I cani-filosofi e l’animalità del conoscere. Nota su Platone, Repubblica 375a-376c∗ Eugenio De Caro La forma prototipica della conoscenza è quella che scevera il proprio dall’estraneo, il self dal non-self. Tale conoscenza affonda le sue radici nel corpo e sta, ad esempio, alla base delle reazioni immunologiche1 . La questione del conoscere corporeo cominciò a essere approfondita nella sua valenza gnoseologica ed epistemica dall’anatomia secentesca, quando mosse i suoi primi passi la moderna fisiologia. L’idea base era quella di un organo che percepisce un altro organo e che, una volta registrata la presenza dell’altro, attiva al suo interno una reazione motoria, si “irrita”. Questa reazione fu posta alla base dei processi fisiologici in quanto determina a sua volta altre reazioni nel complicato sistema della rete cellulare. Gli sviluppi di questo modello biologico presentano un notevole interesse per l’estetica poiché è di qui che nasce l’idea di un fondo oscuro del corpo che costituisce la base di ogni ∗ Questo saggio è stato presentato al convegno Animalità. Etica ed estetica animale, organizzato da Maddalena Mazzocut-Mis e svoltosi presso l’Università degli Studi di Milano il 13 e 18 Dicembre 2002. 1 Nel contesto degli studi medici il sistema immunitario è comunemente definito in questi termini: «The evolution of multi-cellular organisms brought with it a vital need for an internal system of defense against invasive foreign organisms. The basic requirements in such a defence system are ability to distinguish foreign cells from the individual’s own body cells, combined with ability to destroy or inactivate them» (Immunology in Medicine, a cura di E.J. Holborow e W.G. Reeves, Academic Press, London-New York 1983, p. 17). E ancora: «The immune system of an individual identifies and reacts against foreign substances. It does not normally react against components of the body itself [. . . ] a system whose primary function may be as much concerned with self-recognition as with defense against agents that are not self»; pertanto, prosegue il testo, «the immune system, being one of the best understood “cellular organs” at the molecular level, could serve as an excellent model for studying the phenomenon of self-recognition» (Autoimmunity. Genetic, Immunologic, Virologic and Clinical Aspects, a cura di N. Talal, Academic Press New York, San Francisco-London 1977, p. 231, 268). c 2002 ITINERA (http://www.filosofia.unimi.it/itinera/) Copyright ° Il contenuto di queste pagine è protetto dalle leggi sul copyright e dalle disposizioni dei trattati internazionali. Il titolo e i copyright relativi alle pagine sono di proprietà di ITINERA. Le pagine possono essere riprodotte e utilizzate liberamente dagli studenti, dagli istituti di ricerca, scolastici e universitari afferenti ai Ministeri della Pubblica Istruzione e dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica per scopi istituzionali, non a fine di lucro. Ogni altro utilizzo o riproduzione (ivi incluse, ma non limitatamente a, le riproduzioni a mezzo stampa, su supporti magnetici o su reti di calcolatori) in toto o in parte è vietata, se non esplicitamente autorizzata per iscritto, a priori, da parte di ITINERA. In ogni caso questa nota di copyright non deve essere rimossa e deve essere riportata anche in utilizzi parziali. ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura sapere, il precipitato inconscio di ciò che il sentire pone invece sotto i raggi del lume coscienziale. È quanto Leibniz, come ho provato a mostrare in altra sede2 , avrebbe denominato petit perceptions. Presentare quest’oggi tale forma di sapere del corpo quale modello di una supposta conoscenza “animale” non avrebbe tuttavia reso del tutto ragione al titolo della giornata di studi: a ben vedere, infatti, si sarebbe pur sempre trattato di un presunto “animale” celato all’interno dell’uomo. L’idea di fondo mi sembrava nondimeno euristica, soprattutto in forza della sua efficacia erosiva rispetto al pregiudizio di una differenza ontologica fra corpo e anima. Andando perciò alla ricerca di altri luoghi in cui lo stesso modello di “conoscenza animale” fosse comunque operativo, ma in cui l’animalità dell’animale fosse più esplicitamente al centro dell’attenzione, la scelta è caduta su alcuni passaggi in apparenza marginali della Repubblica di Platone in cui ai cani da guardia è attribuita – non secondo un registro metaforico, mi pare – la caratteristica di “filosofi”3 . I commentatori hanno quasi sempre trascurato il passo relegandolo a immagine di contorno oppure a battuta scherzosa4 . La figura del cane-filosofo è invece a mio avviso tutt’altro che estrinseca rispetto al disegno complessivo dell’opera, disegno nel quale, anzi, tale figura sembrerebbe svolgere una funzione strategica ben precisa. Una