Note e discussioni L ’efficienza dell’esercito italiano nella grande guerra Giorgio Rochat Gli studi Gli studi di taglio tradizionale. Parlare dell’ef­ ficienza dell’esercito italiano non è facile, an­ che perché gli studi disponibili forniscono scarso aiuto1. Prendiamo come riferimento da una parte la relazione ufficiale deH’Ufficio storico dello Stato maggiore dell’esercito e le pubblicazioni documentarie che la integrano, dall’altra gli studi di Roberto Bencivenga e Piero Pieri, ossia la migliore riflessione tecni­ ca sulla guerra italiana2. Tutti lavori che ri­ salgono sostanzialmente al ventennio tra le due guerre mondiali, appoggiati e ampliati da una produzione abbondante dello stesso periodo, di livelli diversi e con componenti crescenti di agiografia. Questi studi offrono una buona base docu­ mentaria e narrativa, sufficientemente com­ pleta, dettagliata e onesta nel riconoscere le nostre sconfitte e il valore del nemico, con un limite di fondo: sono condotti soltanto su fonti interne (memorie dei comandanti e carteggi degli alti comandi e del ministero della Guerra), con una scarsa conoscenza de­ gli studi paralleli sia degli avversari che degli alleati (che hanno la stessa impostazione chiusa)3. E non utilizzano la ricchissima (e dispersa) memorialistica dei combattenti. Di conseguenza offrono una buona ricostruzio- Comunicazione presentata al convegno internazionale “ Grande guerra e mutamento: una prospettiva comparata”, svol­ tosi a Trieste dal 28 settembre al 1° ottobre 1995. Con qualche modifica rispetto al testo originario, in corso di stampa con gli atti del convegno come fascicolo monografico della rivista fiorentina “ Ricerche storiche” . 1 Le indicazioni bibliografiche che diamo servono soltanto a esemplificare il discorso, senza alcuna ricerca di una com­ pletezza impossibile in questa sede. " Si veda in primo luogo la Relazione delTUfficio storico dello Stato maggiore dell’esercito, L ’Esercito italiano nella grande guerra 1915-1918, Roma, 1927 sg., 37 tomi, per due terzi usciti entro gli anni trenta, gli altri dalla fine degli anni sessanta al 1988. Tra le opere che la sorreggono hanno particolare importanza Le grandi unità nella guerra italo-austriaca 1915-1918 e i Riassunti storici dei corpi e comandi nella guerra 1915-1918, Roma, 1924-1931, 12 voi. Cfr. Oreste Bovio, L'Ufficio storico dell’Esercito. Un secolo di storiografìa militare, Roma, Ufficio storico dello Stato maggiore dell’eserci­ to, 1987. Inoltre Ministero della Guerra, Ufficio statistico, La forza dell’Esercito. Statistica dello sforzo militare italiano nella guerra mondiale, a cura di Fulvio Zugaro, Roma, 1927. Gli studi più importanti sono quelli di Roberto Benciven­ ga, Saggio critico sulla nostra guerra, Roma, 1930-1938, 5 voi. editi presso piccole tipografie perché l’autore era emar­ ginato come avversario del regime fascista, e Piero Pieri, La prima guerra mondiale 1914-1918. Problemi di storia mili­ tare, Torino, Facoltà di magistero, 1947 (quasi tutti contributi già apparsi su riviste storiche dal 1923 al 1941; nuova ed. a cura di G. Rochat, Roma, Ufficio storico dello Stato maggiore dell’esercito, 1986). Ci limitiamo a citare queste opere per chiarire cosa intendiamo per studi “tradizionali” . Per un discorso più ampio cfr. G. Rochat, L ’Italia nella prima guerra mondiale, Milano, Feltrinelli, 1976, e Id., Gli studi di storia militare sull’Italia contemporanea, “ Rivista di storia contemporanea”, 1989, n. 4, pp. 605-627. 3 Fa eccezione Pieri, che conosce bene la produzione austriaca e quella tedesca relativa al fronte italiano e recensisce molte opere di interesse generale francesi, tedesche e austriache (e inglesi tradotte). ‘Italia contemporanea”, marzo 1997, n. 206 88 Giorgio Rochat ne delle decisioni strategiche e delle operazio­ ni, senza scendere al comportamento dei mi­ nori reparti e dei soldati; e non affrontano problemi (pur dibattuti vivacemente nel do­ poguerra) come il dissenso dei soldati, il regi­ me disciplinare, la prigionia. Inoltre questa produzione risente del calo di vivacità culturale degli ambienti militari ne­ gli anni trenta, di cui si possono indicare più cause: la tendenza del regime fascista a favori­ re in ogni campo la celebrazione rispetto alla discussione, la naturale inclinazione di un esercito vittorioso a non mettere in discussio­ ne le esperienze e i risultati raggiunti durante il conflitto, un corpo ufficiali che dava più pe­ so all’anzianità che alla preparazione e tende­ va a chiudersi su se stesso. Il discorso dovreb­ be essere più ampio, ma ciò che ci interessa ri­ levare è che negli anni trenta le esperienze del­ la grande guerra furono oggetto in Germania e Gran Bretagna (un po’ meno in Francia) di riesami e approfondimenti parziali e di revi­ sioni critiche di respiro, mentre in Italia la cri­ tica storico-militare calava di livello e gli studi di Bencivenga e Pieri avevano una diffusione limitata45.Dopo il 1945 questo settore di studi non ha avuto particolare sviluppo3. In com­ plesso, ci garantisce una solida base, ma lascia troppi problemi senza risposta. Gli studi critici degli ultimi decenni. Alla fine degli anni sessanta tre volumi riaprono il di­ scorso sulla grande guerra: I vinti di Caporetto e II mito della grande guerra di Mario Isnenghi e Plotone d ’esecuzione di Enzo For­ cella e Alberto Monticone6. Negli anni set­ tanta l’interesse critico per la storia naziona­ le della generazione del ’68 favorisce lo svi­ luppo di un filone di ricerche centrate sulle proteste e la repressione interne all’esercito (i contributi più sbrigativi sono giustamente dimenticati, ma altri meritano tuttora piena considerazione). Poi gli studi si ampliano al fronte interno, ai problemi della mobilitazio­ ne industriale e della classe operaia, all’orga­ nizzazione del consenso a più livelli. Gli anni ottanta vedono il successo di un altro filone di ricerche sulle varie forme di disadatta­ mento provocate dal conflitto, sulle diverse nevrosi dei combattenti e sulle reazioni delle istituzioni sanitarie e militari7. Infine, anche per l’influsso della storiografia inglese e francese, il discorso si amplia ai problemi dei comportamenti e mutamenti collettivi, 4 Dal clima di vivaci critiche e audaci proposte del dopoguerra italiano, così come di aspre polemiche tra generali (cfr. G. Rochat, L ’esercito italiano da Vittorio Veneto a Mussolini, Bari, Laterza, 1967) e dai buoni studi degli anni venti si passa gradualmente a un conformismo ora dignitoso ora trionfalistico, in cui non è possibile una riflessione critica sulle vittorie d’Etiopia e di Spagna. Tutti gli studi presentati da Pieri (e raccolti in La prima guerra mondiale 1914-1918, cit.) che non si limitano a analizzare la guerra combattuta, ma ne traggono spunto per riflessioni più ampie sono di autori stranieri (Konrad Kraft von Dellmensingen, Alfredo Krauss, G.C. Wynne, Jean Montheilet). Comunque Pieri non mo­ stra di conoscere studiosi innovatori come Basii Henry Liddel Hart, Heinz Guderian, Charles De Gaulle. 5 L'affermazione è ingiusta verso gli ultimi lavori di Pieri e i primi di Monticone, nonché per gli ultimi volumi della Relazione ufficiale. Tuttavia riassumiamo una situazione generale, rimandando a G. Rochat, L ’Italia nella prima guerra mondiale, cit. Non si è finora avuta una ripresa di ricerche sistematiche nei grandi archivi della guerra, visti soltanto per episodi e problemi limitati. 6 Mario Isnenghi, I vinti di Caporetto nella letteratura di guerra, Padova, Marsilio, 1967 (un volume meno noto dei se­ guenti, con un’interpretazione della sconfitta discutibile e stimolante, da rileggere); Enzo Forcella, Alberto Monticone, Plotone d ’esecuzione. Iprocessi della prima guerra mondiale, Bari, Laterza, 1968; M. Isnenghi, Il mito della grande guerra da Marinetti a Malaparte, Bari, Laterza, 1970 (volume ancora oggi fondamentale; 2a ed. Bologna, Il Mulino, 1989). 7 L’asse della ricerca fu offerta dai convegni di Vittorio Veneto del 1978 (M. Isnenghi, a cura di, Operai e contadini nella grande guerra, Bologna, Cappelli, 1982; di Rimini del 1982 (Giovanna Procacci, a cura di, Stalo e classe operaia in Italia durante la prima guerra mondiale, Milano, Angeli, 1983) e di Rovereto del 1985 (Diego Leoni, Camillo Zadra, a cura di, La grande guerra. Esperienza, memoria, immagini, Bologna, 11 Mulino, 1986). Per una rassegna critica cfr. Bruna Bian­ chi, La grande guerra nella storiografia italiana dell’ultimo decennio, “Ricerche storiche” , 1991, n. 1; e Angelo D’ Orsi, La grande guerra. Ricerca storica e dibattito negli ultimi vent'anni, “Giano” , 1989, n. 3, e 1990, n. 4. L’efficienza dell’esercito italiano nella grande guerra che sono alla base del convegno di Trieste del 1995. Questi filoni di studi, che per brevità defi­ nisco critici o forse meglio innovativi, dal mio punto di vista hanno un grande merito e un limite di fondo. Il merito è evidentemen­ te di spostare l’interesse sull’uomo, sui singoli combattenti e poi sulla collettività della trin­ cea. Gli studi tradizionali non si occupano dei soldati che a livello di numeri e statistiche. La memorialistica (tutta di ufficiali) li rap­ presenta secondo stereotipi come il soldatino obbediente, l’eroe senza macchia, l’ardito entusiasta e terribile, oppure il vile capace di ogni bassezza (più recente e costruito lo stereotipo del ribelle e/o vittima della mac­ china bellica). I nuovi studi rovesciano il di­ scorso, da una parte con il difficile reperi­ mento e la valorizzazione di fonti documen­ tarie espresse dai soldati senza mediazioni, come epistolari, diari, memorie inedite (la piccola percentuale che si è salvata da ottant’anni di disinteresse), lavorando anche negli archivi di ospedali, tribunali, amministrazio­ ni locali e altri enti che gestivano momenti della vita militare. Dall’altra questi studi mi­ rano a ricostruire le reazioni dei soldati in trincea, in particolare ripercorrendo le diver­ se forme di rifiuto della guerra, dalle diser­ zioni e dalle nevrosi alle manifestazioni di dissenso o estraneità nelle lettere alle fami­ glie. Che la grande maggioranza dei soldati dovessero fare una guerra che non volevano e non capivano, è riconosciuto da tutta la produzione posteriore al 19458. Questi studi non cercano di quantificare il dissenso che registrano (del resto lavorano su campioni molto ristretti), ma gli danno una valenza più profonda: si tratta di un dissenso “ esi­ stenziale” , che non nasce da situazioni speci­ fiche riconducibili a vicende individuali, ma dalla natura stessa della guerra, da una si­ tuazione di tutti. I casi di diserzione non con­ tano tanto per il numero di quelli rilevati e 89 perseguiti, ma perché esprimono una tenden­ za collettiva, un rifiuto generalizzato nel profondo, anche quando non trovano realiz­ zazione per l’intervento di fattori esterni, in sostanza l’articolato apparato repressivo. Ritengo che questi studi (che costituiscono un complesso assai più ricco e talora contrad­ dittorio di quanto si possa dire in poche ri­ ghe) siano di grande interesse e importanza, perché per la prima volta affrontano con in­ telligenza e documentazione i comportamen­ ti dei soldati. Il loro limite di fondo, mi sem­ bra, è che si fermano all’analisi del rifiuto, senza prendere in considerazione i fattori che ne limitano l’incidenza (che ovviamente non possono essere ricondotti soltanto al­ l’apparato repressivo). In sintesi, per chi stu­ dia l’orrore e i sacrifici della guerra di trincea, la cosa più notevole non è che una minoranza di soldati abbia cercato una fuga nell’autolesionismo, nella diserzione, nelle nevrosi o al­ tro, ma che la grande maggioranza abbia continuato a sopportare e combattere. Gli studi settoriali su corpi e combattimenti. Negli ultimi decenni ha avuto un interessante sviluppo un altro filone di studi militari setto­ riali, ossia dedicati a episodi delimitati (la ricostruzione di un combattimento, la storia di un forte o di una cima) oppure a singoli corpi e reparti. Sono ricerche generalmente legate alle regioni nord-orientali, dove le tracce del­ la grande guerra sono ancora visibili, spesso condotte al di fuori di università e istituzioni e in collaborazione con studiosi austriaci (più raramente sloveni), con editori locali e una diffusione regionale. Offrono pregevoli ap­ profondimenti degli aspetti operativi, che do­ cumentano la capacità e l’efficienza delle truppe contrapposte, senza cedimenti agio­ grafici più gravi di una certa retorica alpina (non ci occupiamo della parallela sottopro­ duzione turistico-commerciale). La produ­ zione è troppo articolata perché sia possibile Cfr. Piero Melograni, Storia politica della grande guerra, Bari, Laterza, 1969. 90 Giorgio Rochat citare alcune opere rappresentative. Dal no­ stro punto di vista il limite di questi studi è che sono dedicati prevalentemente alla guer­ ra in montagna e ai battaglioni alpini, quindi le loro conclusioni sono soltanto parzialmen­ te utilizzabili per il fronte dell’Isonzo. Le maggiori lacune degli studi. La lacuna più grossa degli studi militari sulla guerra italia­ na è senza dubbio la mancanza di ricerche comparative su quanto avveniva sugli altri fronti. Il fatto è così evidente che non deve es­ sere illustrato. Gli studi francesi, tedeschi, in­ glesi e ora statunitensi sulla prima guerra mondiale sono ormai intrecciati, ma conti­ nuano a considerare il fronte italo-austriaco del tutto secondario, né degno di qualche in­ teresse (basti pensare agli errori e sciocchezze di cui sono generalmente farcite le poche pa­ gine che le storie generali del conflitto devo­ no dedicare all’Italia). Dalla nostra parte la situazione non è molto migliore: gli storici italiani conoscono oggi la produzione stra­ niera, ma la utilizzano come stimolo più che come strumento di lavoro e confronto (ecce­ zion fatta per le ultime ricerche su nevrosi, comportamenti e mutamenti e per quelle sul­ la guerra di montagna)9. A titolo d’esempio, gli studi su diserzione e rifiuto di obbedienza non si preoccupano di cercare un confronto con quanto avveniva negli altri eserciti (a co­ minciare dagli ammutinamenti francesi del 1917) 10. Una conseguenza di questa situazione è che gli studi stranieri vecchi e nuovi sull’orga­ nizzazione della guerra di trincea, sulla tatti­ ca offensiva e difensiva, ma anche su logistica e retrovie, hanno avuto scarsa eco in Italia, così come gli studi innovativi di Jules Maurin sui soldati11. Un’altra lacuna che va segnala­ ta è la mancanza di storie generali sulla guer­ ra italiana in cui gli aspetti militari abbiano rilievo adeguato12. Un fatto indicativo della discontinuità della ricerca storica nazionale sulla grande guerra. In conclusione, gli studi disponibili non si pongono il problema dell’efficienza dell’eser­ cito e non offrono strumenti specifici per va­ lutarla, ancora con l’eccezione di quelli setto­ riali citati. L’efficienza dell’esercito: metri di valutazione Il concetto di efficienza di un esercito è quan­ to mai vago e opinabile. Non esiste la possi­ bilità di definirla e valutarla in termini ogget­ tivi, come un record di atletica leggera; l’effi­ cienza di un esercito è semmai simile a quella di una squadra di calcio, si misura soltanto nel confronto con gli avversari del momento e sui risultati conseguiti. Però l’esito di una guerra è ben più difficile da valutare che il successo nel campionato di calcio o nella coppa del mondo. Se bastasse la vittoria, non ci sarebbero dubbi, perché l’esercito ita­ liano uscì vittorioso dalla grande guerra; ma rimane il problema dei costi del successo e delle sue conseguenze. In sostanza, nessuno 9 II convegno di Trieste del 1995 sulla grande guerra (cfr. nota zero) è il primo italiano in ottant’anni impostato real­ mente su base internazionale, anche se le relazioni straniere e italiane sono affiancate e non ancora intrecciate e svilup­ pate in chiave comparativa. 10 Cfr. Guy Pedroncini, Les mutineries de 1917, Paris, Puf, 1967, e 1917. Les mutineries de l ’armée française, Paris, Julliard, 1968. 11 Cfr. Jules Maurin, Armée, guerre, société. Soldats languédociens 1889-1919, Paris, Pubi. Sorbonne, 1982. Si tratta dell’unico studio sistematico di un campione di soldati francesi analizzati secondo angolature diverse; per indicarne l’in­ teresse, viene documentato per la prima volta che le perdite in guerra sono percentualmente più elevate per i contadini (a cominciare da quelli poveri) che per i cittadini e soprattutto per la borghesia. 12 Con l’eccezione di P. Pieri, L'Italia nella prima guerra mondiale, Torino, Utet, 1960 [poi Torino, Einaudi, 1965], vo­ lumetto da tempo sorpassato (e oggi non più ristampato), ma non ancora sostituito adeguatamente. L’efficienza dell’esercito italiano nella grande guerra dei metri possibili si presta a valutazioni pre­ cise e indiscutibili. Tutto il discorso si svolge su interpretazioni e giudizi soggettivi. Cer­ chiamo almeno di condurlo con ordine. L ’“opinione comune” dell’inefficienza italia­ na. La convinzione di una scarsa efficienza dell’esercito italiano è diffusa. La storiogra­ fia straniera non ha dubbi sul fatto che le no­ stre truppe valessero poco sotto tutti i punti di vista, ma non merita attenzione perché giudica sulla base di pregiudizi vecchi e nuovi (non senza punte di razzismo, anche nei rari giudizi benevoli) e non di studi seri. Anche una frequente “opinione comune” nazionale non ha dubbi. La maggior parte degli storici italiani che studiano il conflitto nei suoi aspetti politici, economici, sociali (senza di­ stinzioni di tendenze politiche) dà per sconta­ to che l’efficienza dell’esercito fosse piuttosto scarsa, senza sentire il bisogno di una verifi­ ca. Una “ opinione comune” molto diffusa che nasce da più fattori: una reazione legitti­ ma ai trionfalismi non solo fascisti, la pro­ fonda impressione che lasciano ancor oggi i massacri sul Carso, l’eco di critiche fondate e non approfondite, anche il discredito getta­ to sui generali dall’infausto esito della guerra di Mussolini, infine la tendenza nazionale a oscillare senza mezze misure tra gli entusia­ smi nazionalistici e l’autoflagellazione vittimistica. U n’analisi delle cause e della diffu­ sione di questa “ opinione comune” sarebbe comunque opportuna, poiché l’immagine può contare più della realtà dei fatti. Questa “opinione comune” non tiene con­ to degli studi tradizionali citati, in primo luo­ go perché pochi li conoscono davvero, poi perché non possono rispondere ai molti dub­ bi e interrogativi delle ricerche recenti. La storiografia critica non si occupa di valuta­ zioni generali sull’efficienza dell’esercito, ma, anche al di là delle intenzioni e dei risul­ tati conseguiti, finisce col presentarlo come minato alle radici dal rifiuto dei soldati, da diserzioni e rivolte. Non bastano a corregge­ 91 re questa tendenza gli studi settoriali citati, perché hanno una diffusione limitata e pos­ sono essere liquidati sbrigativamente come combattentistici, tanto più che non sono fir­ mati da docenti universitari. Elementi comparativi. La prima esigenza per una valutazione meno superficiale è l’uscita dal provincialismo, ossia l’attenzione a quan­ to accadeva fuori d’Italia. Come abbiamo detto, studi comparativi non esistono, né sa­ rebbe comunque facile un confronto tra eser­ citi impegnati su fronti diversi e contro av­ versari diversi. Si possono tuttavia fare alcu­ ne osservazioni parziali. In primo luogo, dal­ l’insieme degli avvenimenti e della storiogra­ fia è impossibile non riconoscere alle truppe italiane un’efficienza più o meno pari a quelle austro-ungariche, inferiore nel nostro primo anno di guerra e superiore nell’ultimo. La mancanza di studi comparativi (che in questo caso sarebbero possibili, anzi doverosi) limi­ ta tuttavia il riconoscimento: l’esercito au­ stro-ungarico va misurato sulla buona fama che aveva nel 1914 e sulle prove migliori date nel conflitto, oppure sulle sue sconfitte e sul crollo finale? E interessante notare quanto continui a pesare nei nostri giudizi e pregiudi­ zi la propaganda denigratoria del tempo di guerra, che agli austriaci riconosceva soltan­ to la ferocia nel combattimento, ma non la dignità di un grande esercito (tanto che ancor oggi Caporetto sembra una vittoria tutta te­ desca). In secondo luogo, il confronto con gli altri eserciti che operarono in Italia merita mag­ giore attenzione, perché non convalida l’“ opinione comune” dell’inferiorità italiana. Le divisioni tedesche che avevano trionfato a Caporetto non riuscirono nelle settimane se­ guenti a sfondare sul Grappa e sul Piave. E le divisioni francesi e inglesi scese in Italia dopo Caporetto e impiegate in prima linea nel 1918 non dimostrarono una particolare superiori­ tà su quelle italiane. Entrambi gli episodi non sono di dimensioni cosi rilevanti da permette­ 92 Giorgio Rochat re conclusioni generali, ma non vanno di­ menticati (e meriterebbero studi specifici). Non servono poi studi approfonditi, ma basta una qualche conoscenza della guerra sul fronte occidentale per ridimensionare tut­ ta una serie di accuse tradizionali all’esercito italiano. Gli attacchi frontali reiterati con perdite spaventose e risultati minimi, la rot­ tura in profondità sempre annunciata e mai raggiunta, i gravi errori dei generali e la bru­ talità del regime disciplinare, autolesionismo e nevrosi, diserzioni e ammutinamenti, sono elementi connaturati alla guerra di trincea su tutti i fronti. Registrarli e denunciarli si­ gnifica mettere in evidenza la crisi dell’“arte m ilitare” e i problemi di efficienza di tutti gli eserciti della prima guerra mondiale, anzi­ ché dare per scontata l’inferiorità dell’eserci­ to italiano. Gli obiettivi della guerra. Un metro di valuta­ zione troppo spesso dimenticato, ma indiscu­ tibile, è la capacità dell’esercito italiano di raggiungere gli obiettivi che il governo gli in­ dicava, anzi di andare oltre i piani di Sonnino, visto che ottenne non soltanto la sconfit­ ta, ma la disgregazione dell’Austria-Ungheria. Ciò richiese tre anni e mezzo di guerra, invece dei pochi mesi preventivati, e perdite spaventose in uomini e risorse; ma lo stesso si può dire per inglesi e francesi. È poi indi­ scutibile che l’esercito austro-ungarico aveva già subito un forte logorio nel 1914-1915 con­ tro russi e serbi prima di concentrare le sue energie sul fronte italiano; ma questo era il presupposto dell’intervento del maggio 1915, l’esercito italiano non poteva affronta­ re alla pari quello austro-ungarico, quindi si inseriva in una guerra di coalizione. Il fatto che l’esercito rispose appieno alle esigenze del governo e della classe dirigente dovrebbe già essere il miglior riconoscimento possibile. Le disillusioni del dopoguerra non gli sono imputabili, se non in quanto una vit­ toria superiore alle aspettative e gonfiata dal­ la propaganda incoraggiò ambizioni impe­ rialistiche che non tenevano conto dei rap­ porti di forza internazionali. D ’altra parte non si può dimenticare, ri­ spetto agli obiettivi politici della guerra, che il disastro di Caporetto per le sue dimensioni e conseguenze rappresentò una perdita di prestigio grave e duratura per l’esercito e il paese, non compensata dalla successiva ri­ presa. La responsabilità della sconfitta fu in primo luogo degli alti comandi, su questo non ci sono più dubbi; la sua amplificazione politico-morale fu però dovuta alle crisi e tensioni interne alla classe dirigente, mentre la Francia seppe incassare molto meglio gli ammutinamenti del 1917 e le sconfitte del 1918. L ’organizzazione della guerra. Anche per quanto riguarda la capacità di crescere e du­ rare l’esercito italiano non fu inferiore alle esigenze. Dal 1915 al 1917-1918 gli uomini al fronte passarono da uno a due milioni, malgrado perdite complessive che superaro­ no i due milioni, con uno straordinario incre­ mento della potenza di fuoco e un forte mi­ glioramento del rendimento delle truppe. So­ no dati noti: in Italia come negli altri bellige­ ranti, i generali difettavano di genialità, ma non di capacità organizzative. Certo Francia e Germania mobilitarono un numero più alto di uomini in rapporto alla popolazione e ac­ cettarono perdite maggiori; ma partivano da posizioni di vantaggio in tutti i campi, dal­ l’industria alla scuola, dalla “ nazionalizza­ zione delle masse” alla coesione della classe dirigente. L’Italia del 1915 era invece un pae­ se semi-industrializzato e con elementi di de­ bolezza politica che non hanno riscontro ne­ gli altri belligeranti. Come è noto, l'interven­ to fu deciso da un governo che non aveva l’appoggio delle masse né dello stesso parla­ mento, senza poter contare sulla forza del­ l’appello alla difesa da un’aggressione (le “ radiose giornate di maggio” 1915 poco han­ no a che vedere con le “mobilitazioni di ago­ sto” 1914 degli altri belligeranti), con una L’efficienza dell’esercito italiano nella grande guerra classe dirigente divisa tra neutralisti e inter­ ventisti e un partito socialista che, per quanto sconfitto e in definitiva coinvolto nello sforzo bellico, non vi giocò il ruolo propulsivo che ebbero i socialisti negli altri paesi. È degno di nota che, malgrado questi svantaggi di fondo, la classe dirigente liberale sapesse esprimere una straordinaria decisione e capa­ cità di egemonia, con una mobilitazione di energie che non badava ai costi, la cui forza si può misurare appieno nel confronto con l’Italia di Mussolini del 1940, che a questa mobilitazione per la guerra rinunciava in partenza. L’esercito italiano fu uno strumen­ to adeguato della politica nazionale anche sotto questo punto di vista. Tutto ciò aveva dei prezzi. Non ha senso addebitare soltanto alla durezza e chiusura di Cadorna la scarsa attenzione per le esigen­ ze dei soldati nel 1915-1917 per quanto ri­ guarda il regime disciplinare, ma più ancora vitto, riposo, licenze, assistenza morale e pro­ paganda. Erano il governo e la classe dirigen­ te che, consapevoli della mancanza di una partecipazione di massa alla guerra, ne de­ mandavano tutta la gestione alle strutture mi­ litari, con un implicito invito a dare la priorità al controllo coercitivo rispetto a una ricerca articolata di consenso. La forte personalità di Cadorna irrigidi e esasperò questa situazio­ ne, anche perché il governo continuava a sot­ trarsi alle sue responsabilità non verso il co­ siddetto disfattismo interno, ma verso i solda­ ti. La maggior cura che sotto Diaz fu dedicata alle loro esigenze non rappresenta una svolta democratica o populistica della gestione della guerra, ma è la conseguenza sia di una tardiva rivedicazione del proprio ruolo da parte di governo e forze politiche, sia dell’ascesa ai co­ mandi di colonnelli e generali più giovani, ca­ paci di tenere maggior conto delle esigenze dei soldati per la diretta esperienza che avevano della guerra combattuta. 93 L ’efficienza in combattimento. Abbiamo fino­ ra detto che l’esercito seppe conseguire gli obiettivi che il governo gli indicava, affron­ tando uno sviluppo eccezionale delle sue strutture, e che i suoi limiti più evidenti erano comuni agli eserciti alleati e nemici, conse­ guenza della natura di logoramento che la guerra di trincea comportava. Fino a questo punto si può parlare di un’inferiorità italiana soltanto sotto l’aspetto quantitativo: la Fran­ cia, con una popolazione non troppo supe­ riore (e uno sviluppo economico assai più forte) mise in campo molti più battaglioni e cannoni e sopportò il doppio di perdite, an­ che se dopo il collasso dell’aprile 1917 fu co­ stretta a affidare le speranze di vittoria agli inglesi e poi anche agli statunitensi. Rimane il problema maggiore, più dibat­ tuto e meno misurabile: l’efficienza in com­ battimento. Per una serie di settori questa ef­ ficienza non è mai stata messa in discussione, a cominciare dalla guerra di montagna, che italiani e austriaci condussero con prove in­ numerevoli di impegno e capacità tecnica. Le critiche hanno risparmiato anche l’avia­ zione13 e la marina. E l’efficacia dei reparti d’ assalto fu riconosciuta dovunque in termi­ ni persino eccessivi14. La discussione è invece aperta sul comportamento del grosso dell’e­ sercito dove i combattimenti ebbero dimen­ sioni di massa e raggiunsero la maggiore du­ rezza, ossia nella guerra di trincea sull’Isonzo e sul Carso, sugli altipiani, poi sul Piave e sul Grappa. La nostra tesi è che l’efficienza di un eser­ cito nella guerra 1914-1918 non si possa mi­ surare che su un punto: la capacità di conti­ nuare a combattere malgrado tutto, gli ele­ menti interni di debolezza, la mancanza di successi e le perdite spaventose. Cercare di stabilire se una posizione austriaca avrebbe potuto essere conquistata più rapidamente o con perdite minori non soltanto è impossi­ 13 Cfr. Paolo Ferrari (a cura di), La grande guerra aerea 1915-1918, Valdagno, Rossato, 1994. 14 Cfr. G. Rochat, Gli arditi delta grande guerra, Milano, Feltrinelli, 1981 (2° ed. Gorizia, Goriziana, 1990). 94 Giorgio Rochat bile, ma non ha senso in termini generali, per­ ché il problema della guerra non era una trin­ cea in più o in meno, bensì la continuità della pressione e il logoramento del nemico. Si può legittimamente sostenere che l’eser­ cito tedesco era più efficiente degli altri, se si tiene conto della sua capacità di continuare la guerra con alterni successi per quattro anni e mezzo in condizioni di costante inferiorità numerica (e spesso di mezzi). In questo caso le cifre sono evidenti e indiscutibili. Il fatto che francesi e inglesi non riuscissero a tradur­ re la loro superiorità in uomini e mezzi in una vittoria sul campo non autorizza però a accu­ sarli di inefficienza. Lo stesso si deve dire per la superiorità in uomini (e in un secondo tem­ po di mezzi) di cui fruì l’esercito italiano con­ tro quello austriaco: il divario non era tale da compensare lo svantaggio di dover condurre una guerra offensiva a oltranza. E l’obiettivo reale non era di arrivare a Trieste, ma di man­ tenere la pressione in una guerra di logora­ mento, in cui la decisione non poteva venire dai campi di battaglia1'. In sostanza, il problema per chi studia la guerra com battuta sul Carso e sul Piave non è stabilire il grado di efficienza dell’eser­ cito italiano, che si può misurare soltanto sul­ la sua capacità di continuare a combattere e logorare il nemico — e indiscutibilmente que­ sta efficienza ci fu1516. Il problema è cercare di capire come e perché l’esercito italiano conti­ nuò a combattere con un’efficienza sufficien­ te per impegnare e logorare il nemico, mal­ grado tutti gli elementi interni di debolezza, e in poi che misura questi elementi fossero espressione della natura stessa della guerra di trincea oppure propri della situazione ita­ liana17. Il problema di fondo: la coesione dei reparti In questa prospettiva l’elemento centrale del­ la ricerca diventa la coesione dei reparti. Chiamare alle armi milioni di uomini, am­ pliare le strutture dell’esercito, aumentarne la provvista di artiglierie e munizioni era im­ portante e fu fatto; ma sarebbe servito a ben poco, se i reparti al fronte non avessero di­ mostrato solidità, continuità, capacità di sa­ crificio e combattività, in definitiva una coe­ sione che li rendeva capaci di affrontare le prove più dure senza sfasciarsi, malgrado le dinamiche di fuga individuali. Precisiamo su­ bito che la coesione è un elemento necessario, ma non sempre sufficiente per l’efficienza di un reparto: la seconda guerra mondiale ri­ chiedeva anche addestram ento, iniziativa, elasticità di organizzazione. Nella guerra di trincea invece la coesione diventava l’elemen­ to determinante, come cercheremo di indica­ re (anche se più a livello di interpretazione che di documentazione, per la mancanza di studi specifici già indicata). Elementi di crisi e di continuità. Gli studi di questi ultimi decenni si sono concentrati so- 15 Beninteso questo approccio è valido soltanto per la prima guerra mondiale. Per la seconda i problemi di efficienza si pongono in modo del tutto diverso, con valutazioni articolate; ma non si trattava più di una guerra di logoramento, anche se in definitiva la vittoria fu decisa dalla maggior disponibilità di risorse della coalizione antifascista. 16 Si può dare un giudizio limitativo deH’efficienza dell’ esercito italiano sostenendo che dopo tutto l’esercito austriaco non era all’ altezza della sua fama prebellica. Allo stesso modo si può sostenere che anche francesi e inglesi non erano poi così efficienti, visto che non riuscirono a avere ragione dei tedeschi inferiori in numero. Ci sembrano discorsi privi di senso, dinanzi alle battaglie del Carso o di Verdun non si può misurare in voti e percentuali l’impegno dei combattenti. 