il ruolo del difensore - Camera Penale Veneziana

DIRITTO O DELITTO DEL DIFENSORE?
AVV. EUGENIO VASSALLO
Com’è tradizione, intanto la parola al rappresentante della nostra ospite la Cassa
di Risparmio.
PAOLO ZANUTTO
Buongiorno a tutti, mi presento, sono Paolo Zanutto, direttore della filiale 15 di
Mestre, in via Pepe. Vi porto il mio personale saluto e quello dell’Avvocato
Maretto, del nostro capo ufficio legale, il benvenuto della Cassa di Risparmio di
Venezia, che è ben lieta di ospitare questo vostro incontro. Grazie e buon
proseguimento.
AVV. EUGENIO VASSALLO
Siamo sempre grati alla Cassa di Risparmio, perché, oltre a gestire i nostri pochi
averi, ci consente di usufruire di questa bellissima sala.
Il tema è un tema particolarmente importante, soprattutto per gli avvocati.
È un tema che ha avuto un’attenzione particolare per quel caso che è scoppiato
nel Sud in relazione al collega Presidente della Camera Penale di Potenza. Oggi,
siamo nell’ambito del corso di aggiornamento professionale, quindi è necessario
discutere anche delle problematiche che riguardano la nostra professione in
questa materia. Abbiamo degli ospiti eccezionali oggi: uno lo conosciamo, il
dottor Ennio Fortuna, il nostro Procuratore Generale della Corte, poi abbiamo il
professor Marco Zanotti, che anche molti di noi conoscono, e infine il dott.
Delpino, altro nostro amico, ora Procuratore della Repubblica presso il
Tribunale di Pordenone; e nuovo ospite, ma in realtà da molti di noi conosciuto,
è il dott. Luca Pistorelli, che è Giudice delle Indagini Preliminari al Tribunale
Ordinario di Milano. Io direi, senza perdere ulteriormente tempo, di dare la
parola al dottor Ennio Fortuna per l’introduzione.
DOTT. ENNIO FORTUNA
Io cercherò, perché mi è stato particolarmente raccomandato, di parlare poco, e
per far questo ho redatto una specie di traccia scritta, da cui ovviamente mi
discosterò, ma fino ad un certo punto. Sarà la quarta o quinta volta, forse la
sesta, che, sempre a richiesta della Camera Penale Veneziana, che
evidentemente pensa o spera di mettermi in difficoltà, mi occupo del problema
del rapporto tra difesa e favoreggiamento. Riconosco che l’argomento mi ha
sempre coinvolto, direi anche emotivamente. Tutti mi conoscete, e sapete che
penso da sempre che il cammino della giustizia, specialmente quello della
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giustizia penale, è assolutamente impossibile se manca un accordo franco e
leale tra Giudici e Avvocati, anzi, precisiamo, tra Magistrati e avvocati; su che
cosa? Ovviamente sulle reciproche competenze e sui rispettivi ruoli. Io anticipo
subito il mio pensiero, proprio per parlare il meno possibile, avvertendo che
almeno una parte dell’attuale anomalia dei rapporti, chiamiamola
incomprensione, tra queste due componenti dell’asse della giustizia, Avvocati e
Giudici, dipende proprio dall’ambiguità, direi genericità, ma soprattutto
ambiguità della fattispecie dell’art. 378 c.p., che secondo me andrebbe riscritta e
comunque rivista e chiarita. Io credo che una figura così sia fatta apposta per
ingigantire gli equivoci, che sono già tanti, e le iniziative scorrette e debordanti,
non solo da parte degli Avvocati, ma anche da parte dei Giudici. L’ultima volta
che ho parlato di questo argomento, se non ricordo male, è stato proprio in
questa stessa sala, me lo ricordo vagamente, direi molti anni fa; c’era già il
nuovo Codice, mi ricordo che ne parlammo apposta, ma mancava ancora, era in
fase di progetto la legge sulle investigazioni difensive e soprattutto mancavano
le regole del giusto processo. Allora mi capitò proprio, chiudendo, non mi
ricordo se era la relazione principale oppure la relazione di sintesi, come mi
capita spesso di fare, di parlare di una - all’epoca era famosa, poi non se n’è più
sentito parlare - proposta di legge, che però era molto propagandata, che
pretendeva di delimitare normativamente le aree di influenza o di operatività tra
diritto di difesa rispetto alla fattispecie penale.
Io dissi allora, e confermo oggi, che la proposta era inutile, e anche pericolosa,
perché di sicuro non avrebbe eliminato gli equivoci, e forse avrebbe autorizzato
iniziative anche più spregiudicate di quelle che già allora lamentavamo.
D’altra parte, ed era una seconda proposta, forse ancora più interessante
dell’altra, ma non meno sbagliata, c’era il progetto di esentare l’Avvocato da
ogni pena invocando un’estensione dell’art. 384 c.p.. A questo proposito mi
sono dichiarato decisamente contrario, soprattutto per una ragione ideologica e
deontologica. Sono sempre di questo avviso, e chi mi conosce sa bene che sono
sempre franco, e non vado mai cercando di nascondermi dietro un dito.
Una proposta del genere, se diventasse legge, trasformerebbe il processo in una
lite continua, senza esclusione di colpi, non solo tra Pubblico Ministero e
Avvocati, ma – ed è l’aspetto che in genere gli Avvocati non considerano - tra
gli stessi Avvocati, se di opposto schieramento. Basterà pensare a quello che è
stato il processo del Petrolchimico: avessimo avuto una norma del genere, di
sicuro, avremmo avuto liti e probabilmente risse con violenza tra Parte Civile e
Difesa. Io penso che non ce ne sia proprio bisogno, perché, se si fa un’analisi
del Codice, intendo quello di Procedura Penale, le aree di intervento e di
operatività tra queste due prospettive sono, secondo me, già benissimo separate:
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dove c’è la difesa, e per difesa intendo esercizio professionale tipico della
professione forense nel processo penale, non può esservi certamente
favoreggiamento.
Oggi la difesa con le investigazioni difensive - naturalmente si potrebbe aprire
un amaro capitolo sulle investigazioni difensive, scelta tipica per ricchi, alle
quali io sono in teoria decisamente contrario, ma ormai c’è e non ci possiamo
fare nulla - può arrivare tranquillamente molto avanti, anche senza limitare o
chiarire la fattispecie penale contrapposta, il 378.
Altro discorso è lo sforzo, lasciando perdere la precisazione dell’area di
intervento della difesa, da smuovere nel senso di chiarire una figura come il
378. E qui sparo a zero,si tratta di una figura che più enigmatica e ambigua non
potrebbe essere: tutto si può discutere del 378. Io penso che se si deve fare
qualcosa sul piano legislativo - lasciamo perdere la difesa, tanto più che chi
legge il Codice capisce benissimo quale sia la difesa tipica, anche senza
rievocare celebri definizioni come quella di De Marsico, che ogni tanto
bisognerebbe riscoprire, del Difensore consorte dell’imputato, ma esiste anche il
difensore della Parte Civile, non dimentichiamocelo mai - ripeto, se è necessario
invocare un intervento legislativo, lo si può o forse si deve fare solo sulla figura
del 378. Questa tra l’altro risulta, a mio giudizio, scritta, concepita, pensata e
realizzata solo in rapporto al difensore, parliamo del difensore dell’accusato
ovviamente ma solo per le situazioni più classiche, dove in realtà le
problematiche o sono assenti o sono relative, mai drammatiche.
Entro subito in medias res, spiegando quello che intendo dire con questa
affermazione. Nei processi normali, dove non c’è particolare esposizione, dove
non c’è passione, non ci sono, direi, problemi di rapporto; cioè in un processo di
normale routine, non capita mai di vedere il difensore che si abbandona ad
iniziative spregiudicate, e tanto meno il Pubblico Ministero che si abbandona
allo strumento penale per impedirlo. Noi però, ed è questo il problema, e oggi
l’occasione io stesso l’ho provocata per parlare di certi processi, di certi
interventi secondo me sbagliati del Pubblico Ministero, ma anche di certi
interventi direi da bocciare dei difensori, dobbiamo tener presenti i processi per
fatti delittuosi gravi e gravissimi. Pensate ai processi per omicidio, per strage,
dove c’è la tensione, dove c’è la passione, non solo difensiva; ma, se pensate a
un imputato che rischia l’ergastolo, posso capire l’Avvocato che esagera e
posso capire anche il Pubblico Ministero che esagera a sua volta per impedirgli
ogni iniziativa scorretta C’è questa tentazione di strafare sia da parte della
Difesa, sia da parte dell’Accusa, attenzione, sia pubblica che privata, perché
anche se non ne parliamo mai, anche la Parte Civile può abbandonarsi a
iniziative scorrette. E’ qui, soprattutto con riflesso e con riferimento a questo
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tipo di processo, che Giudici e Avvocati e Avvocati di schieramento opposto
rischiano di oltrepassare ogni confine deontologico e di porre in crisi lo stesso
processo; ed è qui soprattutto che – lo proverò fra un attimo, se mi resta ancora
qualche minuto – l’art. 378 c.p. rivela tutte le sue carenze; è qui soprattutto che
il Difensore ricorre all’investigazione privata quando se lo può permettere, e ad
iniziative non sempre ortodosse; ed è qui che il Pubblico Ministero reagisce
ricorrendo, secondo me, spesso sbagliando, allo strumento penale. Devo dire,
che la mia esperienza mi dice che non sempre questo avviene correttamente. Gli
Avvocati, sono frasi ad effetto, le riporto perché servono a farci capire, dicono
che si trovano tra l’incudine dell’art. 378 c.p. e il martello dell’art. 380 c.p.: può
essere infatti commesso un reato di favoreggiamento, ma se non c’è il
favoreggiamento c’è qualcuno che li può accusare di patrocinio infedele; e io in
altre occasioni ho replicato dicendo che anche noi come PM ci troviamo nella
stessa alternativa: art. 328 c.p. se si fa troppo poco, art. 323 c.p. se si, esagera si
fa troppo. Siamo tra incudine e martello anche noi. Io, però, devo solo
introdurre il discorso, e quindi mi limito ad osservazioni di carattere
generalissimo, senza togliere lo spazio ai relatori.
La prima mi sembra, e direi che rientra tipicamente nel mio ruolo, è
deontologica, direi doppiamente deontologica, nel senso che è una
raccomandazione che rivolgo con la massima convinzione e con pari peso ai
difensori, ai Magistrati del Pubblico Ministero, ai Giudici.
La raccomandazione può essere questa: evitiamo per favore – Venezia è un
ambiente abbastanza ideale da questo punto di vista, ma io sono sempre stato
fortunato perché dappertutto, dove sono stato, i rapporti tra Giudici e Avvocati
sono sempre stati ideali, a Venezia come a Bologna, addirittura a Firenze erano
idilliaci – iniziative spregiudicate, anche se suggerite, inculcate dalla passione.
Il Pubblico Ministero a sua volta cerchi di evitare, per reazione il ricorso allo
strumento penale, se proprio non è indispensabile. Entrambe le parti, gli uni e
gli altri, ricordino gli obblighi deontologici, la lealtà e la correttezza. Questa era
una delle illusioni che molti Avvocati si facevano prima del nuovo processo.
Col nuovo processo accusatorio siamo a posto così si sentiva dire. Col cavolo!
Scusate l’espressione. Siamo peggio! Col processo accusatorio lealtà e
correttezza dall’una e dall’altra parte sono più importanti di prima, e
sicuramente sono più imprescindibili nel processo forte, quello dove si agita la
sorte dell’imputato, l’ergastolo o la reclusione fino a 30 anni, piuttosto che in
quello normale, e a maggior ragione qui deve valere il dialogo, la correttezza, la
lealtà. La difficoltà e la passione che la conseguente tensione non devono
occultare né limitare la cordialità, e comunque, se questa manca, l’educazione.
Ognuno faccia il suo dovere fino in fondo, ma senza sconfinare.
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La seconda raccomandazione è in realtà un memento: ecco, prima di denunciare
un reato perché il Pubblico Ministero è scorretto o prima di esercitare un’azione
penale contro un Avvocato perché si è comportato male, ricordiamoci, cosa che
quasi mai ricordiamo, che c’è anche l’iniziativa disciplinare. Io purtroppo ho
fatto grande esperienza di questo, ma riguarda noi ovviamente, faccio spesso il
difensore davanti al Consiglio Superiore della Magistratura. Il Consiglio
Superiore, contrariamente a quello che si dice e si scrive sui giornali, gli
Avvocati dovrebbero saperlo, ma in genere queste cose non le sanno, in
generale severissimo, è difficilissimo scamparla. Io sono del parere, lo dissi
l’altra volta, credo proprio in questa sala, che sarebbe ora che gli Avvocati
capiscano che l’intervento disciplinare anche davanti al Consiglio dell’Ordine è
essenziale per tenere ferma questo difficile---. Il giorno in cui i Consigli
dell’Ordine diventassero severi, non dico come il Consiglio Superiore, ma
quasi, le cose andrebbero molto meglio. Ma, prima di arrivare all’azione penale
o al reato, ricordiamoci che esiste questa strada. Dobbiamo provarla – Potrebbe
funzionare! Il terzo passo è proprio quello che dobbiamo fare: riguardiamo questo 378, è
una miniera - io farò qualche breve cenno per arrivare a qualche conclusione,
lasciando poi la parola agli altri - è una figura ambigua ho detto e confermo,
generica, che permette ed agevola qualunque iniziativa penale. Tutto può essere
favoreggiamento: il difensore è un favoreggiatore obbligato, legale, previsto
dalla legge, però spesso si trova ad un bivio –ma -----il Pubblico Ministero che
esercita l’azione penale,------ spesso un’iniziativa fallace e che si risolve,
purtroppo, lo dico per l’istituzione, in una sorta di boomerang. Il Difensore
viene spesso assolto con compromissione della credibilità della giustizia.
Andiamoci piano! E qui di Pubblici Ministeri purtroppo ce ne sono pochi, gli
altri, quelli che ci sono, non hanno bisogno di queste sollecitazioni perché li
conosco e so che la pensano come me.
Ma, se noi depuriamo questa ambigua figura da ogni incertezza, da ogni
eccesso, noi otteniamo subito due risultati: rendiamo più tranquilla la vita del
difensore, che saprebbe fin dove può arrivare, perché questo è lo scopo della
norma penale, se è scritta bene e concepita bene; ma anche quella del Pubblico
Ministero e del Giudice, che potranno reagire solo a ragion veduta, senza
sconfinare.
Mi raccomando, questa è una cosa a cui tengo particolarmente: senza esagerare
e senza sbagliare. In materia di favoreggiamento del difensore le sentenze sono
quasi tutte sbagliate, vedo sempre che c’è un’esagerazione o nell’Avvocato, che
sollecita o adotta iniziative criticabili, o spesso del Pubblico Ministero, che
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promuove azione penale perché non sa cos’altro fare tutelare l’istituzione, e
spesso sbaglia.
Mi limito adesso brevemente a commentare qualche sentenza tra le ultime,
quelle che ho trovato: Tribunale, Corte d’Appello e Cassazione ovviamente.
Però la più interessante a mio giudizio, anche perché è una delle ultime, è una
sentenza del Tribunale di Torino GIP di Torino - ed è una sentenza di
straordinario interesse che è stata aggredita, direi, da parte degli Avvocati. Io ho
letto almeno 3 o 4 articoli contro questa sentenza, che invece ritengo giusta.
Attenzione, è questo un argomento che mi sta particolarmente a cuore, perché
avevo già avvertito gli Avvocati le volte in cui ho parlato di questa questione:
cioè quando si hanno maggiori diritti, si hanno anche maggiori poteri, ma anche
maggiori responsabilità. Allora la massima recita così: È falsità ideologica ex
art. 479 c.p. - quindi il difensore pubblico ufficiale – allorquando il difensore,
redigendo un verbale di informazione testimoniale - e qui credo che la
tentazione sia fortissima, e non mi riesce di immaginare un Avvocato che non
abbia mai subito la tentazione di fare questo, bisogna avere la capacità di
fermarsi, “omette di verbalizzare alcune dichiarazioni della persona ascoltata,
perché contrarie all’interesse difensivo”. Cioè interrogando un testimone che si
suppone favorevole al mio cliente accusato, questi dice qualche cosa a favore,
ma poi dice qualcosa che non va bene, l’Avvocato sorvola allegramente sulle
cose contrarie. Lo stesso difensore – poi aggiunge la sentenza, ed è qui che
soprattutto ho colto gli strali della critica, ma una critica abbastanza interessata
che proviene soprattutto dai penalisti – risponde anche di favoreggiamento in
concorso materiale – il discorso porterebbe molto lontano – se il verbale è
esibito al Giudice. Quale è la tesi? Questa sentenza mi sembra, da come è posta,
direi semplicissima, addirittura lineare, forse qualcuno potrebbe dire che è
superficiale. L’unico problema che potremmo ravvisare è se il difensore possa
rivestire i panni del pubblico ufficiale. Ho visto recentemente qualche articolo
che si è occupato della questione; anzi meglio sono due le teorie conosco: sono
soprattutto io che sostengo che il difensore d’ufficio potrebbe essere individuata
come persona incaricata di pubblico servizio in genere, e Scatarone secondo il
quale il difensore rimane comunque persona che esercita un servizio di pubblica
necessità.
Se fosse vero quello che dice Scatarone, ma secondo me sbaglia, il difensore
che omette la verbalizzazione di circostanze non favorevoli al proprio assistito e
esibisce i verbali così redatti al Giudice o al P.M., risponderebbe di
certificazione falsa, 481, se non sbaglio, al contrario il Giudice di Torino dice
che è un falso di cui all’art. 479 c.p..
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Però se guardiamo il Codice, attenzione, io penso che il Giudice abbia
pienamente ragione: avete voluto, hanno voluto che il difensore facesse o il
colloquio privato non documentato e va tutto bene, o la relazione, oppure
addirittura la verbalizzazione. Il Codice di Procedura Penale, art. 391 c.p.p.,
rinvia al libro terzo con riguardo alle modalità di documentazione e quando si
documenta, si redige un verbale - e la dottrina è pacifica e c’è anche una
sentenza che adesso ometto perché sennò non finirei più -, diventa quel classico
caso del privato che esercita pubbliche funzioni. Pensate all’art. 83 del Codice
di Procedura Civile, il difensore che certifica l’autografia di una firma che a
volte ha messo lui – È sempre persona esercente servizio di necessità o diventa
pubblico ufficiale se-riferisce nell’atto che la firma è stata apposta alla sua
presenza? Io credo che la posizione del Giudice sia quanto meno rispettabile.
Possiamo discutere, ma credo sia rispettabile.
Ma il problema grosso è il favoreggiamento. Gli Avvocati penalisti che si sono
occupati di questa sentenza, ho letto almeno due o tre articoli, dicono che il
difensore non commette favoreggiamento, e l’argomento è interessantissimo,
perché si richiamano, così facciamo anche un piccolo excursus
sull’investigazione difensiva, all’art. 391 octies c.p.p.. Il difensore, secondo
questa tesi, avrebbe il potere di non presentare la dichiarazione verbalizzata al
Giudice o al Pubblico Ministero; tesi anche questa secondo me contestabile,
perché è vera solo per la fase delle indagini preliminari. Chi legge l’art. 419 c.p.
sa che questo potere del difensore, ma potremmo discutere per settimane, cessa
con l’udienza preliminare. Se le investigazioni difensive sono successive queste
vanno tutte versate al Giudice. Se fosse così, dicono i penalisti, non si può fare
favoreggiamento, perché, se si può non presentare tutto il verbale, allora si può
anticipare e ---- questa mia posizione, praticamente in un’omissione verbale
Beh, io dico che una tesi del genere secondo me ci porterebbe alla fine e farebbe
veramente dei nostri rapporti una battaglia continua, tipo la battaglia di
Okinawa. La verbalizzazione corretta è una sola; capisco che verbalizzare e non
verbalizzare, quindi omettere circostanze, può essere difficile e la buona fede va
sempre accertata, perché spessissimo sbaglia anche il Pubblico Ministero o il
Giudice verbalizzando e saltando qua e là, tutti sappiamo come si fa un verbale;
ma se si omette la verbalizzazione di una dichiarazione di persona ascoltata e lo
si fa apposta per occultare questa circostanza, e presentare quindi al Giudice una
specie di “frittatina” fatta apposta, a me sembra molto, ma molto difficile dire
che non c’è il favoreggiamento. Ecco perché questa tesi, che mi riporterebbe
alla tesi principale che molti Avvocati ancora sostengono, ma anche questa è
sbagliata, che il difensore avrebbe tutto il diritto di raccogliere solo gli elementi
favorevoli, in una specie di scontro col Pubblico Ministero. Il Pubblico
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Ministero raccoglie i suoi e il difensore raccoglie i suoi, solo quelli a favore. Se
accettiamo questa teoria noi precipitiamo in un abisso! Io voglio fare soprattutto
un discorso deontologico, perché anche il Pubblico Ministero che ometta una
verbalizzazione di una circostanza favorevole alla Difesa, secondo me
commette lo stesso reato. Avete voluto la parificazione, la subite fino in fondo,
e questo potrebbe essere secondo me un altro problema che non posso
affrontare e che mi porterebbe molto lontano. Tentativo, finché l’omessa
verbalizzazione non viene presentata al Giudice o al P. M., sempre per la fase
delle indagini preliminari; tentativo, perché questa figura tra i tanti problemi ha
anche questa dell’incriminabilità o meno per il tentativo, e io sono di quelli che
dice che questa figura è frazionabile, quindi il tentativo è ammissibile, e finché
non viene presentata il fatto di reato rimane allo stadio del tentativo. Credo che
non avrei nessun dubbio a confermare questa posizione del Giudice, lo dico con
molta chiarezza;
Il Giudice di Torino qui ha perfettamente ragione, e faremmo molto meglio a
darne atto subito.
