Ferruccio Andolfi Dopo il trionfo della ragione Uno strumento di

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Ferruccio Andolfi
Dopo il trionfo della ragione
Uno strumento di sopravvivenza
La ragione è uno strumento di sopravvivenza. Lo
è in quanto aiuta a fronteggiare difficoltà e problemi.
Una persona è ragionevole e intelligente, da questo
punto di vista, nella misura in cui sa adattarsi a circostanze impreviste e venirne a capo. Questo è un primo
concetto, pragmatico, di ragione. Ma anche nel suo
aspetto teoretico, in quanto comprensione del mondo, essa mira a rendere possibile, e magari piacevole,
la vita, eliminando le paure che derivano da ciò che è
ignoto.
Fin dall’inizio è stato così. Gli antropologi insegnano
che le popolazioni primitive reagivano a queste paure
creando dei miti, cioè delle narrazioni riguardanti la
fondazione del mondo (cosmologie) e l’origine della
comunità, ad opera di qualche figura eroica, e riattualizzandole periodicamente nei riti, in occasione della
festa di Capodanno (V. Lanternari, La grande festa,
Dedalo, Bari 2004). Tutto ciò aveva lo scopo di schiudere alla comunità, dopo che il rito era stato compiuto,
un orizzonte rasserenato di opere profane.
Perché mai allora, negli ultimi decenni dell’Ottocento, Nietzsche mette in guardia dalla ragione considerandola nemica di un sano istinto di vivere? O perché prima di lui Schopenhauer, e dopo di lui Freud,
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denunciano il carattere illusorio delle costruzioni della
ragione?
Qui dobbiamo aprire un discorso su quale comprensione ha avuto la ragione di se stessa nella filosofia occidentale e, più da presso, nel corso dell’età moderna.
Astrazione e legame con l’esperienza
Un certo processo di astrazione, ovvero di allontanamento dalla particolarità e dalle certezze immediate
dei dati sensibili, sembra essenziale all’esercizio della
ragione, che sottopone a critica le opinioni correnti,
ciò che gli uomini comuni accettano con troppa facilità, il preteso buon senso comune. Sappiamo per
esperienza che risulta comodo restare legati a poche
semplici opinioni, che messe alla prova non hanno alcuna giustificazione credibile. Il potere sulle masse si
è sempre esercitato così, attraverso il mantenimento
dell’ignoranza e di luoghi comuni. E la filosofia si è posta, fin dalle origini greche, come un’istanza di liberazione dalla schiavitù delle opinioni e dei pregiudizi tradizionali. Socrate mirava proprio a questo, a mettere
in crisi le certezze dei suoi concittadini, liberandoli da
definizioni scontate delle virtù morali (la giustizia, la
santità ecc.) e aprendoli a concetti più elevati e astratti,
comprensivi cioè di tutti i casi riscontrabili.
Tuttavia in lui compare anche l’idea che questa verità
più astratta e generale può essere ritrovata da ciascuno
al proprio interno, attraverso un’analisi introspettiva,
che rimanda a qualche cosa che noi già sappiamo a un
livello prelogico. Per spiegare questo fenomeno Plato-
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ne, che di Socrate era discepolo, immagina che ciascuno, prima di entrare in questa vita, abbia contemplato
la verità delle cose nel «mondo delle idee». Per noi è
assai difficile attenerci a una convinzione del genere,
eppure possiamo identificare in essa un significato
plausibile. Ciascuno si trova, per così dire, all’interno
della verità ancor prima di cominciare a ragionare su di
essa – non nel mondo «iperuranio» delle idee, ma nella immediatezza della propria vita. Se non si parte da
questo livello del proprio vissuto, per quanto confuso
ed equivoco esso sia, non c’è modo di arrivare a nulla.
Questa interpretazione tendenziosa che suggerisco del
tema platonico di un accesso alla verità che precede
ogni discorso è paradossalmente un rovesciamento
dell’idealismo a cui il suo nome è legato, e rimanda
piuttosto alle intuizioni di quelle correnti empiristiche e vitalistiche che hanno attraversato la storia del
pensiero, affiancandosi e opponendosi costantemente
a quelle idealistiche. Per esse vale il motto che non può
esserci nulla nell’intelletto che innanzitutto non sia stato nella nostra sensibilità.