17 11 recente volume di Lucio Fabi, Gente di trincea. La grande guerra sul Carso e sull'tsonzo , Milano, Mursia, 1994, costituisce un eccellente punto di riferimento, non soltanto per la ricchezza della documentazione diretta delle reazioni dei soldati italiani e austriaci e l’intelligenza dell’ analisi, ma per la capacità di presentare la guerra di trincea nella sua complessità, tra obbedienza, efficienza, rifiuto e sacrificio. Di grande interesse, ma purtroppo pervenutoci troppo tardi per poterlo utilizzare in questa sede, anche il volume di Antonio Sema, La grande guerra sul fronte dell’Isonzo, voi. I, Gorizia, Goriziana, 1995. L’efficienza dell’esercito italiano nella grande guerra prattutto sugli elementi di crisi della coesione dei reparti, in particolare sui casi di insubor­ dinazione collettiva e rivolta, su quelli di ri­ fiuto individuale e sulla rotta di Caporetto. L’analisi dei casi di insubordinazione colletti­ va dipende essenzialmente dalla documenta­ zione interna all’esercito, oggi disponibile, ma solo parzialmente utilizzata; vi ha lavora­ to M onticone18. Possiamo parlare di rivolta in un solo caso, quello noto della brigata Ca­ tanzaro nella notte tra il 15 e il 16 luglio 1917, che vide centinaia di uomini impugnare fucili e mitragliatrici nella vana speranza di riuscire a evitare il ritorno in prima linea; all’alba, di­ nanzi allo spiegamento di forze accorse, la ri­ volta rientrò, con un bilancio di due ufficiali uccisi e due feriti, 9 morti e 25 feriti tra i sol­ dati, cui seguirono 28 fucilazioni sommarie, 123 soldati arrestati e successivamente 4 con­ danne a morte. Abbiamo poi un certo nume­ ro di proteste collettive di reparti accampati nelle retrovie, che, nel momento in cui ricevo­ no l’ordine di risalire in prima linea, danno luogo a tumulti notturni, con grida sediziose, spari in aria, rifiuto di incolonnarsi per la marcia, minacce agli ufficiali (con un unico caso di un maggiore ferito). Ogni volta la protesta cessa all’alba e le truppe partono per il fronte. I casi documentati sono dieci, quelli in cui i comandi procedettero a esecu­ zioni sommarie19; è sicuro che ce ne furono altri, non sappiamo quanti, ma certamente non moltissimi. Non conosciamo casi di insu­ bordinazione collettiva in trincea (lo stesso si può dire per gli altri eserciti)20, dove la prote­ 95 sta delle truppe si traduce semmai nel tentati­ vo di sottrarsi al combattimento con l’imbo­ scamento, la fuga o la resa, secondo dinami­ che individuali o di piccoli gruppi su cui tor­ neremo. Tenendo conto delle dimensioni e della durezza del conflitto, i casi di protesta collettiva ci sembrano limitati. Nulla di lon­ tanamente paragonabile agli ammutinamenti francesi del 1917 (concentrati nel maggiogiugno, ma con strascichi fino aH’inverno se­ guente) che videro 250 casi di rivolta e prote­ sta collettiva di reparti in seconda linea (51 divisioni su 112 ne ebbero almeno due, 5 divi­ sioni da 9 a 16), con tumulti violenti anche se non sanguinosi e la richiesta esplicita di pa­ ce21. Ciò non ostante nessuno ha mai messo in dubbio il patriottismo della massa dei sol­ dati francesi, né l’efficienza e la continuità del loro esercito. I casi di rifiuto individuale sono invece cosi numerosi che non possono essere censiti con qualche approssimazione. Gli unici dati ri­ guardano i procedimenti giudiziari aperti, 100.000 per renitenza e 340.000 verso militari alle armi, e le condanne, 101.700 per diserzio­ ne, 24.500 per indisciplina, 10.000 per autole­ sionismo e 5.300 per resa o sbandamento22. Questi dati non bastano per misurare appie­ no la frequenza dei reati citati (non tutte le infrazioni venivano colte e perseguite, così come non tutte le denunce erano fondate, co­ me dimostra l’alta percentuale di assoluzio­ ni), ma ne indicano comunque le dimensioni di massa. E poi impossibile quantificare l’in­ cidenza delle nevrosi abbastanza gravi da ls Cfr. E. Forcella, A. Monticone, Plotone d ’esecuzione, cit., pp. 432 sg. 19 Notizie provvisorie tratte da una documentazione ampia e disordinata sui casi di esecuzioni sommarie, che abbiamo rinvenuto nell’ archivio deH’Ufficio storico dello Stato maggiore dell’esercito. Rinviamo all’appendice di questo testo. 20 Le vicende dell’esercito zarista sono troppo diverse per tenerne conto in questa sede. 21 Rinviamo agli studi di G. Pedroncini citati. Sono da aggiungere 130 manifestazioni di protesta nelle stazioni condotte da soldati in licenza. L’ordine fu ristabilito dal nuovo generalissimo Pétain con una repressione contenuta (554 condan­ ne a morte, di cui soltanto una settantina eseguite) e la rinuncia alla condotta aggressiva delle operazioni, oltre che con un grosso impegno per il miglioramento delle condizioni di vita dei soldati. 22 Cfr. E. Forcella, A. Monticone, Plotone d ’esecuzione, cit., pp. 438-440. Ci sono poi 30.000 condanne per reati diversi, come la cupidigia (le varie forme di furto) e la violenza (evidentemente non verso i superiori). Per un confronto con la seconda guerra mondiale si veda G. Rochat, La giustizia militare nella guerra italiana 1940-1943, “ Rivista di storia con­ temporanea”, 1991, n. 4. 96 Giorgio Rochat provocare invalidità e cure, probabilmente ridotte in confronto ai milioni di combatten­ ti, ma importanti come spia di un disadatta­ mento diffuso e sotterraneo23. Impossibile anche misurare la diffusione delle proteste contro la guerra contenute nelle lettere, nei diari e nelle memorie dei soldati che sono sta­ te portate alla luce in questi ultimi anni; si tratta certamente di un fenomeno di massa, anche se non sempre di facile interpretazione, perché molti soldati che imprecano contro la guerra continuano a farla, anche bene. Gli studi critici ricordati documentano in modo inconfutabile che tra i soldati della grande guerra esisteva un margine di rifiuto ampio, anche se non quantificabile, articola­ to tra vie di fuga diverse, sia studiate, sia pre­ se d’impulso, sia inconsapevoli (o soltanto sognate) e tra espressioni di protesta che po­ tevano restare a livello di sfogo, senza tradur­ si in gesti concreti. Da questi studi emerge pure una conferma di quanto era già stato af­ fermato dalla ricerca storica precedente: non esiste traccia di una protesta organizzata, dall’interno o dall’esterno, né di un rifiuto collettivo. Siamo dinanzi a una separazione netta tra il paese, in cui le agitazioni collettive di ispirazione socialista si moltiplicano nel 1917-1918, e l’esercito, in cui protesta e rifiu­ to sono individuali, spontanei e apolitici, frutto della spaventosa tensione e durezza della guerra di trincea. Una separazione su cui occorre riflettere, perché non nasce sol­ tanto dalla rinuncia socialista a contrastare l’appello patriottico, né da censura e repres­ sione, ma anche dalla natura di mondo sepa­ rato, di società autosufficiente e coinvolgen­ te, che assume l’esercito al fronte24. Aggiungiamo che questo margine di rifiu­ to spontaneo è del tutto comprensibile (non diciamo legittimo perché non ci sentiamo di dare giudizi di valore). Se si ha presente che (come riconosce la storiografia di tutte le ten­ denze) la grande maggioranza dei contadini e degli operai, cioè dei soldati italiani, faceva una guerra che non aveva voluto e di cui non capiva le ragioni, senza una vera assi­ stenza né una propaganda adeguata fino al 1918, e per questa guerra doveva affrontare condizioni di vita durissime e un elevato ri­ schio di morte o mutilazione, ci si deve mera­ vigliare che i casi di rifiuto fossero, in defini­ tiva, limitati. E infatti gli studi tradizionali da cui siamo partiti e la memorialistica docu­ mentano, senza possibilità di smentita, che la macchina bellica continuò a funzionare senza battute d’ arresto né collassi (tranne Caporetto, su cui subito torneremo), malgra­ do le gravissime perdite e la scarsezza di risul­ tati. Qualche diecina di casi di proteste limi­ tate (e immediatamente rientrate) di reggi­ menti che dovevano tornare in trincea sono ben poca cosa dinanzi ai duecento e più reg­ gimenti che si alternarono in prima linea per tutta la guerra, accettando con obbedienza lo stillicidio delle perdite quotidiane, gli attac­ chi sanguinosi, le malattie e le privazioni di ogni sorta. Rimane il problema di Caporetto, l’unico momento della guerra italiana in cui si ebbe il collasso di parte delle strutture militari, con centinaia di migliaia di soldati che si ar­ resero senza una resistenza autentica e altre centinaia di migliaia che rifluirono verso il Piave come una massa di profughi. Sul disa­ stro si è scritto e discusso per decenni, con te- 23 Ci limitiamo a citare l’opera maggiore: Antonio Gibelli, L'officina della guerra, Torino, Bollati Boringhieri, 1991; e le rassegne di B. Bianchi, La grande guerra nella storiografia italiana, cit., e di A. D’Orsi, La grande guerra. Ricerca storica e dibattito, cit. 24 Anche G. Pedroncini e J. Maurin negli studi citati insistono sul fatto che rifiuto e protesta dei soldati francesi hanno cause interne alla condotta della guerra e non una dimensione politica. Ricordiamo che l’esercito francese ebbe una media annua di 15.750 diserzioni, quindi un totale inferiore a quello italiano per un esercito più grande e un anno di guerra in più, co­ munque non trascurabile, soprattutto se si tiene conto del fatto che l’accusa di diserzione scattava per i soldati francesi dopo tre giorni di assenza (in Italia dopo la mancanza a un solo appello): cfr. J. Maurin, Armée, guerre, società, cit., p. 522. L'efficienza dell’esercito italiano nella grande guerra si radicalmente contrapposte che in questa sede non è possibile riprendere. Ci limitiamo al punto centrale per il nostro discorso: la “ m ancata resistenza” di reparti “ vilmente arresisi” come causa prima della rotta, de­ nunciata da Cadorna e ripresa nella tesi del­ lo “ sciopero militare” , sostenuta con accenti diversi sia da destra che da sinistra. Gli studi di Pieri e poi di M onticone23 hanno dimo­ strato, in modo a nostro avviso definitivo, che le unità italiane furono travolte a Caporetto e si arresero senza una vera resistenza perché non erano state messe in condizioni di battersi, e ciò per due ordini di ragioni: gli alti comandi avevano sottovalutato la ca­ pacità di penetrazione del nemico e la geo­ grafia del terreno e quindi non avevano pre­ disposto le riserve necessarie. E comandi e truppe erano insufficientemente addestrati, in grado di condurre una battaglia su un fronte statico, ma non di manovrare per rea­ gire agli aggiramenti brillantemente effet­ tuati dagli austro-tedeschi sul terreno mon­ tuoso. Una delle regole base della guerra di massa è che non si può chiedere alle trup­ pe di fare quello cui non sono state prepara­ te. Quando Cadorna ordinò la ritirata gene­ rale, i reparti della Seconda arm ata si sfa­ sciarono sempre per lo stesso motivo: non erano addestrati a una guerra di movimen­ to, per la quale mancavano poi ordini, colle­ gamenti, il necessario sostegno logistico e ancora le riserve necessarie per rallentare la progressione austro-tedesca. Come è no­ to, le altre armate, non sottoposte alla pres­ sione diretta del nemico e dotate di ordini sufficientemente precisi, condussero la riti­ rata al Piave in buon ordine e con perdite li­ mitate. 97 Non fu molto diverso il comportamento delle truppe franco-inglesi dinanzi alle grandi offensive tedesche del 1918: anch’esse non erano addestrate a sostenere le nuove tecni­ che offensive tedesche, né a manovrare in campo aperto e si sfasciarono dinanzi alla minaccia di aggiramento. Nel marzo 1918 l’offensiva tedesca penetrò in profondità per circa 65 km. In Francia però gli alti comandi avevano a disposizione le riserve necessarie per bloccare i progressi tedeschi e le ferrovie per farle affluire rapidamente; e non persero la testa, né la fiducia nelle proprie truppe. Va infine ricordato che la massa di sbandati di Caporetto non si diede a manifestazioni di esultanza, di saccheggio o di rivolta contro gli ufficiali nel corso della disordinata ritirata verso il Piave; e fu poi ricuperata senza parti­ colari problemi per la continuazione della guerra. In sostanza il comportamento dei sol­ dati rimase all'interno della logica della guer­ ra di trincea2526. Fattori di coesione: a) gli elementi a monte. Veniamo finalmente alle ragioni della coesio­ ne e continuità che l’esercito italiano, mal­ grado gli elementi di debolezza ricordati, sep­ pe mantenere attraverso le prove più dure. Con l’avvertenza che possiamo offrire spunti di interpretazione e non il risultato di studi specifici. Dichiariamo innanzi tutto il nostro debito verso gli studi di sociologia militare. Sono di origine recente, nati con la grande inchiesta sul comportamento e le motivazioni dei sol­ dati promossa dagli alti comandi statunitensi nel corso della seconda guerra mondiale27, e sviluppatisi con le guerre successive, in primo luogo quella americana in Vietnam. I loro ri- 25 P. Pieri, La prima guerra mondiale, cit.; P. Pieri, G. Rochat, Pietro Badoglio, Torino, Utet, 1974; A. Monticone, La battaglia di Caporetto, Roma, Studium, 1955. 26 Queste osservazioni sono certamente riduttive, perché Caporetto si presta a più letture e pesa per la percezione della rotta che ebbero la classe dirigente, l’opinione pubblica e gli stessi combattenti, per le strumentalizzazioni politiche suc­ cessive, per la duratura perdita di prestigio che rappresentò per il paese e l’esercito. In questa sede ci interessa però sol­ tanto il comportamento dei soldati. "7 Cfr. Enrico Pozzi, Introduzione alla sociologia militare, Napoli, Liguori, 1979. 98 Giorgio Rochat sultati non si possono applicare alla prima guerra mondiale, per le evidenti differenze su tutti i livelli e la mancanza delle inchieste sul campo su cui si fonda la ricerca sociologi­ ca. Tuttavia questi studi offrono una serie di stimoli di grande interesse, ovviamente non tutti nuovi, ma utili per la prospettiva “laica” dinanzi alla tradizione militare e l’imposta­ zione di un discorso sistematico28. La società italiana del tempo presentava, ai fini della guerra, gli elementi di debolezza già ricordati (riassumibili nella scarsa “ na­ zionalizzazione delle masse” ), ma pure ele­ menti di forza. La società contadino-cattoli­ ca era una straordinaria scuola all’obbedien­ za e all’accettazione del destino. E la cultura contadino-cattolica era ancora forte nelle cit­ tà, malgrado le novità disgregatrici e la diffu­ sione del socialismo (che poi metteva in di­ scussione le gerarchie sociali, ma non certo l’etica del lavoro). In sostanza, l’estraneità al­ la guerra della grande maggioranza dei sol­ dati, ossia la mancanza di un’adesione politi­ co-ideologica, non diminuiva la loro obbe­ dienza e le quasi illimitate capacità di soffe­ renza e sacrificio. Il rifiuto della guerra che nasceva dalle drammatiche esperienze perso­ nali non aveva lo spessore per intaccare la ba­ se di obbedienza della massa dei soldati. Un altro elemento noto, ma da sottolinea­ re, era la forte mobilitazione etico-politica del corpo ufficiali. Gli ufficiali di carriera avevano certamente limiti di cultura, che si traducevano nella difficoltà a capire la scon­ volgente novità della guerra di trincea (lo stesso accadeva all’estero), ma erano ricchi di energia e senso del dovere; e i generali cin­ quantenni usciti da una selezione dura (non sempre felice, ma necessaria) dimostrarono di saper cogliere le esigenze un esercito di massa. Le diecine e diecine di migliaia di gio­ vani ufficiali di complemento avevano limiti di addestramento, ma una totale adesione al­ la guerra e un’elevata consapevolezza del lo­ ro ruolo di comandanti. Nel dopoguerra sa­ rebbero emersi tra costoro elementi di delu­ sione verso i risultati del conflitto (da destra e da sinistra) e di frustrazione per il ruolo pu­ ramente esecutivo loro richiesto in trincea, nonché aspettative tecniche e politiche di una radicale riorganizzazione dell’esercito sulla base delle esperienze belliche. Ma nel 1915-1918 la stragrande maggioranza dei nuovi ufficiali non aveva dubbi e forniva al­ l’esercito i quadri di cui aveva bisogno, con­ vinti e obbedienti, ma anche ricchi di leader­ ship29. Il funzionamento dei comandi è poi stato spesso criticato, se non ridicolizzato, ma in realtà seguì la stessa evoluzione degli altri eserciti: da una parte la citata difficoltà a capire una guerra cosi diversa dalle previ­ sioni, che si traduceva in una ripetizione esa­ sperata di sanguinosi assalti senza prospetti­ ve di successo (richiesti peraltro dall’impo­ stazione offensiva della guerra italiana). Dal­ l’altra crescenti capacità organizzative nel controllo di una macchina bellica di straordi­ narie dimensioni. In definitiva, il paese forniva all’esercito milioni di soldati obbedienti e gli ufficiali ne­ cessari per inquadrarli30. E dal fronte interno veniva non il disfattismo che Cadorna imma- 28 Per una sintesi italiana degli studi di sociologia militare cfr. E. Pozzi, Introduzione alla sociologia militare, cit.; Fa­ brizio Battistelli, Marte e Mercurio. Sociologia dell’organizzazione militare, Angeli, Milano, 1990; Marina Nuciari, Ef­ ficienza e forze armate. La ricerca sociologica sull’istituzione militare, Angeli, Milano, 1990; Giuseppe Caforio, Sociolo­ gia e forze armate, Lucca, Pacini Fazzi, 1987. 29 Non ci sembra che gli ufficiali italiani della prima guerra mondiale presentino differenze di rilievo rispetto a quelli francesi e inglesi. Il discorso è diverso per la seconda guerra mondiale; ma un confronto tra le due guerre torna a tutto vantaggio della classe dirigente liberale rispetto a quella fascista. 30 Dalle ricerche del gruppo di Rovereto che pubblicava la rivista “ Materiali di lavoro” (con una straordinaria raccolta di scritti di soldati) emerge la profondità del rifiuto di una parte non piccola dei trentini arruolati nell’esercito austroungarico, da ricondurre alla difficoltà che incontravano nel riconoscersi in un esercito non nazionale, che li inquadrava con ufficiali austriaci e ungheresi. L’efficienza dell’esercito italiano nella grande guerra ginava, ma un incoraggiamento a fare la guerra fino in fondo. Un esempio significati­ vo è il rifiuto ostile che gli ambienti cattolici riservarono ai tentativi pacifisti del papa Be­ nedetto XV: la predicazione dei parroci e dei cappellani non lasciò mai dubbi sul fatto che la guerra era giusta e doverosa, da combatte­ re con disciplina quali ne fossero i costi31. Va­ le poi la pena di ricordare l’efficacia e la dif­ fusione della demonizzazione del barbaro au­ striaco, così forte da rimanere nell’inconscio collettivo dei decenni seguenti. Il paese forniva all’esercito anche i riforni­ menti e armamenti necessari. Le tragiche condizioni di inferiorità delle battaglie del 1915, quando mancavano i mezzi per affron­ tare i reticolati austriaci, vennero man mano superate. Naturalmente si può sottolineare la costante insufficienza dei mezzi rispetto alle esigenze (ma anche i meglio provvisti france­ si, inglesi e tedeschi non riuscirono mai a rea­ lizzare lo sfondamento decisivo sognato) e che soltanto nel 1918 i comandi si impegna­ rono seriamente a migliorare le condizioni di vita in trincea. Tutto ciò non deve però far dimenticare lo straordinario sviluppo del­ la produzione bellica in tutti i campi. Sul pia­ no qualititativo gli armamenti italiani non furono inferiori a quelli degli altri eserciti, sul piano quantitativo la situazione divenne accettabile nel 1917-1918, tanto più se com­ misurata alla situazione austriaca e non alla maggiore disponibilità di artiglierie del fron­ te occidentale. Un confronto con la seconda guerra mondiale è improponibile sotto tutti gli aspetti: ITtalia liberale faceva la sua guer­ ra con una capacità di mobilitazione e una 99 dura determinazione, che quella fascista non ebbe mai32. Fattori di coesione: b) la società militare. Il fatto che la “ società m ilitare” sia precaria (nel senso di limitata nel tempo, tanto più la società di guerra) e del tutto atipica (basti pensare alla mancanza della donna) non ne diminuisce le capacità di coinvolgimento e la coesione interna33. La prima osservazione è che si tratta di una “ società chiusa” : un concetto chiaro per la caserma del tempo di pace, ancora da esplorare per il tempo di guerra. Tutte le testimonianze dei com bat­ tenti parlano del distacco profondo, anzi del­ la contrapposizione tra trincea e paese (e tra trincea e retrovie); una separazione che si esprime anche a livello di comportamenti e mentalità collettiva e comporta la cancella­ zione di tutto quanto esula dalla realtà vissu­ ta della guerra. L’unico legame con la vita ci­ vile rimangono gli affetti familiari, a livello strettamente privato e non condivisibile. So­ no cose note, ma occorre ricordare che la conseguenza è un rafforzamento della società di trincea, che si pone come autosufficiente (uno stato nello stato), e dei legami tra i sol­ dati, gli unici possibili e vitali. Per semplicità di analisi si possono indica­ re nella società militare una direzione di svi­ luppo verticale e una orizzontale. La dimen­ sione verticale è quella più evidente: l’istitu­ zione militare ha una struttura autoritaria e gerarchica, che limita la possibilità di scelte personali e impone comportamenti indivi­ duali e collettivi definiti e omogenei, tanto più in guerra. E facile coglierne la componen- 11 Cfr. Roberto Morozzo della Rocca, La fede e la guerra. Cappellani militari e preti-soldati 1915-1919, Roma, Studium, 1980; G. Rochat (a cura di), La spada e la croce. I cappellani italiani nelle due guerre mondiali, “ Bollettino della Società di studi valdesi”, 1995, n. 176 (Atti del XXXIV convegno di studi sulla Riforma e i movimenti religiosi in Italia, Torre Pellice, 28-30 agosto 1994). 32 È significativo il durissimo atteggiamento delle autorità politiche e militari verso i prigionieri italiani di guerra. Il rifiuto punitivo di inviare loro regolari rifornimenti di viveri (come invece fecero francesi e inglesi) fu la causa prima della loro altissima mortalità (100.000 su 600.000). Cfr. G. Procacci, Soldati e prigionieri italiani nella grande guerra, Roma, Editori Riuniti, 1993. 33 Queste note non hanno pretesa di originalità né di approfondimento. Valgono soltanto a richiamare con qualche or­ dine fattori noti, seppure spesso sottovalutati. 100 Giorgio Rochat te repressiva dichiarata, a differenza di quan­ to accade nella società civile (sebbene tutt’altro che priva di strutture autoritarie, dalla fa­ miglia alla scuola, dalla chiesa al lavoro). Di­ sciplina e repressione sono una componente fondante e ostentata dell’istituzione militare, anche se, come è ovvio, non sufficiente, poi­ ché nessun reparto può essere tenuto insieme soltanto con la forza. E la loro applicazione va commisurata alla perdita di valore della vita umana in guerra: può sembrare cinico, ma bisogna pur rilevare che il migliaio di sol­ dati italiani fucilati (tra condanne regolari e esecuzioni sommarie) costituisce lo 0,2 per cento del mezzo milione di morti fino a Vitto­ rio Veneto, anche se evidentemente un fucila­ to pesa più di un caduto in combattimento. La struttura gerarchica è in primo luogo una necessità assoluta per la vita di un’orga­ nizzazione di milioni di uomini, improvvisata e precaria e pur straordinariamente efficien­ te. Secondo un’opinione diffusa, la guerra è “ stupida” 34; in realtà stupida e superficiale è soltanto questa affermazione. La guerra può essere ingiusta o sbagliata, folle o crimi­ nale, puro spreco di vite e risorse, a seconda dei giudizi etico-politici; e naturalmente con­ tiene un elevato numero di scelte e comporta­ menti stupidi, più evidenti che nella società civile perché fuoriescono dai canoni normali e mettono in gioco la vita dei soldati. Ma per costituire un esercito e portarlo in combatti­ mento occorrono tesori di intelligenza e dedi­ zione, prima sul piano organizzativo e logi­ stico, poi per la gestione di milioni di uomini in situazioni fuori della norma. Con questo non intendo affatto sostenere che la guerra sia la più alta espressione della civiltà, anche se è indiscutibile che rappresenta una verifica in profondità (e senza possibilità di bluff) della forza e coesione di una nazione. Quello che mi interessa sottolineare, è che la struttu­ ra gerarchica deve avere grandi capacità di inquadramento e coinvolgimento per tenere in piedi un esercito di massa, ovviamente non per merito esclusivo degli ufficiali, che sono espressione di una classe dirigente e di un paese. E che il ruolo di questa struttura gerarchica non può essere sottovalutato, tan­ to meno liquidato con l’etichetta di stupidità, cosi come nessuno può qualificare come stu­ pida una fabbrica soltanto sulla base delle esperienze degli addetti alla catena di mon­ taggio35. Valga l’esempio della depersonalizzazione imposta ai soldati, con l’azzeramento delle loro qualifiche e connotazioni “esterne” (os­ sia civili) e una egualizzazione coatta, dalla divisa all’osservazione di regole e ritmi di vita rigidi e talora privi di senso. Si è molto insisti­ to sul significato negativo di questa operazio­ ne, come violenza verso i singoli e possibilità di abusi; eppure bisogna sottolineare che questa depersonalizzazione non è fine a se stessa, ma strumento necessario per l’identifi­ cazione dei singoli nella istituzione militare, unico riferimento disponibile. Quali ne siano i costi umani, questa operazione di estrania­ zione forzata dalla vita civile conduce al raf­ forzamento della coesione interna dell’eserci­ to. Inoltre è fattore necessario di quella inter­ cambiabilità dei soldati, che permette a un re­ parto di continuare a funzionare attraverso perdite e rimpiazzi. Ancora una volta, non intendo sostenere che l’istituzione militare sia nobile e benefica: stato e società le deman- 34 Che la guerra sia stupida, in particolare la prima guerra mondiale, è un concetto diffuso, legittimo per i reduci, non però per gli storici. Ci limitiamo a citare l’ultimo (e brillante) studioso che l’ha sostenuto con forza: Eric J. Leed, Terra di nessuno, Bologna, 11 Mulino, 1986: un volume che analizza i comportamenti dei soldati, non mai la guerra combattuta in tutta la sua complessità. 35 E interessante notare come la guerriglia partigiana, che nasce generalmente con un rifiuto della tradizione e delle strutture degli eserciti regolari, debba accettarne gran parte quando cresce dalla dimensione di banda locale a quella di esercito partigiano, per esempio passando dalla designazione dal basso dei comandanti alla creazione di una struttura gerarchica di comando. L’efficienza dell’esercito italiano nella grande guerra dano l’organizzazione della forza arm ata e poi della guerra, che hanno esigenze brutali di efficacia (portare gli uomini a ammazzare e farsi ammazzare non è una cosa facile né naturale). L’istituzione militare sviluppa a questo fine meccanismi di coercizione e di coinvolgimento, che hanno costi umani ele­ vati e una efficacia indiscutibile, pure nel ca­ so della grande guerra italiana. La coesione dell’esercito e la sua capacità di condurre una pesante guerra di logoramento dipendo­ no anche da questi meccanismi, dagli uomini che li mettono in opera, dal paese che li so­ stiene e approva. Un altro decisivo elemento di coesione, non sempre valutato a sufficienza, viene da quella che la sociologia definisce come di­ mensione orizzontale, ossia dai legami di so­ lidarietà che si stabiliscono tra i soldati. Il fatto che siano legami obbligati, per la im­ possibilità di rapporti con l’esterno, non ne diminuisce la forza. La tradizione militare parla di spirito di corpo, una definizione troppo generica per prestarsi a analisi. La so­ ciologia parla invece di dinamica dei piccoli gruppi come base di aggregazione e coesione, un concetto valido per tutte le istituzioni, ap­ plicabile anche a quelle militari. La grande ri­ cerca sociologica sulle forze armate statuni­ tensi nella seconda guerra mondiale, Ameri­ can Soldier, giunge a sostenere che la lealtà verso il piccolo gruppo è l’elemento essenzia­ le della coesione di un reparto; i soldati vivo­ no una situazione di distacco nei confronti di tutto quello che esce dalla loro esperienza di­ retta, si identificano nel gruppo di cui fanno parte, con esso e per esso affrontano i rischi del com battim ento36. In realtà la coesione di un reparto dipende da una complessità di fattori, che stiamo cercando di elencare; ma tra questi è essenziale appunto il ruolo di ag­ gregazione di gruppo a più livelli, che dal pic­ colo gruppo informale può salire per gradi a una identificazione nel battaglione o nel cor­ 36 E. Pozzi, Introduzione alla sociologia militare, cit. 101 po degli alpini o degli arditi, con un processo che l’istituzione militare appoggia pienamen­ te (dai distintivi ai miti) perché consapevole della sua efficacia. Con un certo grado di provocazione, si può dire che un esercito per funzionare ha bisogno di amore, non co­ me sesso, ma come capacità di rapporti uma­ ni intensi e affettivi tra eguali, ma anche tra superiori e inferiori. Infine, la guerra di trincea non concede al­ ternative all’obbedienza inquadrata. Dire che il soldato non ha altra scelta che uccidere o essere ucciso è semplicistico, perché la guerra non è fatta di duelli e il nemico si vede poco (si muore soprattutto per gli effetti dell’arti­ glieria). E la trincea che non lascia spazio a scelte individuali; anche la fuga è difficile e costosa, tanto più che non è sorretta da mo­ tivazioni ideologiche (salvo che per gli irre­ denti che disertano le fila austriache). Un’ultima considerazione: il militare è un uomo, cioè un essere complesso e non privo di contraddizioni. Il soldato non si comporta sempre allo stesso modo, a seconda delle si­ tuazioni può andare all’attacco o scappare, può maledire la guerra e farla con efficacia. In ogni combattente coesistono rifiuto e ac­ cettazione della guerra, in gradi diversi e va­ riabili, per la combinazione di una serie di fattori che abbiamo cercato di indicare som­ mariamente, ma soprattutto per le alterne vi­ cende della guerra. Lo stesso vale per i repar­ ti: la loro coesione su cui insistiamo non si misura su un singolo attacco eroicamente condotto o su uno sbandamento successivo, bensì sulla continuità in una guerra di logo­ ramento. Fattori di coesione: c) una guerra di masse. Non bisogna infine dimenticare che la prima guerra mondiale non è una guerra di volonta­ ri motivati, bensì di masse organizzate. L’e­ sercito inglese fu composto all’inizio da pro­ fessionisti a lunga ferma splendidamente ad- 102 Giorgio Rochat destrati, poi da quasi due milioni di volontari arruolatisi sull’onda di una straordinaria mo­ bilitazione popolare, infine di soldati recluta­ ti con la leva obbligatoria; ma il suo rendi­ mento non ebbe variazioni significative di­ pendenti dal reclutamento, né fu diverso da quello dell’esercito francese, basato sin dall’i­ nizio sulla coscrizione obbligatoria. Il fatto è che la guerra di trincea non richiedeva ai sol­ dati iniziativa individuale e capacità di azio­ ne in piccoli nuclei, perché era combattuta a livello di battaglioni e reggimenti, che muo­ vevano all’attacco in formazioni compatte agli ordini dei loro ufficiali. La prima scelta di tutti gli eserciti dinanzi all’impossibilità di una rottura del fronte ne­ mico fu di aumentare sia il fuoco d’artiglie­ ria, sia il peso degli attacchi frontali; poi l’im­ possibile rottura fu cercata con uno sviluppo ulteriore del fuoco d’artiglieria, con bombar­ damenti protratti per giorni e giorni, dopo i quali era però necessario ricorrere ai sangui­ nosi attacchi frontali della fanteria. Tutti i tentativi di uscire da questo schema fallirono: i gas asfissianti accrebbero soltanto l’orrore della lotta, i carri armati furono impiegati al di sotto delle loro possibilità. Il caso degli arditi italiani è significativo, in quanto dimo­ stra che piccoli reparti bene addestrati e mo­ tivati potevano raggiungere e conquistare le trincee nemiche con poche perdite, quando avevano il favore della sorpresa, ma poi non erano in grado di avanzare in profondità né di mantenere le posizioni occupate perché non potevano sviluppare il necessario volu­ me di fuoco (le mitragliatrici erano troppo pesanti per poterle spostare in avanti a brac­ cia), né ricevere un appoggio puntuale del­ l’artiglieria per difetto di collegamenti, né un rinforzo adeguato di fanterie, decimate