Altro problema, che non posso affrontare per ragioni di tempo, sarebbe se in
questo caso potremmo parlare di assorbimento, che mi sembra la cosa più seria,
cioè dire: c’è il falso in atto pubblico, 479 c.p., o per chi preferisce 481 c. p., e
col 61 n. 2 c.p. , per chi lo ammette, io lo ammetto, ma non molti lo ammettono,
potremmo assorbire il favoreggiamento nel falso. Ma in ogni caso, secondo me,
mai arrivare allo sviamento delle indagini, mai arrivare alla legittimazione della
falsità o dell’ommissione. Non sarebbe più difesa tecnica, ma arbitrio. Di questo
passo poi legittimeremmo anche la falsità, perché se la tesi è questa, se posso
omettere, poi posso anche falsificare, far dire al teste esattamente l’opposto,
sperando che il teste si sbagli e firmi lo stesso, e arriveremmo alla lite totale.
Seconda sentenza che commento brevemente, la Corte d’Appello di Brescia,
sentenza recentissima, 2005 – Marco Zanotti ne sa qualcosa e anche Vassallo,
che se ne sono occupati, credo -, presenta due riflessioni: una è un parere
assolutamente ineccepibile, sulla quale dovremmo essere tutti d’accordo, l’altra
assolutamente sbagliata, e va detto. La prima: un difensore viene contattato da
un teste d’accusa che si dichiara disponibile a ritrattare; ha il diritto di
ascoltarlo, di verbalizzarlo, di chiedere il memoriale o no? La Corte d’Appello
risponde: sì. E aggiunge, con un’affermazione che mi trova totalmente
d’accordo, che è deontologicamente obbligato a farlo, ma attenzione è una cosa
molto pericolosa, però è deontologicamente obbligato a farlo, quindi bisogna
lodare la Corte d’Appello di Brescia per il coraggio che ha avuto. Come anche
può e deve acquisire il memoriale che il teste gli propone, salvo la valutazione
dell’opportunità di produrlo o meno. Questa è la prima massima della Corte
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d’Appello di Brescia, penso che dovremmo essere tutti d’accordo. E dovremmo
essere d’accordo anche sulla seconda, che è uno sbaglio clamoroso. La Corte
dice testualmente, non ho voluto metterci neanche una riga di mio: “Non si
condivide la tesi – che è la tesi della difesa – secondo cui l’art. 378 c.p.
presuppone necessariamente la falsità del contenuto del memoriale, in quanto –
attenzione a questo passaggio, perché se condividiamo questo rimettiamo in
discussione tutto – la figura del reato – parliamo del 378 c.p. – si limita a
richiedere semplicemente l’aiuto ad eludere le investigazioni..”; siccome non ho
tempo di commentare questa cosa dopo, io dico che eludere significa falsificare,
frodare trova la matrice civilistica, nel 1414 c.c., “..ovvero l’inquinamento delle
prove nel procedimento, ed è indubbio - ecco l’affermazione sconcertante della
Corte - che le dichiarazioni in parole, cioè una dichiarazione vera, può
comportare la conseguenza dell’elusione indipendentemente dalla veridicità del
memoriale o della dichiarazione”. Cioè posso favorire un imputato anche
dicendo la verità. E’ possibile condividere questa cosa. Per fortuna ho trovato
una sentenza del mio amico Troiano, e questa volta passiamo in Cassazione,
“Se per favoreggiamento – è una Cassazione recentissima - basta l’attitudine
allo scopo – questa è giurisprudenza corretta, - e non occorre il suo
conseguimento, posso favorire senza ottenere il risultato del favoreggiamento.
E’ però indispensabile - ecco la luce nuova - la condizione che per atto idoneo
al favoreggiamento si intenda il comportamento che in qualsiasi modo abbia
provocato o provochi un’alterazione del contesto fattuale, cioè del quadro
probatorio. In caso contrario – attenzione perché questo è un passaggio
illuminante – diventa concreto il rischio di reprimere comportamenti di
semplice programmazione o di mera promessa di aiuto illecito” sarebbe un fatto
prodromico, e qui, alla fine, la botta finale: “..venendo ad eludersi”, forse
Pasquale Troiano avrebbe fatto meglio a levarlo questo punto, perché propone
problematiche molto sottili che forse non è il caso di affrontare adesso, “il
principio di offensività ormai da ritenersi costituzionalizzato”, il che è
discutibile. Però questa sentenza mi sembra un vero faro, perché secondo me è
evidente il rapporto, ma anche l’interconnessione, tra tre problematiche tipiche
del diritto penale, le tiene tutte e tre presenti e tutte e tre le centra e le mette in
rapporto in maniera favolosa, secondo me grandiosa: oggetto giuridico, la tutela
della prova, la tipicità, cosa è scritto nella figura, e l’offensività. Insomma la
figura, dice Troiano, esige l’alterazione, il mendacio o altrimenti l’ostacolo. Ciò
non esclude che vi possa essere qualche caso di favoreggiamento dicendo la
verità, ma allora questa verità deve essere tesa, volta ad ottenere, ad esempio
l’intralcio del processo da altri punti di vista, per esempio: cerco di far sentire,
presentandolo in modo fraudolento, un testimone che racconta sì la verità, ma
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mi fa perdere 6 mesi per arrivare alla prescrizione, cose del genere. Ma ci deve
essere di sicuro un artificio, non si può favorire, aggiungo io, nessuno, se si dice
la verità, soprattutto se la si dice speditamente, senza infiggimenti e senza
secondi scopi. La verità, ma questo è Fortuna, non è più Troiano, è il contrario
dell’elusione, non c’è e non ci può essere sviamento. Se qualcuno avesse dei
dubbi, non ho tempo per farlo io, andate a rivedere tutte le figure che precede
l’art. 378 c.p. (artt. 371/372/373/374 bis/375/376/377/377 bis e via), troverete
sempre che il centro, la nota caratterizzante delle figure, è la falsità o
l’omissione. Se dico la verità puntuale senza infiggimenti, senza secondi scopi,
speditamente, senza cercare il ritardo, non ci può essere favoreggiamento. E
chiudo subito dicendo quella che secondo me è una cosa da fare: malgrado
questa figura esista da circa 75 anni, nessuno si è ancora accorto che questa
figura tutela solo la Polizia, tutela solo le istituzioni, non la calunnia. Noi
nell’amministrazione della giustizia abbiamo una sola figura a tutela
dell’innocenza: la calunnia e basta. Se volete mettiamoci anche la simulazione
di reato e l’autocalunnia, ma tutte le altre norme tutelano, sembra, un passaggio
del “Codice Da Vinci”, tanto per citare un romanzo che ormai tutti leggono:
“Sta attento – dice la protagonista all’altro protagonista mentre camminano per
Parigi diretti verso il Louvre – che la legge francese non protegge l’accusato,
protegge la Polizia”. Pensando all’art. c. p. 378 io ho concluso nello stesso
modo: protegge l’istituzione, protegge la Polizia, non l’accusato. Ma se io, dopo
che il processo è iniziato, mando qualcuno dalla Polizia Giudiziaria a
denunciare una circostanza falsa a carico dell’imputato, faccio forse qualcosa?
Ci avete mai pensato? Non faccio niente, non c’è nessuna norma che punisca un
comportamento del genere, che è certamente più grave di quello di un Avvocato
che proteggendo il suo cliente cerca di salvarlo dall’accusa. Io dico che questo
art. 378 c. p. bisogna rivederlo anche alla luce del giusto processo, della parità
delle armi e di tutto.
Ecco, chiudo invocando una sentenza vecchia, invece, della Cassazione. Vi
ricordate una volta, che si parlava dell’Avvocato collaboratore del Giudice?
C’era una celebre sentenza degli anni ’80, io l’ho commentata moltissime volte,
in cui l’Avvocato silente, un Avvocato un po’ artificioso, per la verità, che non
approvo assolutamente, che assiste ad una ricognizione di persona, e mi ricordo
ancora un articolo, l’art. 361 del vecchio Codice, in cui l’imputato, ma si dice, si
supponeva, almeno lo diceva il Pubblico Ministero, d’accordo con il Difensore,
aveva sostituito la persona da riconoscere; gli Avvocati dicevano che questo era
legittimo. Ma la Cassazione, facendo una sentenza giustissima, ha detto una
corbelleria pazzesca, dice: “L’Avvocato risponde di favoreggiamento perché
avrebbe dovuto denunciarlo”, questo è il punto. L’Avvocato che ha organizzato
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questa roba andrebbe non solo condannato, ma cacciato dai confini nazionali,
non c’è dubbio su questo; però la Cassazione, già col vecchio Codice, apposta
ho citato gli anni ’80, non avrebbe dovuto spingersi a dire che l’Avvocato ha
l’obbligo di collaborare col Giudice; l’Avvocato collaboratore del Giudice lo
abbiamo ormai, direi, superato come principio; il nuovo Codice, posto che
questo sia un Codice nuovo, ho i miei dubbi in materia, posto che questo Codice
sia più illuminato e più garantista dell’altro, ho i miei dubbi anche su questo,
almeno questo problema lo ha eliminato. L’Avvocato è l’antagonista del
Pubblico Ministero, non il collaboratore del Giudice. E vedete, questa sentenza
dell’86, che viene subito dopo quest’altra, dice che: “Il confine tra Difesa e
favoreggiamento consiste nel coinvolgimento fattivo.. in azioni svianti il corso
del processo - attenzione, che ci riporta al punto dove abbiamo cominciato – ed
estranee alla tipicità dell’esercizio del mandato. E’ sempre la falsità della
notizia e quindi della prova il momento supremo che separa il confine del lecito
dall’illecito”. Vi ringrazio.
AVV. EUGENIO VASSALLO
Grazie. Adesso abbiamo la relazione della Commissione di Studio del Diritto
Penale. La parola al Presidente della Commissione Avv. Renato Alberini.
AVV. RENATO ALBERINI
Il tema che oggi ci occupa come pomeriggio di studio è un tema che ha
suscitato subito grande interesse all’interno del Consiglio Direttivo della
Camera Penale, in particolar modo da parte di chi rappresenta e fa parte delle
Commissioni di Studio. E’ un tema che, come ha detto il nostro Procuratore
Generale, non è mai sufficientemente approfondito, nel senso che ha un
interesse ciclico che può derivare o dall’intervento normativo, che ha
modificato quelle che sono le possibilità di intervento del Difensore, come per
esempio nell’ambito delle nuove norme sulle indagini difensive, con tutte le
problematiche cui ha accennato il dottor Fortuna, e soprattutto e purtroppo
quando accadono episodi di cronaca giudiziaria che richiamano l’attenzione
degli avvocati, perché, ogni qualvolta un avvocato viene colpito o viene
addirittura raggiunto da un provvedimento di custodia cautelare in carcere, si
sente colpita tutta la categoria e quindi questi temi, che non sono mai
sufficientemente approfonditi, tornano alla ribalta e sono sempre più vivi e più
presenti e soprattutto sempre più oggetto di una evoluzione dottrinale e
giurisprudenziale. E’ per questa ragione che questo convegno è stato
organizzato e la vostra partecipazione ci fa molto piacere perché vuol dire che la
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Camera Penale Veneziana ha intuito quanto attuale e importante sia questo
tema.
Le Commissioni di Studio della Camera Penale si sono attivate notevolmente,
parlo di Commissioni al plurale in quanto già il titolo di questo convegno
evidenzia come questo nostro tema sia un tema che riguarda sia il diritto
processuale che il diritto sostanziale. Di conseguenza la Commissione di Studio
di Diritto Penale Sostanziale presieduta dalla collega Avvocato Fabiana
Danesin, unitamente ai componenti della Commissione di Studio del Diritto
Processuale presieduta dall’Avvocato Marino De Franceschi, hanno lavorato
per poter introdurre questo tema. Abbiamo avuto l’onore quest’oggi di avere
un’ulteriore introduzione ad ampio raggio del nostro Procuratore Generale, ma,
dicevo, a questo punto una breve relazione per introdurre meglio i temi su cui
poi i nostri illustri relatori potranno intervenire.
Passo quindi la parola all’Avvocato Fabiana Danesin, che cercherà, pur con i
problemi di tempo che abbiamo e l’importanza degli argomenti, di esporre
quello che è il risultato di questo lavoro a quattro mani tra le varie
Commissioni.
AVV. FABIANA DANESIN
Ringrazio innanzitutto l’Avvocato Alberini della sua introduzione. Come avete
sentito io sono il Presidente della Commissione di Studio di Diritto Penale
Sostanziale e comunque, come vi ha già anticipato, a questa relazione abbiamo
collaborato in più Commissioni. Quindi ho il piacere di ringraziare
personalmente i componenti della mia Commissione, che sono l’Avvocato
Paola Loprieno, Isabella Da Re, Mariangela Semenzato, Alessandro Rampinelli
e Luigi Ravagnan, oltre che ovviamente, e non da ultimo, il Presidente della
Commissione Studio di Diritto Penale Processuale l’Avvocato Marino De
Franceschi.
Ma proprio per non portare via ulteriore tempo io vado subito a dirvi qual è
stato e qual è il nostro lavoro.
Tutti gli Avvocati sanno che il nostro operato e la nostra professionalità hanno
dei canoni imprescindibili ai quali tutti noi dobbiamo attenerci; ci stiamo
riferendo al Codice Deontologico che, ahimè, abbiamo scoperto, non molti nel
loro complesso conoscono e che fortunatamente è diventato oggi anche materia
di esame nel nostro esame di Stato.
Fatta comunque questa premessa e tornando al tema che ci occupa, una norma
in particolare del Codice Deontologico deve essere sempre tenuta in debito
conto, ci riferiamo all’art. 36, il quale in sostanza impone al difensore di
difendere gli interessi della parte assistita nel miglior modo possibile, nei limiti
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del mandato e nella osservanza della legge e dei principi deontologici.
Osservanza della legge quindi, ma nel rispetto dell’interesse della parte assistita,
che deve essere lo scopo primario che deve guidare tutto l’operato del difensore.
Non vogliamo in questa sede tediare con già note dissertazioni storico–
giuridiche per ricordare come sia conquista di civiltà l’avere garantito
l’autonomia e la fondamentale importanza del ruolo del difensore nel processo,
iter che si è sempre più sviluppato ed arricchito, basti pensare alle indagini
difensive che, se da un lato rivelano tutta la loro importanza per un’efficiente
difesa, dall’altro però, come vedremo, possono presentare delle insidie e sarà
questo infatti uno dei temi che il seminario si propone oggi di sviluppare. E’
certo meno semplice di quanto appaia individuare il limite dell’essenza stessa
dell’attività del difensore se si considera quanto ampiamente possa interpretarsi
il termine interesse. Ancora più complesso risulta oggi contemperare tale
esigenza e finalità con il rispetto della legge che la norma deontologica richiama
a fondamento e delimitazione delle azioni consentite.
Si è autorevolmente sostenuto che il difensore abbia l’obbligo di contribuire ad
una sentenza giusta, giungendo ad ascrivere all’ipotesi di favoreggiamento tutte
quelle iniziative più marcatamente idonee ad influire sul procedimento di
formazione e raccolta della prova. Ben oltre, come vedremo, la fattispecie
astratta è riferita alle investigazioni o ricerche richiamate dall’art. 378 del
Codice Penale.
Su questo particolare aspetto noi riteniamo vada riaffermato che un difensore
nello svolgimento della sua attività professionale debba sempre tenere presente
che fine ultimo del suo operato non è arrivare ad una sentenza giusta, compito
questo che probabilmente spetta ad altri, in quanto il processo mira al
raggiungimento di una verità che non è comunque quella assoluta, ma è quella
processuale. Ma non vogliamo qui fare della filosofia del diritto anche perché si
rischia di andare fuori tema. Quello che si vuole sottolineare è come in un
processo di parti il compito cui è chiamato il difensore è esclusivamente quello
di perseguire, tutelare ed affermare l’interesse del proprio assistito, sempre nei
limiti della legge. Purtroppo sempre più sovente il difensore si è visto ostacolato
in questa sua attività, basti pensare a quanto recentemente – come ricordava
prima il nostro Presidente Avvocato Vassallo - accaduto ad un Avvocato di
Potenza. Infatti spesso si sono verificati casi in cui il difensore, nello
svolgimento della sua attività difensiva, meglio, nell’esercizio dei suoi diritti, si
sia visto lui stesso sul banco degli imputati, tacciato di avere commesso delitti
per attività da lui svolte nella tutela degli interessi del suo assistito. Nel caso
appena accennato è interessante sottolineare come l’Avvocato sia stato
addirittura sottoposto alla misura cautelare detentiva con l’accusa di avere
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concorso nel reato di associazione contestato al suo assistito. Altresì è
importante sottolineare anche quanto emerge in tema di rivelazione dei segreti
d’ufficio che nel prosieguo esamineremo.
Queste accuse sono gravissime, ma ancora più gravi si presentano se si pensa
che in tali situazione può facilmente imbattersi ciascuno di noi nell’esercizio
della nostra attività, pensando, come viene naturale, di tutelare gli interessi del
nostro cliente. Entrando maggiormente nel merito della questione ed
analizzando taluni delitti potenzialmente commettibili dal difensore emerge
primariamente l’ipotesi di cui all’art. 378, ovvero il delitto di favoreggiamento.
Tale ipotesi, come ben sapete, prevede che venga punito chi, fuori delle ipotesi
di concorso, aiuti taluno ad eludere le investigazioni dell’autorità o a sottrarsi
alle richieste di questa. Ebbene, dalla lettura della previsione codicistica di tale
fattispecie emerge con chiarezza come e quanto sia sottile il discrimen tra diritto
e delitto del difensore. Quante volte infatti ci troviamo a dare dei consigli al
nostro cliente in ottemperanza ai doveri professionali cui prima si accennava e
che potenzialmente potrebbero altresì aiutare il nostro cliente ad eludere le
investigazioni dell’autorità?
I problemi sono molteplici e molti di questi sono dovuti già a monte alla
formulazione della previsione legislativa in esame, la quale difetta, ci si
consenta, dei principi della tipicità e determinatezza. Il concetto di “aiuto”
infatti è dai contorni precari e fumosi, tanto che può ricomprendere le più
svariate azioni od omissioni. Per fare un esempio: nel caso in cui il difensore
riveli al proprio assistito l’emanazione dell’ordine di carcerazione da parte della
Procura, permettendogli eventualmente di darsi alla fuga, ci chiediamo:
commette o meno il delitto di favoreggiamento? In linea di massima è bene
sottolineare come non sia possibile, anche e proprio in forza della
indeterminatezza della previsione legislativa, dettare regole di ordine generale,
ma che si debba di volta in volta guardare la singola fattispecie concreta per
verificare se si sia realizzata quella sorta di “solidarietà anomala”, come più
volte indicato dalla dottrina e dalla giurisprudenza, tale da fare assumere al
difensore il diverso volto di indagato.
E’ altresì vero che, sempre in virtù della “elasticità” di tale fattispecie, la
giurisprudenza più attuale ha dato alla stessa un’interpretazione a dir poco
estensiva e che prevede il possibile configurarsi del delitto di favoreggiamento
anche ben oltre quanto espressamente e testualmente richiamato dalla norma.