Autonomizzazione della ragione nell’età moderna
Finché la ragione si mantiene in armonia coi sensi,
non c’è motivo di pensare di volgerle le spalle, o di
oltrepassarla, come sembra suggerire il titolo di questa lezione: dopo il trionfo della ragione. Ma nell’età
moderna, in quel tratto della storia del pensiero che
va da Cartesio a Hegel, la ragione si è costituita in un
mondo a parte ed ha avanzato progressivamente pre39
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tese tali da rendere necessaria un’inversione di rotta. A
scuola questa tradizione, che conta pensatori di grande
prestigio, è talmente valorizzata, che si arriva a vedere in essa, con qualche esagerazione, la quintessenza
della filosofia.
Cominciamo dal suo fondatore, Cartesio. Quanto
sia viva la sua eredità lo si è visto recentemente a Parigi, dove il suo motto cogito ergo sum campeggiava in
francese (je pense, donc je suis) sulla colonna di place de la Republique durante la grande manifestazione
contro il terrorismo. Il fatto che io pensi rappresenta
per Cartesio l’unica evidenza di cui non si può dubitare – mentre le attestazioni dei sensi non forniscono per
lui una base di partenza altrettanto sicura, perché da
essi si può sempre essere ingannati. A partire dall’unica evidenza del cogito Cartesio ricostruisce tutto l’edificio del sapere.
Il suo assunto spiritualistico per cui «la mia essenza
consiste unicamente nel fatto che io penso» contiene
già in nuce la definizione che la filosofia moderna dà di
se stessa (l’osservazione è di Feuerbach). Gli autori che
appartengono a questa medesima linea, convenzionalmente detta “razionalistica”, da Spinoza a Kant fino a
Schelling e Fichte, realizzano, con diverse inflessioni,
questo progressivo movimento di autonomizzazione
della ragione. A metà Ottocento Feuerbach, un discepolo di Hegel, nei Principi della filosofia dell’avvenire
(1843, trad. it. Laterza, Bari 1994), nell’atto di avviare
un nuovo corso, dà conto di questa ascesa al cielo della
ragione sovrana.
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La filosofia hegeliana della storia
Non è questa la sede per seguire in dettaglio questo
percorso. Ci soffermeremo invece sul suo punto d’arrivo, la filosofia hegeliana. Le lezioni sulla filosofia della
storia, che gli alunni di Hegel ci hanno tramandato,
lasciano intendere meglio di altri scritti più astratti ed
oscuri quali siano le conseguenze del presupposto che
la ragione domini il mondo. Una visione empirica dei
fatti storici e della loro successione non ci permette di
cogliere altro che un incessante mutamento, apparentemente casuale. Se dovessimo arrestarci a questa prima intuizione, non potremmo che piangere sconfortati
il continuo formarsi e decadere di grandi istituzioni e
culture. Tutto alla fine ci sembrerebbe privo di senso.
Ma sotto questa trama di eventi casuali è possibile scorgere un disegno e una finalità, appunto razionale. Nella
storia dell’umanità i risultati si accumulano, malgrado
la decadenza dei soggetti, i singoli popoli, che li hanno
realizzati. È come se una fiaccola venisse trasmessa da
un popolo, che per un tratto è stato portatore di civiltà,
a un altro che gli succede, raggiungendo una spiritualità più profonda e una libertà più estesa. Inutile dire
che nel suo netto occidentalismo Hegel è convinto che
il movimento di avanzamento delle civiltà, partito da
Oriente culmini nei popoli europei e in particolare in
quelli germanici (Lezioni di filosofia della storia, vol. I,
La Nuova Italia, Firenze 1941).
Ma qui non ci interessa discutere quest’aspetto della dottrina, che pure ha contribuito a creare pregiudizi assai perniciosi. Vorrei portare l’attenzione sul presupposto stesso, che la ragione governi il mondo. Esso
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è del tutto gratuito e costringe a una lettura forzata dei
fatti. Del resto la sua origine non è affatto razionale.
