Note e discussioni
L ’efficienza dell’esercito italiano nella grande guerra
Giorgio Rochat
Gli studi
Gli studi di taglio tradizionale. Parlare dell’ef­
ficienza dell’esercito italiano non è facile, an­
che perché gli studi disponibili forniscono
scarso aiuto1. Prendiamo come riferimento
da una parte la relazione ufficiale deH’Ufficio
storico dello Stato maggiore dell’esercito e le
pubblicazioni documentarie che la integrano,
dall’altra gli studi di Roberto Bencivenga e
Piero Pieri, ossia la migliore riflessione tecni­
ca sulla guerra italiana2. Tutti lavori che ri­
salgono sostanzialmente al ventennio tra le
due guerre mondiali, appoggiati e ampliati
da una produzione abbondante dello stesso
periodo, di livelli diversi e con componenti
crescenti di agiografia.
Questi studi offrono una buona base docu­
mentaria e narrativa, sufficientemente com­
pleta, dettagliata e onesta nel riconoscere le
nostre sconfitte e il valore del nemico, con
un limite di fondo: sono condotti soltanto
su fonti interne (memorie dei comandanti e
carteggi degli alti comandi e del ministero
della Guerra), con una scarsa conoscenza de­
gli studi paralleli sia degli avversari che degli
alleati (che hanno la stessa impostazione
chiusa)3. E non utilizzano la ricchissima (e
dispersa) memorialistica dei combattenti. Di
conseguenza offrono una buona ricostruzio-
Comunicazione presentata al convegno internazionale “ Grande guerra e mutamento: una prospettiva comparata”, svol­
tosi a Trieste dal 28 settembre al 1° ottobre 1995. Con qualche modifica rispetto al testo originario, in corso di stampa
con gli atti del convegno come fascicolo monografico della rivista fiorentina “ Ricerche storiche” .
1 Le indicazioni bibliografiche che diamo servono soltanto a esemplificare il discorso, senza alcuna ricerca di una com­
pletezza impossibile in questa sede.
" Si veda in primo luogo la Relazione delTUfficio storico dello Stato maggiore dell’esercito, L ’Esercito italiano nella
grande guerra 1915-1918, Roma, 1927 sg., 37 tomi, per due terzi usciti entro gli anni trenta, gli altri dalla fine degli anni
sessanta al 1988. Tra le opere che la sorreggono hanno particolare importanza Le grandi unità nella guerra italo-austriaca 1915-1918 e i Riassunti storici dei corpi e comandi nella guerra 1915-1918, Roma, 1924-1931, 12 voi. Cfr. Oreste Bovio,
L'Ufficio storico dell’Esercito. Un secolo di storiografìa militare, Roma, Ufficio storico dello Stato maggiore dell’eserci­
to, 1987. Inoltre Ministero della Guerra, Ufficio statistico, La forza dell’Esercito. Statistica dello sforzo militare italiano
nella guerra mondiale, a cura di Fulvio Zugaro, Roma, 1927. Gli studi più importanti sono quelli di Roberto Benciven­
ga, Saggio critico sulla nostra guerra, Roma, 1930-1938, 5 voi. editi presso piccole tipografie perché l’autore era emar­
ginato come avversario del regime fascista, e Piero Pieri, La prima guerra mondiale 1914-1918. Problemi di storia mili­
tare, Torino, Facoltà di magistero, 1947 (quasi tutti contributi già apparsi su riviste storiche dal 1923 al 1941; nuova ed.
a cura di G. Rochat, Roma, Ufficio storico dello Stato maggiore dell’esercito, 1986). Ci limitiamo a citare queste opere
per chiarire cosa intendiamo per studi “tradizionali” . Per un discorso più ampio cfr. G. Rochat, L ’Italia nella prima
guerra mondiale, Milano, Feltrinelli, 1976, e Id., Gli studi di storia militare sull’Italia contemporanea, “ Rivista di storia
contemporanea”, 1989, n. 4, pp. 605-627.
3 Fa eccezione Pieri, che conosce bene la produzione austriaca e quella tedesca relativa al fronte italiano e recensisce
molte opere di interesse generale francesi, tedesche e austriache (e inglesi tradotte).
‘Italia contemporanea”, marzo 1997, n. 206
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Giorgio Rochat
ne delle decisioni strategiche e delle operazio­
ni, senza scendere al comportamento dei mi­
nori reparti e dei soldati; e non affrontano
problemi (pur dibattuti vivacemente nel do­
poguerra) come il dissenso dei soldati, il regi­
me disciplinare, la prigionia.
Inoltre questa produzione risente del calo
di vivacità culturale degli ambienti militari ne­
gli anni trenta, di cui si possono indicare più
cause: la tendenza del regime fascista a favori­
re in ogni campo la celebrazione rispetto alla
discussione, la naturale inclinazione di un
esercito vittorioso a non mettere in discussio­
ne le esperienze e i risultati raggiunti durante
il conflitto, un corpo ufficiali che dava più pe­
so all’anzianità che alla preparazione e tende­
va a chiudersi su se stesso. Il discorso dovreb­
be essere più ampio, ma ciò che ci interessa ri­
levare è che negli anni trenta le esperienze del­
la grande guerra furono oggetto in Germania
e Gran Bretagna (un po’ meno in Francia) di
riesami e approfondimenti parziali e di revi­
sioni critiche di respiro, mentre in Italia la cri­
tica storico-militare calava di livello e gli studi
di Bencivenga e Pieri avevano una diffusione
limitata45.Dopo il 1945 questo settore di studi
non ha avuto particolare sviluppo3. In com­
plesso, ci garantisce una solida base, ma lascia
troppi problemi senza risposta.
Gli studi critici degli ultimi decenni. Alla fine
degli anni sessanta tre volumi riaprono il di­
scorso sulla grande guerra: I vinti di Caporetto e II mito della grande guerra di Mario
Isnenghi e Plotone d ’esecuzione di Enzo For­
cella e Alberto Monticone6. Negli anni set­
tanta l’interesse critico per la storia naziona­
le della generazione del ’68 favorisce lo svi­
luppo di un filone di ricerche centrate sulle
proteste e la repressione interne all’esercito
(i contributi più sbrigativi sono giustamente
dimenticati, ma altri meritano tuttora piena
considerazione). Poi gli studi si ampliano al
fronte interno, ai problemi della mobilitazio­
ne industriale e della classe operaia, all’orga­
nizzazione del consenso a più livelli. Gli anni
ottanta vedono il successo di un altro filone
di ricerche sulle varie forme di disadatta­
mento provocate dal conflitto, sulle diverse
nevrosi dei combattenti e sulle reazioni delle
istituzioni sanitarie e militari7. Infine, anche
per l’influsso della storiografia inglese e
francese, il discorso si amplia ai problemi
dei comportamenti e mutamenti collettivi,
4 Dal clima di vivaci critiche e audaci proposte del dopoguerra italiano, così come di aspre polemiche tra generali (cfr.
G. Rochat, L ’esercito italiano da Vittorio Veneto a Mussolini, Bari, Laterza, 1967) e dai buoni studi degli anni venti si
passa gradualmente a un conformismo ora dignitoso ora trionfalistico, in cui non è possibile una riflessione critica sulle
vittorie d’Etiopia e di Spagna. Tutti gli studi presentati da Pieri (e raccolti in La prima guerra mondiale 1914-1918, cit.)
che non si limitano a analizzare la guerra combattuta, ma ne traggono spunto per riflessioni più ampie sono di autori
stranieri (Konrad Kraft von Dellmensingen, Alfredo Krauss, G.C. Wynne, Jean Montheilet). Comunque Pieri non mo­
stra di conoscere studiosi innovatori come Basii Henry Liddel Hart, Heinz Guderian, Charles De Gaulle.
5 L'affermazione è ingiusta verso gli ultimi lavori di Pieri e i primi di Monticone, nonché per gli ultimi volumi della
Relazione ufficiale. Tuttavia riassumiamo una situazione generale, rimandando a G. Rochat, L ’Italia nella prima guerra
mondiale, cit. Non si è finora avuta una ripresa di ricerche sistematiche nei grandi archivi della guerra, visti soltanto per
episodi e problemi limitati.
6 Mario Isnenghi, I vinti di Caporetto nella letteratura di guerra, Padova, Marsilio, 1967 (un volume meno noto dei se­
guenti, con un’interpretazione della sconfitta discutibile e stimolante, da rileggere); Enzo Forcella, Alberto Monticone,
Plotone d ’esecuzione. Iprocessi della prima guerra mondiale, Bari, Laterza, 1968; M. Isnenghi, Il mito della grande guerra
da Marinetti a Malaparte, Bari, Laterza, 1970 (volume ancora oggi fondamentale; 2a ed. Bologna, Il Mulino, 1989).
7 L’asse della ricerca fu offerta dai convegni di Vittorio Veneto del 1978 (M. Isnenghi, a cura di, Operai e contadini nella
grande guerra, Bologna, Cappelli, 1982; di Rimini del 1982 (Giovanna Procacci, a cura di, Stalo e classe operaia in Italia
durante la prima guerra mondiale, Milano, Angeli, 1983) e di Rovereto del 1985 (Diego Leoni, Camillo Zadra, a cura di,
La grande guerra. Esperienza, memoria, immagini, Bologna, 11 Mulino, 1986). Per una rassegna critica cfr. Bruna Bian­
chi, La grande guerra nella storiografia italiana dell’ultimo decennio, “Ricerche storiche” , 1991, n. 1; e Angelo D’ Orsi,
La grande guerra. Ricerca storica e dibattito negli ultimi vent'anni, “Giano” , 1989, n. 3, e 1990, n. 4.
L’efficienza dell’esercito italiano nella grande guerra
che sono alla base del convegno di Trieste
del 1995.
Questi filoni di studi, che per brevità defi­
nisco critici o forse meglio innovativi, dal
mio punto di vista hanno un grande merito
e un limite di fondo. Il merito è evidentemen­
te di spostare l’interesse sull’uomo, sui singoli
combattenti e poi sulla collettività della trin­
cea. Gli studi tradizionali non si occupano
dei soldati che a livello di numeri e statistiche.
La memorialistica (tutta di ufficiali) li rap­
presenta secondo stereotipi come il soldatino
obbediente, l’eroe senza macchia, l’ardito
entusiasta e terribile, oppure il vile capace
di ogni bassezza (più recente e costruito lo
stereotipo del ribelle e/o vittima della mac­
china bellica). I nuovi studi rovesciano il di­
scorso, da una parte con il difficile reperi­
mento e la valorizzazione di fonti documen­
tarie espresse dai soldati senza mediazioni,
come epistolari, diari, memorie inedite (la
piccola percentuale che si è salvata da ottant’anni di disinteresse), lavorando anche negli
archivi di ospedali, tribunali, amministrazio­
ni locali e altri enti che gestivano momenti
della vita militare. Dall’altra questi studi mi­
rano a ricostruire le reazioni dei soldati in
trincea, in particolare ripercorrendo le diver­
se forme di rifiuto della guerra, dalle diser­
zioni e dalle nevrosi alle manifestazioni di
dissenso o estraneità nelle lettere alle fami­
glie. Che la grande maggioranza dei soldati
dovessero fare una guerra che non volevano
e non capivano, è riconosciuto da tutta la
produzione posteriore al 19458. Questi studi
non cercano di quantificare il dissenso che
registrano (del resto lavorano su campioni
molto ristretti), ma gli danno una valenza
più profonda: si tratta di un dissenso “ esi­
stenziale” , che non nasce da situazioni speci­
fiche riconducibili a vicende individuali, ma
dalla natura stessa della guerra, da una si­
tuazione di tutti. I casi di diserzione non con­
tano tanto per il numero di quelli rilevati e
89
perseguiti, ma perché esprimono una tenden­
za collettiva, un rifiuto generalizzato nel
profondo, anche quando non trovano realiz­
zazione per l’intervento di fattori esterni, in
sostanza l’articolato apparato repressivo.
Ritengo che questi studi (che costituiscono
un complesso assai più ricco e talora contrad­
dittorio di quanto si possa dire in poche ri­
ghe) siano di grande interesse e importanza,
perché per la prima volta affrontano con in­
telligenza e documentazione i comportamen­
ti dei soldati. Il loro limite di fondo, mi sem­
bra, è che si fermano all’analisi del rifiuto,
senza prendere in considerazione i fattori
che ne limitano l’incidenza (che ovviamente
non possono essere ricondotti soltanto al­
l’apparato repressivo). In sintesi, per chi stu­
dia l’orrore e i sacrifici della guerra di trincea,
la cosa più notevole non è che una minoranza
di soldati abbia cercato una fuga nell’autolesionismo, nella diserzione, nelle nevrosi o al­
tro, ma che la grande maggioranza abbia
continuato a sopportare e combattere.
Gli studi settoriali su corpi e combattimenti.
Negli ultimi decenni ha avuto un interessante
sviluppo un altro filone di studi militari setto­
riali, ossia dedicati a episodi delimitati (la ricostruzione di un combattimento, la storia di
un forte o di una cima) oppure a singoli corpi
e reparti. Sono ricerche generalmente legate
alle regioni nord-orientali, dove le tracce del­
la grande guerra sono ancora visibili, spesso
condotte al di fuori di università e istituzioni
e in collaborazione con studiosi austriaci (più
raramente sloveni), con editori locali e una
diffusione regionale. Offrono pregevoli ap­
profondimenti degli aspetti operativi, che do­
cumentano la capacità e l’efficienza delle
truppe contrapposte, senza cedimenti agio­
grafici più gravi di una certa retorica alpina
(non ci occupiamo della parallela sottopro­
duzione turistico-commerciale). La produ­
zione è troppo articolata perché sia possibile
Cfr. Piero Melograni, Storia politica della grande guerra, Bari, Laterza, 1969.
90
Giorgio Rochat
citare alcune opere rappresentative. Dal no­
stro punto di vista il limite di questi studi è
che sono dedicati prevalentemente alla guer­
ra in montagna e ai battaglioni alpini, quindi
le loro conclusioni sono soltanto parzialmen­
te utilizzabili per il fronte dell’Isonzo.
Le maggiori lacune degli studi. La lacuna più
grossa degli studi militari sulla guerra italia­
na è senza dubbio la mancanza di ricerche
comparative su quanto avveniva sugli altri
fronti. Il fatto è così evidente che non deve es­
sere illustrato. Gli studi francesi, tedeschi, in­
glesi e ora statunitensi sulla prima guerra
mondiale sono ormai intrecciati, ma conti­
nuano a considerare il fronte italo-austriaco
del tutto secondario, né degno di qualche in­
teresse (basti pensare agli errori e sciocchezze
di cui sono generalmente farcite le poche pa­
gine che le storie generali del conflitto devo­
no dedicare all’Italia). Dalla nostra parte la
situazione non è molto migliore: gli storici
italiani conoscono oggi la produzione stra­
niera, ma la utilizzano come stimolo più che
come strumento di lavoro e confronto (ecce­
zion fatta per le ultime ricerche su nevrosi,
comportamenti e mutamenti e per quelle sul­
la guerra di montagna)9. A titolo d’esempio,
gli studi su diserzione e rifiuto di obbedienza
non si preoccupano di cercare un confronto
con quanto avveniva negli altri eserciti (a co­
minciare dagli ammutinamenti francesi del
1917) 10.
Una conseguenza di questa situazione è
che gli studi stranieri vecchi e nuovi sull’orga­
nizzazione della guerra di trincea, sulla tatti­
ca offensiva e difensiva, ma anche su logistica
e retrovie, hanno avuto scarsa eco in Italia,
così come gli studi innovativi di Jules Maurin
sui soldati11. Un’altra lacuna che va segnala­
ta è la mancanza di storie generali sulla guer­
ra italiana in cui gli aspetti militari abbiano
rilievo adeguato12. Un fatto indicativo della
discontinuità della ricerca storica nazionale
sulla grande guerra.
In conclusione, gli studi disponibili non si
pongono il problema dell’efficienza dell’eser­
cito e non offrono strumenti specifici per va­
lutarla, ancora con l’eccezione di quelli setto­
riali citati.
L’efficienza dell’esercito:
metri di valutazione
Il concetto di efficienza di un esercito è quan­
to mai vago e opinabile. Non esiste la possi­
bilità di definirla e valutarla in termini ogget­
tivi, come un record di atletica leggera; l’effi­
cienza di un esercito è semmai simile a quella
di una squadra di calcio, si misura soltanto
nel confronto con gli avversari del momento
e sui risultati conseguiti. Però l’esito di una
guerra è ben più difficile da valutare che il
successo nel campionato di calcio o nella
coppa del mondo. Se bastasse la vittoria,
non ci sarebbero dubbi, perché l’esercito ita­
liano uscì vittorioso dalla grande guerra; ma
rimane il problema dei costi del successo e
delle sue conseguenze. In sostanza, nessuno
9 II convegno di Trieste del 1995 sulla grande guerra (cfr. nota zero) è il primo italiano in ottant’anni impostato real­
mente su base internazionale, anche se le relazioni straniere e italiane sono affiancate e non ancora intrecciate e svilup­
pate in chiave comparativa.
10 Cfr. Guy Pedroncini, Les mutineries de 1917, Paris, Puf, 1967, e 1917. Les mutineries de l ’armée française, Paris, Julliard, 1968.
11 Cfr. Jules Maurin, Armée, guerre, société. Soldats languédociens 1889-1919, Paris, Pubi. Sorbonne, 1982. Si tratta
dell’unico studio sistematico di un campione di soldati francesi analizzati secondo angolature diverse; per indicarne l’in­
teresse, viene documentato per la prima volta che le perdite in guerra sono percentualmente più elevate per i contadini (a
cominciare da quelli poveri) che per i cittadini e soprattutto per la borghesia.
12 Con l’eccezione di P. Pieri, L'Italia nella prima guerra mondiale, Torino, Utet, 1960 [poi Torino, Einaudi, 1965], vo­
lumetto da tempo sorpassato (e oggi non più ristampato), ma non ancora sostituito adeguatamente.
L’efficienza dell’esercito italiano nella grande guerra
dei metri possibili si presta a valutazioni pre­
cise e indiscutibili. Tutto il discorso si svolge
su interpretazioni e giudizi soggettivi. Cer­
chiamo almeno di condurlo con ordine.
L ’“opinione comune” dell’inefficienza italia­
na. La convinzione di una scarsa efficienza
dell’esercito italiano è diffusa. La storiogra­
fia straniera non ha dubbi sul fatto che le no­
stre truppe valessero poco sotto tutti i punti
di vista, ma non merita attenzione perché
giudica sulla base di pregiudizi vecchi e nuovi
(non senza punte di razzismo, anche nei rari
giudizi benevoli) e non di studi seri. Anche
una frequente “opinione comune” nazionale
non ha dubbi. La maggior parte degli storici
italiani che studiano il conflitto nei suoi
aspetti politici, economici, sociali (senza di­
stinzioni di tendenze politiche) dà per sconta­
to che l’efficienza dell’esercito fosse piuttosto
scarsa, senza sentire il bisogno di una verifi­
ca. Una “ opinione comune” molto diffusa
che nasce da più fattori: una reazione legitti­
ma ai trionfalismi non solo fascisti, la pro­
fonda impressione che lasciano ancor oggi i
massacri sul Carso, l’eco di critiche fondate
e non approfondite, anche il discredito getta­
to sui generali dall’infausto esito della guerra
di Mussolini, infine la tendenza nazionale a
oscillare senza mezze misure tra gli entusia­
smi nazionalistici e l’autoflagellazione vittimistica. U n’analisi delle cause e della diffu­
sione di questa “ opinione comune” sarebbe
comunque opportuna, poiché l’immagine
può contare più della realtà dei fatti.
Questa “opinione comune” non tiene con­
to degli studi tradizionali citati, in primo luo­
go perché pochi li conoscono davvero, poi
perché non possono rispondere ai molti dub­
bi e interrogativi delle ricerche recenti. La
storiografia critica non si occupa di valuta­
zioni generali sull’efficienza dell’esercito,
ma, anche al di là delle intenzioni e dei risul­
tati conseguiti, finisce col presentarlo come
minato alle radici dal rifiuto dei soldati, da
diserzioni e rivolte. Non bastano a corregge­
91
re questa tendenza gli studi settoriali citati,
perché hanno una diffusione limitata e pos­
sono essere liquidati sbrigativamente come
combattentistici, tanto più che non sono fir­
mati da docenti universitari.
Elementi comparativi. La prima esigenza per
una valutazione meno superficiale è l’uscita
dal provincialismo, ossia l’attenzione a quan­
to accadeva fuori d’Italia. Come abbiamo
detto, studi comparativi non esistono, né sa­
rebbe comunque facile un confronto tra eser­
citi impegnati su fronti diversi e contro av­
versari diversi. Si possono tuttavia fare alcu­
ne osservazioni parziali. In primo luogo, dal­
l’insieme degli avvenimenti e della storiogra­
fia è impossibile non riconoscere alle truppe
italiane un’efficienza più o meno pari a quelle
austro-ungariche, inferiore nel nostro primo
anno di guerra e superiore nell’ultimo. La
mancanza di studi comparativi (che in questo
caso sarebbero possibili, anzi doverosi) limi­
ta tuttavia il riconoscimento: l’esercito au­
stro-ungarico va misurato sulla buona fama
che aveva nel 1914 e sulle prove migliori date
nel conflitto, oppure sulle sue sconfitte e sul
crollo finale? E interessante notare quanto
continui a pesare nei nostri giudizi e pregiudi­
zi la propaganda denigratoria del tempo di
guerra, che agli austriaci riconosceva soltan­
to la ferocia nel combattimento, ma non la
dignità di un grande esercito (tanto che ancor
oggi Caporetto sembra una vittoria tutta te­
desca).
In secondo luogo, il confronto con gli altri
eserciti che operarono in Italia merita mag­
giore attenzione, perché non convalida
l’“ opinione comune” dell’inferiorità italiana.
Le divisioni tedesche che avevano trionfato a
Caporetto non riuscirono nelle settimane se­
guenti a sfondare sul Grappa e sul Piave. E le
divisioni francesi e inglesi scese in Italia dopo
Caporetto e impiegate in prima linea nel 1918
non dimostrarono una particolare superiori­
tà su quelle italiane. Entrambi gli episodi non
sono di dimensioni cosi rilevanti da permette­
92
Giorgio Rochat
re conclusioni generali, ma non vanno di­
menticati (e meriterebbero studi specifici).
Non servono poi studi approfonditi, ma
basta una qualche conoscenza della guerra
sul fronte occidentale per ridimensionare tut­
ta una serie di accuse tradizionali all’esercito
italiano. Gli attacchi frontali reiterati con
perdite spaventose e risultati minimi, la rot­
tura in profondità sempre annunciata e mai
raggiunta, i gravi errori dei generali e la bru­
talità del regime disciplinare, autolesionismo
e nevrosi, diserzioni e ammutinamenti, sono
elementi connaturati alla guerra di trincea
su tutti i fronti. Registrarli e denunciarli si­
gnifica mettere in evidenza la crisi dell’“arte
m ilitare” e i problemi di efficienza di tutti
gli eserciti della prima guerra mondiale, anzi­
ché dare per scontata l’inferiorità dell’eserci­
to italiano.
Gli obiettivi della guerra. Un metro di valuta­
zione troppo spesso dimenticato, ma indiscu­
tibile, è la capacità dell’esercito italiano di
raggiungere gli obiettivi che il governo gli in­
dicava, anzi di andare oltre i piani di Sonnino, visto che ottenne non soltanto la sconfit­
ta, ma la disgregazione dell’Austria-Ungheria. Ciò richiese tre anni e mezzo di guerra,
invece dei pochi mesi preventivati, e perdite
spaventose in uomini e risorse; ma lo stesso
si può dire per inglesi e francesi. È poi indi­
scutibile che l’esercito austro-ungarico aveva
già subito un forte logorio nel 1914-1915 con­
tro russi e serbi prima di concentrare le sue
energie sul fronte italiano; ma questo era il
presupposto dell’intervento del maggio
1915, l’esercito italiano non poteva affronta­
re alla pari quello austro-ungarico, quindi si
inseriva in una guerra di coalizione.
Il fatto che l’esercito rispose appieno alle
esigenze del governo e della classe dirigente
dovrebbe già essere il miglior riconoscimento
possibile. Le disillusioni del dopoguerra non
gli sono imputabili, se non in quanto una vit­
toria superiore alle aspettative e gonfiata dal­
la propaganda incoraggiò ambizioni impe­
rialistiche che non tenevano conto dei rap­
porti di forza internazionali.
D ’altra parte non si può dimenticare, ri­
spetto agli obiettivi politici della guerra, che
il disastro di Caporetto per le sue dimensioni
e conseguenze rappresentò una perdita di
prestigio grave e duratura per l’esercito e il
paese, non compensata dalla successiva ri­
presa. La responsabilità della sconfitta fu in
primo luogo degli alti comandi, su questo
non ci sono più dubbi; la sua amplificazione
politico-morale fu però dovuta alle crisi e
tensioni interne alla classe dirigente, mentre
la Francia seppe incassare molto meglio gli
ammutinamenti del 1917 e le sconfitte del
1918.
L ’organizzazione della guerra. Anche per
quanto riguarda la capacità di crescere e du­
rare l’esercito italiano non fu inferiore alle
esigenze. Dal 1915 al 1917-1918 gli uomini
al fronte passarono da uno a due milioni,
malgrado perdite complessive che superaro­
no i due milioni, con uno straordinario incre­
mento della potenza di fuoco e un forte mi­
glioramento del rendimento delle truppe. So­
no dati noti: in Italia come negli altri bellige­
ranti, i generali difettavano di genialità, ma
non di capacità organizzative. Certo Francia
e Germania mobilitarono un numero più alto
di uomini in rapporto alla popolazione e ac­
cettarono perdite maggiori; ma partivano da
posizioni di vantaggio in tutti i campi, dal­
l’industria alla scuola, dalla “ nazionalizza­
zione delle masse” alla coesione della classe
dirigente. L’Italia del 1915 era invece un pae­
se semi-industrializzato e con elementi di de­
bolezza politica che non hanno riscontro ne­
gli altri belligeranti. Come è noto, l'interven­
to fu deciso da un governo che non aveva
l’appoggio delle masse né dello stesso parla­
mento, senza poter contare sulla forza del­
l’appello alla difesa da un’aggressione (le
“ radiose giornate di maggio” 1915 poco han­
no a che vedere con le “mobilitazioni di ago­
sto” 1914 degli altri belligeranti), con una
L’efficienza dell’esercito italiano nella grande guerra
classe dirigente divisa tra neutralisti e inter­
ventisti e un partito socialista che, per quanto
sconfitto e in definitiva coinvolto nello sforzo
bellico, non vi giocò il ruolo propulsivo che
ebbero i socialisti negli altri paesi. È degno
di nota che, malgrado questi svantaggi di
fondo, la classe dirigente liberale sapesse
esprimere una straordinaria decisione e capa­
cità di egemonia, con una mobilitazione di
energie che non badava ai costi, la cui forza
si può misurare appieno nel confronto con
l’Italia di Mussolini del 1940, che a questa
mobilitazione per la guerra rinunciava in
partenza. L’esercito italiano fu uno strumen­
to adeguato della politica nazionale anche
sotto questo punto di vista.
Tutto ciò aveva dei prezzi. Non ha senso
addebitare soltanto alla durezza e chiusura
di Cadorna la scarsa attenzione per le esigen­
ze dei soldati nel 1915-1917 per quanto ri­
guarda il regime disciplinare, ma più ancora
vitto, riposo, licenze, assistenza morale e pro­
paganda. Erano il governo e la classe dirigen­
te che, consapevoli della mancanza di una
partecipazione di massa alla guerra, ne de­
mandavano tutta la gestione alle strutture mi­
litari, con un implicito invito a dare la priorità
al controllo coercitivo rispetto a una ricerca
articolata di consenso. La forte personalità
di Cadorna irrigidi e esasperò questa situazio­
ne, anche perché il governo continuava a sot­
trarsi alle sue responsabilità non verso il co­
siddetto disfattismo interno, ma verso i solda­
ti. La maggior cura che sotto Diaz fu dedicata
alle loro esigenze non rappresenta una svolta
democratica o populistica della gestione della
guerra, ma è la conseguenza sia di una tardiva
rivedicazione del proprio ruolo da parte di
governo e forze politiche, sia dell’ascesa ai co­
mandi di colonnelli e generali più giovani, ca­
paci di tenere maggior conto delle esigenze dei
soldati per la diretta esperienza che avevano
della guerra combattuta.
93
L ’efficienza in combattimento. Abbiamo fino­
ra detto che l’esercito seppe conseguire gli
obiettivi che il governo gli indicava, affron­
tando uno sviluppo eccezionale delle sue
strutture, e che i suoi limiti più evidenti erano
comuni agli eserciti alleati e nemici, conse­
guenza della natura di logoramento che la
guerra di trincea comportava. Fino a questo
punto si può parlare di un’inferiorità italiana
soltanto sotto l’aspetto quantitativo: la Fran­
cia, con una popolazione non troppo supe­
riore (e uno sviluppo economico assai più
forte) mise in campo molti più battaglioni e
cannoni e sopportò il doppio di perdite, an­
che se dopo il collasso dell’aprile 1917 fu co­
stretta a affidare le speranze di vittoria agli
inglesi e poi anche agli statunitensi.
Rimane il problema maggiore, più dibat­
tuto e meno misurabile: l’efficienza in com­
battimento. Per una serie di settori questa ef­
ficienza non è mai stata messa in discussione,
a cominciare dalla guerra di montagna, che
italiani e austriaci condussero con prove in­
numerevoli di impegno e capacità tecnica.
Le critiche hanno risparmiato anche l’avia­
zione13 e la marina. E l’efficacia dei reparti
d’ assalto fu riconosciuta dovunque in termi­
ni persino eccessivi14. La discussione è invece
aperta sul comportamento del grosso dell’e­
sercito dove i combattimenti ebbero dimen­
sioni di massa e raggiunsero la maggiore du­
rezza, ossia nella guerra di trincea sull’Isonzo
e sul Carso, sugli altipiani, poi sul Piave e sul
Grappa.
La nostra tesi è che l’efficienza di un eser­
cito nella guerra 1914-1918 non si possa mi­
surare che su un punto: la capacità di conti­
nuare a combattere malgrado tutto, gli ele­
menti interni di debolezza, la mancanza di
successi e le perdite spaventose. Cercare di
stabilire se una posizione austriaca avrebbe
potuto essere conquistata più rapidamente
o con perdite minori non soltanto è impossi­
13 Cfr. Paolo Ferrari (a cura di), La grande guerra aerea 1915-1918, Valdagno, Rossato, 1994.
14 Cfr. G. Rochat, Gli arditi delta grande guerra, Milano, Feltrinelli, 1981 (2° ed. Gorizia, Goriziana, 1990).
94
Giorgio Rochat
bile, ma non ha senso in termini generali, per­
ché il problema della guerra non era una trin­
cea in più o in meno, bensì la continuità della
pressione e il logoramento del nemico.
Si può legittimamente sostenere che l’eser­
cito tedesco era più efficiente degli altri, se si
tiene conto della sua capacità di continuare la
guerra con alterni successi per quattro anni e
mezzo in condizioni di costante inferiorità
numerica (e spesso di mezzi). In questo caso
le cifre sono evidenti e indiscutibili. Il fatto
che francesi e inglesi non riuscissero a tradur­
re la loro superiorità in uomini e mezzi in una
vittoria sul campo non autorizza però a accu­
sarli di inefficienza. Lo stesso si deve dire per
la superiorità in uomini (e in un secondo tem­
po di mezzi) di cui fruì l’esercito italiano con­
tro quello austriaco: il divario non era tale da
compensare lo svantaggio di dover condurre
una guerra offensiva a oltranza. E l’obiettivo
reale non era di arrivare a Trieste, ma di man­
tenere la pressione in una guerra di logora­
mento, in cui la decisione non poteva venire
dai campi di battaglia1'.
In sostanza, il problema per chi studia la
guerra com battuta sul Carso e sul Piave
non è stabilire il grado di efficienza dell’eser­
cito italiano, che si può misurare soltanto sul­
la sua capacità di continuare a combattere e
logorare il nemico — e indiscutibilmente que­
sta efficienza ci fu1516. Il problema è cercare di
capire come e perché l’esercito italiano conti­
nuò a combattere con un’efficienza sufficien­
te per impegnare e logorare il nemico, mal­
grado tutti gli elementi interni di debolezza,
e in poi che misura questi elementi fossero
espressione della natura stessa della guerra
di trincea oppure propri della situazione ita­
liana17.
Il problema di fondo: la coesione dei reparti
In questa prospettiva l’elemento centrale del­
la ricerca diventa la coesione dei reparti.
Chiamare alle armi milioni di uomini, am­
pliare le strutture dell’esercito, aumentarne
la provvista di artiglierie e munizioni era im­
portante e fu fatto; ma sarebbe servito a ben
poco, se i reparti al fronte non avessero di­
mostrato solidità, continuità, capacità di sa­
crificio e combattività, in definitiva una coe­
sione che li rendeva capaci di affrontare le
prove più dure senza sfasciarsi, malgrado le
dinamiche di fuga individuali. Precisiamo su­
bito che la coesione è un elemento necessario,
ma non sempre sufficiente per l’efficienza di
un reparto: la seconda guerra mondiale ri­
chiedeva anche addestram ento, iniziativa,
elasticità di organizzazione. Nella guerra di
trincea invece la coesione diventava l’elemen­
to determinante, come cercheremo di indica­
re (anche se più a livello di interpretazione
che di documentazione, per la mancanza di
studi specifici già indicata).
Elementi di crisi e di continuità. Gli studi di
questi ultimi decenni si sono concentrati so-
15 Beninteso questo approccio è valido soltanto per la prima guerra mondiale. Per la seconda i problemi di efficienza si
pongono in modo del tutto diverso, con valutazioni articolate; ma non si trattava più di una guerra di logoramento,
anche se in definitiva la vittoria fu decisa dalla maggior disponibilità di risorse della coalizione antifascista.
16 Si può dare un giudizio limitativo deH’efficienza dell’ esercito italiano sostenendo che dopo tutto l’esercito austriaco
non era all’ altezza della sua fama prebellica. Allo stesso modo si può sostenere che anche francesi e inglesi non erano
poi così efficienti, visto che non riuscirono a avere ragione dei tedeschi inferiori in numero. Ci sembrano discorsi privi di
senso, dinanzi alle battaglie del Carso o di Verdun non si può misurare in voti e percentuali l’impegno dei combattenti.
17 11 recente volume di Lucio Fabi, Gente di trincea. La grande guerra sul Carso e sull'tsonzo , Milano, Mursia, 1994,
costituisce un eccellente punto di riferimento, non soltanto per la ricchezza della documentazione diretta delle reazioni
dei soldati italiani e austriaci e l’intelligenza dell’ analisi, ma per la capacità di presentare la guerra di trincea nella sua
complessità, tra obbedienza, efficienza, rifiuto e sacrificio. Di grande interesse, ma purtroppo pervenutoci troppo tardi
per poterlo utilizzare in questa sede, anche il volume di Antonio Sema, La grande guerra sul fronte dell’Isonzo, voi. I,
Gorizia, Goriziana, 1995.
L’efficienza dell’esercito italiano nella grande guerra
prattutto sugli elementi di crisi della coesione
dei reparti, in particolare sui casi di insubor­
dinazione collettiva e rivolta, su quelli di ri­
fiuto individuale e sulla rotta di Caporetto.
L’analisi dei casi di insubordinazione colletti­
va dipende essenzialmente dalla documenta­
zione interna all’esercito, oggi disponibile,
ma solo parzialmente utilizzata; vi ha lavora­
to M onticone18. Possiamo parlare di rivolta
in un solo caso, quello noto della brigata Ca­
tanzaro nella notte tra il 15 e il 16 luglio 1917,
che vide centinaia di uomini impugnare fucili
e mitragliatrici nella vana speranza di riuscire
a evitare il ritorno in prima linea; all’alba, di­
nanzi allo spiegamento di forze accorse, la ri­
volta rientrò, con un bilancio di due ufficiali
uccisi e due feriti, 9 morti e 25 feriti tra i sol­
dati, cui seguirono 28 fucilazioni sommarie,
123 soldati arrestati e successivamente 4 con­
danne a morte. Abbiamo poi un certo nume­
ro di proteste collettive di reparti accampati
nelle retrovie, che, nel momento in cui ricevo­
no l’ordine di risalire in prima linea, danno
luogo a tumulti notturni, con grida sediziose,
spari in aria, rifiuto di incolonnarsi per la
marcia, minacce agli ufficiali (con un unico
caso di un maggiore ferito). Ogni volta la
protesta cessa all’alba e le truppe partono
per il fronte. I casi documentati sono dieci,
quelli in cui i comandi procedettero a esecu­
zioni sommarie19; è sicuro che ce ne furono
altri, non sappiamo quanti, ma certamente
non moltissimi. Non conosciamo casi di insu­
bordinazione collettiva in trincea (lo stesso si
può dire per gli altri eserciti)20, dove la prote­
95
sta delle truppe si traduce semmai nel tentati­
vo di sottrarsi al combattimento con l’imbo­
scamento, la fuga o la resa, secondo dinami­
che individuali o di piccoli gruppi su cui tor­
neremo. Tenendo conto delle dimensioni e
della durezza del conflitto, i casi di protesta
collettiva ci sembrano limitati. Nulla di lon­
tanamente paragonabile agli ammutinamenti
francesi del 1917 (concentrati nel maggiogiugno, ma con strascichi fino aH’inverno se­
guente) che videro 250 casi di rivolta e prote­
sta collettiva di reparti in seconda linea (51
divisioni su 112 ne ebbero almeno due, 5 divi­
sioni da 9 a 16), con tumulti violenti anche se
non sanguinosi e la richiesta esplicita di pa­
ce21. Ciò non ostante nessuno ha mai messo
in dubbio il patriottismo della massa dei sol­
dati francesi, né l’efficienza e la continuità del
loro esercito.
I casi di rifiuto individuale sono invece cosi
numerosi che non possono essere censiti con
qualche approssimazione. Gli unici dati ri­
guardano i procedimenti giudiziari aperti,
100.000 per renitenza e 340.000 verso militari
alle armi, e le condanne, 101.700 per diserzio­
ne, 24.500 per indisciplina, 10.000 per autole­
sionismo e 5.300 per resa o sbandamento22.
Questi dati non bastano per misurare appie­
no la frequenza dei reati citati (non tutte le
infrazioni venivano colte e perseguite, così
come non tutte le denunce erano fondate, co­
me dimostra l’alta percentuale di assoluzio­
ni), ma ne indicano comunque le dimensioni
di massa. E poi impossibile quantificare l’in­
cidenza delle nevrosi abbastanza gravi da
ls Cfr. E. Forcella, A. Monticone, Plotone d ’esecuzione, cit., pp. 432 sg.
19 Notizie provvisorie tratte da una documentazione ampia e disordinata sui casi di esecuzioni sommarie, che abbiamo
rinvenuto nell’ archivio deH’Ufficio storico dello Stato maggiore dell’esercito. Rinviamo all’appendice di questo testo.
20 Le vicende dell’esercito zarista sono troppo diverse per tenerne conto in questa sede.
21 Rinviamo agli studi di G. Pedroncini citati. Sono da aggiungere 130 manifestazioni di protesta nelle stazioni condotte
da soldati in licenza. L’ordine fu ristabilito dal nuovo generalissimo Pétain con una repressione contenuta (554 condan­
ne a morte, di cui soltanto una settantina eseguite) e la rinuncia alla condotta aggressiva delle operazioni, oltre che con
un grosso impegno per il miglioramento delle condizioni di vita dei soldati.
22 Cfr. E. Forcella, A. Monticone, Plotone d ’esecuzione, cit., pp. 438-440. Ci sono poi 30.000 condanne per reati diversi,
come la cupidigia (le varie forme di furto) e la violenza (evidentemente non verso i superiori). Per un confronto con la
seconda guerra mondiale si veda G. Rochat, La giustizia militare nella guerra italiana 1940-1943, “ Rivista di storia con­
temporanea”, 1991, n. 4.
96
Giorgio Rochat
provocare invalidità e cure, probabilmente
ridotte in confronto ai milioni di combatten­
ti, ma importanti come spia di un disadatta­
mento diffuso e sotterraneo23. Impossibile
anche misurare la diffusione delle proteste
contro la guerra contenute nelle lettere, nei
diari e nelle memorie dei soldati che sono sta­
te portate alla luce in questi ultimi anni; si
tratta certamente di un fenomeno di massa,
anche se non sempre di facile interpretazione,
perché molti soldati che imprecano contro la
guerra continuano a farla, anche bene.
Gli studi critici ricordati documentano in
modo inconfutabile che tra i soldati della
grande guerra esisteva un margine di rifiuto
ampio, anche se non quantificabile, articola­
to tra vie di fuga diverse, sia studiate, sia pre­
se d’impulso, sia inconsapevoli (o soltanto
sognate) e tra espressioni di protesta che po­
tevano restare a livello di sfogo, senza tradur­
si in gesti concreti. Da questi studi emerge
pure una conferma di quanto era già stato af­
fermato dalla ricerca storica precedente: non
esiste traccia di una protesta organizzata,
dall’interno o dall’esterno, né di un rifiuto
collettivo. Siamo dinanzi a una separazione
netta tra il paese, in cui le agitazioni collettive
di ispirazione socialista si moltiplicano nel
1917-1918, e l’esercito, in cui protesta e rifiu­
to sono individuali, spontanei e apolitici,
frutto della spaventosa tensione e durezza
della guerra di trincea. Una separazione su
cui occorre riflettere, perché non nasce sol­
tanto dalla rinuncia socialista a contrastare
l’appello patriottico, né da censura e repres­
sione, ma anche dalla natura di mondo sepa­
rato, di società autosufficiente e coinvolgen­
te, che assume l’esercito al fronte24.
Aggiungiamo che questo margine di rifiu­
to spontaneo è del tutto comprensibile (non
diciamo legittimo perché non ci sentiamo di
dare giudizi di valore). Se si ha presente che
(come riconosce la storiografia di tutte le ten­
denze) la grande maggioranza dei contadini e
degli operai, cioè dei soldati italiani, faceva
una guerra che non aveva voluto e di cui
non capiva le ragioni, senza una vera assi­
stenza né una propaganda adeguata fino al
1918, e per questa guerra doveva affrontare
condizioni di vita durissime e un elevato ri­
schio di morte o mutilazione, ci si deve mera­
vigliare che i casi di rifiuto fossero, in defini­
tiva, limitati. E infatti gli studi tradizionali da
cui siamo partiti e la memorialistica docu­
mentano, senza possibilità di smentita, che
la macchina bellica continuò a funzionare
senza battute d’ arresto né collassi (tranne
Caporetto, su cui subito torneremo), malgra­
do le gravissime perdite e la scarsezza di risul­
tati. Qualche diecina di casi di proteste limi­
tate (e immediatamente rientrate) di reggi­
menti che dovevano tornare in trincea sono
ben poca cosa dinanzi ai duecento e più reg­
gimenti che si alternarono in prima linea per
tutta la guerra, accettando con obbedienza lo
stillicidio delle perdite quotidiane, gli attac­
chi sanguinosi, le malattie e le privazioni di
ogni sorta.
Rimane il problema di Caporetto, l’unico
momento della guerra italiana in cui si ebbe
il collasso di parte delle strutture militari,
con centinaia di migliaia di soldati che si ar­
resero senza una resistenza autentica e altre
centinaia di migliaia che rifluirono verso il
Piave come una massa di profughi. Sul disa­
stro si è scritto e discusso per decenni, con te-
23 Ci limitiamo a citare l’opera maggiore: Antonio Gibelli, L'officina della guerra, Torino, Bollati Boringhieri, 1991; e le
rassegne di B. Bianchi, La grande guerra nella storiografia italiana, cit., e di A. D’Orsi, La grande guerra. Ricerca storica
e dibattito, cit.
24 Anche G. Pedroncini e J. Maurin negli studi citati insistono sul fatto che rifiuto e protesta dei soldati francesi hanno cause
interne alla condotta della guerra e non una dimensione politica. Ricordiamo che l’esercito francese ebbe una media annua
di 15.750 diserzioni, quindi un totale inferiore a quello italiano per un esercito più grande e un anno di guerra in più, co­
munque non trascurabile, soprattutto se si tiene conto del fatto che l’accusa di diserzione scattava per i soldati francesi dopo
tre giorni di assenza (in Italia dopo la mancanza a un solo appello): cfr. J. Maurin, Armée, guerre, società, cit., p. 522.
L'efficienza dell’esercito italiano nella grande guerra
si radicalmente contrapposte che in questa
sede non è possibile riprendere. Ci limitiamo
al punto centrale per il nostro discorso: la
“ m ancata resistenza” di reparti “ vilmente
arresisi” come causa prima della rotta, de­
nunciata da Cadorna e ripresa nella tesi del­
lo “ sciopero militare” , sostenuta con accenti
diversi sia da destra che da sinistra. Gli studi
di Pieri e poi di M onticone23 hanno dimo­
strato, in modo a nostro avviso definitivo,
che le unità italiane furono travolte a Caporetto e si arresero senza una vera resistenza
perché non erano state messe in condizioni
di battersi, e ciò per due ordini di ragioni:
gli alti comandi avevano sottovalutato la ca­
pacità di penetrazione del nemico e la geo­
grafia del terreno e quindi non avevano pre­
disposto le riserve necessarie. E comandi e
truppe erano insufficientemente addestrati,
in grado di condurre una battaglia su un
fronte statico, ma non di manovrare per rea­
gire agli aggiramenti brillantemente effet­
tuati dagli austro-tedeschi sul terreno mon­
tuoso. Una delle regole base della guerra
di massa è che non si può chiedere alle trup­
pe di fare quello cui non sono state prepara­
te. Quando Cadorna ordinò la ritirata gene­
rale, i reparti della Seconda arm ata si sfa­
sciarono sempre per lo stesso motivo: non
erano addestrati a una guerra di movimen­
to, per la quale mancavano poi ordini, colle­
gamenti, il necessario sostegno logistico e
ancora le riserve necessarie per rallentare
la progressione austro-tedesca. Come è no­
to, le altre armate, non sottoposte alla pres­
sione diretta del nemico e dotate di ordini
sufficientemente precisi, condussero la riti­
rata al Piave in buon ordine e con perdite li­
mitate.
97
Non fu molto diverso il comportamento
delle truppe franco-inglesi dinanzi alle grandi
offensive tedesche del 1918: anch’esse non
erano addestrate a sostenere le nuove tecni­
che offensive tedesche, né a manovrare in
campo aperto e si sfasciarono dinanzi alla
minaccia di aggiramento. Nel marzo 1918
l’offensiva tedesca penetrò in profondità per
circa 65 km. In Francia però gli alti comandi
avevano a disposizione le riserve necessarie
per bloccare i progressi tedeschi e le ferrovie
per farle affluire rapidamente; e non persero
la testa, né la fiducia nelle proprie truppe.
Va infine ricordato che la massa di sbandati
di Caporetto non si diede a manifestazioni
di esultanza, di saccheggio o di rivolta contro
gli ufficiali nel corso della disordinata ritirata
verso il Piave; e fu poi ricuperata senza parti­
colari problemi per la continuazione della
guerra. In sostanza il comportamento dei sol­
dati rimase all'interno della logica della guer­
ra di trincea2526.
Fattori di coesione: a) gli elementi a monte.
Veniamo finalmente alle ragioni della coesio­
ne e continuità che l’esercito italiano, mal­
grado gli elementi di debolezza ricordati, sep­
pe mantenere attraverso le prove più dure.
Con l’avvertenza che possiamo offrire spunti
di interpretazione e non il risultato di studi
specifici.
Dichiariamo innanzi tutto il nostro debito
verso gli studi di sociologia militare. Sono di
origine recente, nati con la grande inchiesta
sul comportamento e le motivazioni dei sol­
dati promossa dagli alti comandi statunitensi
nel corso della seconda guerra mondiale27, e
sviluppatisi con le guerre successive, in primo
luogo quella americana in Vietnam. I loro ri-
25 P. Pieri, La prima guerra mondiale, cit.; P. Pieri, G. Rochat, Pietro Badoglio, Torino, Utet, 1974; A. Monticone, La
battaglia di Caporetto, Roma, Studium, 1955.
26 Queste osservazioni sono certamente riduttive, perché Caporetto si presta a più letture e pesa per la percezione della
rotta che ebbero la classe dirigente, l’opinione pubblica e gli stessi combattenti, per le strumentalizzazioni politiche suc­
cessive, per la duratura perdita di prestigio che rappresentò per il paese e l’esercito. In questa sede ci interessa però sol­
tanto il comportamento dei soldati.
"7 Cfr. Enrico Pozzi, Introduzione alla sociologia militare, Napoli, Liguori, 1979.
98
Giorgio Rochat
sultati non si possono applicare alla prima
guerra mondiale, per le evidenti differenze
su tutti i livelli e la mancanza delle inchieste
sul campo su cui si fonda la ricerca sociologi­
ca. Tuttavia questi studi offrono una serie di
stimoli di grande interesse, ovviamente non
tutti nuovi, ma utili per la prospettiva “laica”
dinanzi alla tradizione militare e l’imposta­
zione di un discorso sistematico28.
La società italiana del tempo presentava,
ai fini della guerra, gli elementi di debolezza
già ricordati (riassumibili nella scarsa “ na­
zionalizzazione delle masse” ), ma pure ele­
menti di forza. La società contadino-cattoli­
ca era una straordinaria scuola all’obbedien­
za e all’accettazione del destino. E la cultura
contadino-cattolica era ancora forte nelle cit­
tà, malgrado le novità disgregatrici e la diffu­
sione del socialismo (che poi metteva in di­
scussione le gerarchie sociali, ma non certo
l’etica del lavoro). In sostanza, l’estraneità al­
la guerra della grande maggioranza dei sol­
dati, ossia la mancanza di un’adesione politi­
co-ideologica, non diminuiva la loro obbe­
dienza e le quasi illimitate capacità di soffe­
renza e sacrificio. Il rifiuto della guerra che
nasceva dalle drammatiche esperienze perso­
nali non aveva lo spessore per intaccare la ba­
se di obbedienza della massa dei soldati.