Infatti, se in un primo momento ci si interrogava se la fattispecie prevista dal
378 si riferisse solo alle prime investigazioni della P.G., in una fase quindi non
ancora strettamente processuale o altresì anche a quelle del Pubblico Ministero,
questione poi risolta nel secondo senso, adesso, forzando i limiti di quanto
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previsto, si vuole indicare come oggetto giuridico e bene tutelato dal reato di
favoreggiamento sia l’integrità e la genuinità dell’acquisizione della prova, non
limitandosi quindi ad una mera fase di ricerca della stessa, ma addirittura di
assunzione al processo, in modo tale da ampliare l’applicazione della norma a
tutto l’iter processuale. Di più: talune pronunce hanno inteso dichiarare che
l’attività del difensore dovrebbe essere tesa al raggiungimento di una sentenza
giusta, definizione che se da un lato snatura completamente il dovere primo del
difensore, dall’altro si palesa in tutta la sua insidiosità per il rischio per il
difensore stesso di rendersi colpevole di qualche ipotesi criminosa, nel caso in
cui il suo operato non contribuisse a tale scopo. Avendo la Commissione scelto
di privilegiare la riflessione sull’aspetto deontologico del tema di oggi, anche
per non togliere appunto lo spazio agli interventi dei nostri relatori, richiamiamo
il preambolo del nostro Codice Deontologico secondo cui: “nell’esercizio della
sua funzione l’Avvocato vigila sulla conformità delle leggi e i principi della
Costituzione nel rispetto della convenzione per la salvaguardia dei diritti umani
e dell’ordinamento comunitario, garantisce il diritto alla libertà e sicurezza della
difesa, assicura la regolarità del giudizio e del contraddittorio”. Non vi sono
richiami, nel Codice, al dovere di concorrere ad una sentenza giusta, se non nei
limiti del rispetto delle norme superiori appena ricordate, che semmai devono
tendere ad un processo giusto. Si tratta di una situazione ai limiti del consentito,
nel momento in cui da un lato il difensore è gravemente minato nella propria
autonomia operativa, mentre dall’altro, ove decida di travalicare il limite, da noi
non condiviso, tracciato dalla più recente giurisprudenza, può essere
efficacemente tolto di mezzo con una facile accusa di favoreggiamento.
Si tratta di un profilo grave, anche se affrontato su un piano meramente
dogmatico, se consideriamo che la paralisi dell’azione difensiva si risolve nella
radicale negazione del principio del contraddittorio cui il processo penale è
informato, per espresso disposto costituzionale. E allora ci chiediamo e
chiediamo ai relatori di oggi: l’interpretazione del concetto di aiuto nelle
accezioni esemplificate può ed entro che limiti presentare profili di legittimità
costituzionale nel momento in cui conduce alla morte del contraddittorio e del
diritto di difesa? Infatti, dichiarare la sussistenza di un favoreggiamento
ogniqualvolta l’azione sia di per sé idonea ad incidere sulla formazione ed
acquisizione della prova anche in giudizio significa negare di fatto il diritto al
contraddittorio, che altro non è che diretta influenza delle parti processuali nel
relativo procedimento. Gli interrogativi sono molti e rischiano di moltiplicarsi
in difetto di parametri legislativi e testuali univoci.
A fronte quindi della prospettata paralisi dell’attività difensiva, tale per cui i
difensori, piuttosto di vedersi notificato un 415 bis come favoreggiatori dei
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propri clienti, preferiscono limitare la propria opera, venendo meno però,
secondo noi, ai principi cardini dell’attività difensiva, come più avanti vedremo,
si è da parte della più accorta giurisprudenza cercato di trovare sul piano
prettamente positivo delle soluzioni per salvare i difensori dalle accuse di
commissioni di delitti.
Ebbene, al di là delle ipotesi estreme in cui un difensore dia vitto ed alloggio ad
un latitante o quando, oltre a comunicare l’immediata notifica dell’ordine di
carcerazione, prepari la vettura affinché possa scappare, che vogliamo pensare
restino esempi di scuola, si sono intraprese più vie per cercare di distinguere le
ipotesi in cui il difensore eserciti un diritto e quando compia un delitto,
soprattutto relativamente alla funzione caratteristica del difensore di prestare
consiglio al proprio assistito.
Taluni hanno sostenuto che si possa applicare la scriminante dell’esercizio di un
diritto previsto dell’art. 51 del Codice Penale, mentre altri ne hanno negato la
necessità. Infatti, o il difensore si muove nei limiti di un contratto lecito di
mandato difensivo, ed allora non potrà che porre in essere comportamenti leciti,
oppure si muove esorbitando da tali limiti e realizzando condotte penalmente
rilevanti, ed allora non potrà certo invocare l’art. 51 in quanto egli opererà al di
fuori del titolo che lo legittima e che costituisce la fonte del suo diritto/dovere, e
di tale aspetto comunque parlerà più diffusamente e meglio di me il dottor
Delpino.
Altri sostengono invece che l’esercizio legittimo del mandato sia un fattore che
esclude già a priori la configurabilità della condotta tipica ed in questo senso
molti si sono soffermati sulla differenza data dall’acquisizione della notizia da
parte del difensore. Infatti si sostiene che laddove il difensore abbia avuto
contezza legittimamente della notizia poi rivelata al proprio assistito – si pensi
sempre al caso della comunicazione dell’ordine di esecuzione - non vi possa
essere reato, mentre laddove il difensore abbia acquisito la notizia
illegittimamente ovvero al di là dei diritti concessigli, allora vi sarà senz’altro il
favoreggiamento. Da parte di altri ancora si è criticata questa distinzione poiché
non capaci di ricomprendere tutte le possibili ipotesi, e si sono pertanto orientati
sull’importanza dell’elemento soggettivo per valutare se il Difensore abbia
voluto aiutare o semplicemente notiziare, com’è suo dovere fare, il proprio
cliente. Tante quindi sono state le proposte per uscire dall’impasse creatasi, che
necessariamente dovrà trovare una soluzione prima di tutto a livello codicistico,
in modo tale da permettere al difensore, che agisce nel rispetto della legge e
nell’esercizio dei suoi diritti, di non trovarsi a sua volta indagato per
favoreggiamento. Ciò anche in considerazione del fatto che un mero riferimento
al contenuto del mandato come limite del lecito non appare sufficiente, posto
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che il problema sembra ricondursi proprio alla definizione dei contenuti del
mandato stesso.
Purtroppo però molti altri ancora sono i casi in cui il confine tra diritto e
potenziale delitto del difensore diviene sempre meno preciso: importante è
chiaramente tutta la nuova disciplina delle indagini difensive che, nel momento
in cui dà dei diritti in più al difensore, contemporaneamente pone lo stesso in
una precaria situazione, passibile, anche in questo caso, di responsabilità penale.
Invero, la puntuale disciplina delle investigazioni difensive nel nostro Codice di
Procedura Penale è stata salutata con grande favore, ma ha destato altrettanto
allarme, in considerazione dei riflessi che non hanno tardato ad emergere sul
piano della responsabilità penale, oltre che della deontologia.
Di fronte ad alcune recenti pronunce in materia, la convinzione di alcuni di
avere finalmente dei parametri certi da affermare e garantire uno spazio di
liceità alla raccolta di elementi probatori da parte della Difesa, si rivela poco più
di un’illusione.
Molti colleghi ricorderanno che in un incontro organizzato dalla Camera Penale
Veneziana, all’indomani dell’entrata in vigore della novella sulle indagini
difensive, nel prendere atto che i nuovi poteri riconosciuti al difensore venivano
senz’altro a coniugarsi con maggiori responsabilità dell’esercente il mandato
difensivo, si paventava la possibilità che soprattutto con riferimento all’attività
di acquisizione di dichiarazioni ed informazioni ex art. 391 bis del Codice di
Procedura Penale potessero profilarsi rischi di condotte che, oltre ad assumere
rilevanza sul piano deontologico, potessero essere suscettibili di sanzione
criminale. Si sottolineava come la nuova normativa, nell’escludere all’art 334
bis del Codice di Procedura Penale un obbligo di denuncia gravante sul
difensore per i fatti di reato conosciuti nel corso dell’attività di indagine e nel
riconoscere al difensore un potere di certificazione e di autenticazione,
evocando tra l’altro come strumento di documentazione la forma del verbale,
offrisse il destro da un lato al riconoscimento in capo al difensore della qualifica
di pubblico ufficiale da altri non condiviso e dall’altro all’inquadrabilità degli
atti di investigazione difensiva nella categoria degli atti pubblici. Tanto con
intuibili conseguenze in ipotesi di non aderenza di quanto documentato a quanto
realmente riferito dal dichiarante o dall’informatore.
E si ricorderà come all’interno della Camera Penale Veneziana fosse prevalente
l’impostazione che considerava l’esposizione a simili rischi uno scotto
accettabile, ove la prassi applicativa avesse dato ragione alle opzioni
interpretative che, al cospetto della nuova normativa, si pronunciavano per
l’assoluta dignità del materiale probatorio procurato con le nuove forme dal
difensore e la sua equiparabilità a quello formato dalla Pubblica Accusa.
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Ebbene, a più di quattro anni dall’entrata in vigore della legge 397/2000, se per
un verso gli esiti delle investigazioni difensive sono sempre più apprezzati e
valorizzati dal Giudice, sia in materia de libertate che, e forse soprattutto, in
sede di giudizio abbreviato, appare palpabile la tendenza di certi uffici di
Procura e di taluni Giudici a contestare al Difensore il reato di falso in atto
pubblico e di favoreggiamento, connessi alle attività di cui all’art. 391 bis. Nota
a tutti noi è la sentenza del G.I.P. di Torino con la quale un collega è stato
condannato per non aver compiutamente riprodotto nel verbale di informazioni
ex art. 391 bis tutte le dichiarazioni della persona sentita, obliterando in
particolare alcuni passaggi contenenti, a parere del giudicante, elementi
sfavorevoli all’assistito.
Esaminare le problematiche affrontate nella decisione, nonché le perplessità che
essa genera in alcuni passaggi argomentativi, risulta incompatibile con le
finalità introduttive e di spunto agli interventi dei relatori cui è destinata la
presente relazione.
Certo si può dire che il quesito che costituisce il tema dell’incontro di oggi ben
può essere riferito, oltre che alle fattispecie storicamente più evocate del
favoreggiamento, soprattutto in materia di cautele personali o di subornazione
del teste, all’area delle investigazioni difensive e deve essere tenuto bene a
mente dal difensore, allorquando procede alla documentazione delle attività di
ricerca della prova che il Codice di Rito gli consente. Scrupolo vuole che, al
fine di fugare ogni dubbio e scongiurare qualsivoglia tentazione di contestare al
difensore una non genuina riproduzione di quanto acquisito dalle persone in
grado di riferire, si elevi ad imperativo l’impiego di adeguata strumentazione
fonografica o audiovisiva ad integrazione del supporto cartaceo, che la non
univoca formulazione dell’art. 391 bis comma 2 consentirebbe forse di non
considerare adempimento necessario.
Dovere defensionale impone poi, proprio per la necessità di totalmente
riprodurre le dichiarazioni dell’informatore in tutti i passaggi, siano essi
favorevoli o sfavorevoli all’assistito, che si proceda preliminarmente e con
attenzione al colloquio informativo di cui al primo comma dell’art. 391 bis, da
considerarsi come momento imprescindibile, ove vengono saggiate le
potenzialità di un’eventuale dichiarazione o informazione destinata ad essere
trasfusa, nella sua completezza di contenuto, nelle forme di cui all’art. 391 ter.
Ma ancora, tornando su un piano più prettamente sostanzialistico, altra ipotesi
delittuosa in cui rischia di imbattersi il difensore è quella prevista dall’art. 379
bis del Codice Penale ovvero la rivelazione di segreti inerenti ad un
procedimento penale. Qualche dubbio potrebbe sorgere in relazione ai contatti
tra il Difensore o con i terzi. Pensiamo, ad esempio, a come un’indagine
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difensiva e le comunicazioni alla stessa collegate possano risolversi, in astratto,
nella divulgazione, anche se limitata, di notizie relative ad un procedimento in
corso e siano potenzialmente idonee a porre in allarme eventuali soggetti
coinvolti. Quali i possibili profili di responsabilità del difensore che,
nell’ambito del mandato ricevuto, svolga ritualmente attività di investigazione,
favoreggiamento, rivelazione di segreti, altro? Si pensi ancora al suindicato caso
dell’Avvocato di Potenza, che viene notiziato dell’esistenza di un procedimento
di indagine da parte di un collega, codifensore di altro indagato nel medesimo
procedimento. Come si deve considerare il comportamento di quel collega?
Speriamo che dal dibattito del seminario odierno emergano delle risposte certe.
Gli esempi, comunque, potrebbero essere infiniti e noi abbiamo ritenuto di
riportarne solo alcuni, basti pensare ancora alla subornazione del teste di cui
all’art. 377. Anche con riguardo a questa ipotesi delittuosa vanno richiamati i
doveri deontologici in materia di contatti con i testimoni, come riformulati per il
necessario coordinamento con la disciplina sulle indagini difensive.
Comunque, l’attività del Difensore non deve prescindere da quello che è e deve
essere l’unico faro nello svolgimento della professione, cioè il tutelare il nostro
assistito nel miglior modo possibile, pur nel rispetto della legge. Quindi
dobbiamo ricordare che in un altro e più insidioso reato potrebbe incappare il
difensore nello svolgere infedelmente la propria attività. Ci riferiamo all’art.
380 del Codice Penale, ovvero il delitto di patrocinio infedele, che è reato
proprio, nel senso giuridico del termine, del Difensore e che si realizza
allorquando il difensore, non osservando i propri doveri professionali, arreca un
nocumento al proprio assistito. Anche in questo caso i contorni della fattispecie
si riconducono ai doveri professionali previsti dal Codice Deontologico. Se in
tema di favoreggiamento si è criticata l’ampiezza e nebulosità della nozione di
aiuto, con riguardo all’art. 380, si registra una tendenza analoga a non definire
condotte specifiche, bensì a sanzionare qualsiasi infrazione che comporti un
pregiudizio alla parte assistita. Vi è però maggior rigore rispetto
all’interpretazione dell’art. 378 - per il quale, come abbiamo visto, la soglia
della fase delle indagini è stata più volte violata - posto che azioni ed omissioni
rilevano se ed in quanto riferite ad un procedimento già pendente, mentre non è
così per le condotte prodromiche all’instaurazione del procedimento. Mentre
eventuali atti preparatori potrebbero forse risultare sanzionabili ex Art. 378:
pensiamo alle investigazioni difensive preventive, certamente suscettibili di
influire su eventuali successive indagini svolte dall’Autorità Giudiziaria.
Sempre in tema di patrocinio infedele, per inciso, ricordiamo il dovere di verità,
che di per sé potrebbe fungere da limite ad un certo tipo di attività investigativa
diretta a sfociare in dibattimento.
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L’introduzione di prove false potrebbe astrattamente rilevare a solo titolo di
favoreggiamento o anche, in caso di pregiudizio conseguente per la parte
assistita, di infedele patrocinio, sotto il profilo della violazione del dovere di cui
all’art. 14 del Codice Deontologico? Ed ancora ci chiediamo: non comunicare al
proprio assistito l’emissione dell’ordine di carcerazione ci rende colpevoli del
delitto di patrocinio infedele? Posto che, forse, il comunicarlo ci vedrebbe
indagati di favoreggiamento personale.
In conclusione, riteniamo che vi sia la necessità di chiarire sia il contenuto che il
limite del mandato defensionale, alla luce delle recenti modifiche legislative e
dell’evoluzione giurisprudenziale conseguente.
AVV. EUGENIO VASSALLO.
Ringrazio la collega Danesin, ma soprattutto ringrazio tutti i componenti della
Commissione che hanno lavorato. Tutti gli interventi di oggi sono registrati e
poi li pubblicheremo, com’è nostra abitudine, perché sono atti importanti che
danno l’idea di come gli Avvocati vogliono autoregolarsi. Abbiamo sentito le
sollecitazioni della Commissione di Studio della Camera Penale, ora possiamo
sentire ciò che ne pensa il Procuratore della Repubblica, il Dottor Luigi
Delpino.
DOTT. LUIGI DELPINO
Io mi scuso se non ho avuto tempo di preparare una relazione scritta, per cui
sarò costretto ad andare a braccio.
Ho avuto la fortuna che le due relazioni che mi hanno preceduto hanno
praticamente dato un po’ il “la” a quella che può essere l’impostazione che mi
ero proposto per esporre il problema del rapporto dell’art. 378 c.p. con il diritto
di difesa e, quindi, il ricorso all’art. 51 per giustificare eventuali comportamenti
del difensore che possano apparire al di là dei limiti di quelli che sono i suoi
doveri deontologici.
Prendendo lo spunto da quanto detto da chi mi ha preceduto, parto proprio da
una sentenza, una delle prime sentenze che fissò i limiti dell’esercizio del diritto
di difesa e i rapporti appunto con eventuali reati che il Difensore può
commettere nell’espletamento delle sue mansioni, ed è una sentenza del 1986,
la Cassazione 4 luglio ‘86 n. 6989. Dice testualmente, la massima di questa
sentenza: “Il diritto di difesa - anche in relazione al profilo specifico
concernente il suo esercizio da parte del patrocinante – è tra quelli al quale
l'ordinamento giuridico riconosce il più alto ambito di espansione onde
consentire l’effettiva attuazione del principio affermato nell'art. 24 comma
secondo della costituzione: come ogni diritto, però, esso trova un limite nel
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rispetto delle altre esigenze primarie, tra le quali v'è quella dello Stato ad una
corretta amministrazione della giustizia, sicché nella scelta dei metodi e degli
strumenti cui il difensore ritiene di fare ricorso per la tutela degli interessi
dell'imputato, esiste un limite oggettivo – costituito dall'inosservanza di quegli
obblighi e di quei divieti espressamente indicati come illeciti penali - oltre il
quale anche il comportamento del professionista non sfugge alla sanzione,
eccettuati i casi espressamente previsti dalla legge. Pertanto, risponde di
favoreggiamento personale il difensore che, attivandosi per mettere in contatto
tra loro persone titolari di interessi contrapposti all'imputato, si adoperi in tempi
successivi per alterare i risultati delle indagini già svolte, esercitando in tal
senso una seria azione di pressione psicologica sulla persona offesa”.
Mi sembra una sentenza di principio molto importante, perché traccia un po’
quelli che sono i confini dell’esercizio del diritto di difesa con gli eventuali reati
che può commettere il difensore, e sono stati ricordati l’art. 378 e l’380 c. p., ma
io ne aggiungo anche un altro di cui pure è possibile essere chiamati a
rispondere: il 368 in concorso con il proprio assistito, la calunnia commessa
dall’imputato su istigazione del difensore il quale, pur sapendo che l’accusato
dal suo difeso è innocente, gli consiglia comunque di fare un nome per
difendersi, ed è il nome di una persona che lui sa essere innocente;
indubbiamente anche qui abbiamo una responsabilità penale del difensore.
Per delimitare questi confini, questi esatti confini, io ritengo necessario partire
proprio dall’essenza dell’art. 378. Prendo spunto, e dicevo prima che sono stato
fortunato dalle due relazioni che mi hanno preceduto, dallo scetticismo di Ennio
Fortuna su uno dei principi che, per me, è, invece, uno dei principi fondamentali
del Diritto Penale, ed è quello di offensività. È un principio che effettivamente
apparentemente non sembrerebbe consacrato nella Costituzione, sembrerebbe il
frutto di interpretazioni della Corte Costituzionale, però se riflettiamo un attimo
– e questa riflessione aleggia già nella famosissima sentenza 364/88 della Corte
Costituzionale - il principio di offensività lo si ricava direttamente anche
dall’art. 27 della Costituzione.
Nella sentenza 364/88 della Consulta, scritta, come va giustamente ricordato, da
Renato Dell’Andro, uno dei più grandi penalisti italiani, si fa riferimento
espressamente alla rimproverabilità ed alla concreta offesa della condotta posta
in essere dal soggetto che poi merita la pena. La stessa Corte Costituzionale,
poco dopo, con due sentenze che mi sembrano importantissime alla pari della
364/88, e sono la 360/95, se ricordo bene, e la 383/2000, ha tracciato i confini
precisi del principio di offensività.
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In tali sentenze la Consulta ha distinto tra offensività in astratto ed offensività in
concreto: l’offensività in astratto va intesa come necessità che le condotte
penalmente perseguite siano caratterizzate da un giudizio di disvalore, siano,
cioè, suscettibili di ledere un bene o interesse di rilievo costituzionale; essa, in
quanto derivazione diretta del più generale principio di ragionevolezza che è
immanente in tutta la Costituzione, si pone come limite di rango costituzionale
alla discrezionalità del legislatore ordinario, come tale sindacabile dalla stessa
Consulta.