nell’attraversamento della “terra di nessuno” senza più il favore della sorpresa. Anche le offensive tedesche del 1918, pur condotte con tutte le più abili tecniche offensive da di­ visioni bene addestrate, non riuscirono a an­ dare oltre successi parziali, perché il loro pe­ so si esauriva rapidamente; le truppe attac­ canti dovevano muovere a piedi sul terreno sconvolto della battaglia, portando a spalle armi automatiche e munizioni, con scarsi rifornimenti dalle retrovie avviati a dorso d ’uomo. Gli anglo-francesi avevano perciò il tempo di tamponare le falle con truppe e ar­ tiglieria spostate con ferrovie e automezzi (come non aveva potuto fare Cadorna a Caporetto perché non aveva predisposto riserve adeguate). In sintesi, un cannone è un’arma sia offensiva sia difensiva, ma se non può muoversi il suo raggio offensivo è limitato al­ la sua portala; e nella prima guerra mondiale non c’erano motori sul campo di battaglia, artiglieria e mitragliatrici dovevano rimanere sulle posizioni di partenza, quindi la fanteria era l’unica che potesse avanzare, ma senza il volume di fuoco necessario a infrangere la re­ sistenza nemica. La battaglia era perciò do­ m inata da un’artiglieria potentissima, ma statica, che poteva accompagnare gli attacchi della fanteria soltanto fino alla prima trincea, ma non difenderla dal fuoco nemico dalle po­ sizioni retrostanti. In questo quadro la fanteria poteva essere impiegata soltanto negli attacchi frontali condotti da masse inquadrate. Ciò non ri­ chiedeva tanto iniziativa dei singoli e adde­ stramento, quanto obbedienza e capacità di sacrificio. Il fatto che i soldati italiani fossero meno motivati di quelli francesi o inglesi, o che il loro inquadramento e addestramento non fosse all’altezza di quello tedesco, perde­ va importanza dinanzi alla brutalità della guerra di trincea. E quindi il loro rendimento non era inferiore a quello degli altri eserciti, a differenza della seconda guerra mondiale, che richiedeva un diverso livello di motiva­ zione, addestramento, iniziativa, inquadra­ mento. Note conclusive. Riassumendo, ho cercato di impostare correttamente il problema dell’ef­ ficienza dell’esercito italiano. Una valutazio­ ne scientifica non appare possibile, perché ri­ L’efficienza dell’esercito italiano nella grande guerra chiederebbe studi comparativi con gli altri eserciti della prima guerra mondiale, che mancano, né potrebbero essere sviluppati ol­ tre un certo livello, dato che l’efficienza belli­ ca si misura soltanto in termini relativi. La conoscenza di quanto avveniva sugli altri fronti (e sul versante austriaco del nostro) va­ le comunque a ridimensionare l’“ opinione comune” dell’inefficienza italiana, che si ba­ sa su pregiudizi superficiali. La mia tesi cen­ trale è che per la prima guerra mondiale l’u­ nico metro significativo dell’efficienza di un esercito è la sua capacità di sostenere una lunga e dura guerra di logoramento, malgra­ do debolezze, crisi e insuccessi. Se questo è corretto, bisognerebbe analizzare meglio le cause dell’“ opinione comune” negativa, che pesa al di là del suo scarso fondamento. Nella prospettiva che propongo (senza pretese di originalità) il tema di indagine di­ venta l’individuazione delle cause della capa­ cità dell’esercito italiano di durare. Sappia­ mo che classe dirigente e ufficiali si ricono­ scevano appieno nella guerra, che condusse­ ro con dura determinazione e capacità di ege­ monia; e che invece la grande maggioranza dei soldati non capiva le ragioni della guerra (anche se mancava un’opposizione motiva­ ta). La ricerca storica recente ha documenta­ to 1’esistenza di varie forme di rifiuto sponta­ neo di massa dinanzi alla guerra, ma non de­ ve fermarsi qui, senza affrontare l’esame di una partecipazione altrettanto di massa, che permise all’esercito di mantenere la sua coe­ sione e appunto di durare fino alla vittoria. Ho cercato di indicare le ragioni di questa 103 coesione a più livelli: nel paese, che forniva soldati obbedienti seppure poco motivati; nell’istituzione militare, che aveva capacità di coinvolgimento generalmente trascurate dagli storici; nella natura della guerra di trin­ cea, combattuta per masse organizzate; e nel­ la complessità deH’animo umano, in cui pote­ vano coesistere rifiuto e obbedienza. Il discorso rimane aperto. Non mi interes­ sa giustificare o nobilitare la guerra (in meri­ to ogni opinione è lecita), ma ricordare che va studiata in tutta la sua complessità, anche nelle sue componenti propriamente militari. Appendice Alcuni dati sulle esecuzioni sommarie Il problema delle esecuzioni sommarie e delle decimazioni è stato bene impostato da Mon­ ticene37 e poi ripreso da Irene Guerrini e M arco Pluviano sulla base della relazione che l’avvocato generale militare Tommasi stese nel settembre 1919 per il ministro della Guerra Albricci38. Il rinvenimento degli alle­ gati a detta relazione ci permette di avanzare una prima analisi del fenomeno39. Relazione e allegati enumerano 40 casi di esecuzioni sommarie con 150 fucilati (in un caso il numero non è precisato). Lo stesso Tommasi avanza dubbi sulla completezza dell’elenco, in cui risultano 2 sole fucilazioni durante la ritirata di Caporetto (mentre il so­ lo generale Graziani ne effettuò 34); Monticone ne cita alcune altre, altre ancora risulta­ vano dalla inchiesta su Caporetto, in forma 37 E. Forcella, A. Monticone, Plotone d ’esecuzione, cit., pp. 444 sg. 3S Irene Guerrini, Marco Pluviano, Il memoriale Tommasi. Decimazioni e esecuzioni sommarie durante la grande guerra, pp. 63-75, in L. Fabi (a cura di), 1914-1918. Scampare la guerra. Renitenza, autolesionismo, comportamenti individuali e collettivi di fuga e la giustizia militare nella grande guerra, Monfalcone, Centro culturale, 1994. La relazione Tommasi è conservata presso il Museo del Risorgimento di Milano, 106 pp. dattiloscritte, senza gli allegati. Rinviamo a questo stu­ dio per molte interessanti osservazioni. 39 II fascicolo degli allegati alla relazione Tommasi (privo della relazione stessa e con alcune lacune e problemi di nu­ merazione) ci è stato cortesemente segnalato nel 1992 dal dottor Brugioni, responsabile delTArchivio dell’ Ufficio sto­ rico dello Stato maggiore dell’esercito. Il fascicolo era ancora da classificare perché faceva parte di un lotto di carte appena consegnate dal Tribunale militare supremo. 104 Giorgio Rochat piuttosto vaga. È quindi abbastanza sicuro che il totale delle esecuzioni sommarie fu di circa 200, forse qualcosa in più. Qui però ragioniamo soltanto su quelle indicate da Tommasi, con l’avvertenza che per quasi la metà dei casi le indicazioni sono assai sinte­ tiche, tanto da non consentire allo stesso ge­ nerale un giudizio sulla loro legittimità (che invece c’è per le altre: positivo per 17 casi, negativo per 8). Mancano inoltre gli episodi in cui i comandi ordinarono di aprire il fuo­ co su reparti che stavano ritirandosi o arren­ dendosi40; e naturalm ente i casi di soldati abbattuti dagli ufficiali durante il combatti­ mento, su cui esistono soltanto cenni quanto mai vaghi41. Ripartizione per periodo delle esecuzioni sommarie 1915 (31 ottobre) 1 1916 (21 aprile-6 agosto) 48 (30 ottobre-11 novembre) 8 1917 (21 febbraio-14 settembre) 86 (3-23 novembre) ____7 150 Nota. Sono da aggiungere “alcuni fucilati” nell’e­ pisodio del 4 giugno 1917. Non risultano esecuzio­ ni sommarie dopo il 23 novembre 1917, salvo un caso il 15 luglio 1918 sul fronte francese, citato da Monticone. Tutti i casi citati (tranne due vicende indivi­ duali) riguardano reparti di fanteria impe­ gnati nella guerra di trincea. Registriamo 25 casi individuali con 47 fucilazioni, che rag­ gruppiamo così: a) la fuga dalla trincea o dai reparti in marcia verso la trincea, anche quando riguar­ da più uomini, che però agiscono secondo di­ namiche individuali: 14 casi con 36 fucilazio­ ni. Esempio: 5 militari del 264° fanteria sco­ perti il 30 agosto 1917 nella galleria del cimi­ tero di Gorizia, dove si erano rifugiati da uno o due giorni (in questo caso, nota Tommasi, l’esecuzione sommaria è arbitraria, perché il reato è stato consumato giorni prima e per­ ché manca l’efficacia dell’esempio per i com­ pagni). Altro caso: nella marcia verso le trin­ cee della brigata Regina nella notte 12-13 maggio 1917 risultarono mancanti oltre cen­ to uomini (in parte imprecisata si trattava di soldati che avevano perso il loro reparto nel­ l’oscurità). Il comandante di divisione ordinò di fucilare i primi 2 arrestati del 9° fanteria e i primi 4 del 10° fanteria. b) casi di reiterato rifiuto di obbedienza: 5 casi, 5 fucilati (in due casi abbattuti da un su­ periore perché rifiutano di marciare verso il fronte). c) casi di ribellione con violenza, cioè uso di armi contro superiori o compagni: 4 casi, 4 fucilati. d) casi di mutilazione volontaria: 2 casi, 2 fucilati. Entram bi i casi sono illegittimi, non soltanto per le m odalità, ma perché le esecuzioni sommarie erano autorizzate per comportamenti punibili con la pena di morte. I casi collettivi riguardano in primo luogo la repressione dello sbandamento di reparti 411 Più precisamente, Tommasi ne riporta uno: il 30 giugno 1915 nella zona di Monfalcone i resti del 4° battaglione del 93° reggimento fanteria, circa 70 uomini con il comandante del battaglione e altri 6 ufficiali, furono fatti bersaglio delle mitragliatrici italiane perché stavano arrendendosi per uscire da una situazione insostenibile. Non teniamo conto di que­ sto caso, tutt’altro che isolato, perché non si tratta propriamente di esecuzioni sommarie ai sensi delle circolari di Ca­ dorna. 41 Casi di soldati abbattutti dagli ufficiali in combattimento o di fucilati senza processo si hanno anche negli altri eser­ citi, seppure senza una documentazione e probabilmente in numero limitato. Si veda in G. Pedroncini, Les mutineries, cit., pp. 22-23, la fucilazione di un disertore l’8 novembre 1914 per ordine del comandante di divisione, Pétain. L’ucci­ sione di ufficiali per mano dei loro soldati durante il combattimento è un altro fenomeno impossibile da analizzare e quantificare, certamente ingigantito dalle polemiche e rivendicazioni successive. L’efficienza dell’esercito italiano nella grande guerra in combattimento e di tentativi di resa. Sono 3, con 32 fucilati tra la fine di maggio e i pri­ mi di luglio 1916 sugli altopiani42. Più un quarto caso il 15 novembre 1917, con 2 fuci­ lati del 78° fanteria prelevati arbitrariamente su 9 soldati già deferiti al tribunale di guerra per sbandamento presso Zenson di Piave. Gli altri casi collettivi, 11, sono tutte manifesta­ zioni di protesta di reparti al momento in cui devono risalire in prima linea. Della rivol­ ta della brigata Catanzaro abbiamo già det­ to, secondo Tommasi i 28 fucilati sono indice di un’intelligente moderazione della repres­ sione dinanzi alla gravità dei fatti. Gli altri 10 casi sono di dimensioni più modeste, le proteste si limitano a tumulti, grida e spari in aria (in un solo caso fu ferito un ufficiale): gli episodi furono 3 nel 1916 con 10 fucilati, 7 nel 1917 con 31 fucilati (più “alcuni fucilati” in un caso di cui si dice ben poco). Nel noto caso della brigata Ravenna, 21 marzo 19 1743, le 7 esecuzioni sommarie erano ille­ gittime secondo Tommasi, perché operate contro 2 soldati di nulla indiziati e poi 5 sor­ teggiati quando non sussisteva più la flagran­ za del reato. Non è facile capire in quanti casi si procedé a un decimazione, ossia al sorteggio tra i reparti colpevoli, perché i rapporti, non sem­ pre chiari, per lo più parlano genericamente di indiziati. Non ci sono dubbi per 6 casi, 4 relativi a proteste collettive, uno a sbanda­ mento, l’ultimo a fughe durante la marcia verso la prima linea. Con le riserve dovute ai limiti della docu­ mentazione, ci sembra che le esecuzioni som­ marie fossero applicate con una certa regola­ rità soltanto dinanzi a proteste collettive di 105 reparti: 10 casi, più la rivolta della brigata Catanzaro, sono certamente una buona per­ centuale di quelli che si verificarono, specialmente di quelli di una certa gravità. Non si può dire lo stesso delle fucilazioni per i casi di sbandamento di reparti, indubbiamente più numerosi di quelli elencati dal generale Tommasi, il quale peraltro osserva come fos­ se difficile capire quando si trattasse vera­ mente di sbandamenti colpevoli anziché di ri­ tirate legittime, seppure disordinate. Quanto ai casi individuali, gli interventi dei comandi hanno quasi sempre un elevato margine di soggettività o arbitrio, ossia colpiscono com­ portamenti diffusi non più gravi di tanti altri, come per la fucilazione di disertori dalla trin­ cea non più colpevoli delle migliaia di deferiti ai tribunali militari. In altri casi di rifiuto rei­ terato o di ribellione di singoli con atti di vio­ lenza il ricorso ai tribunali straordinari (che giudicavano anche a tamburo battente) sa­ rebbe stato possibile se non obbligatorio (per esempio quando la fucilazione viene ese­ guita il giorno dopo). Le esecuzioni somma­ rie erano autorizzate come punizione imme­ diata e esemplare dinanzi alla truppa, condi­ zioni che nei casi individuali spesso non ri­ corrono. Tuttavia gli scrupoli giuridici mani­ festati dai gradi superiori della giustizia mili­ tare (per alcuni casi già nel 1917 e poi nella relazione Tommasi) vennero lasciati cadere dinanzi alla necessità di non scalfire l’autori­ tà degli ufficiali, anche quando avevano com­ piuto reati di abuso del grado (in più di un ca­ so coperti comunque dall’approvazione esplicita dei superiori, a cominciare da Ca­ dorna). Giorgio Rochat 42 In un caso il numero dei fucilati è incerto, 13 o 14. A Monte Mosciagh, il 25 maggio 1916, vennero fucilati un sot­ totenente, tre sottufficiali e 8 soldati (E. Forcella, A. Monticone, Plotone d'esecuzione, cit., pp. 81-83). Non ci risultano altre esecuzioni sommarie di ufficiali e sottufficiali; i fucilati sono soldati semplici e graduati di truppa, questi ultimi con relativa frequenza perché considerati maggiormente colpevoli appunto in quanto graduati. 43 Cfr. E. Forcella, A. Monticone, Plotone d'esecuzione, cit., pp. 452-453. RASSEGNA DI STORIA CONTEMPORANEA Istituto per la Storia della Resistenza e della Società contemporanea in provincia di Modena Sommario del n. 2, 1996 Editoriale La nazionalizzazione della memoria Opinioni a confronto Il lavoro, le identità e..., Intervista a Vittorio Foa; Sindacato, mutamento e storiografia, Interventi di Adriano Ballone, Luigi Ganapini, Adriana Lay Studi e ricerche Lorenzo Bertucelli, Sindacato e conflitto operaio. Le Fonderie Riunite di Modena e il 9 gennaio 1950 Contributi e riflessioni Luca Baldissara, Passione civile, interpretazione del passato e coscienza del presente: un omaggio alle virtù dello storico Guido Quazza Scuola e didattica Fausto Ciuffi, Insegnare la contemporaneità. Note a margine di un incontro con Luigi Berlinguer, Nora Sigman, La donna degli anni quaranta. Un’esperienza didattica Strumenti per la ricerca Renata Disarò, Andreina Petrucci (a cura di), Guida dell’archivio della Camera confederale del lavoro di Modena-, Sergio Rossi, Dopoguerra e ricostruzione a Modena. Informazioni su una ricerca-, Stefano Magagnoli, Istituzioni, economia e società. Appunti per una storia di Spilamberto Recensioni e convegni Pietro Neglie, Fratelli in camicia nera ( Roberto Manfredini); Claudio Novelli, Giornalisti in fabbrica (Paolo Salvatori); Jeremy Rifkin, La fine del lavoro (Angelo Attolini); Luigi Cavazzoli, Guerra e Resistenza. Mantova 1940-1945 (Monica Casini); Caterina Liotti (a cura di), Imprese in rete (Stefano Magagnoli) Epurazione e industriali Gaetano Marzotto a Valdagno Maurizio Dal Lago Sul tema dell’epurazione esiste una consoli­ data tradizione storiografica che ne imputa il fallimento “all’azione delle forze modera­ to-conservatrici appoggiate dagli alleati an­ gloamericani e non contrastate dalla politica comunista [...]: l’epurazione mancata è, in ta­ le prospettiva, un aspetto della più generale rivoluzione mancata e quindi del più generale ‘tradimento’ della Resistenza” 1. Sandro Set­ ta ha mostrato come questo schema interpre­ tativo non sia in grado di spiegare i molti casi in cui furono proprio le forze di sinistra, o le loro divisioni, o gli stessi operai a rendere in­ certa o a impedire del tutto, per esempio, l’e­ purazione postbellica degli industriali che avevano appoggiato il fascismo prima del 25 luglio e dopo l’8 settembre. Tra questi casi Setta ricorda quello, “clamoroso” , di Gaeta­ no M arzotto2, in ciò differenziandosi dagli interpreti3 che hanno fatto rientrare più o meno direttamente il “ caso M arzotto” in una operazione m oderata e trasformistica, vanamente contrastata dai partiti di sinistra, che permise ai grandi industriali veneti di evi­ tare ogni processo epurativo e di mantenere intatto il loro potere economico anche dopo la fine del regime fascista4. La ricostruzione analitica di quell’episodio 1 Sandro Setta, Profughi di lusso. Industriali e manager di Stato dal fascismo alla epurazione mancata, Milano, Angeli, 1993, p. 70. Sul tema di “un’epurazione che non c’é stata”, si veda Alessandro Galante Garrone, Il fallimento dell’epurazione. Per­ ché?, in Roy Palmer Domenico, Processo ai fascisti, Milano, Rizzoli, 1996, pp. VII-XIV. Galante Garrone imputa soprat­ tutto al governo Bonomi e alle forze che più lo sostenevano la responsabilità dell’inerzia che caratterizzò la loro opera epurativa. Nel contempo Garrone riconosce che furono gli Alleati “i primi a prendere giusti e severi provvedimenti nei confronti di personaggi eminenti, che avremmo dovuto noi stessi affrettarci ad allontanare dalle loro alte cariche”. 2 S. Setta, Profughi di lusso, cit., pp. 92-93. 3 Ernesto Brunetta, Dalla grande guerra alla Repubblica, in Storia d'Italia. Le regioni dall'Unità a oggi. Il Veneto, a cura di Silvio Lanaro, Torino, Einaudi, 1984, pp. 999-1000; Ernesto Brunetta, La vita politica dal 1943 al 1970, in Storia di Vicenza, IV/1, a cura di Franco Barbieri e di Gabriele De Rosa, Vicenza, Neri Pozza, 1991, pp. 186-187. Cfr. anche Ernesto Brunetta, Introduzione, in Istituto storico della Resistenza nel Veneto, Il governo dei C.L.N. nel Veneto. Verbali del Comitato di liberazione nazionale regionale veneto. 6 Gennaio-4 Dicembre 1946, introduzione e cura di Ernesto Bru­ netta, Vicenza, Neri Pozza, 1985, p. 26; Giorgio Roverato, Una casa industriale. I Marzotto, Milano, Angeli, 1986, pp. 373-74 e 377-78; Giorgio Roverato, Gaetano Marzotto Jr.: le ambizioni politiche di un imprenditore tra fascismo e post­ fascismo, estratto dagli “Annali di storia dell’impresa”, Milano, Angeli, 1986, n. 2, pp. 61-62; Giorgio Roverato, Gli operai dei Marzotto, in Emilio Franzina (a cura di), La classe, gli uomini, i partiti. Storia del movimento operaio e socia­ lista in una provincia bianca: il Vicentino 1873-1948, Vicenza, Odeonlibri, 1982, pp. 957-58; Emilio Franzina, Prove di stampa. Renato Ghiotto e la stampa veneta tra fascismo e postfascismo (1940-1950), Padova, Il Poligrafo, 1989, p. 53. Più ’neutrale’ è la ricostruzione dell’episodio da parte di Piero Bairati, Sul filo di lana. Cinque generazioni di imprendi­ tori: i Marzotto, Bologna, Il Mulino, 1986, pp. 267-268. 4 Si veda a questo proposito Maurizio Reberschak, I cattolici veneti tra fascismo e antifascismo, in Emilio Franzina e al., Movimento cattolico e sviluppo capitalistico nel Veneto, Venezia-Padova, Marsilio, 1974, in particolare le pp. 168-169 e 172-174. Secondo Brunetta, Marzotto avrebbe evitato ogni incriminazione grazie al “varco” aperto dall’assoluzione di ’Italia contemporanea”, marzo 1997, n. 206 108 Maurizio Dal Lago confermerà con documenti inediti la presen­ za e l’azione di estesi settori della base ope­ raia che si rivelarono molto poco “classisti” , preoccupati com’erano della ripresa della produzione e del mantenimento del salario più che della preparazione della rivoluzione socialista. Ma mostrerà altresì che Marzotto fu formalmente accusato di collaborazioni­ smo dalla Commissione provinciale di epura­ zione di Vicenza ben dopo che operai e com­ missioni di fabbrica lo avevano apertamente difeso chiedendone il ritorno alla testa delle sue aziende. Si vedrà inoltre come Marzotto, tra luglio e settembre del 1945, più che chie­ dere appoggi alle forze moderate vicentine, abbia piuttosto cercato contatti “a sinistra” , in modo particolare con il Pei. E come infine, al di là dell’esito della vicenda, da cui M ar­ zotto usci indenne, il Clnp avesse scelto e mantenuto all’unanimità, pur dopo incertez­ ze e tentennamenti, una linea dura e intransi­ gente nei confronti dell’industriale laniero, anche contro le aspettative degli operai. Marzotto tra fascisti e tedeschi Da molti punti di vista Gaetano M arzotto poteva apparire un candidato naturale all’e­ purazione. Iscritto al Pnf dal 1926\ aveva ot­ tenuto in seguito la qualifica di squadrista in virtù delle azioni cui egli partecipò in vari centri della provincia di Vicenza tra il 1920 e il 1921. Aveva poi stretto saldi rapporti di amicizia con Italo Balbo, Roberto Farinacci, Antonio Mosconi e Alessandro Lessona. Nel 1937, su pressanti richieste del sottosegreta­ rio agli Interni Buffarini Guidi, iniziò la co­ struzione dello stabilimento di Pisa. Tra il 1937 e il 1938 visitarono gli stabilimenti e le opere sociali di Valdagno Badoglio, Umber­ to di Savoia e infine lo stesso Mussolini, che nel 1939 insignì l’industriale valdagnese del titolo di Conte di Valdagno-Castelvecchio, a parziale riparazione della mancata nomina a senatore cui Marzotto teneva mol­ tissimo. Ingenti furono gli investimenti che l’industriale laniero fece in Tripolitania, Ci­ renaica e Somalia nella seconda metà degli anni trenta e che gli permisero di “ entrare nell’orbita della classe dirigente nazionale”6. Dopo il 25 luglio 1943 Marzotto appoggiò il governo Badoglio, cosa che, con il ritorno dei fascisti, gli costò una denuncia al Tribu­ nale speciale. In quell’occasione gli fu utilissi­ ma l’amicizia con Farinacci, il quale garantì per lui e fece cadere l’accusa. Liberato per il momento da ogni sospetto, Marzotto sfruttò nel modo più efficace il rapporto con il po­ tente gerarca per iniziare un intenso scambio economico con la Wehrmacht, favorito an­ che da un’amicizia di antica data con il co­ m andante della Luftwaffe in Italia, m are­ sciallo Wolfram von Richtofen. Di fatto tra la fine del 1943 e gli inizi del 1945 le commes­ se degli organi di guerra economica del Reich rappresentarono mediamente il 70 per cento dell’intera produzione della Marzotto, a tutti gli effetti industria “protetta” che lavorava per il ministero degli Armamenti e Produzio­ ne bellica di Speer, rappresentato in Italia da­ gli uffici del RuK (Rüstung- und Kriegspro­ duktion) diretti dal generale Hans Leyers7. In particolare tra il febbraio e l’ottobre del Cini da parte del Clnrv: “ Ma escluso Cini per le sue ‘benemerenze’ da ogni processo epurativo, attraverso il varco aperto passano Volpi [...], Gaggia, Marzotto [...] In altre parole, gli interventi di Tonetti e di Tursi nella seduta del Clnrv del 28 settembre 1945 e la lettera assolutoria nei confronti di Cini che usci da quella seduta poterono essere estesi, e vennero di fatto estesi, a quanti avevano condizionato da sempre la vita economica della regione” (E. Brunetta, Introduzione, cit., p. 26). 5 Per tutte le notizie biografiche di seguito riportate sono debitore di P. Bairati, Sul filo di lana, cit.; G. Roverato, Una casa industriale, cit.; G. Roverato, Gaetano Marzotto Jr., cit. 6 P. Bairati, Sul filo di lana, cit., p. 250. 7 Sull’importante ruolo dell’ente di Leyers, si veda Lutz Klinkhammer, L ’occupazione tedesca in Italia 1943-1945, To­ rino, Bollati Boringhieri, 1993, pp. 70-84 e il numero monografico della “ Rivista di storia contemporanea”, 1993, n. 2-3, Epurazione e industriali 1944 furono fatturate lire 217.300.000 di merci per l’estero, pari a circa 2.400.000 metri di tessuto “quasi tutti destinati alla Germa­ nia” . A tutti gli effetti quindi Marzotto pote­ va apparire un “collaborazionista” , tanto più che era nota l’ospitalità che egli riservava agli ufficiali tedeschi invitati a battute di caccia a Portogruaro o a qualche ricevimento nella villa di Valdagno, dove si poteva ammirare anche un dipinto di A.F. Harper, dono per­ sonale di Joseph Goebbels, grazie al quale nel 1942 M arzotto aveva ottenuto la Croce dell'Ordine al merito dell’aquila tedesca di prima classe. ( Tuttavia la storia personale e imprendito­ riale di Gaetano Marzotto presentava anche altri aspetti che correggevano o confliggevano con un’immagine unidimensionale tutta interna al fascismo. Egli non era stato, come si è detto, un fascista della prima ora, a diffe­ renza del cugino Luciano che nel 1924 era stato eletto deputato e pretendeva di control­ lare politicamente sia Valdagno che la pro­ vincia di Vicenza. Neppure quando le fortune politiche del cugino declinarono Gaetano M arzotto ne trasse immediato vantaggio. I risultati non esaltanti del plebiscito del 1929 a Valdagno attirarono infatti su M arzotto abbastanza scopertamente le ire dei fascisti vicentini. Ancora un incidente rilevante av­ venne nel 1936, allorché i sindacati fascisti accusarono la m anifattura di gravi inadem­ pienze contrattuali nell’applicazione del cot­ timo, con conseguenti manifestazioni di pro­ testa e con una proposta di assegnazione al confino delFindustriale fatta dallo stesso Sta­ race. 109 Ma la partita più difficile Marzotto la giocò dopo l’8 settembre, quando capì che non pote­ va appiattirsi completamente sui tedeschi per­ ché neppure loro, al pari del Mussolini di Salò, avevano futuro. Marzotto scelse di collabora­ re con i tedeschi, ma, nello stesso tempo, so­ vradimensionò i reparti ausiliari e fece rallen­ tare i tempi di produzione. In tal modo egli li­ mitò la disoccupazione e, cosa politicamente significativa, assunse molti giovani che dopo l’8 settembre erano “tornati a casa” . Il gioco era pericoloso a tutti gli effetti: i fascisti vole­ vano quei giovani per costituire l’esercito re­ pubblichino; i tedeschi avevano bisogno di manodopera per le loro industrie in Germa­ nia; Marzotto aveva bisogno di capitalizzare crediti per il dopoguerra e agli uni e agli altri rispondeva che per produrre per il Reich ave­ va bisogno di tutta la manodopera assunta. In questo modo riuscì a limitare al massimo l’in­ vio di operai in Germania all’indomani del grande sciopero del marzo 19448. Inoltre, ma­ no a mano che i tedeschi intensificavano i ra­ strellamenti, M arzotto fu largo di aiuti alle popolazioni colpite, suscitando la reazione delle autorità tedesche. I suoi spazi di mano­ vra tuttavia si restrinsero velocemente nell’e­ state del 1944, quando, venuti meno alcuni im­ portanti appoggi presso i tedeschi, Marzotto si trasferì a Caldè, sul lago Maggiore, e lì visse sotto falso nome fino alla fine della guerra, quando potè tornare a Portogruaro. Per lui in­ fatti era pericoloso rientrare a Valdagno, dove tra il 30 aprile e il 7 maggio erano stati fucilati i cinque fascisti maggiormente coinvolti nelle rappresaglie della locale Brigata Nera e dove alcuni partigiani volevano impiccarlo9 o fuci- con saggi di Fabio Degli Esposti, Alessandro Massignani, Maximiliane Rieder, Andrea Curami e Marco Borghi. Oltre ai lanifici Marzotto, anche la Società marmi vicentini di Chiampo era considerata industria “protetta” . 8 Cfr. Maurizio Dal Lago, Valdagno durante la Repubblica di Salò, settembre 1943-luglio 1944, Valdagno, Biblioteca comunale, 1977, pp. 31-43. Per la connessione di questo sciopero con il bisogno di manodopera da trasferire in Germa­ nia e con la Sauckel Aktion , cfr. M. Dal Lago, Lo sciopero alla Marzotto del marzo 1944, "Il Giornale di Vicenza", 28 febbraio 1994, p. 13. 9 Luigi Meneghello, Libera nos a Malo, Milano, Oscar Mondadori, 1986, p. 237: “L’impiccatore di Marzotto era bion­ do, schivo e trasognato”. A richiamare l’attenzione su questo passo è stato E. Franzina, Prove di stampa, cit., p. 117, nota 81. 110 Maurizio Dal Lago larlo10. Senza contare che il locale Cln aveva esautorato il direttore generale dei lanifici, ingegner Masci, sostituendolo con un trium­ virato di sua fiducia11. Il “ soviet” della Industria marmi vicentini di Chiampo Qualcosa di ancor più preoccupante era av­ venuto il 1° maggio nella società Industria marmi vicentini di Chiampo, di cui Marzotto era presidente, dove il Comitato di liberazione aziendale, il Comitato di agitazione e la Com­ missione di epurazione interna, riuniti in sedu­ ta plenaria, sostituirono i tre dirigenti in cari­ ca fino al 28 aprile12 e decisero la ripresa del lavoro il giorno dopo sotto la guida di nuovi dirigenti da loro nominati, riservandosi “la re­ visione e rimozione, in un secondo tempo, dai posti di responabilità dei dipendenti che non possono, a giudizio dei compagni di lavoro, continuare nelle mansioni a loro affidate” . Il 23 maggio i rappresentanti dei lavoratori scrissero a Marzotto per pregarlo “di ricono­ scere il nuovo stato di cose, onde evitare le cer­ te conseguenze, delle quali noi decliniamo ogni e qualsiasi responsabilità”. Soltanto se fossero stati confermati i dirigenti in carica in quel momento gli operai avrebbero accettato la no­ mina di un amministratore delegato, dato che veniva riconosciuta “la logicità che preposta all’Azienda sia una persona nominata dal Pre­ sidente, dal consiglio di Amministrazione e dagli azionisti” . Una via di mezzo tra la rivo­ luzione dei soviet e una Nep tutta vicentina. Contemporaneamente i rappresentanti dei lavoratori fecero presente che gli operai ave­ vano aumentato la produzione, ottenendo in sei giorni ciò che prima si scavava in dieci, ma che dalla metà di aprile non erano più stati pagati. In attesa della risposta di Marzotto i lavo­ ratori si rivolsero il 28 maggio anche al com­ missario della Provincia, Libero Giuriolo, af­ finché “ voglia interporre i suoi buoni uffici onde le somme depositate presso le banche possano essere sbloccate” per pagare i quasi 500 tra operai e impiegati, nonché per le spe­ se correnti di esercizio13. Marzotto dovette valutare con molta cura tutta la situazione: egli era lontano e in una condizione di obiettiva debolezza sia politica sia gestionale. D ’altro canto gli operai sem­ bravano accontentarsi di quello che avevano già ottenuto, senza intaccare il diritto di pro­ prietà né gli interessi degli azionisti. Non bi­ sognava irrigidirsi, ma prendere tempo. Alla fine del mese M arzotto aderì, in via provvisoria, alle richieste dei lavoratori della Industria marmi vicentini, come si evince dal­ la lettera che la commissione di fabbrica gli in­ viò FI giugno: “ I lavoratori della Società, a mezzo nostro, esprimono al Signor Presidente la loro riconoscenza per aver accolto, con la solita ben conosciuta comprensione, il loro desiderio e dato incarico al sig. Romeo Scomparin [direttore amministrativo della filatura G. Marzotto & figli del Maglio di Valdagno] di guidare, con la collaborazione delle persone da noi proposte, le sorti della ‘Industria dei Marmi Vicentini’. Confidano che la sistema- 10 Ai primi di maggio un gruppo di partigiani valdagnesi voleva andare a Portogruaro e giustiziare Marzotto. Furono dissuasi dai componenti del Cln locale. Un partigiano allora ‘fucilò’ Marzotto in effige, sparando ad una sua foto in­ corniciata (testimonianza orale di Giuseppe Acerbi). 11 Esso era costituito dal ragionier Leopoldo Rausse, dall’ingegner Franco Brunello e (secondo la testimonianza orale di Rausse) da Lino Randon, democratico cristiano. Roverato, invece, indica come terza persona, l’operaio comunista Giovanni Storti (G. Roverato, Una casa industriale, cit., p. 373, nota 54). 12 Essi erano il direttore generale dottor Antonio Facco, l’ingegner Luigi Rossato (che era stato segretario del locale Pnf per dieci anni) e l’architetto Ercole Sanguinetti. 