QUARTIERI IN BILICO/ Da periferie a "quartieri alla moda": come

Milano
QUARTIERI IN BILICO/ Da periferie a "quartieri
alla moda": come cambia Milano?
Laura Bovone
martedì 8 marzo 2011
Quartieri in bilico (Imagoeconomica)
La periferia storica di Milano, laddove era alloggiata la classe operaia arrivata tra la fine dell’800 e la prima
metà del '900 nelle case di ringhiera adiacenti agli insediamenti industriali - come al Garibaldi, al Ticinese,
all’Isola, al Ripamonti - si è trasformata velocemente nel corso degli anni Novanta del secolo scorso in una
serie di “quartieri alla moda”, gentrificati e integrati al centro cittadino, la zona ricreativa dei locali di
tendenza e dello shopping.
Per contro la periferia più esterna dei quartieri dormitorio create negli anni del boom economico del secondo
dopoguerra per sopperire ai bisogni della seconda industrializzazione, alloggiando un mix di anziani
residenti, immigrati stranieri e categorie assistite, costituisce ancora oggi un’eredità difficile da smaltire.
Strutture che non favoriscono la vita comunitaria (come invece facevano le case di ringhiera, l’ambiente della
solidarietà operaia del ‘900) ma se mai creano problemi pare oggi insormontabili in termini di ordine
pubblico e governabilità: da Quarto Oggiaro a Molise Calvairate, al Corvetto, a Ponte Lambro, la cintura più
esterna di Milano è quella che più fa discutere e su cui deve scommettere la credibilità di ogni
amministrazione.
Eppure, alcuni degli interventi urbanistici più spettacolari, su cui vengono sempre più coinvolte le star
dell’architettura globale, scommettono proprio sulla possibilità di attribuire un carattere a un’edilizia
popolare poco caratterizzata al di là delle sue strutture razionalistiche ormai degradate.
Tali opere monumentali possono essere una giustificazione di tipo estetico, mediata dall’ente pubblico, delle
vetrine per il capitale finanziario cittadino o transnazionale, oppure diventare dei motori che muovono i
quartieri più periferici verso quegli assetti postmoderni dai quali sembrerebbero essere escluso. Questo
avviene se il nuovo inserimento spettacolare non si limita a essere un nuovo parco dei divertimenti, ma crea
un effettivo spazio pubblico, un luogo di incontro cittadino.
Un museo, un cinema multisala, un centro commerciale o anche un’università possono sviluppare
un’attrattività puramente imposta dall’alto, ma potrebbero anche, in vista di una trasformazione urbanistica
più partecipata, favorire quel fenomeno di gentrification che sembra segnare il destino più favorevole dei
quartieri dismessi della città terziarizzata.
In questo caso, non solo trasformerebbero il landscape del quartiere ai margini da industriale a
postindustriale, ma ne movimenterebbero la vita economica e culturale con nuovi modi di produrre e
consumare.
Del resto, gentrification e monumentalizzaione sono due processi di cambiamento urbano che corrono
paralleli, mostrando entrambi la forza trasformativa congiunta degli interessi dei produttori e degli stili di
vita dei consumatori: entrambi presuppongono ingenti capitali, spazi abbandonati, interventi architettonici
estesi, inevitabili cambiamenti del tessuto sociale e lavorativo, e, comunque, la trasformazione del territorio
in un distretto del consumo.
Queste due strade sono state entrambe percorse a Milano, anche se con modalità meno vistose e
drammatiche rispetto agli Stati Uniti o all’Inghilterra. Addirittura a Milano, nei casi più fortunati possiamo
ipotizzare un collegamento tra i due motori della trasformazione, l’architettura spettacolo e la
gentrificazione, e possiamo anche individuare attori minori che entrano nel gioco delle forze in campo,
associazioni o investitori/imprenditori locali che influenzano processi decisionali e paesaggi postindustriali,
eventualmente prospettando modi diversi di vivere/consumare la città, collegando il capitale globale e quello
locale.
È indubbio che a Milano la diffusa capacità italiana di fare impresa si è rivelata un serbatoio di vitalità
economica fondamentale nel momento in cui la grande industria ha chiuso i battenti. Pertanto, l’economia
simbolica delle piccole imprese culturali, che è stata la via d’uscita postfordista che hanno dovuto trovare
città industriali come Manchester non è per Milano una strada nuova, dato il suo patrimonio produttivo
largamente caratterizzato dai pilastri del made in Italy, la moda, l’arredamento, il cibo.
Certo, la parte manifatturiera si restringe, ma non drasticamente; la comunicazione, le funzioni strategiche,
l’organizzazione della distribuzione e i servizi relativi a questi settori mantengono uno stretto collegamento
con le produzioni di nicchia, la creazione dei prototipi, l’innovazione tecnologica, ecc. Il radicamento sul
territorio delle attività e la capacità di posizionarsi come città nodo della rete nazionale e globale si
combinano in modo originale.
Se nei vecchi quartieri della prima cerchia la trasformazione del paesaggio urbano è avvenuta
prevalentemente dal basso, nei quartieri più esterni, laddove lo spazio abbonda, si rivela fondamentale a
Milano il ruolo delle grandi cordate immobiliari e delle università. Se la Bocconi è a tutt’oggi l’attore
principale della riqualificazione in atto al Ripamonti, nei quartieri più periferici gli interventi sono ancora
più vistosi: tra le private la IULM negli anni ha ribaltato i destini del quartiere Romolo; e i quartieri Bicocca
e Bovisa vengono ormai identificati dalle gemmazioni monumentali della Statale e del Politecnico che vi si
sono insediate.
Paradossalmente, si dà il caso di zone periferiche carenti di collegamenti al loro interno e anche rispetto
all’hinterland circostante, talvolta già meglio collegate rispetto al centro e invece decisamente favorite dal
punto di vista del collegamento remoto per quanto riguarda alcuni settori di specializzazione, quartieri
periferici prescelti per essere il polo della scienza o il polo del design.
Il risultato è una sconcertante, ma apparentemente irreversibile, privatizzazione della politica urbana, in cui,
come si diceva, l’ente locale si assume il ruolo di mediatore. È così che si deve leggere, certamente, la gara
delle città per essere sede dei grandi eventi, la campagna del sindaco Moratti per Milano sede dell’Expo. Non
sono, tali grandi eventi, solo un magnete che attira finanziamenti dal governo per rimettere in moto un
sistema deficitario di infrastrutture, ma proprio poli di attrattività globale, con un indotto che è
evidentemente proporzionale all’avanzare della globalizzazione stessa.
La città è al centro della nuova economia dell’immateriale, che da una parte favorisce la delocalizzazione
della produzione materiale, ma dall’altra intreccia, in questi spazi liberati, la produzione simbolica e il suo
consumo. Se monumentalizzazione e gentrificazione operano in sinergia, qui convergono la
costruzione/invenzione di spettacolari landmarks, la speranza di una “visitabilità” che porti nuovi
consumatori, ma anche il recupero dell’antico e del pittoresco (il bene culturale heritage), la difesa di culture
e professioni autoctone, la valorizzazione di isole culturali caratterizzanti.