Posta tale offensività in astratto, occorre poi che anche in concreto l’offensività
sia ravvisabile almeno in grado minimo, nella singola condotta dell’agente, in
difetto di ciò venendo la fattispecie a rifluire nella figura del reato impossibile
(art. 49 cod. pen.); la mancanza dell’offensività in concreto della condotta
dell’agente non radica, però, alcuna questione di costituzionalità, ma implica
soltanto un giudizio di merito, come tale devoluto al giudice ordinario
Il problema che noi dobbiamo porci proprio per capire i limiti o, meglio, il
rapporto fra l’art. 51 c.p. e l’art. 378 c.p., quindi i limiti della liceità della
condotta oltre i quali scatta il 378, è proprio quello di vedere qual è
l’offensività, sia in astratto che in concreto, del 378.
Il 378, lo sappiamo, e l’ha detto con la sua solita forza Ennio Fortuna, è una
norma che tutela la polizia, tutela l’attività giudiziaria in senso ampio, la ricerca
della verità. Infatti le condotte che vengono punite sono quelle che ledono quel
bene, che è quello dell’accertamento della verità; scopo della norma è, pertanto,
la tutela della collettività con la neutralizzazione dell’imputato, per cui essa
punisce quelle condotte che aiutano l’imputato ad eludere le investigazioni o a
sottrarsi alle ricerche. L’offensività in astratto è, dunque, la lesione di quel bene
costituzionalmente protetto che è la tutela dell’accertamento della verità, che è
uno dei principi posti, in materia di giurisdizione penale, della nostra
Costituzione, tanto vero che, e lo ricorderete senz’altro, proprio la Corte
Costituzionale quando. Con la sentenza n. 111 del 1993 dichiarò la legittimità
costituzionale dell’art. 507 c.p.p. si richiamò espressamente ad esso, affermando
che nella nostra Costituzione c’è il principio secondo cui la ricerca della verità è
uno dei compiti fondamentali dell’Autorità Giudiziaria, per cui è conforme alla
stessa Costituzione cha al Giudice vengano attribuiti i poteri che gli attribuisce
l’art. 507 del codice di procedura penale, ai sensi del quale egli può sostituirsi
anche all’inerzia del Pubblico Ministero e della Difesa per l’accertamento della
verità, senza con ciò venir meno alla sua posizione di terzietà.
L’offensività in astratto del 378 va, dunque, vista nella tutela di questo bene,
che è quello della ricerca della verità e, in senso più ampio, nella tutela della
sicurezza della collettività, tanto è vero che punisce pure le condotte che aiutano
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l’indagato a sottrarsi alle ricerche. In concreto l’offensività consiste nella
lesione o messa in pericolo di questo bene e qui mi riporto ad un’altra sentenza
recentissima: è sempre di Troiano, ma successiva a quella che ha citato poco fa
Ennio Fortuna, che era del dicembre 2003, questa è di gennaio 2004 e, secondo
me è fondamentale per capire quali sono i limiti oltre i quali il Difensore può
incorrere in responsabilità per il 378 e quindi, di conseguenza, quali sono invece
le condotte che con l’art. 378 c.p. non hanno niente a che vedere. La leggo,
anche se c’è un punto che secondo me andrebbe un po’ precisato, perché è forse
un po’ riduttivo. Dice questa sentenza, che è del 15 gennaio 2004 (n. 709): “La
condotta del reato di favoreggiamento personale, che è un reato di pericolo,
deve consistere in un’attività che abbia frapposto un ostacolo - qui la correzione
l’apporterei in questo: non che abbia frapposto un ostacolo, ma che abbia la
potenzialità di frapporre un ostacolo, perché appunto abbiamo detto è un reato
di pericolo e se è un reato di pericolo non è necessaria l’effettiva lesione del
bene, basta il pericolo di ledere quel bene - quindi abbia la potenzialità di
frapporre un ostacolo, anche se limitato o temporaneo, allo svolgimento
dell’indagine, che abbia cioè provocato una negativa alterazione, quale che sia,
del contesto fattuale all’interno del quale le investigazioni e le ricerche erano in
corso o si sarebbero comunque potute svolgere”.
Ecco l’offensività in concreto come reato di pericolo.
Ve la rileggo, con quella piccola modifica che io ritengo necessaria per capirne
appieno il significato: “La condotta del reato di favoreggiamento personale, che
è un reato di pericolo, deve consistere in un’attività che abbia la potenzialità di
frapporre un ostacolo, anche se limitato o temporaneo, allo svolgimento delle
indagini, che abbia cioè provocato una negativa alterazione, quale che sia, del
contesto fattuale all’interno del quale le investigazioni e le ricerche erano in
corso o si sarebbero comunque potute svolgere”. Ecco l’offensività in concreto
dell’art. 378 c.p., ecco i limiti oltre i quali il difensore può eventualmente
rispondere dell’art. 378 c.p. Allora la domanda che va posta in concreto, e
soprattutto noi Pubblici Ministeri dobbiamo porci in concreto davanti ad un
fatto che oggettivamente e astrattamente sembrerebbe riconducibile al 378, è
proprio questa: “è o non è quella che viene addebitata al difensore una condotta
astrattamente idonea a frapporre l’ostacolo all’accertamento della verità?”
L’espressione “investigazioni” usata dall’art. 378, lo sapete senz’altro ma va
ricordato, è sempre stata interpretata nel senso di non essere riferita
esclusivamente alla fase delle indagini, ma anche all’accertamento della verità
che si compie al dibattimento, quindi anche alla raccolta della prova in
dibattimento; insieme all’eludere le investigazioni, poi, l’art. 378 punisce anche
l’aiuto all’indagato a sottrarsi alle ricerche. E’ questo l’elemento che
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caratterizza la condotta illecita dell’imputato: il superamento di questo limite,
cioè la potenzialità a costituire un ostacolo alle indagini o all’attività di ricerche
in corso produce una lesione di quel bene che dicevamo.
Per fare questa valutazione ritengo necessario procedere caso per caso,
singolarmente, ed esaminare quali sono gli eventuali limiti posti dalla normativa
a certe condotte e quali sono invece le condotte consentite, con riferimento alle
quali non è possibile parlare di 378.
E comincio proprio da alcuni di quei casi concreti che sono stati posti
all’attenzione di oggi.
Il primo è un caso di cui si è occupata spesso anche la dottrina e c’è anche una
sentenza della Cassazione del 2000: può ritenersi favoreggiamento la condotta
del difensore il quale, presa cognizione di certi elementi che risultano dagli atti,
che ha avuto modo - e nel rispetto delle regole - di vedere presso l’ufficio del
Pubblico Ministero, fornisce al suo cliente notizie che possano ovviamente poi
servirgli per predisporre una certa difesa? La risposta mi sembra abbastanza
ovvia: no. Anche la Cassazione nel 2000, con la sentenza che ricordavo, la 7913
del 6 luglio del 2000, ha detto di no. Quando certe notizie, certe informazioni
siano state legittimamente acquisite dal difensore e sono state utilizzate in quelli
che sono i limiti normali di utilizzazione, che ne può fare il difensore che le ha
legittimamente acquisite..? Se le acquisisce non le acquisisce per la sua
conoscenza personale, ma le acquisisce per portarle a conoscenza del suo
assistito e, dunque, legittimamente gliele comunica; se poi il suo assistito se ne
serve per altri fini ciò non è addebitabile al comportamento del difensore, per
cui il difensore non potrà mai essere chiamato a rispondere di favoreggiamento.
Leggiamola, dunque, questa sentenza, che recita testualmente: “Non integra il
delitto di favoreggiamento personale la condotta del difensore che, avendo
ritualmente preso visione di atti processuali dai quali emergano gravi indizi di
colpevolezza a carico del proprio assistito, lo informi della possibilità che nei
suoi confronti possa essere applicata una misura cautelare (nella specie
effettivamente disposta e non eseguita per la latitanza dell’indagato), atteso che
la legittima acquisizione di notizie che possono interessare la posizione
processuale dell’assistito ne rende legittima la rivelazione a quest’ultimo in
virtù del rapporto di fiducia che intercorre tra professionista e cliente e che
attiene al fisiologico esercizio del diritto di difesa; qualora, invece,
l’acquisizione di notizie avvenga in maniera illegale - come nel caso di
concorso nel delitto di rivelazione o di utilizzazione di segreti d’ufficio o nella
fraudolenta presa visione o estrazione di copie di atti che devono rimanere
segreti - si verifica una sorta di “solidarietà anomala” con l’imputato in virtù
della quale l’aiuto del difensore strumentale non già alla corretta, scrupolosa e
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lecita difesa ma alla elusione o deviazione delle investigazioni e, quindi, al
turbamento della funzione giudiziaria rilevante ai sensi dell’art. 378 cod. pen.”
Secondo caso, quello del Giudice del Tribunale di Torino che è stato ricordato
con due soluzioni diverse, sia dal Dottor Fortuna che dall’Avvocato Danesin:
anche lì a me sinceramente sembra che la soluzione non sia poi così difficile
alla luce di quelli che sono i principi che ho ricordato prima. Mi pare che sia
senz’altro sbagliata la soluzione data dal Tribunale di Torino.
Parliamoci chiaro: i limiti dell’utilizzazione di quelle che sono le
verbalizzazioni del difensore sono espressamente indicati nell’art. 391 decies
c.p.p., il quale ci dice a quali fini e a che cosa servono quelle verbalizzazioni
fatte dal Difensore e cioè possono essere utilizzati, ci dice, nei limiti dell’art.
500, 512, 513 c.p.p..
Costituiscono o possono costituire un concreto e potenziale ostacolo alle
indagini? Assolutamente no. Se il difensore ha verbalizzato qualcosa di diverso
o ha omesso qualcosa non mi sembra che abbia superato i limiti che, secondo i
principi, vigono in materia di verbalizzazione dell’attività svolta e, quindi,
dell’esercizio del diritto di difesa, con conseguente violazione degli articoli 378,
368 o 380 del codice penale. L’attività di verbalizzazione, le verbalizzazioni
fatte dal difensore, le prove (chiamiamole prove) raccolte dal difensore nella
fase delle indagini hanno un’efficacia molto limitata nell’accertamento della
verità e in quella che è l’attività di indagine che viene svolta al dibattimento, e
sono indicate espressamente nell’art. 391 decies c.p.p.. Io non ritengo  sarà
forse un convincimento personale che può essere criticato e messo in
discussione, lo vedremo dopo  ma non ritengo che posti i limiti dell’art. 391
decies c.p.p. quella condotta possa ritenersi concretamente lesiva del bene
interesse tutelato dal 378, alla luce di quei principi che ho prima ricordato.
Quanto ai consigli, anche l’attività di consulenza del difensore, i consigli che il
difensore dà al cliente vanno ovviamente visti in quest’ottica: se i consigli sono
i normali consigli che attengono a quella che può essere la linea difensiva, a
quello che può essere il modo di difendersi, ripeto, sempre senza superare il 368
e il 380 (proprio con riferimento al 380 c’è stato un altro caso interessante di cui
si è occupata la Cassazione nel ’99, che ricorderò poi più avanti) il difensore, il
quale dia al suo cliente consigli di una certa linea difensiva  ripeto, sempre
senza travalicare i limiti della calunnia con accuse ad altri che si sa innocenti 
non può ovviamente rispondere di 378; ne risponderà, e su questo la Cassazione
e la dottrina (vi cito un autori che se n’è interessato espressamente: Paolo Pisa,
autore della voce “favoreggiamento personale” sul Digesto delle discipline
penalistiche, che è una delle più moderne sull’argomento, anche lui arriva alle
stesse conclusioni).. I consigli normali dati al difensore non possono mai
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configurare il 378, sempre che, a meno che non travalichino e non diventino
essi stessi delle forme di aiuto all’assistito per sottrarsi alle ricerche, e questo è
abbastanza immaginabile, o per eludere le indagini, ma nel senso di ostacolare
in un certo modo, in un modo concreto, in un modo tale da sviare appunto
l’accertamento della verità.
Altra attività di cui il difensore può essere chiamato a rispondere è quella che
purtroppo a volte si verifica soprattutto negli ambiti di un certo tipo di
delinquenza: quello di fare da intermediario fra il proprio assistito in carcere e i
suoi complici o quelli che sono gli appartenenti alla sua organizzazione. Sotto
questo profilo credo che sia assolutamente indubitabile la responsabilità per
l’art. 378 c.p. da parte del difensore, responsabilità che può addirittura far
configurare il concorso nel reato, quando il difensore, di fatto, diventa un
complice del suo cliente.
Chiudo con un ultimo problema che è quello dei rapporti tra diritto di difesa, e
art. 380 c.p., ed eventuale responsabilità per 380 e 378 insieme, che è
teoricamente possibile. È un caso di cui appunto, come dicevo prima, si è
interessata la Cassazione nel 1999, il fatto è abbastanza semplice e lo si ricava
agevolmente da quella che è la massima: “Il difensore che assuma formalmente
l’incarico a favore di un assistito, ma in realtà su impulso e su mandato
sostanziale di altri soggetti che provvedano materialmente al compenso al solo
scopo di venire a conoscenza delle dichiarazioni del suo assistito e di poterle poi
riferire a quelli, consentendo loro di sottrarsi all’accertamento della verità, pone
in essere una condotta diretta ad aiutare detti soggetti e ad eludere le
investigazioni” e quindi commette contemporaneamente il 380, nei confronti
dell’assistito falsamente assistito, del soggetto che lui ha falsamente voluto
assistere, e 378, nei confronti degli altri soggetti.
Concludendo, ritengo che, appunto come è stato detto giustamente proprio a
conclusione della relazione dall’avvocato Danesin, il vero problema sia quello
di individuare gli esatti paletti del 378. Se il 378 viene letto nell’ottica, secondo
me l’unica possibile, di quei principi di offensività di cui ho ricordato prima, si
riesce in maniera abbastanza agevole a limitarne la portata e ad evitare che se ne
possa fare una applicazione che, non solo è contra legem, ma il più delle volte è
pericolosissima per tanti altri aspetti che potete benissimo immaginare e di cui
come capo di una Procura spesso mi rendo conto quando poi, in concreto, si va
a vedere la questione dei rapporti con gli avvocati.
Vi ringrazio.
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AVV. EUGENIO VASSALLO
Grazie, dottor Delpino. Mi permetta però, visto che abbiamo due minuti di
interruzione. La sua relazione è stata molto interessante ed illuminante. Lei ha
colto un punto che a me sembra molto importante e dice: “Quando il difensore
assume la difesa di un soggetto, pagato da altro soggetto - lei ritiene il dolo
specifico - al fine di comunicare ciò che dice l’altro soggetto”. Allora prima di
tutto lei mi deve spiegare, per configurare il delitto di cui all’art. 380 c.p., dov’è
il contrasto di interessi? Cioè ci deve essere un contrasto d’interesse, perché
sennò il 380 non si può applicare. Io devo assumere la difesa di posizioni tra
tante, se sono conflittuali il problema non si pone. Il problema è la finalità, e
allora mi stavo chiedendo e chiedevo adesso a lei che ha fatto quel bellissimo
libro, che ci è utilissimo quando abbiamo bisogno di risvegliare i nostri principi
fondamentali: il principio di offensività mi va benissimo nel momento della sua
interpretazione, lo capisco anche se mi sembra interpretato molto rudemente
relativamente all’art. 378; ma mi stavo chiedendo: quando sussiste, per contro,
un “favoreggiamento dell’accusa” che cosa c’è? Niente! E’ questo il punto che
un po’ mi colpisce. Quindi cerchiamo di guardarci in faccia, non è che siamo
nati ieri, qualche volta questo favoreggiamento dell’accusa lo scopriamo anche
noi, qualche dimenticanza delle verbalizzazioni, le verbalizzazioni solo
riassuntive non le hanno inventate gli avvocati.
DOTT. ENNIO FORTUNA
Scusate, non è che voglia riprendere la parola, ma volevo citare due casi di cui
mi sono occupato.
Io ho processato un celebre Pubblico Ministero per soppressione di atti, per
avere fatto esattamente.. quello dell’avvocato di Torino.
Secondo, cito un caso di 30 anni fa: un avvocato celebre, di cui posso fare anche
il nome, che risponde al nome di Virotta, viene da me mentre ero in udienza e
mi chiede il permesso di vedere la lista testi; all’epoca il Giudice Istruttore
poteva fare i mandati di cattura senza avvertire il Pubblico Ministero, quindi io
non sapevo che aveva fatto il mandato di cattura. Come avviene a Venezia,
dove ci sono ancora gentiluomini, dico a Virotta: “Vada nel mio ufficio, la porta
è aperta, veda quello che vuole e si serva”. Lui entra, vede il mandato di cattura,
mi lascia il biglietto da visita dentro il mandato di cattura. Dopo di che mi
preoccupo, l’imputato scappa, ero più cattivo di lui, e gli telefono: lo sa che mi
sono preso una “razziata” violentissima, che non dimenticherò mai, perché lui
mi disse: “Ma come, lei mi dà il permesso di entrare nella sua stanza, nel suo
ufficio, e pensa che io possa avvertire l’imputato?”. L’imputato è andato in
galera. Si è comportato bene o male?
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DOTT. LUIGI DELPINO
Per rispondere all’avvocato Vassallo, non immaginate il piacere che mi ha fatto
la sua obiezione, alla fine, sul comportamento di alcuni Pubblici Ministeri,
perché mi conforta, finalmente allora avete capito che significa la separazione
delle carriere! Il Pubblico Ministero funzionerà come super poliziotto, a carriere
separate lo farà regolarmente!
AVV. EUGENIO VASSALLO
Ma per questo il legislatore ha posto l’obbligo dell’uso di un registratore,
perché si è capito che cosa diversamente poteva succedere!
Adesso credo che sia giusto che parli anche l’avvocato: il Professor Marco
Zanotti.
PROF. AVV. MARCO ZANOTTI
I rapporti tra favoreggiamento personale ed esercizio della funzione difensiva
rappresentano uno dei nodi più vistosi, ed al tempo stesso più tenaci, della
complessa leggibilità di una formula normativa inguaribilmente ambigua. Che
essi riemergano periodicamente, riproponendo una sorta di perenne dialettica tra
letture reciprocamente inconciliabili, non deve stupire più che tanto, dal
momento che riflettono semplicemente la storia incompiuta di questa figura
delittuosa. E' risaputo, infatti, che il favoreggiamento personale è alla ricerca di
una sua definitiva emancipazione dalle categorie del concorso criminoso dalle
quali ha origine, e, si potrebbe dire, di un affrancamento da una eredità assai
scomoda. Nella cultura dei post-glossatori si distingueva proprio tra un ausilio
ante-delictum, in delicto, e post-delictum, e tale tripartizione rimase stabile nel
diritto comune. Solo in epoca relativamente recente (in taluni ordinamenti,
quale quello spagnolo, in occasione della riforma del Codice penale del 1995)
alla figura del favoreggiamento si dedicò una configurazione autonoma,
essendo ormai culturalmente acquisito che post-delictum non si può più
compartecipare. Ma è proprio a questo punto che si profila il problema irrisolto.
Anziché recidere il legame di originario collegamento con la tematica
concorsuale, si è preferito definire la condotta costitutiva in termini di aiuto,
certo, soggettivamente e temporalmente circoscritta, ma concettualmente
indistinguibile dall'analoga nozione che compare nel quadro della
compartecipazione criminosa. Scelta infelice per diversi motivi e sotto vari
profili. Gli elementi di delimitazione interna, anziché dirimere i dubbi, talvolta
li esasperano.
28
Dalla norma si ricava che, sul piano temporale, la condotta agevolatoria deve
manifestarsi dopo che fu commesso un delitto (requisito che introduce il
problema, non risolubile in termini netti, di come distinguere il concorso in un
reato permanente dal favoreggiamento personale). Sul piano soggettivo, che
l'aiuto può essere rilevante solo fuori dai casi di concorso nel delitto
presupposto, il che viene inteso come esclusione ex lege della rilevanza penale
dell'autofavoreggiamento. Sul piano teleologico-funzionale, infine, che l'aiuto
deve essere diretto a sottrarre taluno, non necessariamente l'autore del delitto
presupposto (come ha cura di precisare l'ultimo comma dell'art. 378 C.P.) alle
ricerche dell'Autorità, o ad eludere le investigazioni della medesima.
Ricerche ed investigazioni non è che propriamente possano dirsi estranee al tipo
legale, giacché vi figurano come obiettivo tendenziale dell'agevolazione illecita,
ma, appunto, compaiono come tali e non come eventi: la punibilità dell'aiuto
non è affatto condizionata dal loro verificarsi, ma semplicemente dal suo essere
idoneo a produrre questi esiti non effettivamente, bensì solo potenzialmente.