13 II fabbisogno era quantificato in L. 1.080.000. Presso le banche vicentine (Bnl, Banca commerciale, Credito italiano, Banca cattolica) erano depositate L. 1.254.000. Epurazione e industriali zione definitiva non sia diversa da questa, che è dichiarata provvisoria, ed assicurano del lo­ ro sempre disciplinato e proficuo lavoro per il bene della Società e di loro stessi” .14 Con questa riuscita mediazione alle spalle, Marzotto cominciò a sondare il Cln di Valdagno chiedendo Fintervento del sacerdote più prestigioso e più amato dai Valdagnesi, mon­ signor Giuseppe Zaffonato, che era stato lo­ ro parroco dal 1939 all’aprile del 1944, quan­ do venne consacrato vescovo di Vittorio Ve­ neto15. L’industriale doveva muoversi in fret­ 111 ta, perché ai primi di giugno era giunto al Clnp un esposto “ sulla faccenda M arzotto” proveniente proprio dalla “ sua” Valdagno. Il Clnp aveva subito deciso di inviare una let­ tera al Cln mandamentale per avvertirlo che “ qualora risultino cose concrete a carico di Marzotto provvedano a far pervenire denun­ cia regolare al Questore” precisando che “la denuncia può essere fatta da qualsiasi privato cittadino” 16. Ma se M arzotto aveva tutto l’interesse a normalizzare la sua posizione là dove era il 14 Archivio di Stato di Vicenza, Carte Clnp [d’ora in poi AS Vicenza, Clnp], b. 23b. Ai fini del presente lavoro si evi­ denzia che il Comitato di liberazione aziendale era formato da tre comunisti e da un socialista. Solo il 19 settembre, dopo un sollecito del Clnp, il Comitato aziendale risultò essere composto da un socialista, un comunista, un democri­ stiano e un azionista (cfr. lettera della direzione aziendale al Clnp del 19 settembre, in AS Vicenza, Clnp, b. 23b). Per quanto concerne la sistemazione definitiva della situazione alla Marmi vicentini, essa, diversamamente dagli auspici dei rappresentanti dei lavoratori, fu molto diversa da quella “provvisoria”: a settembre l’ingegner Rossato e l’architetto Sanguinetti erano già tornati ai loro posti e, prima della fine dell’anno, riprese le sue funzioni anche il direttore generale dottor Facco, tornato dalla prigionia in Germania. La cosa risulta più comprensibile alla luce di quanto scrisse il 22 giugno a Marzotto il capo cantiere dello stabilimento di Chiampo, il perito industriale Manlio Pivi, che così ricostruiva gli avvenimenti: “Il 1“ maggio u.s. si riuni, promotore il sig. Corradi, disegnatore della nostra Società, e membro comu­ nista del locale Comitato di Liberazione, il cosiddetto ‘Comitato di Agitazione di Fabbrica’, per deliberare circa un pro­ getto di destituzione dalla carica dei dirigenti e di parecchi impiegati e capi-reparto, rei di aver esercitato, nel passato, una giusta severità e perciò stesso ‘sgraditi’ agli elementi meno attivi e più turbolenti. La lista degli ‘incriminati’ venne elaborata dal sig. Corradi e da pochi altri elementi durante il periodo clandestino. La massa degli operai o non cono­ sceva affatto o conosceva molto vagamente il progetto, alla discussione e alla realizzazione del quale non partecipò in alcun modo. Ciò Le posso assicurare per essermene personalmente accertato interrogando allo scopo molti operai. La destituzione [...] venne limitata ai soli dirigenti e al capo-cave, rimandando i provvedimenti degli altri ‘indesiderabili’ a un secondo tempo. Venne poi proposto di chiamare a reggere l’Azienda un ingegnere di Thiene, ma il rag. Fornasetti si autopropose, promettendo molte cose [...]. Verso la metà del mese di maggio [...] il Comitato di Liberazione di Vicenza inviò a Chiampo un suo funzionario, affinché si informasse quali [ite] erano stati i motivi che avevano provocato la ‘destituzione’ di tutti i Dirigenti; a questo funzionario il rag. Fornasetti ebbe il coraggio di rispondere che i tre Dirigenti erano stati ‘destituiti’ perché di sentimenti repubblicani, mentre né l’ing. Rossato, né l’arch. Sanguinetti si possono certo accusare di essere stati filo-repubblicani; l’accusa, poi, è addirittura assurda nei confronti del Dr. Facco, da quasi cinque anni richiamato alle armi e da quasi due internato in Germania”. Se questa era la situazione “politica”, non migliore era quella del cantiere dove “i capi sono stati esautorati e si trovano nell’assurda situazione di dover far rispettare agli ope­ rai le norme e le direttive che gli stessi operai emanano. Ne consegue che i capi non possono né vogliono compromet­ tersi, col risultato che tutti agiscono di propria iniziativa [...] Molto spesso gli ordini della Sede al Cantiere vengono dati per ‘sburocratizzare’ verbalmente, cosicché mi riesce molto difficile il controllo della regolarità dei lavori e delle ope­ razioni che si compiono. Sono stati venduti e si vendono, contro le disposizioni date dal rag. Scomparin,'molti greggi [...], e fra questi purtroppo anche materiali colorati, di difficile approvvigionamento, sicché un giorno potremmo tro­ varci nella situazione di non poter far fronte alla concorrenza. Si cedono inoltre, con troppa facilità, a qualche ‘amico’ petulante, materiali di scorta di prima necessità” . Pivi, per tutto questo, ribadiva “la necessità del rientro dei vecchi Dirigenti” (Archivio Marzotto [d’ora in poi MARZOTTO], D, 4, scat. 8, fase. 3). 15 In un altro momento drammatico per Valdagno era stato chiesto a Zaffonato di intervenire con il suo prestigio. Ciò avvenne il 9 luglio 1944, all’indomani dell’uccisione dei “sette martiri” da parte dei soldati tedeschi di stanza a Valda­ gno. Allora era stato lo stesso commissario prefettizio, Marchetti ad andare a Vittorio Veneto per sollecitare il ritorno di Zaffonato a Valdagno (vedi M. Dal Lago, Valdagno durante la Repubblica di Salò, cit., pp. 61-66. Cfr. anche Gianni A. Cisotto, Guerra e resistenza nella cronaca di un parroco del vicentino ( 1939-1945), Valdagno, Amministrazione comu­ nale, 1995, pp. 84-85). 16 AS Vicenza, Clnp, Registro verbali, n. 1, p. 31. 112 Maurizio Dal Lago cuore delle sue aziende, altrettanto interesse, a un mese e più dalla fine della guerra, aveva­ no le forze politiche a che il lavoro riprendes­ se al più presto: nei magazzini le scorte erano esaurite, alcuni reparti erano stati bombarda­ ti dagli alleati il 10 e FI 1 aprile, subito dopo l’inizio della loro offensiva finale, la disoccu­ pazione incombeva e il triumvirato nominato dal Cln non aveva nessuna possibilità di ri­ mettere in moto la macchina produttiva. L’obiettiva convergenza degli interessi fa­ cilitò i contatti preliminari, fino a giungere in breve tempo all’incontro definitivo. L’accordo di Vittorio Veneto Il 20 giugno 1945, i rappresentanti del Cln di Valdagno, riuniti dal vescovo Zaffonato nel castello di S. Martino a Vittorio Veneto, sottoscrissero con il procuratore di Gaetano M arzotto, ingegner Masci, un documento in cui “il Cln di Valdagno, dopo aver esami­ nata la posizione politica del Co. Marzotto, lo rassicura che non ha alcuna intenzione di procedere nei suoi confronti in alcun senso” . Nel corso del confronto Masci propose che dopo le parole “lo rassicura che” fosse inseri­ ta la correzione-aggiunta: “ non svolgerà al­ cuna azione di carattere politico verso il con­ te M arzotto” . A Masci (e a M arzotto) non bastava un impegno solo per il presente: era necessaria una rassicurazione esplicitamente politica e impegnativa anche per il futuro. La proposta di Masci fu accettata17. M arzotto, dal canto suo, si impegnava a versare un contributo in denaro, in terreni e in fabbricati a favore di una costituenda coo­ perativa di operai desiderosi di avere la casa in proprietà. Parimenti egli avrebbe facilitato il costituirsi di una cooperativa operaia per la gestione di negozi di alimentari e di abbiglia­ mento; infine avrebbe devoluto sei milioni di lire ai “ sinistrati in seguito alle rappresaglie nazifasciste, che hanno avuto la casa distrut­ ta (circa trecento famiglie)” . Era un compromesso realistico, nato in una logica tutta cittadina che da un lato permettava a M arzotto di tornare a Valdagno senza temere ritorsioni di sorta, dall’altro consentiva ai partiti del Cln di accreditarsi presso l’opinione pubblica per aver agito in favore della ripresa del lavoro in un contesto “ sociale” più democratico. Gaetano M arzot­ to tornò a Valdagno alcuni giorni più tardi18. Il problema sembrava dunque risolto con unanime soddisfazione, almeno a livello lo­ cale19. L’attacco Invece i risultati dell’accordo del 20 giugno furono rimessi in discussione il 15 luglio 17 In calce al documento c’è la correzione/aggiunta scritta di pugno dal presidente del Cln, Nino Cestonaro. Il testo completo dell’accordo è riportato in M. Dal Lago, Valdagno durante la Repubblica di Salò, cit., pp. 91-92. Alla riunione di Vittorio Veneto erano presenti, oltre a Masci e a Cestonaro, il quale rappresentava il Partito socialista di unità pro­ letaria, Bruno Gavasso (Pei), Sergio Perin (Partito d’azione), Lino Randon (De), Livio Zenere (Pii). 18 Lo testimoniano le molte lettere che egli scrisse da Valdagno ad amici e a personalità varie: il 3 luglio informa il co­ lonnello Alfredo Landi che per la sua famiglia “malgrado tante traversie [...] è passata bene per tutti” (MARZOTTO, Copialettere, 77, p. 458). Il 24 luglio ricambia gli auguri dell’architetto Francesco Bonfanti (MARZOTTO, Copialettere, 77, p. 478). Il 3 agosto risponde all’arcivescovo di Pisa, monsignor Gabriele Vettori in merito “alla possibilità di far rivivere il Lanificio di Pisa”, non nascondendo “le immense difficoltà che vi si frappongono causa le distruzioni e i gra­ vissimi danni subiti da fabbricati e macchinari, dei quali mi ha dato dettagliata relazione l’ing. Masci che nei giorni scor­ si è venuto appositamente costi per un sopraluogo” . Ma nel contempo assicurava l’arcivescovo che “comunque sarà fatto quanto possibile per rimetterlo al più presto in condizioni di riprendere qualche attività” (MARZOTTO, Copialettere, 77, p. 497). 19 II Clnp infatti non doveva essere convinto della situazione se una settimana dopo, il 27 giugno, decideva di inviare alla Marzotto, che era già stata “commissariata” dal Cln locale, la seguente lettera: “Dall’epoca della Liberazione i la- Epurazione e industriali quando “ L’U nità” , edizione di Milano, at­ taccò duramente il “ feudatario” valdagnese, e con lui il Cln locale, reo di aver “trattato” con M arzotto20. Il “caso M arzotto” nacque in quel momento. L’attacco, provenendo dall’organo uffi­ ciale del Pei, non poteva essere sottovaluta­ to. M arzotto capi che la copertura politica del Cln locale era insufficiente e che era ne­ cessario riprendere la trattativa a un livello più alto, meglio se con la mediazione pro­ prio del partito che lo stava attaccando con maggior durezza. Cosi, verso la fine di luglio, M arzotto incaricò l’avvocato Guido Rezzara di contattare il Pei di Vicenza. Il l e agosto il presidente del Cln provinciale Lievore (Pei) notificò ai colleghi che “ l’avv. Rezzara, consulente legale di M arzotto, ha fatto segnalazione presso la sede del Partito Comunista che il Cln di Valdagno non fun­ ziona, pare per colpa del Presidente. M ar­ zotto è disposto a cedere in cooperativa il teatro, campo sportivo, case popolari ecc. Desidera però la sostituzione del Cln locale e la Direzione [del lanificio], intanto, entrerà in trattative per la cessione di questi locali con il Provinciale” 21. La comunicazione provocò una animata discussione, non tanto per la perentoria ri­ chiesta di azzeramento di un Cln, ma per il fatto che la segnalazione era pervenuta non al Cln ma al Pei, e in secondo luogo circa 113 l’opportunità di andare a verificare sul posto la situazione. Alla fine si decise di convocare il Cln della città laniera per martedì 7 agosto “ per trattare diffusamente l’argom ento” 22. Ma il giorno dopo, 2 agosto, “ L’Unità” sfer­ rò contro Marzotto un nuovo attacco, questa volta politicamente e moralmente devastante per l’industriale valdagnese: “ Segnaliamo il conte fascista G. M arzotto come una delle più nefande spie nazi-fasciste che denunciò gli antifascisti della sua vallata, facendoli pic­ chiare a sangue e molti morire nelle imbosca­ te ed in prigionia sia in Italia che in Germa­ nia”23. La gravità delle accuse era tale da fare ter­ ra bruciata intorno a chiunque. Invece, nel­ l’immediato, non ci furono reazioni di sorta né conseguenze politiche di alcun tipo, con eccezione della decisa ma solitaria difesa di M arzotto fatta, non a caso, dal vescovo Zaf­ fonato il 7 di agosto24. La Commissione provinciale di epurazione non aprì nessuna inchiesta né formulò nessun addebito contro la “ spia nazi-fascista” . Il 7 agosto il Cln pro­ vinciale ricevette, come concordato, il Cln di Valdagno “per trattare delle proposte avan­ zate dal legale di M arzotto” 25. Nonostante l’attacco de “ L’U nità” M arzotto non era stato delegittimato, ma il Pei vicentino si fe­ ce più prudente: Lievore, nella seduta del 27 agosto, ripresentò al Clnp “ le proposte fatte a nome del conte M arzotto al Partito Comu- nifici Marzotto non funzionano. È impressione generale che tale situazione sia stata creata ad arte, allo scopo di con­ vogliare l’opinione pubblica. Questo comitato vi diffida a far sì che entro 5 giorni, dalla ricezione della presente nota, sia ripreso il lavoro. In caso contrario si promuoverà [sic] ad una gestione commissariale” (AS Vicenza, Clnp, Registro ver­ bali, n. 1, p. 43). 20 Nonostante ricerche effettuate presso l’archivio de “ L’Unità” e presso biblioteche e istituti vari nel Veneto e in Lom­ bardia, non sono riuscito a trovare l’edizione con la cronaca vicentina, la cui esistenza tuttavia rimane più che certa perché, come vedremo subito, ad essa fanno riferimento tutti coloro che interverrano sul caso. 21 AS Vicenza, Clnp, Registro verbali, n. 1, p. 84. 22 AS Vicenza, Clnp, Registro verbali, n. I, p. 84. 23 Le frasi riportate sono tratte dalla lettera dei componenti della Commissione di fabbrica delle Ferrovie tranviarie vicentine (Ftv) che le citano direttamente da “L’Unità” del 2 agosto. “4 Cfr. P. Bairati, Sul filo di lana, cit., p. 268. 25 II verbale non riporta il contenuto della discussione, limitandosi alla seguente annotazione: “nel pomeriggio il Co­ mitato riceverà il CLN di Valdagno per trattare le proposte avanzate dal legale di Marzotto” . Vedi AS Vicenza, Clnp, Registro verbali, n. 1, p. 93. 114 Maurizio Dal Lago nista da parte dell’avv. Rezzara” , precisan­ do tuttavia che se anche il Comitato avesse accettato tali proposte “ il Partito Comuni­ sta aveva fatto capire che, in caso di biso­ gno, non avrebbe fatto nessuna discrimina­ zione per il conte”26. Il Pei dunque si teneva aperta ogni possibilità, tanto più che si tro­ vava di fronte alle “ obiezioni sollevate dal Partito Socialista” e al fatto che “ anche il Partito d ’Azione si è interessato alla que­ stione” . Pertanto fu deciso di mandare, gio­ vedì 30 agosto, il socialista De Maria a Valdagno “ per assumere inform azioni presso quel Com itato M andam entale” . Se ne sa­ rebbe poi riparlato nella riunione del 7 set­ tembre. La difesa Negli stessi giorni il “caso M arzotto” appro­ dò sulla prima pagina de “ Il giornale di Vi­ cenza” con una serie di prese di posizione nei confronti delle accuse de “ L’U nità” . Il 26 agosto il direttore Renato Ghiotto27 tito­ lava “ La lezione viene dal popolo” una lunga lettera inviata al giornale dai componenti della Commissione interna e del Comitato aziendale di epurazione della Società tramvie vicentine (di cui Gaetano Marzotto era presi­ dente), nella quale si attestava che, dopo ac­ curate indagini su M arzotto per verificare la fondatezza delle accuse di essere stato una spia nazi-fascista, “nulla risulta che av­ valori tale gravissima imputazione che fa di un uomo, chiunque esso sia, il maledetto da Dio e dagli uomini” . I firmatari della lettera non mancarono inoltre di rilevare che “nes­ sun provvedimento era stato adottato dalle autorità per tale accusa” . Quindi “ o l’anoni­ mo articolista [...] ha delle prove concrete e non delle chiacchiere, e allora si faccia avanti e denunci, perché questo è un suo preciso do­ vere, oppure noi stessi lavoratori dovremmo dire che tale modo di agire non è certamente corretto nei confronti anche di coloro che ap­ partengono a categorie che naturalmente so­ no con noi in conflitto” . Gli operai delle Tramvie, augurandosi una “rapida soluzione del caso M arzotto” si preoccuparono di non aprire una polemica con “L’Unità” : “ Ci con­ senta “ L’Unità” questi nostri brevi accennni che non vogliono certo intaccare la serietà di uno dei principali giornali nostri, e compren­ da che solo il culto che noi abbiamo della li­ bertà delle proprie idee e della manifestazio­ ne di esse, ci ha indotti a stendere il presente articolo” . Molto più pungente e giornalisticamente scaltrito fu il corsivo del direttore Renato Ghiotto: Esce quotidianamente a Milano un giornale che, sensibilissimo ad ogni sintomo di fascismo ancora galleggiante, scaglia pietre e sassate non appena gli sembra di essersi messo in traccia di qualche nuova tram a del fascismo in agguato: soltanto che — talvolta — le pietre e le sassate che esso sca­ glia colpiscono la verità e non il fascismo. Non è nemmeno del quotidiano milanese il torto quanto piuttosto del suo corrispondente dalla nostra pro­ vincia, certo Vito Pandolfi. Costui, recatosi qual­ che giorno dopo l’eccidio a Schio, pretese di aver fatto “ luce” — per conto suo — sul misfatto e ne attribuì senz’altro la responsabilità a certo si­ gnor Salvadori, appartenente alla corrente trozkista del comuniSmo28. L’allarme del signor Pandolfi colse di sprovvista il Salvadori che — proprio — non risulta affatto im­ plicato nelle faccende di Schio. 26 AS Vicenza, Chip, Registro verbali, n. 1, pp. 120-121. 27 Su Renato Ghiotto come direttore de “Il Giornale di Vicenza” nel periodo in esame vedi E. Franzina, Prove di stam­ pa, cit., pp. 45-54, dove si evidenzia che Ghiotto fu proposto alla direzione del giornale da esponenti del Partito d’azione di Vicenza. 28 L’accusa ai trotskisti fu autorevolmente avallata in un articolo di prima pagina, non firmato, de “L'Unità”, edizione di Roma, del 15 luglio: “Tutte le correnti democratiche italiane hanno condannato senza reticenze la strage compiuta a Schio da elementi trotskisti” . Epurazione e industriali Senonché, pochi giorni dopo ecco, sullo stesso giornale, scodellata dallo stesso corrispondente sui numero del 15 luglio dello stesso giornale, la “ verità” su G aetano M arzotto, piccolo duce di Valdagno. Faceva seguito un altro articolo ancor più sensazionale pubblicato nel numero del 2 ago­ sto, in cui l'industriale valdagnese era accusato pubblicamente quale delatore di partigiani a favo­ re del nemico. E sono queste inconsulte sassate alla verità che — questa volta — hanno provocato la reazione degli operai, i quali hanno voluto chiarire le co­ se ed esporre le loro idee. L ’atteggiam ento di questi lavoratori è una difesa del diritto che il popolo ha di esigere dalla stam pa serietà ed onestà. Renato Ghiotto si schierava apertamente con gli operai, con il “popolo” (e, oggettivamen­ te, dalla parte di Marzotto), ma nello stesso tempo spostava e circoscriveva il problema, derubricando quello che a tutti gli effetti era un pesantissimo attacco dell’organo del partito comunista italiano, all’errore indivi­ duale di un suo oscuro corrispondente di pro­ vincia. Il 6 settembre, sempre in prima pagina e con rilievo ancora maggiore, “ Il Giornale di Vicenza” pubblicò le lettere di 61 operai dei Lanifici M arzotto insieme a quella del­ le commissioni interne di fabbrica della so­ cietà per azioni Industria marmi vicentini di Chiam po, nonché il com unicato della Commissione interna del Lanificio V.E. M arzotto. Fin dal titolo sotto il quale vennero rac­ colte le lettere e il comunicato si capisce che l’accento si era spostato dai “ sistemi giornalistici” ai problemi locali: “ E utile che M arzotto torni a Valdagno? Gli operai hanno dato la loro risposta” . Questa era contenuta in primo luogo nella lettera dei 61 “ vecchi” operai: Come i compagni vicentini [delle tramvie] deside­ riamo sia dato modo a quest’uomo di ritornare 115 tranquillamente al suo posto di lavoro, alla testa delle sue industrie... Un uomo, quale M arzotto, checché se ne dica, non è tanto facilmente sostitui­ bile, e noi che lo conosciamo da tanti anni, sappia­ mo cosa valga, e come nelle attuali contingenze sia indispensabile la sua guida per la ripresa. Ma vo­ gliamo sia lui il nostro dirigente massimo e che ri­ prenda a vivere la nostra vita, accanto a noi e al nostro lavoro, sicuri che non vorrà più ricadere negli errori del passato e saprà rompere quella cer­ chia chiusa, nella quale lo avevano rinchiuso certi suoi dirigenti, che tenendolo lontano da noi e male agendo contro gli operai, fecero poi ricadere su di lui tutte le loro colpe. E quindi tempo che anche Marzotto epuri coloro che hanno voluto instaura­ re nei suoi stabilimenti un regime di bassi nepoti­ smi e di preferenze, specie verso gente forestiera... Questi sono gli errori di Gaetano Marzotto, ed ora noi gli chiediamo di seguire le orme del suo sempre compianto Genitore [Vittorio Emanuele Marzot­ to], che in fatto di tecnica e di lavoro fu maestro a tutti noi. A ben guardare questa lettera era sì una ap­ passionata difesa di Marzotto, ma nello stes­ so tempo era anche un aperto atto di accusa: Marzotto aveva “tradito!” i “suoi” operai, la “ sua!” Valdagno, lasciandola in mano agli “ stranieri!” , per giunta incompetenti. Lungi quindi dal dover essere epurato per ragioni politiche, era lui, M arzotto, che doveva “ epurare” la sua azienda da chi ne aveva usurpato il posto29. La conclusione della let­ tera era tutta “interna” a Valdagno e ai lani­ fici: Come Valdagnesi, nati e cresciuti nelle sue fabbri­ che, perché in seno alle nostre madri abbiamo im­ parato ad udire i battiti del telaio [...] gli chiediamo di abolire [...] certi esotici sistemi che vogliono fare dell’uomo una macchina, nuocendo alla qualità delle produzioni e menomando il nome Marzotto, che noi vogliamo sia riportato all’altezza dei bei tempi, quando quelle stoffe da noi prodotte, senza tanti bedaux, primeggiavano in tutto il mondo, ed hanno fatto grande Valdagno. 29 Alcuni anni più tardi Marzotto riconobbe l’errore di aver abbandonato la direzione, facendolo risalire al 1934. Cfr. P. Bairati, Sul filo di lana, cit., p. 222. 116 Maurizio Dal Lago Basta dunque “con le menzogne e gli occulti interessi” e ci si domandi piuttosto “il perché di tanto accanimento, mentre vi sono moltis­ simi altri industriali italiani, che hanno col fascismo e con i tedeschi, profittato e guada­ gnato milioni e miliardi, ed oggi nessuno li tocca... Vedi Biellese, Alto Milanese, ecc.” 30 Anche questa volta Ghiotto si schierò apertamente con gli operai31: “ Nel ‘caso’ di Marzotto la sospensione del giudizio signifi­ ca la disoccupazione sistematica e retribuita di quasi la metà del personale ordinario degli stabilimenti di Valdagno e di Maglio. Biso­ gna fingere di ignorare ancora il problema?” . Tanto più che se ancora permanevano dubbi di natura politica, questi erano stati spazzati via dalle “ commissioni di epurazione che hanno rimosso dall’impiego numerosissimi funzionari, impiegati ed operai dei lanifici Marzotto sia perché compresi nelle clausole delle leggi contro il fascismo, sia per indegni­ tà32, [e che] non hanno trovato nella condotta politica e morale di Gaetano Marzotto niente di tanto grave da giustificare un qualsiasi provvedimento a suo carico” . Il giovanissi­ mo direttore così concludeva il suo corsivo: Se domani nella vita economica italiana verrà mo­ dificata sostanzialmente la struttura attuale del ca­ pitalismo — cosa che è per molte ragioni augura­ bile — non è logico né produttivo che in attesa di quel momento si accantoni una competenza in­ dubbia e si trascuri la soluzione di un problema di cosi vasto interesse. Si ha paura di formare taci­ tamente un feudo e un feudatario? Non manche­ ranno domani — se tale è la volontà dei lavoratori italiani — i mezzi legali e aperti per impedire peri­ colose deviazioni o per esercitare controlli. Del re­ sto tale possibilità esiste già ora, attraverso gli or­ ganismi democratici delle fabbriche, la libertà di stampa, l’aumentata efficacia della critica. Ghiotto quindi aveva buon gioco nel mostra­ re la sostanziale concordanza delle sue “ de­ duzioni sul capitalista valdagnese” con le va­ lutazioni della Commissione interna del lani­ ficio Vem di Valdagno il cui comunicato del 4 settembre ricordava che i rappresentanti dei lavoratori dei due maggiori complessi industriali [...] ritennero opportuno prendere in considerazione l’invito per un contatto con il loro principale e fino dal primo colloquio33, superati e appianati tutti gli ostacoli, addivennero ad una fattiva collaborazione per risolvere tutti i problemi economici, industriali e sociali delle aziende. Deplora in conseguenza che quest’atmo­ sfera laboriosa [...] venga turbata da persone estra­ nee ai lavoratori dei lanifici e peggio ancora a no­ me di questi senza averne un preciso mandato [...] e considera con sospetto ogni intervento non ri­ chiesto34. Il messaggio era chiaro: Marzotto era proble­ ma dei valdagnesi soltanto, e loro lo avevano già risolto sia politicamente che sindacalmen- 30 La posizione dei 61 operai era in linea con il tradizionale paternalismo marzottiano, chiaramente illustrato ne! vo­ lume, commemorativo del centenario dell’azienda, Un episodio e una storia. Marzotto 1836-1936, Milano, Industrie gra­ fiche Moneta, sd. [ma 1936], pp. 237-293: “ora abbiamo davanti [...] la Città sociale dell’assistenza ai lavoratori, la te­ stimonianza vivente della dignità a cui è sorto il lavoro, il Cerchio che s’è compiuto, dalla collaborazione dei ‘sottoposti’ nella fortuna dell’industria alla collaborazione dell’industria nella vita civile dei ‘sottoposti’” (p. 237). 31 Franzina, invece, giudica “ guardingo” il commento di Ghiotto in Prove di stampa, cit., p. 121, nota 128. 32 II 3 settembre la Commissione di epurazione del Lanificio di Valdagno (istituita a norma dell’ordinanza generale n. 46 del 27 giugno 1945 emessa dal contrammiraglio Ellery Wheeler Stone) aveva deciso il licenziamento di 45 fascisti, tra operai e impiegati. I sospesi furono 23, cfr. il verbale della Commissione, 3 settembre 1945, in Archivio comunale di Valdagno, sez. “Resistenza” , busta 2, fase. 6. La Commissione era formata da Sergio Perin, presidente, da Ettore Crosara e Angelo Conte. Non sono riuscito a reperire le risultanze della Commissione che operò nello stabilimento del Ma­ glio e che, presieduta sempre da Sergio Perin, aveva come componenti Romeo Scomparin e Attilio Pasetto. Cfr. l’elenco dei membri in AS Vicenza, Clnp, b. 14, fase. 3. 33 II contatto avvenne a Portogruaro e completò sul versante sindacale l’accordo politico di Vittorio Veneto. 34 II comunicato della Commissione interna fu spedito al giornale il 3 settembre. Vittorio Marzotto, il 4 settembre, in­ formò il padre che nella Commissione c’era stato chi aveva proposto di smentire le accuse contenute negli articoli de Epurazione e industriali 117 te, ponendo le premesse per la ripresa pro­ duttiva, esigenzia primaria e indilazionabile per tutti gli operai e i responsabili della co­ munità. M arzotto veniva così “ assolto” per la seconda volta, ed ora pubblicamente, dal popolo, dai “suoi” operai, dalle commissioni interne e di epurazione, senza distinzione partitiche35. Il “ caso” poteva considerarsi definitivamente chiuso. Ed invece si riaprì rindomani, nel modo più clamoroso. opposti a quelli seguiti fino a quel momento. In primo luogo il Comitato provinciale mos­ se “ un appunto a ‘Il Giornale di Vicenza’ perché per due o tre giorni ha pubblicato am­ pi articoli su M arzotto” 37, tra i quali non era stato gradito soprattutto il comunicato del Cln mandamentale di Valdagno, pubblicato il 5 settembre38: esso infatti dimostrava che l’iniziativa era tornata ai valdagnesi, decisi a far valere la parte “ sociale” dell’accordo del 20 giugno e a porre la sordina sulla con' tropartita politica che avevano concesso. Es­ Lo scontro tra il Cln provinciale sa divenne invece il punto su cui si concentrò e il Cln di Valdagno l’attacco del Comitato provinciale che decise aH’unanimità di far pubblicare una durissima Il 7 settembre il Clnp36 affrontò come conve­ sconfessione politica che era insieme una ta­ nuto la questione M arzotto, ma in termini gliente delegittimazione morale del comitato “ L’Unità”; la proposta non venne approvata perché, affermavano gli oppositori: “non vogliamo andare contro il nostro giornale” (MARZOTTO, D, 25). Anche i rappresentanti dei lavoratori della spa Marmi vicentini di Chiampo si asso­ ciavano a quanto scritto dai lavoratori delle Tramvie e facevano voti “affinché sia finalmente chiarita la posizione del Conte Marzotto, che della ‘Marmi’ è stato il rinnovatore e dei bisogni della nostra vallata è stato sempre particolarmen­ te sensibile e generoso di aiuto anche in questi ultimi tempi estremamente difficili” (“Il Giornale di Vicenza” , 6 settem­ bre 1945). 33 Questo non significa che, a favore di Marzotto, si schierassero anche capi partigiani locali a differenza di quanto scrive G. Roverato, Una casa industriale, cit., p. 377, nota 67. 11 Roverato, a sostegno della sua tesi, riporta il manifesto fatto affiggere nell’estate del 1945 da un sedicente capo partigiano, tale Falco, vicecomandante della brigata Carando, e attribuisce anzi a questo intervento un ruolo conclusivo del caso Marzotto (G. Roverato, Gaetano Marzotto Jr., cit., p. 63). Falco negava l’identificazione tra Marzotto e fascismo affermando, al contrario, che Marzotto era stato “antifa­ scista” fin dal plebiscito del 24 marzo 1929, come testimoniavano, a suo dire, i risultati per nulla plebiscitari che in quel­ l’occasione si erano avuti a Valdagno. In realtà il manifesto non fu scritto dal vicecomandante Falco, che non è mai esistito, come non è non è mai esistita, né nella valle dell’Agno né altrove, una brigata Carando. Nel merito poi il do­ cumento affermava cose del tutto inesatte quando sosteneva che, nelle elezioni plebiscitarie del 1929, una notevole parte dei Valdagnesi aveva votato contro il regime “con l’incondizionato appoggio del Conte” . Perché, se è vero che i voti contrari furono 531 e suscitarono le ire del federale di Vicenza Alberto Garelli nonché della “Vedetta fascista” , le cause di questa protesta andavano cercate sia nel malcontento degli abitanti della frazione di Piana per la chiusura del loro tradizionale circolo ricreativo, sia in quello degli abitanti di Novale che erano stati appena privati del loro Comune, come immediatamente si premurò di spiegare lo stesso Marzotto a Garelli; cfr. Paola Dal Lago, “ Verso il regime tota­ litario. Le elezioni plebiscitarie del 1929”, tesi di laurea, rei. Angelo Ventura, Università degli studi di Padova, a.a. 19941995, pp. 265-272. Infatti Marzotto, in occasione del plebiscito, lungi dall’operare in senso contrario al regime, aveva esplicitamente invitato i suoi operai a votare si: “Troviamo inutile rivolgere parole di incitamento ai nostri operai poiché siamo sicuri che tutti adempiranno al loro dovere di elettori, di cittadini. S.E. Mussolini, che figura a capo della lista dei 400 candidati ha troppo benemeritato dagli Italiani per dubitare che alcuno di essi manchi all’appello” , citato da P. Dal Lago, “Verso il regime totalitario. Le elezioni plebiscitarie del 1929”, cit., p. 116. E infine significativo che Marzotto non abbia mai fatto riferimento al plebiscito del 1929 nei suoi appunti difensivi (vedi più sotto). Dunque è molto pro­ babile che quel manifesto sia stato “costruito” in ambienti filomarzottiani fin troppo zelanti. 36 Erano presenti: Antonio Lievore e Bruno Stocco (Pei), Jacopo Ronzani (Pda), Giacomo Rumor e Guglielmo Cap­ pelletti (De), Marcello De Maria e Mario Segala (Psi), Antonio Forestan e Gino Berto (Pii); era assente Ettore Gallo (Pda). 37 AS Vicenza, Clnp, Registro verbali, n. 1, pp. 131-132. 