lettura in chiave “estetica” del passo potrà contribuire a svelare il non trascurabile portato filosofico di questo inconsueto omaggio platonico all’animalità del conoscere. Il brano (375a-376c) si trova nel secondo libro; recuperiamo perciò innanzitutto lo sviluppo della narrazione sino a quel punto5 . Il primo argomento toccato è la questione della vivibilità della vecchiaia. Sembrerebbe, infatti, che solo quando comincia a smorzarsi l’eccessivo impeto delle passioni, paragonate a tiranni che rendono schiavi i loro sudditi6 , l’uomo possa 2 E. De Caro, Corpo e idea, Trauben, Torino 2001, cap. I. L’archetipo del cane-filosofo è ovviamente Argo, il cane di Ulisse che dopo vent’anni è l’unico a Itaca a riconoscere il proprio padrone, per poi subito dopo spirare (Odissea, XVII, 290-327); la questione è al centro dello scritto di Antistene Sul cane che secondo F. Caizzi Decleva (“L’elogio del cane. Sesto empirico”, Elenchos, 45, fasc. 2, 1993, p. 316) costituisce un probabile referente del passo di Platone da noi preso in considerazione. Secondo la Caizzi Decleva, nonostante negli Schizzi pirroniani compaia, sia pur con fini ironici, un’equiparazione del cane all’uomo basata sullo stesso motivo, presente anche in Platone, della distinzione tra il familiare e l’estraneo, non vi sarebbero in realtà rapporti tra l’argomento di Sesto e il libro II della Repubblica. Le fonti di Sesto sarebbero invece da rinvenire nell’altra grande tradizione relativa ai cani-filosofi, quella che muove dai cinici, passa attraverso gli stoici e giunge sino a Plutarco. 4 L’unico intervento sul cane-filosofo di Platone usualmente citato nei commenti è il breve intervento di T.A. Sinclair, “Plato’s Philosophic Dog”, The Classical Review, LXII, 1948, pp. 61-2, ove si sostiene che Platone riprenderebbe a scopo ironico e per parodiarlo un argomento della scuola naturalistica dei sofisti. 5 Per il testo e la traduzione (talvolta ritoccata) farò riferimento alle seguenti edizioni: Platone, La repubblica, “Introduzione” di F. Adorno, tr. it. di F. Gabrieli, testo greco a fronte, Rizzoli, Milano 1981; Id., La repubblica, “Introduzione” di M. Vegetti, tr. it. di F. Sartori, note di B. Centrone, testo greco a fronte, Laterza, Roma-Bari 2001; Id., La repubblica, tr. it. e commento a cura di M. Vegetti, Bibliopolis, Napoli 1998-2000 (libri I-V); Id., Repubblica, in Dialoghi politici. Lettere, a cura di F. Adorno, Utet, Torino 1988, vol. I. 6 Cfr. Ibid., 329 c. 3 2 ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura finalmente vivere conciliato con se stesso, tranquillo e appagato. Essere ricchi è, a questo riguardo, auspicabile, ma non è condizione sufficiente: senza un buon carattere la ricchezza non assicura di per sé tranquillità alcuna; la ricchezza può, al massimo, predisporre all’esercizio della virtù, ponendo nelle condizioni di non dover frodare gli altri per necessità. Per vivere bene la vecchiaia, invece, è secondo Platone indispensabile una buona indole (trópos), le persone devono cioè essere a modo, ovvero ordinate e accomodanti (kósmioi kaì eýkoloi)7 . È sulla formazione del carattere, pertanto, che si devono concentrare principalmente le risorse pubbliche; è di lì che passa, infatti, la questione della giustizia, attorno a cui si focalizza l’indagine dell’opera. Ben noto è poi il percorso che si articola a partire dal libro II: siccome la ricerca dell’eidos giustizia è degna di un’acuta vista, virtù che non è poi così frequente, Platone proverà a ingrandire la realtà che deve mostrare, in modo che tutti possano vedere. Mostrerà pertanto la giustizia all’opera non più nell’uomo singolo, ma in una realtà di maggiori dimensioni: lo stato. Diverrà successivamente evidente l’analogia che esiste fra la giustizia che governa l’animo e quella che regola la polis. A partire dalla pagina 369 Platone comincia dunque a mostrare, col ragionamento, come nasca una città e come si formino, al suo interno, giustizia e ingiustizia. Ebbene, la città nasce, egli esordisce, quando un individuo non basta più a se stesso; lo stato si fonda, dunque, sul bisogno. Ora, ciò che consente di superare l’indigenza dell’individuo è lo specialismo delle professioni; ciascuno nasce, infatti, con una disposizione diversa (anche la costituzione fisica contribuisce a ciò), è già disposto a una determinata professione: chi a fare l’artigiano, chi l’agricoltore, chi il commerciante, chi il bracciante ecc. Basterà allora, conclude Platone, assecondare tali predisposizioni e lo stato avrà già soddisfatto un suo requisito di fondo, sarà in grado di garantire l’autoconservazione degli individui. La città, tuttavia, non avrà come scopo il mero scambio di beni ai fini della sopravvivenza, non sarà, esclama Platone, una mera «città di maiali»8 . Lo stato deve infatti assicurare anche