Un altro elemento noto, ma da sottolinea­
re, era la forte mobilitazione etico-politica
del corpo ufficiali. Gli ufficiali di carriera
avevano certamente limiti di cultura, che si
traducevano nella difficoltà a capire la scon­
volgente novità della guerra di trincea (lo
stesso accadeva all’estero), ma erano ricchi
di energia e senso del dovere; e i generali cin­
quantenni usciti da una selezione dura (non
sempre felice, ma necessaria) dimostrarono
di saper cogliere le esigenze un esercito di
massa. Le diecine e diecine di migliaia di gio­
vani ufficiali di complemento avevano limiti
di addestramento, ma una totale adesione al­
la guerra e un’elevata consapevolezza del lo­
ro ruolo di comandanti. Nel dopoguerra sa­
rebbero emersi tra costoro elementi di delu­
sione verso i risultati del conflitto (da destra
e da sinistra) e di frustrazione per il ruolo pu­
ramente esecutivo loro richiesto in trincea,
nonché aspettative tecniche e politiche di
una radicale riorganizzazione dell’esercito
sulla base delle esperienze belliche. Ma nel
1915-1918 la stragrande maggioranza dei
nuovi ufficiali non aveva dubbi e forniva al­
l’esercito i quadri di cui aveva bisogno, con­
vinti e obbedienti, ma anche ricchi di leader­
ship29. Il funzionamento dei comandi è poi
stato spesso criticato, se non ridicolizzato,
ma in realtà seguì la stessa evoluzione degli
altri eserciti: da una parte la citata difficoltà
a capire una guerra cosi diversa dalle previ­
sioni, che si traduceva in una ripetizione esa­
sperata di sanguinosi assalti senza prospetti­
ve di successo (richiesti peraltro dall’impo­
stazione offensiva della guerra italiana). Dal­
l’altra crescenti capacità organizzative nel
controllo di una macchina bellica di straordi­
narie dimensioni.
In definitiva, il paese forniva all’esercito
milioni di soldati obbedienti e gli ufficiali ne­
cessari per inquadrarli30. E dal fronte interno
veniva non il disfattismo che Cadorna imma-
28 Per una sintesi italiana degli studi di sociologia militare cfr. E. Pozzi, Introduzione alla sociologia militare, cit.; Fa­
brizio Battistelli, Marte e Mercurio. Sociologia dell’organizzazione militare, Angeli, Milano, 1990; Marina Nuciari, Ef­
ficienza e forze armate. La ricerca sociologica sull’istituzione militare, Angeli, Milano, 1990; Giuseppe Caforio, Sociolo­
gia e forze armate, Lucca, Pacini Fazzi, 1987.
29 Non ci sembra che gli ufficiali italiani della prima guerra mondiale presentino differenze di rilievo rispetto a quelli
francesi e inglesi. Il discorso è diverso per la seconda guerra mondiale; ma un confronto tra le due guerre torna a tutto
vantaggio della classe dirigente liberale rispetto a quella fascista.
30 Dalle ricerche del gruppo di Rovereto che pubblicava la rivista “ Materiali di lavoro” (con una straordinaria raccolta
di scritti di soldati) emerge la profondità del rifiuto di una parte non piccola dei trentini arruolati nell’esercito austroungarico, da ricondurre alla difficoltà che incontravano nel riconoscersi in un esercito non nazionale, che li inquadrava
con ufficiali austriaci e ungheresi.
L’efficienza dell’esercito italiano nella grande guerra
ginava, ma un incoraggiamento a fare la
guerra fino in fondo. Un esempio significati­
vo è il rifiuto ostile che gli ambienti cattolici
riservarono ai tentativi pacifisti del papa Be­
nedetto XV: la predicazione dei parroci e dei
cappellani non lasciò mai dubbi sul fatto che
la guerra era giusta e doverosa, da combatte­
re con disciplina quali ne fossero i costi31. Va­
le poi la pena di ricordare l’efficacia e la dif­
fusione della demonizzazione del barbaro au­
striaco, così forte da rimanere nell’inconscio
collettivo dei decenni seguenti.
Il paese forniva all’esercito anche i riforni­
menti e armamenti necessari. Le tragiche
condizioni di inferiorità delle battaglie del
1915, quando mancavano i mezzi per affron­
tare i reticolati austriaci, vennero man mano
superate. Naturalmente si può sottolineare la
costante insufficienza dei mezzi rispetto alle
esigenze (ma anche i meglio provvisti france­
si, inglesi e tedeschi non riuscirono mai a rea­
lizzare lo sfondamento decisivo sognato) e
che soltanto nel 1918 i comandi si impegna­
rono seriamente a migliorare le condizioni
di vita in trincea. Tutto ciò non deve però
far dimenticare lo straordinario sviluppo del­
la produzione bellica in tutti i campi. Sul pia­
no qualititativo gli armamenti italiani non
furono inferiori a quelli degli altri eserciti,
sul piano quantitativo la situazione divenne
accettabile nel 1917-1918, tanto più se com­
misurata alla situazione austriaca e non alla
maggiore disponibilità di artiglierie del fron­
te occidentale. Un confronto con la seconda
guerra mondiale è improponibile sotto tutti
gli aspetti: ITtalia liberale faceva la sua guer­
ra con una capacità di mobilitazione e una
99
dura determinazione, che quella fascista
non ebbe mai32.
Fattori di coesione: b) la società militare. Il
fatto che la “ società m ilitare” sia precaria
(nel senso di limitata nel tempo, tanto più
la società di guerra) e del tutto atipica (basti
pensare alla mancanza della donna) non ne
diminuisce le capacità di coinvolgimento e
la coesione interna33. La prima osservazione
è che si tratta di una “ società chiusa” : un
concetto chiaro per la caserma del tempo di
pace, ancora da esplorare per il tempo di
guerra. Tutte le testimonianze dei com bat­
tenti parlano del distacco profondo, anzi del­
la contrapposizione tra trincea e paese (e tra
trincea e retrovie); una separazione che si
esprime anche a livello di comportamenti e
mentalità collettiva e comporta la cancella­
zione di tutto quanto esula dalla realtà vissu­
ta della guerra. L’unico legame con la vita ci­
vile rimangono gli affetti familiari, a livello
strettamente privato e non condivisibile. So­
no cose note, ma occorre ricordare che la
conseguenza è un rafforzamento della società
di trincea, che si pone come autosufficiente
(uno stato nello stato), e dei legami tra i sol­
dati, gli unici possibili e vitali.
Per semplicità di analisi si possono indica­
re nella società militare una direzione di svi­
luppo verticale e una orizzontale. La dimen­
sione verticale è quella più evidente: l’istitu­
zione militare ha una struttura autoritaria e
gerarchica, che limita la possibilità di scelte
personali e impone comportamenti indivi­
duali e collettivi definiti e omogenei, tanto
più in guerra. E facile coglierne la componen-
11 Cfr. Roberto Morozzo della Rocca, La fede e la guerra. Cappellani militari e preti-soldati 1915-1919, Roma, Studium,
1980; G. Rochat (a cura di), La spada e la croce. I cappellani italiani nelle due guerre mondiali, “ Bollettino della Società
di studi valdesi”, 1995, n. 176 (Atti del XXXIV convegno di studi sulla Riforma e i movimenti religiosi in Italia, Torre
Pellice, 28-30 agosto 1994).
32 È significativo il durissimo atteggiamento delle autorità politiche e militari verso i prigionieri italiani di guerra. Il
rifiuto punitivo di inviare loro regolari rifornimenti di viveri (come invece fecero francesi e inglesi) fu la causa prima
della loro altissima mortalità (100.000 su 600.000). Cfr. G. Procacci, Soldati e prigionieri italiani nella grande guerra,
Roma, Editori Riuniti, 1993.
33 Queste note non hanno pretesa di originalità né di approfondimento. Valgono soltanto a richiamare con qualche or­
dine fattori noti, seppure spesso sottovalutati.
100
Giorgio Rochat
te repressiva dichiarata, a differenza di quan­
to accade nella società civile (sebbene tutt’altro che priva di strutture autoritarie, dalla fa­
miglia alla scuola, dalla chiesa al lavoro). Di­
sciplina e repressione sono una componente
fondante e ostentata dell’istituzione militare,
anche se, come è ovvio, non sufficiente, poi­
ché nessun reparto può essere tenuto insieme
soltanto con la forza. E la loro applicazione
va commisurata alla perdita di valore della
vita umana in guerra: può sembrare cinico,
ma bisogna pur rilevare che il migliaio di sol­
dati italiani fucilati (tra condanne regolari e
esecuzioni sommarie) costituisce lo 0,2 per
cento del mezzo milione di morti fino a Vitto­
rio Veneto, anche se evidentemente un fucila­
to pesa più di un caduto in combattimento.
La struttura gerarchica è in primo luogo
una necessità assoluta per la vita di un’orga­
nizzazione di milioni di uomini, improvvisata
e precaria e pur straordinariamente efficien­
te. Secondo un’opinione diffusa, la guerra è
“ stupida” 34; in realtà stupida e superficiale
è soltanto questa affermazione. La guerra
può essere ingiusta o sbagliata, folle o crimi­
nale, puro spreco di vite e risorse, a seconda
dei giudizi etico-politici; e naturalmente con­
tiene un elevato numero di scelte e comporta­
menti stupidi, più evidenti che nella società
civile perché fuoriescono dai canoni normali
e mettono in gioco la vita dei soldati. Ma per
costituire un esercito e portarlo in combatti­
mento occorrono tesori di intelligenza e dedi­
zione, prima sul piano organizzativo e logi­
stico, poi per la gestione di milioni di uomini
in situazioni fuori della norma. Con questo
non intendo affatto sostenere che la guerra
sia la più alta espressione della civiltà, anche
se è indiscutibile che rappresenta una verifica
in profondità (e senza possibilità di bluff)
della forza e coesione di una nazione. Quello
che mi interessa sottolineare, è che la struttu­
ra gerarchica deve avere grandi capacità di
inquadramento e coinvolgimento per tenere
in piedi un esercito di massa, ovviamente
non per merito esclusivo degli ufficiali, che
sono espressione di una classe dirigente e di
un paese. E che il ruolo di questa struttura
gerarchica non può essere sottovalutato, tan­
to meno liquidato con l’etichetta di stupidità,
cosi come nessuno può qualificare come stu­
pida una fabbrica soltanto sulla base delle
esperienze degli addetti alla catena di mon­
taggio35.
Valga l’esempio della depersonalizzazione
imposta ai soldati, con l’azzeramento delle
loro qualifiche e connotazioni “esterne” (os­
sia civili) e una egualizzazione coatta, dalla
divisa all’osservazione di regole e ritmi di vita
rigidi e talora privi di senso. Si è molto insisti­
to sul significato negativo di questa operazio­
ne, come violenza verso i singoli e possibilità
di abusi; eppure bisogna sottolineare che
questa depersonalizzazione non è fine a se
stessa, ma strumento necessario per l’identifi­
cazione dei singoli nella istituzione militare,
unico riferimento disponibile. Quali ne siano
i costi umani, questa operazione di estrania­
zione forzata dalla vita civile conduce al raf­
forzamento della coesione interna dell’eserci­
to. Inoltre è fattore necessario di quella inter­
cambiabilità dei soldati, che permette a un re­
parto di continuare a funzionare attraverso
perdite e rimpiazzi. Ancora una volta, non
intendo sostenere che l’istituzione militare
sia nobile e benefica: stato e società le deman-
34 Che la guerra sia stupida, in particolare la prima guerra mondiale, è un concetto diffuso, legittimo per i reduci, non
però per gli storici. Ci limitiamo a citare l’ultimo (e brillante) studioso che l’ha sostenuto con forza: Eric J. Leed, Terra
di nessuno, Bologna, 11 Mulino, 1986: un volume che analizza i comportamenti dei soldati, non mai la guerra combattuta
in tutta la sua complessità.
35 E interessante notare come la guerriglia partigiana, che nasce generalmente con un rifiuto della tradizione e delle
strutture degli eserciti regolari, debba accettarne gran parte quando cresce dalla dimensione di banda locale a quella
di esercito partigiano, per esempio passando dalla designazione dal basso dei comandanti alla creazione di una struttura
gerarchica di comando.
L’efficienza dell’esercito italiano nella grande guerra
dano l’organizzazione della forza arm ata e
poi della guerra, che hanno esigenze brutali
di efficacia (portare gli uomini a ammazzare
e farsi ammazzare non è una cosa facile né
naturale). L’istituzione militare sviluppa a
questo fine meccanismi di coercizione e di
coinvolgimento, che hanno costi umani ele­
vati e una efficacia indiscutibile, pure nel ca­
so della grande guerra italiana. La coesione
dell’esercito e la sua capacità di condurre
una pesante guerra di logoramento dipendo­
no anche da questi meccanismi, dagli uomini
che li mettono in opera, dal paese che li so­
stiene e approva.
Un altro decisivo elemento di coesione,
non sempre valutato a sufficienza, viene da
quella che la sociologia definisce come di­
mensione orizzontale, ossia dai legami di so­
lidarietà che si stabiliscono tra i soldati. Il
fatto che siano legami obbligati, per la im­
possibilità di rapporti con l’esterno, non ne
diminuisce la forza. La tradizione militare
parla di spirito di corpo, una definizione
troppo generica per prestarsi a analisi. La so­
ciologia parla invece di dinamica dei piccoli
gruppi come base di aggregazione e coesione,
un concetto valido per tutte le istituzioni, ap­
plicabile anche a quelle militari. La grande ri­
cerca sociologica sulle forze armate statuni­
tensi nella seconda guerra mondiale, Ameri­
can Soldier, giunge a sostenere che la lealtà
verso il piccolo gruppo è l’elemento essenzia­
le della coesione di un reparto; i soldati vivo­
no una situazione di distacco nei confronti di
tutto quello che esce dalla loro esperienza di­
retta, si identificano nel gruppo di cui fanno
parte, con esso e per esso affrontano i rischi
del com battim ento36. In realtà la coesione
di un reparto dipende da una complessità di
fattori, che stiamo cercando di elencare; ma
tra questi è essenziale appunto il ruolo di ag­
gregazione di gruppo a più livelli, che dal pic­
colo gruppo informale può salire per gradi a
una identificazione nel battaglione o nel cor­
36
E. Pozzi, Introduzione alla sociologia militare, cit.
101
po degli alpini o degli arditi, con un processo
che l’istituzione militare appoggia pienamen­
te (dai distintivi ai miti) perché consapevole
della sua efficacia. Con un certo grado di
provocazione, si può dire che un esercito
per funzionare ha bisogno di amore, non co­
me sesso, ma come capacità di rapporti uma­
ni intensi e affettivi tra eguali, ma anche tra
superiori e inferiori.
Infine, la guerra di trincea non concede al­
ternative all’obbedienza inquadrata. Dire che
il soldato non ha altra scelta che uccidere o
essere ucciso è semplicistico, perché la guerra
non è fatta di duelli e il nemico si vede poco
(si muore soprattutto per gli effetti dell’arti­
glieria). E la trincea che non lascia spazio a
scelte individuali; anche la fuga è difficile e
costosa, tanto più che non è sorretta da mo­
tivazioni ideologiche (salvo che per gli irre­
denti che disertano le fila austriache).
Un’ultima considerazione: il militare è un
uomo, cioè un essere complesso e non privo
di contraddizioni. Il soldato non si comporta
sempre allo stesso modo, a seconda delle si­
tuazioni può andare all’attacco o scappare,
può maledire la guerra e farla con efficacia.
In ogni combattente coesistono rifiuto e ac­
cettazione della guerra, in gradi diversi e va­
riabili, per la combinazione di una serie di
fattori che abbiamo cercato di indicare som­
mariamente, ma soprattutto per le alterne vi­
cende della guerra. Lo stesso vale per i repar­
ti: la loro coesione su cui insistiamo non si
misura su un singolo attacco eroicamente
condotto o su uno sbandamento successivo,
bensì sulla continuità in una guerra di logo­
ramento.
Fattori di coesione: c) una guerra di masse.
Non bisogna infine dimenticare che la prima
guerra mondiale non è una guerra di volonta­
ri motivati, bensì di masse organizzate. L’e­
sercito inglese fu composto all’inizio da pro­
fessionisti a lunga ferma splendidamente ad-
102
Giorgio Rochat
destrati, poi da quasi due milioni di volontari
arruolatisi sull’onda di una straordinaria mo­
bilitazione popolare, infine di soldati recluta­
ti con la leva obbligatoria; ma il suo rendi­
mento non ebbe variazioni significative di­
pendenti dal reclutamento, né fu diverso da
quello dell’esercito francese, basato sin dall’i­
nizio sulla coscrizione obbligatoria. Il fatto è
che la guerra di trincea non richiedeva ai sol­
dati iniziativa individuale e capacità di azio­
ne in piccoli nuclei, perché era combattuta a
livello di battaglioni e reggimenti, che muo­
vevano all’attacco in formazioni compatte
agli ordini dei loro ufficiali.
La prima scelta di tutti gli eserciti dinanzi
all’impossibilità di una rottura del fronte ne­
mico fu di aumentare sia il fuoco d’artiglie­
ria, sia il peso degli attacchi frontali; poi l’im­
possibile rottura fu cercata con uno sviluppo
ulteriore del fuoco d’artiglieria, con bombar­
damenti protratti per giorni e giorni, dopo i
quali era però necessario ricorrere ai sangui­
nosi attacchi frontali della fanteria. Tutti i
tentativi di uscire da questo schema fallirono:
i gas asfissianti accrebbero soltanto l’orrore
della lotta, i carri armati furono impiegati
al di sotto delle loro possibilità. Il caso degli
arditi italiani è significativo, in quanto dimo­
stra che piccoli reparti bene addestrati e mo­
tivati potevano raggiungere e conquistare le
trincee nemiche con poche perdite, quando
avevano il favore della sorpresa, ma poi
non erano in grado di avanzare in profondità
né di mantenere le posizioni occupate perché
non potevano sviluppare il necessario volu­
me di fuoco (le mitragliatrici erano troppo
pesanti per poterle spostare in avanti a brac­
cia), né ricevere un appoggio puntuale del­
l’artiglieria per difetto di collegamenti, né
un rinforzo adeguato di fanterie, decimate
nell’attraversamento della “terra di nessuno”
senza più il favore della sorpresa. Anche le
offensive tedesche del 1918, pur condotte
con tutte le più abili tecniche offensive da di­
visioni bene addestrate, non riuscirono a an­
dare oltre successi parziali, perché il loro pe­
so si esauriva rapidamente; le truppe attac­
canti dovevano muovere a piedi sul terreno
sconvolto della battaglia, portando a spalle
armi automatiche e munizioni, con scarsi rifornimenti dalle retrovie avviati a dorso
d ’uomo. Gli anglo-francesi avevano perciò
il tempo di tamponare le falle con truppe e ar­
tiglieria spostate con ferrovie e automezzi
(come non aveva potuto fare Cadorna a Caporetto perché non aveva predisposto riserve
adeguate). In sintesi, un cannone è un’arma
sia offensiva sia difensiva, ma se non può
muoversi il suo raggio offensivo è limitato al­
la sua portala; e nella prima guerra mondiale
non c’erano motori sul campo di battaglia,
artiglieria e mitragliatrici dovevano rimanere
sulle posizioni di partenza, quindi la fanteria
era l’unica che potesse avanzare, ma senza il
volume di fuoco necessario a infrangere la re­
sistenza nemica. La battaglia era perciò do­
m inata da un’artiglieria potentissima, ma
statica, che poteva accompagnare gli attacchi
della fanteria soltanto fino alla prima trincea,
ma non difenderla dal fuoco nemico dalle po­
sizioni retrostanti.
In questo quadro la fanteria poteva essere
impiegata soltanto negli attacchi frontali
condotti da masse inquadrate. Ciò non ri­
chiedeva tanto iniziativa dei singoli e adde­
stramento, quanto obbedienza e capacità di
sacrificio. Il fatto che i soldati italiani fossero
meno motivati di quelli francesi o inglesi, o
che il loro inquadramento e addestramento
non fosse all’altezza di quello tedesco, perde­
va importanza dinanzi alla brutalità della
guerra di trincea. E quindi il loro rendimento
non era inferiore a quello degli altri eserciti, a
differenza della seconda guerra mondiale,
che richiedeva un diverso livello di motiva­
zione, addestramento, iniziativa, inquadra­
mento.
Note conclusive. Riassumendo, ho cercato di
impostare correttamente il problema dell’ef­
ficienza dell’esercito italiano. Una valutazio­
ne scientifica non appare possibile, perché ri­
L’efficienza dell’esercito italiano nella grande guerra
chiederebbe studi comparativi con gli altri
eserciti della prima guerra mondiale, che
mancano, né potrebbero essere sviluppati ol­
tre un certo livello, dato che l’efficienza belli­
ca si misura soltanto in termini relativi. La
conoscenza di quanto avveniva sugli altri
fronti (e sul versante austriaco del nostro) va­
le comunque a ridimensionare l’“ opinione
comune” dell’inefficienza italiana, che si ba­
sa su pregiudizi superficiali. La mia tesi cen­
trale è che per la prima guerra mondiale l’u­
nico metro significativo dell’efficienza di un
esercito è la sua capacità di sostenere una
lunga e dura guerra di logoramento, malgra­
do debolezze, crisi e insuccessi. Se questo è
corretto, bisognerebbe analizzare meglio le
cause dell’“ opinione comune” negativa, che
pesa al di là del suo scarso fondamento.
Nella prospettiva che propongo (senza
pretese di originalità) il tema di indagine di­
venta l’individuazione delle cause della capa­
cità dell’esercito italiano di durare. Sappia­
mo che classe dirigente e ufficiali si ricono­
scevano appieno nella guerra, che condusse­
ro con dura determinazione e capacità di ege­
monia; e che invece la grande maggioranza
dei soldati non capiva le ragioni della guerra
(anche se mancava un’opposizione motiva­
ta). La ricerca storica recente ha documenta­
to 1’esistenza di varie forme di rifiuto sponta­
neo di massa dinanzi alla guerra, ma non de­
ve fermarsi qui, senza affrontare l’esame di
una partecipazione altrettanto di massa, che
permise all’esercito di mantenere la sua coe­
sione e appunto di durare fino alla vittoria.
Ho cercato di indicare le ragioni di questa
103
coesione a più livelli: nel paese, che forniva
soldati obbedienti seppure poco motivati;
nell’istituzione militare, che aveva capacità
di coinvolgimento generalmente trascurate
dagli storici; nella natura della guerra di trin­
cea, combattuta per masse organizzate; e nel­
la complessità deH’animo umano, in cui pote­
vano coesistere rifiuto e obbedienza.
Il discorso rimane aperto. Non mi interes­
sa giustificare o nobilitare la guerra (in meri­
to ogni opinione è lecita), ma ricordare che
va studiata in tutta la sua complessità, anche
nelle sue componenti propriamente militari.
Appendice
Alcuni dati sulle esecuzioni sommarie
Il problema delle esecuzioni sommarie e delle
decimazioni è stato bene impostato da Mon­
ticene37 e poi ripreso da Irene Guerrini e
M arco Pluviano sulla base della relazione
che l’avvocato generale militare Tommasi
stese nel settembre 1919 per il ministro della
Guerra Albricci38. Il rinvenimento degli alle­
gati a detta relazione ci permette di avanzare
una prima analisi del fenomeno39.
Relazione e allegati enumerano 40 casi di
esecuzioni sommarie con 150 fucilati (in un
caso il numero non è precisato). Lo stesso
Tommasi avanza dubbi sulla completezza
dell’elenco, in cui risultano 2 sole fucilazioni
durante la ritirata di Caporetto (mentre il so­
lo generale Graziani ne effettuò 34); Monticone ne cita alcune altre, altre ancora risulta­
vano dalla inchiesta su Caporetto, in forma
37 E. Forcella, A. Monticone, Plotone d ’esecuzione, cit., pp. 444 sg.
3S Irene Guerrini, Marco Pluviano, Il memoriale Tommasi. Decimazioni e esecuzioni sommarie durante la grande guerra,
pp. 63-75, in L. Fabi (a cura di), 1914-1918. Scampare la guerra. Renitenza, autolesionismo, comportamenti individuali e
collettivi di fuga e la giustizia militare nella grande guerra, Monfalcone, Centro culturale, 1994. La relazione Tommasi è
conservata presso il Museo del Risorgimento di Milano, 106 pp. dattiloscritte, senza gli allegati. Rinviamo a questo stu­
dio per molte interessanti osservazioni.
39 II fascicolo degli allegati alla relazione Tommasi (privo della relazione stessa e con alcune lacune e problemi di nu­
merazione) ci è stato cortesemente segnalato nel 1992 dal dottor Brugioni, responsabile delTArchivio dell’ Ufficio sto­
rico dello Stato maggiore dell’esercito. Il fascicolo era ancora da classificare perché faceva parte di un lotto di carte
appena consegnate dal Tribunale militare supremo.
104
Giorgio Rochat
piuttosto vaga. È quindi abbastanza sicuro
che il totale delle esecuzioni sommarie fu
di circa 200, forse qualcosa in più. Qui però
ragioniamo soltanto su quelle indicate da
Tommasi, con l’avvertenza che per quasi la
metà dei casi le indicazioni sono assai sinte­
tiche, tanto da non consentire allo stesso ge­
nerale un giudizio sulla loro legittimità (che
invece c’è per le altre: positivo per 17 casi,
negativo per 8). Mancano inoltre gli episodi
in cui i comandi ordinarono di aprire il fuo­
co su reparti che stavano ritirandosi o arren­
dendosi40; e naturalm ente i casi di soldati
abbattuti dagli ufficiali durante il combatti­
mento, su cui esistono soltanto cenni quanto
mai vaghi41.
Ripartizione per periodo delle esecuzioni sommarie
1915 (31 ottobre)
1
1916 (21 aprile-6 agosto)
48
(30 ottobre-11 novembre)
8
1917 (21 febbraio-14 settembre) 86
(3-23 novembre)
____7
150
Nota. Sono da aggiungere “alcuni fucilati” nell’e­
pisodio del 4 giugno 1917. Non risultano esecuzio­
ni sommarie dopo il 23 novembre 1917, salvo un
caso il 15 luglio 1918 sul fronte francese, citato
da Monticone.
Tutti i casi citati (tranne due vicende indivi­
duali) riguardano reparti di fanteria impe­
gnati nella guerra di trincea. Registriamo 25
casi individuali con 47 fucilazioni, che rag­
gruppiamo così:
a) la fuga dalla trincea o dai reparti in
marcia verso la trincea, anche quando riguar­
da più uomini, che però agiscono secondo di­
namiche individuali: 14 casi con 36 fucilazio­
ni. Esempio: 5 militari del 264° fanteria sco­
perti il 30 agosto 1917 nella galleria del cimi­
tero di Gorizia, dove si erano rifugiati da uno
o due giorni (in questo caso, nota Tommasi,
l’esecuzione sommaria è arbitraria, perché il
reato è stato consumato giorni prima e per­
ché manca l’efficacia dell’esempio per i com­
pagni). Altro caso: nella marcia verso le trin­
cee della brigata Regina nella notte 12-13
maggio 1917 risultarono mancanti oltre cen­
to uomini (in parte imprecisata si trattava di
soldati che avevano perso il loro reparto nel­
l’oscurità). Il comandante di divisione ordinò
di fucilare i primi 2 arrestati del 9° fanteria e i
primi 4 del 10° fanteria.
b) casi di reiterato rifiuto di obbedienza: 5
casi, 5 fucilati (in due casi abbattuti da un su­
periore perché rifiutano di marciare verso il
fronte).
c) casi di ribellione con violenza, cioè uso
di armi contro superiori o compagni: 4 casi, 4
fucilati.
d) casi di mutilazione volontaria: 2 casi,
2 fucilati. Entram bi i casi sono illegittimi,
non soltanto per le m odalità, ma perché
le esecuzioni sommarie erano autorizzate
per comportamenti punibili con la pena di
morte.
I casi collettivi riguardano in primo luogo
la repressione dello sbandamento di reparti
411 Più precisamente, Tommasi ne riporta uno: il 30 giugno 1915 nella zona di Monfalcone i resti del 4° battaglione del
93° reggimento fanteria, circa 70 uomini con il comandante del battaglione e altri 6 ufficiali, furono fatti bersaglio delle
mitragliatrici italiane perché stavano arrendendosi per uscire da una situazione insostenibile. Non teniamo conto di que­
sto caso, tutt’altro che isolato, perché non si tratta propriamente di esecuzioni sommarie ai sensi delle circolari di Ca­
dorna.
41 Casi di soldati abbattutti dagli ufficiali in combattimento o di fucilati senza processo si hanno anche negli altri eser­
citi, seppure senza una documentazione e probabilmente in numero limitato. Si veda in G. Pedroncini, Les mutineries,
cit., pp. 22-23, la fucilazione di un disertore l’8 novembre 1914 per ordine del comandante di divisione, Pétain. L’ucci­
sione di ufficiali per mano dei loro soldati durante il combattimento è un altro fenomeno impossibile da analizzare e
quantificare, certamente ingigantito dalle polemiche e rivendicazioni successive.
L’efficienza dell’esercito italiano nella grande guerra
in combattimento e di tentativi di resa. Sono
3, con 32 fucilati tra la fine di maggio e i pri­
mi di luglio 1916 sugli altopiani42. Più un
quarto caso il 15 novembre 1917, con 2 fuci­
lati del 78° fanteria prelevati arbitrariamente
su 9 soldati già deferiti al tribunale di guerra
per sbandamento presso Zenson di Piave. Gli
altri casi collettivi, 11, sono tutte manifesta­
zioni di protesta di reparti al momento in
cui devono risalire in prima linea. Della rivol­
ta della brigata Catanzaro abbiamo già det­
to, secondo Tommasi i 28 fucilati sono indice
di un’intelligente moderazione della repres­
sione dinanzi alla gravità dei fatti. Gli altri
10 casi sono di dimensioni più modeste, le
proteste si limitano a tumulti, grida e spari
in aria (in un solo caso fu ferito un ufficiale):
gli episodi furono 3 nel 1916 con 10 fucilati, 7
nel 1917 con 31 fucilati (più “alcuni fucilati”
in un caso di cui si dice ben poco). Nel noto
caso della brigata Ravenna, 21 marzo
19 1743, le 7 esecuzioni sommarie erano ille­
gittime secondo Tommasi, perché operate
contro 2 soldati di nulla indiziati e poi 5 sor­
teggiati quando non sussisteva più la flagran­
za del reato.
Non è facile capire in quanti casi si procedé a un decimazione, ossia al sorteggio tra i
reparti colpevoli, perché i rapporti, non sem­
pre chiari, per lo più parlano genericamente
di indiziati. Non ci sono dubbi per 6 casi, 4
relativi a proteste collettive, uno a sbanda­
mento, l’ultimo a fughe durante la marcia
verso la prima linea.
Con le riserve dovute ai limiti della docu­
mentazione, ci sembra che le esecuzioni som­
marie fossero applicate con una certa regola­
rità soltanto dinanzi a proteste collettive di
105
reparti: 10 casi, più la rivolta della brigata
Catanzaro, sono certamente una buona per­
centuale di quelli che si verificarono, specialmente di quelli di una certa gravità. Non si
può dire lo stesso delle fucilazioni per i casi
di sbandamento di reparti, indubbiamente
più numerosi di quelli elencati dal generale
Tommasi, il quale peraltro osserva come fos­
se difficile capire quando si trattasse vera­
mente di sbandamenti colpevoli anziché di ri­
tirate legittime, seppure disordinate. Quanto
ai casi individuali, gli interventi dei comandi
hanno quasi sempre un elevato margine di
soggettività o arbitrio, ossia colpiscono com­
portamenti diffusi non più gravi di tanti altri,
come per la fucilazione di disertori dalla trin­
cea non più colpevoli delle migliaia di deferiti
ai tribunali militari. In altri casi di rifiuto rei­
terato o di ribellione di singoli con atti di vio­
lenza il ricorso ai tribunali straordinari (che
giudicavano anche a tamburo battente) sa­
rebbe stato possibile se non obbligatorio
(per esempio quando la fucilazione viene ese­
guita il giorno dopo). Le esecuzioni somma­
rie erano autorizzate come punizione imme­
diata e esemplare dinanzi alla truppa, condi­
zioni che nei casi individuali spesso non ri­
corrono. Tuttavia gli scrupoli giuridici mani­
festati dai gradi superiori della giustizia mili­
tare (per alcuni casi già nel 1917 e poi nella
relazione Tommasi) vennero lasciati cadere
dinanzi alla necessità di non scalfire l’autori­
tà degli ufficiali, anche quando avevano com­
piuto reati di abuso del grado (in più di un ca­
so coperti comunque dall’approvazione
esplicita dei superiori, a cominciare da Ca­
dorna).
Giorgio Rochat
42 In un caso il numero dei fucilati è incerto, 13 o 14. A Monte Mosciagh, il 25 maggio 1916, vennero fucilati un sot­
totenente, tre sottufficiali e 8 soldati (E. Forcella, A. Monticone, Plotone d'esecuzione, cit., pp. 81-83). Non ci risultano
altre esecuzioni sommarie di ufficiali e sottufficiali; i fucilati sono soldati semplici e graduati di truppa, questi ultimi con
relativa frequenza perché considerati maggiormente colpevoli appunto in quanto graduati.
43 Cfr. E. Forcella, A. Monticone, Plotone d'esecuzione, cit., pp. 452-453.
RASSEGNA
DI STORIA CONTEMPORANEA
Istituto per la Storia della Resistenza e della Società contemporanea
in provincia di Modena
Sommario del n. 2, 1996
Editoriale
La nazionalizzazione della memoria
Opinioni a confronto
Il lavoro, le identità e..., Intervista a Vittorio Foa; Sindacato, mutamento e storiografia,
Interventi di Adriano Ballone, Luigi Ganapini, Adriana Lay
Studi e ricerche
Lorenzo Bertucelli, Sindacato e conflitto operaio. Le Fonderie Riunite di Modena e il 9
gennaio 1950
Contributi e riflessioni
Luca Baldissara, Passione civile, interpretazione del passato e coscienza del presente: un
omaggio alle virtù dello storico Guido Quazza
Scuola e didattica
Fausto Ciuffi, Insegnare la contemporaneità. Note a margine di un incontro con Luigi
Berlinguer, Nora Sigman, La donna degli anni quaranta. Un’esperienza didattica
Strumenti per la ricerca
Renata Disarò, Andreina Petrucci (a cura di), Guida dell’archivio della Camera confederale
del lavoro di Modena-, Sergio Rossi, Dopoguerra e ricostruzione a Modena. Informazioni su
una ricerca-, Stefano Magagnoli, Istituzioni, economia e società. Appunti per una storia di
Spilamberto
Recensioni e convegni
Pietro Neglie, Fratelli in camicia nera ( Roberto Manfredini); Claudio Novelli, Giornalisti in
fabbrica (Paolo Salvatori); Jeremy Rifkin, La fine del lavoro (Angelo Attolini); Luigi Cavazzoli,
Guerra e Resistenza. Mantova 1940-1945 (Monica Casini); Caterina Liotti (a cura di),
Imprese in rete (Stefano Magagnoli)
Epurazione e industriali
Gaetano Marzotto a Valdagno
Maurizio Dal Lago
Sul tema dell’epurazione esiste una consoli­
data tradizione storiografica che ne imputa
il fallimento “all’azione delle forze modera­
to-conservatrici appoggiate dagli alleati an­
gloamericani e non contrastate dalla politica
comunista [...]: l’epurazione mancata è, in ta­
le prospettiva, un aspetto della più generale
rivoluzione mancata e quindi del più generale
‘tradimento’ della Resistenza” 1. Sandro Set­
ta ha mostrato come questo schema interpre­
tativo non sia in grado di spiegare i molti casi
in cui furono proprio le forze di sinistra, o le
loro divisioni, o gli stessi operai a rendere in­
certa o a impedire del tutto, per esempio, l’e­
purazione postbellica degli industriali che
avevano appoggiato il fascismo prima del
25 luglio e dopo l’8 settembre. Tra questi casi
Setta ricorda quello, “clamoroso” , di Gaeta­
no M arzotto2, in ciò differenziandosi dagli
interpreti3 che hanno fatto rientrare più o
meno direttamente il “ caso M arzotto” in
una operazione m oderata e trasformistica,
vanamente contrastata dai partiti di sinistra,
che permise ai grandi industriali veneti di evi­
tare ogni processo epurativo e di mantenere
intatto il loro potere economico anche dopo
la fine del regime fascista4.
La ricostruzione analitica di quell’episodio
1 Sandro Setta, Profughi di lusso. Industriali e manager di Stato dal fascismo alla epurazione mancata, Milano, Angeli, 1993,
p. 70. Sul tema di “un’epurazione che non c’é stata”, si veda Alessandro Galante Garrone, Il fallimento dell’epurazione. Per­
ché?, in Roy Palmer Domenico, Processo ai fascisti, Milano, Rizzoli, 1996, pp. VII-XIV. Galante Garrone imputa soprat­
tutto al governo Bonomi e alle forze che più lo sostenevano la responsabilità dell’inerzia che caratterizzò la loro opera epurativa. Nel contempo Garrone riconosce che furono gli Alleati “i primi a prendere giusti e severi provvedimenti nei confronti
di personaggi eminenti, che avremmo dovuto noi stessi affrettarci ad allontanare dalle loro alte cariche”.
2 S. Setta, Profughi di lusso, cit., pp. 92-93.
3 Ernesto Brunetta, Dalla grande guerra alla Repubblica, in Storia d'Italia. Le regioni dall'Unità a oggi. Il Veneto, a cura
di Silvio Lanaro, Torino, Einaudi, 1984, pp. 999-1000; Ernesto Brunetta, La vita politica dal 1943 al 1970, in Storia di
Vicenza, IV/1, a cura di Franco Barbieri e di Gabriele De Rosa, Vicenza, Neri Pozza, 1991, pp. 186-187. Cfr. anche
Ernesto Brunetta, Introduzione, in Istituto storico della Resistenza nel Veneto, Il governo dei C.L.N. nel Veneto. Verbali
del Comitato di liberazione nazionale regionale veneto. 6 Gennaio-4 Dicembre 1946, introduzione e cura di Ernesto Bru­
netta, Vicenza, Neri Pozza, 1985, p. 26; Giorgio Roverato, Una casa industriale. I Marzotto, Milano, Angeli, 1986, pp.
373-74 e 377-78; Giorgio Roverato, Gaetano Marzotto Jr.: le ambizioni politiche di un imprenditore tra fascismo e post­
fascismo, estratto dagli “Annali di storia dell’impresa”, Milano, Angeli, 1986, n. 2, pp. 61-62; Giorgio Roverato, Gli
operai dei Marzotto, in Emilio Franzina (a cura di), La classe, gli uomini, i partiti. Storia del movimento operaio e socia­
lista in una provincia bianca: il Vicentino 1873-1948, Vicenza, Odeonlibri, 1982, pp. 957-58; Emilio Franzina, Prove di
stampa. Renato Ghiotto e la stampa veneta tra fascismo e postfascismo (1940-1950), Padova, Il Poligrafo, 1989, p. 53.
Più ’neutrale’ è la ricostruzione dell’episodio da parte di Piero Bairati, Sul filo di lana. Cinque generazioni di imprendi­
tori: i Marzotto, Bologna, Il Mulino, 1986, pp. 267-268.
4 Si veda a questo proposito Maurizio Reberschak, I cattolici veneti tra fascismo e antifascismo, in Emilio Franzina e al.,
Movimento cattolico e sviluppo capitalistico nel Veneto, Venezia-Padova, Marsilio, 1974, in particolare le pp. 168-169 e
172-174. Secondo Brunetta, Marzotto avrebbe evitato ogni incriminazione grazie al “varco” aperto dall’assoluzione di
’Italia contemporanea”, marzo 1997, n. 206
108
Maurizio Dal Lago
confermerà con documenti inediti la presen­
za e l’azione di estesi settori della base ope­
raia che si rivelarono molto poco “classisti” ,
preoccupati com’erano della ripresa della
produzione e del mantenimento del salario
più che della preparazione della rivoluzione
socialista. Ma mostrerà altresì che Marzotto
fu formalmente accusato di collaborazioni­
smo dalla Commissione provinciale di epura­
zione di Vicenza ben dopo che operai e com­
missioni di fabbrica lo avevano apertamente
difeso chiedendone il ritorno alla testa delle
sue aziende. Si vedrà inoltre come Marzotto,
tra luglio e settembre del 1945, più che chie­
dere appoggi alle forze moderate vicentine,
abbia piuttosto cercato contatti “a sinistra” ,
in modo particolare con il Pei. E come infine,
al di là dell’esito della vicenda, da cui M ar­
zotto usci indenne, il Clnp avesse scelto e
mantenuto all’unanimità, pur dopo incertez­
ze e tentennamenti, una linea dura e intransi­
gente nei confronti dell’industriale laniero,
anche contro le aspettative degli operai.
Marzotto tra fascisti e tedeschi
Da molti punti di vista Gaetano M arzotto
poteva apparire un candidato naturale all’e­
purazione. Iscritto al Pnf dal 1926\ aveva ot­
tenuto in seguito la qualifica di squadrista in
virtù delle azioni cui egli partecipò in vari
centri della provincia di Vicenza tra il 1920
e il 1921. Aveva poi stretto saldi rapporti di
amicizia con Italo Balbo, Roberto Farinacci,
Antonio Mosconi e Alessandro Lessona. Nel
1937, su pressanti richieste del sottosegreta­
rio agli Interni Buffarini Guidi, iniziò la co­
struzione dello stabilimento di Pisa. Tra il
1937 e il 1938 visitarono gli stabilimenti e le
opere sociali di Valdagno Badoglio, Umber­
to di Savoia e infine lo stesso Mussolini,
che nel 1939 insignì l’industriale valdagnese
del titolo di Conte di Valdagno-Castelvecchio, a parziale riparazione della mancata
nomina a senatore cui Marzotto teneva mol­
tissimo. Ingenti furono gli investimenti che
l’industriale laniero fece in Tripolitania, Ci­
renaica e Somalia nella seconda metà degli
anni trenta e che gli permisero di “ entrare
nell’orbita della classe dirigente nazionale”6.
Dopo il 25 luglio 1943 Marzotto appoggiò
il governo Badoglio, cosa che, con il ritorno
dei fascisti, gli costò una denuncia al Tribu­
nale speciale. In quell’occasione gli fu utilissi­
ma l’amicizia con Farinacci, il quale garantì
per lui e fece cadere l’accusa. Liberato per il
momento da ogni sospetto, Marzotto sfruttò
nel modo più efficace il rapporto con il po­
tente gerarca per iniziare un intenso scambio
economico con la Wehrmacht, favorito an­
che da un’amicizia di antica data con il co­
m andante della Luftwaffe in Italia, m are­
sciallo Wolfram von Richtofen. Di fatto tra
la fine del 1943 e gli inizi del 1945 le commes­
se degli organi di guerra economica del Reich
rappresentarono mediamente il 70 per cento
dell’intera produzione della Marzotto, a tutti
gli effetti industria “protetta” che lavorava
per il ministero degli Armamenti e Produzio­
ne bellica di Speer, rappresentato in Italia da­
gli uffici del RuK (Rüstung- und Kriegspro­
duktion) diretti dal generale Hans Leyers7.
In particolare tra il febbraio e l’ottobre del
Cini da parte del Clnrv: “ Ma escluso Cini per le sue ‘benemerenze’ da ogni processo epurativo, attraverso il varco aperto
passano Volpi [...], Gaggia, Marzotto [...] In altre parole, gli interventi di Tonetti e di Tursi nella seduta del Clnrv del 28
settembre 1945 e la lettera assolutoria nei confronti di Cini che usci da quella seduta poterono essere estesi, e vennero di
fatto estesi, a quanti avevano condizionato da sempre la vita economica della regione” (E. Brunetta, Introduzione, cit.,
p. 26).
5 Per tutte le notizie biografiche di seguito riportate sono debitore di P. Bairati, Sul filo di lana, cit.; G. Roverato, Una
casa industriale, cit.; G. Roverato, Gaetano Marzotto Jr., cit.
6 P. Bairati, Sul filo di lana, cit., p. 250.
7 Sull’importante ruolo dell’ente di Leyers, si veda Lutz Klinkhammer, L ’occupazione tedesca in Italia 1943-1945, To­
rino, Bollati Boringhieri, 1993, pp. 70-84 e il numero monografico della “ Rivista di storia contemporanea”, 1993, n. 2-3,
Epurazione e industriali
1944 furono fatturate lire 217.300.000 di
merci per l’estero, pari a circa 2.400.000 metri
di tessuto “quasi tutti destinati alla Germa­
nia” . A tutti gli effetti quindi Marzotto pote­
va apparire un “collaborazionista” , tanto più
che era nota l’ospitalità che egli riservava agli
ufficiali tedeschi invitati a battute di caccia a
Portogruaro o a qualche ricevimento nella
villa di Valdagno, dove si poteva ammirare
anche un dipinto di A.F. Harper, dono per­
sonale di Joseph Goebbels, grazie al quale
nel 1942 M arzotto aveva ottenuto la Croce
dell'Ordine al merito dell’aquila tedesca di
prima classe.
(
Tuttavia la storia personale e imprendito­
riale di Gaetano Marzotto presentava anche
altri aspetti che correggevano o confliggevano con un’immagine unidimensionale tutta
interna al fascismo. Egli non era stato, come
si è detto, un fascista della prima ora, a diffe­
renza del cugino Luciano che nel 1924 era
stato eletto deputato e pretendeva di control­
lare politicamente sia Valdagno che la pro­
vincia di Vicenza. Neppure quando le fortune
politiche del cugino declinarono Gaetano
M arzotto ne trasse immediato vantaggio. I
risultati non esaltanti del plebiscito del 1929
a Valdagno attirarono infatti su M arzotto
abbastanza scopertamente le ire dei fascisti
vicentini. Ancora un incidente rilevante av­
venne nel 1936, allorché i sindacati fascisti
accusarono la m anifattura di gravi inadem­
pienze contrattuali nell’applicazione del cot­
timo, con conseguenti manifestazioni di pro­
testa e con una proposta di assegnazione al
confino delFindustriale fatta dallo stesso Sta­
race.
109
Ma la partita più difficile Marzotto la giocò
dopo l’8 settembre, quando capì che non pote­
va appiattirsi completamente sui tedeschi per­
ché neppure loro, al pari del Mussolini di Salò,
avevano futuro. Marzotto scelse di collabora­
re con i tedeschi, ma, nello stesso tempo, so­
vradimensionò i reparti ausiliari e fece rallen­
tare i tempi di produzione. In tal modo egli li­
mitò la disoccupazione e, cosa politicamente
significativa, assunse molti giovani che dopo
l’8 settembre erano “tornati a casa” . Il gioco
era pericoloso a tutti gli effetti: i fascisti vole­
vano quei giovani per costituire l’esercito re­
pubblichino; i tedeschi avevano bisogno di
manodopera per le loro industrie in Germa­
nia; Marzotto aveva bisogno di capitalizzare
crediti per il dopoguerra e agli uni e agli altri
rispondeva che per produrre per il Reich ave­
va bisogno di tutta la manodopera assunta. In
questo modo riuscì a limitare al massimo l’in­
vio di operai in Germania all’indomani del
grande sciopero del marzo 19448. Inoltre, ma­
no a mano che i tedeschi intensificavano i ra­
strellamenti, M arzotto fu largo di aiuti alle
popolazioni colpite, suscitando la reazione
delle autorità tedesche. I suoi spazi di mano­
vra tuttavia si restrinsero velocemente nell’e­
state del 1944, quando, venuti meno alcuni im­
portanti appoggi presso i tedeschi, Marzotto si
trasferì a Caldè, sul lago Maggiore, e lì visse
sotto falso nome fino alla fine della guerra,
quando potè tornare a Portogruaro. Per lui in­
fatti era pericoloso rientrare a Valdagno, dove
tra il 30 aprile e il 7 maggio erano stati fucilati i
cinque fascisti maggiormente coinvolti nelle
rappresaglie della locale Brigata Nera e dove
alcuni partigiani volevano impiccarlo9 o fuci-
con saggi di Fabio Degli Esposti, Alessandro Massignani, Maximiliane Rieder, Andrea Curami e Marco Borghi. Oltre
ai lanifici Marzotto, anche la Società marmi vicentini di Chiampo era considerata industria “protetta” .
8 Cfr. Maurizio Dal Lago, Valdagno durante la Repubblica di Salò, settembre 1943-luglio 1944, Valdagno, Biblioteca
comunale, 1977, pp. 31-43. Per la connessione di questo sciopero con il bisogno di manodopera da trasferire in Germa­
nia e con la Sauckel Aktion , cfr. M. Dal Lago, Lo sciopero alla Marzotto del marzo 1944, "Il Giornale di Vicenza", 28
febbraio 1994, p. 13.
9 Luigi Meneghello, Libera nos a Malo, Milano, Oscar Mondadori, 1986, p. 237: “L’impiccatore di Marzotto era bion­
do, schivo e trasognato”. A richiamare l’attenzione su questo passo è stato E. Franzina, Prove di stampa, cit., p. 117,
nota 81.
110
Maurizio Dal Lago
larlo10. Senza contare che il locale Cln aveva
esautorato il direttore generale dei lanifici,
ingegner Masci, sostituendolo con un trium­
virato di sua fiducia11.