38 “Con la partecipazione delle Commissioni di Fabbrica dei Lanifici Marzotto si è riunito il CLN Mandamentale per deliberare su importanti problemi riguardanti gli operai della nostra città. Presieduta da Sergio Perin (P. d’Azione), pre- 118 Maurizio Dal Lago valdagnese, probabilmente unica nel suo ge­ nere: Il Cln Provinciale, presa visione a mezzo stampa (Giornale di Vicenza, 5 settembre) della delibera del Cln mandamentale di Valdagno, precisa che l’accordo di Vittorio Veneto del 20 giugno 1945 ivi richiam ato, venne concluso dai componenti del Cln di Valdagno ed il signor Gaetano Marzotto, contrariamente alle istruzioni date loro dal Cln provinciale. Si dimostrava infatti immorale il su­ bordinare una offerta di carattere sociale alla di­ scriminazione di una responsabilità politica, come veniva prospettata nella premessa di tale accordo, ed inoltre esorbitava dalla competenza del Cln mandamentale39. Il Cln di Valdagno reagì subito e ottenne di essere ricevuto dal Comitato provinciale mercoledì 12 settembre. Presenti Lievore, Gallo, Rumor, Cappelletti, De Maria, Fore­ stan, Stocco e Berto, i valdagnesi chiesero “spiegazioni in merito all’articolo apparso il giorno 8 corr. mese sul Giornale di Vicen­ za”40. Rispose Lievore che “il Comitato Pro­ vinciale non era d’accordo con il precedente articolo del giorno 5, in quanto [il Cln pro­ vinciale] non aveva dato il benestare per la stipulazione del concordato di Vittorio Vene­ to del 20 giugno corr. anno” . Il presidente del Cln di Valdagno, l’azioni­ sta Sergio Perin, ribattè che “il vostro pensie­ ro in proposito è giunto quando l’accordo era già stato firmato da tutti noi [che] natural­ mente non potevamo più ritornare sulle deci­ sioni precedentemente prese” . La spiegazio­ ne di Perin non convinse i componenti del Comitato provinciale, che anzi accentuarono le loro critiche: “Noi vi avevamo avvertiti di non prendere col M arzotto nessun impegno preciso, ma solo di recarvi a Vittorio Veneto per vedere che cosa intendeva fare il procura­ tore di M arzotto” . La discussione giunse ad un punto m orto dal quale alla fine si uscì con un comunicato, steso da Gallo, la cui tor­ tuosità è prova evidente delle difficoltà in­ contrate per trovare un punto di equilibrio accettabile da tutti: Il comitato Mandamentale di Valdagno prende at­ to della dichiarazione del CLN Provinciale a pro- sidente del locale CLN, la seduta è stata aperta alle ore 8.30. Erano presenti: Pietro Tovo e Bruno Gavasso (partito comunista), Giuseppe Acerbi (democrazia cristiana), Franco Melen e Sisto Cocco (partito liberale), Nino Cestonaro ed Alessandro Randon (partito socialista), la Commissione interna del Lanificio V.E. Marzotto presieduta dal sig. Fa­ bio Masciadri e la Commissione interna della Manifattura G. Marzotto e Figli presieduta dal sig. Luigi Perin. E stato deliberato: visto l’art. 1 del programma sociale convenuto nell’accordo di Vittorio Veneto tra il CLN di Valdagno e il conte Gaetano Marzotto [...] [era prevista la costituzione di una Società anonima per la costruzione di appartamenti per operai] si è approvata la Commissione già costituita per la redazione dello Statuto suddetto, composta come segue: Francesco Zanotelli (Sindaco), Ugo Brumani (Commissioni interne), Angelo Conte (PCI), Romeo Scomparin del Lani­ ficio, Nino Cestonaro (PSI), Livio Zenere (P. liberale) e Francesco Benetti (Demo-cristiano). Tale commissione cesserà con la presentazione dello Statuto e la conseguente costituzione della società. Visto l’art. 2 del sopraccennato accordo di Vittorio Veneto [...] [riguardava la costituzione di una cooperativa che avrebbe dovuto gestire negozi di genere alimen­ tari e di abbigliamento] viene deciso all’unanimità di soprassedere al passaggio della Unione di consumo in Cooperativa operaia, tenuto conto delle attuali difficoltà di mercato, e di provvedere affinché per il momento venga eletta dagli ope­ rai una Commissione di sorveglianza dell’Unione di consumo, con lo scopo inoltre di prepararsi ad assumere la gestione al momento del trapasso in Cooperativa. In tale senso si decide che sia inviata dal CLN una lettera al conte Marzotto [...] Visto l’art. 3 del sopramenzionato accordo di Vittorio Veneto...[ concernente le Opere assistenziali] su richiesta del CLN le Commissioni interne di fabbrica nominano la Commissione direttiva per le Opera assistenziali che risulta cosi composta: Fongaro Romano, Dal Lago Antonio, Colpo Rosetta, Donati Pino, Peserico Bruno, Reniero Dino. Tale commissione viene integrata da due membri della Direzione dei Lanifici nelle persone dei signori Sandro Negri e GioBatta De Paoli. Si decide all’unanimità che vengano immediatamente costituiti i CLN aziendali nei Lanifici di Valdagno e Maglio” . Il comunicato evitava di fare il benché minimo riferimento al preambolo politico dell’accordo, che era invece il punto più delicato e controverso. 39 AS Vicenza, Clnp, Registro verbali, n. 1, pp. 131-32; cfr. anche “ Il Giornale di Vicenza” , 8 settembre 1945, p. 2. 40 AS Vicenza, Clnp, Registro verbali, n. 1, pp. 135-136. Epurazione e industriali posito del caso Marzotto pubblicata sul “Giornale di Vicenza” dell’8 settembre. Osserva soltanto il Comitato Mandamentale che non debba ad esso riferirsi la denunciata immora­ lità di principio in quanto non v’ha subordinazio­ ne alcuna fra la declaratoria del Comitato M anda­ mentale di non aver motivo di procedere allo stato degli atti e la profferta di provvedimenti sociali avanzata spontaneamente e liberamente [corsivo mio] da Gaetano Marzotto, per cui ritiene non es­ servi possibilità di giudizio di immoralità di prin­ cipio sull’accordo medesimo. Se la forma era stata faticosamente salvata, nella sostanza il Cln mandamentale usciva sconfitto: i valdagnesi furono costretti a sot­ toscrivere quell’inciso “allo stato degli atti” che non compariva affatto nel testo dell’ac­ cordo, come pure dovettero accettare che la “ profferta” di M arzotto apparisse libera e spontanea, e non frutto di una trattativa, che invece c’era stata, il che equivaleva da un lato a rendere politicamente nullo l’opera­ to del Cln valdagnese41, e dall’altro a togliere a Marzotto quelle garanzie che gli erano state date a Vittorio Veneto. M arzotto però non sembrava eccessiva­ mente preoccupato. Lunedi 10 settembre i re­ duci dalla Germania avevano organizzato una manifestazione in suo favore, alla quale avevano partecipato operai e cittadini che erano andati in corteo fino all’ingresso del la­ nificio. Dopo aver ricevuto una delegazione dei reduci, il conte era sceso dal suo ufficio e aveva ringraziato tutti i manifestanti42. M arzotto, poi, nonostante le polemiche in corso, era già al lavoro per rimettere in 119 moto la produzione, un impegno che esige­ va ben altri interlocutori. L’11 settembre in­ fatti scrisse una lettera al ministro dell’In­ dustria Giovanni Gronchi. In essa M arzot­ to prospettava con molta chiarezza la stra­ tegia che, secondo lui, il governo doveva at­ tuare per aiutare la ripresa del com parto tessile: “ Il problema principe che assilla og­ gi l’industria laniera è quello di ricostituire il più rapidamente possibile le scorte neces­ sarie per il suo normale funzionamento, co­ sa che è di difficile soluzione quando si pen­ si che nessuno è oggi in grado di disporre della valuta necessaria per l’acquisto della lana nei paesi d’origine” . Come dunque procurarsi la valuta indispensabile? “ Unica forma possibile, e certo la più rapida — suggeriva M arzotto — è quella di destinare, in un primo tempo, la maggior parte della produzione dell’industria laniera all’espor­ tazione, in modo da potere, col ricavato del­ la vendita dei prodotti lavorati, procedere all’acquisto di nuova materia prim a” . Per questo M arzotto invitava Gronchi ad ope­ rare affinché “ venga evitata una tassa o un sovraprezzo sulle lane importate in mo­ do che la nostra industria possa competere liberamente con l’industria internazionale sui mercati internazionali” , e concludeva il suo scritto nel più tipico stile marzottiano, non chiedendo cioè un appuntamento al mi­ nistro, ma autoinvitandosi senza indugio e decidendo lui stesso la data e l’occasione: “ Mi permetterò di venire a visitarla a Roma in occasione di una mia venuta a metà del prossimo ottobre”43. 41 II 12 settembre poteva essere la fine politica per Sergio Perin, l’uomo politico emergente in quelle settimane a Valdagno. Invece quello stesso giorno a finire fu l’esperienza amministrativa del sindaco Zanotelli (Pda) e del suo vice Broccardo (Pei), dimissionati “per gravi motivi di salute” e sostituiti nei rispettivi ruoli proprio dall’azionista Perin e dal comu­ nista Bruno Gavasso (lettera del Cln di Valdagno, 12 settembre 1945, in AS Vicenza, Clnp, b. 24, fase. 10). Il commissario della provincia, Libero Giuriolo, firmò il decreto di nomina il 18; il cambio delle consegne avvenne il 27 settembre. Al vertice dell’Amministrazione comunale rimanevano sempre il Partito d’azione e il Pei, ma rappresentati adesso dalla loro componente giovanile e, soprattutto, da due esponenti che avevano ratificato e difeso l’accordo di Vittorio Veneto. 42 “Il Giornale di Vicenza”, 13 settembre 1945, p. 2. 43 MARZOTTO, Copialettere, 78, pp. 86-87. In effetti il settore tessile, evitando il problema delle operazioni valutarie, fu il primo a dare segni di ripresa, cfr. David W. Ellwood, L ’alleato nemico. La politica dell occupazione anglo-americana in Italia 1943-1946, Milano, Feltrinelli, 1977, pp. 378-379. 120 Maurizio Dal Lago Tale sicurezza e libertà di movimento po­ tevano derivargli anche da quanto egli sostie­ ne gli fosse stato detto da due esponenti co­ munisti, uno dei quali era il presidente stesso del Cln provinciale. Si legge infatti in un lun­ go pro-memoria difensivo che Marzotto det­ tò in quel periodo: A proposito dell’“Accordo di Vittorio Veneto” due rappresentanti del partito comunista di Vicen­ za il signor Bruno Tosin e il signor Lievore, dichia­ rarono al conte M arzotto presente l’avvocato Guido Rezzara e S.E. il vescovo di Vittorio Veneto Mons. Zaffonato che la comunicazione del Comit. di Liber. Nazion. di Vicenza sulla moralità dell’ac­ cordo (Giornale di Vicenza dell’8 Sette[mbre]/45) è ridicola e, precisamente dissero: se in un primo tempo siamo stati perplessi di fronte all’accordo pensando che si cercasse di sanare una situazione politica mediante concessioni economiche, ora a due mesi e mezzo di distanza dall’accordo stesso, constatando che non venne fatta alcuna denuncia a carico di Marzotto, riteniamo provato che la no­ stra perplessità [non] fosse assolutamente ingiusti­ ficata e che niente fosse da addebitare in proposito al M arzotto44. Senza contare che Marzotto, sempre nel pre­ detto memoriale, ricordava che “anche a fa­ vore dei partigiani fece i versamenti che gli furono richiesti” . E poteva provarlo: il 21 maggio 1945 il direttore amministrativo della “ Gaetano Marzotto & Figli S.A.” di Maglio di sopra, Romeo Scomparin, dopo una serie di colloqui, aveva versato a Eugenio Zacca­ ria, comandante della “ Rosselli” , la somma di lire 105.000 “ a titolo di premio per i 70 membri della vostra Brigata che hanno parte­ cipato alla liberazione di Valdagno e alla tu­ tela delle Fabbriche. A questi 70 membri ci ri­ serviamo — continuava Scomparin — di di­ stribuire un taglio di vestito per ciascuno di essi”45. Il 12 settembre era la volta del com­ missario politico della “ Rosselli” , A. Colli­ netti, a informare il conte M arzotto che la brigata era in passivo per 25.000 lire: “Cortesemente ci rivolgiamo a Lei perché più di ogni altro può capire e fare” . La richiesta era vistata dal presidente del Cln mandamen­ tale, Sergio Perin. Marzotto capì e, due gior­ ni dopo, fece46. Che M arzotto fosse molto attento a non lasciarsi sfuggire alcuna occasione di allac­ ciare rapporti “ a sinistra” lo testimonia an­ che la sollecita risposta che egli diede a Giovan Battista Zonta, esponente del Pei di Bassano del G rappa, che il 27 agosto gli aveva chiesto un appuntamento per discute­ re la situazione della sua zona che egli anti­ cipava in questi termini: “ Bassano e la Val­ lata del Brenta hanno m olta m anodopera attualm ente nella miseria. La nostra città vi sarebbe molto riconoscente se voi poteste dare il pane... I tempi sono difficili. Ma chi dà pane sarà benedetto dai popoli. La bor­ ghesia di Bassano ha sempre sabotato la in­ dustrializzazione della città nel passato: noi domandiamo lavoro, nell’industrializzazio­ ne del nostro fiume” . M arzotto ricevette l’e­ sponente comunista bassanese P II settem­ bre a Tavernelle. Il giorno dopo Zonta, su carta intestata del Pei di Bassano, ringraziò Marzotto della cortese ed affettuosa accoglienza che mi ave­ te offerto ieri a Tavernelle; ne sono rimasto più che soddisfatto anche per i suggerimenti che mi avete dati. Mi auguro che non sia l’ultimo incontro che avrò l’onore di avere con voi nella fiducia di 44 MARZOTTO, D, 25. Copia della lettera si trova presso l’Archivio Zorzanello di Montecchio Maggiore, dove è conservata anche la lettera, per ricevuta, di Zaccaria. Non si può escludere che eguale trattamento sia stato riservato anche agli uomini della brigata Stella, appartenente alla divisione Garemi, controllata dai comunisti. Il 23 maggio, infatti, è il commissario politico del­ la Garemi, Lisi, a informare il Clnp che “a Valdagno e a Schio gli industriali regalano un vestito e un premio in denaro ai Patrioti” (AS Vicenza, Clnp, Registro verbali, n. 1, p. 17). 46 MARZOTTO, Copialettere, 78, p. 96. Il Lanificio, inoltre, il 31 agosto aveva versato 10.000 lire “per i bisogni del gruppo locale del Fronte della gioventù” , cfr. MARZOTTO, Copialettere, 78, p. 48. Epurazione e industriali vedere realizzato al più presto il piano di comuni­ cazioni che riservate alla nostra città. Anche a no­ me del mio compagno Vi porgo tutto il mio rispet­ to esternandovi la mia ammirazione per voi47. L’incriminazione e la difesa di Marzotto Così, con una situazione che appariva sotto controllo, M arzotto andò a Rom a come aveva preannunciato a Gronchi. M a il 21 ottobre, improvvisamente, la Commissione provinciale per la sospensione dei funziona­ ri ed impiegati fascisti48 gli notificò un avvi­ so in cui venivano formulati cinque addebi­ ti a suo carico e prospettata la sospensione da presidente della Società tramvie vicenti­ ne49. Gli addebiti erano: a) essere stato uno squadrista; b) aver partecipato attiva­ mente alla vita politica del fascismo; c) aver ottenuto nomine col favore del fascismo; d) essere un fazioso; e) essere stato un collabo­ razionista. Ancora una volta i primi a difendere M arzotto furono i componenti della Com­ missione provinciale di fabbrica e del Co­ mitato interno delle Tramvie vicentine che il due novembre, alle 16, furono ricevuti dal Cln provinciale “ per trattare la questio­ 121 ne della sospensione dalla carica di Presi­ dente di detta Soc. del M arzotto Gaetano” . In quella sede i rappresentanti delle Tramvie resero noto al Comitato che “ se il M ar­ zotto verrà destituito dalla carica di Presi­ dente, tutti gli operai faranno uno sciopero, i quali vedono nello stesso [Marzotto] l’uni­ ca fonte di lavoro” . Di fronte a tale posi­ zione Segala, che faceva parte della Com­ missione provinciale di epurazione, e Gallo cercarono “ di convincere i rappresentanti della Società che l’epurazione di tutti quelli che hanno ricoperto delle cariche e che so­ no stati molto favoriti nel tempo del fasci­ smo, deve essere fatta prima di qualche al­ tra cosa” . La discussione si protrasse sullo stesso tono per circa mezz’ora, e dovettero intervenire tutti i componenti del Cln per ribadire ai lavoratori delle Tramvie che “ il Comitato non è del parere di tenere in cari­ ca il M arzotto, ma che tuttavia la sola com­ petente in m ateria, e che può decidere in m erito, è la Commissione di Epurazione, la quale essendo un ente autonomo, funzio­ na per conto proprio, e le decisioni le pren­ de di sua iniziativa senza influenze di altre persone” 50. M arzotto rispose alla Commissione pro­ vinciale di epurazione il 23 novembre, al 47 MARZOTTO, D, 4, scat. 5, fase. 3. Marzotto rispose il 27 settembre: “Solo oggi ricevo la Sua del 12 corr. Nel rin­ graziarla per le Sue gentili espressioni, spero che il piano per una migliore sistemazione delle comunicazioni con Bassano possa avere sollecita attuazione. Cordiali saluti". Non è escluso che l'esponente comunista bassanese fosse stato affetto da quella sindrome che sembrava colpire tutti coloro che incontravano Marzotto e che era stata segnalata già nel 1936 dal prefetto di Vicenza che definiva [’industriale valdagnese un “piccolo sole terrestre miliardario [che] attira nell’orbita sua chiunque lo avvicini, grandi e piccoli, anche senza mai chiedere nulla, o alcunché di inattuabile. E una situazione che si forma di continuo, inesorabilmente, anche contro l’altrui volontà, è un andare fatale e non facilmente frangibile, cosa che si può intuire, ma che non potrei in maniera più adatta rappresentare” , citato in P. Bairati, Sul filo di lana, cit., p. 224. 48 La Commissione provinciale di epurazione era formata dagli avvocati Mario Segala e Teodoro Bertolini e dal pro­ fessor Nico Sguario. Bertolini aveva sostituito il conte Giustino Valmarana dimessosi da presidente della stessa l’I ot­ tobre 1945. Fino a tutto agosto le commissioni di epurazione operavano sulla base delle ordinanze n. 35 e n. 46 dell’Amg. A partire da settembre esse passarono sotto la giurisdizione dell’Alto Commissariato per le sanzioni contro il fascismo ai sensi dell’art. 12 del decreto legislativo luogotenenziale 4 gennaio 1945 n. 2. 49 Per tale sospensione la Commissione faceva riferimento con ogni probabilità al decreto legislativo luogotenenziale 4 agosto 1945 n. 472 che dettava norme per la “Epurazione degli amministratori, dei sindaci e dei liquidatori delle imprese private” . In particolare il decreto riguardava gli amministratori delle spa e delle società a responsabilità limitata con capitale superiore ai cinque milioni. 50 AS Vicenza, Clnp, Registro verbali, n. 2, p. 53. 122 Maurizio Dal Lago suo rientro da Roma. Dopo aver premesso che egli si era recato nella capitale “per stu­ diare un piano di ricostruzione di quella mia industria a cui in tutti i tempi mi sono de­ dicato con fervore e con passione nel convin­ cimento di fare cosa utile non solo a me stes­ so, ma anche al mio personale e al mio Pae­ se” , M arzotto respinse tutti gli addebiti “ o meglio gli apprezzamenti generici che mi so­ no stati notificati” e pregò “la Commissione di voler ora specificare i fatti a cui tali adde­ biti o apprezzamenti, dovrebbero necessaria­ mente riferirsi per essere messo in grado di fare, a mia volta, le precisazioni che fossero opportune” . Egli concludeva la lettera senza nascondere uno sdegnato fastidio: “ per il momento, e di fronte ad accuse indetermina­ te nel loro contenuto obiettivo e che mi appa­ riscono non soltanto ingiustificate ma anche incomprensibili io non potrei né mi sento di rispondere altro” 51. In realtà M arzotto comprendeva perfet­ tamente il significato di quelle accuse e sa­ peva che non erano affatto indeterminate e generiche, dal momento che egli stesso si era preoccupato di stendere in terza perso­ na, probabilmente già verso la metà di set­ tembre, il memoriale difensivo più sopra ri­ cordato52. In esso veniva dato grande risal­ to allo scontro con i sindacati fascisti dell’a­ gosto del 1936, sottolineando che le autorità politiche di allora erano “notoriamente tut­ te contrarie al M arzotto” . Di conseguenza “per non avere anche finimicizia di Buffarini, che per la carica che occupava e per l’in­ fluenza nel partito era in grado di nuocergli grandemente, ha dovuto costruire lo stabili­ mento di Pisa” . M arzotto inoltre presentava i suoi rap­ porti con Farinacci in termini del tutto ri­ duttivi e casuali e li faceva finire nel luglio del 1943. Anche rincontro con Goebbels veniva descritto più come un’imposizione 51 MARZOTTO, D, 25. 52 MARZOTTO, D, 25. del regime che come un gesto di liberale ospitalità: “ Nel settembre 1941 dovendo il Goebbels fermarsi alcuni giorni a Venezia [in occasione della M ostra del Cinema] e non intendendo scendere in albergo, venne requisito il panfilo Cyprus, che dall’inizio della guerra trovavasi in bacino di San M arco, per ospitarlo, e M arzotto che da qualche settim ana si trovava a bordo con i suoi dovette sgomberare subito. Come proprietario della nave venne presentato al Ministro tedesco” . M arzotto volle preci­ sare che “ non gli venne corrisposta alcuna indennità per l’uso del panfilo perché nel frattempo il ministero della M arina ne ave­ va disposta la requisizione per servizio di guerra che da parte del comando marittimo di Venezia venne ritardata al termine del soggiorno del ministro tedesco” , omettendo però di dire che Goebbels gli fu riconoscen­ te nei termini descritti più sopra. Sul suo collaborazionismo con i tedeschi M arzotto amm etteva che fino all’aprile 1944 i rapporti con le autorità tedesche erano stati “ corretti” . Dopo di allora (al­ lorché cominciarono le rappresaglie e i ra­ strellamenti), “ accortosi che era entrato in grave sospetto sia presso le autorità civili che militari, si allontanò prima da Valdagno, poi da Portogruaro dove erasi trasfe­ rito con i figlioli, rifugiandosi in un paesetto del Varesotto sotto falso nome e con do­ cumenti falsi insieme al figlio Umberto del­ la classe 1926 renitente alla leva e ricerca­ to; venne poi raggiunto colà dagli altri figli Giannino e Ita, pure sotto falso nome” . In­ vece il prim ogenito V ittorio, classe 1922, condannato a morte dal Tribunale militare di Piove di Sacco con l’accusa di partecipa­ zione a banda arm ata e di atti di sabotag­ gio, si era rifugiato il 31 dicembre 1944 in Svizzera, da dove sarebbe tornato nel mag­ gio 1945. Epurazione e industriali Marzotto mise particolare attenzione nel­ lo sminuire al massimo la sua partecipazio­ ne attiva al regime, prima e dopo F8 settem­ bre, presentandosi al contrario come colui che aveva subito decisioni altrui: “Non chie­ se mai la tessera fascista e solo nel marzo 1926 per iniziativa dell’allora segretario fe­ derale di Vicenza Dr. Alberto Garelli, venne iscritto al partito fascista [...] Accettò l’iscri­ zione trovandosi in una situazione locale in­ sostenibile, specialmente per la guerra a fondo che gli faceva il cugino Luciano M ar­ zotto, deputato al parlamento, fascista ante­ marcia” . Per quanto riguarda il brevetto di squadri­ sta, “ gli venne assegnato nell’ottobre del 1940 “ a titolo di onore” ed egli lo accettò “per mettersi al riparo di attacchi continui ed assolutamente ingiustificati da parte di ge­ rarchi, di sindacati ecc; attacchi ai quali non sarebbe stato fatto segno se fosse stato nomi­ nato senatore [la cosa gli bruciava ancora] mentre non ha mai voluto far parte del Con­ siglio nazionale delle corporazioni” . Anche per la presidenza dell’Unione Industriali di Vicenza M arzotto precisava che essa gli fu conferita “ a seguito di determinazione del Presidente della Confederazione degli indu­ striali Co. Volpi” . Come si concluse il “ caso” ? Roverato scrive che le indubbie benemerenze guada­ gnate dal M arzotto con la sua azione dopo F8 settembre a favore dei deportati, delle vittime delle rappresaglie e degli imboscati nei suoi stabilimenti furono “ un motivo più che sufficiente per far pendere dalla sua parte l’opinione della Commissione pro­ vinciale per l’epurazione” 53. Secondo Baira­ ti, invece, “ la commissione non ebbe [...] il tempo materiale per giungere ad un giudi­ zio: la caduta del governo Parri e la fine del governo dei Cln chiuse definitivamente 5j G. Roverato, Gaetano Marzotto Jr., cit., p. 63. 34 P. Bairati, Sul filo di lana, cit., p. 268. 123 la questione, in questo come in molti altri casi” 54. Entrambe le ipotesi sono verosimili ma l’assenza di documenti conclusivi, allo stato, lascia aperta la questione. Resta il fatto che Marzotto ne usci inden­ ne. Ma non grazie alla protezione degli allea­ ti, né a quella delle forze moderate o del mon­ do cattolico ufficiale vicentino: da tutta la vi­ cenda gli angloamericani si tennero rigorosa­ mente lontani; le forze “ moderate” provin­ ciali, De e Pii, lungi dal difendere Marzotto, nei momenti cruciali gli votarono sempre contro. Il vescovo di Vicenza, Zinato, non in­ tervenne mai, “ oscurato” dall’interventismo di Zaffonato, che aveva un rapporto privile­ giato e del tutto personale con l’industriale valdagnese. Marzotto poté invece contare sul Cln loca­ le che antepose sempre gli interessi di Valdagno a qualsiasi altra logica, così come fecero le commissioni di fabbrica e quelle di epura­ zione aziendale che, rispettando gli accordi di Vittorio Veneto, non lo perseguirono mai. Trovò inoltre un valido sostegno nel giovane direttore de “ Il Giornale di Vicen­ za” , Renato Ghiotto (Pda) che, per questo, fu rimproverato dal Clnp. Più incerta fu la linea politica del Clnp: es­ so sembra essere stato fondamentalmente ostile a Marzotto, ma nel mese di agosto ac­ cettò di discutere proprio sul terreno favore­ vole all’industriale valdagnese senza solleva­ re alcuna obiezione “morale” o politica. Poi imboccò la strada dello scontro, ma fu molto attento a non toccare Marzotto nei suoi inte­ ressi vitali: lo colpì solo in quanto presidente delle Ftv spa, ma non come presidente della filatura “ Gaetano M arzotto & Figli” del Maglio di Valdagno, che era sempre una so­ cietà per azioni. Si può quindi affermare che i veri protago­ nisti, sia nei momenti di dialogo che in quelli 124 Maurizio Dal Lago di scontro, furono gli operai e i partiti di sini­ stra che nell’estate del 1945 detenevano di fatto Fegemonia politica e amministrativa in tutta la provincia” . Valutate le forze in campo, Marzotto si rivolse a quelle di sinistra con gesti di concreta e costante attenzione56. Maurizio Dal Lago 55 II sindaco di Vicenza, Luigi Faccio, era socialista; il presidente del Clnp, Lievore, era comunista. A solo titolo di esempio, ai primi di luglio, il Pei aveva propri sindaci a Schio, Lonigo, Valli del Pasubio, Valdastico, Tretto, Torrebelvicino e a Monteviale. Tra i comuni maggiori la De poteva contare solo sui sindaci di Bassano e di Thiene. Del Partito d’azione erano i sindaci di Arzignano, Valdagno, Sandrigo e Molvena. Socialisti invece erano i sindaci di Recoaro, Cornedo e Castelgomberto e Brogliano. 56 Alla fine del 1945, Marzotto affidò al giornalista Gigi Ghirotti, redattore del ’’Lunedì”, organo provinciale del Par­ tito d’azione, la direzione del nuovo “Bollettino dei Lanifici Marzotto” che uscì con il primo numero nel gennaio 1946. STORIA MILITARE Sommario del n. 43, aprile 1997 N. Pignato, Mezzi stranieri e di preda bellica del regio esercito: T. Marcon, Gli idrosoccorso italotedeschi in Mediterraneo; J. Caruana, / convogli britannici per Malta: S. Pelagalli, Italiani in Siberia: A. Rastelli, Analisi di un bersaglio Posta Documenti 9 luglio 1940: un “punto di vista " inglese Recensioni Regia aeronautica a colori - 17, a cura di A. Degl’Innocenti La memoria letteraria della “zona grigia” Appunti per una storia da scrivere Raffaele Liucci Problemi e metodologie Questo intervento vuole costituire un primo contributo allo studio, da una angolatura set­ toriale e certo non onnicomprensiva, di quel­ la che nel recente dibattito storiografico sul periodo della guerra civile italiana 19431945 è stata provvisoriamente denominata “zona grigia” . Vale a dire la compatta pre­ senza, sia nelle città che nelle campagne, di comportamenti e valori che trovano la loro ragion d’essere in tradizioni di lungo periodo, essenzialmente prepolitiche, comunque in larga parte estranee alla contrapposizione tra fascismo e antifascismo. La zona grigia, fuor da interessate valorizzazioni1 o da pre­ concette denigrazioni, si rivela come il princi­ pale collettore dei coni d’ombra dell’attendi­ smo, del disimpegno civile, della volontaria sottrazione a qualsiasi impegno attivo nella guerra, della diserzione (anche metaforica) da compiti e responsabilità istituzionalmente richieste all’individuo. Sarebbe anzi più op­ portuno parlare di “zone grigie”, essendo le configurazioni di volta in volta assunte assai varie e frammentate. Qui tuttavia non ci proponiamo l’impresa, di amplissime dimensioni, in cui dovrebbe consistere una analisi globale, nei suoi molte­ plici aspetti economici, sociali e politici, della zona grigia. Assumiamo invece un ventaglio di fonti quasi ancora vergine per il suo stu- Desidero ringraziare, per gli stimolanti consigli e suggerimenti preziosi, Mario Isnenghi, che ha seguito le varie fasi della ricerca cui sto attendendo sugli intellettuali italiani nella seconda guerra mondiale. La mia gratitudine va anche a Co­ smo Marinelli, proprietario della libreria-editrice Marinelli di Isernia, che si è privato di una copia di Molise Molise di Giose Rimanelli dall’archivio della casa editrice, procurandomi, in questo modo, un testo assolutamente introvabile. Ringrazio inoltre, per l’aiuto fornitomi in alcune ricerche bibliografiche alla Biblioteca nazionale centrale di Roma, Pa­ squale Vitulano. 1 Claudio Pavone ha scritto, a proposito dei vari tentativi, intensificatisi negli ultimi anni, di riabilitazione in toto della zona grigia, in modo particolare a scapito della resistenza armata ad egemonia di sinistra e soprattutto comunista, che “elevar[e la ‘zona grigia’] ad asse portante della storia d’Italia fra il 1943 e il 1945 significherebbe tagliare fuori da un’appiattita storia patria le componenti dinamiche di quel cruciale biennio” (Ipercorsi di questo speciale, introduzione al numero monografico di “Il Ponte” , 1995, n. 1, p. 14, dedicato al tema Resistenza. Gli attori, le identità, i bilanci). L’esempio più autorevole in questo senso è offerto da Renzo De Felice, che ha individuato nella zona grigia la vera identità nazionale, a lungo costretta alla damnatio memoriae da parte della “vulgata resistenziale” (Rosso e Nero, a cura di Pasquale Chessa, Milano, Baldini&Castoldi, 1995). Pietro Scoppola, al contrario, dalle sponde di un antifascismo moderato, ha ricondotto, ecumenicamente, la zona grigia nel campo resistenziale (25 aprile. Liberazione, Torino, Einau­ di, 1995). Della zona grigia si è occupato con maggiore equilibrio anche Gian Enrico Rusconi, all’interno della rifles­ sione che va da alcuni anni conducendo sulla crisi dell’idea di nazione nell’Italia repubblicana, sottolineandone l’irridu­ cibile specificità rispetto alla dicotomizzazione fascismo-antifascismo, ma evidenziandone pure — complessivamente — la maggior vicinanza alle aspirazioni della lotta di liberazione (Se cessiamo di essere una nazione. Tra etnodemocrazie regionali e cittadinanza europea, Bologna, il Mulino, 1993; Resistenza e postfascismo, Bologna, il Mulino, 1995). Italia contemporanea”, marzo 1997, n. 206 126 Raffaele Liucci dio: la “letteratura della guerra civile“ (sia di parte resistenziale che di parte fascista, o an­ che di chi non si identificò chiaramente in nessuno dei due fronti)2. E andremo alla ri­ cerca non certo delle componenti immediata­ mente politiche e ideologiche, ma di contegni, sentimenti, idee altrimenti difficilmente rin­ tracciabili in fonti più canoniche ma in larga parte inconsistenti o viziate da ragioni stru­ mentali e propagandistiche di fondo. Questo perché in detti testi è possibile riesumare trac­ ce sedimentate di una memoria della zona gri­ gia. Senza alcuna pretesa di esaustività, sem­ plicemente ponendo l’accento, attraverso una esemplificazione sintetica, su alcune sfac­ cettature — non necessariamente le principali — di quella che, in attesa di studi più analitici, anche noi chiameremo “zona grigia” . I paradigmi In principio fu Pavese. Con La casa in collina (1948). La prima rappresentazione non oleo­ grafica, bensì disincantata, dubbiosa e critica che viene offerta della Resistenza, nella quale l’autore, “ come un antico aedo, accomuna nella sua pietas amici e nemici, e dalle sue pa­ gine fiorisce, purissima, l’elegia” 3. Protago­ nista — si ricorderà — è Corrado, giovane in­ tellettuale torinese che durante la guerra si ri­ fugia in una casa sulle colline, evitando deli­ beratamente di entrare in contatto con i par­ tigiani o i fascisti, che rischiano la vita per va­ lori a lui estranei. Vi ricorrono alcune imma­ gini imperiosamente memorabili: a partire, per esempio, dal modo in cui viene dipinto un milite “ repubblichino” , vittima di un at­ tentato ad opera di partigiani: [...] Uno ce n’era in disparte sull’erba, ch’era salta­ to dalla strada per difendersi sparando: irrigidito ginocchioni contro il fildiferro, pareva vivo, cola­ va sangue dalla bocca e dagli occhi, ragazzo di ce­ ra coronato di spine4. “ Ragazzo di cera coronato di spine” : forse nessuno — che non fosse di parte esplicita­ mente fascista, ovviamente — si era spinto a tanto, nel tratteggiare chi, nella visione d’e­ poca antifascista, appariva null’altro che spinto, nelle sue scelte e azioni, da un incom­ prensibile, irrazionale e abbietto furore anti­ storico, frutto di una deliberata subalternità politica e ideologica all’invasore tedesco. Quanto siamo lontani dall’irosa e predicatoria distinzione vittoriniana, impregnata di un malcerto afflato espiatorio, tra Uomini e no5. Qui, al contrario, viene messa radicalmente in discussione la validità stessa della guerra, al di là della plausibilità o meno del concetto 2 Cfr., a questo proposito, le stimolanti osservazioni di Giovanni De Luna, La Resistenza tra letteratura e storiografia, “Il Ponte”, 1995, n. 1, pp. 108-127. Nell’ambito della storia inglese, cfr. le preziose note metodologiche di interesse generale contenute in Paul Fussel, La Grande Guerra e la memoria letteraria inglese, in La Grande Guerra. Esperienza! memoria, im­ magini, a cura di Diego Leoni e Camillo Zadra, Bologna, il Mulino, 1986, pp. 333-353. Al contrario di quanto si é verificato per la grande guerra, non è ancora stato sfruttato a sufficienza l’alquanto ricco, ma inevitabilmente frammentato, panorama di fonti letterarie e memorialistiche della seconda guerra mondiale, almeno nella direzione indicata soprattutto dai seguenti contributi: P. Fussel, The Great War and thè modem Memory, Oxford, Oxford University Press, 1975 (trad. it. La Grande Guerra e la memoria moderna, Bologna, il Mulino, 1984); Eric J. Leed, No Man's Land. Combai & Identity in World War I, Cambridge, Cambridge University Press, 1979 (trad. it .Terra di nessuno. Esperienza bellica e identità personale nella prima guerra mondiate, Bologna, il Mulino, 1985); Mario Isnenghi, I vinti di Caporetto, Padova, Marsilio, 1967; Id., Il mito della grande guerra. Bologna, il Mulino, 1989 [la ed. Il mito della grande guerra da Marinetti a Malaparte, Bari, Laterza, 1970]. 