una certa opulenza e vanno pertanto contemplate attività anche come la pittura (zoographía) e l’ornamentazione (poikilía). Bisognerà, in altri termini, far posto anche alla schiera degli artisti (mimetaí): «molti addetti alle figure (skématá) e ai colori (krómata), molti alla musica (mousiké), e i poeti (poietaí) e i loro dipendenti, rapsodi, attori, coreuti, impresari, artefici (demiourgoí) d’ogni sorta di attrezzi, e tra l’altro dell’acconciamento (kósmos) muliebre»9 . La società civile ha dunque bisogno di determinate professioni che oggi chiameremmo (e alcune di fatto chiamiano) “estetiche”. Questo è già un primo passo, di non poco rilievo, nella direzione che oggi definiamo, in senso lato, “spirituale”. Il punto che ha richiamato la mia attenzione per questa giornata sull’animale si trova tuttavia più avanti. Procediamo, dunque, ancora per un tratto. 7 8 9 Ibid., 329 d. Ibid., 372 d. Ibid., 373 b. 3 ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura La città opulenta inizierà successivamente a ingrandirsi; comincerà, cioè, ad aver brama di altre terre; le altre città avranno di conseguenza bisogno di difendersi e insorgerà l’esigenza di un esercito. Nasce così il bisogno di una nuova specializzazione, quella dei combattenti, specialisti nell’arte difensiva: per essere un buon combattente non basta infatti portare armi, esclama Platone, in quanto bisogna anche saperle maneggiare; anzi, l’apprendistato all’uso delle armi sarà piuttosto lungo e quindi i candidati andranno scelti molto presto. Si dovranno a questo scopo valutare alcune loro predisposizioni naturali, così come queste si manifestano sin dai primi anni di vita. Ecco finalmente il punto che ha attirato la mia attenzione: consideriamo quali sono gli indicatori in base a cui deve avvenire tale cernita? Ebbene, secondo Platone già questa prima selezione deve accertare la presenza di capacità che consentano, in nuce, lo sviluppo delle abilità filosofiche, poiché i filosofi successivamente destinati al comando verranno scelti all’interno della classe dei guerrieri. La forma prototipica della ricerca della verità finisce dunque per coincidere, di fatto, con la virtù dei guardiani. E la selezione dei guerrieri acquisisce ipso facto un rilievo filosofico. Ora, esordisce Platone, l’arte della guardia è una virtù specifica dei cani10 . Per far buona guardia occorre innanzitutto una sensibilità acuta (oxýn aísthesin), bisogna cioè sapere seguire veloci l’oggetto percepito e, se il caso, occorre anche saperlo afferrare con gagliardia. Annotiamo subito a margine che Platone, in diversi altri luoghi – che pur non lasciano dubbi circa la priorità del noetico – pone un rapporto molto stretto fra acutezza (oxýtes) dei sensi e comprensione eidetica; basterà qui ricordare, su tutti, il Fedro11 , ove la sensazione più acuta, la vista, consente di cogliere il rilucere di un’idea, l’idea di bellezza. È un punto, questo, del massimo rilievo per l’estetica, su cui dovremo tornare più avanti. Per ora procediamo coi criteri del reclutamento dei guardiani-filosofi. Altra caratteristica indispensabile per essere un buon guardiano, presente anch’essa nei cani, è, prosegue Platone, l’irascibilità o collericità (thymoeidès)12 , intesa come gagliardia e coraggio che, all’accendersi dell’ira, rendono un’anima intrepida e pressoché imbattibile. L’ira però, precisa Platone, non deve scattare indistintamente a ogni occasione; è bene, invece, che il guardiano sia tanto aspro e intransigente coi nemici quanto mite e conciliante coi familiari. E nel cane da guardia si dà appunto una simile paradossale compresenza di opposti: docile e mite con le persone note, oltremodo irascibile con gli estranei. Ma, si badi, questa è anche la prerogativa per cui il buon guardiano – cane da guardia o cane pastore – finisce per coincidere col prototipo del filosofo. Il cane infatti, spiega Platone, «chi vegga sconosciuto, gli fa il viso dell’arme, pur senza averne avuto in precedenza alcun male; chi gli è invece conosciuto, lo accoglie 10 Ibid., 375 a. Id., Fedro, cit., 250 d. 12 Cfr. F. Calabi, “Andreia/thymoeides”, in Platone, La repubblica, a cura di M. Vegetti, cit., vol. III, pp. 187-203. 