenienza, i
quali sembrano a volte dimenticati (come presenza) da parte della famiglia del
paziente.
Proseguendo e parlando del futuro di M. DB, sia la sorella, sia lui hanno espresso
diversi dubbi su un possibile riavvicinamento al paese di origine, in quanto
l’ambiente e le circostanze potrebbero non essere idonee al suo percorso.
La mamma del paziente ha provato più volte durante l’incontro a parlare di un
possibile lavoro per il figlio, esprimendo sia secondo il suo punto di vista
l’aspetto positivo di un’eventuale occupazione per lui, sia il fallimento lavorativo
che ha connotato il passato del paziente, svalutando così le capacità del figlio in
tale ambito.
La madre ha chiesto inoltre come è occupato il tempo libero durante la settimana.
L’equipe ha cercato di spiegare alla famiglia come è organizzata la giornata
“tipo” di Casa Zacchera, dicendo inoltre che non ci sono attività lavorative
interne, se non le mansioni di riordino della propria stanza e degli ambienti
comuni, e che le possibili attività lavorative di Tirocini Formativi retribuiti,
vengono svolte in ditte per lo più esterne.
La madre e la sorella durante il colloquio hanno espresso più volte le differenze
tra L’Ospedale Psichiatrico Giudiziario e il contesto della nostra Struttura,
esprimendo contentezza rispetto al fatto che M abbia avuto la possibilità di venire
qui.
La sorella ha riconosciuto il miglioramento presentato da M subito dopo
l'inserimento in OPG e tutt’ora ogni volta che lo sente le sembra che faccia
progressi.
La sorella, ancora ha riferito che una volta era più refrattario rispetto
all’argomento lavoro, mentre adesso pare sia proprio lui che si esprime chiedendo
la borsa lavoro con entusiasmo.
Il paziente ha affermato inoltre, sempre a proposito di un ritorno nel territorio di
origini, di non aver alcuna voglia di rientrare. Egli ha detto che ci possa essere
anche la voglia di dimostrare qualcosa agli altri, ma non per farsi perdonare
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qualcosa, quanto più per voglia di fare e sentendosi in grado di poter dare
qualcosa.
La sorella ha ricordato inoltre che avviare un’attività in proprio era un suo sogno
da sempre, mentre ora accetterebbe anche di fare un lavoro qualsiasi. Su questo
M ha affermato di essere stato un po' fermato e frenato dalla madre, mentre lei
ricorda l'incostanza del passato e la scarsità di concentrazione sul lavoro.
M. DB ha insistito entrando in conflitto con i familiari rispetto a questa richiesta
del passato ad aprire un'attività.
Rispetto al futuro ha convenuto sul fatto che da ora in poi non sarà più possibile.
Ha ricordato inoltre l'esperienza del padroncino dove fu truffato dal socio
indebitato. Il paziente in merito al discorso lavoro, si è rivolto alla mamma molto
alterato dicendo che 'a questo punto l’ha avuta vinta lei'.
La madre ha ricordato che gli piaceva lavorare in cucina, poi smontava e
rimontava la vespa. Visto che ha problemi di gambe pensa che non sia il caso di
sforzarle più di tanto e poter lavorare più manualmente in un contesto da non
stare troppo in piedi.
Rispetto all'atteggiamento verso i Servizi di riferimento, M. DB afferma che negli
ultimi 4 mesi prima dell'evento reato qualche farmaco era stato sbagliato. La
madre ricorda che nell'ultimo periodo c'era un caos rispetto al cambiamento
frequente dei curanti.
Il paziente ricorda che si sentiva trattato come un bambino per il fatto che la
madre andasse a parlare con il suo psichiatra.
Rispetto all'esordio la sorella ricorda un'inversione sonno-veglia, e l'introversione
verso i familiari, differente da quando con lo psichiatra privato lo portò a
'rifiorire' e a stare meglio. Ricorda poi il ricovero a Villa ***** motivato dal
possesso di un lungo coltello che lui avrebbe poi potuto utilizzare; in
quell'occasione la madre aveva diviso la casa in due. La sorella dice che, a parte
l'inizio dell'essere seguito e diagnosticato, anche prima della presa in carico
manifestava problemi.
Evidente la difficoltà nel recupero cronologico della patologia.
Il paziente lascia il colloquio.
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La sorella dice che dopo l'adolescenza ha continuato a comportarsi come un
bambino.
(L’incontro si svolge in un clima apparentemente tranquillo e quieto, ma in cui si
respira una fortissima conflittualità soprattutto tra M e la madre, ed una notevole
incongruenza tra madre e sorella, riconosciuta, nella ricostruzione degli eventi e
dei vissuti del paziente. Infatti madre e sorella spesso non concordano nella
descrizione di medesimi fatti né su come potesse stare M).
5.3. L’evento reato
Dopo il suo arrivo in Struttura il paziente descriveva così l’evento reato
(defenestrazione della nonna materna): “Correva l'anno 2008, non avevo degli
ottimi rapporti con la nonna perché alla sua età cominciava a stare male; anch'io
avevo i miei problemi e lei, nonostante aveva dei comportamenti cattivi nei miei
confronti, aveva iniziato a volermi male per il fatto che non la facevo bere (si
incattiviva molto quando beveva). Lei aveva 93 anni, era ancora autonoma
nonostante non vedeva più da un occhio, camminava, usciva di casa, faceva gli
affari suoi, nell'ultimo periodo aveva dei problemi seri per il fatto che non
vedeva, iniziava a incattivirsi nei confronti miei e di mia madre, io quel giorno
non ci ho visto; prima ero partito con le buone intenzioni di poter fare una torta
tutti insieme, poi vidi che la porta non si apriva, iniziai a incattivirmi e la buttai
giù. C'era anche mia madre che stava per andare a fare la spesa, trovai la nonna
sul letto che aveva bevuto e mi inveiva di tutto, mi ha dato una botta con il
bastone sul piede diceva che ero una cattiva persona, che non ero capace di
gestirmi il lavoro e la mia vita. Al che io non ci vidi più e il fatto successe in quel
modo lì. Al ritorno di mia madre c’erano i carabinieri che mi portavano via.“
Dalle indagini pare che la nonna, prima di venir gettata dalla finestra era stata
colpita più volte con violenza.
Il paziente venne condotto in carcere in condizioni di scompenso psicopatologico,
reagì violentemente sradicando un lavandino e manifestando verbalmente in
colloqui successivi l’intenzione di uccidere anche la madre. Il suo ricordo è
quello di essere stato lucido e consapevole di ciò che stava accadendo,
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giustificando il suo gesto come unica possibilità di risolvere una situazione
conflittuale che viveva quotidianamente in casa, sopratutto con la nonna materna.
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6. Gli strumenti di valutazione del rischio di recidiva
6.1. Colloquio clinico e colloquio criminologico
Due strumenti utilizzati per conoscere ed approfondire maggiormente
dinamiche personali e comportamentali del paziente sono state il colloquio
clinico ed il colloquio criminologico.
Il colloquio clinico è lo strumento che permette la conoscenza tra utente
e consulente, serve a trarre informazioni sulle attitudini, la personalità, le
aspirazioni, i conflitti di un individuo, fino a permettere l’identificazione della
struttura di personalità del soggetto.
Tale colloquio deve avere carattere esistenziale, deve essere peculiarmente
strutturato per quella persona, e il suo specifico problema o bisogno.
Alcuni autori hanno definito il colloquio come un processo di conoscenza che
viene attuato attraverso il crearsi di un rapporto emotivo tra psicologo e
soggetto, nel corso del quale il conduttore sospende ogni atteggiamento
valutativo32.
In generale gli scopi del colloquio clinico sono quelli di raccogliere
informazioni (colloquio diagnostico) e quello di motivare ed informare
(colloquio terapeutico o di orientamento33).
Il colloquio clinico nasce da una richiesta di aiuto da parte di un soggetto che
vive una situazione di disagio. Lo scopo dell’incontro con lo psicologo sta nella
possibilità, attraverso la ricucitura e la restituzione della storia individuale, di risignificare la vicenda personale. La possibilità di sperimentarsi come soggetto
attivo del proprio cambiamento, di comprendere le dinamiche patologiche e
limitanti che si ripropongono nelle relazioni interpersonali, rendendo il rapporto
con il mondo degli affetti insoddisfacente, può restituire la possibilità di una
scelta più serena e consapevole.
Il colloquio clinico rappresenta così una forma di conversazione in cui si
stabilisce una relazione di fiducia tra il clinico ed il soggetto, che rappresenta
32
http//www.lilianamatteucci.it/colloquio_clinico.htm, data di accesso 10/08/2009.
Per maggiore approfondimento relativo alle diverse tipologie di colloquio clinico si veda
Bastianoni, P., Simonelli, A., op. cit., pp. 57-92.
33
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l’alleanza terapeutica, uno dei più importanti indici di valutazione di un buon
colloquio.
I colloqui clinici, ricercati dallo stesso paziente con lo scopo di ricevere un
ascolto di cui lamentava essere mancante, in maniera recriminatoria, hanno
permesso di raccogliere informazioni che evidenziavano una personalità a tratti
rigida, e paranoica che si esplicitava anche in ambito lavorativo con la
preoccupazione di essere sostituito a causa del suo considerarsi talvolta non
efficiente secondo un suo personale giudizio.
Questa costruzione mentale era usata da **** anche per l’incapacità di accettare
la sua scarsa costanza nel lavoro, così come emerso dalla raccolta dei dati
anamnestici. La svalutazione, atteggiamento costante nella costruzione di
relazioni, era un elemento caratteristico nel rapporto con le figure significative,
come la madre e la nonna, che a loro volta lo consideravano un incapace
soprattutto nella sua identità lavorativa.
Per **** l’incontro con lo psicologo era sia un momento molto atteso, ma
anche il contenitore di rivendicazioni, rabbie, e inquietudini che affollavano la
sua quotidianità; questo tempo permetteva a volte una de tensione del clima
emotivo del paziente che a recriminatorio si illuminava di una possibile nuova
speranza seppur di breve durata.
Il colloquio criminologico34 è una tecnica di comunicazione che si svolge in
una situazione istituzionale, che ha come antecedente il fatto che l’intervistato
abbia commesso un reato, e che ha come scopo il fornire informazioni ad altri
che hanno autorità sul paziente circa la sua personalità, in relazione alla genesi
ed alla dinamica del reato, alle indicazioni per il suo trattamento, ed alla
previsione del comportamento futuro.35
34
E’ opportuno ricordare che qui verrà trattato il colloquio criminologico utilizzato per avere un
quadro della personalità del soggetto autore di reato; esiste anche una fase successiva in cui il
colloquio criminologico viene utilizzato per procedere alla fase tratta mentale di risocializzazione
e rieducazione del soggetto autore di reato, fase che prevede un impegno e motivazione da parte
del soggetto stesso, che invece non è prevista per quella precedente.
Per un maggiore approfondimento si può consultare un precedente studio sulle misure alternative
consultabile sul sito www.istituto-meme.it, data di accesso 10/08/2009.
35
Merzagora, I., 1987, Il Colloquio Criminologico. Il Momento Diagnostico e Valutativo in
Criminologia Clinica, Edizioni Unicopli, Milano, pp. 18-19.
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In base a questa prima definizione del colloquio criminologico, è facilmente
deducibile che, come il colloquio clinico applicato in psicologia, rappresenta
una forma di comunicazione attraverso cui avviene uno scambio di
informazioni fra due o più soggetti, di conseguenza le tecniche del colloquio
applicate in ambito clinico possono esserlo anche in ambito criminologico.
Ciò che differenzia i due tipi di colloquio sono l’ambito di utilizzo ed
applicazione, lo scopo, la motivazione, la competenza specifica che deve avere
il conduttore, le aspettative degli attori. Quindi uguali tecniche, finalità
differenti.
La cosa principale infatti da tener sempre in mente quando si parla di colloquio
criminologico è la sua finalità non terapeutica, ma la sua finalità diagnostica e
prognostica, la sua finalità di fornire indicazioni per un futuro trattamento
criminologico.36
Se nel colloquio psicologico in generale il bisogno su cui occorre concentrarsi è
del soggetto, in quello criminologico il bisogno non è di chi si sottopone al
colloquio, infatti il mandato del criminologo non è quello di essere di aiuto alla
persona, ma quello di stilare un profilo della personalità di un soggetto per fare
un resoconto a chi di competenza sulla eventuale prosecuzione del percorso
intrapreso (nel caso di Casa Zacchera) o sulla necessità di una sua modifica,
qualunque essa sia.
Il colloquio criminologico si struttura in due parti fondamentali: diagnosi e
prognosi.
La diagnosi rappresenta quella fase in cui il criminologo va a indagare i fattori
che, in quella specifica persona, hanno avuto un ruolo determinante nella genesi
del singolo reato o nello sviluppo della sua carriera criminale.
Questa fase a sua volta si suddivide in indagine criminogenetica ed indagine
criminodinamica.
L’indagine criminogenetica fornisce una risposta al “perché” è avvenuto un
determinato delitto, quindi va ad indagare il nesso causale tra il reato e
36
All’interno di un colloquio criminologico è possibile che emerga l’esigenza e la richiesta, da
parte del soggetto, di aiuto psicologico; qui il criminologo clinico dovrà fare in modo che la
richiesta del soggetto venga accolta possibilmente da un altro esperto, il quale intraprenda con il
soggetto, parallelamente e in un setting diverso dalla valutazione criminologico, il cammino
psicoterapeutico.
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determinati fattori propri del soggetto (fattori individuali, esperenziali, socioambientali e situazionali).
La fase criminodinamica invece serve ad illustrare com’è stato compiuto il
reato, intendendo con questo non la modalità concreta di realizzazione ma il
processo psicologico e motivazionale che ha condotto al compimento di un
processo criminoso.