3 Lorenzo Mondo, Cesare Pavese, Milano, Mursia, 1965 [la ed. 1961], p. 90. 4 Cesare Pavese, Prima che il gallo canti, Torino, Einaudi, 1949 [ed. orig. 1948], p. 209. 5 Questo celebre — e letterariamente non eccelso — romanzo, uscito a Milano, per i tipi di Bompiani, nel giugno 1945, fissa coordinate problematiche e valoriali che rappresenteranno per lungo tempo un vero e proprio spartiacque nell’at­ teggiamento, sprezzante e di assoluta superiorità morale, verso i vinti fascisti, assunto dalla pubblicistica, memorialisti­ ca e anche narrativa resistenziale. La memoria letteraria della “zona grigia” di “guerra civile” . La guerra è sempre guerra, cioè crepuscolo della ragione, disvelamento dell’ingannevole visione progressista e teleo­ logica della storia. A poco giovano le canoni­ che distinzioni; in questa prospettiva, i “re­ pubblichini” vengono spogliati di ogni con­ notazione politica o morale — così tipica­ mente presente, invece, nella più corrente narrativa e memorialistica resistenziale —, per essere elevati a paradigmatica testimo­ nianza della tragica e ineluttabile carica dege­ nerativa che porta con sé qualsiasi gesto di violenza, anche se esso, in principio, può ce­ lare nobili radici. Quest’opera è chiaramente influenzata dalle vicende personali occorse allo scrittore di Santo Stefano Belbo nei due anni di guerra civile, vissuti — come annota nel Diario — ri­ nascendo “nell’isolamento e nella meditazio­ ne”6, da sfollato, fuggito da Torino e ripara­ tosi in casa di sua sorella, a Serralunga, zona partigiana, senza però partecipare alla lotta arm ata7. E non soltanto dal punto di vista fattuale, ma soprattutto dal punto di vista esistenziale. Alcuni giorni dopo la fine della guerra, Pavese fece ritorno a Torino, chiama­ to da Giulio Einaudi per riorganizzare il la­ voro della sua casa editrice. Il clima di eufo­ ria che si respirava in quei giorni lo depresse ancor di più, e acuì il suo senso di colpa per essersi tirato fuori nel momento in cui si im­ ponevano scelte ferme e sicure. Seppe della tragica morte, avvenuta nei combattimenti contro i nazifascisti, di molti suoi cari amici, della fine di Leone Ginzburg e Giaime Pin­ tor. Il gotha dell’intelligenza antifascista tori­ nese (Paolo Cinanni, Massimo Mila, Luisa 127 Sturani, Franco Antonicelli, Giovanni Guai­ ta, Ludovico Geymonat, Norberto Bobbio) aveva attivamente partecipato alla guerra partigiana, in quei giorni e mesi ovviamente dipinta con tratti epici: “ Un senso di ango­ scia e di rimorso profondo resero Pavese più chiuso e silenzioso che mai. Non riusci in quei primi giorni a trovare il coraggio per andare a salutare i vecchi amici superstiti, anzi li sfuggì e dopo la ‘reclusione tra le col­ line’ tentò d’imporsi la reclusione nella città liberata” 8. Gli anni successivi della sua vita furono dedicati all’espiazione di questo co­ sciente e profondo rimorso che corrodeva il suo animo: l’iscrizione — lui che mai neppure lontanamente aveva abbracciato idee comu­ niste — al Pei, la collaborazione a “FUnità” e la composizione del romanzo II compagno, apparso nel 1947, non a torto in seguito giu­ dicato “una semplice concessione alla temati­ ca progressista corrente” 9. La casa in collina viene pensata, nasce e prende forma in questa particolare condizione ambientale: quella di un intellettuale passato attraverso il fascismo senza sviluppare quel progressivo senso di distacco critico che porte­ rà molti suoi compagni di strada ad un più ra­ pido ripudio dell’iniziale consenso — o, co­ munque, non attivo dissenso — manifestato verso il regime, e, quindi, ad una decisa scelta antifascista dopo l’8 settembre 1943. Pavese, che fascista convinto non fu mai, ma neppure il contrario, si trovò, alPindomani della fine del fascismo, proiettato in un ambiente intel­ lettuale, quello torinese — gravitante già dagli anni trenta intorno alla rivista “ La Cultura” ed alla casa editrice Einaudi10 —, ‘saturo’ di 6 C. Pavese, Il mestiere di vivere (Diario 1935-1950). Torino, Einaudi, 1952, p. 346. Per questo periodo della vita di Pavese, cfr. le biografie di Davide Lajolo, Il "vizio assurdo". Storia di Cesare Pavese, Milano, Il Saggiatore, 1960, pp. 280-306 e di Bona Alterocca, Cesare Pavese. Vita e opere di un grande scrittore sempre attuale, Aosta, Musumeci, 1985, pp. 94-116. 8 D. Lajolo, Il “vizio assurdo", cit., p. 295. ’ Alberto Asor Rosa, Scrittori e popolo. Il populismo nella letteratura italiana contemporanea, Torino, Einaudi, 1988, p. 144 [la ed. Scrittori e popolo. Saggio sulla letteratura populista in Italia, Roma, Samonà e Savelli, 1964], 10 Per la storia della fondazione e dei primi anni di questo editore, cfr. Gabriele Turi, I limiti del consenso: le origini delta casa editrice Einaudi, in Id., Il fascismo e il consenso degli intellettuali, Bologna, il Mulino, 1980, pp. 193-375. 128 Raffaele Liucci antifascismo militante, in cui la sua naturale ritrosia a un partecipe interessamento ai fatti politici veniva paternalisticamente, con un at­ teggiamento ipocritamente autoassolutorio, declassata al rango di semplice timidezza, quando era il portato di ben più profondi principi esistenziali e metapolitici. Il romanzo in questione è la presa d’atto, mediata dalla finzione letteraria, della tragica impotenza di un intellettuale che recisamente rifiuta la stori­ cità della condizione umana, e volontariamen­ te si sottrae ad un ruolo, uno “ statuto stori­ co”, imposto dall’esterno e non accettato sua sponte. I temi della guerra civile, della deliberata fuga da essa e della rinuncia a qualsiasi impe­ gno politico, ritornano, seppur sotto un’an­ golazione diversa o addirittura speculare, an­ che nell’ultima opera di Pavese — composta nell’autunno del 1949, a pochi mesi dal suici­ dio —, La luna e i falò, summa della sua poe­ tica. Possiamo consideràre il narratore e pro­ tagonista Anguilla una specie di fuggiasco. Egli, trovatello cresciuto in un paesino molto povero delle Langhe, ha si fatto parte duran­ te il regime fascista di un’organizzazione clandestina antifascista di Genova, ed è in se­ guito emigrato in California per sfuggire al­ l’arresto. Ma successivamente non si è più oc­ cupato di politica, e il ritorno, pochi anni do­ po la fine della guerra, al suo paese natale al­ la ricerca delle radici perdute, lo trova apati­ co e indifferente alle ragioni di qualsiasi mo­ vimento politico, dimentico persino delle sue trascorse militanze. Le pagine più interessanti sono però quelle in cui viene delineato il mondo contadino che ha fatto da inerte e indolente spettatore al tragico teatro di guerra. Le rassegnate e di­ sincantate constatazioni del falegname quasi comunista Nuto, amico d’infanzia di Anguil­ la, sulla tendenza reazionaria del villaggio (ma egli stesso, per non compromettersi trop­ po ed evitare guai alla sua famiglia, ha rinun­ ciato ad una attiva partecipazione al movi­ mento partigiano), fanno da contraltare agli acidi sarcasmi del mezzadro Vaiino, per il quale “se tutti quegli uomini se ne fossero in­ vece tornati a casa — i tedeschi a casa loro, i ragazzi sui beni —, sarebbe stato un guada­ gno” . Ed inoltre, non occorreva darsi troppa pena nel cercare i loro cadaveri sotterrati nel­ la zona, perché “non hanno fruttato da vivi. Non fruttano da morti” 11. Oltre a ciò, in se­ guito al ritrovamento di due cadaveri di pre­ sunte spie fasciste uccise dai partigiani, i pae­ sani trovano l’occasione per esternare un coacervo di atteggiamenti che va da un ormai nostalgico rimpianto del fascismo ad un pri­ mitivo qualunquismo politico e ad uno stru­ mentale attendismo nei riguardi della guerra: Nuto non si era sbagliato. Quei due morti [...] fu­ rono un guaio. Cominciarono il dottore, il cassie­ re, i tre o quattro giovanotti sportivi che pigliava­ no il vermut al bar, a parlare scandalizzati, a chie­ dersi quanti poveri italiani che avevano fatto il lo­ ro dovere fossero stati assassinati barbaramente dai rossi. Perché, dicevano a bassa voce in piazza, sono i rossi che sparano nella nuca senza processo. Poi passò la maestra — una donnetta con gli oc­ chiali, ch’era sorella del segretario e padrona di vi­ gne — e si mise a gridare ch’era disposta a andarci lei nelle rive a cercare altri morti, tutti i morti, a dissotterrare con la zappa tanti poveri ragazzi, se questo fosse bastato per far chiudere in galera, magari per far impiccare, qualche carogna comu­ nista, quel Valerio, quel Pajetta, quel segretario di Canelli. Ci fu uno che disse: — È difficile accu­ sare i comunisti. Qui le bande erano autonome. — Cosa importa, — disse un altro, — non ti ricordi quello zoppo dalla sciarpa, che requisiva le coper­ te? — E quando è bruciato il deposito... — Che autonomi, c’era di tutto... — Ti ricordi il tedesco... — Che fossero autonomi, — strillò il figlio della madama della Villa, — non vuol dire. Tutti i par­ tigiani erano degli assassini. Per un primo approccio all’affascinante storia de “ La Cultura”, si veda Gennaro Sasso, Variazioni sulla storia di una rivista italiana: "La Cultura’’ (1882-1935), Bologna, il Mulino, 1992. 11 C. Pavese, La luna e i falò, Torino, Einaudi, 1950, p. 30. La memoria letteraria della “zona grigia” — Per me, — disse il dottore guardandoci adagio, — la colpa non è di questo o quell’individuo. Era tutta una situazione di guerriglia, d’illegalità, di sangue. Probabilmente questi due hanno fatto davvero la spia... Ma, — riprese, scandendo la vo­ ce sulla discussione che ricominciava, — chi ha formato le prime bande? Chi ha voluta la guerra civile? Chi provocava i tedeschi e quegli altri? I co­ munisti. Sempre loro. Sono loro i responsabili. So­ no loro gli assassini. E un onore che noi Italiani gli lasciamo volentieri... La conclusione piacque a tutti. [...] Me ne andai che la maestra gridava: — Sono tutti bastardi — e diceva: — E i nostri soldi che voglio­ no. La terra e i soldi come in Russia. E chi protesta farlo fuori12. E rindomani, in occasione di una messa per i morti, il parroco batte il ferro finché è caldo: raccomanda di non iscriversi ai partiti “sov­ versivi” (comunisti e socialisti), di non legge­ re la stampa anticristiana e di condurre una vita morigerata e senza eccessi. Nuto com­ menta sconsolato: “ Siamo a questo [...] che un prete che se suona ancora le campane lo deve ai partigiani che gliele hanno salvate, fa la difesa della repubblica e di due spie della repubblica” 13. E quando in paese viene inau­ gurata una lapide dedicata alla memoria dei partigiani impiccati dai fascisti, non si trova nessuno che abbia il coraggio di tenere un di­ scorso, e si è costretti ad invitare un oratore forestiero. Il libro si conclude, infine, con il racconto che Nuto fa ad Anguilla della sorte toccata a Santa, figlia del sor Matteo, ricco possidente presso il quale il trovatello negli anni della sua infanzia era stato a servizio: messasi dapprima con i fascisti, e in seguito passata ai partigiani, era stata da questi ulti­ mi uccisa perché accusata di fare il doppio- 129 gioco. Il suo cadavere, per impedire il ricono­ scimento, era stato bruciato con i sarmenti della vigna. Ancora l’anno prima, i segni di questo terribile falò rimanevano ben visibili, a triste testimonianza di un’infausta stagione di morte e di violenza. La prospettiva, in confronto a La casa in collina, è qui rovesciata. Non più la guerra ci­ vile vista attraverso gli occhi timorosi e incer­ ti di un intellettuale, che alla fine propende per una sofferta autoesclusione, bensì l’ap­ proccio che verso di essa palesa il mondo contadino. L’aspetto innovativo risiede in­ fatti nell’affresco che Pavese ci dà di quella società rurale, così granitica nella sua imper­ meabilità alle vicende del mondo esterno che non la riguardano direttamente, e rispetto al­ le quali è costretta ad una reazione soltanto nella misura in cui viene toccata e penalizzata nella sfera dei propri interessi più materiali. E i cui componenti, per oggettive condizioni ambientali, rimangono assai più grossolani, ignoranti e semplicisti, rispetto a quanto può essere il fine intellettuale Pavese, nell’ela­ borazione di una scelta dettata dalle coerci­ zioni del momento, e che assai spesso rimane una “non scelta” , ovvero un’opzione di neu­ tralità rispetto ai due contendenti, almeno fi­ no a quando ciò resta possibile. Del resto, co­ me è ampiamente noto, alcuni dei più inno­ vativi studi degli ultimi anni hanno indivi­ duato il “familismo amorale” del mondo ru­ rale (l’incapacità di agire collettivamente per il bene comune o per qualsiasi fine che non sia immediatamente ascrivibile agli interessi materiali del proprio ristretto nucleo fami­ gliare) come uno degli elementi cardine del­ l’arretratezza socio-culturale dell’Italia14. 12 C. Pavese, La luna e i fa lò , cit., pp. 49-50. 13 C. Pavese, La luna e i falò, cit., p. 55. Per gli aspetti da noi evidenziati, cfr. anche Alberto Traldi, Fascismo e narra­ tiva. Una proposta di critica politico-ideologica con qualche riscontro americano, Foggia, Bastogi, 1984, pp. 217-221. 14 Cfr. soprattutto Carlo Tullio-Altan, La nostra Italia. Arretratezza socioculturale, clientelismo, trasformismo e ribel­ lione dall’Unità ad oggi, Milano, Feltrinelli, 1986; Id., Populismo e trasformismo. Saggio sulle ideologie politiche italiane, Milano, Feltrinelli, 1989. Alcuni degli spunti interpretativi di C. Tullio-Altan sono stati ripresi da Paul Ginsborg, Storia d'Italia dal dopoguerra a oggi. Società e politica 1943-1988, Torino, Einaudi, 1989, 2 voi. La formulazione originaria del concetto di “familismo amorale” — in seguito dilatato cronologicamente e geograficamente a tutto il periodo ed all’in- 130 Raffaele Liucci Per una letteratura della zona grigia Possiamo assumere La casa in collina ed an­ che, in misura minore, La luna e i falò di Pa­ vese come pietre angolari dell’elaborazione di una memoria — individuale e collettiva — largamente ‘collusa’ con la zona grigia. In queste due opere fanno la loro comparsa una pluralità di tematiche (per quanto ri­ guarda la prima: l’esilio dell’intellettuale, il disimpegno politico, l’indifferenza delle mag­ gioranze verso obblighi che non incidano materialmente sui propri interessi materiali, l’orrore per la violenza bellica — e, quindi, una riflessione sul suo significato morale —, l’ecumenico umanitarismo, anche di matrice cristiana, verso i nemici; per quanto concerne la seconda, soprattutto la separatezza del mondo contadino nei confronti di una conce­ zione assolutistica della politica imperniata sul binomio fascismo-antifascismo) di cui lo scrittore di Santo Stefano Belbo ha offerto, anche a futura memoria, i paradigmi inter­ pretativi più lucidi e convincenti. Fu infatti Pavese a sferrare per primo un risoluto (an­ che se forse non totalmente consapevole) at­ tacco ad una monocorde e autocelebrativa ri­ scrittura — in chiave storiografica, memoria­ listica e letteraria a effetti politicamente si­ gnificativi — degli appena trascorsi anni resi­ stenziali, quasi unicamente incentrata — det­ ta riscrittura — su di una sovradimensionan­ te e autoritaria visione dei fatti dalla parte dei vincitori, unici attori ‘legittimamente’ depu­ tati all’impegnativo e responsabile lavoro di divulgazione — su piani e registri diversi — della lotta di liberazione. Non che non ci sia­ no stati altri scrittori resistenziali (primo fra tutti Beppe Fenoglio) che avessero — o avrebbero in seguito — dato spazio nelle loro narrazioni ad ambienti e personaggi assimila­ bili alla zona grigia. Il dato discriminante sta però nel fatto che, mentre questi autori non possono certo dirsi ad essa simpatetici, Pave­ se, al contrario, ne rivendicherà in prima per­ sona il punto di vista comportam entale ed esistenziale. E lo stesso si può dire degli altri testi che prenderemo in esame. Dei quali qui interessa non tanto una disquisizione sulla maggiore o minore fedeltà biografica (co­ munque imprescindibile) delle storie e memo­ rie raccontate, quanto il modo con cui lo scrittore si è complessivamente rapportato alla guerra civile nell’elaborazione della sua memoria. Alcuni degli autori qualificati di tali opere appartengono alla travagliata generazione dei “ ventenni” del 1943-1945 (nati tra il 1920 e il 1926), e non maturarono, all’insorgere della guerra civile, una scelta subitanea a favore dei partigiani o dei fascisti. In segui­ to, diversi di loro, quasi a voler ricompensare l’ignavia di quegli anni, militeranno in for­ mazioni politiche di sinistra, o comunque si collocheranno nell’area culturale progressi­ sta. Scrivere e pubblicare memorie, redatte in una forma più o meno letteraria, sui neb­ biosi anni giovanili della guerra civile sem­ brava quasi costituire il giusto pedaggio per fare i conti definitivi con una stagione della propria esistenza tu tt’altro che memorabile, ed essere in questo modo definitivamente am­ messi nelle fila della ‘normalità’ antifascista. Carattere costitutivo di queste memorie — pubblicate soprattutto negli anni cinquanta e nei primi anni sessanta — e quindi a cavallo tra la tarda giovinezza e l’età matura —, sarà infatti una decisa presa di distanza dall’abulica e perniciosa ignoranza giovanile, riesu­ mata con l’unico fine di rimarcare l’irreversi- tero territorio dell’Italia unitaria da Tullio-Altan — si deve a Edward C. Banfield, Le basi morali di m a società arre­ trata, a cura di Domenico De Masi, Bologna, il Mulino, 1976 [ed. orig. The moral basis o f a backward society, 1958], in cui viene studiato il caso di un piccolo centro contadino della Basilicata (Chiaromonte). Lo studio a tutt’oggi ancora insuperato riguardo il ‘carattere’ degli italiani rimane quello di Giulio Bollati, L'Italiano. Il carattere nazionale come storia e come invenzione, Torino, Einaudi, 1983 (cfr., per i nostri temi, soprattutto la Premessa (con una digressione sul trasformismo), pp. VII-XXII). La memoria letteraria della “zona grigia” bile presa di coscienza di quegli errori di gio­ ventù. Esemplari di questa tendenza, oltre ai testi che prenderemo in esame più avanti, so­ no due opere miscononosciute di autori che sconosciuti certo non sono: Ottiero Ottieri (1924) (Memorie dell’incoscienza, Torino, Ei­ naudi, 1954) e Angelo Del Boca (1925) (alcu­ ni racconti compresi ne La scelta, Milano, Feltrinelli, 1963: soprattutto Igiorni in canti­ na e Una paura antica), che indubbiamente ri­ flettono i loro trascorsi biografici, e in cui i protagonisti sono giovani ‘imboscati’, esone­ rati dal servizio militare grazie a raccoman­ dazioni in alto loco, o semplici sbandati reni­ tenti alla leva, in ogni caso del tutto incapaci di una scelta chiara e discriminante. Ci fu pure chi partecipò con dubbi e reti­ cenze, ma anche a rischio della propria vita, alla Resistenza, spinto da un afflato etico ed esistenziale. E che negli anni successivi ha assistito alla riemersione e definitiva ri­ consacrazione, per di più amplificate su di una degenerante base di massa, di tutti quegli aspetti deteriori della vita pubblica e anche culturale che erano visti come antropologica­ mente antitetici alla scelta antifascista: il con­ formismo, Fendemica corruzione, il servili­ smo verso il potere politico e la ricchezza eco­ nomica, il triviale disprezzo per la cultura, fimmoralità dominante, l’inettitudine a ela­ borare una definizione, allo stesso tempo giu­ ridica ed etica, di “ bene comune” . Di fronte a questo inarrestabile sfacelo, diventava sem­ pre meno peregrino interrogarsi sulla reale utilità del sacrificio di centinaia di migliaia di uomini, se cosi miserrimi apparivano i ri­ sultati. Di qui, perciò, un ripensamento forte­ mente autocritico della Resistenza, alla ricer­ ca di alcuni degli elementi intrinsecamente forieri della carica degeneratrice che si sareb­ be palesata in seguito. E di qui, pure, una ria­ bilitazione a posteriori di atteggiamenti e po­ sizioni di elusivo distacco dalla guerra, che 15 131 nel periodo del conflitto armato si sarebbero sprezzatamente accusati di quasi palese con­ tiguità con la zona grigia e l’attendismo; ma che, ora, costituivano l’unica dignitosa uscita di sicurezza dall’oscenità di un mondo in cui si perseverava a non riconoscersi più. Il nome più celebre è forse quello di Guglielmo Petroni, temperamento schivo e solitario, che ha infuso ai personaggi dei suoi romanzi (si ve­ dano soprattutto II mondo è una prigione, Mi­ lano, M ondadori, 1954; La casa si muove, Milano, Mondadori, 1950; Il colore della ter­ ra, Milano, M ondadori, 1964) caratteri di sofferta, scavata e tormentata ricerca intimi­ stica di un senso da dare alla propria vita, sempre disincantati rispetto alle “grandi nar­ razioni” e ai viscerali coinvolgimenti in pas­ sioni politiche, pur se talvolta si tratta di op­ tare per la difesa della civiltà contro la barba­ rie nazista, e proclivi soprattutto ad un ance­ strale isolamento. Nell’immediato dopoguer­ ra — scriverà Petroni nella sua autobiogra­ fia, redatta negli anni della vecchiaia —, “i dubbi furono molti, subito. Mi imposi un breve periodo di riflessione; troppi avevano capito tutto e subito; per me era ancora ne­ cessario cercar di vedere cosa era veramente successo fuori e dentro di me” 15. La Resisten­ za, la liberazione dal nazismo, la pressoché de­ finitiva sconfitta dei fascisti non sembrano in­ taccare un sostanziale scetticismo di fondo cir­ ca le speranze di redenzione degli uomini da un grigio conformismo di massa, sempre ben presente, sotto mentite spoglie, in una società che continuamente si involve in un’egoistica difesa dei propri privilegi più retrivi. L’unica via d’uscita pare essere costituita dal sommes­ so “esilio” da un mondo sempre più ‘mostruo­ samente’ avvolto da una cappa di unificante mediocrità politica e culturale. Sotto questa luce, anche l’uso della violenza ‘giusta’ appare secondario e inservibile tassello di un mosaico brutto e disgustosamente immutabile. Guglielmo Petroni, Il nome delle parole, Milano, Rizzoli, 1984, p. 141. 132 Raffaele Liucci Su una critica della violenza resistenziale sistematicamente argomentata in riferimento a principi di non violenza — cristiana o laica — insistono maggiormente altri autori, quali Antonio Barolini ne Le notti della paura (Mi­ lano, Feltrinelli, 1967), Sergio Maldini ne I sognatori, Milano, Mondadori, 1953) e Gior­ gio Chiesura in Sicilia 1943 (Vicenza, Neri Pozza, 1964), diario di guerra di un ufficiale veneziano antifascista di ventidue anni, che il 15 settembre 1943, quando si cominciano a intravedere prospettive di resistenza, rinun­ cia a qualsiasi ulteriore coinvolgimento nella guerra e decide di consegnarsi prigioniero ai tedeschi, ormai nauseato dall’eventualità di un’altra guerra, seppure questa volta giusta, e ormai solamente animato dalla “ fermissi­ ma e irrevocabile decisione di uscire fuori dalla storia e di restarvi” 16. Il punto di riferimento in questo senso è costituito da Aldo Capitini, l’unico grande intellettuale italiano che abbia discusso, sulla scia di Ghandi, i metodi della non violenza negli anni trenta. E Capitini, ‘antropologica­ mente’ antifascista da sempre, rifiutò, in coe­ renza con i suoi principi etici e religiosi, di partecipare alla Resistenza. Nel ricordo di un suo ‘discepolo’: “ Capitini, che aveva agito come uno dei centri propulsivi delle energie antifasciste in Italia, non aderì alla Resisten­ za, se ne tenne distante per coerenza profon­ da con le sue idee nonviolente e religiose. E stato in carcere come antifascista, ha formato dozzine di antifascisti, ma, da nonviolento, non poteva accettare i metodi di lotta della Resistenza, ovviamente violenti, da guerra di liberazione nazionale contro un esercito invasore. Questo gli provocò critiche e obie­ zioni da parte dei suoi stessi amici, e forse an­ che turbamenti individuali notevoli, ma che non bastarono a intaccare la sua decisio­ ne” 1718. La figura di Capitini ci stimola a conside­ rare la diffusione e l’incidenza nel periodo 1943-1945 di fenomeni fino a oggi troppo tra­ scurati, quali la “ resistenza civile” , la lotta antifascista condotta con mezzi non violenti, l’idea di pace cui aspiravano i resistenti, la propagazione di dottrine e pratiche di non violenza. Spesso atteggiamenti di questo tipo — sicuramente minoritari, ma non per que­ sto meno significativi — possono condurre a una deliberata non partecipazione attiva al­ la guerra civile — laddove nella comune mi­ tologia resistenziale partecipazione attiva viene quasi sempre a coincidere con un uso si­ stematico di metodi di lotta precipuamente violenti. E quindi coloro che rifiutano l’uso delle armi, pur non sottraendosi, in alcuni ca­ si, a forme di propaganda politica, di sabo­ taggio e di assistenza ai combattenti, e dimo­ strando con questo di aver effettuato una ben precisa scelta a favore o contro uno schiera­ mento, rischiano di essere inseriti, non senza qualche forzatura, ai margini della zona gri­ gia, in quelle indecifrabili zone di confine nel­ le quali la scarsa visibilità dei loro comporta­ menti, rispetto alla vistosa effettività delle azioni militari, contribuisce a confinarli. Oc­ correrebbe, in simili evenienze, distinguere," se possibile, caso per caso, per meglio discer­ nere motivate aspirazioni politiche ed esi­ stenziali da strumentali e interessati opportumsmi 18 . • • 16 Giorgio Chiesura, I mondi separati, introduzione alla nuova ed. di Sicilia 1943, Palermo, Sellerio, 1993, p. 19. 17 Goffredo Fofi, Aldo Capitini, in ld., Pasqua di maggio. Un diario pessimista, Genova, Marietti, 1988, pp. 18-19. Per il modo in cui Capitini ha ricordato i suoi dilemmi, cfr. l’utile antologia A. Capitini, Opposizione e liberazione. Scritti autobiografici, a cura di Piergiorgio Giacché, Milano, Linea d’ombra, 1991. Si veda anche Id., Antifascismo tra i giovani, Trapani, Célèbes, 1966, uno degli unici due scritti prettamente autobiografici lasciatici da Capitini. L’altro è Attraverso due terzi del secolo, “La Cultura”, 1968, pp. 457-473. 18 Cfr., per questi aspetti, Giorgio Luti, L ’utopia della pace nella Resistenza. Lettere e testimonianze, Firenze, Edizioni Cultura della Pace, 1987; Giuseppe Petronio, Gli scrittori: memorialisti e narratori, in La cultura della pace dalla Resi­ stenza al Patto Atlantico, a cura di Massimo Pacetti, Massimo Papini, Marisa Saracinelli, Ancona, 11 lavoro editoriale. La memoria letteraria della “zona grigia” 133 Sottoponiamo ora ad indagine, attraverso i nostri criteri, una serie di opere generalmen­ te inserite alFinterno della memorialistica di Salò: scopriremo invece 1’esistenza di una let­ teratura a metà guado tra Rsi e zona grigia (e comunque maggiormente orientata verso quest'ultimo versante). saurirsi della vocazione. Fatto ritorno al pae­ se, vi trascorre i primi anni di guerra, roso dall’insofferenza per l’angustia della società contadina e la gretta m entalità che la per­ meano. All’indomani dell’8 settembre, la de­ cisione che segnerà non solo la sua vita di giovane neanche ventenne, ma l’intero pro­ sieguo della sua esistenza: sale su un camion di tedeschi in ritirata dopo lo sbarco di Saler­ Il “ grigio” orrore giovanile per la guerra no e si arruola nei ranghi della Repubblica sociale. Combatterà in Val Sesia e in Val CaSe Cesare Pavese è stato colui che meglio ha monica. Dopo il 25 aprile, viene internato nel saputo interpretare, e fornir loro forma e di­ campo di prigionia di Coltano. A Cava dei gnità letteraria, i sentimenti e i com porta­ Tirreni fugge dal treno che trasporta i prigio­ menti di coloro che sono inseribili — a vario nieri in Africa. Rientrato al suo paese natale, titolo — nella zona grigia, il romanzo di Gio- nei mesi successivi è occupato nella redazione se Rimanelli Tiro al piccione (1953) — per della prima stesura di Tiro al piccione, reso­ certi versi assai vincolato, umanamente ed conto autobiografico in forma narrativa dei editorialmente, proprio a Pavese — può esse­ due anni di guerra civile vissuti dalla parte re invece considerato l’archetipo dell’auto- degli sconfitti. Gli anni successivi lo vedono rappresentazione di chi, pur essendo ricon­ impegnato in un vagabondaggio intellettuale ducibile — a pieno diritto — all’anzidetta zo­ fatto di poveri mezzi, a Milano, Parigi, nel­ na grigia, si è trovato ‘cooptato’, suo malgra­ l’Europa del Nord e, soprattutto, a Roma. do, nella guerra, ma con questo non ha tutta­ Nella capitale italiana, con un passato di via smarrito la sua apatica e ancestrale indif­ combattente fascista di cui va tutt’altro che ferenza e ostilità per le ragioni ultime dello fiero, e un presente nel quale l’antifascismo scontro frontale. — sentimento verso cui Rimanelli non nutre, Rimanelli, scrittore e intellettuale scono- ' per la verità, alcun entusiasmo — sembra sciuto ai più — e comunque ricordato unica­ aprire tutte le porte della cultura, il giovane mente per quest’opera giovanile —, si è tro­ molisano si avvicina, con un misto di timore vato a ricoprire l’ingrato ruolo di desapareci­ ed ammirazione, agli ambienti antifascisti. do della cultura italiana del secondo dopo­ Conosce alcune delle maggiori personalità guerra. Molisano d’origine19 , nato nel 1926 del tempo nel campo della letteratura e della in un piccolo paese di contadini (Casacalen- critica letteraria: Pavese, Corrado Alvaro, da, in provincia di Campobasso), a dieci anni Carlo Muscetta, Carlo Levi. Ugo M oretti, viene introdotto dai genitori in un seminario Ennio Flaiano, Vitaliano Brancati, Luigi pugliese, abbandonato però nel 1940 per l’e- Russo, Ruggero Zangrandi. Tra di loro Ri1988; Anna Bravo, Annamaria Bruzzone, In guerra senza armi. Storie di donne. 1940-1945, Roma-Barì, Laterza. 1995; La Resistenza taciuta, a cura di A.M. Bruzzone e Rachele Farina, Milano, La Pietra, 1976; La Resistenza non annotti. A tti del convegno del 24-25 novembre 1994, a cura di Giorgio Giannini, Roma, Sinnos, 1995. 19 Le notizie sulla vita di Rimanelli sono tratte soprattutto dalla sua autobiografia Molise Molise, prefazione di Gìanbattista Faralli, Isernia, Marinelli, 1979, da alcuni riferimenti biografici presenti nei suoi altri libri più avanti citati (co­ munque assai parchi riguardo la militanza nell’esercito di Salò, segno del desiderio di rimozione che evidentemente Rìmanelli ha coltivato per lunghi anni), e da due recenti interviste da lui rilasciate: Io nomade, dalla parte sbagliala, intervista a cura di S. Fiori, “ La Repubblica”, 28 marzo 1992, p. 29; Dalla parte sbagliata, intervista a cura dì A, Zaccuri, “Millelibri” , 1991, n. 47, p. 35. 