Il “ soviet” della Industria marmi vicentini
di Chiampo
Qualcosa di ancor più preoccupante era av­
venuto il 1° maggio nella società Industria
marmi vicentini di Chiampo, di cui Marzotto
era presidente, dove il Comitato di liberazione
aziendale, il Comitato di agitazione e la Com­
missione di epurazione interna, riuniti in sedu­
ta plenaria, sostituirono i tre dirigenti in cari­
ca fino al 28 aprile12 e decisero la ripresa del
lavoro il giorno dopo sotto la guida di nuovi
dirigenti da loro nominati, riservandosi “la re­
visione e rimozione, in un secondo tempo, dai
posti di responabilità dei dipendenti che non
possono, a giudizio dei compagni di lavoro,
continuare nelle mansioni a loro affidate” . Il
23 maggio i rappresentanti dei lavoratori
scrissero a Marzotto per pregarlo “di ricono­
scere il nuovo stato di cose, onde evitare le cer­
te conseguenze, delle quali noi decliniamo ogni
e qualsiasi responsabilità”. Soltanto se fossero
stati confermati i dirigenti in carica in quel
momento gli operai avrebbero accettato la no­
mina di un amministratore delegato, dato che
veniva riconosciuta “la logicità che preposta
all’Azienda sia una persona nominata dal Pre­
sidente, dal consiglio di Amministrazione e
dagli azionisti” . Una via di mezzo tra la rivo­
luzione dei soviet e una Nep tutta vicentina.
Contemporaneamente i rappresentanti dei
lavoratori fecero presente che gli operai ave­
vano aumentato la produzione, ottenendo in
sei giorni ciò che prima si scavava in dieci, ma
che dalla metà di aprile non erano più stati
pagati.
In attesa della risposta di Marzotto i lavo­
ratori si rivolsero il 28 maggio anche al com­
missario della Provincia, Libero Giuriolo, af­
finché “ voglia interporre i suoi buoni uffici
onde le somme depositate presso le banche
possano essere sbloccate” per pagare i quasi
500 tra operai e impiegati, nonché per le spe­
se correnti di esercizio13.
Marzotto dovette valutare con molta cura
tutta la situazione: egli era lontano e in una
condizione di obiettiva debolezza sia politica
sia gestionale. D ’altro canto gli operai sem­
bravano accontentarsi di quello che avevano
già ottenuto, senza intaccare il diritto di pro­
prietà né gli interessi degli azionisti. Non bi­
sognava irrigidirsi, ma prendere tempo.
Alla fine del mese M arzotto aderì, in via
provvisoria, alle richieste dei lavoratori della
Industria marmi vicentini, come si evince dal­
la lettera che la commissione di fabbrica gli in­
viò FI giugno: “ I lavoratori della Società, a
mezzo nostro, esprimono al Signor Presidente
la loro riconoscenza per aver accolto, con la
solita ben conosciuta comprensione, il loro
desiderio e dato incarico al sig. Romeo Scomparin [direttore amministrativo della filatura
G. Marzotto & figli del Maglio di Valdagno]
di guidare, con la collaborazione delle persone
da noi proposte, le sorti della ‘Industria dei
Marmi Vicentini’. Confidano che la sistema-
10 Ai primi di maggio un gruppo di partigiani valdagnesi voleva andare a Portogruaro e giustiziare Marzotto. Furono
dissuasi dai componenti del Cln locale. Un partigiano allora ‘fucilò’ Marzotto in effige, sparando ad una sua foto in­
corniciata (testimonianza orale di Giuseppe Acerbi).
11 Esso era costituito dal ragionier Leopoldo Rausse, dall’ingegner Franco Brunello e (secondo la testimonianza orale
di Rausse) da Lino Randon, democratico cristiano. Roverato, invece, indica come terza persona, l’operaio comunista
Giovanni Storti (G. Roverato, Una casa industriale, cit., p. 373, nota 54).
12 Essi erano il direttore generale dottor Antonio Facco, l’ingegner Luigi Rossato (che era stato segretario del locale Pnf
per dieci anni) e l’architetto Ercole Sanguinetti.
13 II fabbisogno era quantificato in L. 1.080.000. Presso le banche vicentine (Bnl, Banca commerciale, Credito italiano,
Banca cattolica) erano depositate L. 1.254.000.
Epurazione e industriali
zione definitiva non sia diversa da questa, che
è dichiarata provvisoria, ed assicurano del lo­
ro sempre disciplinato e proficuo lavoro per il
bene della Società e di loro stessi” .14
Con questa riuscita mediazione alle spalle,
Marzotto cominciò a sondare il Cln di Valdagno chiedendo Fintervento del sacerdote più
prestigioso e più amato dai Valdagnesi, mon­
signor Giuseppe Zaffonato, che era stato lo­
ro parroco dal 1939 all’aprile del 1944, quan­
do venne consacrato vescovo di Vittorio Ve­
neto15. L’industriale doveva muoversi in fret­
111
ta, perché ai primi di giugno era giunto al
Clnp un esposto “ sulla faccenda M arzotto”
proveniente proprio dalla “ sua” Valdagno.
Il Clnp aveva subito deciso di inviare una let­
tera al Cln mandamentale per avvertirlo che
“ qualora risultino cose concrete a carico di
Marzotto provvedano a far pervenire denun­
cia regolare al Questore” precisando che “la
denuncia può essere fatta da qualsiasi privato
cittadino” 16.
Ma se M arzotto aveva tutto l’interesse a
normalizzare la sua posizione là dove era il
14 Archivio di Stato di Vicenza, Carte Clnp [d’ora in poi AS Vicenza, Clnp], b. 23b. Ai fini del presente lavoro si evi­
denzia che il Comitato di liberazione aziendale era formato da tre comunisti e da un socialista. Solo il 19 settembre,
dopo un sollecito del Clnp, il Comitato aziendale risultò essere composto da un socialista, un comunista, un democri­
stiano e un azionista (cfr. lettera della direzione aziendale al Clnp del 19 settembre, in AS Vicenza, Clnp, b. 23b). Per
quanto concerne la sistemazione definitiva della situazione alla Marmi vicentini, essa, diversamamente dagli auspici dei
rappresentanti dei lavoratori, fu molto diversa da quella “provvisoria”: a settembre l’ingegner Rossato e l’architetto
Sanguinetti erano già tornati ai loro posti e, prima della fine dell’anno, riprese le sue funzioni anche il direttore generale
dottor Facco, tornato dalla prigionia in Germania. La cosa risulta più comprensibile alla luce di quanto scrisse il 22
giugno a Marzotto il capo cantiere dello stabilimento di Chiampo, il perito industriale Manlio Pivi, che così ricostruiva
gli avvenimenti: “Il 1“ maggio u.s. si riuni, promotore il sig. Corradi, disegnatore della nostra Società, e membro comu­
nista del locale Comitato di Liberazione, il cosiddetto ‘Comitato di Agitazione di Fabbrica’, per deliberare circa un pro­
getto di destituzione dalla carica dei dirigenti e di parecchi impiegati e capi-reparto, rei di aver esercitato, nel passato,
una giusta severità e perciò stesso ‘sgraditi’ agli elementi meno attivi e più turbolenti. La lista degli ‘incriminati’ venne
elaborata dal sig. Corradi e da pochi altri elementi durante il periodo clandestino. La massa degli operai o non cono­
sceva affatto o conosceva molto vagamente il progetto, alla discussione e alla realizzazione del quale non partecipò in
alcun modo. Ciò Le posso assicurare per essermene personalmente accertato interrogando allo scopo molti operai. La
destituzione [...] venne limitata ai soli dirigenti e al capo-cave, rimandando i provvedimenti degli altri ‘indesiderabili’ a
un secondo tempo. Venne poi proposto di chiamare a reggere l’Azienda un ingegnere di Thiene, ma il rag. Fornasetti si
autopropose, promettendo molte cose [...]. Verso la metà del mese di maggio [...] il Comitato di Liberazione di Vicenza
inviò a Chiampo un suo funzionario, affinché si informasse quali [ite] erano stati i motivi che avevano provocato la
‘destituzione’ di tutti i Dirigenti; a questo funzionario il rag. Fornasetti ebbe il coraggio di rispondere che i tre Dirigenti
erano stati ‘destituiti’ perché di sentimenti repubblicani, mentre né l’ing. Rossato, né l’arch. Sanguinetti si possono certo
accusare di essere stati filo-repubblicani; l’accusa, poi, è addirittura assurda nei confronti del Dr. Facco, da quasi cinque
anni richiamato alle armi e da quasi due internato in Germania”. Se questa era la situazione “politica”, non migliore era
quella del cantiere dove “i capi sono stati esautorati e si trovano nell’assurda situazione di dover far rispettare agli ope­
rai le norme e le direttive che gli stessi operai emanano. Ne consegue che i capi non possono né vogliono compromet­
tersi, col risultato che tutti agiscono di propria iniziativa [...] Molto spesso gli ordini della Sede al Cantiere vengono dati
per ‘sburocratizzare’ verbalmente, cosicché mi riesce molto difficile il controllo della regolarità dei lavori e delle ope­
razioni che si compiono. Sono stati venduti e si vendono, contro le disposizioni date dal rag. Scomparin,'molti greggi
[...], e fra questi purtroppo anche materiali colorati, di difficile approvvigionamento, sicché un giorno potremmo tro­
varci nella situazione di non poter far fronte alla concorrenza. Si cedono inoltre, con troppa facilità, a qualche ‘amico’
petulante, materiali di scorta di prima necessità” . Pivi, per tutto questo, ribadiva “la necessità del rientro dei vecchi
Dirigenti” (Archivio Marzotto [d’ora in poi MARZOTTO], D, 4, scat. 8, fase. 3).
15 In un altro momento drammatico per Valdagno era stato chiesto a Zaffonato di intervenire con il suo prestigio. Ciò
avvenne il 9 luglio 1944, all’indomani dell’uccisione dei “sette martiri” da parte dei soldati tedeschi di stanza a Valda­
gno. Allora era stato lo stesso commissario prefettizio, Marchetti ad andare a Vittorio Veneto per sollecitare il ritorno
di Zaffonato a Valdagno (vedi M. Dal Lago, Valdagno durante la Repubblica di Salò, cit., pp. 61-66. Cfr. anche Gianni
A. Cisotto, Guerra e resistenza nella cronaca di un parroco del vicentino ( 1939-1945), Valdagno, Amministrazione comu­
nale, 1995, pp. 84-85).
16 AS Vicenza, Clnp, Registro verbali, n. 1, p. 31.
112
Maurizio Dal Lago
cuore delle sue aziende, altrettanto interesse,
a un mese e più dalla fine della guerra, aveva­
no le forze politiche a che il lavoro riprendes­
se al più presto: nei magazzini le scorte erano
esaurite, alcuni reparti erano stati bombarda­
ti dagli alleati il 10 e FI 1 aprile, subito dopo
l’inizio della loro offensiva finale, la disoccu­
pazione incombeva e il triumvirato nominato
dal Cln non aveva nessuna possibilità di ri­
mettere in moto la macchina produttiva.
L’obiettiva convergenza degli interessi fa­
cilitò i contatti preliminari, fino a giungere
in breve tempo all’incontro definitivo.
L’accordo di Vittorio Veneto
Il 20 giugno 1945, i rappresentanti del Cln
di Valdagno, riuniti dal vescovo Zaffonato
nel castello di S. Martino a Vittorio Veneto,
sottoscrissero con il procuratore di Gaetano
M arzotto, ingegner Masci, un documento
in cui “il Cln di Valdagno, dopo aver esami­
nata la posizione politica del Co. Marzotto,
lo rassicura che non ha alcuna intenzione di
procedere nei suoi confronti in alcun senso” .
Nel corso del confronto Masci propose che
dopo le parole “lo rassicura che” fosse inseri­
ta la correzione-aggiunta: “ non svolgerà al­
cuna azione di carattere politico verso il con­
te M arzotto” . A Masci (e a M arzotto) non
bastava un impegno solo per il presente: era
necessaria una rassicurazione esplicitamente
politica e impegnativa anche per il futuro.
La proposta di Masci fu accettata17.
M arzotto, dal canto suo, si impegnava a
versare un contributo in denaro, in terreni e
in fabbricati a favore di una costituenda coo­
perativa di operai desiderosi di avere la casa
in proprietà. Parimenti egli avrebbe facilitato
il costituirsi di una cooperativa operaia per la
gestione di negozi di alimentari e di abbiglia­
mento; infine avrebbe devoluto sei milioni di
lire ai “ sinistrati in seguito alle rappresaglie
nazifasciste, che hanno avuto la casa distrut­
ta (circa trecento famiglie)” .
Era un compromesso realistico, nato in
una logica tutta cittadina che da un lato permettava a M arzotto di tornare a Valdagno
senza temere ritorsioni di sorta, dall’altro
consentiva ai partiti del Cln di accreditarsi
presso l’opinione pubblica per aver agito in
favore della ripresa del lavoro in un contesto
“ sociale” più democratico. Gaetano M arzot­
to tornò a Valdagno alcuni giorni più tardi18.
Il problema sembrava dunque risolto con
unanime soddisfazione, almeno a livello lo­
cale19.
L’attacco
Invece i risultati dell’accordo del 20 giugno
furono rimessi in discussione il 15 luglio
17 In calce al documento c’è la correzione/aggiunta scritta di pugno dal presidente del Cln, Nino Cestonaro. Il testo
completo dell’accordo è riportato in M. Dal Lago, Valdagno durante la Repubblica di Salò, cit., pp. 91-92. Alla riunione
di Vittorio Veneto erano presenti, oltre a Masci e a Cestonaro, il quale rappresentava il Partito socialista di unità pro­
letaria, Bruno Gavasso (Pei), Sergio Perin (Partito d’azione), Lino Randon (De), Livio Zenere (Pii).
18 Lo testimoniano le molte lettere che egli scrisse da Valdagno ad amici e a personalità varie: il 3 luglio informa il co­
lonnello Alfredo Landi che per la sua famiglia “malgrado tante traversie [...] è passata bene per tutti” (MARZOTTO,
Copialettere, 77, p. 458). Il 24 luglio ricambia gli auguri dell’architetto Francesco Bonfanti (MARZOTTO, Copialettere,
77, p. 478). Il 3 agosto risponde all’arcivescovo di Pisa, monsignor Gabriele Vettori in merito “alla possibilità di far
rivivere il Lanificio di Pisa”, non nascondendo “le immense difficoltà che vi si frappongono causa le distruzioni e i gra­
vissimi danni subiti da fabbricati e macchinari, dei quali mi ha dato dettagliata relazione l’ing. Masci che nei giorni scor­
si è venuto appositamente costi per un sopraluogo” . Ma nel contempo assicurava l’arcivescovo che “comunque sarà
fatto quanto possibile per rimetterlo al più presto in condizioni di riprendere qualche attività” (MARZOTTO, Copialettere, 77, p. 497).
19 II Clnp infatti non doveva essere convinto della situazione se una settimana dopo, il 27 giugno, decideva di inviare
alla Marzotto, che era già stata “commissariata” dal Cln locale, la seguente lettera: “Dall’epoca della Liberazione i la-
Epurazione e industriali
quando “ L’U nità” , edizione di Milano, at­
taccò duramente il “ feudatario” valdagnese,
e con lui il Cln locale, reo di aver “trattato”
con M arzotto20. Il “caso M arzotto” nacque
in quel momento.
L’attacco, provenendo dall’organo uffi­
ciale del Pei, non poteva essere sottovaluta­
to. M arzotto capi che la copertura politica
del Cln locale era insufficiente e che era ne­
cessario riprendere la trattativa a un livello
più alto, meglio se con la mediazione pro­
prio del partito che lo stava attaccando
con maggior durezza. Cosi, verso la fine di
luglio, M arzotto incaricò l’avvocato Guido
Rezzara di contattare il Pei di Vicenza. Il
l e agosto il presidente del Cln provinciale
Lievore (Pei) notificò ai colleghi che “ l’avv.
Rezzara, consulente legale di M arzotto, ha
fatto segnalazione presso la sede del Partito
Comunista che il Cln di Valdagno non fun­
ziona, pare per colpa del Presidente. M ar­
zotto è disposto a cedere in cooperativa il
teatro, campo sportivo, case popolari ecc.
Desidera però la sostituzione del Cln locale
e la Direzione [del lanificio], intanto, entrerà
in trattative per la cessione di questi locali
con il Provinciale” 21.
La comunicazione provocò una animata
discussione, non tanto per la perentoria ri­
chiesta di azzeramento di un Cln, ma per il
fatto che la segnalazione era pervenuta non
al Cln ma al Pei, e in secondo luogo circa
113
l’opportunità di andare a verificare sul posto
la situazione. Alla fine si decise di convocare
il Cln della città laniera per martedì 7 agosto
“ per trattare diffusamente l’argom ento” 22.
Ma il giorno dopo, 2 agosto, “ L’Unità” sfer­
rò contro Marzotto un nuovo attacco, questa
volta politicamente e moralmente devastante
per l’industriale valdagnese: “ Segnaliamo il
conte fascista G. M arzotto come una delle
più nefande spie nazi-fasciste che denunciò
gli antifascisti della sua vallata, facendoli pic­
chiare a sangue e molti morire nelle imbosca­
te ed in prigionia sia in Italia che in Germa­
nia”23.
La gravità delle accuse era tale da fare ter­
ra bruciata intorno a chiunque. Invece, nel­
l’immediato, non ci furono reazioni di sorta
né conseguenze politiche di alcun tipo, con
eccezione della decisa ma solitaria difesa di
M arzotto fatta, non a caso, dal vescovo Zaf­
fonato il 7 di agosto24. La Commissione
provinciale di epurazione non aprì nessuna
inchiesta né formulò nessun addebito contro
la “ spia nazi-fascista” . Il 7 agosto il Cln pro­
vinciale ricevette, come concordato, il Cln di
Valdagno “per trattare delle proposte avan­
zate dal legale di M arzotto” 25. Nonostante
l’attacco de “ L’U nità” M arzotto non era
stato delegittimato, ma il Pei vicentino si fe­
ce più prudente: Lievore, nella seduta del 27
agosto, ripresentò al Clnp “ le proposte fatte
a nome del conte M arzotto al Partito Comu-
nifici Marzotto non funzionano. È impressione generale che tale situazione sia stata creata ad arte, allo scopo di con­
vogliare l’opinione pubblica. Questo comitato vi diffida a far sì che entro 5 giorni, dalla ricezione della presente nota, sia
ripreso il lavoro. In caso contrario si promuoverà [sic] ad una gestione commissariale” (AS Vicenza, Clnp, Registro ver­
bali, n. 1, p. 43).
20 Nonostante ricerche effettuate presso l’archivio de “ L’Unità” e presso biblioteche e istituti vari nel Veneto e in Lom­
bardia, non sono riuscito a trovare l’edizione con la cronaca vicentina, la cui esistenza tuttavia rimane più che certa
perché, come vedremo subito, ad essa fanno riferimento tutti coloro che interverrano sul caso.
21 AS Vicenza, Clnp, Registro verbali, n. 1, p. 84.
22 AS Vicenza, Clnp, Registro verbali, n. I, p. 84.
23 Le frasi riportate sono tratte dalla lettera dei componenti della Commissione di fabbrica delle Ferrovie tranviarie
vicentine (Ftv) che le citano direttamente da “L’Unità” del 2 agosto.
“4 Cfr. P. Bairati, Sul filo di lana, cit., p. 268.
25 II verbale non riporta il contenuto della discussione, limitandosi alla seguente annotazione: “nel pomeriggio il Co­
mitato riceverà il CLN di Valdagno per trattare le proposte avanzate dal legale di Marzotto” . Vedi AS Vicenza, Clnp,
Registro verbali, n. 1, p. 93.
114
Maurizio Dal Lago
nista da parte dell’avv. Rezzara” , precisan­
do tuttavia che se anche il Comitato avesse
accettato tali proposte “ il Partito Comuni­
sta aveva fatto capire che, in caso di biso­
gno, non avrebbe fatto nessuna discrimina­
zione per il conte”26. Il Pei dunque si teneva
aperta ogni possibilità, tanto più che si tro­
vava di fronte alle “ obiezioni sollevate dal
Partito Socialista” e al fatto che “ anche il
Partito d ’Azione si è interessato alla que­
stione” . Pertanto fu deciso di mandare, gio­
vedì 30 agosto, il socialista De Maria a Valdagno “ per assumere inform azioni presso
quel Com itato M andam entale” . Se ne sa­
rebbe poi riparlato nella riunione del 7 set­
tembre.
La difesa
Negli stessi giorni il “caso M arzotto” appro­
dò sulla prima pagina de “ Il giornale di Vi­
cenza” con una serie di prese di posizione
nei confronti delle accuse de “ L’U nità” . Il
26 agosto il direttore Renato Ghiotto27 tito­
lava “ La lezione viene dal popolo” una lunga
lettera inviata al giornale dai componenti
della Commissione interna e del Comitato
aziendale di epurazione della Società tramvie
vicentine (di cui Gaetano Marzotto era presi­
dente), nella quale si attestava che, dopo ac­
curate indagini su M arzotto per verificare
la fondatezza delle accuse di essere stato
una spia nazi-fascista, “nulla risulta che av­
valori tale gravissima imputazione che fa di
un uomo, chiunque esso sia, il maledetto da
Dio e dagli uomini” . I firmatari della lettera
non mancarono inoltre di rilevare che “nes­
sun provvedimento era stato adottato dalle
autorità per tale accusa” . Quindi “ o l’anoni­
mo articolista [...] ha delle prove concrete e
non delle chiacchiere, e allora si faccia avanti
e denunci, perché questo è un suo preciso do­
vere, oppure noi stessi lavoratori dovremmo
dire che tale modo di agire non è certamente
corretto nei confronti anche di coloro che ap­
partengono a categorie che naturalmente so­
no con noi in conflitto” . Gli operai delle
Tramvie, augurandosi una “rapida soluzione
del caso M arzotto” si preoccuparono di non
aprire una polemica con “L’Unità” : “ Ci con­
senta “ L’Unità” questi nostri brevi accennni
che non vogliono certo intaccare la serietà di
uno dei principali giornali nostri, e compren­
da che solo il culto che noi abbiamo della li­
bertà delle proprie idee e della manifestazio­
ne di esse, ci ha indotti a stendere il presente
articolo” .
Molto più pungente e giornalisticamente
scaltrito fu il corsivo del direttore Renato
Ghiotto:
Esce quotidianamente a Milano un giornale che,
sensibilissimo ad ogni sintomo di fascismo ancora
galleggiante, scaglia pietre e sassate non appena
gli sembra di essersi messo in traccia di qualche
nuova tram a del fascismo in agguato: soltanto
che — talvolta — le pietre e le sassate che esso sca­
glia colpiscono la verità e non il fascismo. Non è
nemmeno del quotidiano milanese il torto quanto
piuttosto del suo corrispondente dalla nostra pro­
vincia, certo Vito Pandolfi. Costui, recatosi qual­
che giorno dopo l’eccidio a Schio, pretese di aver
fatto “ luce” — per conto suo — sul misfatto e
ne attribuì senz’altro la responsabilità a certo si­
gnor Salvadori, appartenente alla corrente trozkista del comuniSmo28.
L’allarme del signor Pandolfi colse di sprovvista il
Salvadori che — proprio — non risulta affatto im­
plicato nelle faccende di Schio.
26 AS Vicenza, Chip, Registro verbali, n. 1, pp. 120-121.
27 Su Renato Ghiotto come direttore de “Il Giornale di Vicenza” nel periodo in esame vedi E. Franzina, Prove di stam­
pa, cit., pp. 45-54, dove si evidenzia che Ghiotto fu proposto alla direzione del giornale da esponenti del Partito d’azione
di Vicenza.
28 L’accusa ai trotskisti fu autorevolmente avallata in un articolo di prima pagina, non firmato, de “L'Unità”, edizione
di Roma, del 15 luglio: “Tutte le correnti democratiche italiane hanno condannato senza reticenze la strage compiuta a
Schio da elementi trotskisti” .
Epurazione e industriali
Senonché, pochi giorni dopo ecco, sullo stesso
giornale, scodellata dallo stesso corrispondente
sui numero del 15 luglio dello stesso giornale, la
“ verità” su G aetano M arzotto, piccolo duce di
Valdagno. Faceva seguito un altro articolo ancor
più sensazionale pubblicato nel numero del 2 ago­
sto, in cui l'industriale valdagnese era accusato
pubblicamente quale delatore di partigiani a favo­
re del nemico.
E sono queste inconsulte sassate alla verità che
— questa volta — hanno provocato la reazione
degli operai, i quali hanno voluto chiarire le co­
se ed esporre le loro idee. L ’atteggiam ento di
questi lavoratori è una difesa del diritto che il
popolo ha di esigere dalla stam pa serietà ed
onestà.
Renato Ghiotto si schierava apertamente con
gli operai, con il “popolo” (e, oggettivamen­
te, dalla parte di Marzotto), ma nello stesso
tempo spostava e circoscriveva il problema,
derubricando quello che a tutti gli effetti
era un pesantissimo attacco dell’organo del
partito comunista italiano, all’errore indivi­
duale di un suo oscuro corrispondente di pro­
vincia.
Il 6 settembre, sempre in prima pagina e
con rilievo ancora maggiore, “ Il Giornale
di Vicenza” pubblicò le lettere di 61 operai
dei Lanifici M arzotto insieme a quella del­
le commissioni interne di fabbrica della so­
cietà per azioni Industria marmi vicentini
di Chiam po, nonché il com unicato della
Commissione interna del Lanificio V.E.
M arzotto.
Fin dal titolo sotto il quale vennero rac­
colte le lettere e il comunicato si capisce
che l’accento si era spostato dai “ sistemi
giornalistici” ai problemi locali: “ E utile
che M arzotto torni a Valdagno? Gli operai
hanno dato la loro risposta” . Questa era
contenuta in primo luogo nella lettera dei
61 “ vecchi” operai:
Come i compagni vicentini [delle tramvie] deside­
riamo sia dato modo a quest’uomo di ritornare
115
tranquillamente al suo posto di lavoro, alla testa
delle sue industrie... Un uomo, quale M arzotto,
checché se ne dica, non è tanto facilmente sostitui­
bile, e noi che lo conosciamo da tanti anni, sappia­
mo cosa valga, e come nelle attuali contingenze sia
indispensabile la sua guida per la ripresa. Ma vo­
gliamo sia lui il nostro dirigente massimo e che ri­
prenda a vivere la nostra vita, accanto a noi e al
nostro lavoro, sicuri che non vorrà più ricadere
negli errori del passato e saprà rompere quella cer­
chia chiusa, nella quale lo avevano rinchiuso certi
suoi dirigenti, che tenendolo lontano da noi e male
agendo contro gli operai, fecero poi ricadere su di
lui tutte le loro colpe. E quindi tempo che anche
Marzotto epuri coloro che hanno voluto instaura­
re nei suoi stabilimenti un regime di bassi nepoti­
smi e di preferenze, specie verso gente forestiera...
Questi sono gli errori di Gaetano Marzotto, ed ora
noi gli chiediamo di seguire le orme del suo sempre
compianto Genitore [Vittorio Emanuele Marzot­
to], che in fatto di tecnica e di lavoro fu maestro
a tutti noi.
A ben guardare questa lettera era sì una ap­
passionata difesa di Marzotto, ma nello stes­
so tempo era anche un aperto atto di accusa:
Marzotto aveva “tradito!” i “suoi” operai, la
“ sua!” Valdagno, lasciandola in mano agli
“ stranieri!” , per giunta incompetenti. Lungi
quindi dal dover essere epurato per ragioni
politiche, era lui, M arzotto, che doveva
“ epurare” la sua azienda da chi ne aveva
usurpato il posto29. La conclusione della let­
tera era tutta “interna” a Valdagno e ai lani­
fici:
Come Valdagnesi, nati e cresciuti nelle sue fabbri­
che, perché in seno alle nostre madri abbiamo im­
parato ad udire i battiti del telaio [...] gli chiediamo
di abolire [...] certi esotici sistemi che vogliono fare
dell’uomo una macchina, nuocendo alla qualità
delle produzioni e menomando il nome Marzotto,
che noi vogliamo sia riportato all’altezza dei bei
tempi, quando quelle stoffe da noi prodotte, senza
tanti bedaux, primeggiavano in tutto il mondo, ed
hanno fatto grande Valdagno.
29 Alcuni anni più tardi Marzotto riconobbe l’errore di aver abbandonato la direzione, facendolo risalire al 1934. Cfr.
P. Bairati, Sul filo di lana, cit., p. 222.
116
Maurizio Dal Lago
Basta dunque “con le menzogne e gli occulti
interessi” e ci si domandi piuttosto “il perché
di tanto accanimento, mentre vi sono moltis­
simi altri industriali italiani, che hanno col
fascismo e con i tedeschi, profittato e guada­
gnato milioni e miliardi, ed oggi nessuno li
tocca... Vedi Biellese, Alto Milanese, ecc.” 30
Anche questa volta Ghiotto si schierò
apertamente con gli operai31: “ Nel ‘caso’ di
Marzotto la sospensione del giudizio signifi­
ca la disoccupazione sistematica e retribuita
di quasi la metà del personale ordinario degli
stabilimenti di Valdagno e di Maglio. Biso­
gna fingere di ignorare ancora il problema?” .
Tanto più che se ancora permanevano dubbi
di natura politica, questi erano stati spazzati
via dalle “ commissioni di epurazione che
hanno rimosso dall’impiego numerosissimi
funzionari, impiegati ed operai dei lanifici
Marzotto sia perché compresi nelle clausole
delle leggi contro il fascismo, sia per indegni­
tà32, [e che] non hanno trovato nella condotta
politica e morale di Gaetano Marzotto niente
di tanto grave da giustificare un qualsiasi
provvedimento a suo carico” . Il giovanissi­
mo direttore così concludeva il suo corsivo:
Se domani nella vita economica italiana verrà mo­
dificata sostanzialmente la struttura attuale del ca­
pitalismo — cosa che è per molte ragioni augura­
bile — non è logico né produttivo che in attesa di
quel momento si accantoni una competenza in­
dubbia e si trascuri la soluzione di un problema
di cosi vasto interesse. Si ha paura di formare taci­
tamente un feudo e un feudatario? Non manche­
ranno domani — se tale è la volontà dei lavoratori
italiani — i mezzi legali e aperti per impedire peri­
colose deviazioni o per esercitare controlli. Del re­
sto tale possibilità esiste già ora, attraverso gli or­
ganismi democratici delle fabbriche, la libertà di
stampa, l’aumentata efficacia della critica.
Ghiotto quindi aveva buon gioco nel mostra­
re la sostanziale concordanza delle sue “ de­
duzioni sul capitalista valdagnese” con le va­
lutazioni della Commissione interna del lani­
ficio Vem di Valdagno il cui comunicato del 4
settembre ricordava che
i rappresentanti dei lavoratori dei due maggiori
complessi industriali [...] ritennero opportuno
prendere in considerazione l’invito per un contatto
con il loro principale e fino dal primo colloquio33,
superati e appianati tutti gli ostacoli, addivennero
ad una fattiva collaborazione per risolvere tutti i
problemi economici, industriali e sociali delle
aziende. Deplora in conseguenza che quest’atmo­
sfera laboriosa [...] venga turbata da persone estra­
nee ai lavoratori dei lanifici e peggio ancora a no­
me di questi senza averne un preciso mandato [...]
e considera con sospetto ogni intervento non ri­
chiesto34.
Il messaggio era chiaro: Marzotto era proble­
ma dei valdagnesi soltanto, e loro lo avevano
già risolto sia politicamente che sindacalmen-
30 La posizione dei 61 operai era in linea con il tradizionale paternalismo marzottiano, chiaramente illustrato ne! vo­
lume, commemorativo del centenario dell’azienda, Un episodio e una storia. Marzotto 1836-1936, Milano, Industrie gra­
fiche Moneta, sd. [ma 1936], pp. 237-293: “ora abbiamo davanti [...] la Città sociale dell’assistenza ai lavoratori, la te­
stimonianza vivente della dignità a cui è sorto il lavoro, il Cerchio che s’è compiuto, dalla collaborazione dei ‘sottoposti’
nella fortuna dell’industria alla collaborazione dell’industria nella vita civile dei ‘sottoposti’” (p. 237).
31 Franzina, invece, giudica “ guardingo” il commento di Ghiotto in Prove di stampa, cit., p. 121, nota 128.
32 II 3 settembre la Commissione di epurazione del Lanificio di Valdagno (istituita a norma dell’ordinanza generale n.
46 del 27 giugno 1945 emessa dal contrammiraglio Ellery Wheeler Stone) aveva deciso il licenziamento di 45 fascisti, tra
operai e impiegati. I sospesi furono 23, cfr. il verbale della Commissione, 3 settembre 1945, in Archivio comunale di
Valdagno, sez. “Resistenza” , busta 2, fase. 6. La Commissione era formata da Sergio Perin, presidente, da Ettore Crosara e Angelo Conte. Non sono riuscito a reperire le risultanze della Commissione che operò nello stabilimento del Ma­
glio e che, presieduta sempre da Sergio Perin, aveva come componenti Romeo Scomparin e Attilio Pasetto. Cfr. l’elenco
dei membri in AS Vicenza, Clnp, b. 14, fase. 3.
33 II contatto avvenne a Portogruaro e completò sul versante sindacale l’accordo politico di Vittorio Veneto.
34 II comunicato della Commissione interna fu spedito al giornale il 3 settembre. Vittorio Marzotto, il 4 settembre, in­
formò il padre che nella Commissione c’era stato chi aveva proposto di smentire le accuse contenute negli articoli de
Epurazione e industriali
117
te, ponendo le premesse per la ripresa pro­
duttiva, esigenzia primaria e indilazionabile
per tutti gli operai e i responsabili della co­
munità. M arzotto veniva così “ assolto” per
la seconda volta, ed ora pubblicamente, dal
popolo, dai “suoi” operai, dalle commissioni
interne e di epurazione, senza distinzione
partitiche35. Il “ caso” poteva considerarsi
definitivamente chiuso. Ed invece si riaprì
rindomani, nel modo più clamoroso.
opposti a quelli seguiti fino a quel momento.
In primo luogo il Comitato provinciale mos­
se “ un appunto a ‘Il Giornale di Vicenza’
perché per due o tre giorni ha pubblicato am­
pi articoli su M arzotto” 37, tra i quali non era
stato gradito soprattutto il comunicato del
Cln mandamentale di Valdagno, pubblicato
il 5 settembre38: esso infatti dimostrava che
l’iniziativa era tornata ai valdagnesi, decisi
a far valere la parte “ sociale” dell’accordo
del 20 giugno e a porre la sordina sulla con' tropartita politica che avevano concesso. Es­
Lo scontro tra il Cln provinciale
sa divenne invece il punto su cui si concentrò
e il Cln di Valdagno
l’attacco del Comitato provinciale che decise
aH’unanimità di far pubblicare una durissima
Il 7 settembre il Clnp36 affrontò come conve­ sconfessione politica che era insieme una ta­
nuto la questione M arzotto, ma in termini gliente delegittimazione morale del comitato
“ L’Unità”; la proposta non venne approvata perché, affermavano gli oppositori: “non vogliamo andare contro il nostro
giornale” (MARZOTTO, D, 25). Anche i rappresentanti dei lavoratori della spa Marmi vicentini di Chiampo si asso­
ciavano a quanto scritto dai lavoratori delle Tramvie e facevano voti “affinché sia finalmente chiarita la posizione del
Conte Marzotto, che della ‘Marmi’ è stato il rinnovatore e dei bisogni della nostra vallata è stato sempre particolarmen­
te sensibile e generoso di aiuto anche in questi ultimi tempi estremamente difficili” (“Il Giornale di Vicenza” , 6 settem­
bre 1945).
33 Questo non significa che, a favore di Marzotto, si schierassero anche capi partigiani locali a differenza di quanto
scrive G. Roverato, Una casa industriale, cit., p. 377, nota 67. 11 Roverato, a sostegno della sua tesi, riporta il manifesto
fatto affiggere nell’estate del 1945 da un sedicente capo partigiano, tale Falco, vicecomandante della brigata Carando, e
attribuisce anzi a questo intervento un ruolo conclusivo del caso Marzotto (G. Roverato, Gaetano Marzotto Jr., cit., p.
63). Falco negava l’identificazione tra Marzotto e fascismo affermando, al contrario, che Marzotto era stato “antifa­
scista” fin dal plebiscito del 24 marzo 1929, come testimoniavano, a suo dire, i risultati per nulla plebiscitari che in quel­
l’occasione si erano avuti a Valdagno. In realtà il manifesto non fu scritto dal vicecomandante Falco, che non è mai
esistito, come non è non è mai esistita, né nella valle dell’Agno né altrove, una brigata Carando. Nel merito poi il do­
cumento affermava cose del tutto inesatte quando sosteneva che, nelle elezioni plebiscitarie del 1929, una notevole parte
dei Valdagnesi aveva votato contro il regime “con l’incondizionato appoggio del Conte” . Perché, se è vero che i voti
contrari furono 531 e suscitarono le ire del federale di Vicenza Alberto Garelli nonché della “Vedetta fascista” , le cause
di questa protesta andavano cercate sia nel malcontento degli abitanti della frazione di Piana per la chiusura del loro
tradizionale circolo ricreativo, sia in quello degli abitanti di Novale che erano stati appena privati del loro Comune,
come immediatamente si premurò di spiegare lo stesso Marzotto a Garelli; cfr. Paola Dal Lago, “ Verso il regime tota­
litario. Le elezioni plebiscitarie del 1929”, tesi di laurea, rei. Angelo Ventura, Università degli studi di Padova, a.a. 19941995, pp. 265-272. Infatti Marzotto, in occasione del plebiscito, lungi dall’operare in senso contrario al regime, aveva
esplicitamente invitato i suoi operai a votare si: “Troviamo inutile rivolgere parole di incitamento ai nostri operai poiché
siamo sicuri che tutti adempiranno al loro dovere di elettori, di cittadini. S.E. Mussolini, che figura a capo della lista dei
400 candidati ha troppo benemeritato dagli Italiani per dubitare che alcuno di essi manchi all’appello” , citato da P. Dal
Lago, “Verso il regime totalitario. Le elezioni plebiscitarie del 1929”, cit., p. 116. E infine significativo che Marzotto
non abbia mai fatto riferimento al plebiscito del 1929 nei suoi appunti difensivi (vedi più sotto). Dunque è molto pro­
babile che quel manifesto sia stato “costruito” in ambienti filomarzottiani fin troppo zelanti.
36 Erano presenti: Antonio Lievore e Bruno Stocco (Pei), Jacopo Ronzani (Pda), Giacomo Rumor e Guglielmo Cap­
pelletti (De), Marcello De Maria e Mario Segala (Psi), Antonio Forestan e Gino Berto (Pii); era assente Ettore Gallo
(Pda).
37 AS Vicenza, Clnp, Registro verbali, n. 1, pp. 131-132.
38 “Con la partecipazione delle Commissioni di Fabbrica dei Lanifici Marzotto si è riunito il CLN Mandamentale per
deliberare su importanti problemi riguardanti gli operai della nostra città. Presieduta da Sergio Perin (P. d’Azione), pre-
118
Maurizio Dal Lago
valdagnese, probabilmente unica nel suo ge­
nere:
Il Cln Provinciale, presa visione a mezzo stampa
(Giornale di Vicenza, 5 settembre) della delibera
del Cln mandamentale di Valdagno, precisa che
l’accordo di Vittorio Veneto del 20 giugno 1945
ivi richiam ato, venne concluso dai componenti
del Cln di Valdagno ed il signor Gaetano Marzotto, contrariamente alle istruzioni date loro dal Cln
provinciale. Si dimostrava infatti immorale il su­
bordinare una offerta di carattere sociale alla di­
scriminazione di una responsabilità politica, come
veniva prospettata nella premessa di tale accordo,
ed inoltre esorbitava dalla competenza del Cln
mandamentale39.
Il Cln di Valdagno reagì subito e ottenne di
essere ricevuto dal Comitato provinciale
mercoledì 12 settembre. Presenti Lievore,
Gallo, Rumor, Cappelletti, De Maria, Fore­
stan, Stocco e Berto, i valdagnesi chiesero
“spiegazioni in merito all’articolo apparso il
giorno 8 corr. mese sul Giornale di Vicen­
za”40. Rispose Lievore che “il Comitato Pro­
vinciale non era d’accordo con il precedente
articolo del giorno 5, in quanto [il Cln pro­
vinciale] non aveva dato il benestare per la
stipulazione del concordato di Vittorio Vene­
to del 20 giugno corr. anno” .
Il presidente del Cln di Valdagno, l’azioni­
sta Sergio Perin, ribattè che “il vostro pensie­
ro in proposito è giunto quando l’accordo era
già stato firmato da tutti noi [che] natural­
mente non potevamo più ritornare sulle deci­
sioni precedentemente prese” . La spiegazio­
ne di Perin non convinse i componenti del
Comitato provinciale, che anzi accentuarono
le loro critiche: “Noi vi avevamo avvertiti di
non prendere col M arzotto nessun impegno
preciso, ma solo di recarvi a Vittorio Veneto
per vedere che cosa intendeva fare il procura­
tore di M arzotto” . La discussione giunse ad
un punto m orto dal quale alla fine si uscì
con un comunicato, steso da Gallo, la cui tor­
tuosità è prova evidente delle difficoltà in­
contrate per trovare un punto di equilibrio
accettabile da tutti:
Il comitato Mandamentale di Valdagno prende at­
to della dichiarazione del CLN Provinciale a pro-
sidente del locale CLN, la seduta è stata aperta alle ore 8.30. Erano presenti: Pietro Tovo e Bruno Gavasso (partito
comunista), Giuseppe Acerbi (democrazia cristiana), Franco Melen e Sisto Cocco (partito liberale), Nino Cestonaro
ed Alessandro Randon (partito socialista), la Commissione interna del Lanificio V.E. Marzotto presieduta dal sig. Fa­
bio Masciadri e la Commissione interna della Manifattura G. Marzotto e Figli presieduta dal sig. Luigi Perin. E stato
deliberato: visto l’art. 1 del programma sociale convenuto nell’accordo di Vittorio Veneto tra il CLN di Valdagno e il
conte Gaetano Marzotto [...] [era prevista la costituzione di una Società anonima per la costruzione di appartamenti per
operai] si è approvata la Commissione già costituita per la redazione dello Statuto suddetto, composta come segue:
Francesco Zanotelli (Sindaco), Ugo Brumani (Commissioni interne), Angelo Conte (PCI), Romeo Scomparin del Lani­
ficio, Nino Cestonaro (PSI), Livio Zenere (P. liberale) e Francesco Benetti (Demo-cristiano). Tale commissione cesserà
con la presentazione dello Statuto e la conseguente costituzione della società. Visto l’art. 2 del sopraccennato accordo di
Vittorio Veneto [...] [riguardava la costituzione di una cooperativa che avrebbe dovuto gestire negozi di genere alimen­
tari e di abbigliamento] viene deciso all’unanimità di soprassedere al passaggio della Unione di consumo in Cooperativa
operaia, tenuto conto delle attuali difficoltà di mercato, e di provvedere affinché per il momento venga eletta dagli ope­
rai una Commissione di sorveglianza dell’Unione di consumo, con lo scopo inoltre di prepararsi ad assumere la gestione
al momento del trapasso in Cooperativa. In tale senso si decide che sia inviata dal CLN una lettera al conte Marzotto
[...] Visto l’art. 3 del sopramenzionato accordo di Vittorio Veneto...[ concernente le Opere assistenziali] su richiesta del
CLN le Commissioni interne di fabbrica nominano la Commissione direttiva per le Opera assistenziali che risulta cosi
composta: Fongaro Romano, Dal Lago Antonio, Colpo Rosetta, Donati Pino, Peserico Bruno, Reniero Dino. Tale
commissione viene integrata da due membri della Direzione dei Lanifici nelle persone dei signori Sandro Negri e GioBatta De Paoli. Si decide all’unanimità che vengano immediatamente costituiti i CLN aziendali nei Lanifici di Valdagno
e Maglio” . Il comunicato evitava di fare il benché minimo riferimento al preambolo politico dell’accordo, che era invece
il punto più delicato e controverso.
39 AS Vicenza, Clnp, Registro verbali, n. 1, pp. 131-32; cfr. anche “ Il Giornale di Vicenza” , 8 settembre 1945, p. 2.
40 AS Vicenza, Clnp, Registro verbali, n. 1, pp. 135-136.
Epurazione e industriali
posito del caso Marzotto pubblicata sul “Giornale
di Vicenza” dell’8 settembre.
Osserva soltanto il Comitato Mandamentale che
non debba ad esso riferirsi la denunciata immora­
lità di principio in quanto non v’ha subordinazio­
ne alcuna fra la declaratoria del Comitato M anda­
mentale di non aver motivo di procedere allo stato
degli atti e la profferta di provvedimenti sociali
avanzata spontaneamente e liberamente [corsivo
mio] da Gaetano Marzotto, per cui ritiene non es­
servi possibilità di giudizio di immoralità di prin­
cipio sull’accordo medesimo.
Se la forma era stata faticosamente salvata,
nella sostanza il Cln mandamentale usciva
sconfitto: i valdagnesi furono costretti a sot­
toscrivere quell’inciso “allo stato degli atti”
che non compariva affatto nel testo dell’ac­
cordo, come pure dovettero accettare che la
“ profferta” di M arzotto apparisse libera e
spontanea, e non frutto di una trattativa,
che invece c’era stata, il che equivaleva da
un lato a rendere politicamente nullo l’opera­
to del Cln valdagnese41, e dall’altro a togliere
a Marzotto quelle garanzie che gli erano state
date a Vittorio Veneto.
M arzotto però non sembrava eccessiva­
mente preoccupato. Lunedi 10 settembre i re­
duci dalla Germania avevano organizzato
una manifestazione in suo favore, alla quale
avevano partecipato operai e cittadini che
erano andati in corteo fino all’ingresso del la­
nificio. Dopo aver ricevuto una delegazione
dei reduci, il conte era sceso dal suo ufficio
e aveva ringraziato tutti i manifestanti42.
M arzotto, poi, nonostante le polemiche
in corso, era già al lavoro per rimettere in
119
moto la produzione, un impegno che esige­
va ben altri interlocutori. L’11 settembre in­
fatti scrisse una lettera al ministro dell’In­
dustria Giovanni Gronchi. In essa M arzot­
to prospettava con molta chiarezza la stra­
tegia che, secondo lui, il governo doveva at­
tuare per aiutare la ripresa del com parto
tessile: “ Il problema principe che assilla og­
gi l’industria laniera è quello di ricostituire
il più rapidamente possibile le scorte neces­
sarie per il suo normale funzionamento, co­
sa che è di difficile soluzione quando si pen­
si che nessuno è oggi in grado di disporre
della valuta necessaria per l’acquisto della
lana nei paesi d’origine” . Come dunque
procurarsi la valuta indispensabile? “ Unica
forma possibile, e certo la più rapida —
suggeriva M arzotto — è quella di destinare,
in un primo tempo, la maggior parte della
produzione dell’industria laniera all’espor­
tazione, in modo da potere, col ricavato del­
la vendita dei prodotti lavorati, procedere
all’acquisto di nuova materia prim a” . Per
questo M arzotto invitava Gronchi ad ope­
rare affinché “ venga evitata una tassa o
un sovraprezzo sulle lane importate in mo­
do che la nostra industria possa competere
liberamente con l’industria internazionale
sui mercati internazionali” , e concludeva il
suo scritto nel più tipico stile marzottiano,
non chiedendo cioè un appuntamento al mi­
nistro, ma autoinvitandosi senza indugio e
decidendo lui stesso la data e l’occasione:
“ Mi permetterò di venire a visitarla a Roma
in occasione di una mia venuta a metà del
prossimo ottobre”43.
41 II 12 settembre poteva essere la fine politica per Sergio Perin, l’uomo politico emergente in quelle settimane a Valdagno. Invece quello stesso giorno a finire fu l’esperienza amministrativa del sindaco Zanotelli (Pda) e del suo vice Broccardo (Pei), dimissionati “per gravi motivi di salute” e sostituiti nei rispettivi ruoli proprio dall’azionista Perin e dal comu­
nista Bruno Gavasso (lettera del Cln di Valdagno, 12 settembre 1945, in AS Vicenza, Clnp, b. 24, fase. 10). Il commissario
della provincia, Libero Giuriolo, firmò il decreto di nomina il 18; il cambio delle consegne avvenne il 27 settembre. Al
vertice dell’Amministrazione comunale rimanevano sempre il Partito d’azione e il Pei, ma rappresentati adesso dalla loro
componente giovanile e, soprattutto, da due esponenti che avevano ratificato e difeso l’accordo di Vittorio Veneto.
42 “Il Giornale di Vicenza”, 13 settembre 1945, p. 2.
43 MARZOTTO, Copialettere, 78, pp. 86-87. In effetti il settore tessile, evitando il problema delle operazioni valutarie,
fu il primo a dare segni di ripresa, cfr. David W. Ellwood, L ’alleato nemico. La politica dell occupazione anglo-americana
in Italia 1943-1946, Milano, Feltrinelli, 1977, pp. 378-379.
120
Maurizio Dal Lago
Tale sicurezza e libertà di movimento po­
tevano derivargli anche da quanto egli sostie­
ne gli fosse stato detto da due esponenti co­
munisti, uno dei quali era il presidente stesso
del Cln provinciale. Si legge infatti in un lun­
go pro-memoria difensivo che Marzotto det­
tò in quel periodo:
A proposito dell’“Accordo di Vittorio Veneto”
due rappresentanti del partito comunista di Vicen­
za il signor Bruno Tosin e il signor Lievore, dichia­
rarono al conte M arzotto presente l’avvocato
Guido Rezzara e S.E. il vescovo di Vittorio Veneto
Mons. Zaffonato che la comunicazione del Comit.
di Liber. Nazion. di Vicenza sulla moralità dell’ac­
cordo (Giornale di Vicenza dell’8 Sette[mbre]/45)
è ridicola e, precisamente dissero: se in un primo
tempo siamo stati perplessi di fronte all’accordo
pensando che si cercasse di sanare una situazione
politica mediante concessioni economiche, ora a
due mesi e mezzo di distanza dall’accordo stesso,
constatando che non venne fatta alcuna denuncia
a carico di Marzotto, riteniamo provato che la no­
stra perplessità [non] fosse assolutamente ingiusti­
ficata e che niente fosse da addebitare in proposito
al M arzotto44.