In particolare si va ad indagare come il soggetto ha ceduto all’azione dei motivi
che su di lui hanno agito, a determinare perché non l’hanno inibito altri motivi,
(sociali, individuali, morali, religiosi, giuridici), a ricercare come il soggetto è
arrivato a concepire, e sotto quale aspetto, l’azione antisociale, dalla quale si è
ripromesso la soddisfazione di un interesse, a conoscere come è stata la
preparazione e l’esecuzione del reato.37
Si nota che obiettivo di questa fase diagnostica del colloquio criminologico è
principalmente la ricerca dei motivi sottostanti alla commissione del reato da
parte del soggetto in esame.
Differentemente il colloquio clinico va a ricercare non tanto i motivi della
problematica del soggetto, quanto piuttosto va a ridefinire la situazione da un
diverso punto di vista, da un punto di vista “normale”.38
Successivamente si passa alla fase prognostica che esprime una valutazione del
comportamento futuro del soggetto ed a fare una previsione del comportamento
futuro in termini di probabilità di recidiva.
Se nel colloquio clinico si va ad individuare le caratteristiche della personalità
del soggetto, interessate da una certa forma di patologia, con il colloquio
criminologico si punta ad una descrizione della personalità del reo, già
giudicato, sulla cui base andare a stilare un programma di riabilitazione e
risocializzazione, volto ad allontanarlo alle condotte criminali.
Nello svolgimento del colloquio criminologico si distinguono alcuni momenti:
- fase preliminare di presentazione39 (accoglienza formale, invito a parlare);
37
Bisio, P., 1975, Psicologia criminale, Bulzoni, Roma, p. 487.
Per un maggiore approfondimento si veda il concetto di trasformazione terapeutica consultando
Bandler, R., Grinder, J., 1980, La Metamorfosi Terapeutica. Principi di Programmazione
Neurolinguistica, Edizioni Astrolabio, Roma.
39
Merzagora, I., op. cit. pp. 86-87.
38
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- la raccolta dei dati biografici di vita (data e luogo di nascita, parto e
svezzamento, ritardo nello sviluppo, notizie sulla famiglia d’origine,
composizione della famiglia, atmosfera gruppo dei pari, ambizioni giovanili,
esperienze sentimentali e sessuali, malattie, carriera lavorativa, uso di alcol o
droghe, difficoltà di adattamento, aspirazioni e scopi per il futuro);
- l’approfondimento del reato, la situazione giudiziaria e carceraria (il reato,
luogo e tempo di esecuzione, età del reo, la presenza di eventuali complici, la
circostanza, le caratteristiche della vittima ed eventuale rapporto con il reo, le
sentenze che lo riguardano, il comportamento in carcere, le prospettive del reo);
- approfondimento prognostico;
- la fase conclusiva del colloquio.
Nello specifico di questo caso clinico, attraverso il colloquio criminologico, si
sono potute affrontare le dinamiche e le motivazioni personali che lo hanno
portato a commettere il reato.
Il paziente ha parlato in merito a questo, delle dinamiche relazionali come terreno
su cui la svalutazione, e la frustrazione erano elementi caratteristici e che
rendevano la vita insopportabile, nel suo contesto familiare.
I racconti di vita, le dinamiche interpersonali, le caratteristiche di personalità del
paziente hanno portato a pensare alla possibilità del rischio di reiterazione del
reato nei confronti della madre, verso la quale nutriva rabbia per la costante
frustrazione che viveva nella relazione con lei.
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6.2. Osservazione del comportamento nella quotidianità
Un altro strumento utilizzato nella quotidianità per acquisire informazioni, utili
ad una maggiore comprensione del paziente e quindi alla elaborazione del
progetto terapeutico individuale è l’osservazione del comportamento, che si
declina in varie forme: da un parte l’osservazione di tutti gli operatori che a con
varie mansioni si relazionano con il paziente durante tutta la giornata, dall’altra
l’osservazione durante il colloquio clinico.
Le informazioni di entrambe, raccolte e condivise durante incontri specifici e
organizzate secondo un pensiero funzionale alla prognosi del paziente, sono utili
sia per valutare la condizione psicoaffettiva dello stesso, oltre che valutare le
attitudini personali di gestione delle relazioni e di quanto il suo partecipare o
meno contribuisce all’instaurarsi di un certo clima.
L’osservazione ha lo scopo di permettere una significazione di ciò che è stato
osservato, con l’intento di comprendere e fornire una interpretazione a quei
comportamenti che possono aver anche generato condotte antisociali, e che
spesso sono riscontrabili nell’anamnesi familiare.
Fin dalle prime interazioni anche con i familiari si era evidenziato un alto livello
di conflittualità non solo nei confronti di Osvaldo, soprattutto con la madre, ma
anche tra madre e sorella, spesso in disaccordo nel riconoscere un disagio
emotivo del paziente, provocato anche da un ambiente familiare affaticato dalla
gestione di problematiche psicopatologiche
e da un attaccamento affettivo
disfunzionale e disorganizzato.
6.3. I Test
Il paziente, dopo il colloquio anamnestico e la valutazione attraverso l’esame
psichico, è stato sottoposto all’ingresso in struttura, alla consueta batteria di test
per la valutazione dello stato psicopatologico (BPRS, PANSS), all’MMPI- 2 e
come test di personalità, ed è stata compilata in equipe l’HCR 20.
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1.
La BPRS (Brief Psychiatring Rating Scale)40 permette una valutazione
complessiva della sintomatologia psichiatrica, andando a valutare l’esame
psichico e le principali espressioni sintomatologiche, come possono
emergere anche dopo un colloquio clinico.
Alla scala il paziente è risultato con un punteggio di 40, quindi di
moderata gravità. Da segnalare un punteggio più alto alle voci riguardanti:
Implicazione somatica, Tensione e Atteggiamento manierato.
2.
La PANSS41 è utilizzata per la valutazione della gravità dei sintomi dei
pazienti schizofrenici, valutando la sintomatologia psicotica negativa e
positiva, completata da una scala di psicopatologia generale.
A questo test è risultato un punteggio totale di 73 (15 di sintomatologia
positiva, 17 di sintomatologia negativa e 41 di psicopatologia generale),
rappresentativo di un quadro di discreto compenso.
3.
L’MMPI-242 è uno dei test più diffusi per valutare le principali
caratteristiche della personalità. È utilizzato sia in ambito psicologico che
psichiatrico; è composto da 567 items a cui il candidato deve rispondere
vero o falso a seconda che l'affermazione sia per lui prevalentemente vera
o prevalentemente falsa. Abbiamo utilizzato per lo scoring, il programma
informatico PANDA di Pancheri - Di Fidio43.
Se pur con qualche dubbio rispetto alla validità del test, a motivo dell’alta
Frequency, il test è stato considerato valido. Al test è risultato un numero
di codice (detto Code type) pari a 684 (le punte di profilo di maggior
frequenza sono la 6: Paranoie, 8: schizofrenia, 4: antisocialità), che
descriveva il paziente come incapace di empatia, con tendenza a diffidare
40
Ventura e coll., 1993, BPRS – Brief Psychiatric Rating Scale, in Conti, L., 1999, Repertorio
delle Scale di Valutazione in Psichiatria, S.E.E. Società Editrice Firenze.
41
Andreasen N. C., Schizofrenia. Scale per la Valutazione dei Sintomi Positivi e Negativi, Editore
Cortina Raffaello.
42
MMPI-2, 2011, Giunti O.S.
43
Pancheri, Di Fidio, 1998, MMPI-2 (Versione Panda).
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degli altri colpevolizzandoli per i propri fallimenti, evitante delle relazioni
sociali strette.
Da tale Code Type si può fare un’ipotesi di Disturbo di Personalità
Antisociale (scarso controllo degli impulsi e comportamenti caratterizzati
da rabbia irritabilità e risentimento).
Oltre ai Test sopra citati, ho ritenuto importante soffermarmi maggiormente su
due strumenti quali: l’HCR-20 e la PCL-R.
Questi strumenti dispongono di un’interessante letteratura in tema delle loro
applicazioni: della validità e dell’efficacia nella valutazione del rischio di
condotte
aggressive-violente,
anche
al
confronto
con
altri
strumenti;
dell’accuratezza nel segnalare differenze nel tasso di tale rischio rispetto al
genere sessuale ed altre importanti variabili; nella riconosciuta importanza di
quanto occorra una loro adeguata conoscenza da parte dello staff infermieristico e
psichiatrico-forense di istituti di detenzione e ospedali psichiatrici giudiziari sia
per una migliore conduzione del lavoro clinico in stato di contenzione che per
orientare i programmi di dimissione.
Si darà accenno ai riferimenti sopra evidenziati discutendo brevemente la
struttura di questi strumenti.44
La Violence Risk Assessment Scheme o HCR-20
La Violence Risk Assessment Scheme o HCR-20 (Webster, Douglas, Eaves &
Hart, 1997), di cui non esiste validazione italiana, è uno strumento di ampia
applicazione per la valutazione del rischio di violenza.
La Scala rappresenta il riuscito tentativo di sviluppare uno standard strutturato del
giudizio professionale inerente la stima della probabilità che pazienti con malattia
mentale, compresi quelli di interesse forense, possano commettere nuovi
44
Si ricorda che quanto segue, tanto per l’HCR-20 quanto per la PCL-R, riprende sinteticamente
le indicazioni fornite nei rispettivi manuali all’uso dei test.
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comportamenti violenti oltre a quello/i che ha determinato il loro internato in
istituto di cura/detenzione.
La praticità della sua applicazione ed i riscontri scientifici già offerti in merito
alla sua validità predittiva, danno garanzia che l’HCR-20 sia un valido aiuto per
l’equipe psichiatrica e di valutazione forense tanto nella pratica clinicoterapeutica di gestione del malato all’interno dell’istituto quanto nel processo di
dimissione.
La letteratura sottolinea infatti come sia fondamentale che l’equipe medica
acquisisca un’adeguata conoscenza della struttura dello strumento così da
adottarlo nella routine del lavoro clinico e nei processi decisionali inerenti la
dimissione del paziente (Wright P. & Webster C., 2011), poiché è stata dimostrata
l’attendibilità nel grado di accordo dei giudizi effettuati in cieco tra più valutatori
(inter-rater reliability) che abbiano usato lo strumento sullo stesso campione
(Belfrage H., 1998).
La letteratura non si è mostrata uniforme nel fornire un punteggio di cut off per la
predizione del rischio di violenza: secondo alcuni autori, manca un vero e proprio
punteggio di cut off; secondo altri, l’uso dello strumento in alcune particolari
popolazioni consente di considerare un valido cut off al punteggio di 21
(Thamakosit W., 2007); per altri ancora, il punteggio di cut off è 27 (Fujii D.,
Lichton A., & Tokioka A., 2004). Sostanzialmente, è possibile interpretare queste
eterogenee indicazioni in considerazione del fatto che l’HCR-20 assolve alla
necessità dell’equipe di lavoro di individuare dei range di rischio espressi in
termini di rischio basso, medio o alto, più che nel fatto di indicare un punteggio
quantitativo del rischio stesso.
L’uso dell’HCR-20 nei servizi psichiatrici civili e forensi, è infatti volto alla
possibilità di determinare le future condotte violente dell’utenza che si ha in
gestione, al fine di promuovere opportuni programmi trattamentali individuali,
nonché valide strategie per prevenire e/o ridurre tale rischio.
Da un punto di vista concettuale, lo strumento sottende ad intendere la violenza
come il fattivo, tentato o minacciato danno fisico procurato ad un’altra persona in
modo non consensuale.
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Oltre agli atti veri e propri, per i quali l’entità del danno dipende da fattori quali
la prossimità tra autore e vittima o l’uso di strumenti specifici per esercitare la
violenza (es. armi), nella definizione si includono quindi anche le minacce
esercitate sotto forma di atti o espressioni verbali che hanno lo scopo deliberato
di incutere timore nel possibile danno fisico che la vittima avrebbe ad avere.
Tali minacce devono essere chiare, e non vaghe affermazioni di ostilità per
essere annoverate nella definizione: la violenza è quel comportamento che può
causare danni all’altro. Ma il danno ad una vittima non è la caratteristica che
definisce l’atto di violenza, è l’atto stesso.
Per quanto sopra esposto, il processo decisionale attuato tramite l’applicazione
dell’HCR-20 intende “caratterizzare” il rischio di comportamenti violenti per il
soggetto in esame: l’attenzione è posta non solo sull’atto violento in sé, quanto
sulla decisione del soggetto di agire violentemente; è in tal senso vista come
“previsionale” l’individuazione dei soggetti a rischio di commissione di atti
violenti.
Il medico o l’esaminatore dovrà quindi interpretare le modalità e le motivazioni
della scelta di una condotta violenta già adottata dal soggetto nel passato, e
all’atto della valutazione determinare se, sussistendo gli stessi fattori, egli possa
nuovamente agire in modo violento.
Questo è, in linea generale, fattibile per gli autori di condotte violente che non
detengano una base psicopatologica: la violenza di soggetti affetti da patologia di
mente non può risentire allo stesso modo di questa “cosciente” decisione da parte
del soggetto.
In quest’ultimi agiscono infatti, al di là della diagnosi di patologia di mente,
alcuni elementi che su di essa si innestano: l’abuso di sostanze, ad esempio, o
alcuni tratti di personalità, che se già da soli influiscono sulla prima condotta
violenta e così come sulla sua recidiva, combinati tra loro innalzano il rischio a
percentuali superiori al 50% (Stadtland C., & Nedopil N., 2005).
Lo schema concettuale sul quale si fonda l’HCR-20, sviluppato da un attento
esame della letteratura empirica riguardante i fattori correlati all’adozione di
comportamenti violenti, si fonda sul fatto di delineare alcuni markers di rischio
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nel passato di vita del soggetto in esame, negli elementi clinici del presente e nel
futuro.