Non è altro che uno spostamento nel campo del pensiero di un’idea originariamente religiosa, come Hegel
d’altronde non ha difficoltà ad ammettere, quella di
Provvidenza. Ma nella dogmatica cristiana la credenza nella provvidenza, cioè in una continua assistenza
di Dio, che si rivelerebbe in ogni avvenimento, anche
se non sempre è possibile indicare i modi della sua
azione, è appunto una fede. Una fede, aggiungerei,
che ha anche effetti benefici, infondendo nel credente
una forza che la coscienza di sé non basta ad assicurargli, e che diventa alienante solo quando il credente
si rifugia in un puro atteggiamento passivo di attesa
dell’intervento divino. Il piano di Hegel è però assai
più ambizioso. Egli non si limita a confidare, come
il credente, in un intervento divino imperscrutabile,
ma pretende anzi che il piano divino, e cioè razionale,
della storia possa e debba essere totalmente dispiegato di fronte al tribunale della ragione (ivi, pp. 18-21).
In ciò consiste appunto la considerazione pensante
della storia, nella dimostrazione delle finalità che ogni
grande azione storica realizza. Così la sua posizione
si pone sul punto di confine tra la visione religiosa
del mondo, che era stata fino ad allora dominante, e
una concezione razionalistica che conserva però elementi non secondari della religione cristiana. Fu verso quest’ambiguità che si appuntarono le critiche dei
discepoli più radicali di Hegel, di quella cosiddetta
“sinistra hegeliana”, che annovera tra i suoi esponenti
Feuerbach e Marx.
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Marx: la ragione come guida del cambiamento
Quest’ultimo, come sappiamo, rimprovera a Hegel
il suo conservatorismo. I filosofi finora hanno interpretato il mondo, si tratta invece di cambiarlo (XI tesi
su Feuerbach). Se i fatti vengono letti come se fossero momenti di realizzazione di un disegno razionale,
perciò stesso ottengono una giustificazione e non c’è
spazio per il cambiamento. Anche se lo sguardo è rivolto al futuro, Marx mantiene però una certa continuità con l’istanza hegeliana che la ragione domini il
mondo. Solo che questa non è più una constatazione
retrospettiva ma un imperativo. L’ordinamento razionale del mondo diviene un ideale normativo. Esso
coincide con l’idea della società comunista come una
società di produttori associati, che governano consapevolmente il processo di produzione, decidendo
che cosa produrre, come distribuire e remunerare il
lavoro, anziché subire la casualità di supposte «leggi
economiche».
Il lavoro, inteso come un’attività finalistica, rappresenta per entrambi la sostanza dell’uomo, la sua
«essenza», e insieme l’ossatura della vita sociale. Così
la maturità dell’uomo si misura per Hegel dalla sua
capacità di svolgere una «professione», e per Marx
parimenti solo il lavoratore raggiunge un’adeguata
coscienza di se stesso e della classe a cui appartiene.
Anche nell’avvenire del resto l’attività liberata («disalienata») sarà ancora un’attività finalisticamente
orientata. A dire il vero Marx intuisce che un vero e
proprio distacco dalle società del passato richiederà
un ulteriore passaggio, a un assetto sociale in cui la
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legge dell’equivalenza e del merito sia superata e si
faccia riferimento invece ai «bisogni» sempre differenziati degli individui.
Le passioni come mezzi di realizzazione
di finalità universali
In complesso però nel quadro dell’hegelismo e delle
sue modificazioni l’attenzione alla sfera delle «passioni» e dei bisogni sensibili è assai scarsa, o al più rimandata al futuro. Torniamo ancora per un momento alla
filosofia hegeliana della storia. Bene, un capitolo, dedicato ai «mezzi della realizzazione» dello Spirito, tratta degli individui. Hegel ammette che «a prima vista»
sembra che le azioni degli uomini «procedono dai loro
bisogni e passioni e interessi». Perché un’azione abbia
luogo essa deve innanzitutto importarmi, essere il mio
interesse. In essa devo soddisfare anche la mia esigenza
propria, l’amor proprio. Perché qualcosa sia compiuto
bisogna che gli uomini soddisfino in tale loro attività
anche se stessi. Persino quando agiscono a favore di
una causa, esigono che questa sia di loro gradimento.
Nulla di grande è stato compiuto senza passione. Essa
rappresenta l’elemento soggettivo e attivo mediante
cui soltanto possono essere realizzate finalità universali
di valore oggettivo (op. cit., pp. 66-82).