Senza contare che Marzotto, sempre nel pre­
detto memoriale, ricordava che “anche a fa­
vore dei partigiani fece i versamenti che gli
furono richiesti” . E poteva provarlo: il 21
maggio 1945 il direttore amministrativo della
“ Gaetano Marzotto & Figli S.A.” di Maglio
di sopra, Romeo Scomparin, dopo una serie
di colloqui, aveva versato a Eugenio Zacca­
ria, comandante della “ Rosselli” , la somma
di lire 105.000 “ a titolo di premio per i 70
membri della vostra Brigata che hanno parte­
cipato alla liberazione di Valdagno e alla tu­
tela delle Fabbriche. A questi 70 membri ci ri­
serviamo — continuava Scomparin — di di­
stribuire un taglio di vestito per ciascuno di
essi”45. Il 12 settembre era la volta del com­
missario politico della “ Rosselli” , A. Colli­
netti, a informare il conte M arzotto che la
brigata era in passivo per 25.000 lire: “Cortesemente ci rivolgiamo a Lei perché più di
ogni altro può capire e fare” . La richiesta
era vistata dal presidente del Cln mandamen­
tale, Sergio Perin. Marzotto capì e, due gior­
ni dopo, fece46.
Che M arzotto fosse molto attento a non
lasciarsi sfuggire alcuna occasione di allac­
ciare rapporti “ a sinistra” lo testimonia an­
che la sollecita risposta che egli diede a Giovan Battista Zonta, esponente del Pei di
Bassano del G rappa, che il 27 agosto gli
aveva chiesto un appuntamento per discute­
re la situazione della sua zona che egli anti­
cipava in questi termini: “ Bassano e la Val­
lata del Brenta hanno m olta m anodopera
attualm ente nella miseria. La nostra città
vi sarebbe molto riconoscente se voi poteste
dare il pane... I tempi sono difficili. Ma chi
dà pane sarà benedetto dai popoli. La bor­
ghesia di Bassano ha sempre sabotato la in­
dustrializzazione della città nel passato: noi
domandiamo lavoro, nell’industrializzazio­
ne del nostro fiume” . M arzotto ricevette l’e­
sponente comunista bassanese P II settem­
bre a Tavernelle. Il giorno dopo Zonta, su
carta intestata del Pei di Bassano, ringraziò
Marzotto
della cortese ed affettuosa accoglienza che mi ave­
te offerto ieri a Tavernelle; ne sono rimasto più che
soddisfatto anche per i suggerimenti che mi avete
dati. Mi auguro che non sia l’ultimo incontro
che avrò l’onore di avere con voi nella fiducia di
44 MARZOTTO, D, 25.
Copia della lettera si trova presso l’Archivio Zorzanello di Montecchio Maggiore, dove è conservata anche la lettera,
per ricevuta, di Zaccaria. Non si può escludere che eguale trattamento sia stato riservato anche agli uomini della brigata
Stella, appartenente alla divisione Garemi, controllata dai comunisti. Il 23 maggio, infatti, è il commissario politico del­
la Garemi, Lisi, a informare il Clnp che “a Valdagno e a Schio gli industriali regalano un vestito e un premio in denaro
ai Patrioti” (AS Vicenza, Clnp, Registro verbali, n. 1, p. 17).
46 MARZOTTO, Copialettere, 78, p. 96. Il Lanificio, inoltre, il 31 agosto aveva versato 10.000 lire “per i bisogni del
gruppo locale del Fronte della gioventù” , cfr. MARZOTTO, Copialettere, 78, p. 48.
Epurazione e industriali
vedere realizzato al più presto il piano di comuni­
cazioni che riservate alla nostra città. Anche a no­
me del mio compagno Vi porgo tutto il mio rispet­
to esternandovi la mia ammirazione per voi47.
L’incriminazione e la difesa di Marzotto
Così, con una situazione che appariva sotto
controllo, M arzotto andò a Rom a come
aveva preannunciato a Gronchi. M a il 21
ottobre, improvvisamente, la Commissione
provinciale per la sospensione dei funziona­
ri ed impiegati fascisti48 gli notificò un avvi­
so in cui venivano formulati cinque addebi­
ti a suo carico e prospettata la sospensione
da presidente della Società tramvie vicenti­
ne49. Gli addebiti erano: a) essere stato
uno squadrista; b) aver partecipato attiva­
mente alla vita politica del fascismo; c) aver
ottenuto nomine col favore del fascismo; d)
essere un fazioso; e) essere stato un collabo­
razionista.
Ancora una volta i primi a difendere
M arzotto furono i componenti della Com­
missione provinciale di fabbrica e del Co­
mitato interno delle Tramvie vicentine che
il due novembre, alle 16, furono ricevuti
dal Cln provinciale “ per trattare la questio­
121
ne della sospensione dalla carica di Presi­
dente di detta Soc. del M arzotto Gaetano” .
In quella sede i rappresentanti delle Tramvie resero noto al Comitato che “ se il M ar­
zotto verrà destituito dalla carica di Presi­
dente, tutti gli operai faranno uno sciopero,
i quali vedono nello stesso [Marzotto] l’uni­
ca fonte di lavoro” . Di fronte a tale posi­
zione Segala, che faceva parte della Com­
missione provinciale di epurazione, e Gallo
cercarono “ di convincere i rappresentanti
della Società che l’epurazione di tutti quelli
che hanno ricoperto delle cariche e che so­
no stati molto favoriti nel tempo del fasci­
smo, deve essere fatta prima di qualche al­
tra cosa” . La discussione si protrasse sullo
stesso tono per circa mezz’ora, e dovettero
intervenire tutti i componenti del Cln per
ribadire ai lavoratori delle Tramvie che “ il
Comitato non è del parere di tenere in cari­
ca il M arzotto, ma che tuttavia la sola com­
petente in m ateria, e che può decidere in
m erito, è la Commissione di Epurazione,
la quale essendo un ente autonomo, funzio­
na per conto proprio, e le decisioni le pren­
de di sua iniziativa senza influenze di altre
persone” 50.
M arzotto rispose alla Commissione pro­
vinciale di epurazione il 23 novembre, al
47 MARZOTTO, D, 4, scat. 5, fase. 3. Marzotto rispose il 27 settembre: “Solo oggi ricevo la Sua del 12 corr. Nel rin­
graziarla per le Sue gentili espressioni, spero che il piano per una migliore sistemazione delle comunicazioni con Bassano
possa avere sollecita attuazione. Cordiali saluti". Non è escluso che l'esponente comunista bassanese fosse stato affetto
da quella sindrome che sembrava colpire tutti coloro che incontravano Marzotto e che era stata segnalata già nel 1936
dal prefetto di Vicenza che definiva [’industriale valdagnese un “piccolo sole terrestre miliardario [che] attira nell’orbita
sua chiunque lo avvicini, grandi e piccoli, anche senza mai chiedere nulla, o alcunché di inattuabile. E una situazione che
si forma di continuo, inesorabilmente, anche contro l’altrui volontà, è un andare fatale e non facilmente frangibile, cosa
che si può intuire, ma che non potrei in maniera più adatta rappresentare” , citato in P. Bairati, Sul filo di lana, cit., p.
224.
48 La Commissione provinciale di epurazione era formata dagli avvocati Mario Segala e Teodoro Bertolini e dal pro­
fessor Nico Sguario. Bertolini aveva sostituito il conte Giustino Valmarana dimessosi da presidente della stessa l’I ot­
tobre 1945. Fino a tutto agosto le commissioni di epurazione operavano sulla base delle ordinanze n. 35 e n. 46 dell’Amg. A partire da settembre esse passarono sotto la giurisdizione dell’Alto Commissariato per le sanzioni contro il
fascismo ai sensi dell’art. 12 del decreto legislativo luogotenenziale 4 gennaio 1945 n. 2.
49 Per tale sospensione la Commissione faceva riferimento con ogni probabilità al decreto legislativo luogotenenziale 4
agosto 1945 n. 472 che dettava norme per la “Epurazione degli amministratori, dei sindaci e dei liquidatori delle imprese
private” . In particolare il decreto riguardava gli amministratori delle spa e delle società a responsabilità limitata con
capitale superiore ai cinque milioni.
50 AS Vicenza, Clnp, Registro verbali, n. 2, p. 53.
122
Maurizio Dal Lago
suo rientro da Roma. Dopo aver premesso
che egli si era recato nella capitale “per stu­
diare un piano di ricostruzione di quella
mia industria a cui in tutti i tempi mi sono de­
dicato con fervore e con passione nel convin­
cimento di fare cosa utile non solo a me stes­
so, ma anche al mio personale e al mio Pae­
se” , M arzotto respinse tutti gli addebiti “ o
meglio gli apprezzamenti generici che mi so­
no stati notificati” e pregò “la Commissione
di voler ora specificare i fatti a cui tali adde­
biti o apprezzamenti, dovrebbero necessaria­
mente riferirsi per essere messo in grado di
fare, a mia volta, le precisazioni che fossero
opportune” . Egli concludeva la lettera senza
nascondere uno sdegnato fastidio: “ per il
momento, e di fronte ad accuse indetermina­
te nel loro contenuto obiettivo e che mi appa­
riscono non soltanto ingiustificate ma anche
incomprensibili io non potrei né mi sento di
rispondere altro” 51.
In realtà M arzotto comprendeva perfet­
tamente il significato di quelle accuse e sa­
peva che non erano affatto indeterminate e
generiche, dal momento che egli stesso si
era preoccupato di stendere in terza perso­
na, probabilmente già verso la metà di set­
tembre, il memoriale difensivo più sopra ri­
cordato52. In esso veniva dato grande risal­
to allo scontro con i sindacati fascisti dell’a­
gosto del 1936, sottolineando che le autorità
politiche di allora erano “notoriamente tut­
te contrarie al M arzotto” . Di conseguenza
“per non avere anche finimicizia di Buffarini, che per la carica che occupava e per l’in­
fluenza nel partito era in grado di nuocergli
grandemente, ha dovuto costruire lo stabili­
mento di Pisa” .
M arzotto inoltre presentava i suoi rap­
porti con Farinacci in termini del tutto ri­
duttivi e casuali e li faceva finire nel luglio
del 1943. Anche rincontro con Goebbels
veniva descritto più come un’imposizione
51 MARZOTTO, D, 25.
52 MARZOTTO, D, 25.
del regime che come un gesto di liberale
ospitalità: “ Nel settembre 1941 dovendo il
Goebbels fermarsi alcuni giorni a Venezia
[in occasione della M ostra del Cinema] e
non intendendo scendere in albergo, venne
requisito il panfilo Cyprus, che dall’inizio
della guerra trovavasi in bacino di San
M arco, per ospitarlo, e M arzotto che da
qualche settim ana si trovava a bordo con
i suoi dovette sgomberare subito. Come
proprietario della nave venne presentato
al Ministro tedesco” . M arzotto volle preci­
sare che “ non gli venne corrisposta alcuna
indennità per l’uso del panfilo perché nel
frattempo il ministero della M arina ne ave­
va disposta la requisizione per servizio di
guerra che da parte del comando marittimo
di Venezia venne ritardata al termine del
soggiorno del ministro tedesco” , omettendo
però di dire che Goebbels gli fu riconoscen­
te nei termini descritti più sopra.
Sul suo collaborazionismo con i tedeschi
M arzotto amm etteva che fino all’aprile
1944 i rapporti con le autorità tedesche
erano stati “ corretti” . Dopo di allora (al­
lorché cominciarono le rappresaglie e i ra­
strellamenti), “ accortosi che era entrato in
grave sospetto sia presso le autorità civili
che militari, si allontanò prima da Valdagno, poi da Portogruaro dove erasi trasfe­
rito con i figlioli, rifugiandosi in un paesetto del Varesotto sotto falso nome e con do­
cumenti falsi insieme al figlio Umberto del­
la classe 1926 renitente alla leva e ricerca­
to; venne poi raggiunto colà dagli altri figli
Giannino e Ita, pure sotto falso nome” . In­
vece il prim ogenito V ittorio, classe 1922,
condannato a morte dal Tribunale militare
di Piove di Sacco con l’accusa di partecipa­
zione a banda arm ata e di atti di sabotag­
gio, si era rifugiato il 31 dicembre 1944 in
Svizzera, da dove sarebbe tornato nel mag­
gio 1945.
Epurazione e industriali
Marzotto mise particolare attenzione nel­
lo sminuire al massimo la sua partecipazio­
ne attiva al regime, prima e dopo F8 settem­
bre, presentandosi al contrario come colui
che aveva subito decisioni altrui: “Non chie­
se mai la tessera fascista e solo nel marzo
1926 per iniziativa dell’allora segretario fe­
derale di Vicenza Dr. Alberto Garelli, venne
iscritto al partito fascista [...] Accettò l’iscri­
zione trovandosi in una situazione locale in­
sostenibile, specialmente per la guerra a
fondo che gli faceva il cugino Luciano M ar­
zotto, deputato al parlamento, fascista ante­
marcia” .
Per quanto riguarda il brevetto di squadri­
sta, “ gli venne assegnato nell’ottobre del
1940 “ a titolo di onore” ed egli lo accettò
“per mettersi al riparo di attacchi continui
ed assolutamente ingiustificati da parte di ge­
rarchi, di sindacati ecc; attacchi ai quali non
sarebbe stato fatto segno se fosse stato nomi­
nato senatore [la cosa gli bruciava ancora]
mentre non ha mai voluto far parte del Con­
siglio nazionale delle corporazioni” . Anche
per la presidenza dell’Unione Industriali di
Vicenza M arzotto precisava che essa gli fu
conferita “ a seguito di determinazione del
Presidente della Confederazione degli indu­
striali Co. Volpi” .
Come si concluse il “ caso” ? Roverato
scrive che le indubbie benemerenze guada­
gnate dal M arzotto con la sua azione dopo
F8 settembre a favore dei deportati, delle
vittime delle rappresaglie e degli imboscati
nei suoi stabilimenti furono “ un motivo
più che sufficiente per far pendere dalla
sua parte l’opinione della Commissione pro­
vinciale per l’epurazione” 53. Secondo Baira­
ti, invece, “ la commissione non ebbe [...] il
tempo materiale per giungere ad un giudi­
zio: la caduta del governo Parri e la fine
del governo dei Cln chiuse definitivamente
5j G. Roverato, Gaetano Marzotto Jr., cit., p. 63.
34 P. Bairati, Sul filo di lana, cit., p. 268.
123
la questione, in questo come in molti altri
casi” 54. Entrambe le ipotesi sono verosimili
ma l’assenza di documenti conclusivi, allo
stato, lascia aperta la questione.
Resta il fatto che Marzotto ne usci inden­
ne. Ma non grazie alla protezione degli allea­
ti, né a quella delle forze moderate o del mon­
do cattolico ufficiale vicentino: da tutta la vi­
cenda gli angloamericani si tennero rigorosa­
mente lontani; le forze “ moderate” provin­
ciali, De e Pii, lungi dal difendere Marzotto,
nei momenti cruciali gli votarono sempre
contro. Il vescovo di Vicenza, Zinato, non in­
tervenne mai, “ oscurato” dall’interventismo
di Zaffonato, che aveva un rapporto privile­
giato e del tutto personale con l’industriale
valdagnese.
Marzotto poté invece contare sul Cln loca­
le che antepose sempre gli interessi di Valdagno a qualsiasi altra logica, così come fecero
le commissioni di fabbrica e quelle di epura­
zione aziendale che, rispettando gli accordi
di Vittorio Veneto, non lo perseguirono
mai. Trovò inoltre un valido sostegno nel
giovane direttore de “ Il Giornale di Vicen­
za” , Renato Ghiotto (Pda) che, per questo,
fu rimproverato dal Clnp.
Più incerta fu la linea politica del Clnp: es­
so sembra essere stato fondamentalmente
ostile a Marzotto, ma nel mese di agosto ac­
cettò di discutere proprio sul terreno favore­
vole all’industriale valdagnese senza solleva­
re alcuna obiezione “morale” o politica. Poi
imboccò la strada dello scontro, ma fu molto
attento a non toccare Marzotto nei suoi inte­
ressi vitali: lo colpì solo in quanto presidente
delle Ftv spa, ma non come presidente della
filatura “ Gaetano M arzotto & Figli” del
Maglio di Valdagno, che era sempre una so­
cietà per azioni.
Si può quindi affermare che i veri protago­
nisti, sia nei momenti di dialogo che in quelli
124
Maurizio Dal Lago
di scontro, furono gli operai e i partiti di sini­
stra che nell’estate del 1945 detenevano di
fatto Fegemonia politica e amministrativa
in tutta la provincia” . Valutate le forze in
campo, Marzotto si rivolse a quelle di sinistra
con gesti di concreta e costante attenzione56.
Maurizio Dal Lago
55 II sindaco di Vicenza, Luigi Faccio, era socialista; il presidente del Clnp, Lievore, era comunista. A solo titolo di
esempio, ai primi di luglio, il Pei aveva propri sindaci a Schio, Lonigo, Valli del Pasubio, Valdastico, Tretto, Torrebelvicino e a Monteviale. Tra i comuni maggiori la De poteva contare solo sui sindaci di Bassano e di Thiene. Del Partito
d’azione erano i sindaci di Arzignano, Valdagno, Sandrigo e Molvena. Socialisti invece erano i sindaci di Recoaro, Cornedo e Castelgomberto e Brogliano.
56 Alla fine del 1945, Marzotto affidò al giornalista Gigi Ghirotti, redattore del ’’Lunedì”, organo provinciale del Par­
tito d’azione, la direzione del nuovo “Bollettino dei Lanifici Marzotto” che uscì con il primo numero nel gennaio 1946.
STORIA MILITARE
Sommario del n. 43, aprile 1997
N. Pignato, Mezzi stranieri e di preda bellica del regio esercito: T. Marcon, Gli
idrosoccorso italotedeschi in Mediterraneo; J. Caruana, / convogli britannici per
Malta: S. Pelagalli, Italiani in Siberia: A. Rastelli, Analisi di un bersaglio
Posta
Documenti
9 luglio 1940: un “punto di vista " inglese
Recensioni
Regia aeronautica a colori - 17, a cura di A. Degl’Innocenti
La memoria letteraria della “zona grigia”
Appunti per una storia da scrivere
Raffaele Liucci
Problemi e metodologie
Questo intervento vuole costituire un primo
contributo allo studio, da una angolatura set­
toriale e certo non onnicomprensiva, di quel­
la che nel recente dibattito storiografico sul
periodo della guerra civile italiana 19431945 è stata provvisoriamente denominata
“zona grigia” . Vale a dire la compatta pre­
senza, sia nelle città che nelle campagne, di
comportamenti e valori che trovano la loro
ragion d’essere in tradizioni di lungo periodo,
essenzialmente prepolitiche, comunque in
larga parte estranee alla contrapposizione
tra fascismo e antifascismo. La zona grigia,
fuor da interessate valorizzazioni1 o da pre­
concette denigrazioni, si rivela come il princi­
pale collettore dei coni d’ombra dell’attendi­
smo, del disimpegno civile, della volontaria
sottrazione a qualsiasi impegno attivo nella
guerra, della diserzione (anche metaforica)
da compiti e responsabilità istituzionalmente
richieste all’individuo. Sarebbe anzi più op­
portuno parlare di “zone grigie”, essendo le
configurazioni di volta in volta assunte assai
varie e frammentate.
Qui tuttavia non ci proponiamo l’impresa,
di amplissime dimensioni, in cui dovrebbe
consistere una analisi globale, nei suoi molte­
plici aspetti economici, sociali e politici, della
zona grigia. Assumiamo invece un ventaglio
di fonti quasi ancora vergine per il suo stu-
Desidero ringraziare, per gli stimolanti consigli e suggerimenti preziosi, Mario Isnenghi, che ha seguito le varie fasi della
ricerca cui sto attendendo sugli intellettuali italiani nella seconda guerra mondiale. La mia gratitudine va anche a Co­
smo Marinelli, proprietario della libreria-editrice Marinelli di Isernia, che si è privato di una copia di Molise Molise di
Giose Rimanelli dall’archivio della casa editrice, procurandomi, in questo modo, un testo assolutamente introvabile.
Ringrazio inoltre, per l’aiuto fornitomi in alcune ricerche bibliografiche alla Biblioteca nazionale centrale di Roma, Pa­
squale Vitulano.
1 Claudio Pavone ha scritto, a proposito dei vari tentativi, intensificatisi negli ultimi anni, di riabilitazione in toto della
zona grigia, in modo particolare a scapito della resistenza armata ad egemonia di sinistra e soprattutto comunista, che
“elevar[e la ‘zona grigia’] ad asse portante della storia d’Italia fra il 1943 e il 1945 significherebbe tagliare fuori da
un’appiattita storia patria le componenti dinamiche di quel cruciale biennio” (Ipercorsi di questo speciale, introduzione
al numero monografico di “Il Ponte” , 1995, n. 1, p. 14, dedicato al tema Resistenza. Gli attori, le identità, i bilanci).
L’esempio più autorevole in questo senso è offerto da Renzo De Felice, che ha individuato nella zona grigia la vera
identità nazionale, a lungo costretta alla damnatio memoriae da parte della “vulgata resistenziale” (Rosso e Nero, a cura
di Pasquale Chessa, Milano, Baldini&Castoldi, 1995). Pietro Scoppola, al contrario, dalle sponde di un antifascismo
moderato, ha ricondotto, ecumenicamente, la zona grigia nel campo resistenziale (25 aprile. Liberazione, Torino, Einau­
di, 1995). Della zona grigia si è occupato con maggiore equilibrio anche Gian Enrico Rusconi, all’interno della rifles­
sione che va da alcuni anni conducendo sulla crisi dell’idea di nazione nell’Italia repubblicana, sottolineandone l’irridu­
cibile specificità rispetto alla dicotomizzazione fascismo-antifascismo, ma evidenziandone pure — complessivamente —
la maggior vicinanza alle aspirazioni della lotta di liberazione (Se cessiamo di essere una nazione. Tra etnodemocrazie
regionali e cittadinanza europea, Bologna, il Mulino, 1993; Resistenza e postfascismo, Bologna, il Mulino, 1995).
Italia contemporanea”, marzo 1997, n. 206
126
Raffaele Liucci
dio: la “letteratura della guerra civile“ (sia di
parte resistenziale che di parte fascista, o an­
che di chi non si identificò chiaramente in
nessuno dei due fronti)2. E andremo alla ri­
cerca non certo delle componenti immediata­
mente politiche e ideologiche, ma di contegni,
sentimenti, idee altrimenti difficilmente rin­
tracciabili in fonti più canoniche ma in larga
parte inconsistenti o viziate da ragioni stru­
mentali e propagandistiche di fondo. Questo
perché in detti testi è possibile riesumare trac­
ce sedimentate di una memoria della zona gri­
gia. Senza alcuna pretesa di esaustività, sem­
plicemente ponendo l’accento, attraverso
una esemplificazione sintetica, su alcune sfac­
cettature — non necessariamente le principali
— di quella che, in attesa di studi più analitici,
anche noi chiameremo “zona grigia” .
I paradigmi
In principio fu Pavese. Con La casa in collina
(1948). La prima rappresentazione non oleo­
grafica, bensì disincantata, dubbiosa e critica
che viene offerta della Resistenza, nella quale
l’autore, “ come un antico aedo, accomuna
nella sua pietas amici e nemici, e dalle sue pa­
gine fiorisce, purissima, l’elegia” 3. Protago­
nista — si ricorderà — è Corrado, giovane in­
tellettuale torinese che durante la guerra si ri­
fugia in una casa sulle colline, evitando deli­
beratamente di entrare in contatto con i par­
tigiani o i fascisti, che rischiano la vita per va­
lori a lui estranei. Vi ricorrono alcune imma­
gini imperiosamente memorabili: a partire,
per esempio, dal modo in cui viene dipinto
un milite “ repubblichino” , vittima di un at­
tentato ad opera di partigiani:
[...] Uno ce n’era in disparte sull’erba, ch’era salta­
to dalla strada per difendersi sparando: irrigidito
ginocchioni contro il fildiferro, pareva vivo, cola­
va sangue dalla bocca e dagli occhi, ragazzo di ce­
ra coronato di spine4.
“ Ragazzo di cera coronato di spine” : forse
nessuno — che non fosse di parte esplicita­
mente fascista, ovviamente — si era spinto
a tanto, nel tratteggiare chi, nella visione d’e­
poca antifascista, appariva null’altro che
spinto, nelle sue scelte e azioni, da un incom­
prensibile, irrazionale e abbietto furore anti­
storico, frutto di una deliberata subalternità
politica e ideologica all’invasore tedesco.
Quanto siamo lontani dall’irosa e predicatoria distinzione vittoriniana, impregnata di un
malcerto afflato espiatorio, tra Uomini e no5.
Qui, al contrario, viene messa radicalmente
in discussione la validità stessa della guerra,
al di là della plausibilità o meno del concetto
2 Cfr., a questo proposito, le stimolanti osservazioni di Giovanni De Luna, La Resistenza tra letteratura e storiografia, “Il
Ponte”, 1995, n. 1, pp. 108-127. Nell’ambito della storia inglese, cfr. le preziose note metodologiche di interesse generale
contenute in Paul Fussel, La Grande Guerra e la memoria letteraria inglese, in La Grande Guerra. Esperienza! memoria, im­
magini, a cura di Diego Leoni e Camillo Zadra, Bologna, il Mulino, 1986, pp. 333-353. Al contrario di quanto si é verificato
per la grande guerra, non è ancora stato sfruttato a sufficienza l’alquanto ricco, ma inevitabilmente frammentato, panorama
di fonti letterarie e memorialistiche della seconda guerra mondiale, almeno nella direzione indicata soprattutto dai seguenti
contributi: P. Fussel, The Great War and thè modem Memory, Oxford, Oxford University Press, 1975 (trad. it. La Grande
Guerra e la memoria moderna, Bologna, il Mulino, 1984); Eric J. Leed, No Man's Land. Combai & Identity in World War I,
Cambridge, Cambridge University Press, 1979 (trad. it .Terra di nessuno. Esperienza bellica e identità personale nella prima
guerra mondiate, Bologna, il Mulino, 1985); Mario Isnenghi, I vinti di Caporetto, Padova, Marsilio, 1967; Id., Il mito della
grande guerra. Bologna, il Mulino, 1989 [la ed. Il mito della grande guerra da Marinetti a Malaparte, Bari, Laterza, 1970].
3 Lorenzo Mondo, Cesare Pavese, Milano, Mursia, 1965 [la ed. 1961], p. 90.
4 Cesare Pavese, Prima che il gallo canti, Torino, Einaudi, 1949 [ed. orig. 1948], p. 209.
5 Questo celebre — e letterariamente non eccelso — romanzo, uscito a Milano, per i tipi di Bompiani, nel giugno 1945,
fissa coordinate problematiche e valoriali che rappresenteranno per lungo tempo un vero e proprio spartiacque nell’at­
teggiamento, sprezzante e di assoluta superiorità morale, verso i vinti fascisti, assunto dalla pubblicistica, memorialisti­
ca e anche narrativa resistenziale.
La memoria letteraria della “zona grigia”
di “guerra civile” . La guerra è sempre guerra,
cioè crepuscolo della ragione, disvelamento
dell’ingannevole visione progressista e teleo­
logica della storia. A poco giovano le canoni­
che distinzioni; in questa prospettiva, i “re­
pubblichini” vengono spogliati di ogni con­
notazione politica o morale — così tipica­
mente presente, invece, nella più corrente
narrativa e memorialistica resistenziale —,
per essere elevati a paradigmatica testimo­
nianza della tragica e ineluttabile carica dege­
nerativa che porta con sé qualsiasi gesto di
violenza, anche se esso, in principio, può ce­
lare nobili radici.
Quest’opera è chiaramente influenzata
dalle vicende personali occorse allo scrittore
di Santo Stefano Belbo nei due anni di guerra
civile, vissuti — come annota nel Diario — ri­
nascendo “nell’isolamento e nella meditazio­
ne”6, da sfollato, fuggito da Torino e ripara­
tosi in casa di sua sorella, a Serralunga, zona
partigiana, senza però partecipare alla lotta
arm ata7. E non soltanto dal punto di vista
fattuale, ma soprattutto dal punto di vista
esistenziale. Alcuni giorni dopo la fine della
guerra, Pavese fece ritorno a Torino, chiama­
to da Giulio Einaudi per riorganizzare il la­
voro della sua casa editrice. Il clima di eufo­
ria che si respirava in quei giorni lo depresse
ancor di più, e acuì il suo senso di colpa per
essersi tirato fuori nel momento in cui si im­
ponevano scelte ferme e sicure. Seppe della
tragica morte, avvenuta nei combattimenti
contro i nazifascisti, di molti suoi cari amici,
della fine di Leone Ginzburg e Giaime Pin­
tor. Il gotha dell’intelligenza antifascista tori­
nese (Paolo Cinanni, Massimo Mila, Luisa
127
Sturani, Franco Antonicelli, Giovanni Guai­
ta, Ludovico Geymonat, Norberto Bobbio)
aveva attivamente partecipato alla guerra
partigiana, in quei giorni e mesi ovviamente
dipinta con tratti epici: “ Un senso di ango­
scia e di rimorso profondo resero Pavese
più chiuso e silenzioso che mai. Non riusci
in quei primi giorni a trovare il coraggio
per andare a salutare i vecchi amici superstiti,
anzi li sfuggì e dopo la ‘reclusione tra le col­
line’ tentò d’imporsi la reclusione nella città
liberata” 8. Gli anni successivi della sua vita
furono dedicati all’espiazione di questo co­
sciente e profondo rimorso che corrodeva il
suo animo: l’iscrizione — lui che mai neppure
lontanamente aveva abbracciato idee comu­
niste — al Pei, la collaborazione a “FUnità”
e la composizione del romanzo II compagno,
apparso nel 1947, non a torto in seguito giu­
dicato “una semplice concessione alla temati­
ca progressista corrente” 9.
La casa in collina viene pensata, nasce e
prende forma in questa particolare condizione
ambientale: quella di un intellettuale passato
attraverso il fascismo senza sviluppare quel
progressivo senso di distacco critico che porte­
rà molti suoi compagni di strada ad un più ra­
pido ripudio dell’iniziale consenso — o, co­
munque, non attivo dissenso — manifestato
verso il regime, e, quindi, ad una decisa scelta
antifascista dopo l’8 settembre 1943. Pavese,
che fascista convinto non fu mai, ma neppure
il contrario, si trovò, alPindomani della fine
del fascismo, proiettato in un ambiente intel­
lettuale, quello torinese — gravitante già dagli
anni trenta intorno alla rivista “ La Cultura”
ed alla casa editrice Einaudi10 —, ‘saturo’ di
6 C. Pavese, Il mestiere di vivere (Diario 1935-1950). Torino, Einaudi, 1952, p. 346.
Per questo periodo della vita di Pavese, cfr. le biografie di Davide Lajolo, Il "vizio assurdo". Storia di Cesare Pavese,
Milano, Il Saggiatore, 1960, pp. 280-306 e di Bona Alterocca, Cesare Pavese. Vita e opere di un grande scrittore sempre
attuale, Aosta, Musumeci, 1985, pp. 94-116.
8 D. Lajolo, Il “vizio assurdo", cit., p. 295.
’ Alberto Asor Rosa, Scrittori e popolo. Il populismo nella letteratura italiana contemporanea, Torino, Einaudi, 1988, p.
144 [la ed. Scrittori e popolo. Saggio sulla letteratura populista in Italia, Roma, Samonà e Savelli, 1964],
10 Per la storia della fondazione e dei primi anni di questo editore, cfr. Gabriele Turi, I limiti del consenso: le origini
delta casa editrice Einaudi, in Id., Il fascismo e il consenso degli intellettuali, Bologna, il Mulino, 1980, pp. 193-375.
128
Raffaele Liucci
antifascismo militante, in cui la sua naturale
ritrosia a un partecipe interessamento ai fatti
politici veniva paternalisticamente, con un at­
teggiamento ipocritamente autoassolutorio,
declassata al rango di semplice timidezza,
quando era il portato di ben più profondi
principi esistenziali e metapolitici. Il romanzo
in questione è la presa d’atto, mediata dalla
finzione letteraria, della tragica impotenza di
un intellettuale che recisamente rifiuta la stori­
cità della condizione umana, e volontariamen­
te si sottrae ad un ruolo, uno “ statuto stori­
co”, imposto dall’esterno e non accettato sua
sponte.
I temi della guerra civile, della deliberata
fuga da essa e della rinuncia a qualsiasi impe­
gno politico, ritornano, seppur sotto un’an­
golazione diversa o addirittura speculare, an­
che nell’ultima opera di Pavese — composta
nell’autunno del 1949, a pochi mesi dal suici­
dio —, La luna e i falò, summa della sua poe­
tica. Possiamo consideràre il narratore e pro­
tagonista Anguilla una specie di fuggiasco.
Egli, trovatello cresciuto in un paesino molto
povero delle Langhe, ha si fatto parte duran­
te il regime fascista di un’organizzazione
clandestina antifascista di Genova, ed è in se­
guito emigrato in California per sfuggire al­
l’arresto. Ma successivamente non si è più oc­
cupato di politica, e il ritorno, pochi anni do­
po la fine della guerra, al suo paese natale al­
la ricerca delle radici perdute, lo trova apati­
co e indifferente alle ragioni di qualsiasi mo­
vimento politico, dimentico persino delle sue
trascorse militanze.
Le pagine più interessanti sono però quelle
in cui viene delineato il mondo contadino che
ha fatto da inerte e indolente spettatore al
tragico teatro di guerra. Le rassegnate e di­
sincantate constatazioni del falegname quasi
comunista Nuto, amico d’infanzia di Anguil­
la, sulla tendenza reazionaria del villaggio
(ma egli stesso, per non compromettersi trop­
po ed evitare guai alla sua famiglia, ha rinun­
ciato ad una attiva partecipazione al movi­
mento partigiano), fanno da contraltare agli
acidi sarcasmi del mezzadro Vaiino, per il
quale “se tutti quegli uomini se ne fossero in­
vece tornati a casa — i tedeschi a casa loro, i
ragazzi sui beni —, sarebbe stato un guada­
gno” . Ed inoltre, non occorreva darsi troppa
pena nel cercare i loro cadaveri sotterrati nel­
la zona, perché “non hanno fruttato da vivi.
Non fruttano da morti” 11. Oltre a ciò, in se­
guito al ritrovamento di due cadaveri di pre­
sunte spie fasciste uccise dai partigiani, i pae­
sani trovano l’occasione per esternare un
coacervo di atteggiamenti che va da un ormai
nostalgico rimpianto del fascismo ad un pri­
mitivo qualunquismo politico e ad uno stru­
mentale attendismo nei riguardi della guerra:
Nuto non si era sbagliato. Quei due morti [...] fu­
rono un guaio. Cominciarono il dottore, il cassie­
re, i tre o quattro giovanotti sportivi che pigliava­
no il vermut al bar, a parlare scandalizzati, a chie­
dersi quanti poveri italiani che avevano fatto il lo­
ro dovere fossero stati assassinati barbaramente
dai rossi. Perché, dicevano a bassa voce in piazza,
sono i rossi che sparano nella nuca senza processo.
Poi passò la maestra — una donnetta con gli oc­
chiali, ch’era sorella del segretario e padrona di vi­
gne — e si mise a gridare ch’era disposta a andarci
lei nelle rive a cercare altri morti, tutti i morti, a
dissotterrare con la zappa tanti poveri ragazzi, se
questo fosse bastato per far chiudere in galera,
magari per far impiccare, qualche carogna comu­
nista, quel Valerio, quel Pajetta, quel segretario
di Canelli. Ci fu uno che disse: — È difficile accu­
sare i comunisti. Qui le bande erano autonome. —
Cosa importa, — disse un altro, — non ti ricordi
quello zoppo dalla sciarpa, che requisiva le coper­
te? — E quando è bruciato il deposito... — Che
autonomi, c’era di tutto... — Ti ricordi il tedesco...
— Che fossero autonomi, — strillò il figlio della
madama della Villa, — non vuol dire. Tutti i par­
tigiani erano degli assassini.
Per un primo approccio all’affascinante storia de “ La Cultura”, si veda Gennaro Sasso, Variazioni sulla storia di una
rivista italiana: "La Cultura’’ (1882-1935), Bologna, il Mulino, 1992.
11 C. Pavese, La luna e i falò, Torino, Einaudi, 1950, p. 30.
La memoria letteraria della “zona grigia”
— Per me, — disse il dottore guardandoci adagio,
— la colpa non è di questo o quell’individuo. Era
tutta una situazione di guerriglia, d’illegalità, di
sangue. Probabilmente questi due hanno fatto
davvero la spia... Ma, — riprese, scandendo la vo­
ce sulla discussione che ricominciava, — chi ha
formato le prime bande? Chi ha voluta la guerra
civile? Chi provocava i tedeschi e quegli altri? I co­
munisti. Sempre loro. Sono loro i responsabili. So­
no loro gli assassini. E un onore che noi Italiani gli
lasciamo volentieri...
La conclusione piacque a tutti. [...]
Me ne andai che la maestra gridava: — Sono tutti
bastardi — e diceva: — E i nostri soldi che voglio­
no. La terra e i soldi come in Russia. E chi protesta
farlo fuori12.
E rindomani, in occasione di una messa per i
morti, il parroco batte il ferro finché è caldo:
raccomanda di non iscriversi ai partiti “sov­
versivi” (comunisti e socialisti), di non legge­
re la stampa anticristiana e di condurre una
vita morigerata e senza eccessi. Nuto com­
menta sconsolato: “ Siamo a questo [...] che
un prete che se suona ancora le campane lo
deve ai partigiani che gliele hanno salvate,
fa la difesa della repubblica e di due spie della
repubblica” 13. E quando in paese viene inau­
gurata una lapide dedicata alla memoria dei
partigiani impiccati dai fascisti, non si trova
nessuno che abbia il coraggio di tenere un di­
scorso, e si è costretti ad invitare un oratore
forestiero. Il libro si conclude, infine, con il
racconto che Nuto fa ad Anguilla della sorte
toccata a Santa, figlia del sor Matteo, ricco
possidente presso il quale il trovatello negli
anni della sua infanzia era stato a servizio:
messasi dapprima con i fascisti, e in seguito
passata ai partigiani, era stata da questi ulti­
mi uccisa perché accusata di fare il doppio-
129
gioco. Il suo cadavere, per impedire il ricono­
scimento, era stato bruciato con i sarmenti
della vigna. Ancora l’anno prima, i segni di
questo terribile falò rimanevano ben visibili,
a triste testimonianza di un’infausta stagione
di morte e di violenza.
La prospettiva, in confronto a La casa in
collina, è qui rovesciata. Non più la guerra ci­
vile vista attraverso gli occhi timorosi e incer­
ti di un intellettuale, che alla fine propende
per una sofferta autoesclusione, bensì l’ap­
proccio che verso di essa palesa il mondo
contadino. L’aspetto innovativo risiede in­
fatti nell’affresco che Pavese ci dà di quella
società rurale, così granitica nella sua imper­
meabilità alle vicende del mondo esterno che
non la riguardano direttamente, e rispetto al­
le quali è costretta ad una reazione soltanto
nella misura in cui viene toccata e penalizzata
nella sfera dei propri interessi più materiali. E
i cui componenti, per oggettive condizioni
ambientali, rimangono assai più grossolani,
ignoranti e semplicisti, rispetto a quanto
può essere il fine intellettuale Pavese, nell’ela­
borazione di una scelta dettata dalle coerci­
zioni del momento, e che assai spesso rimane
una “non scelta” , ovvero un’opzione di neu­
tralità rispetto ai due contendenti, almeno fi­
no a quando ciò resta possibile. Del resto, co­
me è ampiamente noto, alcuni dei più inno­
vativi studi degli ultimi anni hanno indivi­
duato il “familismo amorale” del mondo ru­
rale (l’incapacità di agire collettivamente per
il bene comune o per qualsiasi fine che non
sia immediatamente ascrivibile agli interessi
materiali del proprio ristretto nucleo fami­
gliare) come uno degli elementi cardine del­
l’arretratezza socio-culturale dell’Italia14.
12 C. Pavese, La luna e i fa lò , cit., pp. 49-50.
13 C. Pavese, La luna e i falò, cit., p. 55. Per gli aspetti da noi evidenziati, cfr. anche Alberto Traldi, Fascismo e narra­
tiva. Una proposta di critica politico-ideologica con qualche riscontro americano, Foggia, Bastogi, 1984, pp. 217-221.
14 Cfr. soprattutto Carlo Tullio-Altan, La nostra Italia. Arretratezza socioculturale, clientelismo, trasformismo e ribel­
lione dall’Unità ad oggi, Milano, Feltrinelli, 1986; Id., Populismo e trasformismo. Saggio sulle ideologie politiche italiane,
Milano, Feltrinelli, 1989. Alcuni degli spunti interpretativi di C. Tullio-Altan sono stati ripresi da Paul Ginsborg, Storia
d'Italia dal dopoguerra a oggi. Società e politica 1943-1988, Torino, Einaudi, 1989, 2 voi. La formulazione originaria del
concetto di “familismo amorale” — in seguito dilatato cronologicamente e geograficamente a tutto il periodo ed all’in-
130
Raffaele Liucci
Per una letteratura della zona grigia
Possiamo assumere La casa in collina ed an­
che, in misura minore, La luna e i falò di Pa­
vese come pietre angolari dell’elaborazione
di una memoria — individuale e collettiva
— largamente ‘collusa’ con la zona grigia.
In queste due opere fanno la loro comparsa
una pluralità di tematiche (per quanto ri­
guarda la prima: l’esilio dell’intellettuale, il
disimpegno politico, l’indifferenza delle mag­
gioranze verso obblighi che non incidano
materialmente sui propri interessi materiali,
l’orrore per la violenza bellica — e, quindi,
una riflessione sul suo significato morale —,
l’ecumenico umanitarismo, anche di matrice
cristiana, verso i nemici; per quanto concerne
la seconda, soprattutto la separatezza del
mondo contadino nei confronti di una conce­
zione assolutistica della politica imperniata
sul binomio fascismo-antifascismo) di cui lo
scrittore di Santo Stefano Belbo ha offerto,
anche a futura memoria, i paradigmi inter­
pretativi più lucidi e convincenti. Fu infatti
Pavese a sferrare per primo un risoluto (an­
che se forse non totalmente consapevole) at­
tacco ad una monocorde e autocelebrativa ri­
scrittura — in chiave storiografica, memoria­
listica e letteraria a effetti politicamente si­
gnificativi — degli appena trascorsi anni resi­
stenziali, quasi unicamente incentrata — det­
ta riscrittura — su di una sovradimensionan­
te e autoritaria visione dei fatti dalla parte dei
vincitori, unici attori ‘legittimamente’ depu­
tati all’impegnativo e responsabile lavoro di
divulgazione — su piani e registri diversi —
della lotta di liberazione. Non che non ci sia­
no stati altri scrittori resistenziali (primo fra
tutti Beppe Fenoglio) che avessero — o
avrebbero in seguito — dato spazio nelle loro
narrazioni ad ambienti e personaggi assimila­
bili alla zona grigia. Il dato discriminante sta
però nel fatto che, mentre questi autori non
possono certo dirsi ad essa simpatetici, Pave­
se, al contrario, ne rivendicherà in prima per­
sona il punto di vista comportam entale ed
esistenziale. E lo stesso si può dire degli altri
testi che prenderemo in esame. Dei quali qui
interessa non tanto una disquisizione sulla
maggiore o minore fedeltà biografica (co­
munque imprescindibile) delle storie e memo­
rie raccontate, quanto il modo con cui lo
scrittore si è complessivamente rapportato
alla guerra civile nell’elaborazione della sua
memoria.
Alcuni degli autori qualificati di tali opere
appartengono alla travagliata generazione
dei “ ventenni” del 1943-1945 (nati tra il
1920 e il 1926), e non maturarono, all’insorgere della guerra civile, una scelta subitanea
a favore dei partigiani o dei fascisti. In segui­
to, diversi di loro, quasi a voler ricompensare
l’ignavia di quegli anni, militeranno in for­
mazioni politiche di sinistra, o comunque si
collocheranno nell’area culturale progressi­
sta. Scrivere e pubblicare memorie, redatte
in una forma più o meno letteraria, sui neb­
biosi anni giovanili della guerra civile sem­
brava quasi costituire il giusto pedaggio per
fare i conti definitivi con una stagione della
propria esistenza tu tt’altro che memorabile,
ed essere in questo modo definitivamente am­
messi nelle fila della ‘normalità’ antifascista.
Carattere costitutivo di queste memorie —
pubblicate soprattutto negli anni cinquanta
e nei primi anni sessanta — e quindi a cavallo
tra la tarda giovinezza e l’età matura —, sarà
infatti una decisa presa di distanza dall’abulica e perniciosa ignoranza giovanile, riesu­
mata con l’unico fine di rimarcare l’irreversi-
tero territorio dell’Italia unitaria da Tullio-Altan — si deve a Edward C. Banfield, Le basi morali di m a società arre­
trata, a cura di Domenico De Masi, Bologna, il Mulino, 1976 [ed. orig. The moral basis o f a backward society, 1958],
in cui viene studiato il caso di un piccolo centro contadino della Basilicata (Chiaromonte). Lo studio a tutt’oggi ancora
insuperato riguardo il ‘carattere’ degli italiani rimane quello di Giulio Bollati, L'Italiano. Il carattere nazionale come
storia e come invenzione, Torino, Einaudi, 1983 (cfr., per i nostri temi, soprattutto la Premessa (con una digressione
sul trasformismo), pp. VII-XXII).
La memoria letteraria della “zona grigia”
bile presa di coscienza di quegli errori di gio­
ventù. Esemplari di questa tendenza, oltre ai
testi che prenderemo in esame più avanti, so­
no due opere miscononosciute di autori che
sconosciuti certo non sono: Ottiero Ottieri
(1924) (Memorie dell’incoscienza, Torino, Ei­
naudi, 1954) e Angelo Del Boca (1925) (alcu­
ni racconti compresi ne La scelta, Milano,
Feltrinelli, 1963: soprattutto Igiorni in canti­
na e Una paura antica), che indubbiamente ri­
flettono i loro trascorsi biografici, e in cui i
protagonisti sono giovani ‘imboscati’, esone­
rati dal servizio militare grazie a raccoman­
dazioni in alto loco, o semplici sbandati reni­
tenti alla leva, in ogni caso del tutto incapaci
di una scelta chiara e discriminante.
Ci fu pure chi partecipò con dubbi e reti­
cenze, ma anche a rischio della propria vita,
alla Resistenza, spinto da un afflato etico
ed esistenziale. E che negli anni successivi
ha assistito alla riemersione e definitiva ri­
consacrazione, per di più amplificate su di
una degenerante base di massa, di tutti quegli
aspetti deteriori della vita pubblica e anche
culturale che erano visti come antropologica­
mente antitetici alla scelta antifascista: il con­
formismo, Fendemica corruzione, il servili­
smo verso il potere politico e la ricchezza eco­
nomica, il triviale disprezzo per la cultura,
fimmoralità dominante, l’inettitudine a ela­
borare una definizione, allo stesso tempo giu­
ridica ed etica, di “ bene comune” . Di fronte a
questo inarrestabile sfacelo, diventava sem­
pre meno peregrino interrogarsi sulla reale
utilità del sacrificio di centinaia di migliaia
di uomini, se cosi miserrimi apparivano i ri­
sultati. Di qui, perciò, un ripensamento forte­
mente autocritico della Resistenza, alla ricer­
ca di alcuni degli elementi intrinsecamente
forieri della carica degeneratrice che si sareb­
be palesata in seguito. E di qui, pure, una ria­
bilitazione a posteriori di atteggiamenti e po­
sizioni di elusivo distacco dalla guerra, che
15
131
nel periodo del conflitto armato si sarebbero
sprezzatamente accusati di quasi palese con­
tiguità con la zona grigia e l’attendismo; ma
che, ora, costituivano l’unica dignitosa uscita
di sicurezza dall’oscenità di un mondo in cui
si perseverava a non riconoscersi più. Il nome
più celebre è forse quello di Guglielmo Petroni, temperamento schivo e solitario, che ha
infuso ai personaggi dei suoi romanzi (si ve­
dano soprattutto II mondo è una prigione, Mi­
lano, M ondadori, 1954; La casa si muove,
Milano, Mondadori, 1950; Il colore della ter­
ra, Milano, M ondadori, 1964) caratteri di
sofferta, scavata e tormentata ricerca intimi­
stica di un senso da dare alla propria vita,
sempre disincantati rispetto alle “grandi nar­
razioni” e ai viscerali coinvolgimenti in pas­
sioni politiche, pur se talvolta si tratta di op­
tare per la difesa della civiltà contro la barba­
rie nazista, e proclivi soprattutto ad un ance­
strale isolamento. Nell’immediato dopoguer­
ra — scriverà Petroni nella sua autobiogra­
fia, redatta negli anni della vecchiaia —, “i
dubbi furono molti, subito. Mi imposi un
breve periodo di riflessione; troppi avevano
capito tutto e subito; per me era ancora ne­
cessario cercar di vedere cosa era veramente
successo fuori e dentro di me” 15. La Resisten­
za, la liberazione dal nazismo, la pressoché de­
finitiva sconfitta dei fascisti non sembrano in­
taccare un sostanziale scetticismo di fondo cir­
ca le speranze di redenzione degli uomini da
un grigio conformismo di massa, sempre ben
presente, sotto mentite spoglie, in una società
che continuamente si involve in un’egoistica
difesa dei propri privilegi più retrivi. L’unica
via d’uscita pare essere costituita dal sommes­
so “esilio” da un mondo sempre più ‘mostruo­
samente’ avvolto da una cappa di unificante
mediocrità politica e culturale. Sotto questa
luce, anche l’uso della violenza ‘giusta’ appare
secondario e inservibile tassello di un mosaico
brutto e disgustosamente immutabile.