L’HCR-20 prende dunque il nome dalle tre sottoscale che la compongono e dal
numero dei fattori considerati: 10 fattori storici (Historical), 5 fattori clinici
(Clinical) e fattori di gestione del rischio (Risk Management).
La codifica di ognuna delle singole 20 voci avviene per mezzo di una scala a tre
punti, in base al grado di certezza sulla presenza del fattore di rischio:

il punteggio 0 indica che il fattore è assente, o che la sua presenza non è
supportata dalle informazioni di cui si dispone sulla storia del paziente;

il punteggio 1 indica che il fattore è possibilmente o parzialmente
presente, ovvero che le informazioni di cui si dispone indicano una
qualche evidenza, seppur non definitiva, della sua presenza;

il punteggio 2 indica l’assoluta, chiara e certa presenza del fattore
considerato.
Laddove non si disponga di alcuna informazione relativa ad una data voce, o se
quelle di cui si è in possesso non vengono ritenute attendibili, ne è consentita
l’omissione.
Attribuiti i punteggi ad ognuno dei fattori che compongono la scala, la
valutazione del rischio viene effettuata considerando tre livelli di gravità: basso,
medio o alto.
Il manuale suggerisce come il processo di valutazione del rischio di violenza non
sia specificabile in modo univoco per differenti contesti.
A fini di ricerca, considerando l’HCR-20 come una vera e propria scala statistica,
si può sommare il punteggio degli item che compongono ognuna delle tre
sottoscale così da ottenere dei punteggi parziali relativi al “peso” dei fattori
storici (dove il punteggio andrà da 0 a 20), clinici e di risk management (dove il
punteggio andrà da 0 a 10); per poi sommarli tra loro ed ottenere un punteggio
totale (che andrà da 0 a 40).
Laddove siano state omesse delle voci, il punteggio deve essere calcolato “prorata”, ovvero in proporzione al numero delle omissioni. È però sconsigliato
attuare tale metodo nel caso in cui siano state omesse troppe voci, ovvero più di 2
per i fattori H, più di 1 per i fattori C e R, o più di 5 in totale.
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Per scopi clinici è chiaramente inutile sommare il punteggio dei fattori o calcolare
il punteggio totale per valutare il grado di rischio o pericolosità di violenza.
In questo contesto il valutatore può considerare sufficiente la presenza di uno solo
o pochi fattori per giudicare il soggetto in esame ad alto rischio di violenza: ad
esempio, particolarmente rilevanti sono i fattori H1, H5 o H7, C3 o C4, R3 o R4.
Il clinico potrebbe allora considerare che maggiore è il numero di fattori presenti
in un dato caso, maggiore è il rischio di violenza; ma nemmeno tale metodo ha
efficacia, in quanto le ricerche dimostrano che il rischio di violenza dipende non
dal numero dei fattori di rischio quanto dalla qualità della loro influenza e dal
modo in cui ognuno di loro si combina con gli altri.
Tra l’altro nel contesto clinico l’omissione delle voci rappresenta un problema
poiché, mentre il punteggio quantitativo pro-rata ha come presupposto il fatto che
ogni voce abbia più o meno la stessa validità sia come indicatore di alcuni tratti
(pericolosità) che come revisore di eventi (la violenza), in una valutazione
qualitativa clinica questo non ha attendibilità.
Pertanto nel contesto clinico l’omissione deve essere valutata come 0, ad indicare
semplicemente che non si posseggono informazioni atte a suggerire la presenza di
quel fattore (e, a questo punto, a suggerire la necessità di indagare meglio).
In generale, poiché le omissioni possono inficiare la validità del giudizio finale
circa la predittività del rischio, il valutatore deve qualificare le proprie opinioni
specificando anche se ed in che termini esse potrebbero cambiare in presenza
delle informazioni mancanti.
Il manuale dell’HCR-2045 suggerisce di effettuare la valutazione a più riprese,
allorquando si sia verificato un cambiamento nel comportamento del paziente o
nel suo contesto residenziale; tale suggerimento risiede nella variabilità che può
subire nel corso del tempo la gravità di alcuni fattori di rischio, variabilità che a
sua volta influenza la gestione clinica e la previsione del rischio di violenza.
45
Non essendo disponibile una validazione italiana dello strumento, chi scrive ha adottato la
versione originale dello strumento, chiedendo ad un traduttore esperto di indicare i contenuti
salienti in merito alle applicazioni già effettuate, all’uso dello strumento, all’attribuzione dei
punteggi ed alla codifica del risultato. Si auspica così che tale lavoro, al di là delle finalità
specifiche che l’hanno condotto, possa offrire un contributo al confronto dei risultati ottenuti dalla
popolazione originale con quella italiana.
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Infatti, i fattori clinici e di risk management, oltre che essere combinati tra loro
allo scopo di prevedere il rischio di comportamenti violenti, si mostrano utili
mezzi per monitorare i progressi del trattamento adottato per il soggetto.
Va da sé che tale accezione sia di rilevante importanza soprattutto nel caso in cui
il soggetto in questione sia un autore di reato per il quale sia stato prodotto un
giudizio di non responsabilità penale in virtù della presenza di una malattia
mentale: in questi casi, il monitoraggio dell’efficacia del trattamento diventa uno
degli elementi che orienta il giudizio sulla sussistenza o meno della sua
pericolosità sociale.
Andiamo adesso a discutere più nello specifico dei 20 fattori che compongono la
scala: attenendosi alle indicazioni/spiegazioni che il manuale suggerisce per
ognuno di essi, la lorocodifica quantitativa va segnalata utilizzando l’apposito
Foglio di Codifica (HCR-20 Coding Sheet) che costituisce il materiale del test.
I fattori H attengono al passato: si dicono “storici” in quanto relativamente stabili,
ovvero poco variabili nel tempo poiché la loro presenza è considerata durevole
nell’arco di vita del soggetto.
Essi riflettono variabili relative a serie problematiche in alcuni particolari aspetti
di adattamento, che in modo più o meno causale possono essere correlate con il
rischio di violenza futura. A loro volta distinti in due sottogruppi, uno relativo
alla storia di vita del soggetto e l’altro alla qualità del contesto psico-sociale, in
pratica abbiamo:
-H1 – Previous Violence (Precedenti episodi di violenza): l’item pone che la
probabilità di commettere futuri comportamenti violenti (o devianti) aumenta se
vi siano dei precedenti episodi nel passato. Si intende per violenza quella
commessa verso altre persone (tralasciando quella verso oggetti o animali). Per
l’attribuzione del punteggio, all’atto della valutazione si combina il numero di
precedenti episodi di violenza con la gravità degli stessi.
-H2 – Young Age at First Violent Incident (Inizio precoce di comportamenti
violenti – Età al primo episodio violento): l’item pone una corrispondenza tra
l’età al tempo del primo episodio violento ed il rischio di adozione di ulteriori
episodi violenti. Più il soggetto era giovane al tempo della prima violenza,
maggiore sarà il rischio futuro.
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L’esaminatore deve dunque conoscere o essere in grado di individuare l’età del
soggetto al primo episodio violento (l’età al fatto compiuto, non l’età alla sua
denuncia), così da attribuire il punteggio utilizzando i range di età indicati dal
manuale.
-H3 - Relationship Instability (Instabilità relazionale): l’instabilità è intesa
nelle relazioni affettive con partner (mogli/mariti) e non con i familiari in
generale e gli amici. Assenza di legami affettivi, molte relazioni a breve termine
o pattern di relazioni instabili e conflittuali per lungo tempo, depongono per
l’attribuzione di un punteggio di 2.
-H4 – Employment Problems (Problemi nella sfera lavorativa): l’item include
tanto le attività lavorative nella vita in libertà, quanto le esperienze o i programmi
di lavoro affidati in un istituto di cura/riabilitazione, nonché la frequenza a scuole
o corsi professionali. Anche in questo caso, la quantità di esperienze lavorative e
la qualità delle stesse orienta l’attribuzione del punteggio: ottengono un
punteggio alto coloro che non hanno mai lavorato regolarmente, o che hanno
cambiato o abbandonato di frequente un’attività lavorativa, o che sono stati
spesso licenziati.
-H5 – Substance Use Problems (Problemi legati all’uso di sostanze
stupefacenti):
l’uso di sostanze stupefacenti è un fattore molto importante, più ancora della
malattia mentale, nell’incrementare il rischio di violenza. L’item non tratta tanto
dell’uso in sé, che comunque deve essere spiegato in termini di consumo
(occasionale, abituale o di abuso) anche senza la presenza di una vera e propria
diagnosi, quanto delle limitazioni alle funzioni lavorative, alla sfera affettivarelazionale ed alla salute che si ricollegano ai comportamenti di uso/abuso di
sostanze.
-H6 – Major Mental Illness (Presenza di malattia mentale grave):
l’item si riferisce alla malattia mentale grave ed acuta così come intesa dai quadri
nosografici dell’Asse I e II del DSM-IV, sebbene nella revisione dello strumento
lo specifico riferimento a tale manuale sia stato rimosso per facilitare la codifica
dell’item nelle giurisdizioni che usano diverse classificazioni diagnostiche.
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L’attribuzione del punteggio dipende da sicure codifiche di malattia mentale
avute in passato o diagnosticate nel presente, o da codifiche provvisorie/probabili
in attesa di conferma (è necessario indicare una delle due voci nel Foglio di
Codifica): se la presenza di psicosi, ritardo mentale o disturbi di personalità, al di
là della specificità dei criteri diagnostici all’interno di queste categoria, non può
essere definita in modo equivocabile, si attribuisce all’item il punteggio di 1.
-H7 – Psychopathy (Psicopatia): anche in questo caso il Foglio di Codifica
indica di segnalare se si tratta di diagnosi sicura o probabile, e l’attribuzione del
punteggio
all’item dipende dal
punteggio
ottenuto
dal
soggetto
alla
somministrazione della PCL-R o della PCL:SV (Psychopathy Checklist Screening Version): l’item avrà punteggio 0 per punteggi al di sotto di 20 nella
PCL-R, punteggio 2 per punteggi al di sopra di 30 alla PCL-R.
-H8 – Early Maladjustment (Disadattamento precoce o Disadattamento
infantile): l’item include espressioni di disadattamento, in ambito scolastico,
familiare o sociale in generale, in cui il soggetto sia stata vittima o artefice
(maltrattamenti subiti durante l’infanzia, o vittimizzazioni verso gli altri).
-H9 – Personality Disorder (Disturbi di Personalità): anche in questo caso è da
indicare nel Foglio di Codifica se si tratta di diagnosi sicura o probabile, ed il
punteggio 1 si attribuisce alla presenza di soli tratti di personalità.
L’item intende indagare, tra tutti, in particolare i Disturbi di personalità del
Cluster B, ed in special modo il Disturbo Borderline ed il Disturbo Antisociale di
Personalità.
-H10 – Prior Supervision Failure (Fallimento di precedenti tentativi di
supervisione/trattamento): per gravi fallimenti, tali da consentire l’attribuzione
del punteggio di 2, si intendono fughe dall’istituto di cura o contenzione, gravi
episodi di violenza durante i programmi trattamentali proposti dal Tribunale, etc.
Se un soggetto, prima della valutazione, non ha mai avuto un precedente tentativo
di supervisione/trattamento da parte dei Servizi Psichiatrici o della Magistratura,
si deve attribuire il punteggio 0.
Nonostante la natura statica dei fattori H, la loro codifica può non essere
altrettanto immutabile: è infatti possibile che l’attribuzione del punteggio alle
voci che compongono questa sottoscala possa essere corretta o variata in base a
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nuove acquisizioni sulle informazioni a carico del soggetto, che possono essere
da lui stesso riferite o acquisite in una ulteriore visione della documentazione di
riferimento.
Il processo di codifica di questi fattori diviene dunque un’attività al quale
l’esaminatore deve prestare molta attenzione ed accuratezza di indagine, al fine di
non incorrere in errore attribuendo punteggi più alti a casi meno rilevanti (e
dunque orientandosi a considerare gli stessi come falsi positivi), o peggio ancora
sottovalutando l’influenza dei fattori H (falsi negativi) nel processo di valutazione
del rischio di violenza.
Oppure potrebbe aversi una variazione del fattore, come peggioramento o come
miglioramento delle condizioni da esso indicate: ad esempio, la codifica dell’item
H1 deve essere rivista nel momento in cui il soggetto commetta un (altro)
episodio grave di violenza; la codifica dell’item H10 deve essere rivisto se, in una
successiva valutazione, il soggetto è nel frattempo scappato dal centro di
ricovero/detenzione; ed infine, item come H3, H4 e persino H5 possono registrare
un miglioramento nel corso del tempo.
In ultimo, è ammesso che il valutatore (o l’equipe di valutazione) modifichi la
propria opinione riguardo la rilevanza di un item, pur mantenendo invariato il
valore della sua codifica. Ciò si traduce nel fatto che, se anche la valutazione
quantitativa dei fattori H non subirà modifiche, la valutazione qualitativa, e
specificamente clinica, potrebbe non essere la stessa.
I fattori C riguardano il presente, o meglio fanno riferimento all’osservazione
durante i 6 mesi antecedenti la valutazione. La loro presenza serve a moderare la
rilevanza dei fattori H, rendendo lo strumento più dinamico.
Attitudini, comportamenti, emozioni e cognizioni descritti nei fattori C possono
cambiare grazie ad un intervento pianificato o al mutamento delle circostanze,
così come accade per i fattori R; tanto che non è errato dire che i fattori C ed R
hanno la potenzialità di60 prevedere e prevenire il rischio di violenza, mentre i
fattori H forniscono le componenti per determinare il contesto della sua
espressione.
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I fattori C sono:
-C1 – Lack of Insight (Mancanza di consapevolezza di malattia): si riferisce al
grado con il quale il soggetto non riesce a comprendere e ad essere consapevole
del suo disturbo mentale e degli effetti che esso ha nel suo comportamento e
versogli altri. Se il soggetto manca di insight, il suo punteggio sarà 2.