Da queste affermazioni si potrebbe ricavare l’impressione che le passioni ricevano un forte riconoscimento come motivazioni indispensabili dell’agire. Ciò
non toglie tuttavia che esse, come gli individui stessi
che ne sono portatori, acquistino davvero significato
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solo a condizione di essere «mezzi» di realizzazione dei
valori universali dello spirito e non abbiano quindi valore per se stesse. Perché uno Stato si trovi in uno stato
armonioso di «fioritura», è necessario che il momento
particolare della passione si unisca a un fine generale,
e ciò può avvenire solo mediante «lotte con l’interesse particolare e con le passioni, e una lunga e difficile educazione di esse» (ivi, p. 75) – cioè, potremmo
dire, mediante un loro disciplinamento. Laddove gli
individui si pongano invece in modo diretto l’obiettivo
di assecondare i loro desideri, ovvero di essere felici,
viene meno qualsiasi possibilità di progresso storico:
«la storia non è il terreno della felicità», «i periodi di
felicità sono in essa pagine vuote» (ivi, p. 82).
Feuerbach e la ragione sensibile
L’altro esponente della sinistra hegeliana che ho ricordato, Feuerbach, rappresenta, assai più di Marx,
a cui il suo nome è generalmente associato, le ragioni
del cuore. Queste ragioni erano già state fatte valere,
prima di lui, da un contemporaneo e antagonista di
Hegel, Friedrich Schleiermacher. Per questo esponente del pensiero religioso romantico – era un pastore
luterano –, l’organo che ci pone in rapporto con l’Assoluto non è la ragione, ma piuttosto il sentimento. Il
sentimento di cui ci parla questo autore ha una decisa
caratterizzazione religiosa, è il sentimento con cui ci
rapportiamo all’Universo o all’Assoluto (Discorsi sulla religione, 1788, trad. it. Morcelliana, Brescia 1989,
cap. I). Ora Feuerbach riprende questo motivo, ma
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cercando di spogliare il sentimento da ogni pretesa soprannaturalistica. Divino è per lui il sentimento come
tale, non quello che si riferisce a un oggetto religioso.
Di più, questa centralità del sentimento deve portare a
ripensare l’intero sistema delle facoltà umane. Anche
il pensiero logico e la volontà morale conterranno in
se stessi un’istanza sentimentale (L’essenza del cristianesimo, 1841, trad. it. Laterza, Roma-Bari 1997, “Introduzione”). L’espressione “ragione sensibile” potrà
sembrare strana, ma pure di questo si tratta, di una ragione che non presume più di tendere verso una verità
impersonale, attinta attraverso procedimenti deduttivi,
ma si pone in continuità con la vita e al suo servizio.
Una simile ragione non obbedisce agli interessi superiori della specie o della civiltà, ma si armonizza con i
bisogni degli individui, e innanzitutto con quel «desiderio di felicità», che Hegel aveva considerato così
poco significativo.
La passione, in questo quadro, cessa di essere lo
«strumento» di realizzazione di finalità che la trascendono, per diventare la sostanza dell’esistenza umana.
L’esistenza appartiene propriamente e solamente a chi
prova bisogni e, nella sua limitatezza, è capace di sofferenza. «Solo l’essere bisognoso è l’essere necessario»
afferma Feuerbach, capovolgendo l’idea teologica che
la necessità appartenga a Dio in quanto essere «autosufficiente». E ancora: «Solo ciò che è in grado di patire, merita d’esistere. L’essere più gravido di dolori,
quello soltanto è l’essere divino» – un’affermazione
quest’ultima che si addice agli esseri umani o al più
alla figura misericordiosa e sofferente di Cristo, l’uomo-Dio (Tesi provvisorie per una riforma della filosofia,
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in Principi della filosofia dell’avvenire, Einaudi, Torino
1948, p. 58). Qui la passione di cui si parla non indica esclusivamente i singoli «affetti» dell’animo ma un
più generale atteggiamento di «passività», che consente di essere impressionati dalla realtà piuttosto che di
assoggettarla al proprio volere, di vivere senza pregiudizi la varietà delle esperienze, di assecondare il proprio desiderio di felicità, contestando, in nome di esso,
anche la realtà costituita – per questo essa è descritta
come un «principio rivoluzionario». Questo elogio
della passività pone Feuerbach in netto contrasto con
l’antropologia hegelo-marxista, centrata al contrario
sull’idea che l’essenza umana si caratterizzi per i suoi
aspetti attivi – l’autocostruzione di sé attraverso il lavoro comunque inteso; e con il presupposto che la trama
razionale della realtà sia visibile nella ricostruzione del
passato oppure possa essere ristabilita una volta che
l’alienazione sia soppressa.