11 4 ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura lietamente, anche se non ne abbia mai avuto alcun bene»13 . Quest’animale che, assieme al cavallo, costituisce per tutta la tradizione antica uno dei principali amici e alleati dell’uomo, mostra dunque di possedere consapevolezza di ciò che gli è noto (gli amici) e di ciò che gli è ignoto (gli estranei), di ciò che sa e di ciò che non sa. La sua non è una reazione comportamentale basata sulla tecnica del rinforzo, bensì un’azione basata su una consapevolezza di tipo conoscitivo: chi così si comporta, conclude Platone, è certamente un philomathès, un amico dell’apprendere o addirittura, afferma con enfasi poco oltre, un philósophon. Infatti: «philomathès kaì philósophon tautón»14 . Il buon guardiano, in conclusione, deve possedere, proprio come il cane, una «natura filosofica»15 . Molti si son chiesti se Platone non stesse scherzando. Sostiamo ora ancora per un attimo su questo suggestivo quadretto del canefilosofo, non privo, forse, di una sua peculiare euristicità. Interessa soprattutto richiamare i requisiti di base di questa peculiare irascibilità filosofica (“filosofica”, s’è visto, in quanto connessa a una forma di conoscenza): primo requisito è la buona sensibilità, secondo la compresenza di due contrari noetici (sapienza-ignoranza) e di due contrari etici (mitezza-ira). Va subito notato, allora, che il cane è, fra le diverse specie animali, forse quella in cui la superiorità sull’uomo proprio nella sfera della sensibilità (olfatto e udito) si presenta con maggiore evidenza. Come mai, allora, il paragone proprio col cane, così nettamente superiore proprio sul piano strettamente aisthetico? Probabilmente il motivo per cui al cane sono ascritte doti filosofiche non consiste nel fatto che ci sente bene, anche se questo potrebbe comunque essere annoverato tra i fattori che predispongono alla filosofia. Il cane, invece, è, secondo Platone, filosofo in quanto la sua acutezza percettiva (i) implica immediatamente un apprendimento e (ii) accende una consapevolezza relativa a ciò che si sa o che non si sa. L’asse percezione-pensiero, in questa sua forma prototipica, non presenta dunque soluzione di continuità: nel cane da guardia si dà un percepire che si traduce immediatamente in un apprendere e un apprendere che si traduce immediatamente in sapere. Tutto ciò collima, d’altronde, col fatto che a monte di questo risultato conoscitivo il fattore discriminante resta comunque la qualità della percezione: tanto più è acuta, quanto più è conoscitiva, quanto più tende, cioè, a tradursi in un possesso conoscitivo stabile e disponibile. Ora, il tema della continuità sensazione-pensiero, tipica di questa conoscenza animale, viene ripreso più avanti, in un contesto in cui il registro figurale dei maiali, dei cani e, come vedremo, anche dei lupi (il lupo nella Repubblica rappresenta il tiranno, mentre in altri dialoghi è l’emblema del sofista) è stato ormai dismesso. Nel libro VII, ove la filosofia sta acquisendo la sua forma matura di “dialettica”, Platone discute infatti quale sia la strategia educativa più idonea a realizzare la conversione al principio “anipotetico”. L’educazione in precedenza impartita ai 13 Platone, Repubblica, cit., 376 a. Ibid., 376 b. 15 Ibid., 375 e. L’aggettivo “filosofico” compare qui per la prima volta nell’opera. Cfr. il commento di Vegetti nell’edizione Bibliopolis, cit., vol. II, p. 68. 14 5 ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura guardiani attraverso la ginnastica e la musica – definite entrambe, inciso nient’affatto secondario, forme di educazione dell’anima – non può però condurre a tanto. Platone prende allora in considerazione l’ipotesi che la conversione possa esser attivata dalla matematica, forma di conoscenza di fatto indispensabile a tutte le arti, a tutti i saperi, a tutte le scienze16 . L’ipotesi non sembra affatto da scartare, purché, prosegue Platone, la matematica venga impiegata correttamente, cosa che ben pochi fanno. La matematica, infatti, trae per sua natura all’intendimento (pros nóesin) e all’essere stesso (pros ousían). Ora, la matematica, prosegue Platone, è spontaneamente attivata dalle sensazioni; non da tutte le sensazioni, però, ma solo da quelle che richiedono, per offrire il loro contenuto, un coinvolgimento immediato dell’intelletto. Per percepire che ci sono delle dita, egli esemplifica, basterà percepirle; per percepire il molle o il duro (o il leggero/pesante) è invece necessario un giudizio comparativo. Si tratta, infatti, di qualità che richiedono una capacità di confronto fra diversi atti percettivi: percependo prima un molle, poi un duro l’anima dovrà innanzitutto calcolare se le sensazioni sono due (se cioè sono diverse) oppure se ciò che vien percepito nei due atti è in realtà la stessa sensazione. Questo significa che la sensazione di molle richiede, per esser percepita come tale, l’opposizione a un’altra sensazione che va riattivata contemporaneamente (nell’anima): diventa una, cioè una certa sensazione, per contrapposizione a un due, cioè a due valori differenti della stessa qualità percepita17 . Per attestare l’esistenza del dito bastava invece un’unica sensazione e i numeri non erano ancora chiamati direttamente in causa. Tuttavia, riflette Platone, siccome il senso non è di per sé capace di mostrare gli opposti (la vista, egli dice espressamente, non ha mai mostrato all’anima «che il dito sia il