Guglielmo Petroni, Il nome delle parole, Milano, Rizzoli, 1984, p. 141.
132
Raffaele Liucci
Su una critica della violenza resistenziale
sistematicamente argomentata in riferimento
a principi di non violenza — cristiana o laica
— insistono maggiormente altri autori, quali
Antonio Barolini ne Le notti della paura (Mi­
lano, Feltrinelli, 1967), Sergio Maldini ne I
sognatori, Milano, Mondadori, 1953) e Gior­
gio Chiesura in Sicilia 1943 (Vicenza, Neri
Pozza, 1964), diario di guerra di un ufficiale
veneziano antifascista di ventidue anni, che
il 15 settembre 1943, quando si cominciano
a intravedere prospettive di resistenza, rinun­
cia a qualsiasi ulteriore coinvolgimento nella
guerra e decide di consegnarsi prigioniero ai
tedeschi, ormai nauseato dall’eventualità di
un’altra guerra, seppure questa volta giusta,
e ormai solamente animato dalla “ fermissi­
ma e irrevocabile decisione di uscire fuori
dalla storia e di restarvi” 16.
Il punto di riferimento in questo senso è
costituito da Aldo Capitini, l’unico grande
intellettuale italiano che abbia discusso, sulla
scia di Ghandi, i metodi della non violenza
negli anni trenta. E Capitini, ‘antropologica­
mente’ antifascista da sempre, rifiutò, in coe­
renza con i suoi principi etici e religiosi, di
partecipare alla Resistenza. Nel ricordo di
un suo ‘discepolo’: “ Capitini, che aveva agito
come uno dei centri propulsivi delle energie
antifasciste in Italia, non aderì alla Resisten­
za, se ne tenne distante per coerenza profon­
da con le sue idee nonviolente e religiose. E
stato in carcere come antifascista, ha formato
dozzine di antifascisti, ma, da nonviolento,
non poteva accettare i metodi di lotta della
Resistenza, ovviamente violenti, da guerra
di liberazione nazionale contro un esercito
invasore. Questo gli provocò critiche e obie­
zioni da parte dei suoi stessi amici, e forse an­
che turbamenti individuali notevoli, ma che
non bastarono a intaccare la sua decisio­
ne” 1718.
La figura di Capitini ci stimola a conside­
rare la diffusione e l’incidenza nel periodo
1943-1945 di fenomeni fino a oggi troppo tra­
scurati, quali la “ resistenza civile” , la lotta
antifascista condotta con mezzi non violenti,
l’idea di pace cui aspiravano i resistenti, la
propagazione di dottrine e pratiche di non
violenza. Spesso atteggiamenti di questo tipo
— sicuramente minoritari, ma non per que­
sto meno significativi — possono condurre
a una deliberata non partecipazione attiva al­
la guerra civile — laddove nella comune mi­
tologia resistenziale partecipazione attiva
viene quasi sempre a coincidere con un uso si­
stematico di metodi di lotta precipuamente
violenti. E quindi coloro che rifiutano l’uso
delle armi, pur non sottraendosi, in alcuni ca­
si, a forme di propaganda politica, di sabo­
taggio e di assistenza ai combattenti, e dimo­
strando con questo di aver effettuato una ben
precisa scelta a favore o contro uno schiera­
mento, rischiano di essere inseriti, non senza
qualche forzatura, ai margini della zona gri­
gia, in quelle indecifrabili zone di confine nel­
le quali la scarsa visibilità dei loro comporta­
menti, rispetto alla vistosa effettività delle
azioni militari, contribuisce a confinarli. Oc­
correrebbe, in simili evenienze, distinguere,"
se possibile, caso per caso, per meglio discer­
nere motivate aspirazioni politiche ed esi­
stenziali da strumentali e interessati opportumsmi 18 .
•
•
16 Giorgio Chiesura, I mondi separati, introduzione alla nuova ed. di Sicilia 1943, Palermo, Sellerio, 1993, p. 19.
17 Goffredo Fofi, Aldo Capitini, in ld., Pasqua di maggio. Un diario pessimista, Genova, Marietti, 1988, pp. 18-19. Per il
modo in cui Capitini ha ricordato i suoi dilemmi, cfr. l’utile antologia A. Capitini, Opposizione e liberazione. Scritti
autobiografici, a cura di Piergiorgio Giacché, Milano, Linea d’ombra, 1991. Si veda anche Id., Antifascismo tra i giovani,
Trapani, Célèbes, 1966, uno degli unici due scritti prettamente autobiografici lasciatici da Capitini. L’altro è Attraverso
due terzi del secolo, “La Cultura”, 1968, pp. 457-473.
18 Cfr., per questi aspetti, Giorgio Luti, L ’utopia della pace nella Resistenza. Lettere e testimonianze, Firenze, Edizioni
Cultura della Pace, 1987; Giuseppe Petronio, Gli scrittori: memorialisti e narratori, in La cultura della pace dalla Resi­
stenza al Patto Atlantico, a cura di Massimo Pacetti, Massimo Papini, Marisa Saracinelli, Ancona, 11 lavoro editoriale.
La memoria letteraria della “zona grigia”
133
Sottoponiamo ora ad indagine, attraverso
i nostri criteri, una serie di opere generalmen­
te inserite alFinterno della memorialistica di
Salò: scopriremo invece 1’esistenza di una let­
teratura a metà guado tra Rsi e zona grigia (e
comunque maggiormente orientata verso
quest'ultimo versante).
saurirsi della vocazione. Fatto ritorno al pae­
se, vi trascorre i primi anni di guerra, roso
dall’insofferenza per l’angustia della società
contadina e la gretta m entalità che la per­
meano. All’indomani dell’8 settembre, la de­
cisione che segnerà non solo la sua vita di
giovane neanche ventenne, ma l’intero pro­
sieguo della sua esistenza: sale su un camion
di tedeschi in ritirata dopo lo sbarco di Saler­
Il “ grigio” orrore giovanile per la guerra
no e si arruola nei ranghi della Repubblica
sociale. Combatterà in Val Sesia e in Val CaSe Cesare Pavese è stato colui che meglio ha monica. Dopo il 25 aprile, viene internato nel
saputo interpretare, e fornir loro forma e di­ campo di prigionia di Coltano. A Cava dei
gnità letteraria, i sentimenti e i com porta­ Tirreni fugge dal treno che trasporta i prigio­
menti di coloro che sono inseribili — a vario nieri in Africa. Rientrato al suo paese natale,
titolo — nella zona grigia, il romanzo di Gio- nei mesi successivi è occupato nella redazione
se Rimanelli Tiro al piccione (1953) — per della prima stesura di Tiro al piccione, reso­
certi versi assai vincolato, umanamente ed conto autobiografico in forma narrativa dei
editorialmente, proprio a Pavese — può esse­ due anni di guerra civile vissuti dalla parte
re invece considerato l’archetipo dell’auto- degli sconfitti. Gli anni successivi lo vedono
rappresentazione di chi, pur essendo ricon­ impegnato in un vagabondaggio intellettuale
ducibile — a pieno diritto — all’anzidetta zo­ fatto di poveri mezzi, a Milano, Parigi, nel­
na grigia, si è trovato ‘cooptato’, suo malgra­ l’Europa del Nord e, soprattutto, a Roma.
do, nella guerra, ma con questo non ha tutta­ Nella capitale italiana, con un passato di
via smarrito la sua apatica e ancestrale indif­ combattente fascista di cui va tutt’altro che
ferenza e ostilità per le ragioni ultime dello fiero, e un presente nel quale l’antifascismo
scontro frontale.
— sentimento verso cui Rimanelli non nutre,
Rimanelli, scrittore e intellettuale scono- ' per la verità, alcun entusiasmo — sembra
sciuto ai più — e comunque ricordato unica­ aprire tutte le porte della cultura, il giovane
mente per quest’opera giovanile —, si è tro­ molisano si avvicina, con un misto di timore
vato a ricoprire l’ingrato ruolo di desapareci­ ed ammirazione, agli ambienti antifascisti.
do della cultura italiana del secondo dopo­ Conosce alcune delle maggiori personalità
guerra. Molisano d’origine19 , nato nel 1926 del tempo nel campo della letteratura e della
in un piccolo paese di contadini (Casacalen- critica letteraria: Pavese, Corrado Alvaro,
da, in provincia di Campobasso), a dieci anni Carlo Muscetta, Carlo Levi. Ugo M oretti,
viene introdotto dai genitori in un seminario Ennio Flaiano, Vitaliano Brancati, Luigi
pugliese, abbandonato però nel 1940 per l’e- Russo, Ruggero Zangrandi. Tra di loro Ri1988; Anna Bravo, Annamaria Bruzzone, In guerra senza armi. Storie di donne. 1940-1945, Roma-Barì, Laterza. 1995;
La Resistenza taciuta, a cura di A.M. Bruzzone e Rachele Farina, Milano, La Pietra, 1976; La Resistenza non annotti.
A tti del convegno del 24-25 novembre 1994, a cura di Giorgio Giannini, Roma, Sinnos, 1995.
19 Le notizie sulla vita di Rimanelli sono tratte soprattutto dalla sua autobiografia Molise Molise, prefazione di Gìanbattista Faralli, Isernia, Marinelli, 1979, da alcuni riferimenti biografici presenti nei suoi altri libri più avanti citati (co­
munque assai parchi riguardo la militanza nell’esercito di Salò, segno del desiderio di rimozione che evidentemente Rìmanelli ha coltivato per lunghi anni), e da due recenti interviste da lui rilasciate: Io nomade, dalla parte sbagliala,
intervista a cura di S. Fiori, “ La Repubblica”, 28 marzo 1992, p. 29; Dalla parte sbagliata, intervista a cura dì A, Zaccuri, “Millelibri” , 1991, n. 47, p. 35.
134
Raffaele Liucci
inanelli, che aveva cominciato a far girare il
manoscritto di Tiro al piccione, era noto, un
po’ paternalisticamente, come il “compagno
repubblichino” . Con gli ambienti intellettuali
romani non riuscirà comunque mai a legare,
insofferente — a suo dire — del loro confor­
mismo, frutto di un aristocratico esibizioni­
smo declinante nella cortigianeria politico­
ideologica più insopportabile. Il suo deside­
rio di essere ‘cooptato’ dalfintellettualità an­
tifascista, unico mezzo per affermare le sue
qualità di scrittore, viene frustrato, e lascerà
progressivamente spazio a un’aspra animosi­
tà che si acuirà sempre di più con il passare
degli anni: “ Era gente di salotto, era gente
di mestiere. Era gente che manipolava i gior­
nali e le case editrici e il cinema. Era gente che
imponeva la dittatura della simpatia e del­
l’antipatia” 20. Una delle poche eccezioni è
costituita da Francesco Jovine, comunista
scettico tu tt’altro che organico a rigide pre­
scrizioni ideologiche, con il quale instaura
una spontanea e intensa amicizia. E sarà pro­
prio grazie a costui, molisano anch’egli, che
riuscirà a far conoscere il manoscritto di Tiro
al piccione, e imporne in seguito la pubblica­
zione. Ma la morte quasi simultanea di Jovi­
ne e Pavese (1950), gli unici due intellettuali a
cui si sentiva realmente vicino — per l’essere
conterraneo, il primo, e per una certa affinità
d’atteggiamento verso la guerra appena tra­
scorsa, il secondo —, contribuisce a esacer­
bare il suo senso di estraneità verso la società
letteraria e politica del tempo. Dopo alcune
collaborazioni culturali e cinematografiche
poco apprezzate21, nel 1958 sceglie la via del­
l’esilio volontario negli Stati Uniti, dove inse­
gnerà per più di trent’anni letteratura italiana
in importanti università. Dei suoi altri libri in
lingua italiana apparsi nel corso degli anni,
rimarrà pochissima traccia2223.
Durante una conferenza in lingua inglese
tenuta nel 1984 alla Johns Hopkins Universi­
ty di Bologna, Rimanelli preciserà (per l’en­
nesima volta):
Personalmente non ho niente a che vedere con fa­
scismo e antifascismo: sebbene sia stato preso in
mezzo sia dal fascismo che dall’antifascismo a
causa di circostanze storiche e intellettuali. Non
sono mai stato iscritto a un partito politico italia­
no, né mai di mia volontà ho partecipato ad azioni
e manifestazioni di aderenza prò o contro il regim „23
me .
Parole che riassumono benissimo l’indole di
un ex giovane spaesato, che una scelta com­
piuta a diciassette anni, e dettata più dall’i­
stinto e dall’insofferenza che da precisi as-
20 Giose Rimanelli, Molise Molise, cit., p. 109.
21 Cfr., per esempio, Il mestiere del furbo. Panorama della narrativa contemporanea, Milano, Sugar, 1959, raccolta dei
caustici interventi sulla letteratura contemporanea e i salotti letterari romani del tempo, apparsi, sotto lo pseudonimo di
A.G. Solari, sul settimanale “Lo Specchio” (considerato di area neofascista, inviso e disprezzato dagli intellettuali). A
questo riguardo, Sergio Pautasso ci ha recentemente offerto un gustoso ricordo di quelle collaborazioni semiclandestine:
“una trentina di anni fa, su un famigerato foglio scandalistico, un certo A.G. Solari si dedicava settimanalmente alla
sistematica denigrazione di scrittori e opere in uscita. Poiché nessuno lo conosceva, sorse legittima la curiosità di sapere
chi fosse. Quando, dopo indagini quasi poliziesche, si scoprì che a servirsi del rispettabile cognome di Solari come co­
pertura per portare i suoi affondi stroncatori era il romanziere Giose Rimanelli, indignazione e scandalo si sgonfiarono
rapidamente, e quegli articoli, perso ogni alone di mistero, non fecero più alcun effetto” (Gli anni ottanta e la letteratura,
Milano, Rizzoli, 1991, p. 280). In questo modo, comunque, Rimanelli sancirà la sua definitiva emarginazione dal mondo
letterario ed editoriale italiano.
22 Oltre a Tiro al piccione, Milano, Mondadori, 1953 (qui si citerà dall’edizione Einaudi, Torino, 1991) cfr., tra gli altri,
Peccato originale, Milano, Mondadori, 1954 e Una posizione sociale, Firenze, Vallecchi, 1959 (ambientati, rispettiva­
mente, al tempo della sua adolescenza e negli anni della sua infanzia; nella stesura iniziale di Tiro a! piccione, ottenevano
spazio narrativo anche queste fasi della sua vita: sarà Jovine a consigliare a Rimanelli un corposo editing di un mano­
scritto di oltre mille pagine); Tragica America, Genova, Immordino, 1968 (sulla sua esperienza statunitense); Il tempo
nascosto tra le righe, Isemia, Marinelli, 1986 (raccolta di racconti).
23 G. Rimanelli, Fascismo antifascismo, “Studi sul fascismo repubblicano”, 1994, n. 2, p. 2.
La memoria letteraria della “zona grigia”
sunti ideologici, ha proiettato e ingabbiato in
un mondo più grande, complicato e preten­
zioso di lui, senza più alcuna possibilità di
abbandono. Eppure, il suo Tiro al piccione
è spesso assimilato alla più canonica memo­
rialistica della Repubblica sociale24, dissimu­
lando l’assenza assoluta, nelle sue pagine, di
qualsiasi riferimento al culto della “ bella
morte” , aWepos guerriero, all’idea revanchista, disperata, intrisa di “ sangue e onore”
del combattimento — tratti, questi, sicura­
mente caratterizzanti l’immagine sempre ri­
vendicata e coltivata dai reduci salotini25.
Quando si tratta, invece, della trasposizione
romanzata di un incontro accidentale e tutt’altro che cercato con la guerra civile italia­
na, in cui non è lasciato spazio alcuno alla
truce retorica reducista del neofascismo,
mentre protagonista principe è la giovanile
incoscienza di chi è stato costretto a combat­
tere sotto vessilli sconosciuti e incomprensi­
bili. Anche se, bisognerebbe aggiungere (e il
discorso sarà ripreso più innanzi in riferimen­
to anche alle altre opere assimilabili al ro­
manzo di Rimanelli), resta il dubbio che per
alcuni aspetti lo scrittore molisano, memo­
135
rialista confuso di una guerra perduta diffici­
le da ricordare con serenità, abbia fatto ricor­
so a una forzatura manipolativa della realtà,
sottolineando fin troppo incisivamente la sua
apatia sostanziale verso qualsiasi consapevo­
lezza politica, specie se indirizzata in senso
fascista.
Ma l’arduo incasellamento in rigide e ras­
sicuranti categorie predefinite rimane il trat­
to peculiare e che salta subito agli occhi di
quest’opera. Ben lo si comprese, evidente­
mente, pure intorno ai primi mesi del 1950,
presso la casa editrice di Giulio Einaudi, in
occasione del “lungo e travagliato processo
decisionale [riguardo la pubblicazione], al
quale hanno partecipato (nell’ordine o quasi)
i proponenti e mallevadori F. Jovine e C.
Muscetta, redattore presso la sede di Roma,
e Calvino, Einaudi, Pavese, N. Ginzburg,
Vittorini, con giudizi sempre interessanti, fi­
no alla stipulazione del contratto, ma con
dubbi continui sulla collocazione di collana
e sulla data di uscita, e con rescissione del
contratto stesso da parte dell’impaziente o
esasperato o scontento autore” 26. Infine,
con la scomparsa di Pavese (agosto 1950), il
24 Sulla memorialistica di Salò, cfr. M. Isnenghi, Le guerre degli Italiani, Milano, Mondadori, 1989, pp. 256-262 e 292293; Id., La guerra civile nella pubblicistica di destra, “ Rivista di Storia Contemporanea” , 1989, n. 1, pp. 104-115; inol­
tre, limitatamente ai due anni di guerra, Paolo Corsini, Pier Paolo Poggio, La guerra civile nei notiziari della Gnr e nella
propaganda della Rsi, in Guerra, guerra di liberazione, guerra civile, a cura di Massimo Legnani e Ferruccio Vendramini,
introduzione di Guido Quazza, Milano, Angeli, 1990, pp. 245-298; M. Isnenghi, Parole e immagini dell’ultimo fascismo,
in 1943-1945. L'immagine della Rsi nella propaganda, a cura della Fondazione Luigi Micheletti, Milano, Mazzotta, 1985,
pp. 11-41; Id., Autorappresenlazioni deliultimo fascismo nella riflessione e nella propaganda, in La Repubblica sociale ita­
liana 1943-1945 (Atti del convegno, Brescia, 4-5 ottobre 1985), a cura di P.P. Poggio, Brescia, Fondazione Luigi Miche­
letti, 1986, pp. 99-111.
25 Riguardo all’immagine di sé — e quindi anche della guerra civile e della Repubblica di Salò — coltivata nell’italia
repubblicana dai reduci fascisti, cfr. Marco Tarchi, Esuli in patria. I fascisti nell’Italia repubblicana, Parma, Guanda,
1995. Cfr. anche Id., Cinquant'anni di nostalgia. La destra italiana dopo il fascismo, intervista di Antonio Carioti, Mi­
lano, Rizzoli, 1995; Franco Ferraresi, La destra eversiva, in Terrorismi in Italia, a cura di Donatella della Porta, Bo­
logna, il Mulino, 1984, pp. 227-289; Id., Da Evola a Freda. Le dottrine della Destra radicale fino al 1977 e La destra
eversiva, in La destra radicale, a cura di F. Ferraresi, Bologna, il Mulino, 1984, pp. 13-53 e 54-118; Id., La parabola
della destra radicale, “Democrazia e diritto” , 1994, n.l, pp. 135-151 (per una approfondita rassegna bibliografica su
questi temi, rimandiamo a Pasquale Serra, Destra e fascismo. Impostazione del problema, “Democrazia e diritto”, cit.,
pp. 3-31).
26 Gian Carlo Ferretti, L ’editore Vittorini, Torino, Einaudi, 1992, p. 265. Qualche traccia di questo tormentato iter edi­
toriale si è conservata in alcuni epistolari ormai celebri. Cfr. C. Pavese, Lettere 1926-1950, a cura di L. Mondo e Italo
Calvino, Torino, Einaudi, 1966, p. 725; I. Calvino, I libri degli altri. Lettere 1947-1981, a cura di Giovanni Tesio, con
una nota di Carlo Frutterò, Torino, Einaudi, 1991, pp. 21-23.
136
Raffaele Liucci
cui giudizio era stato determinante per la
pubblicazione del romanzo — e quindi saltati
tutti i fragili equilibri politico-ideologici che
governavano le scelte e le politiche editoriali
di Casa Einaudi27 — i tempi dell’oramai rite­
nuta sicura pubblicazione si allungano, fino a
quando è lo stesso Vittorini, per uscire dalYimpasse creatasi, a interporre i suoi buoni
uffici presso la M ondadori (e in particolare
verso Remo Cantoni), affinché il romanzo
venga edito dalla casa editrice milanese (co­
me avverrà, ma solo nel 1953). L’edizione
mondadoriana non porta alcuna traccia, pe­
rò, della prefazione richiesta a suo tempo a
Rimanelli dall’Einaudi, che risultava, tutta­
via, “ totalmente sfalsata rispetto ai livelli
ideologici e poetici del rom anzo” , e nella
quale era sottolineato “il taglio autobiografi­
co del libro con una confessione di fascismo
involontario che così decontestualizzata fal­
sificala] la condizione esistenziale del prota­
gonista e apparava] una excusatio petìta o
meglio una sorta di pedagogia autocritica
per allinearsi alle direttive dell’impegno e di
una letteratura teleologica”28:
Oggi ho ventiquattro anni e se pubblico questo li­
bro non sono spinto tanto dall’ambizione, ma dal­
la speranza che esso possa servire a quei giovani
che, come me, sono stati travolti dalla ventata ne­
ra e ancor oggi per debolezza e vigliaccheria, sen­
timentalismo e ignoranza, s’inginocchiano davanti
ai vergognosi miti del fascismo che fecero la di­
sgrazia della nostra generazione29.
La trama del romanzo, scritto in prima per­
sona, vede Marco Laudato, il protagonista
e alter ego dell’autore, raccontare, in un rit­
mo narrativo serrato e incalzante, la storia
della sua vita nei due anni di guerra civile.
Nei giorni successivi all’8 settembre, egli, gio­
vane molisano di diciott’anni, ex seminarista
pentito, fugge da casa e dal suo piccolo paese,
soffocato dalla stanca ritualità di una civiltà
contadina che esprime valori ormai a lui
estranei, e si accoda ai camion tedeschi in ri­
tirata. Al termine del lungo viaggio che quasi
attraversa l’Italia intera, Marco si troverà a
Venezia, dove, quasi senza neanche accorger­
sene, si arruola nelle truppe repubblicane.
L’incontro con la guerra è soltanto casuale,
quindi: per nulla ricercato o vagheggiato,
senza alcuna preparazione psicologica o pre­
disposizione politica. Marco viene trasferito
in una batteria militare tedesca, tra Custoza
e Villafranca, dalla quale riesce però a fuggi­
re, insofferente della durissima disciplina in­
staurata dai tedeschi, e a giungere, in seguito,
a Milano. Nella città lombarda è catturato
dalle Brigate Nere, e si sottrae alla fucilazio­
ne come disertore arruolandosi nell’esercito
di Salò. Si ritrova così quasi immediatamente
a combattere nei battaglioni “ M ” in Val Se­
sia contro i partigiani, senza peraltro capaci­
tarsi delle precise motivazioni e finalità della
sua scelta, al di là — ovviamente — del coer­
citivo bisogno di sfuggire ad una morte certa.
Rimane gravemente ferito durante un’azione
contro i partigiani. In virtù del com porta­
mento giudicato coraggioso, viene promosso
tenente. Nei giorni che seguono il 25 aprile, al
termine di una disperata difesa sul Mortirolo, in Valcamonica, contro gli attacchi porta­
ti avanti dai partigiani, il suo plotone si ar­
rende; Marco viene catturato e condotto pri­
gioniero verso l’Africa. Ma nel corso del tra­
gitto, su di un treno che dovrebbe condurlo
all’imbarco di Napoli, trova la fuga ed è in
grado di far ritorno al suo paese natale, dove
può constatare con amarezza, nell’accoglien­
za a lui riservata dai suoi concittadini, la per­
manenza delle tragiche lacerazioni provocate
dalla guerra civile anche all’interno di un cor­
27 Per il ruolo esercitato da Pavese all’interno della casa editrice torinese, cfr. G. Turi, Casa Einaudi. Libri uomini idee
oltre il fascismo , Torino, Einaudi, 1990, in particolare pp. 157-170; 231-253.
28 S. Martelli, Introduzione a G. Rimanelli, Tiro al piccione, cit., p. XV.
29 Citato in S. Martelli, Introduzione a G. Rimanelli, Tiro al piccione, cit.
La memoria letteraria della “zona grigia”
po sociale tanto ristretto e compatto, quale in
effetti è un piccolo centro contadino del Me­
ridione.
Carattere prevalente e ricorrente in ogni
pagina di Tiro al piccione è il senso di nausea
e sazietà verso l’orrore e le atrocità quotidia­
ne della guerra (il sergente Elia, già combat­
tente in Africa, che con il passare dei mesi su­
bisce unà metamorfosi da entusiasta patriota
fascista a disilluso e scorato spettatore di una
guerra in cui non riesce più a riconoscersi, di­
ce con stizza: “una schifezza di guerra come
questa non l’ho vista mai” 30); atrocità com­
messe — da entrambe le parti — in nome di
valori dei quali Marco dimostra di non aver
mai preciso sentore, a partire, per esempio,
dal suo primo arruolamento ‘volontario’ (a
Venezia):
Eravamo in una grande sala nuda, gialla; solo in
due punti di essa c’erano due tavoli ai quali sede­
vano due uomini che scrivevano. Sulla loro testa,
in alto, c’era un grande quadro del Duce con l’el­
mo e le labbra appuntite, evidentemente rimesso lì
da poco, perché era fissato con delle spille. Gli uo­
mini che riempivano la sala [...] prendevano i no­
mi, la paternità la maternità lo stato civile [...].
Quando anch’io arrivai al tavolo sotto il ritratto
del Duce, l’uomo che vi sedeva dietro non sollevò
la testa. Ripetè solo e monotamente delle doman­
de che sapeva a memoria. Le mie risposte le segna­
va su di un foglio lungo, lucido, con una grande in­
testazione. Quando gli dissi tutto, l’uomo chiese se
ero contento di arruolarmi. Io non risposi. Guar­
davo la nicotina gialla che gl’im brattava le dita
che tenevano la penna. L’uomo ripetè la domanda
e io dissi no. Allora l’uomo alzò la testa grigia e mi
guardò. Aveva occhi di vetro azzurro, fermi nel vi­
so. Disse lentamente:
— E perché sei venuto?
Gli guardavo i denti neri e le gengive pallide. [...]
Dietro di me qualcuno rise e l’uomo anche sorrise,
senza che muovesse gli occhi. [...] Infine, l’uomo
10 G.
G.
G.
G.
Rimanelli,
Rimanelli,
Rimanelli,
Rimanelli,
Tiro
Tiro
Tiro
Tiro
al piccione,
al piccione,
al piccione,
al piccione,
cit.,
cit.,
cit.,
cit.,
p.
p.
p.
p.
79.
36.
45.
143.
137
dietro al tavolo, accese una sigaretta e mi conse­
gnò il foglio che aveva riempito.
— Con gli altri, cappella! — disse.
Mi guardò fino a quando non raggiunsi il gruppo
in quell’angolo della sala, dove un caporale ricciu­
to e grasso tentava d’incolonnare le reclute31.
Considerate queste premesse, tu tt’altro che
incoraggianti — e tenuto in debito conto la
condizione in cui si trova Marco (ed in cui
si è trovato pure Rimanelli), e cioè quella di
un ragazzo giovanissimo, neppure ventenne,
costretto, da un bando o da una retata, ad
aderire, pena la morte per fucilazione alla
schiena, a un esercito considerato poco meno
che ‘straniero’ —, non ci si deve sorprendere
poi molto se il componimento narrativo vie­
ne popolato, quasi integralmente, da “ uffi­
ciali di vent’anni e soldati di quindici”32, gio­
vani che si reputano mandati dalla patria a
uccidere senza un perché, e che fanno fatica
a credere che i loro avversari — i partigiani
— siano veramente gli efferati ribelli dipinti
dalla propaganda ufficiale. Che rifiutano
pregiudizialmente qualsiasi eroismo, soprat­
tutto se inculcato dall’esterno: “Andavo in li­
cenza di convalescenza [è sempre Marco che
parla] ed ero un eroe. Un altro sarebbe stato
soddisfatto di andare in licenza di convale­
scenza e di essere un eroe. A me dava ai nervi.
Avevo desiderio solamente di arrivare in quel
paesetto che aveva scelto Anna, e passare il
mio tempo senza vedere soldati, né divise,
né sentire parlare di guerra”33. Si interrogano
candidamente — e questo sarebbe suonato
quasi sacrilego a un “ fascista integrale” —
su quale sia realmente la loro vera patria,
ed esprimono seri dubbi sulla giustezza della
causa cui sono chiamati a offrire il loro san­
gue, intravedendo, invece, una meno netta
demarcazione tra il torto e la ragione. In un
138
Raffaele Liucci
dialogo del protagonista con Anna, una cro­
cerossina di cui si è innamorato, leggiamo:
“ Oh, vorrei servirlo anch’io il mio Paese,
— dissi. — Ma dov’è il mio Paese? È vera­
mente buffo: noi di quaggiù, i repubblicani,
diciamo di essere i veri figli d’Italia; quelli
che stanno in montagna dicono che l’Italia
appartiene a loro. Intanto ci spariamo a vi­
cenda e non sappiamo chi è nel torto e chi
nella ragione. Chi ci guadagna naturalmente
sono gli alleati”34.
Il malcontento tra i soldati — acuito dal
fatto che, invece di essere mandati al fronte
a combattere gli Inglesi, come pare fosse sta­
to promesso ad alcuni di loro, si è invece co­
stretti ad una logorante guerriglia contro i
partigiani — è indifferente ai toni paternali­
stici e didascalici di un loro superiore:
Un giorno che stavo in cucina, per il servizio di
corvée, venne una banda di ragazzi a trovarmi.
Erano capeggiati dal postino.
— Dobbiamo andare dal capitano, — incominciò
quello. — Dobbiamo dirgli che ce ne fotte dei ri­
belli e di questa sporca guerra che non vale nulla.
— Noi ci siamo arruolati per andare contro gli In­
glesi, — disse Nic Belvedere.
— E intanto vediamo che tutti gli altri reparti ven­
gono mandati al fronte, — disse Medori. — E noi
no, invece. Noi dobbiamo scuoiare i ribelli e la­
sciarci scuoiare. Sai dirmi tu che schifosa guerra
è questa?
— Io penso che è rivoltante spararsi fra italiani.
Può essere divertente in principio. Ma dopo scoc­
cia, — disse il soldato Gennari.
[Mentre i militi discutono su chi debba recarsi dal
capitano a lamentarsi della guerra fratricida] il ca­
pitano Mattei spuntò dal cancello di entrata e ven­
ne a piantarsi in mezzo a noi.
— Perché state qui e non in caserma? — disse.
— Dovevamo venire da voi tutti assieme, — io ri­
sposi. — Stavamo prendendo gli accordi.
Il capitano fece la faccia buia. Disse:
— Va bene, sentiamo di che si tratta.
[Spiegazioni al capitano] Alla fine il capitano sbot­
tò:
34
G. Rimanelli, Tiro al piccione, cit., p. 146.
— Voi non capite un’acca della guerra e della no­
stra missione, perciò parlate a vanvera e vi confon­
dete le idee. Noi non abbiamo bisogno di andare al
fronte. Questo dove siamo è un fronte regolare,
molto più importante dell’altro. Il compito che ci
è stato assegnato è di difenderci le spalle dal no­
stro nemico più prossimo, che è questo che com­
battiamo. Non abbiamo vuoti sentimentalismi,
perché i ribelli sono Italiani solo di nome. In effetti
essi sono i veri traditori della nostra Patria. Noi
dobbiamo sterminarli perché rappresentano la
parte peggiore della nostra gente. Quindi, fin
quando tutte le montagne non saranno ripulite,
il nostro posto è questo. Inoltre, non dovete im­
pressionarvi per le perdite che subiamo. In guerra
è necessario aver perdite, anzi è inevitabile. Ma in
estate... Pensate che fra poco viene l’estate, e allo­
ra sarà la volta nostra di vincere sulla canaglia.
Non avremo più tante perdite, allora. Comun­
que... se proprio ci tenete a far la conoscenza
con i Neozelandesi e i Marocchini, io non vi dico
che è impossibile. Solo bisogna aspettare. Lasciare
il tempo al tempo.
— Ma è una cosa che durerà molto? — disse Pasquini.
— Non so quanto possa durare questa guerra, —
disse il capitano. — Ora che il Duce è stato salvato
e ha ripreso il suo posto di lavoro, saprà ben lui
come ci dobbiamo comportare. Ma non bisogna
star li a pensare.
— Però gli Alleati vengono su ogni giorno, — fece
Nic.
— E lasciali venire, — disse irritato il capitano.
Nella valle padana troveranno che non si potrà
passare, il Duce è stato esplicito nel dirlo. Intan­
to...be’ ecco, vi debbo dare una notizia poco alle­
gra. Ve la dò unicamente per riscaldare in tutti voi
l’odio che abbiamo per i traditori della Patria. Ottombrini è morto stanotte all’ospedale, in seguito
alle ferite. La sua mitraglia la prende Laudato.
Mi pare che ci abbia una predisposizione per la
Breda. Capito, Laudato?
— Signorsì, — dissi.
— Mettiti sull’attenti quando parli con me. Capi­
to, Laudato?
— Signorsì, — dissi di nuovo.
Il capitano Mattei girò sui tacchi. Poi, fatti alcuni
passi, si voltò ancora e disse:
La memoria letteraria della “zona grigia”
— Tornatevene in caserma. E ricordate sempre co­
sa dice il nostro Vangelo: “Tutti i morti che lascia­
mo qui, chiedono di essere vendicati” .
In mezzo a noi era scesa un’improvvisa tristez-
Difficilmente sarebbe meglio rappresentabile
il profondo e sempre più insanabile iato che
la guerra civile ha scavato tra gli altisonanti
e parolai3536 proclami di rivincita dell’ultimo
fascismo e i sentimenti, i comportam enti e
le aspettative di chi manifesta una avversione
alla guerra — e soprattutto al modo di inten­
derla pubblicizzato da Salò —, non già im­
perniando le proprie tremule argomentazioni
su consapevoli acquisizioni ideologiche e po­
litiche, bensì, forse con meno onore ma mag­
gior sincerità, rivendicando la propria estra­
neità alla guerra su una base prepolitica. Si
sfugge — fm che è possibile, ovviamente —
alla guerra perché la dimensione esistenziale,
famigliare ed economica in cui si vive non
prevede le cause e i motivi che la guerra porta
con sé. Se, per necessità estrema, a essa pur
bisogna adattarsi, lo si fa ‘stipulando’ un pre­
cario e temporaneo compromesso, senza, tut­
tavia, che questo comporti una qualche ri­
nuncia agli atavici principi con i quali viene
regolata la propria esistenza. A queste consi­
derazioni se ne devono saldare delle altre, in
riferimento alla giovane età dei “chiamati al­
le armi” protagonisti di questo libro — ci tro­
viamo di fronte, contrariamente a quanto po­
trebbe ed è effettivamente accaduto con i loro
‘fratelli maggiori’ nati circa dieci anni pri­
ma37, a individui cresciuti in piena fase di sta­
bilizzazione del regime fascista, che non han­
no avuto la possibilità, per motivi anagrafici,
139
di ricercare e di sviluppare un orizzonte pro­
blematico e culturale che andasse oltre quello
imposto dal fascismo —, condizione che fun­
ziona da aggravante nel processo di autoe­
marginazione da qualsiasi coinvolgimento
nella guerra: “Il Rimanelli vuole raccontarci
l’orrore dell’incoscienza del non sapere ado­
lescente di fronte alle atrocità della guerra ci­
vile. Ma che cosa, alla fine del libro, il perso­
naggio abbia capito, verso quale modo di es­
sere si incammini, rimane oscuro e piuttosto
torbido”38.
Antieroico fin dal titolo (il “piccione” è il
nome sarcasticamente caricaturale affibbiato
all’aquila imperiale cucita sul berretto della
divisa repubblichina, e “ tirate al piccione!”
è il grido lanciato dai partigiani nell’ultimo
e decisivo assalto sul Mortirolo), Pavese ave­
va visto giusto, quando ne scrisse (in una let­
tera a Muscetta): “Il libro, a mio parere, non
è un libro politico — non vi esiste il caso del
fascista che si disgusta o converte; bensì il
giovane traviato, preso nel gorgo del sangue,
senza un’idea, che esce per miracolo, e allora
comincia ad ascoltare altre voci”39. Ed è gra­
zie a questa lettura spoliticizzata della guerra
che Marco, nelle ultime pagine — quando,
ormai a guerra finita, riuscito a fuggire dalla
prigionia degli alleati, si trova al sicuro pres­
so la sua famiglia —, al pari dell’inquieto io
narrante de La casa in collina, spende parole
di sincera compassione per tutti i caduti:
“rimpiangevo i morti che c’erano stati. Tutti
i morti della guerra. Oh, quelli non sarebbero
tornati!”40. Qualche settimana prima, appe­
na preso prigioniero, Marco, contrariamente
al Vittorini di Uomini e no, si era definitiva­
mente convinto che “i partigiani [fossero] de-
35 G. Rimanelli, Tiro al piccione, cit., pp. 86-88.
36 Cfr. M. Isnenghi, Parole e immagini dell'ultimo fascismo, cit., p. 11.
Il riferimento ovvio e naturale va ai libri di Ruggero Zangrandi II lungo viaggio attraverso il fascismo. Contributo alla
storia di una generazione, Milano, Feltrinelli, 1962 e D. Lajolo, Il “voltagabbana", Milano, Il Saggiatore, 1963, di im­
portanza capitale per qualsiasi discorso sul rapporto tra i giovani ed il regime fascista.
38 Franco Fortini, recensione a G. Rimanelli, Tiro al piccione , “Comunità” , 1953, n. 20, p. 45.
39 C. Pavese, Lettere 1926-1950, cit., p. 725.
40 G. Rimanelli, Tiro al piccione, cit., p. 253.
140
Raffaele Liucci
gli uomini come noi” 41; anzi, era diventato
buon amico di Maurizio, il partigiano asse­
gnato al servizio di guardia. Al contrario
del pensoso e torm entato Corrado pavesiano, il rifiuto in toto che Marco fa delle ragioni
di qualsiasi violenza bellica è il frutto di una
più primordiale, istintiva e materiale alterità
comportamentale a fatti, eventi e idee non introiettate e sedimentate attraverso il processo
di socializzazione e acculturazione dei giova­
ni (meridionali) di origine contadina. L’abili­
tà, non comune, di Rimanelli è stata quella di
aver fornito una rappresentazione letteraria
dei loro sentimenti e atteggiamenti più genui­
ni, senza scadere in una elaborazione troppo
intellettualistica e ideologica. I canoni stilisti­
ci si rifanno infatti al dominante, in quegli
anni, neorealismo; ma da essi l’opera di Ri­
manelli si distanzia subito per l’assenza di
quei caratteri — la visione eroica e celebrati­
va delle vicende, la connaturata positività e
progressività dell’esistenza umana, la coltiva­
zione di un organico sistema valoriale che fa­
ciliti una sicura dicotomizzazione tra il “ne­
mico” e “l’amico” — che possano permettere
una considerazione comunque utile e neces­
saria della violenza più estrema, se essa viene
motivata con finalità collettive e palingenetiche. Ed è per i succitati e caratterizzanti ele­
menti, che Tiro al piccione — insieme a La ca­
sa in collina e a poche altre opere — ci appare
come strumento indispensabile per un ap­
proccio disincantato, non conformista e a
connotazione non immediatamente politica
della guerra civile.
Molti dei nodi problematici che abbiamo
trovato densamente presenti in Tiro al piccio­
ne di Rimanelli, li ritroviamo anche in altri
racconti o romanzi a sfondo autobiografico,
anch’essi scritti dagli ex ventenni di allora, a
partire, per esempio, da Un banco di nebbia
(1958), del suo quasi coetaneo Giorgio Soavi.
Anche qui vi è la storia di una immatura ade­
sione di un giovane ventenne alla Repubblica
di Salò. Ma il dato discriminante, rispetto a
Rimanelli, è che il protagonista narratore
non proviene da una povera e ignorante fami­
glia contadina, bensì da un ambiente piccolo­
borghese cittadino (di Cremona), svagato e
benestante, fascista solo nella misura in cui il
regime ha tutelato i suoi interessi economici.
Ciò che qui primeggia è lo spaventoso deserto
di valori e la carente ‘preparazione politica’
del giovane soldato repubblicano, comunque
estraneo sia alle ragioni del fascismo (e quindi
della guerra), sia a quelle dell’antifascismo, fi­
no alla poco onorevole dipartita finale. Que­
sto nonostante che la ventennale opera di per­
suasione, propaganda e creazione di un “ita­
liano nuovo” , dispiegata con tanto assiduo
impegno e profusione di mezzi, fosse stata in
buona parte indirizzata proprio a quei ceti so­
ciali piccolo e medio borghesi di cui faceva
parte l’autore, effettiva base di consenso al re­
gime. Il furtivo e tardivo (ma non troppo: qui
il distacco — o meglio: la sordida fuga dal bat­
taglione di appartenenza con un pacco di li­
cenze in bianco — è anteriore, di qualche me­
se, al 25 aprile) defilarsi dalla guerra rimane a
deprimente testimonianza del vuoto culturale
e politico di una generazione che ha fatto trop­
po poco — e comunque troppo tardi — per
evitare che le colpe dei padri ricadessero anche
sui figli. (E suona quindi goffa e colpevole, se
non irritante e stucchevole, la m onotona e
autoassolutoria condanna che viene fatta, in
quasi ogni pagina, degli errori e delle manche­
volezze degli educatori e dei genitori)42.
41 G. Rimanelli, Tiro al piccione, cit., p. 219.
42 II “banco di nebbia” del titolo si riferisce evidentemente all’incoscienza giovanile, incapace di andare oltre l’insieme
confuso, appena abbozzato di idee, sentimenti, propositi ereditato dai ‘padri’, mancati e colpevoli educatori. Giorgio
Soavi aveva già accennato alla sua difficile reintegrazione come reduce della Repubblica sociale nel suo romanzo d’e­
sordio, Le spalle coperte (Vicenza, Neri Pozza, 1951), incentrato sulla sua esperienza di impiegato ad Ivrea, nella fab­
brica di Adriano Olivetti.
La memoria letteraria della “zona grigia”
In qualche modo assimilabili al percorso di
giovanile incoscienza43 attraversato nella
guerra civile italiana dagli autori presi in esa­
me, sono le vicende autobiografiche che ci
narra Giulio Cattaneo, fine saggista e valente
letterato, in Da inverno a inverno44. Anch’egli
apparteneva a quella classe di “ studenti con
qualche nozione letteraria e di nessuna con­
vinzione politica” 45, che nel 1943, conclusa
la fase ancora spensierata dell’adolescenza,
si apprestavano a terminare gli studi liceali
o ad avviarsi all’Università.
Così si apriva una prospettiva nuova, piena di in­
cognite, a quei giovani di diciotto, diciannove an­
ni, che per qualche mese erano passati da una ca­
serma all’altra in attesa di partire per destinazione
ignota. Non essere stati richiamati prima dell’8
settembre significava per loro psicologicamente
uno svantaggio: un po’ di vita militare li avrebbe
aiutati a capire meglio le ragioni della disfatta e
a inasprire gli impulsi di ribellione. L’incertezza
di chi non aveva provato nulla, se non la fame e
la paura degli allarmi aerei, finì per portarli in par­
te nelle caserme della Repubblica sociale, sia pure
con qualche ritardo. Qualcuno diceva di essere fa­
141
scista, qualche altro antifascista, ma i più sembra­
vano privi di convinzioni e smaniosi soltanto di
tornare a casa46.
Dalle “caserme della Repubblica sociale” si
può anche fuggire — ed è quello che si arri­
schierà a fare, coronato da successo, C atta­
neo, durante i funesti mesi del 1944, che lo ve­
dranno trascinato da una caserma italiana di
Firenze al fronte di Anzio insieme ai tedeschi,
per poi finire, per via di un attacco di mala­
ria, in un ospedale militare di Cortina d’Am­
pezzo; e infine la fuga e il riparo, ospite di
una casa di zii, a San Tommaso, paese della
collina cesenate che richiama subito echi let­
terari serriani, luogo creduto vergine e incon­
taminato epperò in seguito anch’esso travol­
to dalla guerra. Ma se questo gesto istintivo
non si armonizza con una solida consapevo­
lezza politica, il rischio è di abbracciare un
ben poco meritorio attendismo a posteriori.
Quei giovani che avevano bighellonato perplessi e
senza idee dal 25 luglio all’8 settembre, senza ren­
dersi conto di quello che poteva accadere, presi poi
43 In alcuni casi, a monte di questa sconsideratezza giovanile non c’erano solamente inesistenti o fallimentari processi di
politicizzazione verticistica, bensì, forse più grottescamente, l’esatto contrario, vale a dire graduali evoluzioni di una
sovrabbondante — ma non per questo meno autoritaria e paternalistica — socializzazione politica famigliare, anch’essa,
però, pregna di conseguenze altrettanto fallimentari. E quello che si evince, ad esempio, dalla lettura delle memorie di
gioventù pubblicate da un altro esponente della generazione dei nati dal 1920 al 1925: Giorgio Mario Bergamo, Addio a
Recanati, Torino, Einaudi, 1981 [la ed. Bologna, Cappelli, 1974], Figlio di Mario e nipote di Guido — i celebri “fratelli
Bergamo”, repubblicani ed interventisti del 1915, combattenti volontari pluridecorati, nonché intransigenti antifascisti
(su cui cfr. L'anomalia laica. Biografia ed autobiografia di Mario e Guido Bergamo, a cura di Livio Vanzetto, con un
saggio di M. Isnenghi, Verona, Cierre 1994) — Giorgio Mario trascorre l’infanzia e l’adolescenza a Parigi, insieme al
padre fuoriuscito, a contatto con gli antifascisti italiani costretti all’esilio, senza che questo riesca tuttavia a produrre
nel giovane chiari propositi intellettuali o concreti progetti politici. Tanto che tornerà in Italia giusto in tempo per ar­
ruolarsi nelle malridotte retrovie dell’esercito di Salò, a riscattare un onore italiano che non riesce però a definire se non
in modo confuso ed ambiguo. La sconfitta finale non produrrà in lui opportunistiche conversioni alle idealità della Re­
sistenza, cui non aveva mai prestato alcun credito e considerazione. Quello che può apparire un “anomalo cambiamento
di campo dell’ultima ora” (M. Isnenghi, Le guerre degli Italiani, cit., p. 259), potrebbe anche rappresentare il più coe­
rente, logico e prevedibile epilogo di una vicenda esistenziale i cui prodomi sono da rintracciarsi in una sbagliata (forse
parossistica ed esasperante) educazione famigliare che ha condotto ad imprevedibili e deflagranti crisi di rigetto.
44 Giulio Cattaneo, Da inverno a inverno, Bologna, il Mulino, 1993. Una prima edizione usci a Milano, nel 1968, per i
tipi de II Saggiatore. La nuova edizione bolognese, arricchita da un’inedita appendice, è però scritta non più in terza
persona (nell’edizione del 1968 il protagonista era un più impersonale “studente G.”), bensì in prima, quasi a voler ri­
marcare, a quasi cinquant’anni dai fatti narrati, una ormai meno compromettente diretta assunzione di responsabilità di
quel passato nebuloso.
45 G. Cattaneo, Da inverno a inverno, cit., p. 87.
46 G. Cattaneo, Da inverno a inverno, cit., pp. 7-8.
142
Raffaele Liucci
dalla irrequietezza di una partecipazione spesso
male indirizzata, capirono alla fine che la guerra
era giustamente perduta. Di qui la decisione di
non collaborare, di disertare, aspettando farrivo
degli alleati o di unirsi ai partigiani, sempre in at­
tesa che la guerra finisse e che si ricominciasse a vi­
vere dopo le deportazioni e le stragi, dopo la fame
nelle città ingombre di macerie47.
Sembrerebbe questa, in conclusione, la stra­
da scelta dalla grande maggioranza dei gio­
vani italiani di fronte alla guerra civile, di
qualunque origine sociale fossero. Molti di
essi, pur avendo subito una partecipazione
coatta alla guerra, non si lasciarono quasi
per nulla influenzare né dallo sciatto paterna­
lismo patriottardo di uno stato fantoccio né
dalla propaganda nemica, avvertita come
un condensato di incomprensibili e nebulosi
messaggi ideologici. E la fedeltà ai principi
pre o antipolitici della loro educazione non
fu quasi mai tradita o messa in discussione.
Per costoro, se “il passato era un insieme di
fatti inutili o malefici, il presente era nebbia,
incertezza, fame insaziata, attesa”48, il futuro
altro non sarà che un grigio ritorno ai confor­
mistici modelli culturali da cui non si erano in
realtà mai distaccati. Sono questi — in estre­
ma sintesi — i motivi dell’inclusione delle
opere di Rimanelli, Soavi e Cattaneo nell’ambito della letteratura della zona grigia.