Tuttavia non per questo la ragione cessa di avere un ruolo. La testa e il cuore devono integrarsi: la
speculazione tedesca deve potersi combinare con il
cuore francese, secondo un topos comune al tempo,
o l’elemento maschile con quello femminile, secondo
una semplificazione che forse molti oggi non condividerebbero. La nuova filosofia che Feuerbach annuncia
si richiama quindi anche alla ragione, ma alla ragione
dell’uomo «integrale», a «una ragione imbevuta nel
sangue dell’uomo» (Principi della filosofia dell’avvenire, cit., § 50). Per essa non il razionale è vero, ma «solo
l’umano è razionale».
L’uomo, nella totalità delle sue dimensioni, è, in
questo nuovo approccio filosofico, l’oggetto del pensa47
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re, ma insieme anche il soggetto che pensa. Di qui l’imperativo di «non pensare come pensatore», ma come
«un membro del mondo». La vecchia filosofia razionalistica nella sua critica della visione religiosa delle cose
è restata a mezza strada, e quindi è stata costretta a
tornare nella teologia, mentre decisiva è solo una risoluzione della teologia che proclami la verità del cuore
(ivi, §§ 51 e 52).
La rigidità del carattere
Proviamo a verificare se queste affermazioni conservano un senso anche per noi, che siamo fuori dal
dibattito, allora assai vivo, sulla fuoriuscita dalla «speculazione», vale a dire dell’esercizio di una ragione
astratta che vantava la capacità di cogliere l’essenza
della realtà. Oggi chi si attenterebbe più di rivendicare
alla ragione una simile capacità di dominio? Le pretese
sembrano essere molto più modeste. Le ideologie hanno conosciuto una severa sconfitta, e la scienza sembra
voler limitare la sua presa a un sistema di realtà finite.
Tuttavia constatiamo che l’«educazione sentimentale» degli individui non ha fatto grandi progressi. Il loro
valore sembra essere riposto tuttora, in grande misura, nella loro capacità di «comprendere», magari con
l’intelletto scientifico anziché con la pura speculazione.
Si pensi ai sistemi in auge di misurazione dell’intelligenza o ai test d’ingresso alle più diverse carriere, che
premiano immancabilmente le capacità «logiche» dei
concorrenti. I difensori della scienza sono spesso non
meno assolutisti dei paladini romantici della ragione
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speculativa, che del resto al tempo volevano costituire
la filosofia come scienza.
Le conseguenze di un approccio razionalistico non
si riscontrano solo sul piano dell’apprendimento ma
anche su quello dei criteri morali. Sebbene l’etica di
ispirazione kantiana, con la sua netta opposizione della
legge (di ragione) ai desideri non domini più in modo
incontrastato, è ad essa che fa riferimento, magari in
modo inconsapevole, la coscienza collettiva. La ricerca
della felicità non ha ancora ottenuto un pieno diritto di
cittadinanza. L’opposizione tra un puro volere e la volontà di essere felici, che a parere di Feuerbach costituisce il nucleo di ogni volere (Etica e felicità, Guerini
e Associati, Milano 1992) è tuttora comune.
La difficoltà di costituire sistemi compiuti di interpretazione del mondo basati sull’assunto di un finalismo della natura e della storia viene ammessa, e tuttavia il finalismo si ripropone nelle singole esistenze
degli uomini, che vengono giudicate coerenti e apprezzabili solo a patto di unificarsi attorno a qualche valore
centrale – per lo più l’impegno lavorativo e politico.
Ora, un orientamento finalistico troppo marcato ed
esclusivo dell’esistenza non sembra compatibile con la
soddisfazione delle esigenze della sensibilità né con lo
sviluppo di capacità immaginative e creative.
Da questo insieme di elementi – il primato assegnato alla “ragion pura” in campo conoscitivo, l’etica del
dovere, l’accentramento della personalità attorno a un
fine che la struttura – non può derivare che una certa rigidità di carattere, che coarta la sfera dei desideri. Può darsi che nelle generazioni più giovani questa
stretta si sia allentata, e la dimensione della «legge»,
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come sostiene Massimo Recalcati, sia fin troppo assente. Ma, se questo avviene, è proprio perché la legge
appare assolutamente intimidatoria, non conciliata con
il suo polo opposto, che è appunto la passione.