contrario di un dito»), la capacità di pensare assieme gli opposti non può provenire che dall’intelligenza (nóesis). Perciò grandezza e piccolezza, durezza e mollezza non sono qualità che possano essere attestate immediatamente dai sensi; esse richiedono il confronto tra differenti sensazioni e implicano pertanto un coinvolgimento diretto dell’intelletto: «la vista vedeva qualcosa di grande e piccolo a un tempo, ma non già distinto bensì confuso insieme [. . . ]. Mentre per far chiarezza su questo punto l’intelletto fu costretto a vedere un grande e un piccolo, non già però confusi, bensì distinti, al contrario della vista»18 . Le sensazioni che coincidono col loro opposto (e che sono quindi basate sull’uno e sul due, ovvero sul calcolo e sulla matematica) sono dunque sollecitatrici di intelligenza, nel senso che invitano l’intellezione a proseguire l’indagine: quando percepisco la mollezza o la durezza percepisco sempre la stessa qualità dell’oggetto (una durezza indistinta o relativa, potremmo dire), ma questa qualità mi apparirà in modo più definito come “dura” oppure come “molle” solo grazie alla comparazione con altre sensazioni della stessa specie. Ora, questa comparazione è un prodotto della noesis, è vero. Ma ciò che in16 17 18 Ibid., 522 c. Ibid., 524 b. Ibid., 524 c. 6 ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura tendo ora sottolineare è che quest’atto noetico si rende necessario per completare lo stesso atto percettivo, cioè per percepire la sensazione di molle in quanto molle oppure di duro in quanto duro. In secondo luogo, va rimarcato che secondo Platone questa noesi aisthetica, quest’atto conoscitivo che s’abbassa giù giù sino al livello della sensazione bruta, costituisce già di per sé una forma di calcolo capace di spingere l’anima a interrogarsi su che cosa sia l’unità, e già da sola capace, in ultima istanza, di attivare persino il pensiero dialettico (costringe quantomeno l’anima a usare la pura intelligenza). La scienza dell’unità in sé non può dunque prendere le mosse se non dall’apparire dell’unità nella dualità, ovverosia dalla contrapposizione dell’unità a ciò che le è incompatibile, cioè la pluralità. È dunque dall’apparire dell’uno nel due che l’anima è indotta a interrogarsi su cosa sia l’unità in sé; e questo apparire dell’uno nel due non è, all’inizio, che una semplice sensazione. Una sensazione, però, che è strutturata in modo da attivare, in quanto sensazione, anche l’apparato noetico. La matematica dunque, se coltivata come stimolo a cogliere l’essere (l’uno), spogliandosi del divenire (la diade, le opposizioni), se intesa cioè come interrogazione sulla natura dei numeri, può realizzare di fatto la conversione dell’anima; questo è il motivo per cui va inserita nel curriculum del filosofo come scienza speculativa (mentre dovrà essere oggetto di studio del militare per le sue molteplici valenze pratiche: per impartire ordini, per disporre le file dei soldati, ecc.). Tuttavia, sebbene l’iter formativo del filosofo abbia evidentemente lo scopo di abilitare a riflettere anche senza l’aiuto dei sensi, Platone ha di fatto mostrato come la dimensione noetica sia in realtà già pienamente operativa anche sul piano della percezione sensibile. Infatti, egli non ha affatto parlato di un pensiero divino, già in sé dialettico, che miracolisticamente si attivi nella mente dei guardiani, bensì di una lunga e faticosa “conversione” alla dialettica, di uno sguardo cioè che ha di mira il principio, proprio in quanto quel principio l’ha già visto operativo nelle sue quotidiane percezioni del mondo. Torniamo ora indietro, all’epoca della selezione dei custodi, e tentiamo una valutazione dell’immagine del cane-filosofo nel contesto specifico dei primi quattro libri della Politeia platonica. Grazie alle anticipazioni, in parte ancora di carattere mitico-fantastico, sulla struttura della polis ideale presenti in questa prima sezione dell’opera19 , Platone ha potuto mostrare che le virtù principali dei custodi-filosofi – gagliardia e prontezza d’animo da un lato, facilità d’apprendimento dall’altro – sono innanzitutto oggettivamente possibili: se si danno nei cani, è quanto meno possibile che compaiano anche nell’uomo20 . Ha offerto in tal modo una sorta di radicamento naturale a un requisito base della sua costruzione teorica quale l’assegnazione di compiti militari e polizieschi a un’autonoma classe di cittadini; 19 Seguo Vegetti, nel momento in cui sostiene che «il libro IV della Repubblica costituisce la conclusione formale e solidamente argomentata del grande dibattito sulla giustizia che aveva conosciuto i suoi punti teoricamente più alti nello scontro fra Socrate e Trasimaco, nel libro I, e poi nell’aggressione portata da Glaucone ad Adimanto con Socrate all’inizio del libro II». M. Vegetti, “Introduzione al libro IV”, in Platone, La repubblica, cit., vol. III, p. 11. 