-C2 – Negative Attitudes (Attitudini o atteggiamenti negativi): descrive
atteggiamenti negativi, antisociali o sadici verso gli altri, le regole sociali, le
istituzioni, la legge e l’autorità. Specifica la presenza di tali attitudini al di là
della presenza della malattia mentale. Nell’attribuzione del punteggio, è
importante valutare anche la presenza di senso di colpa o rimorso verso i
comportamenti passati.
-C3 – Active Symptoms of Major Mental Illness (Florida sintomatologia di
disturbi psichiatrici maggiori): è stato ormai scientificamente approvato che il
rapporto tra malattia mentale e violenza non gode necessariamente di causalità;
sul rischio di violenza influisce invece la presenza di alcuni sintomi della malattia
mentale e tra questi in particolare i disturbi nel contenuto e nella forma del
pensiero (allucinazioni, pensiero bizzarro, ideazione paranoide, etc.). Il punteggio
di 2 si attribuisce se è accertata la presenza di florida sintomatologia
psicopatologica, o laddove i sintomi siano gravi.
-C4 – Impulsivity (Impulsività): l’item intende la facile irritabilità, l’instabilità
affettiva, d’umore e comportamentale che determina acting improvvisi come
espressione del discontrollo degli impulsi. Anche in questo caso, si valuta extra
rispetto alla malattia mentale.
-C5 – Unresponsive to Treatment (Mancanza di reattività al trattamento):
l’item descrive la compliance al trattamento posseduta dal soggetto all’atto della
valutazione o lungo i precedenti 6 mesi, nonché l’efficacia dello stesso.
Ottengono un punteggio di 2 i soggetti che rifiutano di iniziare il trattamento,
oppure lo iniziano ma poi lo interrompono, o ancora completano il trattamento
ma non ne beneficiano (esso non è stato efficace).
Infine abbiamo i fattori R, che si riferiscono al modo in cui il soggetto si adatterà
alle circostanze future ed al fatto che si potranno sviluppare efficaci programmi
per ridurre il rischio di comportamenti violenti.
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Nella valutazione predittiva del rischio di violenza, infatti, non si può
prescindere dall’analisi del contesto in cui si troverà a vivere il soggetto una volta
dimesso, né dalla valutazione dei punti di forza sui quali potrà trovare appoggio.
Il Foglio di Codifica richiede di specificare il contesto in cui verrà effettuata la
gestione del rischio: “IN” farà riferimento al periodo di ospedalizzazione, “OUT”
all’esterno.
È su questo secondo contesto che ci si è soffermati per la descrizione delle
seguenti voci R:
-R1 – Plans Lack Feasibility (Mancanza di programmi praticabili): l’assenza
di piani praticabili può dipendere dalla genericità degli stessi o dall’effettiva
mancanza o disponibilità delle risorse sul territorio, intese sia come figure
professionali che come servizi. Se la comunità non può o non vuole, a causa del
comportamento del soggetto, o non sia in grado, a causa della mancanza di
risorse, di fornire assistenza dopo la dimissione del soggetto, è bene applicare un
punteggio di 2.
-R2 – Exposure to Destabilizers (Esposizione a fattori destabilizzanti): non si
tratta di prevedere la presenza di tutti i possibili fattori destabilizzanti nella vita di
un soggetto, compito che sarebbe chiaramente impossibile, quanto di prevedere
almeno la presenza di alcuni fattori che già hanno manifestato un potere
destabilizzante nel passato del soggetto (uso di sostanze, captazione da parte di
gruppi malavitosi, facilità nel reperire armi), e contemporaneamente di escludere
la presenza di altri che sarebbero invece di natura positiva (assenza di abitazione,
mezzi economici di sostentamento). Anche una scarsa o inadeguata supervisione
professionale (sanitaria, istituzionale) può essere considerato un fattore
destabilizzante. Il valutatore dovrà inoltre segnalare se il soggetto dovrà seguire
specifici programmi per limitare o escludere l’influenza di questi fattori (es.
Alcolisti Anonimi).
-R3 – Lack of Personal Support (Mancanza di sostegno personale): è
importante valutare la presenza di aiuti sul piano pratico ed anche emotivo che il
soggetto potrà ricevere da familiari, amici e servizi socio-sanitari. Se tali forme di
sostegno personale non sono presenti, o se esistono ma il soggetto non riesce ad
accettarli, si potrà attribuire un punteggio alto.
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-R4 – Noncompliance with Remediation Attempts (Mancanza di adesione ai
programmi terapeutici): la motivazione ad aderire ai tentativi di trattamento,
che in questo caso è riferita al futuro, si ricollega alla presenza di insight (C1) ed
alla motivazione e volontà di rispettare un percorso terapeutico (C5). Il rischio di
violenza si riduce infatti se il soggetto possiede consapevolezza della propria
malattia e, in virtù di ciò, accoglie ed aderisce a regole condivise in un percorso
di trattamento. Il manuale sottolinea che, nella similarità di questa voce con la
C5, il valutatore deve ricordare che i fattori C si riferiscono al presente mentre i
fattori R al futuro: dunque se un soggetto può aver dimostrato di non rispondere
ad uno specifico intervento ed aver ottenuto il punteggio di 2 nella voce C5, la
voce R4 richiederà una nuova valutazione alla voce R4 per verificare la
conformità a programmi futuri.
-R5 – Stress (Stress): l’item richiede di valutare le fonti di stress che il soggetto
può incontrare ed il modo con il quale può reagire ad esse, ovvero le strategie di
coping. La previsione dei life event stress, che al pari degli elementi
destabilizzanti citati nel fattore R2 non è semplice da effettuarsi, si riferisce nello
specifico a tre aree generali: la famiglia, gli amici ed il lavoro. Il valutatore deve
chiarire se, nell’immaginabile futuro del soggetto, non vi siano già degli stressor
che con la dimissione del paziente possano influenzare la qualità della sua vita
(es. separazioni familiari, perdita del lavoro, lutti).
Come per qualsiasi altro strumento che dalla prassi clinica viene mutuato a quella
sperimentale, anche l’HCR-20, per rendere al meglio l’efficacia degli standard
psicometrici che garantiscono l’affidabilità e la validità della sua applicazione,
necessita in primo luogo di un elemento: che i criteri o i parametri considerati
utili al fine per il quale lo strumento è stato ideato, in questo caso la valutazione
predittiva di comportamenti aggressivo-violenti, possano di fatto essere valutati
in modo qualitativo e quantitativo, dunque senza troppe incertezze nella loro
“rintracciabilità”.
Come detto in precedenza e come riportato dalla letteratura, vi è un nesso tra la
presenza di precedenti episodi di violenza e la probabilità che lo stesso soggetto
ne commetta di altri in futuro, così come vi è un nesso tra la precocità di
comportamenti aggressivi e la probabilità che tali modalità divengano uno
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standard nella condotta del soggetto: dunque queste due indicazioni, di così
rilevante e primaria importanza, dovrebbero essere registrate accuratamente negli
istituti preposti alla cura o al contenimento giudiziario di questa tipologia di
utenza.
Si mostra in sostanza di primaria importanza l’accurata registrazione delle notizie
storico-anamnestiche per i soggetti che, affetti da patologia di mente, siano anche
autori di reato, in virtù dell’analisi delle implicazioni che la patologia può avere
sulla pericolosità sociale, intesa come valutazione del rischio di violenza.
Dunque si ritiene, in particolare i fattori storici, elementi cui prestare la massima
attenzione nell’intento di predire il rischio di violenza.
Tale considerazione trova peraltro accordo in grossa parte degli studi condotti in
letteratura, che tuttavia non è unanime in questo riscontro, sottolineando in alcuni
casi come i fattori clinici e di risk management detengano maggiore significato
predittivo del rischio di violenza rispetto ai fattori storici.
Così ad esempio, uno studio longitudinale retrospettivo condotto in Svezia su un
campione di 106 pazienti violenti affetti da Schizofrenia, ha messo a confronto la
validità predittiva della VRAG (Violent Risk Appraisal Guide) e della parte
anamnestico-storica dei fattori H dell’HCR-20. In tale confronto, lo studio ha
dimostrato che entrambi gli strumenti hanno una buona validità predittiva del
rischio di violenza, ma che i 10 fattori H dell’HCR-20 detengono una precisione
superiore rispetto ai criteri ammessi dalla VRAG, in particolare per ciò che
concerne la previsione a lungo termine del rischio di condotte violente che attiene
a soggetti con grave patologia di mente (Tengström A., 2001).
Ancora, uno studio longitudinale pseudo-prospettico condotto su un gruppo di
887 pazienti forensi maschi, dimessi dai reparti di media sicurezza di un ospedale
psichiatrico forense del Regno Unito, ha dimostrato che i fattori H ed i fattori R
dell’HCR-20 hanno un buona validità predittiva del rischio di violenza, mentre
scarsi sono i risultati dei fattori C.
Nel caso del mio lavoro, . per la scala H (History) il paziente risulta con
punteggio significativo alla precedente violenza, alla psicopatia (punteggio alla
scala di psicopatia: 25), ai problemi di lavoro, a precedenti psichici maggiori e
fallimento degli interventi terapeutici (totale punteggio alla scala H: 8).
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Alla scala C (clinica) è emerso soprattutto la mancanza di insight (punteggio
totale alla scala C: 5). Alla scala R (rischio) è emerso scarsa motivazione ai
programmi proposti e al fattore Stress ( punteggio totale alla scala R: 5).
Dal punteggio totale di 18, si è evinto che gli scenari di rischio possibili
riguardano l’identificazione della madre, e secondariamente della sorella, come
possibili vittime, soprattutto se il paziente non è inserito all’interno di piani
d’intervento
praticabili
(trattamento
farmacologico,
percorso
terapeutico
riabilitativo, organizzazione e monitoraggio di eventuali visite familiari, ecc.) o
se il paziente si dovesse trova al di fuori di un contesto contenitivo e protetto di
vario genere.
La Psychopathy Checklist - Revised o PCL-R
La Psychopathy Checklist - Revised o PCL-R (Hare, 1980, 1991, 2003; ITA
Caretti et. al, 2012) ha origine dagli studi condotti in Canada da Robert Hare, che
già nel 1980 lo portano ad istituire una prima versione della scala come tentativo
di operazionalizzare le procedure di valutazione del costrutto clinico di
psicopatia. La prima revisione del 1991 modifica la struttura dello strumento
omettendo due dei 22 item originari, e riporta i risultati di studi internazionali
condotti allo scopo di dimostrare l’affidabilità, la validità e la generalizzabilità
dello strumento a diversi tipi di campione.
L’ultima revisione dello strumento, proposta dall’autore nel 2003 (PCL-R 2nd
edition), non ha visto invece variazioni strutturali né per ciò che attiene alla
descrizione degli item o ai criteri di scoring ed interpretazione, ma ha aggiunto
ulteriori riferimenti sperimentali su popolazioni precedentemente non sottoposte a
disamina: popolazioni femminili; popolazioni di differente appartenenza razziale;
soggetti con addiction da sostanze stupefacenti; autori di reati sessuali e pazienti
psichiatrico-forensi.
La specificità di alcuni campioni ha peraltro determinato che, accanto allo
strumento originale, l’autore ne abbia posto delle versioni specifiche, tra le quali
si citano la Hare Psychopathy Checklist: Screening Version (PCL:SV, di Hart,
Cox & Hare, 1995), che si affianca all’uso dello strumento originale su una
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popolazione normale di soggetti come screening per la valutazione della
psicopatia in popolazioni di autori di reato; e la Hare Psychopathy Checklist:
Youth Version (PCL:YV, di Forth, Kosson & Hare, 2003), per autori di reato
adolescenti e giovani adulti.
Per la validazione italiana della PCL-R è stata condotta una ricerca multicentrica
che, dal 2008 al 2010, ha coinvolto un campione di 139 autori di reato di
nazionalità italiana condannati in via definitiva e detenuti presso strutture
carcerarie ed OPG del territorio nazionale.
Ciò che però in questa sede si desidera citare, allo scopo di comprendere i
postulati teorici e di ricerca che hanno condotto alla necessità di strutturare la
PCL-R, sono alcuni importanti riferimenti di massima, ed ovvero:
- la descrizione di psicopatia che, per primo, diede Philippe Pinel quando
“parlava
di
“follia
senza
delirio”
per
descrivere
un
modello
di
comportamentocontraddistinto dall’assenza di rimorso e da una completa
mancanza di freni inibitori, un modello che egli considerava distinto dal comune
“male che gli uomini compiono” (Hare R., 2009, pag 40/41).
Tale accezione di psicopatia, che Pinel non considerava estensione di una
particolare amoralità, fu ad origine di approfonditi studi da parte di altri studiosi
che all’opposto vedevano nella psicopatia “la vera incarnazione del male”
(Hare, 2009);
- la descrizione di psicopatia che, in stretto senso clinico, venne data da Hervey
Cleckley nel noto libro The Mask of Sanity edito per la prima volta nel 1941 ed
aggiornato fino alla V edizione del 1976, laddove venne riconosciuta come un
grave problema sociale al quale non era stata prestata la dovuta attenzione.
Nell’opera, una dettagliata raccolta della storia clinica di diversi pazienti,
Cleckley descrive tutte le caratteristiche peculiari di un disturbo che contempla,
tra gli altri, “fascino”, “sagacia ed astuzia”, “mancanza di valori”, “povertà
emotiva”, “egocentrismo”, “disonestà” ed “impulsività”: “(lo psicopatico) non ha
familiarità con i fatti o gli elementi primari di ciò che possiamo definire valori
personali. (…)
È per lui impossibile interessarsi anche minimamente al dolore, alla felicità o
alle conquiste dell’umanità quali vengono presentate nella letteratura e nell’arte.