Riannodiamo per graduali passaggi i nostri
fili argomentativi: 1. Si era partiti da Tiro al
piccione di Giose Rimanelli, romanzo for­
malmente attribuito al reducismo fascista;
2. Si è dimostrato quanto poco detto roman­
zo sia invece assimilabile alla invero piutto­
sto scontata e prevedibile memorialistica let­
teraria della Repubblica sociale; 3. Allargan­
do esemplificariamente il ventaglio dei testi
in esame, si è quindi assunto Tiro al piccione
come punta di diamante di una originale ten­
denza memorialistica, propria di alcuni gio­
47 G. Cattaneo, Da inverno a inverno, cit., pp. 90-91.
48 G. Cattaneo, Da inverno a inverno, cit., p. 77.
vani che nel 1943-1945 avevano un’età a ca­
vallo dei venti anni e che, pur costretti a pre­
stare servizio sotto le insegne militari fasciste,
sono tuttavia ascrivibili, per predisposizione
culturale e indole esistenziale, alla zona gri­
gia.
La linearità e similarità della trama — si è
visto — è pressoché comune in tutti i casi pre­
si in esame. Un giovane all’incirca ventenne,
di varia (ma ininfluente) provenienza sociale,
assolutamente digiuno di politica — o in ogni
caso indifferente a socializzazioni politiche
coattive dispiegatesi all’interno di un nucleo
famigliare, con effetti però del tutto opposti
rispetto agli intenti originari — è costretto
da fatti contingenti all’arruolamento nell’e­
sercito repubblicano. Si trova così proiettato
nell’orizzonte della guerra civile senza ben
rendersi conto delle ragioni degli schieramen­
ti che si combattono. Il giovane, constatata
l’impossibilità di identificarsi con una guerra
percepita come estranea, cerca di fuggire in
ogni modo al destino impostogli coercitiva­
mente da un’autorità superiore (ai suoi occhi
però illegittima), e spesso vi riesce, risucchia­
to, in questo modo, nel rassicurante anoni­
mato della zona grigia. La costante ricorren­
za dell’zier qui sommariamente richiamato è
prezioso testimone della serialità dell’elabo­
razione di una memoria imbarazzante e com­
promettente, come può senz’altro essere
quella di chi ha combattuto “dalla parte sba­
gliata” . Si può forse attribuire soprattutto a
questo ‘peccato originale’ la sminuente de­
motivazione ab origine di qualsiasi azione ri­
cordata, in misura di gran lunga superiore a
quanto probabilmente avvenne nella realtà.
È lecito avanzare il dubbio, in altre parole,
che la quanto meno sospetta abnorme proli­
ferazione di prese di distanza, professioni di
giovanile ingenuità, abiure postume, acide
critiche fin troppo sofisticate (quasi artefat­
te), sia il frutto di un dominante sentimento
La memoria letteraria della “zona grigia”
di rimozione di un passato che viene rievoca­
to solo allo scopo di rinnegarlo e di trovare
posteriori giustificazioni ad atti per cui si
prova un senso di vergogna, maturato, però,
solo dopo la fine della guerra — e, tra l’altro,
inestricabilmente intrecciato con il clima di
deresposabilizzazione generale caratterizzan­
te gli anni della ricostruzione post-bellica.
Questa apostasia della trascorsa partecipa­
zione alla guerra si spiega anche tenendo in
debito conto un non secondario particolare:
quasi tutti gli autori sopra richiamati hanno
esercitato, con fortuna certo diseguale e alter­
na, il ‘mestiere di letterato’ (o comunque di in­
tellettuale). Per alcuni di essi questo ha impli­
cato un necessario rispetto di alcune compati­
bilità politico-ideologiche, particolarmente
autoritarie e coattive soprattutto nel clima de­
gli anni cinquanta, caratterizzati a livello cul­
turale dall’egemonia del paradigma antifasci­
sta, pena un serio rischio di emarginazione
dal “mondo delle lettere” — come tra l’altro
per alcuni si è ugualmente verificato (Rimanelli). Seguendo un ordine del discorso di tal
fatta, gli elementi autobiografici all’origine
di questi romanzi possono aver subito un pro­
cesso — quanto profondo è difficile affermare
con sicurezza — di destrutturazione mistifica­
toria, che ha comunque finito per operare
stravolgimenti non trascurabili fino alla nega­
zione di qualsiasi (anche remota) cosciente im­
medesimazione del pensiero nell’azione. La
verità è che ben poche furono le voci in grado
di innalzarsi all’aureo livello di un disinteres­
sato e sincero esame di coscienza di una con­
dizione, assai comune, spesso prigioniera di
un groviglio di intricate compromissioni, reti­
cenze e ambiguità, difficile da sbrogliare in
modo indolore. Cesare Pavese e Salvatore
Satta sono gli unici nomi che ci ritornano alla
mente. Ma costoro disponevano già di una
autorevolezza intellettuale che li poneva al ri­
paro da possibili ‘ritorsioni’. Per autori più
49
143
giovani o meno noti, il compito era indubbia­
mente assai più arduo. Di qui, il probabile ri­
corso a dissimulanti categorie interpretative di
trascorsi biografici letterariamente trasfigura­
ti in toni tendenziosi ed alterati.
Finis mundi
Fino ad ora, in questo sondaggio nella lettera­
tura della zona grigia, si sono prese in esame
opere non coeve alla guerra civile, bensì ad es­
sa successive di un certo numero di anni, nelle
quali, in forza di questo stacco cronologico, la
guerra civile italiana viene ricordata e rielabo­
rata con il senno di poi. Ed è facile immagina­
re a quali distorsioni possa condurre una rico­
struzione così problematica della propria me­
moria, in riferimento ad avvenimenti tanto
drammatici. Del resto, non è affatto infre­
quente che diari di guerra o di lotta politica
pubblicati a distanza di alcuni anni dai fatti
cui si riferiscono, vengano, senza dichiararlo
esplicitamente, ritoccati dall’autore, in coe­
rente conformità con i cambiamenti nel frat­
tempo intervenuti nella propria vita pubblica
e privata. Le riflessioni a posteriori — va da
sé — smarriscono non poco quel carattere di
sincerità e immediatezza caratterizzanti, inve­
ce, le pagine scritte a caldo, a storia non anco­
ra conclusa. Furono assai rari, per la verità,
gli esempi di lucida e simultanea perscrutazione ad ampio respiro della tragicità storica dei
tempi, anche da un ambito privilegiato quale è
quello rappresentato dalla zona grigia.
E stato scritto che Satta fu uno dei pochis­
simi, fra 1944 e 1945, “a prendere subito e ap­
passionatamente di petto il problema dei lega­
mi tra ‘morale pubblica’ e ‘morale privata’”49.
L’esito di queste riflessioni è De profundis,
pubblicato nel 1948, ma scritto — secondo le
indicazioni fomite dall’autore in calce al testo
— fra il giugno 1944 e l’aprile 1945, quando
Silvio Lanaro, L ’Italia nuova. Identità e sviluppo 1861-1988, Torino, Einaudi, 1988, p. 26.
144
Raffaele Liucci
Satta si trovava rifugiato in una casa di fami­
glia della bassa friulana. Dietro il suggerimen­
to di una riflessione del Guicciardini sulla
sventura di chi nasce in un’epoca di rovine,
Satta risale, attraverso episodi vissuti in prima
persona, alle sorti di un popolo, e si interroga
sulle ragioni del consenso di massa tributato
al fascismo, consenso che, una volta che la
guerra fascista volgeva verso il disastro milita­
re, si è immediatamente tramutato nella spe­
ranza di una rapida sconfitta.
L’autore, giurista sardo di fama interna­
zionale, è figlio di quell’Italia elitaria e notabilare che, in un’estrema crisi di crescenza, ha
irresponsabilmente consegnato il paese ai
manipoli mussoliniani. Egli stesso, durante
il regime, è sembrato essersi tranquillamente
adagiato sulle direttive della politica fasci­
sta50 . Fu la guerra perduta ad aprirgli gli oc­
chi: “il culmine e la fine della guerra — ricor­
derà a distanza di molti anni — mi trovò in­
tento alla revisione più radicale, quella del­
l’uomo, al lume delle piccole e grandi espe­
rienze che sotto i miei occhi e prima ancora
in me stesso si andavano maturando” 51. Un
mutamento di prospettiva condotto alle
estreme conseguenze, se è vero che le pagine
di più sferzante sarcasmo sono quelle in cui
vengono dipinte le farsesche gesta della sedi­
cente “ Rivoluzione fascista” , in realtà subli­
me coronazione del sempiterno gattopardi­
smo italico. Ma a un tale intransigente
(neo)antifascismo, come dire, “ esistenziale” ,
non corrisponde però un altrettanto risoluto
antifascismo politico. La durissima requisi­
toria sattiana sposta quindi il tiro verso
“ l’uomo tradizionale” , che altro non è che
rimpersonificazione simbolica dei peggiori
vizi del popolo italiano (trasformismo, parti­
colarismo, servilismo e via seguitando), che
troveranno — gobettianamente — nel fasci­
smo la loro sintesi più organica. La più grave
responsabilità imputabile all’ “ uomo tradi­
zionale” sopraggiunge con la guerra, ed è la
“morte della patria” — idea, tra l’altro, or­
mai di matrice intrinsecamente conservatri­
ce5253— , “ l’avvenimento più grandioso che
possa occorrere nella vita dell’individuo” :
Come naufrago che la tempesta ha gettato in un’i­
sola deserta, nella notte profonda che cala lenta­
mente sulla sua solitudine egli sente infrangersi ad
uno ad uno i legami che lo avvincono alla vita, e
un problema pauroso, che la presenza viva e ope­
rante [...] della patria gli impediva di sentire, sorge
e giganteggia tra le rovine: il problema dell’esisten­
za. Soggetto al proprio temperamento, egli lo risol­
ve con l’azione, che indirizza secondo la propria fe­
de o il proprio sogno, e diventa un eroe; oppure lo
risolve con la meditazione, che è preparazione alla
morte, e quindi anch’essa, a suo modo, eroismo5'.
50 Negli anni trenta, alla facoltà di Scienze politiche dell’Università di Padova, Satta tenne per alcuni anni un insegna­
mento assai politicamente scoperto, quale “ Storia e dottrina del fascismo” (M. Isnenghi, I luoghi della cultura, in Storia
d'Italia. Le Regioni dall'Unità a oggi. Il Veneto, a cura di S. Lanaro, Torino, Einaudi, 1984, p. 280).
51 Salvatore Satta, Soliloqui e colloqui di un giurista, Padova, Cedam, 1968, p. XVI.
52 Si pensi alla tesi dell’8 settembre come crisi definitiva e irreversibile dell’idea di nazione in Italia, cavallo di battaglia
della storiografia di area defeliciana. Si veda, a questo proposito, soprattutto il numero monografico di “ Storia contem­
poranea”, 1993, n.6, significativamente dedicato a “ 1943: crisi di regime, crisi di nazione” . Lo storico italiano che più ha
insistito, da sponde liberal-moderate, sul definitivo esaurimento dell’idea di nazione nell’Italia repubblicana (ma si trat­
ta di un processo che, con la sconfitta del nazionalismo fascista e nazista, coinvolge l’Europa intera) dopo la seconda
guerra mondiale è Rosario Romeo (cfr. soprattutto il suo Italia mille anni. Dall’età feudale all’Italia moderna ed europea,
Firenze, Le Monnier, 1981). Su questo aspetto della sua ricerca storiografica, cfr. R. De Felice, Il problema della nazione
nodo centrale del pensiero di Rosario Romeo storico e intellettuale, “Storia contemporanea” , 1992, n. 2; G. Sasso, Rosario
Romeo e l ’idea di “nazione". Appunti e considerazioni, “ La Cultura” , n. 1, pp. 7-46. Alle posizioni di De Felice si è re­
centemente avvicinato anche Ernesto Galli della Loggia (La morte della patria. La crisi dell’idea di nazione tra Resisten­
za, antifascismo e Repubblica, Roma-Bari, Laterza, 1996). Su questi temi, cfr. anche F. De Felice, La crisi della nazione
italiana, “Passato e Presente” , 1995, n. 36, pp. 5-17.
53 S. Satta, De profundis, Milano, Adelphi, 1980, pp. 16-17 [Ia ed. Padova, Cedam. 1948]. Anche Corrado Alvaro, nel
suo volumetto L ’Italia rinunzia?, scritto nel 1944 e pubblicato l’anno seguente (ultima ed. Palermo, Sellerio, 1986), scrive
La memoria letteraria della “zona grigia”
Di fronte a questa immane tragedia, tutti,
per Satta, sono colpevoli.
Non soltanto, ovviamente, fascisti e nazi­
sti, diretti e primi responsabili, ma anche il
popolo italiano nella sua interezza, che — a
prescindere dalle diversificazione di classe,
ceto o status — ha comunque sempre antepo­
sto, alla salvaguardia di un pur imperfetto
bene comune, una corporativa difesa dei pro­
pri interessi di bottega. I deboli segni di ri­
scatto popolare che tuttavia si avvertono do­
po l’occupazione tedesca non sembrano de­
stare il minimo interesse in Satta, arroccato
in un buio scetticismo che lo spinge lontano
da qualsiasi identificazione che non sia quella
con una patria ormai solo struggente ricordo
di un passato che conobbe momenti più lumi­
nosi. La sua innegabile pregiudiziale antifa­
scista sembra sconfinare in una pregiudiziale
antiitaliana.
Quasi che l’apocalittica fine cui sta andan­
do incontro il fascismo di Salò trascini con sé
l’intero popolo italiano, ormai perpetuamen­
te inabile a risollevarsi da sé. L’unica via di
uscita, per l’intellettuale, è quindi la ricerca
di un rifugio dal quale osservare, con aulica
impassibilità, l’assordante e stucchevole ru­
morio di chi, dopo tanta e assidua tracotan­
za, sta finalmente espiando le sue incancella­
bili colpe. I chierici che rifiutano di tradire il
loro statuto storico, che pervicaci resistono a
promiscui e compromissori cedimenti a inte­
ressi di bassa lega
non sono da una parte o dall’altra — ammonisce
severo Satta —, non sono con l’uno o l’altro stra­
niero, non sono con questa o quella fazione che
145
dall’uno o dall’altro straniero aspetti ancora la li­
bertà, ma sono sempre e soltanto con se stessi, do­
vunque il giudizio storico e concreto, e perciò sem­
pre unilaterale e sempre fallace, spinga la loro
azione. E se la patria è morta, essi muoiono per
la patria, e il loro cuore è la pietra sulla quale s’in­
nalzerà domani, in un mondo liberato, una patria
nuova e immortale54.
La “morte della patria” conduce a un solipsi­
smo nichilista, negatore di qualsiasi plausibi­
lità razionale ai principi e ai moventi del nuo­
vo e transitorio assetto. Non è più dato alcun
afflato politico e civile; si rinuncia a qualsiasi
identificazione con un sistema di valori dete­
riori, verso il quale tutte le parti in causa ap­
paiono prive di tangibile diversificazione cul­
turale e ideale.
La fine di un ‘mondo’, di un corpus organi­
co di credenze, dottrine, saperi. L’eclissarsi di
modelli comportamentali creduti imperituri.
La sublimazione intellettuale della zona gri­
gia come extrema ratio di fronte all’imperan­
te disgregazione finale55.
De profundis appare come il canto del ci­
gno dell’Italia liberale, le cui residue perma­
nenze hanno ricevuto l’ormai definitivo col­
po di grazia dalla seconda “ guerra dei trent’anni” (che proprio in Italia era stata cultu­
ralmente inaugurata dalYEsame di Renato
Serra). In questo senso, l’opera di Satta è as­
sai esemplare dell’atteggiamento — al tempo
stesso interventista ma non compromissorio
— tenuto da molti intellettuali italiani nei
confronti dei mutamenti politici intervenuti
e succedutisi in più di un secolo di storia uni­
taria56.
pagine che hanno non poca consonanza con le riflessioni di Satta sulla crisi della nazione italiana, ma lo fa dal punto di
vista di un solido ed inequivocabile (almeno in questo caso) antifascismo (che talvolta purtroppo scade in un populismo
di maniera).
54 S. Satta, De profundis , cit., p. 186.
55 Ma, nello stesso tempo, è netta e risoluta la presa di distanza dalla zona grigia propria dell’uomo tradizionale, la cui
non belligeranza è descritta in termini di asperrima salacità: cfr. S. Satta, De profundis, cit., pp. 184-185.
56 Si pensi — per richiamare l’esempio più eclatante e dibattuto — al rapporto tra intellettuali e potere durante il fa­
scismo. Si vedano, a questo proposito, i noti studi — caratterizzati da tesi spesso contrastanti, se non antitetiche — di
Bobbio, Garin, Isnenghi e Turi.
146
Raffaele Liucci
Conclusioni
Di questa preziosa letteratura della zona gri­
gia è rimasta pochissima traccia (con l’ecce­
zione di Pavese, spesso però travisato). E i
motivi sono forse riconducibili all’oggettiva
mitizzazione della Resistenza nel processo di
organizzazione della sua memoria. Memoria
che è sempre “ un campo di battaglia, dove
nulla è neutrale e dove la contesa è conti­
nua” 57. E che vede i vincitori naturaliter
portati a ingigantire la ‘grandiosità’ delle lo­
ro azioni, e a circoscrivere — o addirittura
annullare — quelle contraddittorie “ zone
grigie” che rischiano di sminuire la portata
del loro proclamato consenso. Con questo,
non si vuole certo affermare che l’antifasci­
smo — l’elemento (certamente non monoli­
tico, bensì assai eterogeneo e frammentato)
primogenito della ricostruzione della memo­
ria resistenziale — abbia ricoperto il sempli­
ce ruolo di “ ideologia del vincitore” , come
sostengono alcune critiche che ad esso ven­
gono periodicamente rivolte58. Si tratta, pe­
rò, di prendere atto che “l’antifascismo ha
avuto in Italia una presenza molto più soli­
da e duratura che [...] nell’intera Europa oc­
cidentale”59, con tutte le distorsioni e le mi­
stificazioni cui un processo di questo genere
— tra l’altro quasi coincidente con una sua
progressiva monopolizzazione da parte del­
l’opposizione di sinistra sempre esclusa dal
governo60 — può, anche involontariamente,
aver dato luogo. A queste considerazioni se
ne può aggiungere un’altra, che prende le
mosse dagli studi condotti sulla memoria
collettiva da Halbwachs61, per il quale la
memoria è una forma di ricostruzione par­
ziale e selettiva del passato, la cui attualizzazione è imprescindibile dall’esistenza di un
gruppo che funga da costante referente della
sua continua elaborazione. In difetto dell’e­
sistenza di tali gruppi che garantiscano la
“continuità e la saldezza di un’autorappresentazione nel tempo”62, attraverso una vo­
lontà programmatica e organizzativa di con­
servazione di proprie radici culturali e poli­
tiche in cui identificarsi, la memoria si pre­
senta tanto frastagliata da non permettere
più una sua sopravvivenza, se non in profili
assolutamente minoritari ed emarginati. Se
per gli ex partigiani (ma anche per i reduci
della Rsi), al termine del conflitto si sono
realizzate condizioni favorevoli per la disci­
plinata salvaguardia di un patrim onio co­
mune di idee e di lotte, questo non si è veri-
57 Luisa Passerini, Resistenze della memoria, memorie della Resistenza, “ Linea d’ombra” , 1995, n. 103, p. 10.
38 Cfr., in questo senso, E. Galli della Loggia, Intervista sulla destra, a cura di Lucio Caracciolo, Roma-Bari, Laterza,
1994, pp. 103-170; R. De Felice, Rosso e nero, cit., Id., Intervista sul fascismo, a cura di Michael A. Ledeen, Milano,
Mondadori, 1992 [la ed. Bari, Laterza, 1975],
59 Nicola Gallerano, Memoria pubblica del fascismo e dell’antifascismo, in Politiche della memoria, Roma, manifestoli­
bri, 1993, p. 15.
60 Cfr. il numero monografico di “Problemi del socialismo” , 1986, n. 7, dedicato a Fascismo e antifascismo negli anni
della Repubblica e G. De Luna, Marco Revelli, Fascismo-antifascismo. Le idee, le identità, Firenze, La Nuova Italia,
1995. In merito alla storiografia sulla Resistenza, cfr. l’utile rassegna di C. Pavone, La Resistenza oggi: problema sto­
riografico e problema civile, “ Rivista di Storia Contemporanea”, 1992, n. 2-3, pp. 456-480; Cesare Bermani, Le Storie
della Resistenza. Cinquant'anni di dibattito storiografico in Italia, Verbania, Fogli sensibili, 1995; il numero speciale di
“In/Formazione”, 1994, n. 25-26.
61 Maurice Halbwachs, La memoria collettiva, a cura di Paolo Jedlowski, postfazione di L. Passerini, Milano, Unicopli,
1987 [ed. orig. La memoire collective, 1950]. Per queste tematiche, cfr. anche Bronislaw Baczko, Les imaginaires sociaux.
Mémoire et espoirs collectifs, Paris, Payot, 1984; L. Passerini, Storia e soggettività. Le fo n ti orali, la memoria, Firenze, La
Nuova Italia, 1988; Gianpaolo Calchi Novati e al., Politiche della memoria, cit.; Il senso del passato. Per una sociologia
della memoria, a cura di P. Jedlowski e Marita Rampazi, Milano, Angeli, 1991; Tracce dei vinti, a cura di Sergio Bertelli
e Pietro Clemente, Firenze, Ponte alle Grazie, 1994. Per la storia della Francia, rimane fondamentale Le lieux de mé­
moire, a cura di P. Nora, Paris, Gallimard, 1984-1992, 3 voi., 5 tomi.
62 M. Isnenghi, Le guerre degli Italiani, cit., p. 292.
La memoria letteraria della “zona grigia”
fìcato per i ‘superstiti’ della zona grigia, in
gran parte riconfluiti nell’anonimo grigiore
di masse disorganizzate, in cui le uniche mo­
dalità di quasi coercitiva irregimentazione
(partiti politici, sindacati ed organizzazioni
collaterali alla Chiesa) non erano certo pre­
disposte, strutturalmente e volitivamente, a
147
una imbarazzante ricostruzione critica del
loro passato più prossimo63. In questo mo­
do, le uniche voci ‘fuori dal coro’ non hanno
potuto usufruire di una funzionale rete di
diffusione e circolazione della propria pro­
duzione scritta.
Raffaele Liucci
63 Osservazioni illuminanti sulla ricezione a livello politico e partitico (da parte di forze di sinistra, centro e destra) nel
secondo dopoguerra delle istanze emerse da parte della zona grigia durante la guerra civile, sono state fatte da David
Bidussa, Il mito del bravo italiano, Milano, Il Saggiatore, 1994, pp. 83-104.
INNOVAZIONE EDUCATIVA
Irrsae Emilia Romagna
Sommario del n. 4, luglio-agosto1996
Gian Carlo Sacchi, Editoriale
La lingua straniera nella scuola elementare della regione Emilia Romagna: Il
progetto di monitoraggio dell’Irrsae/ER, a cura di Milena Bertacci
Giuliano Ferlini, Le variabili strutturali
Maria Pia Stori, Quale programmazione per la lingua straniera
Raffaele Sanzo, La scansione delle abilità
Milena Bertacci, Gli incontri tra la lingua straniera e le altre discipline
Enrico Maredi, Monica Ricci, / materiali didattici in uso nelle classi
TRIMESTRE
Sommario del n. 1, 1997
Saggi
Marco
L ’idea
Mioni,
cenzo
Caserta, La relazione “hobbesiana" della pericolosità; Corrado Malandrino,
dell’Unità federale europea e il socialismo marxista (1900-1920)\ Federico
Thomas Jefferson tra storiografia e filosofia politica: un bilancio critico', Vin­
Omaggio, Autorità verità libertà. La filosofia pratica di Augusto Del Noce
LA STORIOGRAFIAAFRICANISTA NELL’ETÀdella decolonizzazione fra vecchi e nuovi miti
Luciano Russi, Aldo Bernardini, Saluti', Claudio Motta, L ’africanista nel processo di
decolonizzazione. Introduzione; Catherine Coquery-Vidrovitch, La storiografia afri­
canista-, Bernardo Bernardi, Rimembranze Keniane: 1953-1963. D all’emergenza
a ll’indipendenza; Salvatore Bono, Storiografia dell’A frica “precoloniale”. Due os­
servazioni marginali-, Umberto Melotti, A proposito del modo di produzione africa­
no; Irma Taddia, La decolonizzazione e il caso italiano
Documenti
Claire Vovelle, Il fascino discreto della nobiltà: Bartolomeo Dotti tra esilio e com­
promesso (1674-1706)
Interventi
Silvio Cotellessa, Controllo sugli enti locali e analisi delle politiche pubbliche; Irmagard Egger, “Amerika, du hast es besser!”-, Ramon Garrabou, Revolución o revo­
luciones agrarias en el siglo XIV, Luciano Scuccimarra, Tempo, mito, rivoluzione.
Considerazioni sul volume 1789: la Rivoluzione e i suoi miti
Cronache
Franco Ratto, Il convegno napoletano su “Vico nel suo tempo e nel n o s t r o Rosan­
na Satamacchia, Mezzogiorno: che fare?: Cecilia Winterhalter, "In memory". Per
una memoria europea dei crimini nazisti
Recensioni
Mario Reale, La difficile eguaglianza (Vincenzina D’Amario); Gian Franco Lami, In­
troduzione a Eric Voegelin (Raffaella De Rosa); Norberto Bobbio, Destra e Sinistra
(Maria Pia Falcone); Amartya K. Sen., La diseguaglianza (Maria Pia Falcone); Frie­
drich Nietzsche, / filosofi preplatonici (Giovanni Franchi); Costantino Felice, Guer­
ra, Resistenza, dopoguerra in Abruzzo (Pasquale Juso); Costantino Felice (a cura
di), La guerra sul Sangro (Pasquale Juso); Danilo Castellano, La razionalità della
politica (Gian Franco Lami); Pier Luigi Barrotta, Gli argomenti dell’economia (Te­
renzio Maccabelli); Mario Sica, Operazione Somalia (Claudio Motta); Lauro Rossi,
Mazzini e la Rivoluzione napoletana del 1799 (Adolfo Noto); Paolo Cristofolini,
Scienza nuova (Franco Ratto); Giuseppe Patella, Senso, corpo, poesia (Franco
Ratto); Stephanus lunius Brutus, Vindiciae contra Tyrannos (Domenico Taranto)
Tra fonti e ricerca
Aggressivi chimici e guerra
La contaminazione in Puglia 1943-1996
Vito Antonio Leuzzi
Il fenomeno della contaminazione chimica di
luoghi e persone in Puglia nel corso del se­
condo conflitto mondiale, nel dopoguerra e
nei decenni successivi sino ai nostri giorni (ri­
sale al 24 luglio scorso l’ennesimo incidente
all’equipaggio di un peschereccio al largo del­
la costa di Manfredonia) non solo impone la
necessità di riconsiderare alcune vicende bel­
liche sul fronte Adriatico, ma sollecita anche
l’approfondimento delle questioni legate alla
produzione e alla destinazione degli aggressi­
vi chimici
La rigida censura militare, che ha resistito
per più di cinquant’anni, ed i ritardi della ri­
cerca storica hanno impedito di conoscere i
molti rischi conseguenti alla produzione di
queste armi, ma anche alla eliminazione dei
depositi dei gas. L’estrema pericolosità degli
aggressivi chimici non è solo connessa all’im­
piego bellico, ma si estende all’intero proces­
so lavorativo, incluse le operazioni di mani­
polazione dei contenitori dei gas durante le
operazioni di trasporto; rischiosi risultano
anche, come cercheremo di analizzare, le
procedure relative alla eliminazione delle
scorte e il recupero accidentale degli stessi
contenitori.
Si deve ai medici del lavoro, nei primi anni
quaranta, la denuncia dei rischi professionali
cui andavano incontro gli addetti alla lavora­
zione dei gas. La loro produzione, per deci­
sione di Mussolini, era aumentata notevol­
mente nel corso della guerra. In un documen­
to, pubblicato recentemente da Giorgio Rochat nel volume Igas di Mussolini, presentan­
do l’elenco degli stabilimenti coinvolti nella
produzione di aggressivi chimici, si dichiara
necessario il loro potenziamento in vista della
mobilitazione bellica1. A tale produzione era­
no adibiti alcuni stabilimenti dell’Acna
(Aziende chimiche nazionali associate), in
particolare quelli di Rho e di Cesano Maderno, l’Industria Chimica dottor Saronio con
sedi a Melegnano e Foggia, la Bussi Dinami­
te Nobel (in Abruzzo) e la Società chimica
lombarda Bianchi controllata dalla IG Farben tedesca2.
I rischi professionali cui andavano incon­
tro le maestranze addette alla lavorazione
dei gas erano noti e denunciati dalla lettera-
1 Cfr. Giorgio Rochat, L ’impiego dei gas nella guerra d'Etiopia 1935-1936, in Angelo Del Boca (a cura di), ¡gas di Mus­
solini, Roma, Editori Riuniti, 1996, pp. 84-87.
2 La fabbrica tedesca (nota per la produzione del gas Zyklon-B, usato nei campi di sterminio) coinvolta direttamente
nella politica nazista aveva concluso nel 1931 accordi con la Montecatini per la rilevazione dell’Acna. Cfr. l’interessante
saggio di Pier Paolo Poggio, Dalla dinamite alla Re.SOL. Per una storia dell’Acna, in Id. (a cura di), Una storia ad alto
rischio, l'Acna e la Valle Bormida, Torino, Edizione Gruppo Abele, 1996. Recentemente sul “Corriere della Sera” del 9
ottobre è comparsa la notizia che un gruppo chimico francese legato alla filiale tedesca della IG-Farben aveva prodotto
nel corso della guerra il gas Zyklon-B; per le caratteristiche di questo gas cfr. Giorgio Nebbia, L ’ingegneria dello ster­
minio, in Till Bastian, Auschwitz e la menzogna su Auschwitz, Torino, Bollati Boringhieri, 1995.
'Italia contemporanea”, marzo 1996, n. 206
150
Vito Antonio Leuzzi
tura medica degli anni quaranta. In uno stu­
dio di Cornelio Bellesini, della clinica del la­
voro Luigi Devoto di Milano, relativo ai casi
di contaminazione rilevati in alcuni stabilimenti dell’area milanese (probabilmente
l’Acna di Rho) dove si produceva iprite sin
dalla metà degli anni trenta si legge:
Gli operai esposti al rischio specifico di tale lavoro
non solo possono subire gravi infortuni, ma anda­
re incontro a patimenti subdoli, progressivi di or­
dine cronico, che richiedono da parte del medico
una pronta diagnosi e un pronto intervento tera­
peutico e profilattico. Non trascurabile è pure il
disagio fisico derivante specialmente dalla fase fi­
nale del ciclo di produzione di aggressivi chimici
[...] Più volte, negli operai ebbi a riscontrare lesioni
alle mani ed ai piedi, a causa degli abiti mal messi,
come pure alle braccia perché le maniche non era­
no congiunte bene ai guanti ed altrove, perché gli
abiti erano stati sporcati con i guanti umidi di ag­
gressivo. Infortuni avvengono pure durante il la­
voro di pulizia, di riparazione e di riempimento
di apparecchi diversi; ciò obbliga al costante uso
di maschere e di guanti. Notevole è poi il fatto
che la sensibilità al tossico varia da individuo ad
individuo e tra questi sono in genere i soggetti
biondi, i quali per particolare labilità costituziona­
le dei loro tessuti presentano una sensibilità al tos­
sico di grado molto elevato. Altri soggetti ipritati
una prima volta dimostrano in seguito di aver ac­
quisito una ipersensibilità, manifestando improv­
visamente segni di orticaria e di prurito intenso,
diffuso a tutto il corpo, appena essi entrano nel re­
parto di lavoro3.
I risultati delle ricerche di Bellesini trovarono
conferma negli studi condotti da alcuni medi­
ci del lavoro, che lavoravano nella stessa cli­
nica milanese, su alcuni “casi postumi di in­
tossicazione di iprite” . In un articolo del
1957 che riportava le conclusioni dell’osser­
vazione di sette casi di intossicazione in ope­
rai che avevano lavorato per un periodo di
tempo variabile, da alcuni mesi a cinque an­
ni, in uno stabilimento chimico in cui veniva
prodotta iprite si legge:
La produzione industriale della iprite espone in­
fatti gli operai ad un notevole rischio di intossica­
zione, nonostante l’attuazione dei più rigorosi
provvedimenti tecnici ed igienici4.
Si trattava probabilmente della stessa fabbri­
ca (indicata nell’articolo solo con le iniziali
MR) in cui Bellesini aveva condotto alcuni
anni prima la sua indagine; uno degli operai,
infatti, era stato ricoverato nell’Ospedale ci­
vile di Rho, prima di essere trasferimento nel­
la clinica Devoto. I medici del lavoro denun­
ciavano l’estrema nocività e pericolosità del­
l’intero ciclo produttivo:
Tutti gli operai provenivano da uno stabilimento
nel quale fu prodotta iprite nel periodo 19351943. L’iprite veniva ottenuta facendo reagire in
adatte proporzioni etilene con cloruro di zolfo, il
prodotto della reazione (iprite tecnica) contenente
come impurità zolfo e polisolfuri, veniva purifica­
ta mediante distillazione. Tra gli ambienti dove si
svolgeva il ciclo di produzione, il reparto più in­
quinato era la distilleria, dove più che altrove la
concentrazione di iprite nell’aria si innalzava per
fughe dagli impianti, per qualche spruzzo ed anche
in modo notevole durante la bonifica del pavimen­
to con cloruro di calce che si attuava allorché l’i­
prite liquida si rovesciava al suolo. Un primo ri­
schio era anche nelle opere di manutenzione e di
pulizia degli impianti, per la inevitabile fuga di va­
pori e spruzzi di liquido. Infine l’azione corrosiva
dell’iprite sugli impianti e la sua persistenza sulle
pareti, sul pavimento e su ogni parte dell’attrezza­
tura determinava a distanza di tempo delle even­
tuali perdite, un continuo rischio di intossicazione
sia per inalazione di vapori tossici sia per contatto
con la sostanza liquida[...]. Per quanto istruiti sui
pericoli della lavorazione e dotati di completo
equipaggiamento di protezione, gli operai andava­
3 Cfr. Cornelio Bellesini, Rischio professionale, patologia e assistenza dei lavoratori addetti alla produzione di aggressivi
chimici, “La medicina del lavoro”, 1943, n. 104, pp. 107-108.
4 Cfr. E. Sartorelli, M. Giubileo, E. Bartali, Contributo allo studio della bronchite cronica asmatiforme con enfisema pol­
monare quale postumo di intossicazione professionale di iprite, “ La medicina del lavoro” , 1957, n.5, pp. 338.
Aggressivi chimici e guerra
no incontro inevitabilmente e frequentemente a le­
sioni di iprite, o liquida o sotto forma di vapori in
concentrazioni più o meno elevate. Parecchi furo­
no i casi di lesioni cutanee causate dai vapori o da
spruzzi liquidi, e si verificarono anche sporadici
episodi di inalazione di vapori in forti concentra­
zioni5.
Sulla base dei casi clinici osservati i medici
della clinica Devoto affermavano:
La gravità delle lesioni croniche bronchiali e pol­
monari presenti negli operai esaminati è un ulte­
riore documento della pericolosità delle intossica­
zioni acute anche da inalazione lievi di vapori di
iprite; in tutti i soggetti infatti si è avuta la com­
parsa di postumi a carico dell’apparato respiratorio a decorso progressivo e invalidante6.
Alla luce dunque dei dati conoscitivi che
emergono dalla lettura delle osservazioni
scientifiche dei medici del lavoro, la catastro­
fe ambientale pugliese del secondo dopoguer­
ra trova una più ampia e plausibile spiegazio­
ne. In Puglia si svolsero i preparativi di una
guerra chimica mai dichiarata, ma organizza­
ta da tutti gli eserciti in campo. Alla fine del
1941 venne ultimato a Foggia la costruzione
dell’impianto chimico dottor Saronio, collo­
cato nei pressi della cartiera, che produceva
iprite e fosgene per le necessità degli eserciti
dell’Asse. La distruzione della fabbrica alla
fine del settembre 1943 da parte dei tedeschi
in ritirata fu all’origine di una estesa conta­
minazione dei resti dell’edificio e dell’area
151
circostante. In un im portante documento
trovato da Alessandro Massignani (cfr. do­
cumento n. 1), si fa riferimento all’azione bel­
lica che provocò la contaminazione7. L’area
occupata dal sito bellico, dopo cinque anni
dalla distruzione, risultava, come si legge nel­
la nota informativa del 18 giugno 1948 invia­
ta dal ministero della Difesa al prefetto di
Foggia, non ancora bonificata89.
Pochi mesi dopo la distruzione della fab­
brica, il 2 dicembre 1943, a Bari il bombar­
damento tedesco del porto provocò l’affon­
damento di un intero convoglio alleato che
trasportava armi e tra queste i pericolosi ag­
gressivi chimici. Fu questo l’unico caso di
morte chimica in Italia. Il 9 aprile 1945 si ve­
rificò poi un altro grave incidente: l’esplosio­
ne della Charles Handerson, un piroscafo
americano che trasportava un ingente carico
di bombe tra cui probabilmente i pericolosi
gas9.
La fine della guerra e gli inizi delle lunghe e
complesse operazioni di bonifica non solo del
porto di Bari, ma anche di quelli del Basso
Adriatico da Molfetta a Manfredonia, dove
tedeschi prima ed angloamericani dopo, ave­
vano riversato cospicui quantitativi di mate­
riale bellico pericoloso, sono responsabili,
come cercheremo di spiegare, di altri e mas­
sicci fenomeni di contaminazione (cfr. docu­
mento n. 3).10 Bisogna poi considerare altre
situazioni di inquinamento chimico provoca­
te dalle operazioni di svuotamento dei ma­
gazzini dei gas.
5 E. Sartorelli, M. Giubileo, E. Bartali, Contributo allo studio della bronchite cronica asmatiforme con enfisema polmo­
nare quale postumo di intossicazione professionale di iprite, cit., pp. 338-339.
6 E. Sartorelli, M. Giubileo, E. Bartali, Contributo allo studio della bronchite cronica asmatiforme, cit., p. 345.
7 Alessandro Massignani, Il Terzo Reich e l ’apporto bellico dell’Italia dopo l ’8 settembre 1943, “ Rivista di storia contem­
poranea”, 1993, n. 2-3, p. 251, n. 18. Il documento è conservato in National Archives and Record Service, Washington,
T77/577/1756530-541.
8 Cfr. Ministero della Difesa a prefetto, 18 giugno 1948, in Archivio di Stato di Foggia, Prefettura, Ufficio di Gabinet­
to, B. 41.
9 Per una ricostruzione dell’incursione aerea tedesca del 2 dicembre, cfr. Glenn B. Infield, Disastro a Bari, Adda, Bari,
1977 (ed. orig. New York, 1971); Paolo Ferrari, Vito Antonio Leuzzi, Il bombardamento tedesco su Bari, “ Storia mili­
tare”, 1994, n. 14; e di chi scrive, Il "disastro di Bari". Armi chimiche e seconda guerra mondiale, “Italia contempora­
nea”, 1994, n. 194, pp. 158-162.
10 Cfr. V. A. Leuzzi, Guerra e contaminazione chimica in Puglia, “Italia contemporanea”, 994, pp. 807-811.
152
Vito Antonio Leuzzi
Si deve alla letteratura medica la regi­
strazione dei primi casi di contaminazione
in Puglia nel secondo dopoguerra. Uno
studio del dottor Adamo M astrorilli, che
prestava servizio nel 1946 presso l’Ospeda­
le Civile di M olfetta, conta 102 soggetti
colpiti accidentalmente dall’iprite e curati
dal 1946 al 1954. L’incidente più grave si
verificò nell’estate del 1946: l’intero equi­
paggio di un peschereccio, che aveva cari­
cato a bordo un contenitore, fu colpito da­
gli effetti letali del gas. Nello studio di Mastronilli si legge:
Inizialmente non fu possibile capire quale fosse
stata la causa di tale ustione collettiva, successiva­
mente però dal comando alleato, all’uopo interes­
sato, si seppe che trattavasi di ustione da “mustard
gas” gettato in bombole con altri residuati bellici
lungo le coste del basso Adriatico alla fine della
guerra. Nei primi 16 giorni di ricovero decedettero
5 soggetti più gravemente ustionati per sopravve­
nuta gravissima broncopolmonite massiva ribelle
ad ogni terapia11.
Dallo studio di Mastrorilli risulta che gli in­
fortuni marittimi, pari a 73 casi, furono i
più numerosi. Si contano poi 22 casi di ustio­
ne di operai che prestavano la loro opera
presso un cantiere per il recupero dei residua­
ti bellici; 4 casi per “recupero di frodo” ; 3 ca­
si accidentali verificatisi su una spiaggia, uno
dei quali riguardava un bambino di 5 anni12.
Qualche tempo dopo il dottor Nicola
Mongelli Sciannameo descrive, in un suo la­
voro, un infortunio collettivo occorso a sei
marittimi impegnati nelle operazioni di pesca
a largo di Manfredonia nell’estate del 1959.
In conclusione esprimeva queste preoccupate
considerazioni:
Non è improbabile che accidenti analoghi possano
ancora verificarsi tra la gente di mare: è pertanto
necessario che adeguate misure di propaganda e
prevenzione vengano opportunamente diffuse ed
adottate onde riuscire anzitutto a far conoscere il
periodo poi a prevenire i danni diretti e le compli­
cazioni e a contenerli quanto più possibile13.
Altri casi di “ intossicazione professionale”
da iprite furono segnalati in un’area diversa
da quella pugliese14. Gli studi sui casi di con­
taminazione in Puglia non proseguirono ol­
tre gli anni sessanta; una ripresa si sarebbe
avuta trent’anni dopo, in seguito al verificar­
si di frequenti incidenti ai danni di marittimi
di Molfetta.
All’indagine medica sono sfuggiti, comun­
que, molti casi di ustione chimica, tra la fine
degli anni quaranta ed i primi anni cinquan­
ta, conseguenti alle operazioni di bonifica dei
porti del Basso Adriatico, in particolare quel­
lo del capoluogo pugliese, e dei depositi a ter­
ra nell’area barese. Durante le operazioni di
svuotamento e recupero dell’ingente materia­
le bellico contenuto negli scafi americani af­
fondati nel porto di Bari, negli altri porti pu­
gliesi e nei depositi (cfr. documento n. 4) si
verificarono fenomeni di contaminazione
non solo di tutti gli operatori del nucleo smi­
namento porti che operava nel Basso Adria­
tico, ma anche di un gran numero di operai
che prestavano la loro opera alle dipendenze
di alcune ditte private.
In uno dei primi rapporti sull’andamento
dei lavori di sminamento e bonifica si legge:
L’avanzata dell’esplorazione fortemente rallenta­
ta dalla visibilità [...] necessita di procedere con
la massima cautela, a causa della presenza di iprite
sul fondo: tutti gli operatori hanno riportato
Cfr. Adamo Mastrolilli, Esiti a distanza di lesioni da vescicatori, “Giornale di medicina militare” , 1958, n. 4, p. 356.
12 A. Mastrolilli, Esiti a distanza di lesioni da vescicatori, cit., p. 356.
13 Nicola Mongelli Sciannameo, Infortunio collettivo da solfuro di etile biclorurato in un gruppo di pescatori, “ Rassegna
di medicina industriale e di igiene del lavoro”, 1960, p. 446.
14 In particolare vennero descritte le conseguenze della contaminazione in sette operai addetti al recupero di proiettili
chimici nell'area veneta. Cfr. E. Gaffurri, A. Felisi, Patologia polmonare cronica professionale da iprite, “ Medicina del
lavoro”, 1957, n. 10.
Aggressivi chimici e guerra
ustioni da iprite alle mani ai polsi ed al collo, for­
tunatamente non gravi, grazie alla predetta caute­
la ed alla pronta bonifica antipritica opportuna­
mente studiata e realizzata15.
Sembra peraltro evidente che i responsabili
delle operazioni di bonifica volessero evitare
il ricorso alle strutture sanitarie pubbliche.
Una scelta ribadita anche nel caso di inciden­
ti di una certa entità: per esempio nell’ottobre
1947 (cfr. documento n. 2) a Barletta uno de­
gli operatori rimase ferito e nella relazione
sull’incidente, dopo una descrizione dei sin­
tomi, si affermava: “ Le necessarie cure, che
in media durano 30 giorni, sono state prati­
cate presso questo Nucleo direttamente dal­
l’esperto chimico dell’esercito” 16.
La pericolosità dell’aggressivo chimico è
costantemente evidenziata dagli esperti mili­
tari che si trovano a dover affrontare sempre
nuovi problemi per i frequenti infortuni de­
nunciati dai palombari. In una relazione del
giugno 1951 si legge:
Contrariamente a quanto accaduto al palombaro
S., di cui alla precedente relazione, il palombaro
S. A. non è andato incontro ad alcuna rottura di
guanti. Pertanto si è portati a considerare che le
usuali protezioni alle mani sin’ora adottate duran­
te le immersioni nelle altre zone di lavoro e che ri­
spondono a quelle sancite dalle norme ufficiali,
non offrono più le condizioni di sicurezza, sin
qui richieste17.
Gli inevitabili incidenti conseguenti all’azio­
ne di bonifica si estendono non solo ai com­
ponenti del nucleo sminamento porti o agli
operai portuali delle ditte appaltatoci, ma
anche alla popolazione civile. In un rapporto
153
dell’agosto 1947 dei responsabili della bonifi­
ca portuale si afferma:
Sarebbe opportuno che l’organizzazione antipriti­
ca già perfettamente attrezzata con le squadre di
bonifica composte da civili, disponesse di un pro­
prio automezzo per i continui frequenti umanitari
interventi in zone infette e fuori sede dei normali
porti in cui sono in corso lavori di sminamento18.
Nel capoluogo pugliese nel marzo del 1951
“ numerosi cittadini” riportarono ustioni
per aver raccolto del legname impregnato di
iprite proveniente da una delle navi affondate
nel 1943 (cfr. documenti n. 5 e 6). Tutti i col­
piti vennero curati senza ricorrere né ad am­
bulatori né ad ospedali pubblici19.
La pericolosità della situazione delle aree
portuali coinvolte nelle operazioni di bonifi­
ca, da Manfredonia a Siponto, Zapponeta e
Margherita di Savoia nella provincia di Fog­
gia e da Barletta a Trani, Bisceglie e Molfetta
in provincia di Bari, emerge dalla lettura dei
rapporti del nucleo sminamento porti; quella
del capoluogo pugliese, che appare la più cri­
tica, si rileva anche dai gravissimi incidenti,
talvolta mortali, capitati a individui che ten­
tano furtivamente di recuperare dal fondo
del mare residui di ferro o ad operai impe­
gnati in altri lavori nell’area portuale (diversi
da quelli di bonifica)20.
Non è possibile tuttavia per gli incidenti
mortali rilevare una diretta connessione con
la presenza dei contenitori di iprite dissemi­
nati nell’area portuale barese. Si è riusciti a
documentare, grazie alla ricerca avviata nel
1993 dall’Istituto di medicina del lavoro di­
retto dal professor Giorgio Assennato del-
15 Rapporto sull’andamento dei lavori di sminamento e di bonifica, in Archivio di Stato di Bari (d’ora in poi AS Bari)
Genio Civile, Opere Marittime, B. 641. Si tratta del documento n. 2 di seguito riprodotto.
16 Rapporto sull’andamento
dei
lavoridi sminamento e
di
bonifica, loc.
cit.
a nota 15.
17 Rapporto sull’andamento
dei
lavoridi sminamento e
di
bonifica, loc.
cit.
a nota15.
18 Rapporto sull’andamento
dei
lavoridi sminamento é
di
bonifica, loc.
cit.
a nota15.
19 Prefetto a Ministero dell’interno, Bari 22 marzo 1951, in AS Bari, Prefettura, Gabinetto III versamento B. 240. Si
tratta del doc. 5 riprodotto in appendice.
Rapporto sull’andamento dei lavori di bonifica, loc. cit. a nota 15.
154
Vito Antonio Leuzzi
l’Università di Bari in collaborazione con
l’Istituto pugliese per la storia dell’antifasci­
smo e dell’Italia contemporanea, altri 121
casi di contaminazione, avvenuti tra il 1955
e il 1980, tra i marittimi di Molfetta. Si trat­
ta di denunce di infortuni presentate dai pe­
scatori, entro 48 ore dall’incidente, alla Cas­
sa marittima della città pugliese che racco­
glie il più alto numero di addetti alla pesca
del Basso Adriatico. Dal 1980 le denunce ve­
nivano presentate solo nell’eventualità che
l’incidente comportasse il ricovero in ospe­
dale. È dunque evidente che dal 1980 gli in­
cidenti di modesta entità venivano risolti
ambulatoriamente. In ogni caso nel 1990,
nel 1994 e nel luglio 1996 le strutture ospe­
daliere di Bari e Molfetta registrano altri ca­
si di contaminazione da iprite tra i pescatori.
Per l’incidente del 1990, che coinvolse l’inte­
ro equipaggio di un piccolo peschereccio, è
disponibile uno studio della Clinica derma­
tologica dell’Università di Bari nel quale si
legge:
Oltre ai cinque casi da noi osservati, presso la Ca­
pitaneria di porto di Molfetta risultano denuncia­
ti, nell’arco di dieci anni, altri 94 casi di pescatori
con ustioni di varia intensità da gas mostarda, tut­
ti con più o meno identiche manifestazioni cutanee
e alle congiuntive21.
La frequenza dei casi di contaminazione, al­
cuni anche molto seri, sino a tutti gli anni ot­
tanta e novanta pone interrogativi inquietan­
ti sull’entità della contaminazione del Basso
Adriatico ed in particolare dell’area barese.
La gravità della situazione dal punto di vi­
sta ambientale è sottolineata in una relazione
del 1993 del Laboratorio di biologia marina
di Bari al ministero della Marina mercantile
nella quale si afferma:
L’area di ricerca del Basso Adriatico si estende lun­
go la costa pugliese fra la perpendicolare alla testa
del Gargano e quella al Capo d ’Otranto, al largo
il limite è rappresentato dalla batimetrica dei 700
m. La superficie complessiva di tale aerea ha una
estensione di 4536,6 miglia nautiche quadrate, pari
a 15.560 Kmq, di cui circa 3/4 è rappresentata da
fondo strascicabile. La restante parte non è utilizza­
bile a causa della natura rocciosa del substrato o
della presenza di residuati bellici (a volte pericolosi,
come nel caso di contenitori di iprite)22.