20 Platone, Repubblica, 375 e. 7 ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura l’esercito professionista non era infatti un’idea facile da far passare nel contesto dell’Atene dell’epoca. Inoltre, grazie all’intuizione dei cani-filosofi, Platone ha potuto offrire una giustificazione ante litteram della derivazione degli arconti da quella stessa classe di custodi: i guardiani posseggono una spiccata capacità d’apprendere e questo li rende candidati ideali per quel rafforzamento della facoltà calcolatrice che condurrà i più capaci e solerti di essi sino alle responsabilità di governo. Nulla di anomalo, dunque, nello stile più asseverativo che dimostrativo che contraddistingue questi primi quattro libri: il loro procedere rapsodico, che non impedisce comunque a Platone di sottoporre a giudizio le grandi voci della polis tradizionale, può essere inteso come uno studiato proliferare di elementi prolettici volti ad anticipare, in immagine, quanto verrà più saldamente argomentato nelle più rarefatte atmosfere teoriche dei libri successivi. Il riferimento, in apparenza scherzoso e per certi aspetti gratuito, al cane-filosofo può pertanto essere letto come una mossa strategica che s’inscrive nel contesto dell’ardito progetto di Platone di sostituzione della mitologia tradizionale, viziata da contenuti e stili educativi ai suoi occhi inaccettabili, con una nuova forma di mitologia a taglio e contenuto filosofici. Mi spiego. Consideriamo l’analogia attorno a cui ruota l’intera struttura narrativa dell’opera, dal libro II in poi: quella fra l’animo dell’individuo e le classi di cittadini dello stato. In modo piuttosto evidente, tale analogia è resa problematica da una strutturale asimmetria: la tripartizione dell’anima ha infatti chiaramente fondamento psicologico-naturalistico e la sua esposizione ha carattere meramente descrittivo, mentre la suddivisione dello stato ha carattere metodico e il suo referente oggettivo ha natura esplicitamente ipotetica21 : la “kallipolis” non è che una città ideale. D’altro canto Platone non insiste mai sulla necessità di una divisione netta proprio in tre classi, tant’è che non tratta affatto dell’educazione della classe dei produttori, cioè della stragrande maggioranza dei cittadini. Ebbene, se la narrazione non si premura affatto di rimuovere tale asimmetria di fondo si può ragionevolmente supporre che l’invenzione dell’analogia – che compare, com’è noto, piuttosto bruscamente e come mera ipotesi di lavoro – risponda a una precisa strategia posta in essere da Platone, volta ad assicurare un radicamento naturale al progetto dello stato tripartito22 . Tale funzione però – questo è il punto – non sarebbe svolta solo dall’innovativa fenomenologia dell’apparato psichico (tripartizione radicata, come s’è detto, anch’essa nella natura), ma anche dalle tre figure zoologiche che sostanziano l’ossatura mitico-fantastica di questa prima fase della 21 È stato Vegetti a portare recentemente l’attenzione sullo «scarto metodico tanto fondamentale quanto poco rilevato dagli interpreti», consistente nel fatto che «la tripartizione politica è il risultato di un’operazione condotta nel “discorso”; essa consiste quindi in un modello teorico normativo, che sia traducibile o meno in un progetto d’azione. Al contrario, la scissione dell’io è presentata da Platone come il dato di fatto centrale della realtà psichica, che può venir compreso e descritto a partire da diversi approcci fenomenologici». M. Vegetti, op. cit., p. 29. 22 Vegetti evidenzia in modo puntuale l’analogia che Platone istituisce fra giustizia dell’anima e dello stato da un lato e salute del corpo dall’altro; cfr. ibid., p. 14 e pp. 21 sgg. 8 ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura costruzione teorica: il cane da guardia, il lupo, il maiale. La stessa lotta per la “giustizia” intrapsichica, d’altro canto, non è più quella fra un elemento divino e uno terrestre, cioè fra psyche immortale e scorza corporea corrotta, bensì quella fra calcolo dei vantaggi (logistikón) e smodatezza del desiderio (epithymetikón), con la significativa introduzione anche qui di truppe ausiliarie (epíkouroi), il cui rappresentante psichico sono gli stimoli collerici dello thymoeidés. Lo sdoppiamento psichico in ragione-desiderio, che prende il posto dell’opposizione anima-corpo, ha infatti già inscritta in sé l’esigenza di una riconciliazione, poiché altrimenti l’individuo tradirebbe le esigenze della sua autoconservazione; tale riconciliazione costituisce pertanto l’analogo naturale della “giustizia”, così come questa si realizza, appunto, anche nell’animo del singolo uomo. Nell’anima resa retta dal giusto controllo razionale convivono dunque e si armonizzano anche le parti segnate