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(…) Bellezza e bruttezza, eccetto che in senso molto superficiale, bene, male,
amore, orrore e ironia non hanno per lui alcun significato reale, nessun potere di
commuoverlo. Ed è anche privo della capacità di accorgersi che gli altri provano
emozioni. È come se, nonostante la sua acuta intelligenza, fosse cieco a questo
aspetto dell’esistenza umana” (Cleckley, 1976, pag. 90; in Hare, 2009);
-la descrizione del mutato termine in “sociopatia” che George Everett Partridge
diede nel 1930, a sua volta riprendendo le concettualizzazioni proposte nel 1909
da K. Birnbaum, che poneva maggiormente l’accento sul disadattamento sociale
reso manifesto in comportamenti e stili di vita in chiara distonia con i criteri della
convivenza sociale e della realtà. Molte delle difficoltà presentate dagli
psicopatici hanno secondo lo studioso un’origine sociale più che psicologica, e
devono dunque essere rintracciate nelle condizioni ambientali e del contesto di
vita del soggetto, che non gli ha reso possibile di apprendere adeguate norme di
condotta sociale.
Quanto sopra riportato è solo una breve sintesi utile a comprendere quanto sia
complessa la “sindrome della Psicopatia” (Hare, 2009, pag. 51), che integra tra
loro sintomi differenti in qualità di tratti di personalità particolari che influenzano
tanto la sfera emotivo relazionale che quella comportamentale.
Autocentrato ed autoreferenziale, lo psicopatico ha riguardo esclusivamente per il
proprio benessere; l’inflazione del senso di Sé non gli consente di intendere
l’altro che comebun oggetto depersonalizzato di cui potersi approfittare per
raggiungere un profitto personale; la mancanza di empatia, l’assenza di rimorso,
l’impulsività e l’irresponsabilità che caratterizzano la sua sfera affettiva ed la sua
condotta, non consentono di mettere confini al suo agire e gli impediscono di
prendere atto delle conseguenze delle proprie azioni.
Ma, ed in questo consiste anche lo straordinario fascino di questi soggetti che
coinvolge tanto la comunità scientifica che la società profana, vi è il fatto che
essi, al primo incontro, riescono bene a mascherare le caratteristiche sopra
descritte mostrandosi ai più semplicemente normali. È questa l’essenza della
“maschera di sanità” descritta da Cleckley:
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“l’esteriorità di questi soggetti rimane intatta, ed anche i processi di pensiero
conservano un aspetto normale sotto opportuna indagine psichiatrica o con l’uso
di prove tecniche” (Cleckley, 1955, pag. 423; in Palermo G., 2011, pag. 23).
Il costrutto di psicopatia descritto dall’autore viene distinto dal Disturbo
Antisociale di Personalità (Antisocial Personality Disorder - ASPD) classificato
nel DSM IV-TR (ed a partire dall’edizione del DSM-III, 1980) e dal Disturbo
Dissociale di Personalità dell’ICD-10 (1992), nella misura in cui la psicopatia
diviene un disturbo che nella propria descrizione integra sia fattori affettivi ed
interpersonali, che fattori comportamentali e di stile di vita del soggetto, che nei
precedenti citati non si esprimono nello stesso modo.
Tanto il Disturbo Antisociale di personalità quanto il Disturbo Dissociale di
Personalità costituiscono un modello “categoriale” nella descrizione della
psicopatia, ovvero si basano su criteri diagnostici stabiliti, che consentono di
ammettere o escludere la presenza del disturbo.
Tra i due, il Disturbo Dissociale di Personalità descrive tratti di personalità ed
aspetti comportamentali che richiamano le caratteristiche tradizionalmente
connesse alla psicopatia, quali:
1. l’assoluto disinteresse per i sentimenti degli altri;
2. l’evidente e persistente attitudine all’irresponsabilità ed al disprezzo per le
norme sociali, le regole e i doveri;
3. l’incapacità a mantenere relazioni durevoli, senza tuttavia avere difficoltà a
Iniziarle;
4. la scarsa tolleranza alla frustrazione, e la bassa soglia per lo scarico
dell’aggressività, inclusa la violenza;
5. l’incapacità di nutrire senso di colpa e di imparare dalle esperienze negative, in
particolare dalle punizioni;
6. la marcata tendenza a incolpare gli altri, o ad offrire razionalizzazioni
plausibili, per il comportamento che ha portato il soggetto in conflitto con la
società;
7. la persistente irritabilità.
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I criteri diagnostici che definiscono il Disturbo Antisociale di Personalità, invece,
pongono maggiore enfasi sui comportamenti più propriamente antisociali e
criminali rispetto ai tratti di personalità così come proposto dalle tradizionali
concezioni sul disturbo psicopatico.
Come è noto, il Disturbo Antisociale di Personalità descrive un quadro pervasivo
di disturbi della condotta, inosservanza e violazione dei diritti degli altri, che si
manifesta prima dei 15 anni di età e che viene specificato dalla sussistenza di
almeno tre dei seguenti criteri:
1. l’incapacità di conformarsi alle norme sociali per ciò che riguarda il
comportamento legale, come indicato dal ripetersi di condotte suscettibili di
arresto;
2. la disonestà, indicata dal mentire, usare falsi nomi o truffare gli altri
ripetutamente, per profitto o per piacere personale;
3. l’impulsività o incapacità di pianificare;
4. l’irritabilità e l’aggressività, come indicato da scontri o assalti fisici ripetuti;
5. l’inosservanza spericolata della sicurezza propria e degli altri;
6. l’irresponsabilità abituale, come indicato dalla ripetuta incapacità di sostenere
una attività lavorativa continuativa, o di far fronte ad obblighi finanziari;
7. la mancanza di rimorso, come indicato dall’essere indifferenti o dal
razionalizzare dopo avere danneggiato, maltrattato o derubato un altro.
A differenza dei precedenti due disturbi, il costrutto di psicopatia descritto da
Hare, e di conseguenza lo strumento PCL-R che serve alla sua valutazione, si
basa su una caratterizzazione “dimensionale” fondata su un sistema fattoriale che
contempla elementi relativi a tratti di personalità ed elementi relativi al
comportamento.
Dal confronto tra i criteri diagnostici del Disturbo Antisociale di Personalità e del
Disturbo Dissociale di Personalità con i fattori che descrivono il costrutto di
psicopatia proposto da Robert Hare, è da notare come meno della metà degli item
della PCL-R si adattano alla nosografia del DSM-IV o dell’ICD-1037.46
46
Esattamente, 9 item su 20 della PCL-R si adattano ai criteri nosografici del DSM-IV e
dell’ICD-10, ed ovvero: menzogna patologica, impostore/manipolativo, assenza di rimorso o di
senso di colpa, insensibilità/assenza di empatia, stile di vita parassitario, deficit del controllo
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Un recente studio condotto in Belgio (Pham T. & Saloppè X., 2010) su un
campione di 84 pazienti forensi ha voluto esaminare il rapporto tra la PCL-R ed i
disturbi dell’Asse I e Asse del DSM-IV. Per quanto riguarda l’Asse I, la diagnosi
di psicopatia è risultata unicamente correlata alla diagnosi di abuso/dipendenza da
sostanze stupefacenti; per l’Asse II, si è correlata al Disturbo Antisociale di
Personalità.
In quest’ultimo caso, in particolare, il rapporto tra i due disturbi è risultato
asimmetrico, dimostrando come la diagnosi di psicopatia fosse altamente
predittiva della diagnosi di Disturbo Antisociale di Personalità, mentre non era
vero il contrario. Sempre in merito alle diagnosi sull’Asse II, lo studio ha
dimostrato una correlazione positiva tra la diagnosi di psicopatia ed il Disturbo
Narcisistico di Personalità, dato conforme ai risultati di altra letteratura
internazionale.
Nel complesso, la diagnosi di psicopatia si è correlata bene con i disturbi del
cluster B dell’Asse II del DSM-IV, ma si è mostrata sostanzialmente estranea ad
una correlazione con i disturbi di personalità dei cluster A e C, o con i disturbi
mentali più gravi (psicosi, schizofrenia, disturbi dell’umore).
Il sistema fattoriale della PCL-R consente di indicare quali aspetti influiscono
maggiormente nella “qualità” della psicopatia del soggetto esaminato, ed in
particolare, se ha maggiore prevalenza l’aspetto emotivo (Fattore 1) o quello
comportamentale (Fattore 2).
Per ciò che concerne il campo di indagine del presente lavoro, ed ovvero le
condotte devianti, la letteratura ha già da tempo posto in causalità diretta la
psicopatia e le condotte aggressivo-violente: studi classici sostengono infatti che i
soggetti psicopatici possano adottare condotte criminose in misura due volte
superiore rispetto a soggetti non psicopatici (Porter, Birt & Boer, 2001).
Gli studi riconoscono che i comportamenti aggressivi commessi da parte dei
soggetti psicopatici variano per qualità e gravità rispetto all’impulsività che li
caratterizza, distinguendosi in “premeditati”, “impulsivi” o “causati da malattia
mentale” (Glenn & Raine, 2009; in Palermo, 2011).
comportamentale, impulsività, irresponsabilità, incapacità di accettare la responsabilità delle
proprie azioni.
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Cleckley, come abbiamo visto uno dei più autorevoli studiosi di tale disturbo,
asserisce che la violenza psicopatica è altamente strumentale in quanto motivata
dall’ottenimento di guadagni materiali, dalla soddisfazione di sfrenate pulsioni
sessuali, dalla presenza di ostilità distruttiva, dalla ricerca di emozioni forti ed
ancora dalla mancanza di eccitazione emotiva (Palermo, 2011).
Sebbene dunque non si escluda del tutto che anche le componenti emotive
possano costituirsi come elementi di rischio al comportamento violento, la
letteratura ha prediletto l’influenza delle componenti comportamentali.
Infatti, in una meta-analisi di 42 studi (Walters G.D., 2003) in cui sono state
utilizzate la PCL o la PCL-R per predire i comportamenti violenti e la recidiva in
campioni di soggetti forensi o detenuti, ha dimostrato che, rispetto al Fattore 1, il
Fattore 2 ha una migliore correlazione con i comportamenti violenti in costanza
di istituzionalizzazione e con la recidiva. In più, il Fattore 2 era
significativamente più predittivo dei risultati totali, della recidiva generale e della
recidiva violenta, rispetto al Fattore 1.
Parimenti, anche uno studio condotto su un campione di 92 pazienti forensi
(Hildebrand M., de Ruiter C., & Nijman H., 2004) usando la PCL-R allo scopo di
valutare il rapporto tra psicopatia e vari tipi di comportamenti violenti durante
l’ospedalizzazione forense, ha dimostrato una maggiore influenza degli aspetti
indagati dal Fattore 2. Come era atteso, una significativa correlazione è stata
trovata tra il punteggio della PCL-R (soggetti psicopatici con punteggio > 30) e
comportamenti di abuso verbale, minacce, violazione delle regole, quantità di
incidenti e frequenza dello stato di isolamento del paziente.
Infine, si cita un recente studio (McGregor K., Castle D., & Dolan M., 2012) in
cui la PCL-R è stata usata per valutare la validità predittiva della descrizione
fattoriale della psicopatia e l’adozione di comportamenti violenti, in un campione
di 94 pazienti con disturbi dello spettro schizofrenico. Lo studio ha contemplato
anche il monitoraggio dell’abuso di sostanze stupefacenti e di episodi di violenza
lungo il corso della vita di ogni paziente. I
I risultati hanno dimostrato che il risultato totale alla PCL-R, i risultati alle
Componenti 2, 3 e 4, e la misurazione dell’uso di sostanze stupefacenti sono
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predittive dell’appartenenza dei soggetti al sottotipo “violenti” piuttosto che al
sottotipo “non-violenti”.
L’equazione di regressione ha indicato che la validità predittiva della PCL-R
rimane significativa anche dopo il controllo dell’uso di sostanze stupefacenti.
Infine, per ciò che concerne le Componenti che costituiscono la descrizione del
costrutto di psicopatia per la PCL-R, in particolare le Componenti 3 e 4 hanno un
potere predittivo rispetto alle condotte violente.
La PCL-R ha dimostrato di possedere una buona affidabilità e validità nella
misurazione del costrutto di psicopatia anche con popolazioni femminili. Nello
studio condotto in Canada da (Strachan 1995), lo strumento è stato applicato su
una popolazione femminile di 75 donne autrici di reato che si trovavano in stato
di detenzione o in attesa di giudizio. Per ognuna di esse, come di prassi, il
contenuto delle interviste è stato confrontato con le informazioni collaterali
ottenute con il file review, ed il campione è stato inoltre valutato utilizzando una
batteria di questionari self-report. I risultati generali ottenuti dallo studio hanno
dimostrato che anche per una popolazione femminile, al pari di quelle maschili,
è possibile descrivere il costrutto di psicopatia sulla base della distinzione
fattoriale tra dimensioni personologiche e dimensioni comportamentali.
Anche un più recente studio condotto sempre in Canada (Nicholls T. L., 2004) ha
preso in considerazione una popolazione femminile. In questo caso lo studio ha
testato il campione, costituito da 47 donne e 47 uomini autori di reato valutati non
imputabili in quanto affetti da patologia di mente e dunque internati presso un
Ospedale Psichiatrico Forense, con l’HCR-20 e la PCL:SV allo scopo di valutare
il rischio di compiere comportamenti aggressivi in stato di contenzione e dopo la
dimissione in comunità. L’analisi statistica ha rivelato che, tra la popolazione
femminile e quella maschile, non esistono differenze significative in merito a
caratteristiche psicosociali, alla natura violenta o non violenta del reato, alla
gravità della violenza commessa sulla base di specifici elementi quali l’uso di
armi o il tipo di danno causato alla vittima. La distribuzione dei punteggi
dell’HCR-20 e della PCL:SV non è stata differente tra uomini e donne. In
particolare, l’analisi statistica con Odds Ratio e Curva di ROC hanno dimostrato
che la PCL:SV è in grado di indicare da moderate a forti correlazioni con
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l’aggressività, la violenza ed il comportamento criminoso della popolazione
femminile, con valori simili a quelli riscontrati nel campione maschile; i risultati
dell’HCR-20 hanno invece indicato da moderate a forti correlazioni con i
comportamenti aggressivi adottati da uomini e donne in costanza di
ospedalizzazione, mentre si è mostrata meno forte la correlazione con
comportamenti aggressivi adottati nello stato di post-dimissione.