Quando si ragiona dell'aiuto e dell'istigazione nel quadro del concorso
criminoso, non si ha difficoltà nel riconoscere contorni certamente
indeterminati, ma la conclusione non preoccupa proprio perché l'originario
deficit di tipicità viene poi colmato da un evento costituito dal reato commesso
in concorso, al quale i contributi atipici si collegano in base ad un effettivo (e
non già potenziale) nesso di causalità. Percorso che, evidentemente, non è
riproponibile per ciò che attiene al favoreggiamento personale, in ragione del
fatto che il processo di emancipazione di tale figura è rimasto sostanzialmente a
metà: della tematica concorsuale si è preso, per così dire, il peggio, cioè
l'atipicità del contributo, lasciando da parte l'elemento qualificante in termini di
proiezione di tipicità. Che la nozione di aiuto di per sé sia esageratamente
indeterminata ce lo dimostra la casistica: tutto ciò che può ostacolare (non già
che ostacoli effettivamente) il corso delle indagini può confluirvi senza
difficoltà. Ed anche chi acutamente lo ha notato in passato, non ha potuto
giovarsi di una capacità selettiva propria della fattispecie, ma ha dovuto far
ricorso a concetti vaghi, quali la "normalità" dei rapporti sociali, per escludere
manifestazioni agevolatorie che, a rigore, ben potrebbero entrare nel punibile.
Tipicità irraggiungibile quella del favoreggiamento?
Probabilmente no, se allarghiamo la prospettiva ad ordinamenti a noi vicini.
La fattispecie del nuovo codice spagnolo in parte ci riesce, anche se non
rinuncia ad una formulazione ambigua al pari della nostra quando si tratta di
impedire l'aiuto a sospetti autori di un delitto presupposto di rilevante gravità.
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Ma i difetti strutturali della fattispecie non sono l'oggetto della mia relazione:
costituiscono solo lo sfondo dal quale far discendere le mie riflessioni sul tema
del favoreggiamento del difensore. Le figure legali sostanzialmente aperte
implicano una conseguenza in un certo senso inevitabile, quella di dare luogo a
dinamiche espansive non facilmente controllabili, e, da questo angolo visuale, il
favoreggiamento non fa' eccezione alla regola. Nella sua dimensione di reato
comune, perpetrabile da chiunque, la dilatazione ha seguito la logica del
mendacio nei confronti della Polizia giudiziaria nel momento investigativo.
Abbastanza lontana dallo schema originario della receptatio rei, l'ipotesi del
favoreggiamento - mendacio si può dire oggi stabilmente acquisita al diritto
vivente, anche se qualche voce dissenziente sul punto si registra. Personalmente
ritengo che una tale inclusione sia in sé ragionevole, anche se non convincono
le ragioni teoriche che dovrebbero giustificarla. Esse vengono in genere
prospettate sulla base di un'asserita esigenza di tutela di un vero paraprobatorio, frutto di un manifesto fraintendimento. Non si tratta di assicurare
una veridicità narrativa in vista di una prova futura quanto invece di garantire
che la Polizia giudiziaria possa orientare le proprie indagini in modo corretto e
non distorto. Il che permette poi di capire le ragioni di una scelta in fondo assai
razionale, quella che esclude la possibilità di estendere anche al
favoreggiamento personale la non punibilità derivante dalla ritrattazione, perché
essa sarebbe coerente (e, per converso, non ragionevole l'esclusione) con una
fisionomia del tipo legale agganciata alla tutela della prova, ma incongrua se
correlata ad una ipotesi mirata sulla garanzia della funzionalità delle indagini
globalmente considerate. L'ipotesi del favoreggiamento del difensore si sottrae a
questa logica, parendo tributaria, invece, del diverso paradigma della violazione
del segreto. I casi "difficili" emergono, appunto, non quando il difensore mente
(ipotesi, del resto, di problematica configurabilità, anche se, soprattutto nella
cultura penalistica tedesca, la difesa di chi si sa colpevole è stata spesso definita
obiettivamente tipica alla stregua del favoreggiamento), ma quando il difensore
informa. Sul primo versante, relativo al rilievo che può assumere il mendacio
del difensore, deve notarsi che le posizioni che ne ammettono la possibilità in
definitiva dipendono dall'errore iniziale di collegare il favoreggiamento alla
prova - narrativa. L'argomentazione difensiva consapevolmente falsa
certamente può influire sull'esito del giudizio, e quindi rientrare nella nozione di
aiuto idoneo prevista dall'art. 378 C.P., ma non per questo può predicarsene
l'illiceità penale, se non si dimostra che, tra le premesse del giudizio, rientra
anche il valore di verità che l'argomentazione dovrebbe manifestare. Dal punto
di vista sistematico, la correttezza del giudizio passa attraverso la non
distorsione delle acquisizioni probatorie, ma questo non accade, meglio, non
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può accadere nel momento argomentativo della difesa, che a tutto voler
concedere può tradursi in critica distorta di prove assunte correttamente. La
differenza può apparire a prima vista come il frutto di un sofisma, ma viceversa
è assolutamente fondamentale e fondata. Ciò che può legittimamente rientrare
nel quadro del favoreggiamento è l'aggressione manipolatoria del contesto di
fatto in cui possono articolarsi le investigazioni di polizia, ed in questo senso è
corretto concludere che anche il difensore, come chiunque, deve risponderne a
questo titolo. Ma quando si tratti di discutere i risultati di tali investigazioni, si è
già fuori dallo schema del favoreggiamento, ancorché la critica demolitoria di
prove d'accusa veridiche possa sprigionare una efficacia agevolatoria a
beneficio dell'accusato. Questa conclusione, peraltro un tempo non
unanimemente condivisa sul piano scientifico, ha fra l'altro il pregio di
armonizzarsi perfettamente con la formula normativa, che, appunto, definisce la
condotta in termini non solo finalistici, ma anche temporali: se l'aiuto si
definisce in ragione di una potenziale elusione delle investigazioni, ne
consegue, parallelamente, una sua possibile verificazione soltanto prima o
durante il loro svolgimento, ma mai successiva alla loro conclusione.
Attualmente, comunque, questi profili possono ritenersi con sufficiente
sicurezza superati e risolti nel senso della non riconducibilità al
favoreggiamento personale, ma il problema si è spostato altrove: è aiuto illecito
quello che si traduce nell'impendere consilium? Con questa locuzione si
intendono tutte quelle informazioni - indicazioni riguardanti il contesto di fatto
in cui si svolgono, o possono svolgersi, le investigazioni, e le connesse
possibilità di eluderle. E siccome la non recente dottrina tedesca ci informa che
il favoreggiamento può realizzarsi durch Tat und Rat, con comportamenti
materiali o con il consiglio, è sembrato del tutto naturale che anche il
suggerimento proveniente dal difensore possa connotarsi in termini di illiceità,
posto che al nascondere un ricercato corrisponde l'insegnare a nascondersi, così
come a cancellare le tracce di un delitto corrisponde il consiglio di cancellarle.
In realtà, questa prospettiva era ed è palesemente scorretta, perché la pretesa
corrispondenza tra il fare direttamente e suggerire di farlo è frutto di una
autentica illusione ottica. Qualche esempio lo dimostrerà in modo definitivo.
Si è tutti d'accordo che, proprio per la clausola di riserva contenuta nell'art. 378
C.P., il sistema esclude la rilevanza penale dell'autofavoreggiamento. Così che
non c'è dubbio che l'autore di un omicidio, nel nascondere l'arma del delitto, nel
cancellare le tracce di sangue, nel distruggere una corrispondenza con la vittima
dalla quale emerga un valido movente per l'omicidio, manipoli il contesto
fattuale delle investigazioni, intralciandole magari con successo. Ma si tratta di
autofavoreggiamento, quindi di fatto penalmente irrilevante. Non può dirsi la
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stessa cosa se un terzo non concorrente nell'omicidio realizza quegli stessi
comportamenti, anche se quel terzo, in ipotesi, è il difensore dell'autore
dell'omicidio. In casi del genere, la veste difensiva non può assumere alcuna
efficacia scriminante in ordine a condotte vietate a tutti quelli che non siano
stati autori o correi del reato presupposto. Secondo la vetusta formula, qui il
favoreggiamento si realizza durch Tat, attraverso un contegno materiale che si
pone in antitesi diretta e frontale con la attività investigativa, e non v'è alcuna
ragione di consentirlo al difensore e vietarlo al quisque de populo. Ragionando
in termini di suggerimento, la prospettiva cambia in modo radicale. E'
suggestivo ritenere una sostanziale corrispondenza tra agire direttamente nel
reale e consigliare di farlo, ma, appunto, sul piano giuridico, rimane solo una
suggestione. E ciò per una ragione tanto evidente quanto definitiva: da un punto
di vista strutturale, il consiglio che proviene dal difensore circa l'opportunità che
il suo assistito manipoli il contesto fattuale che può essere investito dalle
indagini può integrare tutt'al più un'ipotesi di concorso morale del difensore in
autofavoreggiamento. Ma se è pacifica, come è, l'irrilevanza di quest'ultimo,
rimane per definizione irrilevante anche l'istigazione a commetterlo. Più
problematico, invece, il caso in cui il difensore non consigli il suo assistito,
bensì lo informi circa iniziative cautelari od inquisitorie che, per loro natura,
debbano rimanere segrete rispetto al destinatario. Anche su questo versante,
l'opinione originariamente prevalente era nel senso dell'illiceità penale
dell'informazione, oggi, viceversa non più indiscussa, ed anzi, per certi aspetti,
addirittura recessiva. Su una premessa , anzi, si registra un consenso sempre più
diffuso: nel rapporto tra difensore ed assistito un flusso informativo libero
costituisce il presupposto irrinunciabile per l'elaborazione di una linea difensiva
efficace, dal momento che non si possono dare scelte difensive
consapevolmente elaborate senza piena conoscenza degli elementi
processualmente rilevanti. In altre parole, non sembra esistere alcun divieto, per
il difensore, di comunicare al suo difeso informazioni lecitamente acquisite.
Non si tratta di un rilievo ovvio o scontato, perché nel dibattito apertosi sul
punto una ventina d'anni orsono si distingueva tra una informazione in astratto,
di per sé consentita, ed una informazione sulla situazione in concreto vietata,
distinzione assai equivoca nella misura in cui consente, in modo per la verità
ipocrita, di eludere l'ipotetico divieto. Ora, fermo restando che l'informazione,
in sé, può certamente costituire aiuto idoneo, quanto meno oggettivamente, si
tratta di vedere se questa oggettiva tipicità non possa o debba essere elisa
dall'operare del diritto di difesa in funzione scriminante. Ed è questa la
posizione attualmente dominante in dottrina.
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Ma questa prospettiva serve per orientare la soluzione di casi estremi, mentre è
incongrua e fuori luogo per altra tipologia di casi, che recentemente, ma non
correttamente, vengono ricondotti all'area del favoreggiamento punibile. Esiste
un vasto piano in cui favoreggiamento personale e tutela del segreto
investigativo si intersecano secondo direttrici piuttosto variegate, ed a seconda
che del segreto si dia una lettura più o meno ampia, correlativamente si
espandono o si riducono le possibilità applicative del favoreggiamento.La
regola generale è posta dall'art. 329 C.P.P. e da tale disposizione si ricava che il
sistema attuale non privilegia più il segreto necessario dell'intera fase delle
indagini preliminari, bensì soltanto il segreto di singoli atti di indagine, per di
più normalmente limitato nel tempo. Per identificare quali atti di indagine siano
coperti dal segreto, in genere si ricorre alla possibilità di conoscenza degli stessi
da parte dell'indagato. Si ha cura di precisare, e la precisazione è rilevante, che
se vi è una tale possibilità di conoscenza dell'atto, questo non è segreto, e se
anche la conoscibilità va considerata in relazione all'indagato, la sua sussistenza
fa decadere la copertura del segreto nei confronti di chiunque. Non mi interessa
diffondermi sui profili strettamente processuali; basta soltanto accennare che
conoscibili per definizione sono gli atti di indagine compiuti con la
partecipazione dell'indagato (anzi, a rigore, più che conoscibilità deve qui
parlarsi di effettiva conoscenza dell'atto, che pertanto ab initio non è coperto dal
segreto), o per i quali è prevista l'assistenza del difensore. Gli atti effettivamente
coperti dal segreto sono quelli ai quali il difensore non ha diritto di assistere,
segreto che permane sino alla chiusura delle indagini preliminari. Sia detto per
inciso: nessuno degli atti per i quali è prevista la partecipazione dell'indagato e
del difensore deve essere obbligatoriamente compiuto nel corso delle indagini
preliminari, potendosi ben verificare l'ipotesi (oggi, pressoché la regola) che
queste comprendano solo atti non partecipati. In tale evenienza, la copertura del
segreto si estende a tutta la fase, con l'ovvia eccezione degli atti sulla base dei
quali sia stata emessa una misura cautelare soggetta a riesame (che vanno
depositati). Ne consegue che una rinuncia al segreto dipende da scelte tattiche
del P.M., tenuto appunto a valutare, in termini di opportunità, costi e benefici di
una discovery anticipata. La regola generale contempla poi talune eccezioni,
abbastanza ragionevoli nell'essere collegate ad una necessità effettiva di cautela
istruttoria, di cui va dato conto nella motivazione del decreto (ex art. 329,
comma 3 C.P.P.). Questo originario ordito normativo ha registrato taluni
sviluppi nel 2000, con l'introduzione della disciplina delle indagini difensive,
poiché oggi si prevede un ulteriore aspetto del potere di segretazione del P.M.
(art. 391 quinquies C.P.P.) in virtù del quale si può vietare alle persone sentite
di comunicare fatti e circostanze rilevanti di cui siano a conoscenza (in termini
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meno ellittici, di divulgare quanto abbiano già dichiarato al P.M.) per un
periodo non eccedente i due mesi. Persone sentite è locuzione da intendersi
come soggetti ascoltati dal P.M., persone informate ed indagati, quindi. Il
divieto, almeno stando alla lettera, si riferisce ai soli soggetti privati, ma, a
questo punto, si apre il problema se fra questi debba includersi anche il
difensore. Anche se taluno lo ritiene, personalmente penso che tale inclusione
non sia deducibile dall'art. 391 quinquies C.P.P., perché l'assistere non può
considerarsi equivalente all'essere sentito, a meno di non voler ricorrere ad una
estensione analogica nella specie preclusa dal carattere tassativo della
disposizione. In realtà, il problema si complica se si sposta l'attenzione dal
versante processuale a quello sostanziale. Nello stesso contesto, infatti, a
dimostrazione che l'osservanza della segretazione disposta dal P.M. va presa sul
serio, è stata introdotta pure la fattispecie incriminatrice del nuovo art. 379 bis
C.P., che prevede due distinte ipotesi, l'una relativa alla rivelazione indebita di
notizie segrete di un procedimento penale da parte di chiunque le abbia apprese
per aver partecipato od assistito ad un atto del procedimento; l'altra, invece,
riguardante la violazione del divieto di comunicazione ex art. 391 quinquies
C.P.P. da parte della persona che ha rilasciato dichiarazioni al P.M. (la "persona
sentita"). A prima vista, l'incriminazione sembrerebbe presentare natura
sanzionatoria del precetto posto dall'art. art. 391 quinquies C.P.P. solo nella
seconda ipotesi, ma non nella prima che, apparentemente, dimostra autonomia
precettiva rispetto alla disciplina processuale. Nelle prime indagini sul punto,
però, si è rilevato che la differenza testuale tra primo e secondo comma è solo
apparente, dal momento che in entrambi la condotta si risolve, in definitiva,
nella rivelazione di notizie segrete. L'osservazione in sé è esatta, ma non se ne
traggono tutte le dovute conseguenze, particolarmente rilevanti in ordine alla
platea dei destinatari, nella quale può rientrare certamente anche il difensore.
Una lettura isolata della disposizione processuale lo escluderebbe dai destinatari
del divieto, mentre una considerazione congiunta di questa e della norma
sostanziale capovolge gli esiti, proprio perché l'art. 379 bis C.P. rettifica la
previsione soggettiva dei destinatari del divieto di cui all'art. 391 quinquies
C.P.P. permettendo l'inclusione diretta (e non già per via di integrazione
analogica) anche della figura del difensore. Esito deludente e preoccupante per
la libertà della difesa? A mio avviso, non eccessivamente. Non tanto per il
corredo di garanzie che dovrebbero circoscrivere in termini ragionevoli
l'esercizio di questo potere di una parte processuale, della cui effettiva
osservanza potrà talvolta o magari spesso dubitarsi (mi chiedo, per esempio,
come si concilierà l'obbligo di una motivazione esauriente con la sottostante
esigenza di segretezza), quanto, piuttosto, per le indicazioni che provengono da
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una serena lettura dell'art. 379 bis C.P. nel suo combinarsi con la disciplina
processuale della segretezza. L'incriminazione di cui all'art. 379 bis C.P., prima
parte non è definibile in senso proprio come norma meramente sanzionatoria
delle violazioni dell'obbligo di segretezza contemplato dall'art. 391 quinquies
C.P.P. quale esito dell'esercizio eventuale del potere di segretazione attribuito al
P.M., perché la norma sostanziale presenta un ambito precettivo autonomo e più
ampio di quello presente nella disposizione processuale. Volendo ricorrere ad
una immagine di sintesi, si potrebbe dire che la norma processuale vincola al
segreto solo i detentori di una conoscenza diretta dei fatti processualmente
rilevanti, conoscenza che, appunto, viene comunicata al P.M. quando vengono
sentiti; laddove l'art. 379 bis C.P., nella prima parte, si dirige ai detentori di una
conoscenza derivata dalla partecipazione o dall'assistenza ad una narrazione di
terzi. Ciò non toglie, comunque, il nesso particolarmente stretto che avvince le
due norme, ed in virtù del quale l'incriminazione riceve dall'altra indicazioni
fondamentali a fini interpretativi. Cosa debba intendersi per notizie segrete, la
cui divulgazione è punita appunto dall'art. 379 bis C.P., lo chiarisce proprio
l'art. 391 quinquies C.P.P.. Non è che la nozione di segreto possa dilatarsi sino a
coincidere con quella prevista dall'art. 329 C.P.P., che si è visto relativa solo
agli atti di cui l'imputato non può avere conoscenza. La situazione contemplata
dall'art. 379 bis C.P., al contrario, si pone sin dall'origine su un diverso piano di
conoscibilità immediata (si tratta sempre di atti per i quali è prevista l'assistenza
o la partecipazione del difensore), il che permette di escluderla dall'ambito
disegnato dalla regola generale del segreto investigativo. In questo senso,
l'incriminazione colma effettivamente una lacuna, perché in precedenza la
violazione dell'obbligo del segreto (apponibile ex art. 329, 3° comma lett. a
c.p.p.) commessa dalle parti private e/o dai loro difensori doveva ritenersi
penalmente irrilevante (è appena il caso di segnalare che non è minimamente
ipotizzabile lo schema del concorso dell'estraneo nel reato proprio di rivelazione
di segreto ex art. 326 C.P., che riguarda ben diversa fenomenologia). Ma la
circostanza che determinate conoscenze delle parti non siano ab initio segrete
non esclude che possano sopravvenire esigenze di tutela del segreto nel corso
delle indagini, e di tali esigenze mi pare che si renda interprete la nuova
fattispecie, la cui struttura parzialmente in bianco dipende appunto
dall'impossibilità di tipicizzare a priori le ragioni del segreto, valutabili caso per
caso solo da chi, essendo il titolare delle indagini, è in grado di apprezzarne la
esistenza. Il che significa, allora, che la nozione di notizie segrete di cui all'art.
379 bis C.P. deve intendersi come corrispondente a quella di notizie segretate,
cioè dichiarati tali dal P.M. nel decreto motivato previsto dall'art. 391 quinquies
C.P.P.. A me sembra, infatti, che questa sia l'unica lettura compatibile con la
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complessiva disciplina del segreto investigativo ragionevole in sé se
ragionevolmente circoscritto agli atti il cui contenuto deve, almeno sino ad un
certo termine, rimanere ignoto alle parti private, ma inammissibilmente
incongruo se riferito anche agli atti conoscibili dalla stesse. La mediazione
assicurata dalla incriminazione, soltanto se interpretata anche alla luce della
disposizione processuale, appare in definitiva accettabile anche in
considerazione degli ulteriori corollari che discendono da una valutazione
congiunta delle due norme in gioco. Da un lato, infatti, mi pare scontato in
questa prospettiva che in tanto si potrà parlare di notizie segrete, ai fini
dell'integrazione del tipo legale dell'art. 379 bis, in quanto un decreto di
segretazione esista: un P.M. sciatto o disattento che se ne dimentichi non potrà
certo confidare su una tutela penale che, per ragioni strutturali, non pare affatto
in grado di attivarsi autonomamente.Se manca il provvedimento di
qualificazione, per quei dati conoscitivi non viene meno la regola generale della
libera circolazione diffusa (possibile, cioè, nei confronti di chiunque).