Modelli diversi di cambiamento sociale
Proviamo in ultimo a vedere quali diversi modelli
di cambiamento sociale derivano dalla valorizzazione
rispettivamente della sola ragione o di quella che ho
chiamato “ragione sensibile”.
I progetti utopici che si sono succeduti nel tempo,
dando luogo anche alle rivoluzioni dell’epoca moderna,
muovevano da bisogni negati degli individui, e quindi
corrispondevano in linea di massima all’obiettivo di
assicurare loro una maggiore felicità. Le prime formulazioni hanno un impianto fortemente immaginativo.
Man mano che si sono venuti definendo nel senso di
una sostituzione di istituzioni sociali egualitarie a quelle ormai insostenibili dell’ancien règime, la ragione vi
ha assunto una parte prevalente fino alla propria stessa
divinizzazione (si pensi al culto giacobino della dea ragione). In nome della ragione e della giustizia si sono
commesse però anche molte atrocità. Goya, che aveva
sperimentato de visu di quali crudeltà fossero capaci
le truppe francesi in Spagna, mentre nei primi anni
dell’Ottocento portavano la luce del diritto uguale a
contrastare l’oscurità dell’Inquisizione, coniò la bella
espressione «El sueño de la razón produce monstruos».
La stessa idea generale e progressiva di «uomo» finì per
assumere il senso normativo e normalizzatore di un cri-
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terio per giudicare abnorme e riprovevole ogni deviazione dal modello, ogni individualità deviante.
Abbiamo detto prima che anche l’ideale politico
marxiano non sfugge del tutto a questa logica dell’uguaglianza razionale. Tanto è vero che negli anni ’60
del Novecento un marxista critico come Marcuse sentì
la necessità di integrare il modello di trasformazione
sociale proposto nel Capitale con la richiesta di una
«nuova sensibilità».
La ragione è certo una forza progressiva, come sostiene nel 1941 in Ragione e rivoluzione, durante la
guerra, lui rifugiato dalla Germania negli Stati Uniti. Contro le forze oscurantiste e irrazionalistiche del
nazifascismo il richiamo alla forza critica del pensiero
rappresenta di sicuro una prima forma di resistenza.
Ma la ricerca di un modello razionale di trasformazione sociale deve avere per guida i desideri di felicità
degli individui. Questi desideri, assunti per se stessi,
in modo immediato, mancano di vastità di prospettiva. La ricerca del piacere, l’edonismo, è una protesta
contro l’ordine esistente che lo inibisce. Sotto questo
aspetto merita di essere apprezzato, ma solo qualora manchi la possibilità di coordinare i desideri in una
grande utopia sociale di valore universale, in cui la
felicità si congiunge alla ragione. Perché questa non
si sovrapponga ai desideri, in modo «repressivo», è
necessario che i soggetti della liberazione, tra i quali Marcuse include, accanto ai lavoratori, tutte le minoranze sfruttate del mondo, reagiscano innanzitutto
all’oppressione che ha limitato la loro stessa capacità
di percepire le cose, maturando appunto una «nuova
sensibilità». Nel Saggio sulla liberazione, apparso nel
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1969, egli sostiene che la nuova sensibilità è divenuta
«una forza politica». Se è vero che una premessa necessaria del cambiamento è costituita dal potenziamento
delle risorse produttive, tecniche e scientifiche, di cui
una società è dotata – il famoso «sviluppo delle forze
produttive» – nessun cambiamento economico-politico potrà creare una vera discontinuità con il passato se
non sarà realizzato da uomini diversi, che «siano fisiologicamente e psicologicamente capaci di esperire le
cose e gli uomini fuori del contesto della violenza e dello sfruttamento», provvisti cioè di un «ethos estetico»
(Einaudi, Torino 1969, pp. 36-38). L’estetica, secondo
il grande filosofo tedesco che qui Marcuse aveva indubbiamente presente, Kant, è appunto il luogo della
mediazione tra ragione e sentimento. In questa sfera il
sentimento si esprime ma raggiunge anche una sorta
di universalità, che ricorda le regole della ragione, ma
non coincide con esse.
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