da un legame più stretto col corpo; ciò rende l’animale molto più vicino rispetto a quanto non potrebbe risultare entro una prospettiva antropologica rigidamente dualistica23 . Il riferimento ad animali-tipo dotati di un preciso significato nell’immaginario collettivo24 contribuisce dunque a far sì che il modello ideale acquisisca un valore effettivamente normativo per la prassi, come Platone evidentemente auspica: una volta destata nel pensiero, grazie anche alla forza dell’immaginazione, in modo vivo e tangibile, l’idea diviene assai più efficace nell’orientare, a mo’ di paradigma, la condotta etico-politica dell’uomo25 . Ciò che la curiosa assimilazione del filosofo al cane da guardia di fatto accende è infatti la possibilità di una nuova antropologia da porre a fondamento del consorzio sociale, un’antropologia aperta e collaborativa che sostituisca quella basata sull’avidità o ambizione (pleonexía) da cui di fatto scaturiva la precedente proposta di Glaucone. È specificamente in risposta a quel modello antropologico che viene infatti introdotta la problematica analogia anima-stato, grazie alla quale il discorso slitta, come s’è visto, dal terreno etico a quello politico. La mossa fondamentale in ordine a una giustificazione della 23 F. Trabattoni manifesta qualche dissenso relativamente al metodo impiegato da Vegetti e dal suo staff nel ricco «commento» affidato all’edizione Bibliopolis; l’esigenza, di per sé corretta, di leggere l’opera iuxta propria principia, porterebbe infatti il gruppo pavese ad alcuni eccessi interpretativi in linea col paradigma anti-intelletualista in voga nella più recente critica anglosassone. Tuttavia, il dissenso di Trabattoni si manifesta soprattutto sulla questione del modello tecnico della morale eudemonistica platonica (che a suo avviso non è dismesso, bensì rafforzato), mentre Trabattoni conviene sul nuovo radicamento naturale della psicologia platonica: «Fermo restando che l’etica è sempre una questione di sapienza e ignoranza, la novità dirompente della Repubblica consiste nel riconoscimento che le funzioni non razionali sono radicate per natura all’interno dell’anima, e non possono essere eliminate come impulsi devianti dovuti alla contaminazione del corpo. Si apre in tal modo la possibilità di interpretare la natura e il comportamento dell’uomo in maniera più articolata, e comprensiva di quei fenomeni che una psicologia interamente razionalistica (attiva dal supposto Socrate storico agli stoici) può spiegare solo a prezzo di parecchie difficoltà». F. Trabattoni, “Sull’etica di Platone. In margine a un nuovo commento alla Repubblica”, Rivista di storia della filosofia, 4, 2000, p. 618. 24 Sul significato, peraltro non privo di oscillazioni, della figura dei cani e dei lupi nella mitologia greca antica cfr. il bel saggio di M. Detienne e J. Svenbro, “I lupi a banchetto o la città impossibile”, in La cucina del sacrificio in terra greca, Boringhieri, Torino 1982, pp. 149-163. 25 Platone, Repubblica, cit., 472 c. 9 ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura giustizia come preferibile “per se stessa” (e non in relazione alle sue conseguenze, oppure come scelta utilitaristica del non commetto ingiustizia per non subirne a mia volta) è dunque la scoperta di un’antropologia relazionale e collaborativi fondata su un’irascibilità intelligente simile a quella normalmente riscontrabile nei cani guardiani. Una volta posta la questione su questo piano, l’immagine del cane-filosofo perde ogni sua apparente estemporaneità. Il cane guardiano o cane pastore costituisce infatti un modello mitologico capace di recuperare una contrapposizione frontale rispetto al cane lupo, il quale figura invece come rappresentante della voracità o smodatezza che mina alle sue radici la possibilità della polis giusta. La conversione antropologica consiste dunque nell’addomesticamento del lupo. Platone, infatti, gioca esplicitamente anche sul processo contrario, ovvero la degenerazione del cane in lupo: «la cosa più grave e più vergognosa per dei pastori – si legge in chiusura del libro III – è di allevare tali e siffatti cani ausiliari delle greggi, che per indisciplina o fame o altro cattivo carattere questi cani stessi tentino di far del male agli armenti, e invece di cani farsi simili ai lupi»26 . Per una città non v’è niente di peggio, dunque, che la rapacità dei suoi guardiani che da fedeli servitori e difensori si trasformino in «padroni selvaggi». Per salvare il modello della città giusta diviene pertanto necessario fare in modo che l’anima canino-filosofica tenga costantemente a freno il lupo che sempre si cela al nostro interno e che ci spinge a bramare più della nostra parte, sempre più del giusto (pleonexía). Non è dunque un caso se la rapsodia prolettica della città giusta si chiude evocando