Dall'altro, è curioso notare, ma è esito conseguenziale alle premesse, che si è in
presenza di un reato commissivo a termine esplicito. Abituati ad una simile
struttura solo per quel che concerne il tipo omissivo proprio, ne registriamo una
inaspettata deriva anche per il commissivo. Ma, al di là di preoccupazioni
dogmatiche qui in definitiva abbastanza secondarie, ciò che conta è che dopo lo
spirare del termine del divieto (che non può superare i due mesi, né,
aggiungerei, può essere prorogato) riemerge la regola della libertà
comunicativa. Le notizie, infatti, non possono più ritenersi segrete, e viene a
mancare un requisito essenziale per la rilevanza penale della loro divulgazione.
Questa lunga digressione era necessaria per reimpostare il problema del
favoreggiamento del difensore nella prospettiva della informazione al cliente
assistito. Quando la dottrina penalistica, già vent'anni fa, osservava che dal
momento della piena pubblicità degli atti nessuna questione era più possibile,
poiché, cessato il vincolo legale della segretezza, nella trasmissione della
notizia viene meno la stessa configurabilità oggettiva del favoreggiamento,
proponeva una lettura equilibrata del rapporto tra funzionamento della giustizia
repressiva ed esercizio del diritto di difesa, ma spesso disattesa dalla prassi.
Oggi disponiamo, invece, di basi normative più concludenti e solide per
distinguere tra interventi difensivi leciti e contegni penalmente reprensibili. La
regola generale è nel senso libertà di comunicazione delle conoscenze
ostensibili, che potrà trovare eventuali restrizioni da un motivato esercizio del
potere di segretazione del P.M.. Solo in quest'ultima eventualità ritengo
possibile una configurazione del favoreggiamento personale a carico
dell'avvocato, sia pure in casi piuttosto marginali.
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Posto che, anche in presenza di un divieto di divulgazione ex art. 391 quinquies
C.P.P., non ha alcun senso prevedere un limite di comunicazione tra difensore e
difeso (immaginando l'ipotesi che la segretazione concerna quanto dichiarato
dall'indagato al P.M.), la questione potrà porsi se, in quella sede, il difensore
apprenda circostanze negative per altro cliente assistito in procedimenti diversi
e gliele riveli in violazione del divieto. La clausola di sussidiarietà con la quale
esordisce l'art. 379 bis C.P. (inesattamente limitata al solo rapporto con il più
grave illecito previsto dall'art. 326 C.P. da taluni autori) a me pare che possa
consentire, nella specie, il richiamo al favoreggiamento personale. E ciò,
fondamentalmente, per due diverse considerazioni. La prima si radica sul fatto
che poco conta l'originaria divulgabilità del dato conoscitivo, quando sia stato
esercitato il potere di segretazione: suo tramite, si potrebbe plausibilmente
ritenere che si verifichi un fenomeno di equiparazione, seppur temporaneo, agli
atti di indagine per i quali è operante il vincolo di segretezza previsto in via
generale dall'art. 329 C.P.P.. Ne consegue, allora, che la violazione del segreto
prevista dall'art. 379 bis C.P. si prospetta, appunto, come quell'illecito a monte
che rende illecita a valle la trasmissione dell'informazione all'interessato. Di
quest'ultima, infatti, il difensore non ha la giuridica disponibilità, come non l'ha
in relazione a notizie coperte ab origine dal segreto investigativo ed
illecitamente acquisite (ipotesi di concorso nel delitto di rivelazione di segreti
ex art. 326 C.P.). Se si ritenesse diversamente, occorrerebbe concludere che
l'ampliamento dei presupposti del diritto di difesa può derivare da un previo
delitto del difensore, che arbitrariamente ed illecitamente potrebbe sovvertire le
regole del gioco. Né, d'altra parte, mi pare possibile un riferimento all'art. 40,
III° canone complementare del Codice deontologico: vero che il difensore ha
l'obbligo di riferire al proprio assistito il contenuto di quanto appreso
nell'esercizio del mandato, ma la latitudine del precetto trova appunto un limite
nel contrapposto divieto di divulgazione imposto dal P.M.. Nell'esempio dal
quale partivo, peraltro, la disposizione deontologica sarebbe persino
impropriamente evocata, posto che l'apprendimento del dato avviene in una
sede procedimentale in cui il difensore non esercita alcun mandato difensivo
nell'interesse del soggetto concretamente informato. La collisione dei doveri
può aver luogo, invece, nel caso di difesa unitaria di più indagati, e le notizie
segretate riguardino appunto uno di essi. Non mi risulta che il problema sia già
emerso, ma certamente potrà porsi nella pratica: colpevole di favoreggiamento
il difensore che informi altro assistito in violazione del divieto, o scriminato per
l'intervento di una causa di giustificazione? Io propenderei per la seconda
ipotesi, valorizzando il dato rappresentato dall'avverbio indebitamente
menzionato dall'incriminazione. Lo si potrebbe leggere anche come equivalente
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alla locuzione "senza giusta causa", al pari di quello espressiva di un momento
di illiceità espressa. Su questo piano, allora, ritorna in evidenza il profilo
cogente espresso dal terzo canone complementare dell'art. 40 del Codice
deontologico. Immagino che da taluno potrebbe obiettarsi che la fonte da cui
promana questa disposizione non legittima la conclusione che si possa parlare di
adempimento del dovere in funzione scriminante. Una posizione del genere mi
sembra poco plausibile per una pluralità di ragioni. Il complesso di tali regole di
condotta, in primo luogo, trova fondamento in talune norme della legge
professionale forense del 1933, di cui rappresentano esplicitazione e sviluppo. I
precetti deontologici, pertanto, per dirla con Gino Gorla, appartengono non al
piano del paragiuridico o del pregiuridico, bensì al campo dell'effettivamente
giuridico, ed anche chi non fosse propenso a condividere l'idea di una loro
giuridicità originaria, dovrà pure convenire che essi acquistano una giuridicità
derivata dall'essere collegati alle norme statali della legge professionale. Inoltre,
ricavo dal dibattito contemporaneo che l'adempimento del dovere si distingue
dall'esercizio del diritto, sul piano delle fonti ammissibili, proprio perché la
nozione di norma giuridica dalla quale discende il dovere include anche fonti
diverse dalla legge statale: l'utilizzo di una espressione di genere (norma
giuridica, appunto) avvalora sul piano formale tale conclusione, perché allude a
qualsiasi fonte normativa. Infine, soccorre un argomento ancor più decisivo:
posto che il rispetto degli obblighi deontologici non è previsto come fine a sé
stesso, ma è da leggersi in necessario collegamento funzionale con il rapporto
fiduciario che si instaura con il soggetto assistito, è di particolare evidenza che
solo attraverso l'adempimento di tali doveri si può dare effettiva e concreta
attuazione al diritto di difesa tecnica, della cui giuridicità (oltre che rilevanza
costituzionale) non può evidentemente dubitarsi. In definitiva, si può e si deve
affermare che l'esercizio della difesa tecnica si realizza solo se degli obblighi
deontologici di cui è gravato il difensore si ha puntuale adempimento. Tra
questi, ripeto, mi pare di assoluta centralità quello concernente la piena
informazione del cliente in ordine a tutte le notizie apprese nell'esercizio del
mandato. E nella logica del bilanciamento tra contrapposti interessi, non mi pare
scandaloso affermare la prevalenza del diritto di difesa. Né violazione
dell'obbligo del segreto (art. 379 bis), né favoreggiamento personale, quindi,
nell'esempio da cui ho preso le mosse (difesa congiunta di più indagati e
violazione del segreto nei confronti di quello non sentito dal P.M.). Ma altre
ipotesi problematiche potrebbero individuarsi. Cosa succede, ad esempio, per le
investigazioni difensive quando il P.M. abbia deciso di esercitare il potere di
segretazione? Se ne può immaginare una dilatazione sino al punto da
paralizzare totalmente, ancorché per un tempo definito, le attività investigative
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della difesa, cui sarebbe vietato assumere informazione utili proprio sui
contenuti degli atti segretati? Non è difficile pensare ad ipotesi in cui si renda
urgente reperire elementi a discarico per dimostrare l'erroneità o la non
concludenza di elementi di accusa contestati dal P.M. proprio in occasione
dell'atto che si reputa opportuno segretare. Non dubito che possa profilarsi una
tesi di assoluto rigore, in virtù della quale una "stasi" difensiva non eccedente i
due mesi deve considerarsi un costo accettabile. Dubito, però, che sia corretta.
A questo riguardo, penso persino che raramente possano verificarsi casi
oggettivamente tipici rispetto alla formula dell'art. 379 bis c.p., che potrebbero
darsi solo nell'ipotesi di rivelazione di fonte e contenuto delle notizie segretate.
Normalmente, la ricerca di elementi utili per contrastare dati probatori di natura
accusatoria potrà prescindere da una rivelazione in senso proprio: certo che il
difensore orienterà l'esame della persona informata sui profili di interesse, ma
questo non significa affatto o necessariamente che in quella sede si verifichi una
rivelazione di notizie segrete. La tentazione di uno slittamento interpretativo in
malam partem non è escludibile in assoluto, ma dovrebbe costituire un presidio
adeguato la considerazione che un conto è la divulgazione, tutt'altro l'utilizzo di
una conoscenza acquisita, che è esattamente la situazione in cui versa il
difensore quando, senza manifestare fonti e contenuti oggetti del divieto, orienti
tuttavia le sue domande sui quegli stessi versanti. Per dare soluzione a casi del
genere, è sufficiente una sorvegliata attenzione al profilo tipico
dell'incriminazione: sarà appunto in ragione del deficit di tipicità (poiché
l'utilizzo di dati conoscitivi non equivale a rivelarli) che tali ipotesi non
potranno essere ricondotti all'art. 379 bis. Ma ove occorra una contestazione
precisa alla persona assunta in sede di indagini difensive? E' del tutto scontato
che al difensore si richieda una preventiva e seria ponderazione in termini di
necessità, ma ove questa valutazione sia nel senso dell'indifferibilità, credo che
debba farsi ricorso all'idea della scriminante. Immaginiamo il caso che da tale
investigazione difensiva ci si ripromettano esiti ragionevolmente utili per un
assistito in stato di custodia cautelare e che le sue dichiarazioni al P.M. siano
state segretate. Di fronte ad ipotesi che io volutamente estremizzo, può ritenersi
sostenibile un potere assoluto ed insindacabile di una parte a scapito dell'altra, il
cui esercizio si traduce, poi, in una atipica moratoria della facoltà di difendersi
provando? La gravità delle conseguenze già induce a dubitare della bontà delle
premesse. La questione è ancora aperta, anzi, per quel che mi risulta, mai sinora
emersa, ma se si presenterà, la chiave risolutiva per un equilibrato
contemperamento delle contrapposte esigenze non potrà trovarsi che nel quadro
della giustificazione. Proseguendo in questa casistica ipotetica, non è escluso
che il problema possa presentarsi anche nel quadro dei rapporti tra difensore
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vincolato al segreto e consulenti tecnici della difesa. Una lettura rigida
sembrerebbe poter effettivamente condurre ad un blocco comunicativo,
all'interno dello staff difensivo, di dati di conoscenza segretati. Personalmente,
però, ritengo che letture del genere non possano minimamente avere successo in
ragione del fatto che ritenendo operante il divieto anche in questa ipotesi si
raggiungerebbe lo stesso grado di insensatezza che connoterebbe la pretesa di
precludere qualsiasi commento, esame o valutazione delle notizie segretate tra
difensore e difeso. Il vincolo, in altri termini, pare fisiologicamente orientato
verso un esterno di cui non fa parte (non può far parte) l'ambito difensivo,
complessivamente considerato, della cui assistenza l'indagato si giovi. Rimane
una lacuna, peraltro. Sarebbe ragionevole, ritengo, che in casi del genere
l'obbligo al segreto si estendesse anche ai consulenti tecnici della difesa, ferma
restando, si capisce, la libertà di provvedere agli aspetti squisitamente tecnicoscientifici della difesa. Allo stato attuale, però, solo nell'eventualità possibile ma
piuttosto infrequente di una loro partecipazione all'atto i cui contenuti poi
verranno segretati li possiamo ritenere destinatari del vincolo, ma non
nell'ipotesi in cui apprendano quei dati di conoscenza dal difensore e li
divulghino. Ragionando diversamente, la loro inclusione nel novero dei
possibili soggetti attivi del delitto ex art. 379 bis sarebbe conseguenza di una
integrazione analogica in malam partem. E' tempo di concludere, e debbo
scusarmi con Voi tutti se ho impegnato più a lungo del previsto (e, forse, del
tollerabile) la vostra attenzione e la vostra pazienza. Le mie considerazioni sul
tema forse possono apparire un po' eccentriche rispetto al problema del
favoreggiamento del difensore, visto che ho dedicato molto spazio al profilo del
segreto processuale e della sua tutela. Ma questa scelta metodologica,
certamente opinabile come tutte le scelte di questo genere, è stata in gran parte
condizionata dal constatare come, su questo piano, si incontrino idee molto
confuse, conseguenza di letture assai incerte della disciplina positiva. Debbo
alla cortesia degli organizzatori aver potuto esaminare sia un provvedimento del
Tribunale del riesame, sia i motivi di ricorso per Cassazione presentati dai P.M.
incaricati avverso quella decisione, proprio in relazione ad una imputazione di
favoreggiamento personale elevata nei confronti di un avvocato. Il mondo dei
giuristi non è alieno dal bon ton, e siccome questa vicenda è tutt'altro che
processualmente esaurita, è obbligatorio accennarne molto schematicamente e
solo in astratto. La posizione dei ricorrenti, se male non ho inteso, si basa su un
assunto di fondo: costituisce errore di diritto evidente ritenere espressione di un
lecito esercizio dell'attività difensiva la divulgazione di notizie riservate coperte
da segreto investigativo. Pur in assenza di esplicitazioni chiare a questo
riguardo, non avrei dubbi sul fatto che i ricorrenti alludano al quadro di
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disciplina dell'art. 329 C.P.P, in quanto, nell'articolata motivazione, non si fa
alcun cenno all'esercizio del potere di segretazione (peraltro possibile, come si è
visto, anche nell'ambito di tale disposizione). L'inquietudine comincia allorché
si apprende che, a parere dei ricorrenti, coperto da tale segreto è "il contenuto
dell'invito a comparire notificato ad un coindagato, al suo avvocato d'ufficio, al
suo legale fiduciario, con l'indicazione e la compiuta descrizione di una
fattispecie di reato di associazione di stampo mafioso; ma, ancora, che tale è,
ex se, il contenuto dell'interrogatorio reso dal coindagato". Forse è superfluo,
perché magari conoscete il caso meglio di me, ma vorrei aggiungere che la
fonte informativa del legale accusato è stata individuata nel collega penalista
che ha presenziato all'interrogatorio del coindagato. Neppure lui indenne da
censure da parte dei ricorrenti, dal momento che lo ritengono responsabile di
una condotta di infedele patrocinio (per la quale, peraltro, non so se si proceda
attualmente o se per essa i ricorrenti si riservino di procedere in
seguito).Vedete, io mi occupo in genere di problemi di diritto sostanziale, e
quando mi capita di inbattermi in prospettazioni processuali per giunta
sostenute con piglio sicuro, è mia abitudine consultare specialisti della materia.
Così ho presentato il problema teorico al mio amico Massimo Nobili, che
specialista acuto di questi problemi effettivamente è. Al termine della mia
esposizione, mi ha chiesto se per caso lo prendessi in giro, dal momento che
trovava paradossale che del segreto investigativo, e della sua tutela sostanziale,
si potessero profilare letture così malentendues. Se consideriamo, allora, che
nella pratica non vi sono ostacoli a che interpretazioni del genere vengano
avanzate e sostenute, nella speranza di vederle confermate addirittura in sede di
legittimità, la mia scelta metodologica si lascia comprendere più facilmente, e
potete capire come io la ritenga in un certo senso necessaria. Assiomi che
vengono presentati come indiscutibili nel diritto penale dei libri, vengono
radicalmente sconvolti e sovvertiti nel diritto penale dei fatti. Atti processuali
per cui è obbligatoria la notifica al destinatario vengono reputati coperti da un
segreto investigativo omnivoro o omnipresente, che, per logica ed immanente
conseguenza, deve avvolgere anche gli atti di cui si prevede un obbligatorio
deposito. Per ragioni di economia e di razionalità operativa, se così
effettivamente fosse, tanto varrebbe escludere il deposito. Solo che così non è.
E confidare sul segreto come regola, laddove la libera circolazione delle notizie
dovrebbe costituire l'eccezione, significa sovvertire proprio la complessiva
disciplina positiva che governa la materia - o riscriverla idealmente in
conformità alle esigenze dell'accusa . Sarebbe da raccomandare, in guisa di
aggiornamento professionale, la lettura (o magari la rilettura) di un saggio che
più di 10 anni orsono Gherardo Colombo pubblicò sulla Rivista italiana di
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Diritto e procedura penale, nell'ambito del quale si segnalavano con grande
acume le strategie ipotizzabili per mantenere il più a lungo possibile (ma
legittimamente, s'intende) la copertura degli atti di indagine. Si additavano alla
magistratura inquirente proprio le tecniche adeguate allo scopo, nella piena
consapevolezza, d'altronde, che la segretezza assoluta delle indagini, meglio, di
tutti gli atti di indagine, non rappresentava più (se mai poi lo aveva
rappresentato) una garanzia offerta dal sistema. In questo senso, particolarmente
efficace il rilievo in base al quale, quando è necessario soddisfare l'esigenza di
copertura, è possibile individuare succedanei, o vie procedimentali alternative
alle anticipazioni del dibattimento, che consentono il raggiungimento degli
stessi risultati di prova tramite scopertura minima, o nulla, di atti dell'indagine.
La figura immaginata da Colombo, è quella di una P.M. agguerrito e scaltro,
che sappia operare quelle ragionevoli valutazioni di opportunità, in termini di
costi e benefici, circa l'adozione di atti di indagine ostensibili o viceversa di
"succedanei" suscettibili di rimanere coperti del segreto. Figura che è
ovviamente agli antipodi di un inquirente opacamente adagiato nella
convinzione che il segreto costituisca una garanzia impenetrabile anche se
purtroppo a termine. La Corte di legittimità, nel decidere su questa vicenda, ci
darà senz'altro utili indicazioni, ma probabilmente non definitive circa
l'estensione dell'area di rischio penale del difensore, perché gli orientamenti non
sono stabili né tantomeno unitari. Se di tendenziale soluzione potesse parlarsi,
io credo che la strada maestra non passi per un giudizio di costituzionalità, sui
cui esiti non confiderei affatto per il vuoto normativo che una pronuncia
ablativa determinerebbe, quanto piuttosto per una revisione della fattispecie in
via legislativa, allo stato attuale, improbabile e lontana come una decisione della
Consulta, ma non impossibile sul piano strettamente tecnico (lo dimostra la
nuova codificazione spagnola, che in ossequio ad un principio di
frammentarietà preso sul serio, fissa in distinte fattispecie ipotesi che, in Italia,
sembra naturale riportare allo schema aperto del favoreggiamento). Mi verrebbe
da pensare che questo auspicio di riforma sia condiviso anche dalla
magistratura, che da norme di questo tipo è costretta ad allontanarsi dal compito
tradizionale dello Ius dicere per assumere il diverso e pesante fardello dello Ius
facere. A mio parere, si tratta di un peso che è opportuno che ritorni sulle spalle
del legislatore, le uniche in grado di portarlo.
AVV. EUGENIO VASSALLO
Grazie al professor Marco Zanotti per la sua dottissima relazione.
Ora la parola, sentiamo il risultato della sentenza, al dott. Luca Pistorelli, che
ringrazio sempre perché ha mostrato una particolare capacità di gestire
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un’udienza con una calma e una tranquillità per le Difese e per l’Accusa, di cui
lo ringrazierò sempre.
DOTT. LUCA PISTORELLI
Buonasera. Innanzitutto grazie per l’invito, troppi complimenti che ovviamente
non merito e mi mettono un po’ in imbarazzo.