Vito Antonio Leuzzi
Documento n. 1
OKH/chef H Rust u BdE [Oberkommando des
Heeres/Chef der Heeresrüstung und Befehlshaber
des Ersatzheeres = Comando supremo dell’esercito/capo degli armamenti e dell’esercito di riserva]
N. 69/43 del 2 ottobre 1943
Rapporto della commissione speciale del WaA
[Waffenamt = Ufficio armamenti] per aggressivi
chimici in Italia sulla ricognizione dei luoghi di
fabbricazione ed immagazzinaggio.
1) partecipanti : Oberregierungs-Baurat [consi­
gliere di prima classe alle costruzioni] Dr. Ehmann
W alRü Mun 3 [Amtsgruppe für industrielle Rü­
stung = gruppo uffici per l’armamento industriale
Monaco 3]
Oberregierungs-Baurat Dr v.d.Linde Wa Prüf 9
[Waffernamt Amtsgruppe Entwicklung und Prüf­
wesen = gruppo uffici dell’ufficio armamenti eser­
cito per prove e sviluppo]
Regierungs-Baurat [consigliere di seconda clas­
se alle costruzioni] Dr. Jacob Wa Prüf 9
[...]
4) Risultati:
a) impianti di aggressivi chimici dell’Industria
Chimica Dott. Saronio per iprite e difosgene, co­
struita tra il 1940 e il 1942. Produzione circa 200
t al mese di iprite e (stimata) 100 t al mese di disfogene.
21 Cfr. G Angelini, G.A. Vena, C. Foti, R. Filotico, M. Grandolfo, Dermatite da contatto con gas iprite, “ Bollettino di
dermatologia allerg o lo g i e professionale”, 1990, n. 1, pp. 71-74.
22 Unità operativa numero 9, Laboratorio di biologia marina Bari, Valutazione delle risorse demersali nell'Adriatico me­
ridionale dal Promontorio del Gargano al Capo d ’Otranto, relazione finale triennio 1990-1993, in Archivio laboratorio di
biologia marina di Bari.
Aggressivi chimici e guerra
L’iprite viene prodotta dal processo di clorazio­
ne dello zolfo e l’ottenuta D-iprite depurata per distillazione. I prodotti di partenza vennero prodotti
in loco (etilene ed alcool, cloruro di zolfo e zolfo e
cloro. Il cloro venne trasportato dalla vicina fab­
brica di cellulosa. Questi impianti di clorazione
vennero fatti saltare già il 22.9.43 da un incaricato
del Sonderstab [comando speciale] del M inistro
del Reich per il Ruk [Rüstungs und Kriegsproduk­
tion = Armamenti e produzione bellica]).
Il disfogene è stato fabbricato con la perclorazione del metilistere dell’acido formico che a sua
volta venne procurato in loco mediante esterifica­
zione dell’acido formico con il metanolo. Gli im­
pianti erano nuovi e messi presumibilmente solo
da poco in funzione. Scorte di aggressivi chimici
non erano disponibili né vi erano residui nelle ap­
parecchiature.
Gli impianti furono fatti saltare il 26.9.43 alle
11.00, dopo che alle truppe erano state distribuite
le istruzioni minuziose ed inoltre stabilito che con
le condizioni atmosferiche dominanti una eventua­
le nuvola che si fosse originata di aggressivo chimi­
co non potesse dirigersi verso le linee nemiche che si
trovavano a 10 Km. a sud. Dalla visita del luogo da
far saltare risultò che le 6 sale di produzione con le
apparecchiature che vi si trovavano erano praticamente del tutto distrutte. Dopo la riuscita demoli­
zione la zona venne contrassegnata da un cartello
di avviso con la scritta “Attenzione, pericolo di
morte!”, in maniera che il nemico non si facesse l’i­
dea di una zona di sbarramento chimica.
Sebbene le truppe avessero ricevuto l’ordine
dello sgombero da Foggia per la notte dal 25 al
26 settembre si poteva ottenere con urgente rap­
presentazione del caso al comandante del settore
che lo sganciamento fosse spostato di qualche
ora fino alla avvenuta demolizione.
[traduzione dal tedesco di
Alessandro Massignani]
Documento n. 2
Nucleo Sminamento Porti Puglie Bari
Bari 8 ottobre 1947
Il Capo Nucleo
Maggiore A.N.
[••■]
155
N.S.P. [Nucleo sminamento porti Bari] N° 66
alt lavori porto Barletta settimana dal 1°/10/47
al 7/10/47 alt Media cinque operatori più esperto
chimico Esercito alt esplorata zona antistante set­
tore 24 ampiezza metri quadrati 4800 alt Fascia
banchina tramontana et ponente Rimossi Rottami
alt rinvenute et rimosse et trasportate in punto
adatto 10 bombe ed aggressivi chimici alt Traspor­
tate in deposito Bari con automezzo 17 bombe at
iprite alt D urante trasporto nonostante rottura
tre bombe e conseguente perdita liquido nessun in­
cidente at persona et nessuna infestazione zone di
transito grazie opportuna e ben studiata attrezza­
tura [...]
Destinatario M aristat Roma, M aridipart Ta­
ranto M arina Brindisi M aricentrosub Taranto
Companare Bari Circomare Barletta et p.c. Genio
Civile Bari alt N.S.Bari 123008
Documento n. 3
Nucleo Sminamento Puglie
Bari
Data inizio delle operazioni 1° aprile 1949
Rapporto riassuntivo sulla condotta delle ope­
razioni
Gli ordigni e aggressivi chimici rimossi o affon­
dati sono bombe a yprite ricuperate in Bari dai set­
tori non ancora bonificati, nei quali le ricognizioni
continuano [...].
D urante le operazioni sugli ordigni tutti gli
operatori sono rimasti ustionati leggermente e
hanno riportato leggeri disturbi alle vie respirato­
rie.
A Palo del Colle è stata fatta una ricognizione
con il Capo sezione Autonoma Artiglieria mate­
riali difesa Chimica Roma, per esaminare la possi­
bilità del trasporto via terra e successivo affonda­
mento degli ordigni e aggressivi chimici rinvenuti.
Il giorno 20 un rappresentante americano della
Commissione alleata di Napoli è venuto in Bari
per accertamenti sul carico delle stive P/fo [piro­
scafo] n. 3.
L’inoltrarsi della buona stagione, l’elevata tem­
peratura e le giornate di calma piatta rendono
l’ambiente di lavoro particolarmente gravoso data
la forte concentrazione di vapori tossici che richie­
de l’uso della protezione totale. Pur continuando il
Vito Antonio Leuzzi
156
lavoro si rimane in attesa degli elettroventilatori,
già richiesti [...]
Il capo nucleo
Tenente di Vascello
Documento n. 4
Nucleo sminamento Puglie
Bari
Vale per Messaggio Postale N. 67
M aristat= Roma M aridipart = Taranto Mari­
na = Brindisi Maricentrosub = La Spezia Compa­
nare = Bari e per conoscenza Genio civile Bari
Bari, li 21 luglio 1949
Testo:
Decade dall’11 luglio al 20 luglio 1949
In media 8 operatori più esperto chimico E.I.
[Esercito italiano]
Continuano le ricognizioni nei settori non an­
cora bonificati.
Sono state rimosse ed affondate nel deposito
subacqueo
— 54 bombe ad yprite.
Sono stati rinvenuti e recuperati 148 proiettili
p.c. — 18 cassette di munizioni.
Sono stati ritirati i seguenti ordigni rinvenuti a
Palo Del Colle e trasportati nel deposito Y a terra:
— 546 bombette a yprite;
— 447 spezzoni a yprite,
— 16 granate perforanti
Sono state recuperate in banchina, verificate,
tamponate e sistemate nei cilindri del deposito Y
a terra:
— 51 bombe ad yprite.
Sono stati prelevati dai deposti a terra, imbar­
cati su mezzi navali, trasportati negli alti fondali
e affondati:
— 91 bombe ad yprite
— 546 bombette a yprite
— 447 spezzoni a yprite
— 148 proiettili p.c.
— 16 granate perforanti
— 18 cassette munizioni
[...]
Data la forte quantità di ordigni si è dovuto uti­
lizzare come deposito yprite anche il magazzino
materiali (non aerato).
Documento n. 5
Bari, 22 marzo 1951
Ministero Interno Gabinetto - Roma
Ministero Interno Sicurezza - Roma
Alto Commissariato Sanità - Roma
Ministero Marina Mercantile Gabinetto - Roma
n,1495-Gab. Stamane causa mareggiata sono
state portate a riva numerose tavole impregnate
iprite proveniente da piroscafo affondato questo
porto ultima guerra et in via di recupero alt
Dette tavole sono state raccolte da numerosi
cittadini che habent riportato leggere ustioni tossi­
co specie at mani alt
Est stato immediatamente provveduto at boni­
fica colpiti presso Ufficio Sanitario Militare Mari­
na et non si lamenta sinora alcun caso grave alt
At opera Autorità di polizia et mezzo apposite
squadre antipritiche est stato provveduto recupero
materiale alt
Si fa riserva inviare più dettagliato rapporto alt
Prefetto [...]
Documento n. 6
Bari li 4 aprile 1954
Nucleo Sminamento porti
Puglie
Rapporto di fine lavori
Relazione di fine lavori sulla bonifica del porto
di Bari
1) Per ordine di Marina Brindisi, in data 21/11/
1953 viene iniziato lo sgombero del deposito su­
bacqueo, del legname, residuato delle cassette con­
tenenti le bombe ad yprite, accatastatovi.
Detta operazione viene ultimata in 31 giornate
lavorative (ne erano state previste 30). Vengono
recuperate circa 70 tonnellate di legname ypritato
e 189 bombe ad yprite. G ran parte del legname
viene bruciato (circa 40 t.), il rimanente, non po­
tendo venire distrutto con il fuoco a causa dell’ec­
cessiva umidità, viene legato a fasci, appesantito
con massi ed affondato al largo di Bari, in zona
di alti fondali (1 aprile 1954).
La percentuale di sicurezza per la bonifica del
deposito subacqueo è del 95%.
La bonifica viene ultimata il 22 gennaio 1954.
Il Capo Nucleo
Tenente di Vascello
Tra fonti e ricerca
Servizi segreti alleati e Resistenza
Max Salvadori
a cura di Giorgio Vaccarino
Nel gennaio 1985 avevo ricevuto dalla genti­
lezza di Max Salvadori (Massimo Salvadori
Paleotti) un suo rapporto sul Soe (Special
Operations Executive), con il titolo Glossa in
margine alla seconda guerra mondiale: il Soe,
“quarta arma’’ spuntata, elaborato sulla base
di dati da lui raccolti in occasione della serie
televisiva della Bbc sul Soe e la Resistenza.
“Avendone fatto un articolo, che non so se
sarà pubblicato, ho pensato che forse gliene
interesserebbe una copia — generosamente
aggiungeva — per la sua fondamentale Storia
della Resistenza in Europa”. A quella data io
non ero ancora in condizione di valermene
in un’opera generale, e neppure in seguito fi­
no a oggi, per cui ritengo mio dovere, anche
per onorare la memoria di un uomo del valore
e dell’importanza storica di Max Salvadori, di
non privarne ulteriormente altri studiosi, che
intendessero utilizzare le sue preziose e detta­
gliate informazioni.
Pochi in realtà sono gli studi organici sul
Soe: in primo luogo quello di Frederick W.
Deakin, presentato al convegno su “ L’Italia
nella seconda guerra mondiale e nella Resi­
stenza” , dell’aprile 19851. Max Salvadori —
scrive Deakin — “ era stato, come Valiani,
avvicinato dal Soe in Messico e godeva di pa­
ri fiducia tra i gruppi antifascisti a lui familia­
ri, che erano emersi in Italia dopo il settem­
bre 1943 e che avevano lavorato assieme nel­
l’esilio durante il periodo tra le due guerre.
Dopo aver reso preziosi servizi al Soe nel
Sud, a Napoli e a Roma, Salvadori fu paraca­
dutato in veste di ufficiale britannico nell’Ita­
lia del Nord, tra Cuneo e Savona. Preso con­
tatto con il colonnello Stevens e con il Cln to­
rinese, egli raggiunse Milano ai primi di mar­
zo del 1945.1 suoi rapporti via radio rivesto­
no un’importanza particolare. Egli riuscì a
far accettare al Soe e ai suoi superiori militari
la propria convinzione, fondata su di un at­
tento esame della situazione in tutta la Lom­
bardia e in particolare a Milano, dove egli era
il solo vero rappresentante del Comando al­
leato, che un’insurrezione popolare era inevi­
tabile e che sarebbe stata lealmente controlla­
ta, dal Clnai. Il massiccio afflusso di volonta­
ri, verificatosi dopo il dicembre 1944, non la­
sciava altra scelta.
Nelle fasi conclusive, quando i conflitti in­
testini a Milano assunsero toni assai aspri, sia
Valiani che Salvadori esercitarono una fun­
zione moderatrice decisiva, con l’appoggio
di Pizzoni e di Parri. Alla fine era nato un co­
mando militare unificato”2.
L’attenzione dello studio di Deakin è so­
prattutto rivolta agli aspetti politici dell’atti-
1 Federick W. Deakin, Lo Special Operations Executive e la lotta partigiano, in Francesca Ferratini Tosi, Gaetano Gras­
si, Massimo Legnani (a cura di), L ’Italia nella seconda guerra mondiale e nella Resistenza , Milano, Angeli, 1988, pp. 93139.
F.W. Deakin, Lo Special Operations Executive, cit., pp. 124-125.
’Italia contemporanea”, marzo 1997, n. 206
Max Salvadori
158
vità del Soe, che dal febbraio 1942 era stato
sottoposto alla sovraintendenza del conser­
vatore Lord Wolmer Selborne, subentrato
in tale funzione al laburista Hugh Dalton,
ministro dell’Economia di guerra. Lord Sel­
borne aveva fatto avere il 24 ottobre 1944
al primo ministro Churchill un promemoria
dal titolo Maquis italiani, in cui riconosceva
l’estrema importanza del movimento, tanto
da allarmarsi per la riduzione del volume to­
tale del trasporto aereo per l’Italia e i Balca­
ni, da duemila a seicento tonnellate mensili,
di cui solo trecentoventi destinate all’Italia.
“ In quanto responsabile dell’appoggio alla
Resistenza — Selborne scriveva — ritengo
che a questo punto dovremmo dare la priori­
tà ai partigiani italiani in vista del loro diretto
contributo alle nostre operazioni militari”3.
Churchill annotava sulle sue carte: “ Conti­
nuo a pensare che sia della massima impor­
tanza mantenere i maquis italiani sul cam­
po”4. Tale opinione era condivisa da Mac­
millan, che il 15 settembre aveva segnalato
al Foreign Office: “ La Resistenza italiana
ha pagato e continua a pagare lauti dividen­
di. La linea del generale Wilson è di dare ai
patrioti italiani il massimo appoggio median­
te l’aviazione”5. Senonché il noto messaggio
Alexander del 13 novembre 1944 ai partigiani
italiani “ ordinava esattamente ciò che Sel­
borne aveva avversato: una sospensione delle
operazioni militari e un risparmio di muni­
zioni e materiali sino alla fine delfinverno” 6.
Piano questo che rientrava nel contesto di un
generale rinvio delle operazioni dell’offensiva
preparata dagli alleati per raggiungere la Val­
le Padana entro il dicembre 1944. A quanto
risulta — osserva Deakin — l’autore di que­
sto messaggio radio sarebbe stato un pastore
protestante che lavorava per la Sezione guer­
3
4
5
6
7
F.W.
F.W.
F.W.
F.W.
F.W.
Deakin,
Deakin,
Deakin,
Deakin,
Deakin,
Lo
Lo
Lo
Lo
Lo
Special
Special
Special
Special
Special
Operations Executive,
Operations Executive ,
Operations Executive,
Operations Executive,
Operations Executive,
cit.,
cit.,
cit.,
cit.,
cit.,
ra psicologica del Quartier generale alleato,
proprio nel momento in cui pareva assai giu­
sto avvisare i partigiani italiani (non si capi­
sce bene perché poi cosi platealmente per ra­
dio) in quanto preziosi ausiliari nelle opera­
zioni temporaneamente rinviate. L’episodio
è stato ampiamente criticato come un m ar­
chiano errore psicologico, subito seguito pe­
raltro da un aumento dei rifornimenti ai par­
tigiani, che nel novembre-dicembre 1944 rag­
giunsero nuovi livelli7.
Il rapporto di Max Salvadori verte, invece,
soprattutto sulla quantità e sulla qualità degli
interventi praticati dal Soe, integrando util­
mente le informazioni di Deakin, ma anche
gettando luce sui fondamentali orientamenti
del Soe circa la condotta politica in Italia. Co­
si l’attività da esso messa in atto nel giugno
1944 per la sostituzione del governo Badoglio
che, “come Darían per i francesi, costituiva
ora” — afferma Salvadori nel testo che pub­
blichiamo — “un ostacolo allo sviluppo della
resistenza armata italiana” , con un governo
espresso tutto dal Cln, avveniva proprio in
considerazione del fatto che il Cln aveva avu­
to nella Resistenza un ruolo di gran lunga su­
periore a quello dei badogliani.
Se i collegamenti con la Resistenza romana
furono tenuti soprattutto daH’americano Oss
(Office of Strategie Services), in Toscana fu
la Special Force, espressione del Soe, a consi­
derare il Cln come autentica autorità di go­
verno in territorio occupato, tanto da avviare
la delegazione del Clnai a prendere accordi
definitivi il 7 dicembre 1944 a Caserta e poi
a Roma col Comando alleato e con il gover­
no italiano, sulla base di un testo predisposto
originariamente dallo stesso Soe.
“Alla diffidenza iniziale nei confronti di
un movimento clandestino non controllabile
p. 115.
p. 116.
p. 116.
p. 116.
p. 117.
Servizi segreti alleati e Resistenza
dall’alto — osserva Elena Aga-Rossi — e di­
retto non da militari ma da civili e per lo più
fortemente politicizzati, si sostituì una sem­
pre maggiore disponibilità di fronte al con­
tributo che i partigiani potevano dare nella
guerra contro i tedeschi” 8. Diversamente
aveva ragionato Churchill nell’interpretazio­
ne di David W. Ellwood, e cioè che “un go­
verno come quello di Badoglio rappresenta­
va l’interlocutore perfetto, in grado di garan­
tire la continuità, non soltanto dello Stato e
dell’autorità costituzionale, ma anche delle
responsabilità del fascismo. Affidare il go­
verno del paese ai firmatari dell’armistizio
[per primo Badoglio], significava rafforzare
il concetto che la nazione, nel suo insieme,
aveva perso la guerra”9.
Nel testo di Max Salvadori che presentia­
mo, mettendo in evidenza la diversa politica
159
del Soe in sostegno del Cln contro la conti­
nuità badogliana, l’autore esprime il suo giu­
dizio di fronte agli schieramenti ideologici in­
terni, che continuarono a farsi sentire dopo la
fine del conflitto, creando serie difficoltà al­
l’adozione di una politica filo occidentale, ve­
ra idea ispiratrice e conduttrice di tutta la sua
azione. Osserva infatti che se lo scontrò ideo­
logico tra i militanti non compromise la col­
laborazione nel periodo bellico, esso si ravvi­
vò nel dopoguerra attraverso le difficoltà
“create dalla diffidenza scontrosa, e a volte
astiosa” , di esponenti di osservanza “stalini­
sta”, che ritenevano essere il “capitalismo” e
insieme r “imperialismo” — e cioè le demo­
crazie atlantiche — il nemico permanente, so­
pravvissuto alla lotta contro il nazifascismo.
Giorgio Vaccarino
Glossa in margine alla seconda guerra mondiale
Il Soe “ quarta arma” spuntata
Nell’ottobre del 1984 un amico mi scriveva: “l’o­
ra è arrivata per scrivere una storia dei servizi
speciali [segreti] inglese e americano nel tempo
della guerra [...] non sarà facile” . Risposi che di
servizi segreti alleati ne operarono diversi, e che,
se erano seri, la documentazione sarebbe stata
scarsa e in generale di poco rilievo, e se non erano
seri la documentazione sarebbe stata abbondante
e poco attendibile (avrei dovuto aggiungere che
una storia del genere andava inquadrata nell’in­
sieme di operazioni militari e di avvenimenti
non militari, e richiedeva in particolare la cono­
scenza di quanto facevano i servizi segreti dell’av­
versario).
Pubblicazioni italiane recenti rivelano una no­
tevole ignoranza nei riguardi non solo delle attivi­
tà dei servizi segreti alleati ma anche della loro na­
tura e delle loro funzioni. A partire dalla primave­
ra del 1943 e in vista degli sbarchi di luglio opera­
va, in Sicilia soprattutto, l’Oss americano, creato
da poco e composto di militari e civili. Operavano
pure tre servizi britannici completamente separati
e differenziati e composti solo di militari di cui il
primo da sempre, il secondo a partire dall’autun­
no e il terzo dall’estate. Il Sis (Secret Intelligence
Service), filiazione del MI 6, si occupava esclusi­
vamente di spionaggio, aveva la propria rete di ra­
dio clandestine e di contatti e, per ragioni di sicu-
Elena Aga-Rossi, La politica angloamericana verso la Resistenza italiana, in F. Ferratini Tosi, G. Grassi, M. Legnani
(a cura di), L ’Italia nella seconda guerra mondiale e nella Resistenza , cit., p. 154.
1 David W. Ellwood, L ’alleato nemico, Milano, Feltrinelli, 1977, p. 419.
160
Max Salvadori
rezza, non aveva niente a che fare con altri servi­
zi; l’A Force o MI 9, la cui funzione — sul mo­
dello di quanto era stato fatto in Grecia dopo il
disastro dell’aprile-maggio 1941 — era di far fug­
gire prigionieri di guerra (in Italia ne aiutò circa
10.000 a passare il fronte o a raggiungere la costa
dove venivano imbarcati) e che pure aveva la sua
rete; infine il Soe (Special Operations Executive,
conosciuto sotto vari nomi, in Italia come Number 1 Special Force), corpo autonomo volontario
delle forze armate britanniche, creato con lo sco­
po di aiutare la Resistenza operando clandestina­
mente in territorio occupato dal nemico e abitato
da popolazioni presumibilmente in gran parte
amiche. Nel settembre-ottobre 1984 il Soe è stato
il tema di una serie televisiva prodotta dalla Bbc.
Il 16 ottobre gli spettatori avevano visto l’episo­
dio dedicato all’Italia, “ splendido tributo agli
italiani ed allo sforzo del Soe” , mi scrisse, forse
esagerando, il giorno seguente da Londra un
amico.
Sul Soe in generale ci sono libri di Foot, Bevoor, Davidson ed altri. Vi è quanto scrissero nelle
loro memorie di guerra ufficiali che ne avevano
fatto parte, e quanto ne fu scritto, di solito fugace­
mente, in biografie, quale per esempio quella re­
cente di Tilman, conosciuto in G ran Bretagna
per aver scalato cime deH’Himalaia, il quale, rotta­
si una gamba nel discendere con il paracadute, fu
per parecchi mesi Blo (British Liaison Officer, uf­
ficiale britannico di collegamento) presso i parti­
giani garibaldini veneti1. Ma non esiste e non ci sa­
rà mai una storia completa per la semplice ragione
che era norma, quasi sempre rispettata, mettere
per scritto il meno possibile e distruggere il più
di quanto era stato scritto. Accenni alla Special
Force, a volte senza rendersi conto che si trattava
di quella organizzazione, si trovano nella memo­
rialistica del tempo di guerra; con abbondanza di
errori ne è stato scritto in storie serie e meno serie
della Resistenza; oltre alle distorsioni dovute a
schemi ideologici, per ragioni ovvie, la reticenza
è stata regola.
Il segreto era dettato dal fatto elementare che
operando il Soe in territorio nemico occorreva
prendere precauzioni — che a molti sembravano
eccessive e che mai lo erano — per evitare che ar­
rivasse al nemico notizia di quanto si veniva pre­
parando (lancio di armi e altro materiale, invio di
missioni) o che veniva progettato (demolizione di
un ponte, costruzione di una pista di atterraggio,
attacco ad un treno). L’Abwehr e la Sd — menzio­
nate da storici della Resistenza quasi esclusivamente per la funzione di torturatori e di carnefici
— erano organizzazioni serie, anzi serissime (ne
seppero qualcosa britannici ed olandesi puntual­
mente catturati appena arrivati nei Paesi Bassi e
che fecero la fine che in tempo di guerra fanno
gli irregolari ed in particolare i com battenti in
borghese). Il segreto però faceva e fa lavorare
Fimmaginazione: da allora molti hanno fantasti­
cato di piani machiavellici della “ perfida Albio­
ne” e dello sciocco zio Sam, di “manovre tenebro­
se della reazione in agguato” , frase allora di moda
(“gli alleati [...] vogliono far massacrare i patrio­
ti” era “ sentimento diffuso nella maggioranza
del movimento partigiano” , come scrive AgaRossi citando Spriano). Molti, chi intenzional­
mente e chi no, hanno scambiato posizioni e vel­
leità personali per decisioni prese da chissà quale
vertice politico e militare che aveva ben altre pre­
occupazioni: la voce del padrone di marca totali­
taria non funzionò mai fra ufficiali e truppa allea­
ti, ognuno sbizzarrendosi a dire la sua senza bada­
re a direttive che di solito non c’erano. Andrebbe­
ro fatti dei confronti: oltre agli americani, anche
francesi, sovietici e tedeschi avevano servizi ana­
loghi al Soe, di solito di minor rilievo ed aggregati
ai servizi di informazione.
Progettato embrionalmente nel 1938, il Soe
venne strutturato a partire dal luglio 1940. Duran­
te il periodo di massima attività (1944) erano in
forza complessivamente quasi 10.000 uomini ed
oltre 3.000 donne. Dato il tipo di attività, la pro­
porzione di ufficiali era elevata, circa 2.800 alla fi­
ne del 1944. Nel Regno Unito vi erano il comando,
i campi di addestramento (alcuni usati unitamente
ai commandos), e le basi per operazioni al di là del
Mare del Nord e della Manica. Operazioni nei
Balcani e nel Vicino Oriente avevano come base
1 Basil Davidson, Special Operations Europe. Scenes from the anti-nazi war, London, Victor Gollancz ltd, 1980 (trad,
italiana di Antonio Bronda, Milano, Rizzoli, 1981); Id., Partisan picture, Bedford, Gordon Fraser, 1946; Michael Foot,
Resistance in France, London, Hmso, 1966; Harold William Tilman, When Men and Mountain Meet, Cambridge, Cam­
bridge University Press, 1946.
Servizi segreti alleati e Resistenza
una sezione del Soe al Cairo. Nel dicembre 1943
venne organizzato il Som (Special Operations Me­
diterranean) per operazioni nell’Europa meridio­
nale. Operazioni nell’Asia sud-orientale occupata
dai giapponesi ebbero la loro base a Ceylon (Sri
Lanka).
Effettuate da gruppi di minuscola consistenza
numerica, le operazioni del Soe andavano dal sa­
botaggio spicciolo di depositi militari, vie e mezzi
di comunicazione, impianti industriali e altro, alla
sovversione — oggi si direbbe destabilizzazione —
su scala nazionale mediante il potenziamento di
movimenti di resistenza.
La creazione e l’attività del Soe furono condi­
zionate dalla situazione e dalle convinzioni dei po­
chi che presero l’iniziativa della sua istituzione e
divennero i suoi primi organizzatori. Ripetendo
cose conosciute, giova ricordare che nel 1938 la
quasi totalità dei cittadini del Regno Unito e degli
altri Stati indipendenti del Commonwealth — Au­
stralia, Canada, Eire (o Irlanda del Sud, in corso
di disassociazione), Nuova Zelanda, Unione sud­
africana — erano contrari alla guerra. Memori
del bagno di sangue del 1914-1918, erano pacifisti
nel Regno Unito i conservatori (salvo pochissimi,
in pratica Churchill ed alcuni suoi amici), i laburi­
sti (salvo nessuno), i liberali; negli altri Stati del
Commonwealth erano pacifisti gli oriundi britan­
nici, ed era contraria ad una guerra, contro il
Reich in particolare, la maggioranza dei cittadini
non anglosassoni (afrikaners, franco-canadesi, ir­
landesi cattolici), spesso filonazisti; era contraria
ad una guerra contro il Tripartito la quasi totalità
degli abitanti politicizzati delle colonie, protettorati e mandati britannici. Il livello di preparazione
militare era basso nel Regno Unito e quasi nullo
negli altri Stati del Commonwealth. Come indice
bastano due cifre: fra marina, esercito ed aviazio­
ne erano in servizio attivo nel Regno Unito poco
più di 40.000 uomini e negli altri Stati del Com­
monwealth circa 33.000. In termini numerici, il
rapporto di forza fra Terzo Reich e Regno Unito
era all’incirca dell'ordine di tre ad uno.
L’autonomia favorita dalla tradizione e dalla
struttura istituzionale, che presentava una flessi­
bilità burocratica maggiore che in altri paesi, la­
sciava spazio ad iniziative personali; dissentendo
dall’opinione pubblica e dalla posizione del parla­
mento e del governo, alcuni funzionari di alto li­
vello del ministero degli Esteri e di quello della
161
Guerra, d’accordo con poche personalità politi­
che, ritenevano che il dinamismo nazista, lungi
dall’appagarsi di concessioni (la politica delfappeasement) avrebbe prima o poi costretto i britan­
nici a scegliere fra ulteriori concessioni equivalen­
ti ad una resa ed un confronto che poteva sfociare
in un conflitto armato. Si sa che venne discusso a
livello ministeriale, e bocciato in pieno, il memo­
riale del 1937 di sir Laurence Collier del Foreign
Office, nel quale affermava che concessioni ad
Hitler e a Mussolini avrebbero avuto effetto con­
troproducente.
Nell’eventualità che nazione, parlamento e go­
verno scegliessero ad un certo momento il con­
fronto (come effettivamente avvenne a partire dal­
la crisi provocata dall’occupazione di Praga) oc­
correva compensare [’inferiorità militare con l’im­
piego di mezzi diversi da quelli convenzionali. Da
qui la creazione dal 1938, quasi in sordina e su sca­
la assai modesta, di organismi la cui funzione era
la pianificazione di attività operative clandestine:
la Sezione D al ministero degli Esteri ed il
GS(R), più tardi MI R, a quello della Guerra.
Da qui anche contatti con esuli tedeschi in primo
luogo, e poi italiani ed austriaci.
Col succedersi delle crisi internazionali del
1938-1939, diventava evidente a quei dirigenti bri­
tannici, che sempre più numerosi rifiutavano l’al­
ternativa delle concessioni, che i francesi — i quali
troppo avevano sofferto nel 1914-1918 — non sa­
rebbero andati oltre un’azione difensiva (nessuno
però si aspettava il tracollo del maggio-giugno
1940); che gli Stati cosiddetti successori (Polonia,
Piccola Intesa) non potevano nel migliore dei casi
offrire più di una resistenza di breve durata; che
modesto sarebbe stato inizialmente il contributo
militare del Commonwealth e che l’Impero era
un mito tanto sotto il profilo militare che sotto l’a­
spetto economico; che non vi era da fare assegna­
mento né sugli Stati Uniti (in preda all'isolazioni­
smo malgrado Roosevelt) né sull’Unione Sovieti­
ca, i cui dirigenti erano ossessionati dall’odio per
il “ capitalismo” identificato soprattutto con la
Gran Bretagna. Per un periodo del quale era im­
possibile prevedere la durata, la guerra sarebbe
stata un duello fra 80 milioni di tedeschi satanica­
mente entusiasti, quelli del Reich ottimamente ar­
mati ed addestrati, sostenuti da un’economia flori­
da ed efficiente, rafforzati da alleati, clienti e quin­
te colonne influenti, e 60 milioni di britannici ed
162
Max Salvadori
oriundi britannici del Commonwealth, scarsamen­
te armati, dotati nel Regno Unito di strutture eco­
nomiche antiquate, privi di validi appoggi esterni.
Fra i britannici era vivo il ricordo della guerra
boera, quando poche diecine di migliaia di irrego­
lari tennero testa a truppe regolari dieci volte più
numerose, e del successo dei guerriglieri in Arabia
nel 1916-1918 ed in Irlanda nel 1919-1921: era na­
turale pensare a qualcosa di analogo per resistere
durante gli anni necessari a trovare alleati e a crea­
re una forza militare capace di affrontare da pari a
pari il Reich hitleriano.
Il 20 marzo 1939 i dirigenti della Sezione D e
del MI R presentarono al capo di stato maggiore
un memoriale che suggeriva la creazione di un
corpo specializzato, per operazioni clandestine
in Stati danubiani particolarmente esposti a pres­
sioni tedesche. Vennero autorizzati lo studio del­
la “procedura per eventuali azioni di guerriglia”
e, sul piano pratico, la fabbricazione di materiale
utile a sabotaggio e guerriglia. Vennero appron­
tati alcuni manuali il cui autore, generale Colin
Gubbins, divenne nel 1943 comandante del Soe:
L ’arte della guerriglia, Manuale del partigiano,
L ’uso di esplosivi. L’arrivo a Londra nel marzo
1939 di personale dei servizi segreti cecoslovacchi
facilitò più tardi operazioni del Soe nel protettorato di Boemia e Moravia (ad esempio 12 missio­
ni vennero inviate neH’invemo 1941-1942), sospe­
se dopo l’eccidio di Lidice, e portò al tentativo di
operazioni in Slovacchia, conclusosi con l’ucci­
sione dei partecipanti. La Sezione D inviò perso­
nale in Ungheria, Romania e Jugoslavia. Ufficiali
britannici, recatisi a Varsavia nell’agosto 1939,
lasciarono radio trasmittenti e cifrari a personale
dei servizi segreti polacchi: il collegamento fra
Londra e la Resistenza polacca funzionò sino alla
fine dell’insurrezione di Varsavia (2 ottobre
1944). Nell’aprile-giugno 1940 compagnie “auto­
nome” di sabotatori cooperarono con unità del­
l’esercito norvegese. Contatti con la Francia oc­
cupata vennero mantenuti tramite le dieci radio
trasm ittenti affidate nel maggio-giugno 1940 a
personale dei servizi segreti francesi.
Il 25 maggio 1940, quando si profilava la possi­
bilità che Regno Unito e Commonwealth rimanes­
sero soli contro il Reich hitleriano, validamente
appoggiato in tutti i continenti dal nazifascismo
diventato movimento mondiale, il comando su­
premo britannico chiedeva al governo l’autorizza­
zione ad organizzare azioni clandestine da affidare
a un corpo militare specializzato, col duplice sco­
po di recare il maggior danno economico al nemi­
co e di indebolirne il morale. Entro quattro setti­
mane — oltre a perdere in Francia la quasi totalità
dell’armamento dell’esercito — la possibilità era
diventata realtà.
Col consenso del gabinetto di guerra del quale
facevano parte conservatori, laburisti e liberali, il
primo ministro — dal 10 maggio Churchill —
autorizzava in luglio la fusione della Sezione D e
del MI R, creando il Soe, dotato di un proprio sta­
tuto e di piena autonomia, e affidava a Hugh Dalton, allora il numero due del partito laburista e mi­
nistro della guerra economica, la responsabilità di
guidare la nuova organizzazione e di rappresen­
tarla nel gabinetto. “ Set Europe ablaze” , mettete
a fuoco l’Europa, sembra che Churchill dicesse ac­
comiatandosi dai suoi collaboratori.
Dalton avrebbe voluto fare del Soe una “quarta
arma” a pari livello delle armi tradizionali. Man­
cavano i mezzi. Non ci riusci. Coadiuvato da un
consiglio dei 16 membri (metà militari e metà civi­
li), erano di sua competenza la formulazione di di­
rettive generali nell’ambito di piani strategici deci­
si dal governo in collaborazione col comando su­
premo, il coordinamento con le altri armi, l’azione
di controllo diretta ad assicurare l’efficienza del­
l’organizzazione, la gestione finanziaria. Il Foreign Office chiese che venissero evitate azioni
che potevano portare a rappresaglie contro la po­
polazione. Fra i collaboratori di Dalton (sostituito
dal 1942 da lord Selborne) vi furono Hugh Gaitskell, a partire dal 1955 capo del partito laburista,
ed il diplomatico Gladwyn Jebb, più tardi capo del
gruppo liberale alla camera dei Lord. Dell’orga­
nizzazione e delle operazioni del Soe vennero inca­
ricati ufficiali che, giovanissimi, si erano distinti
durante la prima guerra mondiale, ed altri che
nel 1939-1940 erano stati in Polonia, Finlandia e
Norvegia o avevano organizzato nel Regno Unito
unità di sabotatori e guerriglieri, che avrebbero
operato nell’eventualità (per molti britannici cer­
tezza) di uno sbarco tedesco.
Per i britannici era un periodo tragico. Mate­
rialmente e psicologicamente i sette mesi da mag­
gio a novembre 1940 furono forse i più difficili del­
la guerra. Non ci fu lo sbarco ma ci furono i bom­
bardamenti aerei (mille aereoplani tedeschi in un
sol giorno!) e la distruzione di un quinto dei fab­
Servizi segreti alleati e Resistenza
bricati, il blocco dell’isola ed il siluramento di mi­
lioni di tonnellate di naviglio prezioso che portava
materie prime per l’industria di guerra e cibo per la
popolazione; ci furono l’evacuazione di bambini
ed anziani dalle città più esposte, e la mobilitazio­
ne totale di uomini e donne in grado di portar armi
e di lavorare. Il Soe ebbe difficoltà ad organizzar­
si. Faceva difetto il materiale. Mancavano esplosi­
vo ed armi di ogni genere, ed anche campi di adde­
stramento, uniformi, razioni. Era limitato il finan­
ziamento. Totalmente impegnata nel mantenere
aperte vie di comunicazione, la Marina non aveva
imbarcazioni da mettere a disposizione del Soe.
Nella misura in cui vi era naviglio disponibile, ave­
vano priorità i commandos, organizzati anch’essi
nell’estate del 1940. L’aviazione — quantitativa­
mente inferiore a quella tedesca — non aveva ri­
serve di aereoplani né prima né dopo le battaglie
aeree dell’estate e autunno 1940. Ancora nell’ago­
sto 1941 il Soe non disponeva che di 5 aereoplani,
saliti ad una trentina alla fine del 1942. Il recluta­
mento era reso difficile dalla mobilitazione totale e
dalla priorità delle forze armate regolari e dell’eco­
nomia. Una selezione severa veniva compiuta du­
rante l’addestramento che richiedeva parecchi me­
si: non bastavano un buon fisico e coraggio in si­
tuazioni che richiedevano nervi a posto, iniziativa,
tenacia, conoscenza intima di lingue, costumi e
mentalità stranieri, abilità tecniche svariate, dalla
produzione di documenti falsi all’uso di esplosivi
e di cifrari, abilità anche ad individuare agenti
provocatori, maestri del doppio gioco ed altri ruf­
fiani che gravitano intorno ai servizi segreti. Uffi­
ciali e sottufficiali in missione — cioè in territorio
occupato dal nemico — avevano piena autonomia
e non potevano contare che su se stessi. Non fu
unico il caso dell’ufficiale Soe rimasto isolato in
Malesia dopo la caduta di Singapore, riapparso
dopo due anni, organizzatore di partigiani che die­
dero filo da torcere ai giapponesi, e la cui azione
venne ritenuta l’equivalente di quello che avrebbe
potuto fare un reggimento.
Variava da paese a paese la possibilità di trova­
re volontari fra gli abitanti di territori occupati in
cui il Soe era autorizzato ad operare (nel 1942 14
Stati europei, escludendo quelli baltici, 15 a parti­
re dall’estate 1943 quando vi fu inclusa l’Italia, e
colonie e protettorati asiatici ed africani). Per
quanto sia doloroso ammetterlo, occorre tener
presente che dovunque vi erano, a volte numerosi,
163
nazifascisti e loro compagni di viaggio. Né era
sufficiente essere antitedesco, antigiapponese e
antiitaliano (nei Balcani occidentali, in Africa
orientale) per essere disposto ad entrare nella Re­
sistenza militante. I rischi erano molti: per esem­
pio veniva detto a francesi che arrivavano in Gran
Bretagna e, presi accordi col Soe, volevano rien­
trare in Francia che le possibilità di sopravviven­
za erano del 50 per cento (furono in realtà di circa
il 75 per cento). Dovunque erano efficienti la Abwehr e la Sd che potevano contare su una fitta re­
te di collaboratori ossequiosi e a volte tragica­
mente numerosi. Un fattore negativo di portata
non indifferente fu rappresentato dal sentimento
antibritannico, largamente diffuso in settori a vol­
te maggioritari di nazioni mediterranee ed asiati­
che, acuito in Francia dalla tragedia di Orano
del 3 luglio 1940, in cui persero la vita 1.300 ma­
rinai francesi, cannoneggiati da una squadra in­
glese.
Sin dal 1939 furono numerosi i cechi, i polacchi,
gli ebrei di ogni nazionalità desiderosi di coopera­
re col Soe, poi anche norvegesi, olandesi ed altri.
Malgrado la vicinanza, i numerosi contatti perso­
nali cordiali, la base in Gran Bretagna della France Libre, i frequenti collegamenti radio, ci volle del
tempo prima che in Francia venissero costituiti
nuclei di resistenti in grado di operare in collaborazione col Soe. Lo stesso avvenne in Grecia, dove
unità del Soe avevano accompagnato il corpo di
spedizione del Commonwealth sbarcato nel marzo
1941, ed erano rimaste dopo la vittoria tedesca
(una o due sconfinando in Albania). Dopo l’occu­
pazione della Jugoslavia da parte dell’Asse ci vol­
lero cinque mesi per stabilire un primo contatto
con la Resistenza che riconosceva la legittimità
del governo in esilio, di più per arrivare alla Resi­
stenza antigovernativa (titina). Quando il Cairo
era la base per operazioni nei Balcani, un ostacolo
fu rappresentato dalla presenza, fra egiziani politi­
cizzati, come pure nel resto del mondo musulma­
no, di numerosi ammiratori e partigiani del Reich
hitleriano.
La direttiva esplicita di usare come criterio nelle
relazioni con la Resistenza la capacità di recar
danno al nemico, escludeva prese di posizione po­
litiche. D ’altra parte ogni movimento di Resisten­
za aveva un aspetto politico la cui natura e portata
spesso sfuggivano sia al comando del Soe che agli
ufficiali di collegamento — come, d ’altra parte,
164
Max Salvadori
mancava fra i resistenti, salvo pochissimi, la com­
prensione non solo delle difficoltà di ogni genere
che i britannici dovevano affrontare ma anche e
soprattutto della m entalità britannica e di ciò
che, nel Regno Unito e negli altri Stati indipenden­
ti del Commonwealth, era ritenuto importante.
Creava malintesi per esempio l’istituto monarchi­
co che in nazioni mediterranee era sinonimo di
autoritarismo reazionario, mentre per i britannici
si riassumeva nell’espressione del “re che regna ma
non governa” , il re personificando la continuità
dello Stato (funzione essenziale in particolare nei
regimi democratici) e spettando il governare esclu­
sivamente al parlamento, ed ai rappresentanti li­
beramente eletti dai cittadini. La quasi totalità
del personale del Soe, ad ogni livello, rientrava po­
liticamente nell’ambito deH’antiautoritarismo de­
moliberale, moderato a destra e riformista a sini­
stra, che da generazioni caratterizzava i popoli bri­
tannici ed oriundi britannici, e che si riassumeva in
pochi principi: self-government o autogoverno co­
stituzionale democratico; pluralismo; coesistenza,
nell’ambito di leggi uguali per tutti, del rispetto re­
ciproco e della partecipazione al processo demo­
cratico; economia approssimativamente di merca­
to. Tali principi raramente erano menzionati per­
ché ritenuti naturali o quasi. Vi erano (non molti)
simpatizzanti stalinisti (due al Cairo vennero uti­
lizzati per collegamenti con partigiani balcanici,
uno venne poi aggregato ad una missione inviata
in Alta Italia). Ex simpatizzanti del Buf (l’organiz­
zazione fascista britannica), se ve ne erano, non si
fecero notare.
M olto si è scritto e si continua a scrivere di
“ideologia anticomunista” britannica — soprat­
tutto da parte .di chi non sa cosa sia l’empirismo,
il modo di pensare prevalente fra britannici ed
oriundi britannici. Occorre intendersi. Lo stalini­
smo degli anni trenta e quaranta non era il comu­
nismo eterogeneo, con punte perfino liberali, degli
anni ottanta. Eccettuate poche diecine di migliaia
di stalinisti e loro compagni di viaggio, cittadini
britannici di ogni ceto e convinzione vedevano nell’Urss stalinista un avversario temibile. Il timore
che incuteva presentava due aspetti: da una parte,
l’immagine della Russia, stato vasto e potente col
quale — come tutti i giovani imparavano a scuola
— vi era stata per generazioni (anche se ignorava­
no le date, 1814-1907 e dal 1917 in poi) una guerra
fredda, calda nel 1853-1856, interrotta per far
fronte al militarismo tedesco e ripresa in seguito
al colpo di stato leninista; dall’altra, la rappresen­
tazione dei comunisti che odiavano visceralmente
la democrazia (capitalismo nel loro gergo), aveva­
no tradito gli alleati durante la prima guerra mon­
diale prolungando sofferenze e moltiplicando per­
dite umane e si erano schierati apertamente con la
Germania in seguito all’accordo Hitler-Stalin del
23 agosto 1939. Pochi credevano che l’Urss avreb­
be collaborato con la Francia e la Gran Bretagna
se a Monaco, invece di sacrificare la Cecoslovac­
chia, si fosse deciso di rischiare la guerra. Con la
Russia, si poteva, forse, arrivare ad un compro­
messo, con i comunisti pure: con la Russia comu­
nista era ben difficile. Questo era l’atteggiamento
comune in Gran Bretagna durante la guerra. Que­
sto era il tema di conversazioni fra gli ufficiali e fra
le reclute del Soe. Non si trattava di ideologia ma
di constatazione di una situazione di fatto.
La Resistenza fu raramente un movimento uni­
tario anche se a volte diede l’impressione di esser­
lo, per esempio nel protettorato di Boemia e Mo­
ravia, in Norvegia e, fino al 1944, in Polonia; per­
ciò alcuni ufficiali di collegamento del Soe in mis­
sione si schierarono con una fazione o un’altra,
mentre i più tentarono di mantenere contatti con
le varie fazioni e di indurle a compiere un’azione
comune. Accadde in Francia, dove ufficiali del
Soe fecero incontrare Moulin e De Gaulle e pro­
mossero la formazione del Conseil N ational de
la Resistance, poi del Cfln (Comité français de li­
bération national) e delle Ffi (Forces françaises
de l’Intérieur); l’accordo di Algeri fra gollisti e giraudisti, promosso dal Soe, rimase invece lettera
morta. In Grecia, personale Soe si collegò con
bande di andartes [insorti] e successivamente con
gruppi che facevano capo ai “sei colonnelli”, col
Fronte di liberazione nazionale (Earn), con la Le­
ga repubblicana (Edes), col Fronte di Liberazione
nazionale e sociale (Ekka); sotto l’egida del Soe vi
fu una temporanea cooperazione fra Earn e Edes,
per esempio in un’impresa riuscita del novembre
1942; un incontro nell’agosto 1943 al Cairo fra
esponenti dell’Eam, dell’Edes e dell’Ekka non die­
de invece risultati tangibili. Una missione Soe
sbarcata sulla costa montenegrina nel settembre
1941 raggiungeva i cetnici serbi; seguirono altre
missioni britanniche ed americane, e l’invio di un
quantitativo modesto (220-230 tonnellate) di ma­
teriale; nel maggio del 1943 una prima missione
Servizi segreti alleati e Resistenza
raggiungeva i partigiani dell’Avnoj, la coalizione
creata poco prima da Tito; dato il ruolo militare
della Jugoslavia la quale —- secondo quanto di­
chiarò Churchill — nel maggio 1943 impegnava
15 divisioni tedesche ed altre 30 divisioni nemiche,
un generale di brigata venne inviato in settembre
dal Soe presso i partigiani che già ricevevano rifornimenti alleati via mare. La relazione del gene­
rale indusse il comando Soe a chiedere al governo
l’autorizzazione a sospendere rifornimenti ai cetnici (continuati su scala sempre modesta dagli
americani), concentrando gli aiuti sui partigiani
di Tito. In Albania missioni Soe presenti sin dalla
primavera del 1941, erano in collegamento col
Fronte nazionale nel nord del paese, con residui
zoghisti e col Movimento di liberazione nazionale
organizzato nel settembre 1942 e diretto da Hoxha. Di sei missioni inviate in Ungheria nel 1944,
cinque vennero catturate dai tedeschi, la sesta fu
costretta a sconfinare in Jugoslavia. Dopo l’invio
di missioni dall’esito disastroso, esponenti del Soe
stabilirono in Romania contatti col Fronte pa­
triottico organizzato nel giugno 1943 per iniziati­
va comunista, con i resistenti che facevano capo a
Maniu, massimo dirigente dell’ex partito dei con­
tadini, e con quelli che facevano capo ad esponen­
ti liberali; in Bulgaria stabili contatti col Fronte
patriottico organizzato già nel 1942. Nei territori
francesi di oltremare il Soe si trovava nella neces­
sità di collegarsi separatamente con la Resistenza
gollista e con quella antigollista. Nelle società plu­
rinazionali della Birmania, della Malesia e dell’In­
donesia, l’atteggiamento verso i giapponesi varia­
va radicalmente da gruppo etnico a gruppo etnico
e vi erano resistenti alla macchia e resistenti in or­
ganizzazioni che appoggiavano gli invasori. Mal­
grado le direttive, malgrado anche la ripugnanza
sincera e profondamente sentita a relegare in se­
condo piano l’azione militare — clandestina dei
sabotatori, aperta dei guerriglieri — l’ufficiale di
collegamento era spesso costretto ad occuparsi
di politica.