Il Punteggio Totale della PCL-R consente invece di indicare in quale grado il
soggetto esaminato corrisponde al “prototipo” dello psicopatico: a livello
internazionale, è stato stabilito un cut-off clinico pari al punteggio totale di 30 per
indicare un soggetto come psicopatico38.
Esaminiamo meglio i 20 item che costituiscono la PCL-R:
- Item 1 – Loquacità/Fascino Superficiale: descrive un soggetto disinvolto,
verbalmente pronto, un piacevole conversatore sempre in grado di fornire una
risposta rapida e intelligente. Ma, al di là dell’impressionare gli altri con la sua
loquacità, si ravvisa in lui e nelle sue relazioni interpersonali l’adozione di un
certo fascino falso e superficiale, che lo rende troppo furbo e mellifluo per essere
completamente affidabile, anche in merito all’effettiva conoscenza di ciò di cui
parla. La difficoltà nell’assegnare un punteggio a questo item potrebbe costituirsi
nelle interazioni con soggetti superficiali, ma per niente affascinanti: i detenuti,
ad esempio, spesso vestono i panni del “macho”, ed in tal caso il punteggio più
corretto è 1;
- Item 2 – Senso di Sé grandioso: descrive un soggetto caratterizzato da
un’opinione esagerata sulle proprie abilità e sul proprio valore. È supponente ed
arrogante, anche a dispetto del suo status effettivo o degli avvenimenti occorsi
nella sua vita: ad esempio, dichiara di voler fare l’avvocato, ma ha un basso
livello socioculturale. Sempre in considerazione del suo Sé grandioso, non nutre
imbarazzo rispetto ai suoi problemi con la legge, poiché convinto che gli stessi e
la sua detenzione siano il risultato di cattiva sorte, amici disonesti, un sistema
giudiziario penale ingiusto e incompetente, etc.;
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- Item 3 – Bisogno di stimoli/Propensione alla noia: descrive un soggetto
affetto da un cronico ed eccessivo bisogno di stimoli nuovi ed eccitanti, poiché
estremamente sensibile alla noia. Un soggetto incostante, le cui condotte di vita
dimostreranno un forte interesse verso l’assunzione di rischi di vario genere:
assunzione di vari generi di droga, frequenti cambi di lavoro e di sede territoriale,
frequenti relazioni affettive.
- Item 4 – Menzogna patologica: descrive un soggetto che comunemente adotta
l’inganno e la menzogna nelle proprie interazioni con gli altri. Il caratteristico
atteggiamento di menzogna patologica si dimostrerà anche nell’atteggiamento
assunto come conseguenza della stessa: se sorpreso a mentire, o messo alla prova
con un resoconto veritiero di quanto narrato, egli non si mostrerà imbarazzato e
semplicemente cambierà la propria versione così da riacquisire coerenza con le
precedenti dichiarazioni. Un punteggio alto viene assegnato nell’adozione di un
palese e consapevole atteggiamento di menzogna patologica;
- Item 5 – Impostore/Manipolativo: in modo simile al precedente, questo item
spiega come l’atteggiamento menzognero del soggetto sia posto per truffare,
ingannare, defraudare o manipolare gli altri.
Un soggetto che riceve un alto punteggio a questo item è colui che, costantemente
interessato a raggiungere un proprio guadagno personale (soldi, sesso, prestigio,
potere, etc..), è in grado di compiere qualsiasi gesto senza la minima
preoccupazione per gli effetti che essi possono avere sulle vittime,
indifferentemente amici, familiari o sconosciuti. I comportamenti manipolativi
operati dal soggetto possono essere pianificati oppure molto semplici, e
riguardare attività criminali o non criminali. Nell’assegnare il punteggio, al di là
della conoscenza di fatti oggettivi, l’esaminatore deve valutare anche
l’atteggiamento che il soggetto adotta nei suoi confronti durante l’intervista;
- Item 6 – Assenza di rimorso o di senso di colpa: l’item descrive un soggetto
caratterizzato da una generale mancanza di preoccupazione per le conseguenze
negative che le sue condotte, criminali e non, possono avere sugli altri.
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Totalmente privo di interesse verso la sofferenza o il disagio delle sue vittime o
verso i danni arrecati alla società, mostra esclusivo interesse verso se stesso ed il
proprio benessere.
In merito a ciò, egli potrebbe essere schietto e diretto o viceversa verbalizzare
qualche rimorso, ma senza che le sue parole trovino conferma nelle sue azioni o
nel suo stato emotivo.
Alcune domande presenti nell’intervista sono volte ad indagare questo elemento
in modo diretto (“Ti sei pentito di quello che hai fatto?”; “Se potessi dire
qualcosa alle tue vittime, cosa diresti?”), ma l’intervistatore deve comunque
prestare attenzione all’atteggiamento generale adottato dal soggetto;
- Item 7 – Affettività superficiale: descrive un soggetto incapace di provare la
normale gamma e profondità delle emozioni: incapace di distinguere l’amore dal
desiderio sessuale, la tristezza dalla frustrazione, la rabbia dall’irritabilità. Le sue
espressioni emotive possono essere teatrali ed esagerate, ma è solo un
atteggiamento esibizionistico al di sotto del quale vi è una profonda superficialità;
- Item 8 – Insensibilità/Assenza di empatia: descrive un soggetto con attitudini
e comportamenti che manifestano una profonda mancanza di empatia, con
disprezzo dei sentimenti, dei diritti e del benessere altrui, se non a livello astratto
ed intellettuale. Cinico ed egoista, considera gli altri unicamente come oggetti da
manipolare, a proprio vantaggio, o come “bersagli”, di cui approfittare;
- Item 9 – Stile di vita parassitario: la dipendenza finanziaria dagli altri è una
parte intenzionale dello stile di vita del soggetto. Sebbene egli sia fisicamente
sano, evita impieghi stabili e remunerativi facendo piuttosto affidamento sulla
famiglia, i parenti, gli amici o i contributi di assistenza sociale. Può adottare
questa condotta mostrandosi meritevole di simpatia e supporto, oppure
utilizzando la minaccia o la coercizione, o ancora sfruttando le debolezze delle
sue vittime. La guida indica di dare il punteggio di 1 ai soggetti che si siano
mantenuti con le sole attività criminose;
- Item 10 – Deficit del controllo comportamentale: l’inadeguato controllo del
comportamento è una caratteristica essenziale dello psicopatico: collerico ed
irritabile, tende a rispondere alla frustrazione, al fallimento, alla disciplina o alla
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critica con comportamenti violenti o minacce e abusi verbali. Sensibile alle
offese, anche banali, diventa facilmente aggressivo;
- Item 11 – Comportamento sessuale promiscuo: descrive un soggetto che vive
le proprie relazioni sessuali in modo impersonale e superficiale: ha frequenti
legami casuali, con indiscriminata selezione del partner sessuale; mantiene più
relazioni sessuali nello stesso tempo, con frequente infedeltà ed anche
prostituzione di sé.
L’item si riferisce a comportamenti direttamente agiti da parte del soggetto: lo
sfruttamento della prostituzione, ad esempio, va più correttamente siglata
nell’item n. 9 “Stile di Vita Parassitario”. Questo item, pur se non incluso nella
struttura fattoriale, concorre alla descrizione clinica del soggetto psicopatico;
- Item 12 – Problematiche comportamentali precoci: descrive un soggetto che
abbia mostrato gravi problemi comportamentali al di sotto dei 12 anni di età:
comportamenti persistenti di menzogna, frode, furto, rapina, piromania, assenze
ingiustificate da scuola, disturbo delle attività della classe, abuso di sostanze,
vandalismo, violenza, bullismo, fughe da casa e attività sessuali precoci. Tali
condotte hanno comportato lamentele da parte degli altri, sospensioni/espulsioni
da scuola o interventi della polizia (ma non necessariamente l’arresto);
- Item 13 – Assenza di obiettivi realistici/a lungo termine: l’item descrive
l’incapacità o la mancanza di volontà nel formulare ed eseguire piani o obiettivi
realistici e a lungo termine. Il soggetto tende a “vivere giorno per giorno”, senza
pensare seriamente al proprio futuro. Alle volte, il soggetto può dichiarare di
avere degli obiettivi specifici (diventare un avvocato, un chirurgo, un pilota di
aerei), ma senza mai mostrare di possedere la consapevolezza sulle qualifiche
necessarie per raggiungerli; peraltro, gli stessi obiettivi appaiono irrealistici in
considerazione della sua istruzione e del suo curriculum di lavoro;
- Item 14 - Impulsività: altra caratteristica peculiare dello psicopatico, che
spesso è impulsivo, con condotte non mediate dalla riflessione. Egli agisce
d’impulso o perché se ne presenta l’opportunità, nell’incapacità di valutare i pro
ed i contro di una linea di condotta o nel saper considerare le possibili
conseguenze delle proprie azioni per sé stesso o per gli altri;
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- Item 15 - Irresponsabilità: l’item descrive un soggetto abitualmente incapace
di completare o onorare gli obblighi e gli impegni verso gli altri. Ha poco o
nessun senso del dovere o lealtà verso la famiglia, gli amici, l’impiego, la società.
La sua irresponsabilità si manifesta anche nella gestione finanziaria o
nell’adozione di comportamenti che possono mettere gli altri a rischio. La
generica riluttanza nell’assumersi delle responsabilità, laddove essa non danneggi
gli altri, riceve un punteggio di 1;
- Item 16 – Incapacità di accettare la responsabilità delle proprie azioni:
descrive un soggetto incapace di accettare la responsabilità personale per le
proprie azioni o per le conseguenze che esse hanno. Abile nel trovare delle scuse
per la propria condotta, accetta le responsabilità in modo superficiale,
minimizzando poi grandemente (o negando) le conseguenze delle sue azioni: ad
esempio, egli può ammettere di aver compiuto un’aggressione, ma sostenere che
le vittime stiano esagerando in merito al danno o alle ferite riportate;
- Item 17 – Numerosi rapporti di coppia di breve durata: descrive un soggetto
che ha avuto molte relazioni affettive “stabili” (matrimoni, relazioni con un certo
grado di impegno da parte dei partner), ma di breve durata.
Ai fini di una indagine condotta in contesto carcerario, si considerano anche le
relazioni all’interno dell’istituto penitenziario. Il punteggio va assegnato
seguendo le indicazioni fornite dalla guida, che distinguono per età e numero di
relazioni. Come l’item n. 11, anche questo non è incluso nella struttura fattoriale
ma concorre alla descrizione clinica;
- Item 18 – Delinquenza in età giovanile: la storia di vita del soggetto è
costellata da gravi comportamenti antisociali/delinquenziali compiuti in età
minorile (entro i 18 anni, in Italia), che hanno ricevuto accuse o condanne di
natura penale. Per l’attribuzione del punteggio si valutano solo i contatti formali
che il soggetto ha avuto con il sistema della giustizia minorile, mentre non si
assegna punteggio per condotte, anche criminose, cui non ha fatto seguito
l’arresto;
- Item 19 – Revoca della libertà condizionale: descrive un soggetto che, da
adulto, ha commesso violazioni più o meno gravi della libertà condizionale o di
uno stato di detenzione/internato, quali: sospensione delle misure alternative al
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carcere;accuse/condanne per aver violato gli obblighi di legge sulla libertà
condizionale; revoca della libertà provvisoria o vigilata; evasione. Nel caso in cui
il soggetto in esame non abbia avuto contatti formali con il sistema giudiziario
penale da adulto prima del reato che l’ha condotto allo stato di
contenzione/internato in cui viene effettuata la valutazione, l’item deve essere
omesso (in altre parole, l’item va omesso se il soggetto, all’atto della valutazione,
è alla sua prima condanna).
Viceversa, la guida indica in che modo assegnare il punteggio, dipendente dalla
gravità della violazione commessa;
- Item 20 – Versatilità criminale: l’item descrive un soggetto che, da adulto, è
stato avvezzo all’adozione di varie condotte criminose, e che dunque ha ricevuto
numerose accuse o condanne per molti differenti tipi di reato.
L’attribuzione del punteggio, da effettuarsi seguendo quanto indicato dalla guida,
varia in base al numero delle tipologie di reati commessi (la gravità del reato non
influisce). La difficoltà della codifica di questo item deriva dal fatto che ogni
Codice Penale contempli una notevole varietà di reati, e che lo stesso venga
costantemente revisionato; in Italia, peraltro, a differenza di altri Stati alcune
condotte non costituiscono un vero e proprio reato, quanto delle circostante
aggravanti a fattispecie penalmente riconosciute come tali. Occorre dunque
prestare attenzione alla lista delle categorie di reato riportate nella guida della
PCL-R validata nel proprio paese.
In sostanza, la PCL-R è una checklist composta da 20 item che usa un’intervista
semistrutturata ed il reperimento di informazioni collaterali per indagare e
misurare la presenza ed il grado delle componenti psicopatiche del soggetto in
esame.
Il materiale del test si compone di: un Manuale, che menziona gli studi di
letteratura e di ricerca scientifica in cui è stato applicato il test; una Guida
all’Intervista, contenente il protocollo di domande, con commenti esplicativi, da
utilizzare durante il colloquio con il soggetto; una Guida con le istruzioni per
l’attribuzione dei punteggi, indicanti gli item della scala ed alcuni suggerimenti in
merito alle fonti da consultare per valutare gli item; un Modulo di AutoScoring, o
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scheda di registrazione per segnare i punteggi dei 20 item, di facile consultazione
del punteggio di Fattori, Componenti e Punteggio Totale.