Dall’imbarazzo invece mi hanno tolto i relatori che mi hanno preceduto, perché
hanno talmente percorso in lungo e largo la materia che ci occupa oggi
pomeriggio da esimermi in larga parte dal mio compito, compito da cui in parte
mi autoesimo anche perché so che ci sono dei coscritti qua dentro e cioè dei
giovani aspiranti avvocati tenuti alla presenza e che quindi, siccome sono da tre
ore che ascoltano cose molto interessanti, per vero, hanno un limite di
sopportazione che pesa con maggiore gravosità che sulle spalle di chi è qui
volontariamente. Quindi cercherò di essere molto stringato.
Devo dire che molte delle cose che ho ascoltato oggi pomeriggio, tutte molto
interessanti, mi hanno anche costretto a rivedere un po’ la scaletta del mio
intervento e cercherò, se mi è permesso, magari di rispondere nei limiti in cui
sarò capace ad alcuni dei quesiti o delle contestazioni che coloro che mi hanno
preceduto hanno mosso nel corso dei loro interventi.
Mi è parso inevitabile, già quando parlavo con l’avvocato Danesin di quale
sarebbe stato l’oggetto del mio intervento, ancorare l’argomento che ci ha
occupato fino adesso più saldamente a un’altra tematica ormai imprescindibile,
che è quella delle indagini difensive introdotte dalla Legge 397/2000 a sanatoria
di lacune che il Codice di Procedura Penale portava con sé fin dal 1988. Ho
sentito qui questa sera che si salutava con favore una sentenza di un Giudice
sabaudo – c’è forte rivalità tra Milano e Torino, quindi mi perdonerete questa
punta di sarcasmo – sulla configurabilità del reato di falso in atto pubblico da
parte del pubblico ufficiale; mi sembra di aver capito nella verbalizzazione
disinvolta e lacunosa di dichiarazioni rese ex 391 bis... Io non voglio entrare nel
merito di un caso che non conosco, ho solo sentito salutare e sottolineare con
favore la configurabilità della qualifica di pubblico ufficiale in capo al
Difensore e addirittura l’ho sentita salutare come conseguenza inevitabile della
Legge 397/2000. Io so da dove nasce l’equivoco: l’equivoco nasce da colui che
porta giustamente e per volontà costituzionale quel fardello e che non sempre
però lo sa portare con la disinvoltura che il professor Zanotti gli attribuisce, e
cioè il nostro legislatore, perché l’equivoco nasce da quell’improvvido, inutile
e, mi si consenta, tra virgolette, stupido art. 334 bis del Codice di Procedura
Penale che quella legge introdusse. Nel timore generato dal furore iconoclasta
di alcuni miei colleghi il legislatore ritenne di prevenire giurisprudenze
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distorsive e degeneranti introducendo quella norma che esime il difensore
dall’obbligo di denunzia dei reati di cui venga a conoscenza nell’esercizio dei
suoi diritti di indagine difensiva. Questa norma, ripeto, voleva prevenire
distorsioni giurisprudenziali il cui contenuto ovviamente sarebbe stato previsto
dal legislatore proprio nell’attribuzione della qualifica di pubblico ufficiale al
Difensore, norma che ai più, e debbo dire anche in alcuni incidentali passaggi di
alcune pronunzie della Corte di Cassazione che pur riguardavano altro, sembra
del tutto inutile proprio perché il difensore.. potremmo discutere sulla natura di
incaricato di pubblico servizio del difensore d’ufficio, ma non possiamo proprio
neanche iniziare a discutere nella qualifica del pubblico ufficiale del difensore
di fiducia, questa, mi si consenta, è prima di tutto una corbelleria, ma in
secondo luogo è il primo passo verso il suicidio della procedura penale, la fine
del processo. Sarebbe totalmente fuori da ogni ragionevolezza che il legislatore
avesse voluto, e non l’ha fatto, perché io invito chiunque sostenga questa tesi ad
andarsi a rileggere i lavori preparatori della 397: non c’è un solo passaggio, una
sola virgola, una sola sillaba che autorizzi conclusioni di questo tipo. Abbiamo
qualche problema, possiamo discutere sulla natura del documento
rappresentativo, dell’atto di indagine difensiva artatamente costruito per
ingannare il Giudice o comunque le altre parti processuali, certo, discuteremo;
ma attribuire i doveri del pubblico ufficiale al difensore e quindi
automaticamente.. Un mio collega fa una battuta in questo caso: “Beh, allora
l’assistito che lo paga è ovviamente passibile di corruzione! E soprattutto
laddove lo paga per farsi difendere pur comunicandogli di essere colpevole!”.
Quindi cominciamo col togliere questo che io considero un equivoco della
nostra discussione.
Altra cosa che ho sentito qui oggi pomeriggio su cui, dico subito, sono
francamente poco in accordo, ed è una di quelle cose da cui nasce secondo me
l’equivoco sull’espansione della portata delle norme incriminatici in materia di
tutela dell’amministrazione della giustizia e di favoreggiamento personale in
particolare, è su questo presunto obbligo del difensore in fase processuale di
versare nel processo tutti gli atti raccolti in indagini difensive. Qui da dove
nasca l’equivoco lo capisco un po’ meno. Il tenore letterale dell’art. 419 Codice
di Procedura Penale, che pure è stato invocato in questa sede, in realtà non
giustifica tammeno e tampoco una conclusione di questo tipo; non giustifica
innanzitutto la sussistenza di un obbligo per la parte, che non è quella pubblica,
di versare gli atti di indagine, tanto più che, o meglio, salvo un’interpretazione
che parta da una distorta visione del principio di parità tra Accusa e Difesa
nell’ambito del processo, e cioè alla Difesa spetterebbero tutti i doveri e gli
obblighi che spettano anche all’Accusa, che altrimenti la disparità prima in
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passato lamentata in favore della parte pubblica oggi si riverserebbe sulla parte
privata. A monte, secondo me, c’è un problema, mi si consenta, di accettazione
dell’entrata in vigore del nuovo Codice di Procedura Penale, e siccome oggi
sono passati 15 anni questo rattrista un po’, perché ormai si pensava fosse un
problema superato, ma evidentemente non è un problema superato.
Quale sia il ruolo del difensore nel processo penale così come configurato dai
codificatori dell’88, e con gli scossoni che poi nei primi anni ci ha dato la Corte
Costituzionale, ai quali comunque è sopravvissuto, è un ruolo che costringe a
volgere lo sguardo verso ordinamenti lontani dal nostro. E’ un ruolo che
sicuramente è diverso da quello che il difensore svolgeva nell’economia del
tessuto dell’ordinamento processuale previgente. Questo è però un limite che
capisco benissimo affligga chi la maggior parte della sua vita professionale l’ha
svolta sotto la vigenza del vecchio codice, però un limite che affligge, secondo
me, fin troppo, non tanto e non solo Giudici e Pubblici Ministeri, quanto la
classe forense. Mi si dice che la Legge 397 è poco applicata perché è una legge
per imputati ricchi: questo a volte è vero, nessuno mette in dubbio che
mantenere per settimane o mesi i costi di un investigatore privato siano in pochi
a poterselo permettere. Aggiungo che in realtà la legga sulle indagini difensive è
una legge per ricchi o per molto poveri, perché il patrocinio a spese dello Stato
in realtà consente un accesso alle indagini difensive che all’imputato non troppo
ricco per non poterne sentire il peso economico, ma non troppo povero per poter
scaricare sulla collettività questo costo, è la vera vittima, semmai, del sistema.
Ma, detto questo, il problema è che le indagini difensive vengono spesso
contrabbandate, anche perché ormai c’è una tale commistione tra realtà e
immaginario mediatico, come un intervento a tutto campo del difensore che
svolge una controindagine speculare nei contenuti e nella durata e
nell’articolazione a quella del Pubblico Ministero o addirittura superiore a
questo. Sostanzialmente la legge sull’indagine difensiva nell’immaginario
comune evoca l’immagine del Perry Mason. Quello che io vedo invece nella
mia esperienza quotidiana da ormai cinque anni dall’entrata in vigore di questa
legge è che tendenzialmente, con le dovute ovvie eccezioni, manca proprio una
cultura del difendersi provando, a monte, e non di un approccio semplicemente
critico alla prova raccolta da altri - ancora molto diffusa anche, perdonatemi, in
classi forensi che anagraficamente hanno avuto poco a che fare con il vecchio
Codice di Procedura Penale - un approccio dicevo assolutamente rinunziatario,
o meglio, dove la cultura del difendersi provando è assente. Questo non è un
bene per il processo penale. La legge sulle indagini difensive è carente in molti
punti, tesa a tipizzare alcuni atti di indagine difensiva, lasciando fuori
inspiegabilmente molti altri che appartengono, quanto meno nell’esperienza
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comune, a una modalità del difendersi provando abbastanza diffuso. Siamo
d’accordo, è una legge che tutto sommato ha costituito un esperimento
nell’ambito della nostra cultura processuale, quindi non c’è da sorprendersi se
ha dei limiti, non c’è da sorprendersi se va messa a punto, non c’è da
sorprendersi se va integrata. Ma questo non avverrà mai, perché non viene
frequentata.
A queste resistenze culturali, poi, non ho difficoltà ad ammettere se ne
aggiungono quelle di chi sta dall’altra parte. Quelle sentenze che oggi ho sentito
citare, signor Procuratore, parliamoci chiaro, la sentenza della Cassazione
dell’80, come ricordava il Professor Zanotti, contiene un gran bello slogan, ma
voleva un difensore non che collaborasse a una sentenza giusta, voleva un
Difensore collaboratore di giustizia. Cosa abbia a che fare tutto ciò col diritto di
difesa mi è difficile comprenderlo. Perdonatemi, non voglio sembrare
impertinente, ma in una materia di questo tipo, dove gli ultimi 25 anni,
comunque la pensiate, non sono passati invano, secondo me dovremmo
smetterla di citare sentenze così datate, datate non tanto per il tempo in cui sono
state emesse, ma datate nei loro contenuti.
Oggi, volente o nolente, il Pubblico Ministero deve accettare e deve legittimare
- sembra di dover ricorrere al linguaggio che si usa nell’agone politica - ma
deve legittimare la sua controparte e deve viverla come la sua controparte. Il
Pubblico Ministero giustamente si lamentava, e non tanto giustamente invece si
lamentavano delle lamentele proprio i difensori, che il nuovo Codice di
Procedura Penale, un po’ per cattiva conoscenza del codificatore, un po’ perché
passare dal vecchio al nuovo non è mai così facile, avesse conservato una
norma come quella contenuta nell’art. 358 del Codice di Procedura Penale. Il
Pubblico Ministero, inteso come categoria, a lungo si è lamentato, vuoi perché
appunto questa norma in realtà costituiva una scoria di vecchio ordinamento
piantata nel cuore del nuovo, vuoi perché riteneva genuinamente messa in
discussione la sua qualifica di parte processuale. Sorprendentemente i più
grandi difensori di questa norma si trovano nel ceto forense, non nei convegni,
non nelle dotte dissertazioni accademiche o nei libri, ma si trovano nel ceto
forense, che ha difeso a lungo questa norma, perché manca la cultura del
difendersi provando ed è molto più comodo che sia il Pubblico Ministero
ritenuto onerato anche della raccolta probatoria, della messe probatoria
difensiva. Grazie a Dio di questa norma ha fatto giustizia la Corte
Costituzionale nel 1997, non con un intervento demolitorio, l’ordinanza n. 96,
perché non ce n’era bisogno, ma dandone un’interpretazione tranchant,
tagliando la testa al toro e dicendo: è irrazionale che il Pubblico Ministero
eserciti l’azione penale se si rende conto che è in grado di raccogliere degli
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elementi di prova che dimostrano che non sussistono i presupposti per
l’esercizio di quell’azione penale. Questo significa e nient’altro vuole
significare: non attribuite a questa norma significati ulteriori, soprattutto non
caricatela come fonte di obblighi investigativi per l’Accusa, che questa non è.
Quella sentenza è stato il primo passo vero per una legge sulle indagini
difensive che avesse un contenuto compatibile con i criteri ispiratori del nuovo
Codice di Procedura Penale.
Oggi però ho sentito parlare anche di ricerca della verità. Questa è una cosa a
cui non mi rassegno, non mi rassegno da tanti anni, perché i codificatori, con
puntiglio, esibendo questa loro scelta vollero far sparire quella parola dal
Codice di Procedura Penale. Non è vero, nessuno mette in dubbio che lo scopo
della giustizia penale non è quello di accertare fatti falsi, di assolvere i colpevoli
e di condannare gli innocenti, ma non è questo il punto. Quelle interpretazioni
distorte che il professor Zanotti con la sua consueta puntualità non ha esitato a
sottolineare sono figlie di un concetto che nulla ha a che vedere con il processo
penale. Tra i miei colleghi se c’è un principio del diritto penale che
difficilmente viene digerito è quello di frammentarietà, perché mal si
comprende laddove un valore è stato considerato degno di tutela penale per
quale ragione qualunque forma di aggressione a questo valore non debba essere
considerato reato e, invece, il principio di frammentarietà, come ci insegna
l’accademia, è principio di garanzia e di moderazione del sistema. Ebbene, la
ricerca della verità dell’assoluto è il primo grimaldello di superamento del
principio di tassatività e di determinazione, è il primo germe della tipicità, il
primo germe che inquina la tipicità. E’ per questo che norme che già nascono
ambigue, già nascono malate, come è l’art. 378 c.p., si ammalano ancor di più; è
il principio di verità, è la frustrazione nel non poterlo raggiungere, non poter
raggiungere l’assoluto, che genera quelle distorsioni interpretative dell’art. 329.
c.p.p. Il codificatore questo lo sapeva e il codificatore voleva entrare nelle
nostre teste, non per controllarle, ma per chiederci un balzo culturale. Noi
questo balzo culturale non l’abbiamo fatto, non l’abbiamo fatto noi Magistrati e
non l’avete fatto voi avvocati.
Oggi ho sentito parlare di principio di offensività: questo è un terreno più
minato, perché ci porta troppo lontano. Il Procuratore Delpino ha detto delle
cose assai condivisibili e, soprattutto, giustamente, ha cercato, a mio giudizio,
correttamente, prima ancora di affidarsi alla via che a volte è problematica in
questa materia dell’antigiuridicità, a richiamare l’attenzione su qual è la vera
area di tipicità della norma.
Sulla costituzionalizzazione del principio di offensività io sono un po’ più
cauto, però, ripeto, è un discorso che ci porta lontano. Riconosco che la Corte
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Costituzionale nella sua giurisprudenza degli ultimi anni ha fatto passi enormi
in questo senso, ma ha fatto più teoria che pratica, perché poi la Corte
Costituzionale mi risulta, mi correggerete se sbaglio, mai finora ha dichiarato
incostituzionale una norma incriminatrice per difetto di offensività. La Corte in
realtà continua a dirci che è gran principio interpretativo.
Infine ho sentito dire una cosa che io finora ho condiviso di più, ed è quella che
bisogna riportare la norma sul favoreggiamento in relazione al comportamento
difensivo del titolare della difesa nell’ambito della violazione del segreto,
quando questo comportamento si esplica in condotte informative nei confronti
dell’indagato o dell’imputato. Questo mi sembra profondamente condivisibile,
anche perché il legislatore di recente ha portato delle modifiche,
fondamentalmente delle aggiunte, nella parte del Codice Penale che riguarda i
reati contro l’amministrazione della giustizia, che dimostrano quanto meno, a
mio modesto avviso, la precisa volontà di ancorare le condotte penalmente
rilevanti a una precisa materialità. Come voi ricordate, la Legge 63/2001, quella
cosiddetta “di attuazione del giusto processo”, nel rivedere le qualifiche
soggettive di coloro che rendono dichiarazioni all’interno del procedimento
penale, e nel costruire quella complicatissima figura dell’imputeste o impumone,
il soggetto che come un camaleonte nel corso della progressione processuale
cambia colore e cambia veste, si trasforma in qualcos’altro, diventa quasi un
supereroe, sveste i panni ordinari dell’imputato per assumere i panni magici
dotati di superpoteri del testimone, altro frutto di una grande resistenza
culturale. Ormai penso che tutti avremmo capito qual è l’approdo definitivo di
tutto questo processo di revisione della prova dichiarativa, ovviamente
arriveremmo anche noi ad affermare che l’imputato ha il diritto di rimanere in
silenzio, ma se rende dichiarazioni giurerà come qualunque altro testimone che
partecipa al procedimento penale in quella veste, perché non potremmo arrivare
da nessun’altra parte, perché questo sistema, questo articolato frutto
dell’ingegno italico, è ingestibile. Comunque in quel frangente il legislatore
aggiunse, dopo l’art. 377 c.p., l’art. 377 bis c.p., norma molto interessante per
fotografare l’attuale laboratorio dell’evoluzione del processo penale, e vorrei
ricordarvi due passaggi di questa norma. L’art. 377 bis c.p., che in rubrica
riporta “induzioni a non rendere dichiarazioni o a rendere dichiarazioni mendaci
all’Autorità Giudiziaria”, ci dice: “Salvo che il fatto costituisca più grave reato,
chiunque - e quindi è reato comune, almeno se nel prosieguo della lettura non
proviamo che questo “chiunque” è solo apparenza - con violenza o minaccia o
con offerta o promessa di danaro o di altra utilità induce a non rendere
dichiarazioni o a rendere dichiarazioni mendaci la persona chiamata a rendere
davanti all’Autorità Giudiziaria dichiarazioni utilizzabili in un procedimento
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penale quando questa ha la facoltà di non rispondere, è punito con la reclusione
da 2 a 6 anni”. Tra l’altro pensate che la subornazione ha pene di gran lunga
inferiori, ma giustamente, si dice, questo è un reato di evento e quindi di danno,
non è un reato a tutela altamente anticipata com’è la subornazione, falso mito
del nostro ordinamento penale, reato che ha trovato scarsissima applicazione
nella pratica, condannato come tra il nulla dell’irrilevanza penale da un lato o, al
più, alcune generose applicazioni del favoreggiamento, e la consumazione della
falsa testimonianza in concorso nel reato consumato di cui fondamentalmente
tende a punire il tentativo. L’art. 377 bis c.p., norma che dovrebbe in realtà
garantire l’effettività di quel sistema articolato di cui parlavo, è norma, ripeto,
interessante, perché ci dice che vuole tutelare una categoria di persone che
rendono dichiarazioni nel processo, quelle che hanno la facoltà di non
rispondere, e ci dice che le vuole tutelare contro intromissioni sicuramente
illecite, nella loro sfera di libertà, nell’atteggiarsi nel decidere se esercitare o no
un diritto, perché la norma ci dice che hanno il diritto di non rispondere,
avrebbero il diritto di non rispondere, e quindi ben si comprende perché
vengono punite condotte sicuramente che hanno un contenuto dal valore illecito
quali sono la violenza e la minaccia, la coartazione della loro volontà. Ma poi ci
viene detto che viene punita l’offerta, la promessa o di danaro o di altra utilità,
perché queste persone o rimangano silenti, e cioè esercitino il loro diritto,
oppure dichiarino il falso. In quest’ultima occasione ancora una volta capiamo
la ragione effettiva di questa incriminazione, sostanzialmente non diversa da
quella della falsa testimonianza e della stessa subornazione: si vuole impedire
che queste persone nel procedimento penale - qui ci sta una delle grandi
differenze rispetto all’impostazione per esempio del 372 - però rendano
dichiarazioni mendaci; ma queste persone sono tutelate anche contro quella che
non è una coartazione della loro libertà ed è il mero esercizio di un loro diritto.
Cioè queste persone sono tutelate dal fatto che qualcuno gli prometta del danaro
perché non esercitino, o meglio, perché esercitino un loro diritto, cioè come in
un’attività pienamente lecita. E questo è bizzarro.
Alcuni dei commentatori più recenti hanno ritenuto che in questo caso al
legislatore abbia preso un po’ la mano la norma, quando l’ha scritta, e non si sia
reso conto esattamente di tutte le implicazioni. Io non penso che il legislatore
sia così imbelle, così ignorante; sono andato alla ricerca anche dei lavori
preparatori, secondo me è voluto arrivare oltre, e vuole arrivare a dire:
attenzione, intanto diamo ad ogni cosa il suo nome. Questa norma ha una serie
di contenuti definitori altissima. Abbiamo detto che le persone tutelate sono
quelle che hanno la facoltà di non rispondere, che non sono ovviamente solo
l’imputato di reato connesso, ma per esempio anche il testimone che ha diritto
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all’avviso come il prossimo congiunto. La norma parla di persone che hanno la
facoltà di non rispondere e il dato testuale tende ad allargare l’ambito di
applicazione. Poi ci dice che le dichiarazioni debbano essere utilizzabili e usa
un termine apparentemente in senso molto tecnico. Quindi è una norma che ha
una sua precisione definitoria e incrimina e fotografa delle ipotesi speciali di
favoreggiamento nella misura in cui queste dichiarazioni mendaci o non rese
sono rilevanti o possono essere rilevanti anche nella fase antecedente a quella
processuale, quindi nell’ambito delle indagini preliminari e quindi sicuramente,
nell’ipotesi in cui vi è un mendacio, questo può essere ritenuto di intralcio al
progredire dell’indagine del Pubblico Ministero.