L’invio di missioni per stabilire collegamenti
era il primo passo. Il secondo era l’invio del mate­
riale di guerra ed altri rifornimenti destinati a po­
tenziare la Resistenza. Qui vi fu di regola un diva­
rio notevole fra operazioni e loro risultato — fra
quello che il Soe faceva e quello che la Resistenza
riteneva dovesse essere fatto. Bastano alcuni esem­
pi, che occorre tradurre in termini di sforzi com­
165
piuti da una parte e di delusioni dall’altra. Su 5
lanci effettuati nell’autunno 1943 per rifornire il
Cln laziale, uno solo riuscì; negli altri casi il mate­
riale cadde in mano a tedeschi, a repubblichini e a
gente del luogo. Su quasi 900 voli effettuati nel
gennaio-aprile 1945 per rifornire i Volontari della
libertà nelfltalia del Nord, ne riuscirono poco più
di 500 (a seconda del tipo di velivolo usato, ogni
aereoplano portava da 1,2 tonnellate di materiale
a 2 tonnellate). La Resistenza norvegese veniva in­
formata del numero di lanci e teneva una contabi­
lità del materiale ricevuto; il Soe sapeva anche dei
23 aereoplani perduti (spesso con i loro equipaggi)
e di numerose operazioni via mare fallite. Il 20 set­
tembre 1944 vennero lanciati agli insorti di Varsa­
via 1.284 contenitori: gli insorti ne raccolsero 228.
Nel 1944 il comando Soe riteneva che su tre voli
diretti in Francia, in media uno falliva a causa
del maltempo, dell’assenza di partigiani all’appun­
tamento, di errori compiuti dai piloti, e che neppu­
re l’80 per cento del materiale effettivamente para­
cadutato arrivava a destinazione. Dopo la libera­
zione risultò che su mezzo milione di armi di ogni
genere inviate alla Resistenza francese, due quinti
non vennero usate contro i tedeschi, ma accanto­
nate da gruppi partigiani che volevano servirsene
più tardi per uso interno.
Secondo dati incompleti, circa 40.000 tonnella­
te di materiale di ogni genere — per quattro quinti
armi, munizioni ed esplosivo, il resto medicinali,
vestiario, generi alimentari — vennero inviate alla
Resistenza presente negli stati europei occupati
dal nemico. Quantitativi modesti vennero inviati
via mare (per esempio 300 tonnellate ai partigiani
norvegesi), il resto via aria per un totale di diecine
di migliaia di voli. Alla vigilia dello sbarco in Nor­
mandia, il Soe stimava che i partigiani combatten­
ti francesi fossero circa 140.000, quelli jugoslavi
250.000, quelli italiani un po’ meno di 100.000.
Quasi un terzo del materiale inviato era destinato
alla Resistenza francese, un po’ più di un terzo alla
Resistenza jugoslava (i partigiani titini ricevettero
cinquanta volte di più di quello che avevano rice­
vuto i cetnici di Mihajlovic). Incluso quanto andò
perduto, circa 3.000 tonnellate vennero inviate al­
la Resistenza italiana (i dati sono incerti: una rela­
zione della Royal Air Force dà un totale di oltre
4.000 tonnellate, incluse forse quelle lanciate per
conto dell'Oss). La Resistenza danese e quella nor­
vegese ricevettero ognuna armi sufficienti per
166
Max Salvadori
25.000 combattenti, quella olandese ebbe 30.000
fucili-mitragliatori.
Secondo dati solo parzialmente attendibili, fra
personale proprio e volontari di varie nazionalità,
6.700 persone vennero inviate dal Soe nell’Europa
occupata; di queste 1.784 in Francia. Grazie al Soe
migliaia vennero evacuati (fra i francesi un futuro
presidente della repubblica che stava per essere
catturato dai tedeschi), inclusi i fuorusciti italiani,
prevalentemente dell’area democratica ed anche
alcuni vicini al Pei (l’evacuazione nell’inverno
1942 dalla Francia non occupata di un esponente
il quale ebbe a Londra un incontro disastroso
col futuro primo ministro laburista Attlee, ed il
suo ritorno, costarono ai contribuenti britannici
— il Soe era obbligato a tenere conti dettagliati
— l’equivalente di trenta milioni di lire di oggi).
Con la cooperazione dell’Oss, il Soe evacuò dalla
Jugoslavia circa 12.000 persone, la maggior parte
partigiani feriti, poi curati in ospedali della Puglia.
Moulin, Tito, Cadorna furono fra i dirigenti della
Resistenza armata che vennero aiutati a passare il
fronte in una direzione o nell’altra o in ambedue.
Il Soe organizzò e fece funzionare per periodi a
volte abbastanza lunghi proprie vie di comunica­
zione, come la Comet da Bruxelles a Gibilterra
[la via cioè che utilizzava l’aviazione alleata], usata
da circa 700 persone.
Il tasso di perdite umane variava, ma vi sono
solo dati parziali. A titolo di esempio: del persona­
le Soe e dei volontari addestrati dal Soe catturati
dai giapponesi, quasi nessuno sopravvisse; delle
51 persone, venute dalla Gran Bretagna fra il mar­
zo 1942 ed il maggio 1943 e catturate dall’Abwehr
nei Paesi Bassi, sopravvissero solo in 5; peri circa
un quarto delle 400 persone sbarcate o paracadu­
tate da una delle sezioni del Soe con l’incarico di
avviare operazioni in Francia; sempre in Francia
perirono 13 delle 53 donne inviate dal Soe, e 7
dei 27 polacchi inviati alla vigilia dello sbarco in
Normandia per rafforzare i réseaux creati da im­
migrati polacchi; 95 furono i britannici uccisi del
Som che aveva una forza l’equivalente di circa
un battaglione.
“Operazioni Speciali” era un’espressione elasti­
ca. Rientravano nell’ordinaria amministrazione il
ritorno a Dunkerque di tre ufficiali per distruggere
un deposito di 200.000 tonnellate di combustibile;
le 950 azioni effettuate in Francia durante la notte
dal 5 al 6 giugno 1944; la distruzione di 37.000 ton­
nellate di naviglio giapponese compiuta da una
missione i cui membri persero la vita. Vi era altro.
Personale del Soe partecipò agli avvenimenti del
25-28 marzo a Belgrado che contribuirono a ritar­
dare di alcune settimane l’attacco tedesco all’Urss
(l’informazione sull’operazione Barbarossa otte­
nuta a Belgrado e confermata da altre fonti venne
trasmessa da Churchill a Stalin il quale scelse di
non tenerne conto). Fallì nel 1941 il tentativo di
bloccare il Danubio alla Porta di Ferro. Nello stes­
so anno il Soe assistè il generale americano Dono­
van nell’organizzare l’Oss, ben presto attivo sia in
Europa e nel Mediterraneo, sia in Estremo Orien­
te. Personale Soe danneggiò nel 1941 il centro
clandestino tedesco che dal Messico trasmetteva
istruzioni a sottomarini che operavano nel Mare
delle Antille e nel Golfo del Messico, e nel 1942
mise fuori servizio l’altro centro che a Tangeri gui­
dava sottomarini nemici nello stretto di Gibilterra.
Un’incursione effettuata da una squadra di 9 uo­
mini distrusse, in Norvegia, l’impianto di Rjukan
per la produzione di acqua pesante, provocando
un ritardo notevole negli esperimenti di scienziati
tedeschi impegnati nella fabbricazione dell’arma
segreta (bomba atomica) alla quale fecero allusio­
ne nei loro discorsi il Führer e il duce. Gli scienzia­
ti ai quali era stata affidata nel 1942 l’esecuzione
del Progetto M anhattan per la costruzione di
una bomba atomica avevano bisogno della colla­
borazione del Premio Nobel danese Niels Bohr:
forniti di una lettera di un amico britannico di
Bohr, ufficiali del Soe lo raggiunsero in Danimar­
ca e lo condussero in Svezia, da dove passò in Sco­
zia e poi negli Stati Uniti. La missione sovietica,
guidata da un generale e inviata in Jugoslavia
nel gennaio 1944 per prendere accordi con l’Avnoj, raggiunse il quartier generale di Tito con
l’aiuto del Soe. Nell’aprile 1944 una missione
Soe catturò nell’isola di Creta un generale tedesco
e lo portò al Cairo. Occorreva grafite, della quale
il Madagascar era un im portante produttore: il
Soe aiutò francesi liberi ad occupare l’isola e la
grafite divenne disponibile. Occorreva chinino,
prodotto allora soprattutto in zone occupate dai
giapponesi: lo procurò il Soe.
Alla pari della Germania e del Giappone, come
Stato nemico, abitato presumibilmente da popola­
zione in maggioranza leale all’Asse ed al Triparti­
to, avversa agli alleati ed in particolare ai britanni­
ci, fino all’estate del 1943 l’Italia non rientrava
Servizi segreti alleati e Resistenza
nella zona operativa del Soe. Scarsa — non solo
nel Regno Unito — era la conoscenza della situa­
zione interna italiana. Restava l’impressione creata
da folle inneggianti all’Impero e da imponenti ma­
nifestazioni antibritanniche ed antifrancesi. Dopo
il 10 giugno 1940 fonti di informazione, e di disin­
formazione, erano i diplomatici segregati nella Cit­
tà del Vaticano, gli agenti e i doppi agenti del Sis,
gli esuli e i profughi tagliati fuori dalla realtà italia­
na, gli intellettuali, gli uomini politici e gli uomini
d’affari britannici interessati all’Italia i quali poco
sapevano e meno comprendevano. A Londra ed a
Washington arrivavano rapporti e rapportini to­
talmente inattendibili e che nessuno prendeva sul
serio. Ogni notizia riguardava ambienti ristretti,
mancavano contatti con le masse: era ignorata l’e­
straneità di settori sempre più vasti della nazione;
niente trapelava della creazione nel 1942 del Parti­
to d’azione e della riorganizzazione di forze socia­
liste, di scioperi nel triangolo industriale.
Le autorità britanniche sapevano qualcosa del
frondismo antitedesco in Italia solo parzialmente
e vagamente antifascista, in ambienti ufficiali, uffi­
ciosi e salottieri e ne erano esagerati sia la portata
che l’impegno. Venivano ripetuti i soliti nomi: Ca­
viglia, Badoglio, la principessa di Piemonte. L’an­
tifascismo militante clandestino, conosciuto in ma­
niera vaga e distorta tramite giornalisti ed esuli, era
ritenuto fenomeno di scarso rilievo, anche se a
Londra erano rispettati in particolare Sturzo e
Sforza. Relazioni sullo stato d’animo in comunità
italiane all’estero erira oriundi italiani nelle Ameri­
che e sondaggi fra i prigionieri di guerra conferma­
vano che, pur essendo pochi i filotedeschi (anche
fra i fascisti), fatta eccezione per gli italiani residen­
ti in Africa orientale (i quali auspicavano aperta­
mente la vittoria tedesca), aveva avuto successo
la propaganda antibritannica orchestrata dal regi­
me. In ambienti di esuli e di profughi erano antialleate le componenti marxiste ed anarchiche (salvo
alcune notevoli eccezioni fra queste ultime) ed era
antibritannica la componente salveminiana. D u­
rante la campagna di Sicilia la popolazione si era
tappata in casa e la maggioranza di quanti si erano
fatti avanti per collaborare col governo militare al­
leato non riusciva a conquistarsi la sua fiducia. I
manifestanti del 26 luglio erano contro la guerra,
ma questo non voleva dire che fossero filoalleati.
Anche dopo la decisione di iniziare l’offensiva
sul continente europeo con attacchi che, si spera­
167
va, avrebbero messo l’Italia fuori combattimento,
il comando Soe non ritenne opportuno impegnare
nella penisola personale e mezzi, egualmente scar­
si. L’attività clandestina alleata si limitava al servi­
zio informazioni e all’addestramento da parte dell’Oss di siculoamericani per una eventuale infiltra­
zione in Sicilia. Il comando Soe di fronte al colpo
di Stato del 25 luglio espresse soddisfazione, per­
ché cominciava ad avverarsi la previsione di un
collasso politico-militare italiano, ma non entusia­
smo: il maresciallo Badoglio veniva messo nella
categoria delle personalità ambivalenti e perciò es­
senzialmente infide. Della stessa categoria aveva­
no fatto parte il reggente jugoslavo Paolo Karageorgevich e l’alto commissario francese nell’Afri­
ca del Nord, ammiraglio Darlan. In agosto venne
paracadutato il tenente Mallaby del Soe: catturato
immediatamente e torturato, venne poi utilizzato
per contatti connessi ai negoziati fra alleati e Ba­
doglio. Durante i negoziati che culminarono con
l’armistizio del 3 settembre, ufficiali del Soe entra­
rono in relazione col Sim (Servizio di informazio­
ne militare), sospettato però, allora e dopo, di am­
biguità. Soprattutto per tastare il terreno, piccole
unità Soe accompagnarono l’8a Armata in Sicilia
e la 5a Armata a Salerno.
Grazie a queste unità raggiunsero Siracusa o
Salerno esuli che volevano riprendere in territorio
occupato l’attività clandestina alla quale si erano
dedicati prima di espatriare o alla quale avevano
contribuito dall’estero: alcuni passarono le linee
a piedi prima che il fronte si stabilizzasse sulla li­
nea Gustav, altri vennero paracadutati o sbarcati,
preferibilmente sulla costa tirrena. Altri esuli ri­
masero in territorio liberato, si incontrarono con
compagni della Resistenza lunga (quella del ven­
tennio) e con altri che avevano partecipato alla
riorganizzazione dell’antifascismo militante nel
1942. Creata in territorio liberato una organizza­
zione Cln, ufficiali del Soe ne facilitarono le attivi­
tà, che culminarono nel congresso di Bari del gen­
naio 1944 e nella formazione in aprile di un gover­
no con partecipazione Cln.
I nomi di esuli rientrati in Italia subito dopo gli
sbarchi di luglio e di settembre, sono noti ma, a di­
stanza di oltre quaran’anni, vale la pena di ricor­
darne alcuni. Il primo ad essere paracadutato dal
Soe in territorio occupato (a sud di Empoli il 23
o 24 settembre 1943) fu Petacchi, militante anar­
chico, il quale in brevissimo tempo riusci a metter­
168
Max Salvadori
si in rapporto con compagni del carrarese ed orga­
nizzò bande partigiane per conto del comando mi­
litare del Ctln (Comitato toscano di liberazione
nazionale). Grazie al Soe arrivarono in Italia, chi
dagli Stati Uniti, chi dal Messico, chi da Londra,
Claudio Cianca, Antonio Gentili, Bruno Pierleoni, Alberto Tarchiani, i quali rimasero nel 19431944 a Napoli rafforzando l’alternativa a Bado­
glio rappresentata dal Cln. Arrivarono Leo Valiani e Renato Pierleoni, i quali in ottobre passarono
il fronte, recandosi uno a Milano e l’altro a Roma;
Roberto Almagià, già ufficiale d’aviazione, il qua­
le riprese servizio col poco che restava delle forze
aeree italiane; Aldo Garosci, che nel gennaio
1944 venne paracadutato vicino a Roma insieme
al figlio di Guido De Ruggero. Arrivò Sforza,
ospitato a Napoli da Caracciolo, amico di La Mal­
fa: checché ne pensassero Churchill ed Eden (e l’o­
norevole Francesco Frola nel libro osceno II vec­
chio scemo ed i suoi compari2), Sforza venne tratta­
to col riguardo dovuto all’esponente più noto del­
l’antifascismo italiano nelle due Americhe, il quale
— come molti nel Soe si aspettavano — poteva un
giorno dirigere il governo italiano.
Erano state trasferite in Puglia le basi operative
per azioni Soe in paesi balcanici e danubiani. Le
operazioni nei Balcani avevano precedenza asso­
luta su quelle in Italia, particolarmente operazioni
in Jugoslavia, perno strategico di sempre maggio­
re importanza per sottrarre forze tedesche sia al
fronte occidentale che a quello orientale. Nell’ot­
tobre 1943 una unità del Soe, equivalente circa
ad una compagnia, arrivò in Puglia per crearvi
una base per operazioni nell’Italia occupata. Era­
no già giunti in territorio liberato, fra gli altri, in­
viati del Ccln (Comitato centrale di liberazione na­
zionale) e del Cln regionale marchigiano. Dopo es­
sere stati identificati, presero accordi per l’invio di
armi, di munizioni, di esplosivo e di radio trasmit­
tenti, e vennero aiutati a rientrare nelle loro sedi.
Tra andata e ritorno se ne andavano dalle sei alle
otto settimane. Al Nord, prima Parri e Valiani, poi
altri passarono la frontiera e si misero in contatto
col rappresentante del Soe (e con quello dell’Oss)
in Svizzera. Su indicazione del Ccln, ufficiali Soe
cercarono il generale Giuseppe Pavone e diedero
il via all’iniziativa di creare nell’autunno 1943 un
2
corpo autonomo di volontari italiani per azioni
di sabotaggio e di guerriglia; trattandosi soprat­
tutto di azioni sul versante tirrenico in cui operava
la 5a Armata, su richiesta americana, l’iniziativa
venne passata all’Oss. Arrivarono ex prigionieri
di guerra evasi l’8 settembre da campi di concen­
tramento, i quali — oltre ad esprimere ammirazio­
ne e gratitudine per la generosità della popolazio­
ne che li aveva aiutati — diedero notizie, di solito
piuttosto vaghe, su gruppi a volte numerosi di re­
sistenti armati desiderosi di collegamenti con gli
alleati e bisognosi di rifornimenti. Il Soe venne an­
che a sapere di iniziative prese da ex prigionieri di
guerra rimasti in territorio occupato, come la for­
mazione di un Battaglione internazionale nell’Apuania.
Chi non è in grado di rivivere nella mente la si­
tuazione di allora, non sa quanto fosse difficile
mettere insieme i pezzi del puzzle che era la Resi­
stenza. Di essa si avevano notizie incerte, vaghe,
spesso contraddittorie, a volte esagerate, quasi
sempre distorte, giunte da fonti disparate con
una lentezza esasperante. Ci vollero settimane e
mesi per ottenere un quadro che nelle linee genera­
li poteva essere ritenuto corretto di quanto era av­
venuto dopo l’8 settembre e di quanto avveniva a
Nord del fronte. Condizionati dagli eventi prece­
denti e dai luoghi comuni largamente diffusi, po­
chi fra gli alleati si erano aspettati la disintegrazio­
ne completa del fascismo e quella quasi completa
delio Stato, il dileguarsi dell’esercito ed il distacco
assoluto della maggioranza della popolazione dal­
l’alleato di ieri — distacco che per molti era odio.
Il comando della Special Force venne a sapere,
con sorpresa e con compiacimento, di scontri un
po’ dovunque fra italiani e tedeschi nei giorni suc­
cessivi all'annuncio dell’armistizio; comprese che
le giornate di Napoli non erano state un fatto iso­
lato, accelerato dall’avvicinarsi di truppe alleate,
ma l’indice di quanto sarebbe prima o poi avvenu­
to in tutta l’Italia occupata. Divenne chiaro che
spontaneamente, senza che vi fosse stata un’auto­
rità centrale, senza che vi fossero direttive, un mo­
vimento di resistenza armata contro i tedeschi ed i
loro non numerosi collaboratori si era formato ed
aveva messo radici dalla linea Gustav alle Alpi,
che già alla fine dell’autunno 1943 vi aderivano
Francesco Frola, // vecchio scemo e i suoi compari, Torino, Fiorini, 1947.
Servizi segreti alleati e Resistenza
diecine di migliaia di uomini e donne, capaci di
agire perché appoggiati da vasti settori della po­
polazione; che vi erano bande di guerriglieri in zo­
ne rurali e gruppi clandestini armati in centri ur­
bani; che esistevano zone in cui erano precari il
controllo tedesco e l’autorità della Repubblica so­
ciale. Era chiaro anche che pur mancando struttu­
re ben definite al di là di quelle delle singole bande
e dei gruppi clandestini, una netta distinzione esi­
steva fra “politici” , che aderivano in particolare
ai tre partiti di sinistra del Cln, o “ badogliani” ligi
alla monarchia ed al capo del governo: preoccu­
pava il fatto che potesse verificarsi in Italia — a
tutto vantaggio dei tedeschi e dei collaborazionisti
— una ripetizione di quanto avveniva allora nella
Resistenza francese, greca, jugoslava (non avven­
ne e questo fu motivo di sollievo per l’intero Soe,
ed è ancor oggi motivo di ammirazione per quanti
nel Regno Unito si interessano all’Italia).
Sulla base di dati disgraziatamente incompleti (e
con ogni probabilità destinati a rimanere tali), du­
rante i diciannove mesi dall’ottobre 1943 all’aprile
1945, la Special Force inviò in territorio italiano oc­
cupato poco meno di un centinaio di missioni, com­
poste in media di un capo-missione, un marconista
ed un aiutante. Circa una metà delle missioni ave­
vano personale italiano e l’altra metà personale bri­
tannico (e del Commonwealth) o misto. I medesimi
dati incompleti danno come partecipanti 161 italia­
ni, fra militari e civili, e 110 ufficiali e sottufficiali
britannici e del Commonwealth (i capo-missione
britannici e Blo furono una quarantina).
Per verificare l’ignoranza in un ampio lasso di
tempo della localizzazione esatta delle forze partigiane (Valdossola: ma dove in Valdossola? Come
arrivare a mettersi in contatto?) basta leggere la re­
lazione sul primo incontro in Svizzera di Parri col
rappresentante Soe; emerge anche l’impossibilità
di individuare località nelle quali poter effettuare
con successo — cioè senza che cadessero subito
in mano a tedeschi o a repubblichini — lanci di pa­
racadutisti e di materiale (localizzazione e località
cominciarono ad essere precise solo durante l’in­
verno 1944). Durante i primi mesi la maggior par­
te delle operazioni della Special Force vennero ef­
fettuate via mare o via terra (attraverso il fronte)
con personale che conosceva la zona a cui era di­
retto, ed era questa una condizione che già impo­
neva dei limiti; ebbero come destinazione princi­
palmente l’Italia centrale, sia di qua che di là degli
169
Appennini. Un altro limite era imposto dalla divi­
sione di zone operative — non sempre rispettata!
— tra 5a Armata (Oss) e 8a Armata (Soe).
Facendo assegnamento sul Sim il cui comando
al Sud insisteva sulla propria disponibilità a colla­
borare e sulla facilità con la quale poteva essere
riattivata la rete di radio clandestine che esisteva
prima dell’occupazione tedesca, la Special Force
inviò missioni di volontari reclutati dal Sim e ad­
destrati dal Soe. Si trattava per lo più di ufficiali
inferiori e di sottufficiali; vi erano anche alcuni uf­
ficiali superiori ed almeno un generale. Il risultato
fu in genere soddisfacente dal punto di vista delle
informazioni raccolte e trasmesse (con compiaci­
mento da parte del Sis). Non lo fu dal punto di vi­
sta della Resistenza armata, si trattasse di guerri­
glia o di sabotaggio. Per il comando del Sim, come
per il governo Badoglio, non vi erano in Alta Italia
che formazioni “badogliane” (Autonomi, Fiam­
me Verdi, Osoppo che, come è noto, aderirono
più tardi al Cln tramite il Partito liberale o la De­
mocrazia cristiana), ma ci volle del tempo per sta­
bilire dei contatti. Più rapidamente i volontari del
Sim entrarono in relazione con ufficiali alla mac­
chia in Italia centrale, con i quali crearono il Rag­
gruppamento bande, diviso in quattro settori. Con
alcune nobili eccezioni note a chiunque si interessi
alla Resistenza, il raggruppamento era conosciuto
alla Special Force più per il suo attendismo che per
il suo attivismo: esemplare fu il caso degli otto uf­
ficiali superiori che, dall’alto (800 metri) del palaz­
zotto di Monte San Martino dove erano ospiti, te­
nevano d’occhio la valle sottostante ma, a diffe­
renza dei “politici” della zona, non presero parte
a nessuna azione.
Di gran lunga superiori furono i risultati otte­
nuti già nel 1943-1944 da missioni inviate senza
la cooperazione del Sim. Gli esempi non mancano.
Il ritorno a Roma nell’ottobre 1943 dell’inviato
del Ccln contribuì a dissipare malintesi ed a chia­
rire che al Soe (come pure all’Oss) interessava l’at­
tività antitedesca ed antirepubblichina e non il co­
lore politico dei militanti. Lo testimoniano l’aiuto
che la Special Force ed il Som da Algeri diedero a
chi voleva andare in territorio occupato per colla­
borare col Cln. Lo prova anche l’invio, non sem­
pre riuscito, di rifornimenti. Fra i primissimi a
rientrare in territorio occupato vi era stato un
esponente del Pda marchigiano, grazie al quale
la Special Force riuscì a rifornire partigiani azioni­
170
Max Salvadori
sti, comunisti ed indipendenti (ma non “badoglia­
ni”) della zona. Un paracadutista della Nembo,
sbarcato sulla costa maremmana, riuscì in prima­
vera a far giungere lanci di materiale che riforniro­
no partigiani comunisti toscani. Uno dei pochi ex
prigionieri di guerra che aveva chiesto di tornare
in patria per raggiungere la Resistenza, venne
sbarcato sulla costa ligure e passò in Piemonte do­
ve partecipò con merito all’attività partigiana.
Non tutto riusciva: venne catturato ed ucciso un
altro volontario sbarcato sulla costa ligure; dei
cinque giovani che nel dicembre 1943 tentarono
di passare il fronte in Molise, uno fu ucciso da
una mina (ed un’altra feri l’ufficiale Soe che li ac­
compagnava) e i nomi di due di essi compaiono tra
le vittime delle Fosse Ardeatine. Sorpresa all’alba
di un giorno d’inverno da una pattuglia tedesca,
una missione appena sbarcata a sud di Ancona
perse il materiale che portava con sé (riuscì più tar­
di a ricuperare la radio trasmittente e riprese i con­
tatti con la Special Force); nella primavera 1944 il
nemico affondò lo zatterone che trasportava una
missione destinata a raggiungere i partigiani dell’Appennino umbro-marchigiano.
A distanza di quarant’anni e più, la parola scrit­
ta è fredda, non riesce a dare il senso di quello che
l’azione allora significava quando agire voleva
spesso dire morire lontano da tutti e da tutto, ed
il silenzio era il manto funereo che avvolgeva chi
moriva; non dà il senso della passione che muove­
va chi agiva, della tenacia paziente di cui occorre­
va dar prova, del coraggio morale più necessario
di quello fisico.
I mezzi che il XV Gruppo d’armate ed il coman­
do alleato nel Mediterraneo mettevano a disposi­
zione della Number 1 Special Force erano severa­
mente limitati. Il comando del Som ritenne ai pri­
mi del 1944 che un mutamento nella situazione po­
litica dell’Italia liberata poteva aumentare l’effica­
cia sia del personale che dei mezzi. Era convinzio­
ne condivisa anche dal comando Soe in Gran Bre­
tagna che, come Darlan nell’Africa del Nord nel
novembre 1942, Badoglio in Italia nel settembre
1943 aveva assolto ad un compito essenziale ren­
dendo possibile e consolidando il successo degli al­
leati; e che Badoglio — di nuovo come Darlan per
i francesi — costitutiva ora un ostacolo allo svi­
luppo della Resistenza arm ata italiana. Ritenen­
do, giustamente, che il Cln aveva nella Resistenza
un ruolo di gran lunga superiore a quello dei “ba­
dogliani” (i quali probabilmente avrebbero finito,
in territorio occupato, con l’aderire all’organizza­
zione militare ciellenista, eliminando un dualismo
che nuoceva alla Resistenza e di conseguenza agli
alleati), d’accordo con la Commissione alleata di
controllo, il Som chiese al ministro britannico
per gli affari mediterranei residente ad Algeri di
prendere l’iniziativa per sostituire al governo del
maresciallo un governo Cln, e di far propria la for­
mula intanto elaborata da Croce, De Nicola e
Sforza per una soluzione interinale della questione
istituzionale. Il ministro (e futuro primo ministro),
Harold Macmillan venne in Italia ai primi di aprile
del 1944: il risultato della sua venuta è parte della
storia italiana di quegli anni.
A partire dalla fine della primavera 1944, inve­
ce di volontari italiani, venivano inviati in territo­
rio occupato ufficiali di collegamento britannici e
del Commonwealth (Blo) per ricevere richieste di
materiale, per organizzare farrivo e la distribuzio­
ne di quanto — non molto e mai sufficiente — po­
teva essere messo a disposizione della Resistenza,
e per coordinare le operazioni dei partigiani, costi­
tuitisi poi nel Corpo volontari della libertà, con
quelle del XV Gruppo d’armate. Trovandosi Ro­
ma nella zona operativa della 5a Armata, collegamenti con la Resistenza romana vennero tenuti so­
prattutto, ma mai esclusivamente, dall’Oss. Invece
in Toscana, dove confluirono in estate la 5a e l’8a
Armata, la missione della Special Force inviata a
Firenze cominciò a considerare il Cln come auto­
rità di governo in territorio occupato, ed anche
in territorio liberato durante l’intervallo fra l’oc­
cupazione tedesca e l’arrivo dell’Allied Military
Government, l’amministrazione militare alleata.
Sempre nell’estate 1944, su richiesta del Clnai, la
Special Force chiese al generale Cadorna se era di­
sposto a recarsi al Nord e, ottenuto il suo consen­
so, in agosto lo paracadutò insieme ad un aiutan­
te. In autunno la Special Force aiutò la delegazio­
ne del Clnai, incaricata di prendere accordi defini­
tivi col Comando alleato e col governo italiano, a
raggiungere Caserta (sede del Comando) e Roma e
a ritornare al Nord, e preparò il testo originario
degli accordi firmati il 7 dicembre che legittimava­
no per gli alleati la posizione del Cln in territorio
occupato come governo interinale.
Dopo lo sbarco in Normandia, l’Italia non era
più per gli alleati che un fronte del tutto seconda­
rio. Aveva l’unica funzione di impegnare forze te­
Servizi segreti alleati e Resistenza
desche, funzione che poteva essere assolta sull’Ar­
no come sulla linea Gotica, meglio che sul Po, Il
trasferimento in Francia di divisioni del XV Grup­
po d’armate e contemporaneamente la riduzione
precipitosa nella quantità di materiale di ogni gene­
re assegnato al fronte italiano (una decisione che fu
all’origine del proclama ai partigiani del generale
Alexander, consapevole di quanto tragicamente
era avvenuto in Grecia nel 1941 ed a Varsavia nel
1944) diedero una nuova dimensione al contributo
militare italiano, sia a quello del Cil (Corpo italiano
di liberazione) sia, e soprattutto, a quello del Cvl.
Con il cambiamento di governo nel giugno 1944 e
l’allontanamento del maresciallo e del re, si dilegua­
rono le difficoltà create dagli ambienti badogliani
che avevano voluto monopolizzare le relazioni fra
alleati e Resistenza, come in generale quelle fra Ita­
lia liberata ed Italia occupata. Anche se ingigantite
nel dopoguerra dalla storiografia ligia alla linea del
Pei, in complesso non erano state gravi le difficoltà
create durante la guerra dalla differenza scontrosa,
ed a volte astiosa, di esponenti stalinisti convinti
che, pur combattendo il nazifascismo, il nemico di
sempre fossero il ‘capitalismo’, cioè la democrazia,
e l’Mmperialismo’, cioè le democrazie atlantiche.
Delle 3.000 tonnellate circa di materiale inviato dal­
la Number 1 Special Force in meno di venti mesi,
171
quasi 2.200 tonnellate vennero paracadutate dopo
che entrarono in funzione i Blo (dei poco più di
40 Blo, 5 perirono mentre erano in missione, 6 ven­
nero catturati, altri vennero feriti; alle perdite van­
no aggiunte quelle sofferte in operazioni diverse dal
collegamento della Special Force con la Resi­
stenza). “Il contributo partigiano alla vittoria allea­
ta superò di molto le aspettative più ottimiste” ,
concludeva il rapporto finale della Number 1 Spe­
cial Force.
Smobilitato, il Soe cessò di esistere nel gennaio
1946. Le valutazioni sull’attività che svolse varia­
rono durante la guerra e variano ancora oggi. In­
dubbiamente i risultati furono inferiori alle aspet­
tative del 1940: la “ quarta arm a” di Dalton fu
un’arma spuntata. Per alcuni, si tratti di militari
o di civili, il contributo del Soe alla vittoria finale
fu nullo o quasi, per altri fu essenziale. Simili giu­
dizi appartengono per lo più al mondo di ciò che
non può essere provato; è meglio dunque limitarsi
a dire che venne fatto quello che allora doveva es­
sere fatto e che, nell’adempimento del loro dovere,
non tanto di combattenti quanto di cittadini con­
sapevoli e responsabili, molti morirono. Non si
vince se chi combatte non è disposto a sacrificare
la propria vita.
Max Salvadori
SPAGNA CONTEMPORANEA
Sommario del n. 10, 1996
Studi e ricerche
Gabriele Ranzato, La “città delle barricate’’. Funzioni e significati delle barricate a
Barcellona in un secolo di sommosse (1835-1937)-, Sandro Tomà, Le due repubbli­
che. Aspirazioni e realizzazioni del catalanismo politico (1931-1935): Alberto Toni­
ni, La politica mediorientale della Spagna di Franco fra il 1945 e il 1955\ Sheryl
Lynn Postman, Un destello repentino en La sombra del ciprés es alargada de Mi­
guel Delibes; Bianca Amaducci, ¡Ay, Carmela!: testo letterario, testo spettacolo,
film-, Luca De Boni, L'opposizione cattolica al franchismo: la Ft.O.C. e il giornale
“¡Tu!’’ (1946-1951)
Dossier
Il presidente Scalfaro e “Spagna contemporanea": a proposito della neutralità spa­
gnola nella seconda guerra mondiale-, Alfonso Botti, Franco e i cattolici italiani. Er­
meneutica di una frase-, Luis de Llera, Scalfaro en Madrid... y aquella metedura de
paia
Rassegne e note
Antoni Montserrat, L ’antifascismo catalano e l ’Italia. Riflessioni di un militante anti­
franchista
Fondi e Fonti
Silvia Biazzo, Alcune fonti orali per una storia del Frente de Liberación Popular
(1956-1969)
Recensioni
Genesi e sviluppo del pensiero politico carlista (N. Del Corno); Una biografia di Jeroni Alomar Poquet, il sacerdote fucilato dai franchisti nel 1937 (A. Botti); L ’inani­
mato amante di Garcfa Blàzquez (C. Perugini); Paolo VI e la Spagna (A. Botti)
Schede
(di S. Biazzo, A. Botti, L. Casali, N. del Corno, M. Llombart, M. Novarino, A. Olivares)
Segnalazioni bibliografiche
Luciano Casali, Luigi Paselli, Un aggiornamento della bibliografia sulla guerra ci­
vile spagnola in Italia-, Spoglio riviste del 1955
Cuestión de detalle (A. Botti)
Note a convegni
Giovani, memoria e storia del Novecento
Maurizio Gusso
I complessi rapporti tra formazione dei gio­
vani, memoria e storia — con particolare ri­
ferimento a quella del ventesimo secolo —
sono stati al centro del VII Seminario di stu­
dio sulla storia contemporanea “ Giovani me­
moria e storia: la storia nella formazione del­
le nuove generazioni” , promosso dal Centro
ricerche Giuseppe Di Vittorio, dalla Fonda­
zione Anna Kuliscioff e dall’Istituto milanese
per la storia della Resistenza e del movimen­
to operaio (Isrmo) e svoltosi il 19 settembre
1996 nella sala consigliare del Palazzo comu­
nale di Sesto San Giovanni. Il seminario ha
preso lo spunto da un testo base di Alessan­
dro Cavalli (/ giovani e la m em oria del fa s c i­
smo e della R e siste n za , “ Il M ulino” , 1996,
n. 1), letto preventivamente dai discussants.
Per problemi di spazio, si sintetizzano qui so­
lo gli interventi di Cavalli e dei discussants.
Dopo l’apertura dei lavori da parte del
presidente deH’Isrmo Elio Quercioli e del vicesindaco di Sesto San Giovanni Angelo Ge­
losa, Cavalli ha ripreso l’ipotesi di fondo del
suo scritto — la monumentalizzazione della
Resistenza come veicolo per la rimozione
del fascismo dalla coscienza collettiva degli
italiani — chiarendone le implicazioni meto­
dologiche. A tale ipotesi Cavalli è giunto a
partire dai suoi studi sulle reazioni delle co­
munità locali a eventi cruciali come i terre­
moti e sulle diverse modalità di una ricostru­
zione della comunità (a un tempo ricostruzio­
ne di un’identità e di una memoria), ricondu­
cibili a due grandi modelli.
Italia contemporanea”, marzo 1997, n. 206
In primo luogo il “modello Friuli” , basato
sulla rimozione dell’evento cruciale (il terre­
moto) al fine di poter ricostruire la continuità
con il passato precedente tale evento (la rico­
struzione è avvenuta cercando di conservare
il più possibile della struttura della comunità
precedente, senza celebrare con alcun monu­
mento l’evento cruciale distruttivo).
A esso si contrappone il “modello Gibellina” , basato sulla rimozione del passato pre­
cedente l’evento cruciale terremoto attraver­
so la sua monumentalizzazione (la nuova Gibellina è stata ricostruita in un territorio di­
verso da quello dove sorgeva precedentemen­
te; sulle macerie della vecchia Gibellina è sta­
to eretto un monumento alle vittime del ter­
remoto).
Cavalli ha precisato il carattere “provoca­
torio” del suo contributo da sociologo al di­
battito storiografico e le questioni di metodo
inerenti al trasferimento della categoria psi­
canalitica di “rimozione” dall’ambito origi­
nario degli individui, che dimenticano, attra­
verso un processo a metà intenzionale, a me­
tà non intenzionale, eventi o situazioni della
loro vita che rappresentano una minaccia al­
la loro identità, all’ambito delle collettività
umane, dove il processo di rimozione ha a
che fare con i contenuti e i modi del discorso
pubblico, politico o pedagogico.
Al di fuori dell’esperienza diretta, i canali
di trasmissione della memoria possono essere
i familiari/conoscenti, la scuola e i media. La
trasmissione della memoria del fascismo alle
174
Maurizio Gusso
generazioni nate dopo il 1945 (che rappresen­
tano oggi più dei due terzi degli italiani)
avrebbe seguito il “ modello Gibellina” per
il concorso di una serie di fattori. La memo­
ria del fascismo sarebbe stata rimossa da par­
te della maggioranza dei familiari/conoscenti
dei nati prima del 1945 per l’imbarazzo di es­
sere stati fascisti o di non essersi opposti al
fascismo; da parte della scuola, dove non è
infrequente che il programma di storia si con­
cluda con la prima guerra mondiale, si sareb­
be verificata una forma di reticenza analoga;
il grosso dell’informazione sarebbe stato vei­
colato dai media e sarebbe giunto alle genera­
zioni nate dopo il 1945 in forma di frammenti
sparsi, non riconducibili a schemi interpreta­
tivi adeguati. D ’altra parte, le stesse grandi
culture politiche fondatrici della prima re­
pubblica, nata dalla Resistenza, avrebbero,
sia pure in forme e gradazioni diverse, contri­
buito a rimuovere alcuni aspetti della memo­
ria del fascismo: la “cultura liberal-democratica” , adottando l'interpretazione crociana
del fascismo come parentesi oscura nel pro­
cesso di costruzione della democrazia libera­
le, avrebbe rimosso le proprie responsabilità
nei confronti dell’avvento del fascismo; la
“ cultura cattolica” avrebbe rimosso le re­
sponsabilità della Chiesa nei confronti della
formazione e del consolidamento del regime
fascista; la “ cultura socialista m arxista”
avrebbe rimosso 1’esistenza di nessi fra rivo­
luzione bolscevica e nascita dei movimenti fa­
scisti in Europa (a questo proposito Cavalli
ha criticato sia gli storici revisionisti come
Nolte, sia il rifiuto acritico degli elementi
utilmente provocatori delle sue tesi, pur uni­
laterali).
Cavalli ha concluso la sua comunicazione
introduttiva ricordando il carattere ambiva­
lente — fra monumentalizzazione/rimozione
e ricordo — di ogni celebrazione e auspican­
do l’invenzione di nuove forme di trattazione
della Resistenza in grado di trasformarla in
un momento di trasmissione e non di rimo­
zione della complessa memoria del fascismo.
Franco Della Peruta ha affrontato il nodo
della trasmissione della memoria e della co­
noscenza storica attraverso la scuola a parti­
re dai complessi problemi della motivazione
dei giovani allo studio della storia e del neces­
sario equilibrio fra ricerca storica e trasmis­
sione didattica; ha suggerito, analogamente
a quanto sta attualmente realizzando il mini­
stero, di recuperare la trasmissione di valori
morali, civili e politici attraverso l’educazio­
ne civica e di dilatare il tempo scolastico ri­
servato alle grandi trasformazioni e alla con­
tinua accelerazione storica degli ultimi due
secoli, dedicando al Novecento l’ultimo anno
della secondaria superiore e recuperando la
conoscenza dei secoli precedenti per grandi
aree tematiche e problematiche.
Luigi Vimercati ha sostenuto che gli inse­
gnanti dei licei normalmente affrontano fa­
scismo, antifascismo e Resistenza, mentre
più facilmente rimuovono l’esperienza dei re­
gimi comunisti e raramente affrontano la sto­
ria successiva alla seconda guerra mondiale,
pure presente nei programmi e nei manuali.
I problemi nascono dai meccanismi distorti
degli esami di m aturità (non sempre storia
rientra fra le materie d’esame) e degli abbina­
menti di cattedra (che vedono storia ancella
di filosofia o di letteratura italiana), ma più
ancora dalla sempre maggiore perifericità
della scuola nell’educazione dei giovani e
dai limiti delle soluzioni istituzionali e con­
trattuali previste per la formazione dei do­
centi (burocratizzazione dei corsi di aggior­
namento e mancato riconoscimento dell’autoaggiornamento); gli Istituti storici della
Resistenza potrebbero costituire indispensa­
bili centri per la promozione dell’insegna­
mento della storia e in particolare di quella
contemporanea.
Angelo Bendotti ha sottolineato come la
trasmissione della memoria storica — un te­
ma da tempo dibattuto nella rete federativa
degli Istituti storici della Resistenza — sia
agevolata o contrastata anche a seconda dei
linguaggi utilizzati e ha citato due incisivi
Note a convegni
esempi di trasmissione della memoria storica
attraverso i nuovi linguaggi dei media: il li­
bro, il video e il compact disc realizzati da Da­
vide Ferrario, Guido Chiesa e altri (D. Ferra­
no e al., M ateriali resistenti, Bergamo, Dinosaura/Laboratorio 80, 1995; il Cd M ateriale
resistente contiene reinterpretazioni di famo­
si canti della Resistenza da parte di gruppi
rock italiani) e una rilettura a fumetti della
Shoah (Art Spiegelman, M aus: racconto di
un sopravvissuto, Milano, Rizzoli, 19891992,2 voi.); spesso le generazioni nate prima
del 1945 non riescono a trasmettere la memo­
ria storica perché usano vecchi linguaggi e
forme di comunicazione inadeguate in quan­
to intrise di retorica monumentalizzante.
Claudio Pavone, riprendendo alcune ri­
flessioni di Vittorio Foa ( Questo Novecento,
Einaudi, Torino, 1996), ha ricordato che ogni
generazione e ogni individuo pongono al pas­
sato domande diverse, legate a contesti diver­
si, anche se si può recuperare il concetto, ela­
borato da Marc Bloch nell 'Apologia della sto­
ria, di “ generazione lunga” , che accomuna
generazioni e individui legati da analoghe
esperienze. Il necessario equilibrio fra memo­
ria e oblio non può essere regolato a priori:
ogni generazione, ogni persona deve scegliere
fra le varie soluzioni dei problemi che gli po­
ne la vita individuale e collettiva; studiare la
memoria e la storia del passato significa tra­
smettere il senso della scelta. Fra storiografia
e memoria ci devono essere sia distinzione,
sia intreccio: da un lato la costruzione della
storiografia è diversa dalla elaborazione della
memoria; dall’altro, però, entrambe possono
contribuire a creare una coscienza civica che
saldi l’omaggio pietoso ai morti e la scoperta
delle radici di lunga durata del presente. Il
nesso fra monumentalizzazione e rimozione,
come pure l’ideologia della “ pacificazione”
tra antifascisti e fascisti, che si riallaccia al re­
visionismo storiografico, sono sintomi di un
cattivo rapporto fra memoria e storiografia.
Elda Guerra ha presentato la ricerca “ In­
dividualità, generazioni e popolazioni giova­
175
nili. Tracciati, valori, cornici”, promossa dal
Centro di documentazione delle donne di Bo­
logna e dal Landis (Laboratorio nazionale
per la didattica della storia) e condotta attra­
verso 80 interviste in profondità a 40 ragazze
e 40 ragazzi di 16-20 anni delle aree metropo­
litane di Bologna, Roma e Milano (in colla­
borazione con lTsrmo). L’ipotesi di partenza
è che la modificazione profonda delle forme
di esperienza e delle concezioni del mondo
delle generazioni più giovani, influenzata
dalle nuove tecnologie comunicative, costrin­
ga a ripensare il rapporto fra insegnamento e
apprendimento della storia. Dalla parte della
ricerca dedicata alle immagini della Resisten­
za emergono memorie fortemente divise
(condizionate dalle diverse scelte fatte all’e­
poca dai nonni), variegate e ambivalenti (la
Resistenza come movimento di liberazione
includente anche le donne e la resistenza
non arm ata, ma su uno sfondo di guerra e
violenza), ricollegabili a un rapporto difficile
con la contem poraneità (guerra del Golfo,
guerra jugoslava, Cemobyl, caduta del muro
di Berlino; stragi nell’Italia repubblicana) e
con il futuro, immaginato o come riproduzio­
ne dello stato di cose esistente o come cata­
strofe.
Altri interventi, più brevi, si sono succedu­
ti nel pomeriggio. Secondo Tommaso Detti
l’accelerazione storica e la mancata trasmis­
sione della memoria a opera della famiglia,
della scuola e dei mass media hanno prodotto
nelle giovani generazioni uno sradicamento
dal passato, una dilatazione del presente co­
me unico spazio possibile e un’incertezza
del futuro. Data questa frattura, la memoria
non è più ricostruibile. Il dopoguerra è finito
e l’esperienza dell’antifascismo, pur storica­
mente indispensabile alla costruzione della
democrazia in Italia, non è più riproponibile
come chiave privilegiata per declinare il so­
stantivo democrazia ai giovani. Come soste­
neva Nicola Gallerano, il contesto della con­
temporaneità non favorisce la formazione
della memoria se la storiografia non soccorre
176
Maurizio Gusso
a contestualizzare il passato in una prospetti­
va storica; un importante obiettivo formati­
vo della storia insegnata dovrebbe essere
quello di far riflettere sui complessi rapporti
e sulle differenze fra storia e memoria.
Dopo gli interventi di Vittorio Bellavite,
Federico Ottolenghi, Giovanni Cesareo,
Claudio Dellavalle e Vitaliano Caimi, Al­
berto De Bernardi ha sostenuto che nella
storia insegnata il ventesimo secolo è entra­
to solo come “ fattualistica” , ossia come se­
rie di informazioni frammentarie, slegate
dalle prospettive della storia-scienza; per in­
trodurlo a pieno titolo occorre ripensare le
rilevanze storiche (per esempio la modernità
e la sua crisi; i grandi sistemi ideologici; de­
mocrazia e partiti di massa; rapporto fra
sviluppo/sottosviluppo, modernizzazione,
Welfare State e forme di integrazione socia­
le negli stati) e le rilevanze formative (quelle
relative alla storia-scienza, ma anche quelle
tradizionali della formazione etica dei gio­
vani e della biografia della nazione, in cui
si fa fatica a integrare fascismo, antifasci­
smo, Resistenza e secondo dopoguerra, co­
me luoghi “ non pacificati” ), ridisegnando
tutti i programmi in modo da spostarne il
baricentro dalla storia antica e medievale al­
la contemporanea.
Dopo gli interventi di Guido Panseri, Teo­
doro Sala e Antonino Criscione, Gianni Perona ha sottolineato come Cernobyl, non a
caso spesso citato come evento cruciale dai
ragazzi intervistati nella ricerca del Landis,
sia un paradigma dell’incontrollabilità dei
processi storici e dell’opacità delle cose che
contano nella società contemporanea, carat­
terizzata dalla sovrabbondanza di informa­
zioni insignificanti; ha rammentato che la di­
dattica non può surrogare le rimozioni com­
piute dai soggetti storici (come la rimozione
della questione ebraica nella Resistenza ita­
liana); ha sostenuto che per insegnare il No­
vecento occorre un approccio interdisciplina­
re fondato sulla rottura dell’identificazione
idealistica fra storia, storia della filosofia/letteratura e filosofia/letteratura e della tradi­
zionale struttura narrativa della comunica­
zione storica, nonché sulla coscienza delle
connessioni, particolarm ente strette nella
tradizione occidentale, fra comunicazione
storica, comunicazione letteraria e discorso
politico.
Dopo gli interventi di Maurizio Gusso e
Marina Medi, Luigi Ganapini, concludendo
i lavori, ha rammentato i rischi insiti nella ri­
mozione della coscienza storica, di cui la ri­
mozione della complessità della storia del fa­
scismo, dell’antifascismo, della Resistenza e
del neofascismo rappresenta un esempio in­
quietante, e ha sottolineato la densità e l’in­
tensità del dibattito, di cui ha auspicato un
approfondimento in ulteriori iniziative degli
istituti promotori e partecipanti al seminario.
Maurizio Gusso