134 Raffaele Liucci inanelli, che aveva cominciato a far girare il manoscritto di Tiro al piccione, era noto, un po’ paternalisticamente, come il “compagno repubblichino” . Con gli ambienti intellettuali romani non riuscirà comunque mai a legare, insofferente — a suo dire — del loro confor­ mismo, frutto di un aristocratico esibizioni­ smo declinante nella cortigianeria politico­ ideologica più insopportabile. Il suo deside­ rio di essere ‘cooptato’ dalfintellettualità an­ tifascista, unico mezzo per affermare le sue qualità di scrittore, viene frustrato, e lascerà progressivamente spazio a un’aspra animosi­ tà che si acuirà sempre di più con il passare degli anni: “ Era gente di salotto, era gente di mestiere. Era gente che manipolava i gior­ nali e le case editrici e il cinema. Era gente che imponeva la dittatura della simpatia e del­ l’antipatia” 20. Una delle poche eccezioni è costituita da Francesco Jovine, comunista scettico tu tt’altro che organico a rigide pre­ scrizioni ideologiche, con il quale instaura una spontanea e intensa amicizia. E sarà pro­ prio grazie a costui, molisano anch’egli, che riuscirà a far conoscere il manoscritto di Tiro al piccione, e imporne in seguito la pubblica­ zione. Ma la morte quasi simultanea di Jovi­ ne e Pavese (1950), gli unici due intellettuali a cui si sentiva realmente vicino — per l’essere conterraneo, il primo, e per una certa affinità d’atteggiamento verso la guerra appena tra­ scorsa, il secondo —, contribuisce a esacer­ bare il suo senso di estraneità verso la società letteraria e politica del tempo. Dopo alcune collaborazioni culturali e cinematografiche poco apprezzate21, nel 1958 sceglie la via del­ l’esilio volontario negli Stati Uniti, dove inse­ gnerà per più di trent’anni letteratura italiana in importanti università. Dei suoi altri libri in lingua italiana apparsi nel corso degli anni, rimarrà pochissima traccia2223. Durante una conferenza in lingua inglese tenuta nel 1984 alla Johns Hopkins Universi­ ty di Bologna, Rimanelli preciserà (per l’en­ nesima volta): Personalmente non ho niente a che vedere con fa­ scismo e antifascismo: sebbene sia stato preso in mezzo sia dal fascismo che dall’antifascismo a causa di circostanze storiche e intellettuali. Non sono mai stato iscritto a un partito politico italia­ no, né mai di mia volontà ho partecipato ad azioni e manifestazioni di aderenza prò o contro il regim „23 me . Parole che riassumono benissimo l’indole di un ex giovane spaesato, che una scelta com­ piuta a diciassette anni, e dettata più dall’i­ stinto e dall’insofferenza che da precisi as- 20 Giose Rimanelli, Molise Molise, cit., p. 109. 21 Cfr., per esempio, Il mestiere del furbo. Panorama della narrativa contemporanea, Milano, Sugar, 1959, raccolta dei caustici interventi sulla letteratura contemporanea e i salotti letterari romani del tempo, apparsi, sotto lo pseudonimo di A.G. Solari, sul settimanale “Lo Specchio” (considerato di area neofascista, inviso e disprezzato dagli intellettuali). A questo riguardo, Sergio Pautasso ci ha recentemente offerto un gustoso ricordo di quelle collaborazioni semiclandestine: “una trentina di anni fa, su un famigerato foglio scandalistico, un certo A.G. Solari si dedicava settimanalmente alla sistematica denigrazione di scrittori e opere in uscita. Poiché nessuno lo conosceva, sorse legittima la curiosità di sapere chi fosse. Quando, dopo indagini quasi poliziesche, si scoprì che a servirsi del rispettabile cognome di Solari come co­ pertura per portare i suoi affondi stroncatori era il romanziere Giose Rimanelli, indignazione e scandalo si sgonfiarono rapidamente, e quegli articoli, perso ogni alone di mistero, non fecero più alcun effetto” (Gli anni ottanta e la letteratura, Milano, Rizzoli, 1991, p. 280). In questo modo, comunque, Rimanelli sancirà la sua definitiva emarginazione dal mondo letterario ed editoriale italiano. 22 Oltre a Tiro al piccione, Milano, Mondadori, 1953 (qui si citerà dall’edizione Einaudi, Torino, 1991) cfr., tra gli altri, Peccato originale, Milano, Mondadori, 1954 e Una posizione sociale, Firenze, Vallecchi, 1959 (ambientati, rispettiva­ mente, al tempo della sua adolescenza e negli anni della sua infanzia; nella stesura iniziale di Tiro a! piccione, ottenevano spazio narrativo anche queste fasi della sua vita: sarà Jovine a consigliare a Rimanelli un corposo editing di un mano­ scritto di oltre mille pagine); Tragica America, Genova, Immordino, 1968 (sulla sua esperienza statunitense); Il tempo nascosto tra le righe, Isemia, Marinelli, 1986 (raccolta di racconti). 23 G. Rimanelli, Fascismo antifascismo, “Studi sul fascismo repubblicano”, 1994, n. 2, p. 2. La memoria letteraria della “zona grigia” sunti ideologici, ha proiettato e ingabbiato in un mondo più grande, complicato e preten­ zioso di lui, senza più alcuna possibilità di abbandono. Eppure, il suo Tiro al piccione è spesso assimilato alla più canonica memo­ rialistica della Repubblica sociale24, dissimu­ lando l’assenza assoluta, nelle sue pagine, di qualsiasi riferimento al culto della “ bella morte” , aWepos guerriero, all’idea revanchista, disperata, intrisa di “ sangue e onore” del combattimento — tratti, questi, sicura­ mente caratterizzanti l’immagine sempre ri­ vendicata e coltivata dai reduci salotini25. Quando si tratta, invece, della trasposizione romanzata di un incontro accidentale e tutt’altro che cercato con la guerra civile italia­ na, in cui non è lasciato spazio alcuno alla truce retorica reducista del neofascismo, mentre protagonista principe è la giovanile incoscienza di chi è stato costretto a combat­ tere sotto vessilli sconosciuti e incomprensi­ bili. Anche se, bisognerebbe aggiungere (e il discorso sarà ripreso più innanzi in riferimen­ to anche alle altre opere assimilabili al ro­ manzo di Rimanelli), resta il dubbio che per alcuni aspetti lo scrittore molisano, memo­ 135 rialista confuso di una guerra perduta diffici­ le da ricordare con serenità, abbia fatto ricor­ so a una forzatura manipolativa della realtà, sottolineando fin troppo incisivamente la sua apatia sostanziale verso qualsiasi consapevo­ lezza politica, specie se indirizzata in senso fascista. Ma l’arduo incasellamento in rigide e ras­ sicuranti categorie predefinite rimane il trat­ to peculiare e che salta subito agli occhi di quest’opera. Ben lo si comprese, evidente­ mente, pure intorno ai primi mesi del 1950, presso la casa editrice di Giulio Einaudi, in occasione del “lungo e travagliato processo decisionale [riguardo la pubblicazione], al quale hanno partecipato (nell’ordine o quasi) i proponenti e mallevadori F. Jovine e C. Muscetta, redattore presso la sede di Roma, e Calvino, Einaudi, Pavese, N. Ginzburg, Vittorini, con giudizi sempre interessanti, fi­ no alla stipulazione del contratto, ma con dubbi continui sulla collocazione di collana e sulla data di uscita, e con rescissione del contratto stesso da parte dell’impaziente o esasperato o scontento autore” 26. Infine, con la scomparsa di Pavese (agosto 1950), il 24 Sulla memorialistica di Salò, cfr. M. Isnenghi, Le guerre degli Italiani, Milano, Mondadori, 1989, pp. 256-262 e 292293; Id., La guerra civile nella pubblicistica di destra, “ Rivista di Storia Contemporanea” , 1989, n. 1, pp. 104-115; inol­ tre, limitatamente ai due anni di guerra, Paolo Corsini, Pier Paolo Poggio, La guerra civile nei notiziari della Gnr e nella propaganda della Rsi, in Guerra, guerra di liberazione, guerra civile, a cura di Massimo Legnani e Ferruccio Vendramini, introduzione di Guido Quazza, Milano, Angeli, 1990, pp. 245-298; M. Isnenghi, Parole e immagini dell’ultimo fascismo, in 1943-1945. L'immagine della Rsi nella propaganda, a cura della Fondazione Luigi Micheletti, Milano, Mazzotta, 1985, pp. 11-41; Id., Autorappresenlazioni deliultimo fascismo nella riflessione e nella propaganda, in La Repubblica sociale ita­ liana 1943-1945 (Atti del convegno, Brescia, 4-5 ottobre 1985), a cura di P.P. Poggio, Brescia, Fondazione Luigi Miche­ letti, 1986, pp. 99-111. 25 Riguardo all’immagine di sé — e quindi anche della guerra civile e della Repubblica di Salò — coltivata nell’italia repubblicana dai reduci fascisti, cfr. Marco Tarchi, Esuli in patria. I fascisti nell’Italia repubblicana, Parma, Guanda, 1995. Cfr. anche Id., Cinquant'anni di nostalgia. La destra italiana dopo il fascismo, intervista di Antonio Carioti, Mi­ lano, Rizzoli, 1995; Franco Ferraresi, La destra eversiva, in Terrorismi in Italia, a cura di Donatella della Porta, Bo­ logna, il Mulino, 1984, pp. 227-289; Id., Da Evola a Freda. Le dottrine della Destra radicale fino al 1977 e La destra eversiva, in La destra radicale, a cura di F. Ferraresi, Bologna, il Mulino, 1984, pp. 13-53 e 54-118; Id., La parabola della destra radicale, “Democrazia e diritto” , 1994, n.l, pp. 135-151 (per una approfondita rassegna bibliografica su questi temi, rimandiamo a Pasquale Serra, Destra e fascismo. Impostazione del problema, “Democrazia e diritto”, cit., pp. 3-31). 26 Gian Carlo Ferretti, L ’editore Vittorini, Torino, Einaudi, 1992, p. 265. Qualche traccia di questo tormentato iter edi­ toriale si è conservata in alcuni epistolari ormai celebri. Cfr. C. Pavese, Lettere 1926-1950, a cura di L. Mondo e Italo Calvino, Torino, Einaudi, 1966, p. 725; I. Calvino, I libri degli altri. Lettere 1947-1981, a cura di Giovanni Tesio, con una nota di Carlo Frutterò, Torino, Einaudi, 1991, pp. 21-23. 136 Raffaele Liucci cui giudizio era stato determinante per la pubblicazione del romanzo — e quindi saltati tutti i fragili equilibri politico-ideologici che governavano le scelte e le politiche editoriali di Casa Einaudi27 — i tempi dell’oramai rite­ nuta sicura pubblicazione si allungano, fino a quando è lo stesso Vittorini, per uscire dalYimpasse creatasi, a interporre i suoi buoni uffici presso la M ondadori (e in particolare verso Remo Cantoni), affinché il romanzo venga edito dalla casa editrice milanese (co­ me avverrà, ma solo nel 1953). L’edizione mondadoriana non porta alcuna traccia, pe­ rò, della prefazione richiesta a suo tempo a Rimanelli dall’Einaudi, che risultava, tutta­ via, “ totalmente sfalsata rispetto ai livelli ideologici e poetici del rom anzo” , e nella quale era sottolineato “il taglio autobiografi­ co del libro con una confessione di fascismo involontario che così decontestualizzata fal­ sificala] la condizione esistenziale del prota­ gonista e apparava] una excusatio petìta o meglio una sorta di pedagogia autocritica per allinearsi alle direttive dell’impegno e di una letteratura teleologica”28: Oggi ho ventiquattro anni e se pubblico questo li­ bro non sono spinto tanto dall’ambizione, ma dal­ la speranza che esso possa servire a quei giovani che, come me, sono stati travolti dalla ventata ne­ ra e ancor oggi per debolezza e vigliaccheria, sen­ timentalismo e ignoranza, s’inginocchiano davanti ai vergognosi miti del fascismo che fecero la di­ sgrazia della nostra generazione29. La trama del romanzo, scritto in prima per­ sona, vede Marco Laudato, il protagonista e alter ego dell’autore, raccontare, in un rit­ mo narrativo serrato e incalzante, la storia della sua vita nei due anni di guerra civile. Nei giorni successivi all’8 settembre, egli, gio­ vane molisano di diciott’anni, ex seminarista pentito, fugge da casa e dal suo piccolo paese, soffocato dalla stanca ritualità di una civiltà contadina che esprime valori ormai a lui estranei, e si accoda ai camion tedeschi in ri­ tirata. Al termine del lungo viaggio che quasi attraversa l’Italia intera, Marco si troverà a Venezia, dove, quasi senza neanche accorger­ sene, si arruola nelle truppe repubblicane. L’incontro con la guerra è soltanto casuale, quindi: per nulla ricercato o vagheggiato, senza alcuna preparazione psicologica o pre­ disposizione politica. Marco viene trasferito in una batteria militare tedesca, tra Custoza e Villafranca, dalla quale riesce però a fuggi­ re, insofferente della durissima disciplina in­ staurata dai tedeschi, e a giungere, in seguito, a Milano. Nella città lombarda è catturato dalle Brigate Nere, e si sottrae alla fucilazio­ ne come disertore arruolandosi nell’esercito di Salò. Si ritrova così quasi immediatamente a combattere nei battaglioni “ M ” in Val Se­ sia contro i partigiani, senza peraltro capaci­ tarsi delle precise motivazioni e finalità della sua scelta, al di là — ovviamente — del coer­ citivo bisogno di sfuggire ad una morte certa. Rimane gravemente ferito durante un’azione contro i partigiani. In virtù del com porta­ mento giudicato coraggioso, viene promosso tenente. Nei giorni che seguono il 25 aprile, al termine di una disperata difesa sul Mortirolo, in Valcamonica, contro gli attacchi porta­ ti avanti dai partigiani, il suo plotone si ar­ rende; Marco viene catturato e condotto pri­ gioniero verso l’Africa. Ma nel corso del tra­ gitto, su di un treno che dovrebbe condurlo all’imbarco di Napoli, trova la fuga ed è in grado di far ritorno al suo paese natale, dove può constatare con amarezza, nell’accoglien­ za a lui riservata dai suoi concittadini, la per­ manenza delle tragiche lacerazioni provocate dalla guerra civile anche all’interno di un cor­ 27 Per il ruolo esercitato da Pavese all’interno della casa editrice torinese, cfr. G. Turi, Casa Einaudi. Libri uomini idee oltre il fascismo , Torino, Einaudi, 1990, in particolare pp. 157-170; 231-253. 28 S. Martelli, Introduzione a G. Rimanelli, Tiro al piccione, cit., p. XV. 29 Citato in S. Martelli, Introduzione a G. Rimanelli, Tiro al piccione, cit. La memoria letteraria della “zona grigia” po sociale tanto ristretto e compatto, quale in effetti è un piccolo centro contadino del Me­ ridione. Carattere prevalente e ricorrente in ogni pagina di Tiro al piccione è il senso di nausea e sazietà verso l’orrore e le atrocità quotidia­ ne della guerra (il sergente Elia, già combat­ tente in Africa, che con il passare dei mesi su­ bisce unà metamorfosi da entusiasta patriota fascista a disilluso e scorato spettatore di una guerra in cui non riesce più a riconoscersi, di­ ce con stizza: “una schifezza di guerra come questa non l’ho vista mai” 30); atrocità com­ messe — da entrambe le parti — in nome di valori dei quali Marco dimostra di non aver mai preciso sentore, a partire, per esempio, dal suo primo arruolamento ‘volontario’ (a Venezia): Eravamo in una grande sala nuda, gialla; solo in due punti di essa c’erano due tavoli ai quali sede­ vano due uomini che scrivevano. Sulla loro testa, in alto, c’era un grande quadro del Duce con l’el­ mo e le labbra appuntite, evidentemente rimesso lì da poco, perché era fissato con delle spille. Gli uo­ mini che riempivano la sala [...] prendevano i no­ mi, la paternità la maternità lo stato civile [...]. Quando anch’io arrivai al tavolo sotto il ritratto del Duce, l’uomo che vi sedeva dietro non sollevò la testa. Ripetè solo e monotamente delle doman­ de che sapeva a memoria. Le mie risposte le segna­ va su di un foglio lungo, lucido, con una grande in­ testazione. Quando gli dissi tutto, l’uomo chiese se ero contento di arruolarmi. Io non risposi. Guar­ davo la nicotina gialla che gl’im brattava le dita che tenevano la penna. L’uomo ripetè la domanda e io dissi no. Allora l’uomo alzò la testa grigia e mi guardò. Aveva occhi di vetro azzurro, fermi nel vi­ so. Disse lentamente: — E perché sei venuto? Gli guardavo i denti neri e le gengive pallide. [...] Dietro di me qualcuno rise e l’uomo anche sorrise, senza che muovesse gli occhi. [...] Infine, l’uomo 10 G. G. G. G. Rimanelli, Rimanelli, Rimanelli, Rimanelli, Tiro Tiro Tiro Tiro al piccione, al piccione, al piccione, al piccione, cit., cit., cit., cit., p. p. p. p. 79. 36. 45. 143. 137 dietro al tavolo, accese una sigaretta e mi conse­ gnò il foglio che aveva riempito. — Con gli altri, cappella! — disse. Mi guardò fino a quando non raggiunsi il gruppo in quell’angolo della sala, dove un caporale ricciu­ to e grasso tentava d’incolonnare le reclute31. Considerate queste premesse, tu tt’altro che incoraggianti — e tenuto in debito conto la condizione in cui si trova Marco (ed in cui si è trovato pure Rimanelli), e cioè quella di un ragazzo giovanissimo, neppure ventenne, costretto, da un bando o da una retata, ad aderire, pena la morte per fucilazione alla schiena, a un esercito considerato poco meno che ‘straniero’ —, non ci si deve sorprendere poi molto se il componimento narrativo vie­ ne popolato, quasi integralmente, da “ uffi­ ciali di vent’anni e soldati di quindici”32, gio­ vani che si reputano mandati dalla patria a uccidere senza un perché, e che fanno fatica a credere che i loro avversari — i partigiani — siano veramente gli efferati ribelli dipinti dalla propaganda ufficiale. Che rifiutano pregiudizialmente qualsiasi eroismo, soprat­ tutto se inculcato dall’esterno: “Andavo in li­ cenza di convalescenza [è sempre Marco che parla] ed ero un eroe. Un altro sarebbe stato soddisfatto di andare in licenza di convale­ scenza e di essere un eroe. A me dava ai nervi. Avevo desiderio solamente di arrivare in quel paesetto che aveva scelto Anna, e passare il mio tempo senza vedere soldati, né divise, né sentire parlare di guerra”33. Si interrogano candidamente — e questo sarebbe suonato quasi sacrilego a un “ fascista integrale” — su quale sia realmente la loro vera patria, ed esprimono seri dubbi sulla giustezza della causa cui sono chiamati a offrire il loro san­ gue, intravedendo, invece, una meno netta demarcazione tra il torto e la ragione. In un 138 Raffaele Liucci dialogo del protagonista con Anna, una cro­ cerossina di cui si è innamorato, leggiamo: “ Oh, vorrei servirlo anch’io il mio Paese, — dissi. — Ma dov’è il mio Paese? È vera­ mente buffo: noi di quaggiù, i repubblicani, diciamo di essere i veri figli d’Italia; quelli che stanno in montagna dicono che l’Italia appartiene a loro. Intanto ci spariamo a vi­ cenda e non sappiamo chi è nel torto e chi nella ragione. Chi ci guadagna naturalmente sono gli alleati”34. Il malcontento tra i soldati — acuito dal fatto che, invece di essere mandati al fronte a combattere gli Inglesi, come pare fosse sta­ to promesso ad alcuni di loro, si è invece co­ stretti ad una logorante guerriglia contro i partigiani — è indifferente ai toni paternali­ stici e didascalici di un loro superiore: Un giorno che stavo in cucina, per il servizio di corvée, venne una banda di ragazzi a trovarmi. Erano capeggiati dal postino. — Dobbiamo andare dal capitano, — incominciò quello. — Dobbiamo dirgli che ce ne fotte dei ri­ belli e di questa sporca guerra che non vale nulla. — Noi ci siamo arruolati per andare contro gli In­ glesi, — disse Nic Belvedere. — E intanto vediamo che tutti gli altri reparti ven­ gono mandati al fronte, — disse Medori. — E noi no, invece. Noi dobbiamo scuoiare i ribelli e la­ sciarci scuoiare. Sai dirmi tu che schifosa guerra è questa? — Io penso che è rivoltante spararsi fra italiani. Può essere divertente in principio. Ma dopo scoc­ cia, — disse il soldato Gennari. [Mentre i militi discutono su chi debba recarsi dal capitano a lamentarsi della guerra fratricida] il ca­ pitano Mattei spuntò dal cancello di entrata e ven­ ne a piantarsi in mezzo a noi. — Perché state qui e non in caserma? — disse. — Dovevamo venire da voi tutti assieme, — io ri­ sposi. — Stavamo prendendo gli accordi. Il capitano fece la faccia buia. Disse: — Va bene, sentiamo di che si tratta. [Spiegazioni al capitano] Alla fine il capitano sbot­ tò: 34 G. Rimanelli, Tiro al piccione, cit., p. 146. — Voi non capite un’acca della guerra e della no­ stra missione, perciò parlate a vanvera e vi confon­ dete le idee. Noi non abbiamo bisogno di andare al fronte. Questo dove siamo è un fronte regolare, molto più importante dell’altro. Il compito che ci è stato assegnato è di difenderci le spalle dal no­ stro nemico più prossimo, che è questo che com­ battiamo. Non abbiamo vuoti sentimentalismi, perché i ribelli sono Italiani solo di nome. In effetti essi sono i veri traditori della nostra Patria. Noi dobbiamo sterminarli perché rappresentano la parte peggiore della nostra gente. Quindi, fin quando tutte le montagne non saranno ripulite, il nostro posto è questo. Inoltre, non dovete im­ pressionarvi per le perdite che subiamo. In guerra è necessario aver perdite, anzi è inevitabile. Ma in estate... Pensate che fra poco viene l’estate, e allo­ ra sarà la volta nostra di vincere sulla canaglia. Non avremo più tante perdite, allora. Comun­ que... se proprio ci tenete a far la conoscenza con i Neozelandesi e i Marocchini, io non vi dico che è impossibile. Solo bisogna aspettare. Lasciare il tempo al tempo. — Ma è una cosa che durerà molto? — disse Pasquini. — Non so quanto possa durare questa guerra, — disse il capitano. — Ora che il Duce è stato salvato e ha ripreso il suo posto di lavoro, saprà ben lui come ci dobbiamo comportare. Ma non bisogna star li a pensare. — Però gli Alleati vengono su ogni giorno, — fece Nic. — E lasciali venire, — disse irritato il capitano. Nella valle padana troveranno che non si potrà passare, il Duce è stato esplicito nel dirlo. Intan­ to...be’ ecco, vi debbo dare una notizia poco alle­ gra. Ve la dò unicamente per riscaldare in tutti voi l’odio che abbiamo per i traditori della Patria. Ottombrini è morto stanotte all’ospedale, in seguito alle ferite. La sua mitraglia la prende Laudato. Mi pare che ci abbia una predisposizione per la Breda. Capito, Laudato? — Signorsì, — dissi. — Mettiti sull’attenti quando parli con me. Capi­ to, Laudato? — Signorsì, — dissi di nuovo. Il capitano Mattei girò sui tacchi. Poi, fatti alcuni passi, si voltò ancora e disse: La memoria letteraria della “zona grigia” — Tornatevene in caserma. E ricordate sempre co­ sa dice il nostro Vangelo: “Tutti i morti che lascia­ mo qui, chiedono di essere vendicati” . In mezzo a noi era scesa un’improvvisa tristez- Difficilmente sarebbe meglio rappresentabile il profondo e sempre più insanabile iato che la guerra civile ha scavato tra gli altisonanti e parolai3536 proclami di rivincita dell’ultimo fascismo e i sentimenti, i comportam enti e le aspettative di chi manifesta una avversione alla guerra — e soprattutto al modo di inten­ derla pubblicizzato da Salò —, non già im­ perniando le proprie tremule argomentazioni su consapevoli acquisizioni ideologiche e po­ litiche, bensì, forse con meno onore ma mag­ gior sincerità, rivendicando la propria estra­ neità alla guerra su una base prepolitica. Si sfugge — fm che è possibile, ovviamente — alla guerra perché la dimensione esistenziale, famigliare ed economica in cui si vive non prevede le cause e i motivi che la guerra porta con sé. Se, per necessità estrema, a essa pur bisogna adattarsi, lo si fa ‘stipulando’ un pre­ cario e temporaneo compromesso, senza, tut­ tavia, che questo comporti una qualche ri­ nuncia agli atavici principi con i quali viene regolata la propria esistenza. A queste consi­ derazioni se ne devono saldare delle altre, in riferimento alla giovane età dei “chiamati al­ le armi” protagonisti di questo libro — ci tro­ viamo di fronte, contrariamente a quanto po­ trebbe ed è effettivamente accaduto con i loro ‘fratelli maggiori’ nati circa dieci anni pri­ ma37, a individui cresciuti in piena fase di sta­ bilizzazione del regime fascista, che non han­ no avuto la possibilità, per motivi anagrafici, 139 di ricercare e di sviluppare un orizzonte pro­ blematico e culturale che andasse oltre quello imposto dal fascismo —, condizione che fun­ ziona da aggravante nel processo di autoe­ marginazione da qualsiasi coinvolgimento nella guerra: “Il Rimanelli vuole raccontarci l’orrore dell’incoscienza del non sapere ado­ lescente di fronte alle atrocità della guerra ci­ vile. Ma che cosa, alla fine del libro, il perso­ naggio abbia capito, verso quale modo di es­ sere si incammini, rimane oscuro e piuttosto torbido”38. Antieroico fin dal titolo (il “piccione” è il nome sarcasticamente caricaturale affibbiato all’aquila imperiale cucita sul berretto della divisa repubblichina, e “ tirate al piccione!” è il grido lanciato dai partigiani nell’ultimo e decisivo assalto sul Mortirolo), Pavese ave­ va visto giusto, quando ne scrisse (in una let­ tera a Muscetta): “Il libro, a mio parere, non è un libro politico — non vi esiste il caso del fascista che si disgusta o converte; bensì il giovane traviato, preso nel gorgo del sangue, senza un’idea, che esce per miracolo, e allora comincia ad ascoltare altre voci”39. Ed è gra­ zie a questa lettura spoliticizzata della guerra che Marco, nelle ultime pagine — quando, ormai a guerra finita, riuscito a fuggire dalla prigionia degli alleati, si trova al sicuro pres­ so la sua famiglia —, al pari dell’inquieto io narrante de La casa in collina, spende parole di sincera compassione per tutti i caduti: “rimpiangevo i morti che c’erano stati. Tutti i morti della guerra. Oh, quelli non sarebbero tornati!”40. Qualche settimana prima, appe­ na preso prigioniero, Marco, contrariamente al Vittorini di Uomini e no, si era definitiva­ mente convinto che “i partigiani [fossero] de- 35 G. Rimanelli, Tiro al piccione, cit., pp. 86-88. 36 Cfr. M. Isnenghi, Parole e immagini dell'ultimo fascismo, cit., p. 11. Il riferimento ovvio e naturale va ai libri di Ruggero Zangrandi II lungo viaggio attraverso il fascismo. Contributo alla storia di una generazione, Milano, Feltrinelli, 1962 e D. Lajolo, Il “voltagabbana", Milano, Il Saggiatore, 1963, di im­ portanza capitale per qualsiasi discorso sul rapporto tra i giovani ed il regime fascista. 38 Franco Fortini, recensione a G. Rimanelli, Tiro al piccione , “Comunità” , 1953, n. 20, p. 45. 39 C. Pavese, Lettere 1926-1950, cit., p. 725. 40 G. Rimanelli, Tiro al piccione, cit., p. 253. 140 Raffaele Liucci gli uomini come noi” 41; anzi, era diventato buon amico di Maurizio, il partigiano asse­ gnato al servizio di guardia. Al contrario del pensoso e torm entato Corrado pavesiano, il rifiuto in toto che Marco fa delle ragioni di qualsiasi violenza bellica è il frutto di una più primordiale, istintiva e materiale alterità comportamentale a fatti, eventi e idee non introiettate e sedimentate attraverso il processo di socializzazione e acculturazione dei giova­ ni (meridionali) di origine contadina. L’abili­ tà, non comune, di Rimanelli è stata quella di aver fornito una rappresentazione letteraria dei loro sentimenti e atteggiamenti più genui­ ni, senza scadere in una elaborazione troppo intellettualistica e ideologica. I canoni stilisti­ ci si rifanno infatti al dominante, in quegli anni, neorealismo; ma da essi l’opera di Ri­ manelli si distanzia subito per l’assenza di quei caratteri — la visione eroica e celebrati­ va delle vicende, la connaturata positività e progressività dell’esistenza umana, la coltiva­ zione di un organico sistema valoriale che fa­ ciliti una sicura dicotomizzazione tra il “ne­ mico” e “l’amico” — che possano permettere una considerazione comunque utile e neces­ saria della violenza più estrema, se essa viene motivata con finalità collettive e palingenetiche. Ed è per i succitati e caratterizzanti ele­ menti, che Tiro al piccione — insieme a La ca­ sa in collina e a poche altre opere — ci appare come strumento indispensabile per un ap­ proccio disincantato, non conformista e a connotazione non immediatamente politica della guerra civile. Molti dei nodi problematici che abbiamo trovato densamente presenti in Tiro al piccio­ ne di Rimanelli, li ritroviamo anche in altri racconti o romanzi a sfondo autobiografico, anch’essi scritti dagli ex ventenni di allora, a partire, per esempio, da Un banco di nebbia (1958), del suo quasi coetaneo Giorgio Soavi. Anche qui vi è la storia di una immatura ade­ sione di un giovane ventenne alla Repubblica di Salò. Ma il dato discriminante, rispetto a Rimanelli, è che il protagonista narratore non proviene da una povera e ignorante fami­ glia contadina, bensì da un ambiente piccolo­ borghese cittadino (di Cremona), svagato e benestante, fascista solo nella misura in cui il regime ha tutelato i suoi interessi economici. Ciò che qui primeggia è lo spaventoso deserto di valori e la carente ‘preparazione politica’ del giovane soldato repubblicano, comunque estraneo sia alle ragioni del fascismo (e quindi della guerra), sia a quelle dell’antifascismo, fi­ no alla poco onorevole dipartita finale. Que­ sto nonostante che la ventennale opera di per­ suasione, propaganda e creazione di un “ita­ liano nuovo” , dispiegata con tanto assiduo impegno e profusione di mezzi, fosse stata in buona parte indirizzata proprio a quei ceti so­ ciali piccolo e medio borghesi di cui faceva parte l’autore, effettiva base di consenso al re­ gime. Il furtivo e tardivo (ma non troppo: qui il distacco — o meglio: la sordida fuga dal bat­ taglione di appartenenza con un pacco di li­ cenze in bianco — è anteriore, di qualche me­ se, al 25 aprile) defilarsi dalla guerra rimane a deprimente testimonianza del vuoto culturale e politico di una generazione che ha fatto trop­ po poco — e comunque troppo tardi — per evitare che le colpe dei padri ricadessero anche sui figli. (E suona quindi goffa e colpevole, se non irritante e stucchevole, la m onotona e autoassolutoria condanna che viene fatta, in quasi ogni pagina, degli errori e delle manche­ volezze degli educatori e dei genitori)42. 41 G. Rimanelli, Tiro al piccione, cit., p. 219. 42 II “banco di nebbia” del titolo si riferisce evidentemente all’incoscienza giovanile, incapace di andare oltre l’insieme confuso, appena abbozzato di idee, sentimenti, propositi ereditato dai ‘padri’, mancati e colpevoli educatori. Giorgio Soavi aveva già accennato alla sua difficile reintegrazione come reduce della Repubblica sociale nel suo romanzo d’e­ sordio, Le spalle coperte (Vicenza, Neri Pozza, 1951), incentrato sulla sua esperienza di impiegato ad Ivrea, nella fab­ brica di Adriano Olivetti. La memoria letteraria della “zona grigia” In qualche modo assimilabili al percorso di giovanile incoscienza43 attraversato nella guerra civile italiana dagli autori presi in esa­ me, sono le vicende autobiografiche che ci narra Giulio Cattaneo, fine saggista e valente letterato, in Da inverno a inverno44. Anch’egli apparteneva a quella classe di “ studenti con qualche nozione letteraria e di nessuna con­ vinzione politica” 45, che nel 1943, conclusa la fase ancora spensierata dell’adolescenza, si apprestavano a terminare gli studi liceali o ad avviarsi all’Università. Così si apriva una prospettiva nuova, piena di in­ cognite, a quei giovani di diciotto, diciannove an­ ni, che per qualche mese erano passati da una ca­ serma all’altra in attesa di partire per destinazione ignota. Non essere stati richiamati prima dell’8 settembre significava per loro psicologicamente uno svantaggio: un po’ di vita militare li avrebbe aiutati a capire meglio le ragioni della disfatta e a inasprire gli impulsi di ribellione. L’incertezza di chi non aveva provato nulla, se non la fame e la paura degli allarmi aerei, finì per portarli in par­ te nelle caserme della Repubblica sociale, sia pure con qualche ritardo. Qualcuno diceva di essere fa­ 141 scista, qualche altro antifascista, ma i più sembra­ vano privi di convinzioni e smaniosi soltanto di tornare a casa46. Dalle “caserme della Repubblica sociale” si può anche fuggire — ed è quello che si arri­ schierà a fare, coronato da successo, C atta­ neo, durante i funesti mesi del 1944, che lo ve­ dranno trascinato da una caserma italiana di Firenze al fronte di Anzio insieme ai tedeschi, per poi finire, per via di un attacco di mala­ ria, in un ospedale militare di Cortina d’Am­ pezzo; e infine la fuga e il riparo, ospite di una casa di zii, a San Tommaso, paese della collina cesenate che richiama subito echi let­ terari serriani, luogo creduto vergine e incon­ taminato epperò in seguito anch’esso travol­ to dalla guerra. Ma se questo gesto istintivo non si armonizza con una solida consapevo­ lezza politica, il rischio è di abbracciare un ben poco meritorio attendismo a posteriori. Quei giovani che avevano bighellonato perplessi e senza idee dal 25 luglio all’8 settembre, senza ren­ dersi conto di quello che poteva accadere, presi poi 43 In alcuni casi, a monte di questa sconsideratezza giovanile non c’erano solamente inesistenti o fallimentari processi di politicizzazione verticistica, bensì, forse più grottescamente, l’esatto contrario, vale a dire graduali evoluzioni di una sovrabbondante — ma non per questo meno autoritaria e paternalistica — socializzazione politica famigliare, anch’essa, però, pregna di conseguenze altrettanto fallimentari. E quello che si evince, ad esempio, dalla lettura delle memorie di gioventù pubblicate da un altro esponente della generazione dei nati dal 1920 al 1925: Giorgio Mario Bergamo, Addio a Recanati, Torino, Einaudi, 1981 [la ed. Bologna, Cappelli, 1974], Figlio di Mario e nipote di Guido — i celebri “fratelli Bergamo”, repubblicani ed interventisti del 1915, combattenti volontari pluridecorati, nonché intransigenti antifascisti (su cui cfr. L'anomalia laica. Biografia ed autobiografia di Mario e Guido Bergamo, a cura di Livio Vanzetto, con un saggio di M. Isnenghi, Verona, Cierre 1994) — Giorgio Mario trascorre l’infanzia e l’adolescenza a Parigi, insieme al padre fuoriuscito, a contatto con gli antifascisti italiani costretti all’esilio, senza che questo riesca tuttavia a produrre nel giovane chiari propositi intellettuali o concreti progetti politici. Tanto che tornerà in Italia giusto in tempo per ar­ ruolarsi nelle malridotte retrovie dell’esercito di Salò, a riscattare un onore italiano che non riesce però a definire se non in modo confuso ed ambiguo. La sconfitta finale non produrrà in lui opportunistiche conversioni alle idealità della Re­ sistenza, cui non aveva mai prestato alcun credito e considerazione. Quello che può apparire un “anomalo cambiamento di campo dell’ultima ora” (M. Isnenghi, Le guerre degli Italiani, cit., p. 259), potrebbe anche rappresentare il più coe­ rente, logico e prevedibile epilogo di una vicenda esistenziale i cui prodomi sono da rintracciarsi in una sbagliata (forse parossistica ed esasperante) educazione famigliare che ha condotto ad imprevedibili e deflagranti crisi di rigetto. 