I nuovi vizi capitali «la stravaganza» di Psicopompo Teatro Avvicinarsi al teatro non è certo facile. E non in senso metaforico. Oggi per entrare in teatro, seppur, bisogna ammetterlo, a un’ora piuttosto insolita, ho dovuto scavalcare, mentre la regista da sotto, mi teneva borse e pacchetti. A volte il teatro sembra avere un’aura tutta particolare di austerità e sacralità, mentre forse potrebbe essere l’arte più vicina al pubblico. Perché il teatro è fatto di materia organica, di umanità, di vita. Ma questo già lo sappiamo. Il teatro di Spregelburd-Cherubini, è un teatro complesso sì, ma di quella complessità fatta di sfumature, dettagli infinitesimali, umori, quella complessità così particolareggiata, e viva, e mutabile, e mutante di cui sono fatti gli esseri viventi. La stravaganza è il secondo capitolo di un’opera più grande scritta da Rafael Spregelburd – l’“Eptalogia di Hieronymus Bosh” – che Manuela Cherubini ha tradotto in italiano e portato in scena a Short Theatre in prima nazionale. L’intera opera si compone di sette capitoli, sette come i vizi capitali raffigurati dall’artista fiammingo. I sette vizi di Spregelburd non sono gli stessi del cattolicesimo, ma sono forse più rappresentativi della nostra contemporaneità di quanto non lo siano quelli classici. Sono determinati in modo del tutto arbitrario. E arbitraria è anche la scelta di Manuela Cherubini di partire da quello che in realtà dovrebbe essere il secondo capitolo dell’opera. La Stravaganza è uno spettacolo che sfugge a categorizzazioni, a spiegazioni anche. E questo è il suo punto di forza. Ognuno avrà la sua visione, la sua interpretazione, ognuno avrà la possibilità di una propria, personale fruizione. Tre sorelle che non si parlano più, ma pur negandolo si cercano. Tre gemelle tra qui si cela il diverso, l’altro. Dopo il parto, una delle tre gemelline non ce l’aveva fatta e allora i genitori si erano immediatamente adoperati per adottare un’altra bambina. Nessuno sa chi sia l’altra, l’estranea, la diversa, persino i genitori sembra che se ne siano dimenticati. Quando la madre sta per morire, di una malattia ereditaria molto grave, cerca di riunirle, di riportare alla memoria la verità per fare in modo che le “legittime” si possano curare. Ma le tre Marie (le sorelle si chiamano Maria Streghe, Maria Aiuto e Maria Ascella) sono contrarie a questa sorta di rimpatriata. Fingono di essersi dimenticate delle altre, di non sapere il numero di telefono, fingono di fregarsene, non mi importa ripetono, fingono di fare festa ed essere felici, fingono di essere malate. Fingono. Per non mostrarsi davvero. In scena due delle tre sorelle sono impersonate da Simona Senzacqua, il volto della terza appare su un video, è la sorella che lavora in televisione. Ma non si può parlare di monologo. Le voci si propagano con strumenti diversi, dai più comuni mezzi di comunicazione: televisione e telefono. I dialoghi sono lasciati interrotti e poi ripresi, la comunicazione è spezzata ma continua. Viene da chiedersi se le tre donne non siano forse un’unica persona. La drammaturgia di Spregelburd è qualcosa di troppo ibrido, di talmente bastardo (nel senso fecondo del temine) che ti scivola tra le dita, sfugge come qualcosa di umido, di bagnato, di organico, di vivo. Eleonora Tedeschi