A me sembra, ripeto una mia impressione, che il legislatore, pur con tutti i limiti
di questa norma incriminatrice, ci voglia dire che la norma del favoreggiamento
vada ridimensionata, vada riportata a una sua concreta offensività, e in questo
sono assolutamente d’accordo, ma soprattutto ci vuole dire che il
comportamento, quando parliamo del difensore, deve avere un risultato
immediatamente spendibile in termini di intralcio delle indagini, altrimenti non
abbiamo più alcun tipo di ancoraggio nella norma incriminatrice e soprattutto
non abbiamo più limiti legittimi all’esercizio del diritto di difesa. Quello che
pone l’art. 377 bis c.p. è la repressione di condotte ben definite a tutela di
interessi che possono essere posti in bilanciamento col diritto di difesa, perché
tra l’altro coinvolgono il diritto di difesa degli altri imputati eventualmente
coinvolti nel processo e delle altre parti processuali.
Questa è norma e questa è tendenza, secondo me, negli ultimi anni del
legislatore, che tende a sottrarre acqua al bacino del favoreggiamento e tende a
dimostrare come carattere residuale del favoreggiamento non significa
interpretazione che vuole il favoreggiamento come norma che rimedia alla
frammentarietà dell’intervento legislativo. Se così è, io direi che, al di là di
alcuni rigurgiti come sono quelli espressi da alcune delle pronunzie che sono
state qui oggi menzionate e alcuni assestamenti che comunque la giurisprudenza
dovrà ancora avere.. perché, parliamoci chiaro, poi la misura cautelare di quella
regione che non nomino - la sentenza del Tribunale di Torino - ha avuto anche
tanto scalpore perché sono provvedimenti isolati, ma sono anche assai pochi i
procedimenti per fatti di questo tipo, e quindi una giurisprudenza che deve
sgrezzarsi e deve assestarsi. Non voglio per questo essere per forza benevolo
con la mia categoria, ma è ovvio che è la pratica della materia che aiuta la
raffinazione del prodotto. Qui la materia è praticata molto poco, la casistica è
molto rara e soprattutto le massime giurisprudenziali di legittimità sono molto
astratte, molto vaghe. Sono condivisibilissime, perché è impossibile non farlo,
quelle che sono state lette qui oggi pomeriggio, ma in realtà sono molto poco
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utili a risolvere questa casistica molto variegata - sono d’accordo, spesso nasce
anche dal parto malato di qualche accusatore - che non è risolvibile
semplicemente in quella maniera e non è in realtà risolvibile nemmeno
affermando ipoteticamente, astrattamente, che la condotta di favoreggiamento
deve essere offensiva, perché chi eleva queste contestazioni facilmente
riuscirebbe a dimostrare una sua offensività in alcune di queste condotte.
Sicuramente un intralcio per l’indagine, ma perché, come ricordava il professor
Zanotti, è normotipo la stessa difesa, lo stesso atto di difendere, la stessa
eccezione sollevata alla Polizia Giudiziaria che accede al domicilio
dell’indagato per svolgere una perquisizione. Il difensore presente solleva
un’eccezione sulla legittimità dell’operato e tende quindi a influire sull’attività
dell’ufficiale di Polizia Giudiziaria dicendo: “Guarda che secondo me stai
facendo un’attività illegittima al limite dell’illecito, per questo e questo
motivo”, quindi sicuramente si può sostenere che sta tentando di condizionarlo,
nella realtà dei fatti è quello che vuole fare, e se ci riesce l’eccezione era
infondata; e perché l’ha fatto, il difensore? Sicuramente per dare una mano al
suo assistito che in fondo lo paga per questo. E come si fa a sostenere che
questo, volendo, pur essendo un paradosso, è un paradosso che tranquillamente
trova il suo giaciglio all’interno dell’alveo dell’art. 378 del Codice Penale?
Allora quello che voglio dire e che sto dicendo molto male, ma sono sicuro che
mi capirete ugualmente, è che il concetto di offensività, e il concetto stesso di
tipicità riletto alla luce del principio di offensività, se formulato un po’ troppo in
astratto non ci dà risultati soddisfacenti. Secondo me qui il primo vero punto di
partenza è il diritto di difesa come diritto costituzionalmente garantito, come
diritto riaffermato in tutte le sue sfaccettature, dall’evoluzione normativa
posteriore all’entrata in vigore del codice. La Legge 397, al di là dei poteri
concreti che ha attribuito al difensore, ha voluto affermare un principio; ora vi
leggo anch’io una massima, che non è che non abbia implicazioni pratiche,
perché, ve lo dico subito, il problema aperto è quello della produzione dei
risultati delle indagini difensive nella fase cautelare e soprattutto in sede di
convalida di arresto; però, dice la Cassazione nel 2002, nella Sezione II: “Gli
elementi di prova raccolti dal difensore ai sensi dell’art. 391 bis del Codice di
Procedura Penale sono equiparabili, quanto ad utilizzabilità e forza probatoria, a
quelli raccolti dal Pubblico Ministero e pertanto il Giudice al quale essi sono
stati debitamente presentati ai sensi dell’art. 391 octies stesso codice non può
limitarsi ad acquisirli, ma deve valutarli unitamente a tutte le altre risultanze del
procedimento spiegando, ove ritenga di disattenderli, le relative ragioni con
adeguato apparato argomentativo”. La sentenza cassata, o meglio, l’ordinanza
del Tribunale del riesame cassata, diceva: “Quanto a quello che ha prodotto la
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Difesa, l’attendibilità degli elementi di prova di fonte difensiva dovranno essere
verificati dall’Autorità Giudiziaria procedente nel proseguo dell’indagine” e
così venivano liquidati. Questa era la formula standard all’art. 38 Disposizioni
di Attuazione, io non ho esitato ad utilizzarla in quel periodo, oggi non la
utilizzo più, perché quello che mancava all’art. 38 Disposizioni di Attuazione
era la certificazione dell’attività del difensore, non la certificazione delle
dichiarazioni del testimone che sente il difensore, questa non potrà darla
nessuno, come nessuno può dare alcuna certificazione di quello che dice il teste
della corona; delle persone informate sui fatti sentite dalla Polizia Giudiziaria e
che rendono dichiarazioni accusatorie nessuno si sogna di chiedere al Pubblico
Ministero la certificazione della veridicità, si chiede però la certificazione del
processo acquisitivo di queste dichiarazioni, quindi si richiede che la Polizia
Giudiziaria faccia verbale, non che dica semplicemente che c’era un signore che
dice queste cose, si richiede che il Pubblico Ministero faccia verbale e così si
chiedeva, e questo era il senso dell’obiezione contro il 38 Disposizioni di
Attuazione, che questi elementi comparissero nel procedimento penale
attraverso una strada che era illuminata, non che rimaneva buia.
Ma, detto questo, il diritto di difesa è oggi consacrato attraverso la Legge 397 in
maniera più piena di com’era nell’impianto codicistico originario. Oggi il diritto
di difesa costituzionalmente garantito c’è stato posto ancor di più alla ribalta dal
legislatore. E allora come si fa a sostenere che non è il diritto di difesa il punto
di partenza per l’interpretazione delle condotte illecite? Io parto in questo caso,
per trovare il penalmente illecito, dal penalmente lecito; dirò di più: dal
penalmente doveroso. E quindi parto dalla deontologia e parto anche dal fatto
che non potrò mai ritenere un comportamento di favoreggiamento quello del
Difensore che discute la linea difensiva col proprio assistito e nel fare questo
sceglie per esempio che il proprio assistito si rifiuti di rispondere
all’interrogatorio, perché io ho sentito dire anche questo: che chiamato dalla
Polizia Giudiziaria l’indagato si rifiutava di rispondere e successivamente nel
corso del processo, quando decidere di rispondere al processo perché vuole in
realtà confessare, etc., di fronte a una domanda, in quel caso non maliziosa, ma
veramente ingenua del Pubblico Ministero: “Ma perché non l’ha detto subito
che ci risparmiavamo un sacco di fatica?”, dice: “Me l’ha detto il mio
difensore”. E il Pubblico Ministero torvamente chiese al Giudice di
trasmettergli gli atti di udienza perché potesse valutare l’eventuale rilevanza ai
fini dell’art. 378 del Codice Penale.
Quindi secondo me la vera chiave di partenza per l’interpretazione dell’art. 378
rimane il diritto costituzionalmente garantito del diritto di difesa. Poi mi rendo
conto, come dicevo prima, rimane aperto se è un problema di sola
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antigiuridicità o è un problema di tipicità. Su questo io sono molto più cauto e
non ho la statura dei relatori che mi hanno preceduto, quindi non sono in grado
di darvi una risposta definitiva. Per quanto riguarda i comportamenti
informativi, la risposta sul piano della tutela penale del segreto è una risposta
che mi piace molto come vero limite all’interpretazione della norma sul
favoreggiamento. Per quanto riguarda i comportamenti di altra natura qui sono
perfettamente d’accordo col Procuratore Delpino, diventa un problema invece
innanzitutto di tipicità. Alla luce o no di un principio di offensività, ripeto, sulla
cui rilevanza astratta io continuo ad avere profonde riserve, ma non solo io,
riporto riserve altrui.
Basta, non voglio tediarvi oltre, perché adesso stiamo andando veramente oltre.
PROF. MARCO ZANOTTI
Io mi riallacciavo un attimo a quel felice accenno del dottor Pistorelli al 377 bis.
c.p. È vero, è una norma molto interessante che non riterrei, per la verità, a
tutela delle persone che possono avvalersi della facoltà di non rispondere, ma a
tutela di un sapere probatorio, paraprobatorio il più esteso possibile, in realtà.
Non è questo. Se ne chiedeva il senso, il dottor Pistorelli: come mai un
legislatore introduce una norma per certi aspetti di difficile praticabilità? Io
un’idea ce l’avrei, la lancio, la lancio alla vostra e alla sua attenzione: nasce in
contestualità all’esigenza di dare attuazione al nuovo 111, giusto processo.
Quand’è che ci sono deroghe alla formazione della prova in contraddittorio?
Col consenso delle parti o in caso di provata condotta illecita. È una provata
condotta illecita che prima non si poteva basare che, forse, sulla sfuggente
ipotesi del favoreggiamento, col l’art. 377 bis c.p. sembra quasi a portata di
mano; sembrerebbe quindi che il collegamento funzionante fosse questo, però
non basta.
Perché parlavo prima di legislatore spregiudicato? Perché io non credo che
questa norma avrà un destino applicativo felice e non è nemmeno vero che
abbia una destinazione solo simbolica. Potrebbe avere una destinazione obliqua
tremendamente pratica. E se i suoi effetti si cogliessero sul piano del processo?
Io vi indico questa prospettiva, senza pretesa ovviamente di cogliere nel segno.
Cosa succede nel caso di una parte che solleva il dubbio di una subornazione
speciale nei confronti di un coimputato che ha il diritto di avvalersi della facoltà
di non rispondere e cambia versione rispetto a quello che ha detto in istruttoria –
indagine preliminare, pardon, anch’io ho la cultura del vecchio codice – oppure
si avvale della facoltà di non rispondere? C’è una protesta di una parte, il
dubbio di insinuazione che il coimputato è stato comprato, è stato minacciato, è
stato premuto in maniera illecita, un coup de theatre magnifico, lo disegna l’art.
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500 terzo e quarto comma del Codice di Procedura Penale. Quello che non
sembrava possibile, l’entrata nel fascicolo del dibattimento di quelle
dichiarazioni rilasciate in indagini preliminari, miracolosamente vi compare e
diventa invece elemento cognitivo per la decisione.
Avete mai pensato che potrebbe essere lì la chiave di risoluzione?
DOTT. ENNIO FORTUNA
Soltanto due minuti, perché mi premeva, data la natura di questo incontro e dati
i rapporti di grande amicizia che ci sono tra noi a Venezia, sottolineare il rischio
di un’interpretazione benevola di quella che è la documentazione della
investigazione difensiva. Io mi rendo perfettamente conto che la sentenza del
Tribunale di Torino potrebbe essere contestata sotto il profilo del
favoreggiamento, come ha fatto Delpino, e sotto il profilo dell’atto pubblico o
falsità, come ha fatto Pistorelli un attimo fa. Tuttavia vi inviterei, proprio in
quanto Difensori, a tenere conto dei risultati di un’interpretazione benevola del
genere, che io ritengo sbagliata per molti motivi che adesso non avrò il tempo di
dire, ma che tuttavia comporterebbero, secondo me, l’annullamento di tutta la
valenza delle investigazioni difensive.
Se ammettiamo che non ha valenza penale il comportamento del difensore che
omette dichiarazioni che ha ricevuto, allo scopo di favorire il proprio cliente, e
tra un po’ dovremo anche dire che non avrebbe valenza penale il
comportamento del difensore che verbalizza male, falsamente, artatamente, le
dichiarazioni che riceve, io credo che tra un po’, di questo titolo 6 bis del
Codice di Procedura Penale ne faremo strale, non servirebbe più a nulla. Io sono
convinto che l’interpretazione più rigorosa dovrebbe essere sostenuta proprio da
voi, dal punto di vista deontologico. Mi fermo alla deontologia proprio perché
sono partito dalla deontologia.
Quanto alla questione tecnica del falso in atto pubblico, Pistorelli dice che il
Difensore non è pubblico ufficiale: non l’ho mai pensato, per carità, sarebbe
veramente la fine del codice, nessuno ha mai detto una simile cosa. Io ho detto
semplicemente che, e non sono il solo a dirle perché lo dice la Cassazione,
anche il difensore può assumere potere certificativo, e ho citato credo l’art. 83
del Codice di Procedura Civile, però la Cassazione, proprio recentissima sempre il solito Troiano - ha detto che se il difensore non si limita a certificare
l’autografia del proprio cliente, ma sostiene nell’atto della procura che il cliente
ha reso la firma davanti a lui e quindi ne certifica l’autenticità, non si tratta più
di certificazione coll’art. 491, ma art. 478 secco, ed è Troiano.
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Ora se voi guardate la disciplina del titolo 6 bis troverete papale papale che l’art
391 ter c.p.p. parla di verbale. È un grande riconoscimento per la vostra
categoria, apposta dico che la dovete difendere.
DOTT. LUCA PISTORELLI
Prima che lei vada avanti mi lasci interromperla un attimo, e le chiedo scusa,
però non dobbiamo neanche prenderci in giro, perché siamo nel 2005, ancora
oggi negli uffici di polizia e nelle stanze di Procura non si registrano le
assunzioni e si fanno verbalizzazioni creative, anche in buona fede. Io
quotidianamente quando sento i testimoni in udienza mi sento raccontare
un’altra storia da persone in assoluta buona fede. E non sto parlando di
verbalizzazioni artatamente alterate, sto parlando di una procedura e di un
meccanismo culturale sbagliato qual è quello dell’interpretazione delle
dichiarazioni che promanano dalla fonte dichiarativa. In questo la legge sulle
indagini difensive pone al difensore un richiamo e un onere superiore a quello
che pone il Pubblico Ministero alla Polizia Giudiziaria, perché la dissociazione,
la verbalizzazione e relazione sulla verbalizzazione è esattamente quello che
dovrebbe esserci: la verbalizzazione è una mera registrazione delle
dichiarazioni, poi, di colui che le propone come prova..
DOTT. ENNIO FORTUNA
Ha detto lei quello che volevo dire: se è così è un verbale, è sicuramente un atto
pubblico, non c’è dubbio. A me interessava il profilo deontologico. Usa la
parola “verbale” nel codice e “verbale” significa una cola cosa. Comunque se vi
interessa la sentenza di Troiano ce l’ho.
Il discorso di Zanotti è stato di grandissimo interesse per quanto riguarda l’art.
379 bis c.p., ma mi chiedevo se questa battuta era della Difesa, visto e
considerato che, sia pure da opposti punti di vista, arriviamo tutti a dire che il
diritto di difesa é la matrice con cui interpretare o limitare l’art. 378 c.p., su
questo siamo pienamente d’accordo. Soltanto che io per esperienza vissuta,
forse per cultura di vecchio codice, parto dalla norma penale e concepisco il
diritto difensivo come limite. Ma se vogliono partire dal diritto di difesa sono
abbastanza d’accordo, non ho problemi. Riconosco che il diritto di difesa è
costituzionalmente garantito e limita di sicuro il 378; ma cosa dice il 378 è un
discorso che abbiamo fatto tutta la sera con grande passione tutti e credo che
abbiamo detto qualcosa di utile, ma ci sarebbe ancora moltissimo da dire. Però
Zanotti ha fatto un discorso molto acuto sul 379 bis, sui poteri di segretazione
del Pubblico Ministero, e io volevo invitarlo, l’ho fatto privatamente, proprio
perché sono d’accordo con lui, a meditare sull’altro fatto, che potrebbe essere
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rivelatore dell’indebitamente capace di togliere il reato. Se il Pubblico Ministero
fa la segretazione soltanto quando sussistono specifiche esigenze attinenti
all’attività di indagine e fa il decreto motivato, e lui già partiva che il decreto
non è motivato ed è una specie di contraddizione in termini pretendere la
motivazione col segreto, io mi chiedo, posso sbagliare, ma secondo me è una
forma anomala art. 650 c.p.: secondo me la strada è se questo decreto è
legittimo o non è legittimo, quindi quando Zanotti acutamente - la cosa mi è
piaciuta moltissimo, è per questo che intervengo su questo punto - si propone il
problema del Pubblico Ministero che totalizza il segreto, questa secondo me è
una cosa inconcepibile, impossibile, è un decreto illegittimo che deve cadere
automaticamente, perché la stessa pena si applica a chi dopo avere rilasciato
non osserva il divieto. Le stesse parole del 650, la stessa logica, la stessa
impostazione, se il decreto è illegittimo, poiché chiaramente il Pubblico
Ministero non può totalizzare il segreto per tutto, io sono convinto che questo
reato non sussista, a prescindere ancora dal diritto di difesa col quale quello che
ha detto Zanotti mi trova quasi del tutto d’accordo, tranne alcuni passaggi che
adesso non è il caso..
PROF. MARCO ZANOTTI
La simmetria è solo apparente: nell’art. 650 Codice Penale abbiamo un Giudice
che può disapplicare, ma nell’art.
379 c.p. non abbiamo un’istanza
giurisdizionale che può giudicare sulla legittimità o validità del decreto di
segretazione, c’è solo nell’art. 366 c.p. una facoltà, ma dove non è prevista non
è estensibile, a mio modo di vedere. Ma io non sono un processualista.
AVV. EUGENIO VASSALLO
Volevo solo provocare su un punto: quando parliamo di verbalizzazione dei
testi delle indagini difensive tutti i colleghi sanno che le Camere Penali hanno
suggerito come verbalizzare i testimoni. Le verbalizzazioni è bene che non
siano mai effettuate dal solo avvocato. Si è suggerito che l’indagine sia svolta
dal difensore avendo sempre presenti altre due persone.
Ma il punto è che quando il Pubblico Ministero interroga, interroga con un
ausiliario, e né il Pubblico Ministero né l’ausiliario potranno ai sensi del l’art.
197 c.p. testimoniare su quanto dichiarato, perché non sono testimoni
ammissibili. Questo è un piccolo particolare che sfugge, qualche volta. Il
Pubblico Ministero può interrogare nel chiuso della sua stanza e non potrà mai
testimoniare su ciò che gli è stato detto, e neanche il suo ausiliario, mentre noi è
bene che lo si faccia almeno con due testimoni, che testimoni saranno.
Ricordiamocelo!: interroghiamo sempre con più testimoni, perché potrebbe
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sempre esserci il teste che potrà venire poi in dibattimento e dire: “Io l’avevo
detto, ma l’avvocato non lo ha verbalizzato”. Ricordiamoci, dunque, è meglio
sempre in ogni caso registrare le dichiarazioni dei testimoni, ma ancor meglio
videoregistrarle. Grazie e buona sera a tutti.
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