In merito alla metodologia, la guida del test suggerisce all’esaminatore di
svolgere
il
file
rewiew,
che
si
sostanzia
nella
consultazione
di
fascicoli/documentazione personale sul soggetto in esame e nel reperimento di
informazioni da parte di chi è venuto in contatto con esso, prima del colloquio in
cui verrà utilizzata l’intervista semistrutturata. Così facendo, sarà possibile
valutare meglio la credibilità delle dichiarazioni rese dal soggetto ed osservare in
via diretta lo stile di interazione che egli assume durante l’intervista, al fine di
acquisire maggiori convincimenti per l’attribuzione del punteggio e la
valutazione del risultato.
L’intervista semi strutturata ha, come di prassi, il fine di orientare l’esaminatore
nella conduzione del colloquio con il soggetto: è importante infatti stabilire una
buona relazione con l’esaminato, pur nella necessità di mantenere quel distacco
clinico che, con soggetti così manipolativi, è essenziale (quando difficile).
L’intervista è volta all’indagine di tutte le aree di vita del soggetto: dai primi
ricordi di infanzia ai rapporti con i compagni di scuola; dai rapporti di affetto e di
stile educativo da parte dei genitori ai rapporti affettivi ed amicali in generale; la
sfera della sessualità; la qualità della conduzione di attività lavorative e
professionali e la gestione delle proprie finanze; le generali condizioni di salute;
le eventuali problematiche nell’uso o addiction da sostanze stupefacenti o alcol;
ma anche le capacità di controllo della rabbia ed in generale la sfera emotiva, ed
infine, di particolare interesse ai fini forensi, la valutazione dei comportamenti
antisociali.
L’intervista proposta dal test costituisce dunque una linea guida per l’interazione
con il soggetto: l’esaminatore ha libertà di variare l’espressione delle domande
proposte, purché venga rispettato il loro contenuto; allo stesso modo, potrebbe
variare l’ordine dei campi sottoposti ad indagine in base alla fluidità del
colloquio. L’importante è che, al termine, ognuno di essi sia stato
opportunamente indagato. Al cospetto di un’intervista strutturata, alla quale il
soggetto debba rispondere in maniera affermativa o negativa ad un dato item,
l’intervista proposta dalla PCL-R ha il vantaggio di consentire all’esaminatore di
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“andare al di là” delle dichiarazioni rese dal soggetto: per quanto, ad esempio,
con una domanda secca del tipo “Hai mai commesso un reato?” sia più semplice
per l’esaminatore valutare un “Si” o un “No”, un’intervista più articolata, per
quanto più lunga come quella della PCL-R, consente di comprendere quanto la
risposta del soggetto sia veritiera. A tal fine vale la pena di ricordare che la
menzogna patologica e la manipolatività siano due caratteristiche salienti del
soggetto psicopatico.
La durata dell’intervista, infatti, varia in base alla loquacità del soggetto ed alla
quantità di informazioni che egli fornisce sulla propria storia di vita: la guida
indica una durata variabile dalle 2 alle 4 ore a soggetto intervistato, ed indica
anche come sia possibile ottenerla in più riprese sebbene sia privilegiata la
somministrazione unica anche al fine di evitare che il soggetto possa, durante la
pausa, ripensare a quanto raccontato ed eventualmente variare/riformulare alcune
dichiarazioni.
Ancora, la guida indica, nei limiti consentiti dal contesto di ricerca, di svolgere
l’intervista in un ambiente tranquillo che riduca le interferenze dall’esterno, ed
altresì di utilizzare una registrazione audio/video che sarà utile all’esaminatore
stesso nella fase di attribuzione del punteggio o nella necessità di una eventuale
rivalutazione da parte di un secondo esaminatore.
Laddove l’esaminatore incorra in discrepanze tra quanto visionato con il file
rewiew e quanto ottenuto con l’intervista, la guida indica di scegliere in base ad
una maggiore “credibilità” delle fonti al fine di attribuire il punteggio all’item,
tenendo bene a mente del contesto in cui è inserita l’indagine: nel caso di
valutazione dell’imputabilità, ad esempio, è necessario discernere dal tipico
atteggiamento di simulazione della patologia che questi soggetti possono mettere
in atto.
È altresì possibile, laddove il soggetto non possa o non voglia essere intervistato,
condurre l’indagine basandosi unicamente sul file rewiew. In tal caso
l’esaminatore, che ha il dovere di specificare tale procedura, deve tenere conto
dei limiti che essa comporta: ad esempio, in tali casi diviene più difficile la
valutazione degli item interpersonali ed affettivi, senza una diretta interazione
con il soggetto.
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Se le fonti consultate non danno all’esaminatore certezze in merito alla
presenzadell’elemento indagato, e le dichiarazioni rese dal soggetto con
l’intervista non sciolgono il dubbio, oppure non è stato possibile svolgere
l’intervista, è possibile omettere l’attribuzione del punteggio per quell’item.
Queste sono le uniche condizioni che consentono di omettere un item, e non già
l’incertezza da parte dell’esaminatore nell’attribuire il punteggio.
Per ognuno dei 20 elementi che compongono la scala, l’esaminatore dovrà
infattiattribuire un punteggio che va da 0 a 2 secondo le seguenti condizioni
generali (per alcuni item, la descrizione delle caratteristiche da essi sottesi
segnala in modo più specifico l’attribuzione del punteggio):
• punteggio 0 = l’item non si applica al soggetto, o non esibisce il tratto o
comportamento descritto, o ancora descrive caratteristiche opposte a quelle
individuabili nel soggetto;
• punteggio 1 = l’item si applica parzialmente al soggetto, ovvero non nella
misura da garantire l’attribuzione del punteggio più alto; la compatibilità è solo
per alcuni aspetti descritti dall’item, ma vi sono troppe incertezze per garantire
l’attribuzione del punteggio più alto; sono state riscontrate discrepanze tra
l’intervista e le informazioni collaterali tali non da minacciare la credibilità della
fonte, bensì di non consentire di risolvere il dubbio tra presenza o assenza
dell’elemento in questione (e dunque di attribuire allo stesso un punteggio di 0 o
2);
• punteggio 2 = l’item si applica al soggetto, e vi è compatibilità con le
caratteristiche in esso descritte.
I punteggi verranno poi sommati così da ottenere: un punteggio per ognuna delle
4 Componenti, un punteggio per ognuno dei 2 Fattori, ed un punteggio totale.
La guida sottolinea in più occasioni quanto sia importante valutare gli item non
sulla base del loro nome bensì con un attento riguardo alla descrizione degli
stessi. Inoltre, allo scopo di limitare dei possibili errori – il cosiddetto effetto
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alone, determinato da una valutazione generale sul soggetto su un unico criterio
forte, come ad esempio il reato commesso; o il “pregiudizio di bravo o cattivo
ragazzo”, che si manifesta nell’assegnare a tutti gli item un punteggio alto o basso
– è importante che il valutatore assegni il punteggio ad gni item
indipendentemente l’uno dall’altro47, e che egli adotti delle valutazioni critiche
che giustifichino la quantificazione degli item sulla base delle specifiche
caratteristiche che descrivono il soggetto ed anche sulla base del contesto in cui
viene esaminato il campione.
La valutazione dei 20 item che compongono la scala deve essere effettuata in
accordo con il funzionamento generale e tipico del soggetto in esame. Anche in
questo caso, vale il ruolo giocato dal contesto in cui viene svolta la disamina: lo
stato di contenzione o di internato, infatti, potrebbe acuire alcune caratteristiche
volte ad ottenere il profitto personale della dimissione, portando l’esaminatore ad
attribuire al soggetto in esame un tratto psicopatico che invece normalmente non
lo contraddistingue.
In caso di omissione di item – che è però consentita per non più di 5 item in
totale, ovvero non più di 2 item a Fattore e non più di 1 item a Componente – la
PCL-R consente di adottare una particolare procedura detta prorate, basata sulla
ridistribuzione/correzione del punteggio di Fattori e Componenti e del punteggio
totale sulla proporzione del numero di item omessi utilizzando delle apposite
Tabelle di Correzione che si trovano sul Modulo di Scoring.
Dunque l’omissione di alcuni item, nella misura consentita e sopra esposta, non
costituisce invalidità per il costrutto di psicopatia o per il protocollo in generale:
piuttosto in questi casi il punteggio totale, e dunque il livello di gravità della
psicopatia, risulterà lievemente maggiore rispetto ad una valutazione normale con
20 item. Tradotto in termini di pericolosità sociale, vi sarà una sopravvalutazione
della stessa che orienterà al mantenimento dello stato di contenzione del soggetto
in esame, circostanza che costituisce un “falso positivo” accettabile rispetto ad
47
È tuttavia da considerare, in visione generale, che gli item sono collegati tra loro, e che alcuni,
inquadranti caratteristiche relative al piano interpersonale-emotivo, trovino delle possibili
corrispondenze in manifestazioni comportamentali: qui a titolo di esempio, si cita come non sia
inusuale che soggetti mancanti di senso di responsabilità, e conseguentemente di
quell’elaborazione cognitiva ed emotiva sul correlato senso di colpa per eventuali azioni con
risultato eterolesivo, agiscano in maniera impulsiva e dunque sempre senza la mediazione dei
nessi logici di causa-effetto.
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una valutazione errata che potrebbe comportare il rilascio di un soggetto
pericoloso.
Tuttavia, laddove il numero di omissioni fosse elevato, la guida del test
suggerisce di escludere momentaneamente il soggetto dal campione di ricerca,
fino a che non si possa provvedere ad una nuova intervista o alla consultazione di
altre o più approfondite fonti collaterali.
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7. Cronogramma del percorso
La storia di M. DB
1964
30/09/1974
Nasce la sorella maggiore.
Nasce M.
1978
Cade, procurandosi un trauma cranico.
1989
Consuma sporadico uso di alcol e
sostanze.
Si diplomato presso la Scuola
Alberghiera
1992
1992
1989-2006
1998
Prende la patente B
Lavora come cameriere stagionale.
Muore il padre di M, per embolia
polmonare. Aveva 70 anni
A 29 anni circa avviene il primo contatto
A 29 anni circa avviene il primo
con i servizi psichiatrici territoriali, e viene
contatto con i servizi psichiatrici
accompagnato dalla madre per la prima
territoriali, e viene accompagnato dalla
volta in consulenza. M. DB dopo la morte
madre per la prima volta in consulenza.
del padre si sentiva apatico e non usciva
M. DB dopo la morte del padre si
più di casa. Dopo la prima consulenza e la 2003
sentiva apatico e non usciva più di
presa in carico da parte del CSM
casa. Dopo la prima consulenza e la
territoriale, ci sono stati incontri ma non in
presa in carico da parte del CSM
maniera costante. Non ci sono mai stati né
territoriale, ci sono stati incontri ma
ricoveri né TSO.
non in maniera costante. Non ci sono
mai stati né ricoveri né TSO.
2008
2008-2009
Commette l’omicidio della nonna materna
e va in OPG dove rimane fino al 2011
2008
111
A 34 anni inizia una terapia
anticoagulante per embolia polmonare.
Deve subire piccoli interventi
angiologici agli arti inferiori.
Commette l’omicidio della nonna
materna e va in OPG dove rimane fino
al 2011
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Entra nel reparto S.L.i.E.V Gonzaga
dell’OPG, e vi rimane fino al 2013
2011
Entra nel reparto S.L.i.E.V Gonzaga
dell’OPG, e vi rimane fino al 2013
M. DB inizia il suo percorso a Casa
Zacchera, dove gli viene data la libertà
vigilata, viene prosciolto dal reato di
omicidio della nonna perché reputato non
Novembre
2013
in grado di intendere e di volere
Allontanamento del paziente da Casa
Zacchera
Ricoverato presso Centro Salute Mentale
Maggio
2014
di provenienza.
112
M. DB inizia il suo percorso a Casa
Zacchera, dove gli viene data la libertà
vigilata, viene prosciolto dal reato di
omicidio della nonna perché reputato
non in grado di intendere e di volere
Allontanamento di M. DB da Casa
Zacchera.
Ricoverato presso Centro Salute
Mentale del territorio di provenienza.
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8. Genogramma
Vittima
Embolia
polmonare
O.
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9. Assessment: HCR-20
Violence Risk Assesment-Foglio di lavoro
Dati Personali
Nome: M. DB
ID:
Data di nascita: 30/09/1974
Residenza: RIMINI
Data di ingresso: 08/11/13
Motivo di richiesta della valutazione: Approfondimento clinico
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Informazioni sui modi della Valutazione
Data: 18/03/2014
Ora: 9.00
Luogo: CASA ZACCHERA
Fonti di informazione
X Intervista al Paziente
X Cartelle cliniche
X Intervista allo staff
X Intervista a parenti o conoscenti
Altri
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Informazioni sommarie della storia psico-sociale
Famiglia / infanzia: Padre deceduto nel 1998 a 70 anni per K polmonare
Madre: M. M età 75 professione pensionata era impiegata in una scuola
Una sorella di 50 anni di primo letto della madre ha un figlio di 35 anni , lavora come
Operatore Socio Sanitario in una casa di riposo
Scolarità: Diploma Scuola Alberghiera.
Lavoro: Ha svolto per 15 anni il cameriere stagionale presso alberghi
Problemi medici: nel 2008 TVP con seguente embolia polmonare in terapia
anticoagulante da allora.
Recenti interventi angiologici e ortopedici in entrambi gli arti inferiori.
Sofferente di ipertensione.
Disturbi mentali: Schizofrenia paranoide cronica.
Uso di sostanze: Sporadico uso di cannabinoidi.
Problemi con la Giustizia: Prosciolto per il reato di omicidio (nonna materna)
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Comportamenti violenti
Recenti:
Descrivi il tipo di incidente
Nessun incidente recente.