la figura del tiranno-lupo, antidoto contro il quale divengono da un lato l’adeguata formazione dei cani-guardiani e dall’altro la sottrazione di ogni stimolo alla possibile bramosia, ovvero l’abolizione della sfera privata. A ben vedere, anche il maiale, sopra menzionato, risulta in verità coinvolto in questo sottile giro di rinvii metaforici. Introdotto da una battuta di Glaucone relativa alla dieta degli abitanti della prima città socratica (quella delle mere specializzazioni artigianali): «ma tu stai costruendo una città di maiali», anche il maiale evoca di fatto una potenza figurale, legata nella paremiografia dell’epoca, dis-valore dell’ignoranza e della stupidità. Lo stesso Platone, in Lachete 196d, mentre argomenta a favore della componente intellettuale del coraggio, asserisce infatti che il coraggio non è affatto una virtù facile da apprendere: una scrofa, egli dice, non potrà mai diventare coraggiosa! Il maiale, in altri termini, non sarebbe per sua natura un animale coraggioso in quanto il coraggio è una virtù da animali intelligenti. Tra maiali e cani, potremmo dunque concludere, passa tutta la distanza che esiste fra l’homo homini lupus, lo stato di natura pensato alla Hobbes, e l’animale politico di Aristotele. Il discrimine è, come s’è detto, la capacità di apprendere, la forma prototipica della virtù politica, rivelatrice in pari tempo, sebbene ancora in nuce, di un’adeguata propensione alla dialettica. L’apertura mitico-fantastica non è dunque inessenziale – questa, in sintesi, la tesi sin qui sostenuta – alla stessa linea argomentativa della Repubblica platonica; 26 Ibid., 416 a. 10 ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura anzi, sembrerebbe che nei primi quattro libri dell’opera Platone tenti di avanzare anche un timido esperimento di mitologia filosofica. L’iter narrativo che coinvolge cani, lupi, maiali non sembrerebbe infatti doversi interpretare come semplice anticipazione della conclusione teorica a cui si vuol giungere e a cui meglio si giunge per altra via. Qui il sostrato metaforico è invece inglobato nella stessa teoresi, secondo un procedimento di anastomosi teorica che sfrutta e sviluppa il nesso che, a livello di “conoscenza animale”, esiste tra senso, fantasia e ragione. Il rinvio alla capacità di apprendimento dei cani e al loro animo irascibile – una collericità piuttosto intellettuale, come s’è visto – pone, in altri termini, una condizione di pensabilità, non del tutto empirica, ma non ancora analitica, per i successivi snodi dell’argomentazione teorica. Istituisce un modello plasmato con la parola e narrato, possibile e non ancora sillogisticamente dedotto – l’analogia anima-stato è introdotta da un «forse dunque»27 – che fa leva sulla sua icasticità per presentarsi come paradigma capace di guidare realmente l’azione. Si tratta, certo, di un’anticipazione mitica del tema dell’intero dialogo, tema che nei libri successivi verrà esplicitato con maggiore rigore argomentativo; si tratta pur sempre, tuttavia, di una forma di logos, di una ragione poietica che produce la verità e la presenta secondo un’angolatura destinata a esaltarne anche l’intrinseca valenza orientativa per la prassi: che la città “bella” e giusta, la città ideale, sia in definitiva possibile Platone in fondo ce lo dice invitando semplicemente a contemplare, in immagine, le virtù del cane-guardiano, questo grande filantropo. Quando, infatti, Glaucone nota la difficoltà di conciliare gli opposti – lo snodo teoretico fondamentale, direi, in vista della costruzione della giustizia – Socrate risponde che la difficoltà si presenta solo se ci si distacca dall’immagine (eikón) in precedenza prodotta: esistono in natura, così come nella città costruita col pensiero (ma a cui ha contribuito in modo essenziale – va notato – anche la phantasía) degli esempi di «nature [. . . ] dotate appunto di questi contrari»28 . La conciliazione degli opposti, così essenziale, come s’è visto, anche alla dialettica dell’uno e del due, si realizzerebbe dunque grazie alla virtù teoretica di un’immagine. Sovviene allora un luogo cruciale del Sofista in cui Platone, mentre si appresta a intraprendere il suo decisivo excursus sull’essere e sul non-essere, si chiede se essere e non-essere non siano forse «intrecciati l’uno all’altro» allo stesso modo in cui diciamo «immagine somigliante» (eikón) per ciò che «pur non essendo realmente, partecipa in qualche modo dell’essere»29 . L’immagine, dunque, come luogo prototipico del pensiero dialettico: e tale sembra, in definitiva, anche il portato teorico di questi curiosi passaggi sulla virtù dei cani guardiani, di quest’estetica della conoscenza animale or ora sorpresa in alcuni negletti luoghi della Repubblica di Platone. 27 28 29 Ibid., 368 e. Ibid., 375 d. Id., Sofista, cit., 240 b-c. 11