Passati:
Descrivi il tipo di incidente
Presenza di comportamenti aggressivi in famiglia, in particolare nei confronti della
madre; Reato di omicidio nei confronti della nonna materna.
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Ideazione violenta
Recente:
Descrivi il tipo di ideazione
Presente disforia, con verbalizzazione di idee etero aggressive.
Passata:
Descrivi il tipo di ideazione
Erano verbalizzate minacce etero aggressive nei confronti e della nonna, con successivi
agiti violenti.
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Scenari di Rischio
Scenario #1
Natura:
 Che tipo di violenza può commettere
 Chi è la vittima probabile
 Quali sono i motivi probabili
 Vantaggi attesi dall’atto violento
Aggressione/Omicidio
Madre
Intensa conflittualità e aspetti
psicopatologici del paziente
Intrusività , ambivalenza e svalutazione da
parte della madre
Unica soluzione possibile per poter
continuare a vivere.
Gravità:
 Quale tipo di offesa fisica o psichica può subire la Fisica
probabile vittima
 Esiste il rischio di omicidio
Si
Imminenza:
 Il rischio è imminente
 Sono prevedibili segni di escalation
 Episodio unico o ripetibile
Frequenza/ Probabilità:
 La violenza probabile è episodica o frequente
 Quale è il livello di probabilità
No (Se il paziente è in un contesto
contenitivo)
Si
Ripetibile.
Episodica
Alta è la probabilità, in caso di rapporti
conflittuali in un contesto non protetto e
monitorato.
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Scenario #2
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Gestione del Caso
Monitoraggio:
 Qual è il modo migliore per monitorare i segnali di un
aumento del rischio
 Quali segni impongono una rivalutazione
Scenario #1
Osservazione dei sintomi, in particolare dell’ideazione
persecutoria, aspetti rivendicativi, sintomatologia
psicotica, e osservazione dell’aumento di aspetti
paranoici.
Trattamento:
Il trattamento farmacologico per la produttività
 Quale tipo di trattamento può diminuire il rischio di psicotica.
violenza
Permanenza in ambiente residenziale che permetta un
 Quale deve considerarsi prioritario
monitoraggio costante; La presenza di una buona
alleanza terapeutica,
che permetta al paziente di affidarsi anche nei momenti
più difficili, e che lo possa aiutare nella gestione spesso
conflittuale con la madre.
Controllo:
Monitoraggio della relazione con la madre; presenza di
 Che tipo di controllo o di restrizioni è bene mettere in un operatore competente durante le visite con i familiari,
Evitare incontri tra il paziente e il figlio senza la presenza
atto per diminuire il rischio
di un operatore o figura ritenuta idonea, Non autorizzare
incontri in ambienti non protetti.
Difesa delle vittime:
Non favorire permessi con le vittime potenziali in
 Quale tipo di intervento per proteggere le eventuali ambienti non monitorati da figure ritenute idonee;
Sostenerli nella comunicazione con l’eventuale equipe
vittime
che ospita il paziente.
Altre indicazioni:
Sostenere e aiutare sia il paziente, sia i familiari nella
 Qualsiasi indicazione che può diminuire il rischio di comunicazione, ed eventualmente nelle situazioni di
maggior conflitto; Non autorizzare incontri in periodi in
violenza
cui il paziente non si trovi in buono stato di compenso
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Scenario #2
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psicopatologico.
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10. Conclusioni
Dalla disamina delle teorie e dalla descrizione del caso clinico accompagnato dalle
valutazioni dei test, è risultato che il nostro paziente potrebbe essere a rischio di recidiva
di reato.
Si è ipotizzato la possibilità del rischio di recidiva di reato in quanto la persona in
questione soffre di una Disturbo schizofrenico di tipo paranoide accompagnato da tratti
di personalità di tipo paranoide, con vari aspetti
di psicopatia che nell’ipotesi
potrebbero complicare il quadro clinico.
Dallo studio di questo caso clinico, è emerso che la terapia farmacologica
costantemente monitorata e assunta, ha attenuato il quadro psicotico florido, ovvero stati
deliranti, voci imperative, variazioni improvvise dell’umore, insorgenza di idee
anormali e confuse; attenuando così anche i tratti di personalità
caratterizzati da
rigidità, scarsa coscienza di malattia, tendenza ad interpretare in modo sbagliato i
discorsi delle altre persone attribuendo a questi un significato distorto, focalizzandosi
così sulla sua convinzione di avere interpretato bene; ostilità, diffidenza, sfiducia nei
confronti delle altre persone sminuendo talvolta lo stare psichico degli altri, vivendoli
anche come un “peso” da sopportare;
rivendicatività, assenza di senso di colpa,
mancanza di empatia, incostanza, e megalomania. Tutto ciò rende la prognosi difficile.
Dall’anamnesi emerge una conflittualità con le figure di riferimento femminili; un
rapporto difficile avuto con la nonna materna evidenziabile soprattutto nella fase dello
sviluppo, e con la mamma che ad oggi permane.
Fin dai primi racconti del paziente a Casa Zacchera è emersa una dinamica relazionale
difficile con la mamma, la quale viene descritta da lui assente fin da quando era
bambino, tanto che M. DB ha vissuto in gran parte con la nonna materna.
Nella descrizione da parte del paziente in riferimento alla mamma e del loro rapporto,
emerge sempre il non accudimento o un accudimento incostante da parte del caregiver;
il vissuto emotivo di Osvaldo è quello di non aver sempre avuto una mamma presente,
e partecipe alla sua vita; bensì una mamma poco affettuosa, e che per varie ragioni lo
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affidava spesso alla nonna; ma che nello stesso tempo lo ha voluto sempre “gestire”
come meglio credeva.
In questa descrizione il paziente prova ostilità nei confronti della mamma, soprattutto
per il fatto che non è mai stato d’accordo (cosi dice lui) con il comportamento sempre
adottato da lei nel gestire la sua vita, compresa quella economica.
Emerge inoltre, sempre in relazione alla mamma, la difficoltà da parte del paziente di
sopportare il sentimento di svalutazione continua, fin da quando era adolescente, non
sentendosi mai apprezzato per ciò che era veramente, ma sempre sminuito e
svalorizzato, sia per quanto attiene alle aspirazioni lavorative, sia più propriamente in
ambito personale.
Non sono da trascurare, gli aspetti di tipo economico, che come detto sopra sono
sempre stati presenti in senso di dinamica conflittuale con la mamma, che prendono il
sopravvento nei momenti di scompenso. Il paziente non ha mai accettato un controllo
delle risorse economiche da parte della madre e della sorella, né prima, né attualmente
dopo l’evento reato.
Dall’osservazione durante la quotidianità si è notato da subito una certa collaborazione
da parte di M. DB nei confronti degli operatori, è apparso disponibile anche se in modo
non continuativo al dialogo.
Durante la quotidianità partecipava ai momenti del pranzo e della cena, rispettava il suo
turno di riordino stanza e di pulizia degli ambienti comuni, volendo dimostrare così
all’equipe la sua capacità lavorativa e l’impegno da parte sua.
A parte un primo momento iniziale, M non ha mai partecipato all’incontro di gruppo
presente una volta alla settimana, perché ritenuto da lui un momento superfluo, inutile e
faticoso in quanto a detta sua non riusciva a “sopportare” il malessere degli altri che
talvolta emergeva dai racconti di ognuno; da ciò è emerso un senso di “grandiosità” e
“superiorità” da parte del paziente, considerando gli altri ospiti talvolta inferiori a lui,
esprimendo più volte che non riusciva a dialogare con loro, in quanto non erano in
grado di ascoltarlo, non poteva esserci secondo lui uno scambio alla pari.
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Nell’interazione con gli operatori ha espresso più volte lamentele rivolte ad altri
pazienti, svalutando così gli altri in diverse situazioni, e rimarcando così la sua fatica
nel relazionarsi al gruppo.
Dai colloqui clinici è emerso fin dall’inizio il desiderio e bisogno di essere ascoltato,
partecipando così ai colloqui di sostegno psicologici previsti e concordati con lui.
Tale partecipazione è forse dovuta alla necessità del paziente di avere uno spazio di
ascolto esclusivo per lui, diversamente da ciò che è stato nell’età dello sviluppo, uno
spazio dove lui poteva esprimere davvero ciò che sentiva, e ciò che viveva dal punto di
vista emotivo, senza essere giudicato, ma semplicemente ascoltato.
Il momento del colloquio, infatti era vissuto dal paziente come un momento molto
importante, nel quale emergeva attraverso un eloquio piuttosto elegante e semplice
nello stesso tempo, una parte della sua sofferenza per la sua situazione attuale, una
certa preoccupazione per il suo futuro al quale voleva dare un nome, rendendosi però
conto che non era possibile, un affetto sincero nei confronti della sorella, una rabbia
espressa verbalmente verso la mamma, per i motivi citati sopra, con la quale a fasi non
voleva avere nessun legame in quanto esprimeva di sentirla intrusiva e disturbante per la
sua salute mentale, e a fasi la sentiva telefonicamente per capire meglio la sua gestione
economica da parte della mamma; In quest’ultima fase, il paziente sviluppava un
pensiero paranoico nei confronti della mamma, alla quale attribuiva la responsabilità del
suo malessere psichico.
Dai primi colloqui il paziente aveva espresso di non volere affrontare troppo il racconto
dell’evento reato, in quanto già trattato nel percorso precedente, ovvero nell’Ospedale
Psichiatrico Giudiziario; ma nonostante questa chiara esplicitazione, il paziente ha
talvolta utilizzato il momento del colloquio per parlare di tale argomento.
A questo proposito si è sempre evidenziata una certa freddezza emotiva, e una certa
anaffettività da parte del paziente, con assenza di senso di colpa, nei confronti
dell’evento reato, è sempre emersa inoltre una certa “lucidità” nei confronti delle
dinamiche che lo hanno portato al compimento di tale gesto, attribuendo la
responsabilità di ciò a terze figure come la mamma in quanto poco presente nella sua
vita e alla nonna stessa che aveva (a detta di M. DB) le stesse modalità di svalutazione
e di “rimprovero” come quelle della mamma. Il paziente attribuisce inoltre all’evento
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compiuto la “responsabilità”ai Sanitari presso i quali era in cura per non averlo
“ascoltato” nel malessere che lui dice di avere espresso più volte, riporta la sua
convinzione del fatto che in quel periodo non aveva una terapia farmacologica “giusta”
per lui e che talvolta la assumeva con discontinuità.
Emerge così dal suo racconto il bisogno di responsabilizzare sempre qualcun altro di ciò
che non andava in lui, concludendo l’argomento più volte trattato dicendo che il gesto
fatto era ritenuto da lui l’unica “soluzione”per la sua sopravvivenza; e il malessere
talmente elevato lo ha condotto al gesto criminale.
Oltre che dall’osservazione durante la quotidianità del paziente, anche dai colloqui
emerge fin da subito una certa scontentezza da parte di M nei confronti della Struttura di
Casa Zacchera; manifestando così una certa rigidità di empatia e una rigidità di pensiero
che si focalizza in modo acritico su temi riguardanti il contesto della Struttura, gli spazi
all’interno di essa, ritenuti da lui troppo stretti e scomodi, criticità nei confronti
dell’equipe curante verso la quale ha sempre riproposto uno schema di tipo svalutante
che riproduce quanto avveniva nel rapporto con i caregiver femminili, ovvero la
mamma e la nonna materna.
Come si può notare si è di fronte ad una continua oscillazione da parte del paziente tra
il bisogno di essere ascoltato e accudito, la necessità quindi di sentirsi finalmente
“qualcuno”, e il bisogno altrettanto di svalutare le figure di riferimento, attribuendo
spesso loro la responsabilità del suo malessere.
Proseguendo ancora, dai test, in particolar modo dagli scenari sviluppati con l’HCR 20,
si potrebbe ipotizzare un possibile rischio di recidiva di reato, riflettendo così sulla
figura materna come vittima potenziale e, in seconda istanza, la sorella, qualora
iniziassero a verificarsi in modo continuativo le stesse dinamiche relazionali conflittuali
che sono sempre state presenti con la mamma, e con la nonna materna allora.
Prima di giungere alle conclusioni, è di notevole importanza sottolineare l’evento
avvenuto durante lo svolgimento di questo lavoro, ossia un allontanamento da parte del
paziente dalla Struttura.
Tale allontanamento come descritto nel caso clinico è avvenuto nonostante il buon
compenso psicopatologico che caratterizzava in quel momento il quadro clinico.
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Nell’analizzare l’evento accaduto, non sono emerse conflittualità e dinamiche diverse
dall’abituale quotidianità, e non si sono osservati comportamenti diversi tali da far
pensare ad un’eventuale “fuga”.
Credo che tale imprevedibilità di comportamento da parte del paziente, in un quadro
piuttosto stabile dal punto di vista clinico, debba essere ampiamente considerato, sia per
l’ipotesi possibile di rischio di reiterazione di reato, sia per ripensare ad una eventuale
prosecuzione e progettualità del suo percorso riabilitativo, e per gli aspetti prognostici di
malattia.
Concludendo, con l’aiuto degli strumenti utilizzati e delle teorie di riferimento
approfondite, si è potuto ipotizzare, ad una possibilità di rischio di recidiva di reato da
parte del paziente, con più probabilità che essa avvenga, in concomitanza ad una
sospensione o incostanza nell’assunzione della terapia farmacologica, con conseguente
rischio di evidente scompenso psicotico , e qualora dovesse essere in tale situazione
fuori da un contesto comunitario, residenziale di cura, ritenuto assolutamente
indispensabile per il proseguimento del percorso del nostro paziente, che permetta
un’osservazione costante ed un eventuale intervento preventivo in situazioni di rigidità,
ostilità, rivendicazione, istanze persecutorie che possono emergere nel paziente.
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