44 Giulio Cattaneo, Da inverno a inverno, Bologna, il Mulino, 1993. Una prima edizione usci a Milano, nel 1968, per i tipi de II Saggiatore. La nuova edizione bolognese, arricchita da un’inedita appendice, è però scritta non più in terza persona (nell’edizione del 1968 il protagonista era un più impersonale “studente G.”), bensì in prima, quasi a voler ri­ marcare, a quasi cinquant’anni dai fatti narrati, una ormai meno compromettente diretta assunzione di responsabilità di quel passato nebuloso. 45 G. Cattaneo, Da inverno a inverno, cit., p. 87. 46 G. Cattaneo, Da inverno a inverno, cit., pp. 7-8. 142 Raffaele Liucci dalla irrequietezza di una partecipazione spesso male indirizzata, capirono alla fine che la guerra era giustamente perduta. Di qui la decisione di non collaborare, di disertare, aspettando farrivo degli alleati o di unirsi ai partigiani, sempre in at­ tesa che la guerra finisse e che si ricominciasse a vi­ vere dopo le deportazioni e le stragi, dopo la fame nelle città ingombre di macerie47. Sembrerebbe questa, in conclusione, la stra­ da scelta dalla grande maggioranza dei gio­ vani italiani di fronte alla guerra civile, di qualunque origine sociale fossero. Molti di essi, pur avendo subito una partecipazione coatta alla guerra, non si lasciarono quasi per nulla influenzare né dallo sciatto paterna­ lismo patriottardo di uno stato fantoccio né dalla propaganda nemica, avvertita come un condensato di incomprensibili e nebulosi messaggi ideologici. E la fedeltà ai principi pre o antipolitici della loro educazione non fu quasi mai tradita o messa in discussione. Per costoro, se “il passato era un insieme di fatti inutili o malefici, il presente era nebbia, incertezza, fame insaziata, attesa”48, il futuro altro non sarà che un grigio ritorno ai confor­ mistici modelli culturali da cui non si erano in realtà mai distaccati. Sono questi — in estre­ ma sintesi — i motivi dell’inclusione delle opere di Rimanelli, Soavi e Cattaneo nell’ambito della letteratura della zona grigia. Riannodiamo per graduali passaggi i nostri fili argomentativi: 1. Si era partiti da Tiro al piccione di Giose Rimanelli, romanzo for­ malmente attribuito al reducismo fascista; 2. Si è dimostrato quanto poco detto roman­ zo sia invece assimilabile alla invero piutto­ sto scontata e prevedibile memorialistica let­ teraria della Repubblica sociale; 3. Allargan­ do esemplificariamente il ventaglio dei testi in esame, si è quindi assunto Tiro al piccione come punta di diamante di una originale ten­ denza memorialistica, propria di alcuni gio­ 47 G. Cattaneo, Da inverno a inverno, cit., pp. 90-91. 48 G. Cattaneo, Da inverno a inverno, cit., p. 77. vani che nel 1943-1945 avevano un’età a ca­ vallo dei venti anni e che, pur costretti a pre­ stare servizio sotto le insegne militari fasciste, sono tuttavia ascrivibili, per predisposizione culturale e indole esistenziale, alla zona gri­ gia. La linearità e similarità della trama — si è visto — è pressoché comune in tutti i casi pre­ si in esame. Un giovane all’incirca ventenne, di varia (ma ininfluente) provenienza sociale, assolutamente digiuno di politica — o in ogni caso indifferente a socializzazioni politiche coattive dispiegatesi all’interno di un nucleo famigliare, con effetti però del tutto opposti rispetto agli intenti originari — è costretto da fatti contingenti all’arruolamento nell’e­ sercito repubblicano. Si trova così proiettato nell’orizzonte della guerra civile senza ben rendersi conto delle ragioni degli schieramen­ ti che si combattono. Il giovane, constatata l’impossibilità di identificarsi con una guerra percepita come estranea, cerca di fuggire in ogni modo al destino impostogli coercitiva­ mente da un’autorità superiore (ai suoi occhi però illegittima), e spesso vi riesce, risucchia­ to, in questo modo, nel rassicurante anoni­ mato della zona grigia. La costante ricorren­ za dell’zier qui sommariamente richiamato è prezioso testimone della serialità dell’elabo­ razione di una memoria imbarazzante e com­ promettente, come può senz’altro essere quella di chi ha combattuto “dalla parte sba­ gliata” . Si può forse attribuire soprattutto a questo ‘peccato originale’ la sminuente de­ motivazione ab origine di qualsiasi azione ri­ cordata, in misura di gran lunga superiore a quanto probabilmente avvenne nella realtà. È lecito avanzare il dubbio, in altre parole, che la quanto meno sospetta abnorme proli­ ferazione di prese di distanza, professioni di giovanile ingenuità, abiure postume, acide critiche fin troppo sofisticate (quasi artefat­ te), sia il frutto di un dominante sentimento La memoria letteraria della “zona grigia” di rimozione di un passato che viene rievoca­ to solo allo scopo di rinnegarlo e di trovare posteriori giustificazioni ad atti per cui si prova un senso di vergogna, maturato, però, solo dopo la fine della guerra — e, tra l’altro, inestricabilmente intrecciato con il clima di deresposabilizzazione generale caratterizzan­ te gli anni della ricostruzione post-bellica. Questa apostasia della trascorsa partecipa­ zione alla guerra si spiega anche tenendo in debito conto un non secondario particolare: quasi tutti gli autori sopra richiamati hanno esercitato, con fortuna certo diseguale e alter­ na, il ‘mestiere di letterato’ (o comunque di in­ tellettuale). Per alcuni di essi questo ha impli­ cato un necessario rispetto di alcune compati­ bilità politico-ideologiche, particolarmente autoritarie e coattive soprattutto nel clima de­ gli anni cinquanta, caratterizzati a livello cul­ turale dall’egemonia del paradigma antifasci­ sta, pena un serio rischio di emarginazione dal “mondo delle lettere” — come tra l’altro per alcuni si è ugualmente verificato (Rimanelli). Seguendo un ordine del discorso di tal fatta, gli elementi autobiografici all’origine di questi romanzi possono aver subito un pro­ cesso — quanto profondo è difficile affermare con sicurezza — di destrutturazione mistifica­ toria, che ha comunque finito per operare stravolgimenti non trascurabili fino alla nega­ zione di qualsiasi (anche remota) cosciente im­ medesimazione del pensiero nell’azione. La verità è che ben poche furono le voci in grado di innalzarsi all’aureo livello di un disinteres­ sato e sincero esame di coscienza di una con­ dizione, assai comune, spesso prigioniera di un groviglio di intricate compromissioni, reti­ cenze e ambiguità, difficile da sbrogliare in modo indolore. Cesare Pavese e Salvatore Satta sono gli unici nomi che ci ritornano alla mente. Ma costoro disponevano già di una autorevolezza intellettuale che li poneva al ri­ paro da possibili ‘ritorsioni’. Per autori più 49 143 giovani o meno noti, il compito era indubbia­ mente assai più arduo. Di qui, il probabile ri­ corso a dissimulanti categorie interpretative di trascorsi biografici letterariamente trasfigura­ ti in toni tendenziosi ed alterati. Finis mundi Fino ad ora, in questo sondaggio nella lettera­ tura della zona grigia, si sono prese in esame opere non coeve alla guerra civile, bensì ad es­ sa successive di un certo numero di anni, nelle quali, in forza di questo stacco cronologico, la guerra civile italiana viene ricordata e rielabo­ rata con il senno di poi. Ed è facile immagina­ re a quali distorsioni possa condurre una rico­ struzione così problematica della propria me­ moria, in riferimento ad avvenimenti tanto drammatici. Del resto, non è affatto infre­ quente che diari di guerra o di lotta politica pubblicati a distanza di alcuni anni dai fatti cui si riferiscono, vengano, senza dichiararlo esplicitamente, ritoccati dall’autore, in coe­ rente conformità con i cambiamenti nel frat­ tempo intervenuti nella propria vita pubblica e privata. Le riflessioni a posteriori — va da sé — smarriscono non poco quel carattere di sincerità e immediatezza caratterizzanti, inve­ ce, le pagine scritte a caldo, a storia non anco­ ra conclusa. Furono assai rari, per la verità, gli esempi di lucida e simultanea perscrutazione ad ampio respiro della tragicità storica dei tempi, anche da un ambito privilegiato quale è quello rappresentato dalla zona grigia. E stato scritto che Satta fu uno dei pochis­ simi, fra 1944 e 1945, “a prendere subito e ap­ passionatamente di petto il problema dei lega­ mi tra ‘morale pubblica’ e ‘morale privata’”49. L’esito di queste riflessioni è De profundis, pubblicato nel 1948, ma scritto — secondo le indicazioni fomite dall’autore in calce al testo — fra il giugno 1944 e l’aprile 1945, quando Silvio Lanaro, L ’Italia nuova. Identità e sviluppo 1861-1988, Torino, Einaudi, 1988, p. 26. 144 Raffaele Liucci Satta si trovava rifugiato in una casa di fami­ glia della bassa friulana. Dietro il suggerimen­ to di una riflessione del Guicciardini sulla sventura di chi nasce in un’epoca di rovine, Satta risale, attraverso episodi vissuti in prima persona, alle sorti di un popolo, e si interroga sulle ragioni del consenso di massa tributato al fascismo, consenso che, una volta che la guerra fascista volgeva verso il disastro milita­ re, si è immediatamente tramutato nella spe­ ranza di una rapida sconfitta. L’autore, giurista sardo di fama interna­ zionale, è figlio di quell’Italia elitaria e notabilare che, in un’estrema crisi di crescenza, ha irresponsabilmente consegnato il paese ai manipoli mussoliniani. Egli stesso, durante il regime, è sembrato essersi tranquillamente adagiato sulle direttive della politica fasci­ sta50 . Fu la guerra perduta ad aprirgli gli oc­ chi: “il culmine e la fine della guerra — ricor­ derà a distanza di molti anni — mi trovò in­ tento alla revisione più radicale, quella del­ l’uomo, al lume delle piccole e grandi espe­ rienze che sotto i miei occhi e prima ancora in me stesso si andavano maturando” 51. Un mutamento di prospettiva condotto alle estreme conseguenze, se è vero che le pagine di più sferzante sarcasmo sono quelle in cui vengono dipinte le farsesche gesta della sedi­ cente “ Rivoluzione fascista” , in realtà subli­ me coronazione del sempiterno gattopardi­ smo italico. Ma a un tale intransigente (neo)antifascismo, come dire, “ esistenziale” , non corrisponde però un altrettanto risoluto antifascismo politico. La durissima requisi­ toria sattiana sposta quindi il tiro verso “ l’uomo tradizionale” , che altro non è che rimpersonificazione simbolica dei peggiori vizi del popolo italiano (trasformismo, parti­ colarismo, servilismo e via seguitando), che troveranno — gobettianamente — nel fasci­ smo la loro sintesi più organica. La più grave responsabilità imputabile all’ “ uomo tradi­ zionale” sopraggiunge con la guerra, ed è la “morte della patria” — idea, tra l’altro, or­ mai di matrice intrinsecamente conservatri­ ce5253— , “ l’avvenimento più grandioso che possa occorrere nella vita dell’individuo” : Come naufrago che la tempesta ha gettato in un’i­ sola deserta, nella notte profonda che cala lenta­ mente sulla sua solitudine egli sente infrangersi ad uno ad uno i legami che lo avvincono alla vita, e un problema pauroso, che la presenza viva e ope­ rante [...] della patria gli impediva di sentire, sorge e giganteggia tra le rovine: il problema dell’esisten­ za. Soggetto al proprio temperamento, egli lo risol­ ve con l’azione, che indirizza secondo la propria fe­ de o il proprio sogno, e diventa un eroe; oppure lo risolve con la meditazione, che è preparazione alla morte, e quindi anch’essa, a suo modo, eroismo5'. 50 Negli anni trenta, alla facoltà di Scienze politiche dell’Università di Padova, Satta tenne per alcuni anni un insegna­ mento assai politicamente scoperto, quale “ Storia e dottrina del fascismo” (M. Isnenghi, I luoghi della cultura, in Storia d'Italia. Le Regioni dall'Unità a oggi. Il Veneto, a cura di S. Lanaro, Torino, Einaudi, 1984, p. 280). 51 Salvatore Satta, Soliloqui e colloqui di un giurista, Padova, Cedam, 1968, p. XVI. 52 Si pensi alla tesi dell’8 settembre come crisi definitiva e irreversibile dell’idea di nazione in Italia, cavallo di battaglia della storiografia di area defeliciana. Si veda, a questo proposito, soprattutto il numero monografico di “ Storia contem­ poranea”, 1993, n.6, significativamente dedicato a “ 1943: crisi di regime, crisi di nazione” . Lo storico italiano che più ha insistito, da sponde liberal-moderate, sul definitivo esaurimento dell’idea di nazione nell’Italia repubblicana (ma si trat­ ta di un processo che, con la sconfitta del nazionalismo fascista e nazista, coinvolge l’Europa intera) dopo la seconda guerra mondiale è Rosario Romeo (cfr. soprattutto il suo Italia mille anni. Dall’età feudale all’Italia moderna ed europea, Firenze, Le Monnier, 1981). Su questo aspetto della sua ricerca storiografica, cfr. R. De Felice, Il problema della nazione nodo centrale del pensiero di Rosario Romeo storico e intellettuale, “Storia contemporanea” , 1992, n. 2; G. Sasso, Rosario Romeo e l ’idea di “nazione". Appunti e considerazioni, “ La Cultura” , n. 1, pp. 7-46. Alle posizioni di De Felice si è re­ centemente avvicinato anche Ernesto Galli della Loggia (La morte della patria. La crisi dell’idea di nazione tra Resisten­ za, antifascismo e Repubblica, Roma-Bari, Laterza, 1996). Su questi temi, cfr. anche F. De Felice, La crisi della nazione italiana, “Passato e Presente” , 1995, n. 36, pp. 5-17. 53 S. Satta, De profundis, Milano, Adelphi, 1980, pp. 16-17 [Ia ed. Padova, Cedam. 1948]. Anche Corrado Alvaro, nel suo volumetto L ’Italia rinunzia?, scritto nel 1944 e pubblicato l’anno seguente (ultima ed. Palermo, Sellerio, 1986), scrive La memoria letteraria della “zona grigia” Di fronte a questa immane tragedia, tutti, per Satta, sono colpevoli. Non soltanto, ovviamente, fascisti e nazi­ sti, diretti e primi responsabili, ma anche il popolo italiano nella sua interezza, che — a prescindere dalle diversificazione di classe, ceto o status — ha comunque sempre antepo­ sto, alla salvaguardia di un pur imperfetto bene comune, una corporativa difesa dei pro­ pri interessi di bottega. I deboli segni di ri­ scatto popolare che tuttavia si avvertono do­ po l’occupazione tedesca non sembrano de­ stare il minimo interesse in Satta, arroccato in un buio scetticismo che lo spinge lontano da qualsiasi identificazione che non sia quella con una patria ormai solo struggente ricordo di un passato che conobbe momenti più lumi­ nosi. La sua innegabile pregiudiziale antifa­ scista sembra sconfinare in una pregiudiziale antiitaliana. Quasi che l’apocalittica fine cui sta andan­ do incontro il fascismo di Salò trascini con sé l’intero popolo italiano, ormai perpetuamen­ te inabile a risollevarsi da sé. L’unica via di uscita, per l’intellettuale, è quindi la ricerca di un rifugio dal quale osservare, con aulica impassibilità, l’assordante e stucchevole ru­ morio di chi, dopo tanta e assidua tracotan­ za, sta finalmente espiando le sue incancella­ bili colpe. I chierici che rifiutano di tradire il loro statuto storico, che pervicaci resistono a promiscui e compromissori cedimenti a inte­ ressi di bassa lega non sono da una parte o dall’altra — ammonisce severo Satta —, non sono con l’uno o l’altro stra­ niero, non sono con questa o quella fazione che 145 dall’uno o dall’altro straniero aspetti ancora la li­ bertà, ma sono sempre e soltanto con se stessi, do­ vunque il giudizio storico e concreto, e perciò sem­ pre unilaterale e sempre fallace, spinga la loro azione. E se la patria è morta, essi muoiono per la patria, e il loro cuore è la pietra sulla quale s’in­ nalzerà domani, in un mondo liberato, una patria nuova e immortale54. La “morte della patria” conduce a un solipsi­ smo nichilista, negatore di qualsiasi plausibi­ lità razionale ai principi e ai moventi del nuo­ vo e transitorio assetto. Non è più dato alcun afflato politico e civile; si rinuncia a qualsiasi identificazione con un sistema di valori dete­ riori, verso il quale tutte le parti in causa ap­ paiono prive di tangibile diversificazione cul­ turale e ideale. La fine di un ‘mondo’, di un corpus organi­ co di credenze, dottrine, saperi. L’eclissarsi di modelli comportamentali creduti imperituri. La sublimazione intellettuale della zona gri­ gia come extrema ratio di fronte all’imperan­ te disgregazione finale55. De profundis appare come il canto del ci­ gno dell’Italia liberale, le cui residue perma­ nenze hanno ricevuto l’ormai definitivo col­ po di grazia dalla seconda “ guerra dei trent’anni” (che proprio in Italia era stata cultu­ ralmente inaugurata dalYEsame di Renato Serra). In questo senso, l’opera di Satta è as­ sai esemplare dell’atteggiamento — al tempo stesso interventista ma non compromissorio — tenuto da molti intellettuali italiani nei confronti dei mutamenti politici intervenuti e succedutisi in più di un secolo di storia uni­ taria56. pagine che hanno non poca consonanza con le riflessioni di Satta sulla crisi della nazione italiana, ma lo fa dal punto di vista di un solido ed inequivocabile (almeno in questo caso) antifascismo (che talvolta purtroppo scade in un populismo di maniera). 54 S. Satta, De profundis , cit., p. 186. 55 Ma, nello stesso tempo, è netta e risoluta la presa di distanza dalla zona grigia propria dell’uomo tradizionale, la cui non belligeranza è descritta in termini di asperrima salacità: cfr. S. Satta, De profundis, cit., pp. 184-185. 56 Si pensi — per richiamare l’esempio più eclatante e dibattuto — al rapporto tra intellettuali e potere durante il fa­ scismo. Si vedano, a questo proposito, i noti studi — caratterizzati da tesi spesso contrastanti, se non antitetiche — di Bobbio, Garin, Isnenghi e Turi. 146 Raffaele Liucci Conclusioni Di questa preziosa letteratura della zona gri­ gia è rimasta pochissima traccia (con l’ecce­ zione di Pavese, spesso però travisato). E i motivi sono forse riconducibili all’oggettiva mitizzazione della Resistenza nel processo di organizzazione della sua memoria. Memoria che è sempre “ un campo di battaglia, dove nulla è neutrale e dove la contesa è conti­ nua” 57. E che vede i vincitori naturaliter portati a ingigantire la ‘grandiosità’ delle lo­ ro azioni, e a circoscrivere — o addirittura annullare — quelle contraddittorie “ zone grigie” che rischiano di sminuire la portata del loro proclamato consenso. Con questo, non si vuole certo affermare che l’antifasci­ smo — l’elemento (certamente non monoli­ tico, bensì assai eterogeneo e frammentato) primogenito della ricostruzione della memo­ ria resistenziale — abbia ricoperto il sempli­ ce ruolo di “ ideologia del vincitore” , come sostengono alcune critiche che ad esso ven­ gono periodicamente rivolte58. Si tratta, pe­ rò, di prendere atto che “l’antifascismo ha avuto in Italia una presenza molto più soli­ da e duratura che [...] nell’intera Europa oc­ cidentale”59, con tutte le distorsioni e le mi­ stificazioni cui un processo di questo genere — tra l’altro quasi coincidente con una sua progressiva monopolizzazione da parte del­ l’opposizione di sinistra sempre esclusa dal governo60 — può, anche involontariamente, aver dato luogo. A queste considerazioni se ne può aggiungere un’altra, che prende le mosse dagli studi condotti sulla memoria collettiva da Halbwachs61, per il quale la memoria è una forma di ricostruzione par­ ziale e selettiva del passato, la cui attualizzazione è imprescindibile dall’esistenza di un gruppo che funga da costante referente della sua continua elaborazione. In difetto dell’e­ sistenza di tali gruppi che garantiscano la “continuità e la saldezza di un’autorappresentazione nel tempo”62, attraverso una vo­ lontà programmatica e organizzativa di con­ servazione di proprie radici culturali e poli­ tiche in cui identificarsi, la memoria si pre­ senta tanto frastagliata da non permettere più una sua sopravvivenza, se non in profili assolutamente minoritari ed emarginati. Se per gli ex partigiani (ma anche per i reduci della Rsi), al termine del conflitto si sono realizzate condizioni favorevoli per la disci­ plinata salvaguardia di un patrim onio co­ mune di idee e di lotte, questo non si è veri- 57 Luisa Passerini, Resistenze della memoria, memorie della Resistenza, “ Linea d’ombra” , 1995, n. 103, p. 10. 38 Cfr., in questo senso, E. Galli della Loggia, Intervista sulla destra, a cura di Lucio Caracciolo, Roma-Bari, Laterza, 1994, pp. 103-170; R. De Felice, Rosso e nero, cit., Id., Intervista sul fascismo, a cura di Michael A. Ledeen, Milano, Mondadori, 1992 [la ed. Bari, Laterza, 1975], 59 Nicola Gallerano, Memoria pubblica del fascismo e dell’antifascismo, in Politiche della memoria, Roma, manifestoli­ bri, 1993, p. 15. 60 Cfr. il numero monografico di “Problemi del socialismo” , 1986, n. 7, dedicato a Fascismo e antifascismo negli anni della Repubblica e G. De Luna, Marco Revelli, Fascismo-antifascismo. Le idee, le identità, Firenze, La Nuova Italia, 1995. In merito alla storiografia sulla Resistenza, cfr. l’utile rassegna di C. Pavone, La Resistenza oggi: problema sto­ riografico e problema civile, “ Rivista di Storia Contemporanea”, 1992, n. 2-3, pp. 456-480; Cesare Bermani, Le Storie della Resistenza. Cinquant'anni di dibattito storiografico in Italia, Verbania, Fogli sensibili, 1995; il numero speciale di “In/Formazione”, 1994, n. 25-26. 61 Maurice Halbwachs, La memoria collettiva, a cura di Paolo Jedlowski, postfazione di L. Passerini, Milano, Unicopli, 1987 [ed. orig. La memoire collective, 1950]. Per queste tematiche, cfr. anche Bronislaw Baczko, Les imaginaires sociaux. Mémoire et espoirs collectifs, Paris, Payot, 1984; L. Passerini, Storia e soggettività. Le fo n ti orali, la memoria, Firenze, La Nuova Italia, 1988; Gianpaolo Calchi Novati e al., Politiche della memoria, cit.; Il senso del passato. Per una sociologia della memoria, a cura di P. Jedlowski e Marita Rampazi, Milano, Angeli, 1991; Tracce dei vinti, a cura di Sergio Bertelli e Pietro Clemente, Firenze, Ponte alle Grazie, 1994. Per la storia della Francia, rimane fondamentale Le lieux de mé­ moire, a cura di P. Nora, Paris, Gallimard, 1984-1992, 3 voi., 5 tomi. 62 M. Isnenghi, Le guerre degli Italiani, cit., p. 292. La memoria letteraria della “zona grigia” fìcato per i ‘superstiti’ della zona grigia, in gran parte riconfluiti nell’anonimo grigiore di masse disorganizzate, in cui le uniche mo­ dalità di quasi coercitiva irregimentazione (partiti politici, sindacati ed organizzazioni collaterali alla Chiesa) non erano certo pre­ disposte, strutturalmente e volitivamente, a 147 una imbarazzante ricostruzione critica del loro passato più prossimo63. In questo mo­ do, le uniche voci ‘fuori dal coro’ non hanno potuto usufruire di una funzionale rete di diffusione e circolazione della propria pro­ duzione scritta. Raffaele Liucci 63 Osservazioni illuminanti sulla ricezione a livello politico e partitico (da parte di forze di sinistra, centro e destra) nel secondo dopoguerra delle istanze emerse da parte della zona grigia durante la guerra civile, sono state fatte da David Bidussa, Il mito del bravo italiano, Milano, Il Saggiatore, 1994, pp. 83-104. INNOVAZIONE EDUCATIVA Irrsae Emilia Romagna Sommario del n. 4, luglio-agosto1996 Gian Carlo Sacchi, Editoriale La lingua straniera nella scuola elementare della regione Emilia Romagna: Il progetto di monitoraggio dell’Irrsae/ER, a cura di Milena Bertacci Giuliano Ferlini, Le variabili strutturali Maria Pia Stori, Quale programmazione per la lingua straniera Raffaele Sanzo, La scansione delle abilità Milena Bertacci, Gli incontri tra la lingua straniera e le altre discipline Enrico Maredi, Monica Ricci, / materiali didattici in uso nelle classi TRIMESTRE Sommario del n. 1, 1997 Saggi Marco L ’idea Mioni, cenzo Caserta, La relazione “hobbesiana" della pericolosità; Corrado Malandrino, dell’Unità federale europea e il socialismo marxista (1900-1920)\ Federico Thomas Jefferson tra storiografia e filosofia politica: un bilancio critico', Vin­ Omaggio, Autorità verità libertà. La filosofia pratica di Augusto Del Noce LA STORIOGRAFIAAFRICANISTA NELL’ETÀdella decolonizzazione fra vecchi e nuovi miti Luciano Russi, Aldo Bernardini, Saluti', Claudio Motta, L ’africanista nel processo di decolonizzazione. Introduzione; Catherine Coquery-Vidrovitch, La storiografia afri­ canista-, Bernardo Bernardi, Rimembranze Keniane: 1953-1963. D all’emergenza a ll’indipendenza; Salvatore Bono, Storiografia dell’A frica “precoloniale”. Due os­ servazioni marginali-, Umberto Melotti, A proposito del modo di produzione africa­ no; Irma Taddia, La decolonizzazione e il caso italiano Documenti Claire Vovelle, Il fascino discreto della nobiltà: Bartolomeo Dotti tra esilio e com­ promesso (1674-1706) Interventi Silvio Cotellessa, Controllo sugli enti locali e analisi delle politiche pubbliche; Irmagard Egger, “Amerika, du hast es besser!”-, Ramon Garrabou, Revolución o revo­ luciones agrarias en el siglo XIV, Luciano Scuccimarra, Tempo, mito, rivoluzione. Considerazioni sul volume 1789: la Rivoluzione e i suoi miti Cronache Franco Ratto, Il convegno napoletano su “Vico nel suo tempo e nel n o s t r o Rosan­ na Satamacchia, Mezzogiorno: che fare?: Cecilia Winterhalter, "In memory". Per una memoria europea dei crimini nazisti Recensioni Mario Reale, La difficile eguaglianza (Vincenzina D’Amario); Gian Franco Lami, In­ troduzione a Eric Voegelin (Raffaella De Rosa); Norberto Bobbio, Destra e Sinistra (Maria Pia Falcone); Amartya K. Sen., La diseguaglianza (Maria Pia Falcone); Frie­ drich Nietzsche, / filosofi preplatonici (Giovanni Franchi); Costantino Felice, Guer­ ra, Resistenza, dopoguerra in Abruzzo (Pasquale Juso); Costantino Felice (a cura di), La guerra sul Sangro (Pasquale Juso); Danilo Castellano, La razionalità della politica (Gian Franco Lami); Pier Luigi Barrotta, Gli argomenti dell’economia (Te­ renzio Maccabelli); Mario Sica, Operazione Somalia (Claudio Motta); Lauro Rossi, Mazzini e la Rivoluzione napoletana del 1799 (Adolfo Noto); Paolo Cristofolini, Scienza nuova (Franco Ratto); Giuseppe Patella, Senso, corpo, poesia (Franco Ratto); Stephanus lunius Brutus, Vindiciae contra Tyrannos (Domenico Taranto) Tra fonti e ricerca Aggressivi chimici e guerra La contaminazione in Puglia 1943-1996 Vito Antonio Leuzzi Il fenomeno della contaminazione chimica di luoghi e persone in Puglia nel corso del se­ condo conflitto mondiale, nel dopoguerra e nei decenni successivi sino ai nostri giorni (ri­ sale al 24 luglio scorso l’ennesimo incidente all’equipaggio di un peschereccio al largo del­ la costa di Manfredonia) non solo impone la necessità di riconsiderare alcune vicende bel­ liche sul fronte Adriatico, ma sollecita anche l’approfondimento delle questioni legate alla produzione e alla destinazione degli aggressi­ vi chimici La rigida censura militare, che ha resistito per più di cinquant’anni, ed i ritardi della ri­ cerca storica hanno impedito di conoscere i molti rischi conseguenti alla produzione di queste armi, ma anche alla eliminazione dei depositi dei gas. L’estrema pericolosità degli aggressivi chimici non è solo connessa all’im­ piego bellico, ma si estende all’intero proces­ so lavorativo, incluse le operazioni di mani­ polazione dei contenitori dei gas durante le operazioni di trasporto; rischiosi risultano anche, come cercheremo di analizzare, le procedure relative alla eliminazione delle scorte e il recupero accidentale degli stessi contenitori. Si deve ai medici del lavoro, nei primi anni quaranta, la denuncia dei rischi professionali cui andavano incontro gli addetti alla lavora­ zione dei gas. La loro produzione, per deci­ sione di Mussolini, era aumentata notevol­ mente nel corso della guerra. In un documen­ to, pubblicato recentemente da Giorgio Rochat nel volume Igas di Mussolini, presentan­ do l’elenco degli stabilimenti coinvolti nella produzione di aggressivi chimici, si dichiara necessario il loro potenziamento in vista della mobilitazione bellica1. A tale produzione era­ no adibiti alcuni stabilimenti dell’Acna (Aziende chimiche nazionali associate), in particolare quelli di Rho e di Cesano Maderno, l’Industria Chimica dottor Saronio con sedi a Melegnano e Foggia, la Bussi Dinami­ te Nobel (in Abruzzo) e la Società chimica lombarda Bianchi controllata dalla IG Farben tedesca2. I rischi professionali cui andavano incon­ tro le maestranze addette alla lavorazione dei gas erano noti e denunciati dalla lettera- 1 Cfr. Giorgio Rochat, L ’impiego dei gas nella guerra d'Etiopia 1935-1936, in Angelo Del Boca (a cura di), ¡gas di Mus­ solini, Roma, Editori Riuniti, 1996, pp. 84-87. 2 La fabbrica tedesca (nota per la produzione del gas Zyklon-B, usato nei campi di sterminio) coinvolta direttamente nella politica nazista aveva concluso nel 1931 accordi con la Montecatini per la rilevazione dell’Acna. Cfr. l’interessante saggio di Pier Paolo Poggio, Dalla dinamite alla Re.SOL. Per una storia dell’Acna, in Id. (a cura di), Una storia ad alto rischio, l'Acna e la Valle Bormida, Torino, Edizione Gruppo Abele, 1996. Recentemente sul “Corriere della Sera” del 9 ottobre è comparsa la notizia che un gruppo chimico francese legato alla filiale tedesca della IG-Farben aveva prodotto nel corso della guerra il gas Zyklon-B; per le caratteristiche di questo gas cfr. Giorgio Nebbia, L ’ingegneria dello ster­ minio, in Till Bastian, Auschwitz e la menzogna su Auschwitz, Torino, Bollati Boringhieri, 1995. 'Italia contemporanea”, marzo 1996, n. 206 150 Vito Antonio Leuzzi tura medica degli anni quaranta. In uno stu­ dio di Cornelio Bellesini, della clinica del la­ voro Luigi Devoto di Milano, relativo ai casi di contaminazione rilevati in alcuni stabilimenti dell’area milanese (probabilmente l’Acna di Rho) dove si produceva iprite sin dalla metà degli anni trenta si legge: Gli operai esposti al rischio specifico di tale lavoro non solo possono subire gravi infortuni, ma anda­ re incontro a patimenti subdoli, progressivi di or­ dine cronico, che richiedono da parte del medico una pronta diagnosi e un pronto intervento tera­ peutico e profilattico. Non trascurabile è pure il disagio fisico derivante specialmente dalla fase fi­ nale del ciclo di produzione di aggressivi chimici [...] Più volte, negli operai ebbi a riscontrare lesioni alle mani ed ai piedi, a causa degli abiti mal messi, come pure alle braccia perché le maniche non era­ no congiunte bene ai guanti ed altrove, perché gli abiti erano stati sporcati con i guanti umidi di ag­ gressivo. Infortuni avvengono pure durante il la­ voro di pulizia, di riparazione e di riempimento di apparecchi diversi; ciò obbliga al costante uso di maschere e di guanti. Notevole è poi il fatto che la sensibilità al tossico varia da individuo ad individuo e tra questi sono in genere i soggetti biondi, i quali per particolare labilità costituziona­ le dei loro tessuti presentano una sensibilità al tos­ sico di grado molto elevato. Altri soggetti ipritati una prima volta dimostrano in seguito di aver ac­ quisito una ipersensibilità, manifestando improv­ visamente segni di orticaria e di prurito intenso, diffuso a tutto il corpo, appena essi entrano nel re­ parto di lavoro3. I risultati delle ricerche di Bellesini trovarono conferma negli studi condotti da alcuni medi­ ci del lavoro, che lavoravano nella stessa cli­ nica milanese, su alcuni “casi postumi di in­ tossicazione di iprite” . In un articolo del 1957 che riportava le conclusioni dell’osser­ vazione di sette casi di intossicazione in ope­ rai che avevano lavorato per un periodo di tempo variabile, da alcuni mesi a cinque an­ ni, in uno stabilimento chimico in cui veniva prodotta iprite si legge: La produzione industriale della iprite espone in­ fatti gli operai ad un notevole rischio di intossica­ zione, nonostante l’attuazione dei più rigorosi provvedimenti tecnici ed igienici4. Si trattava probabilmente della stessa fabbri­ ca (indicata nell’articolo solo con le iniziali MR) in cui Bellesini aveva condotto alcuni anni prima la sua indagine; uno degli operai, infatti, era stato ricoverato nell’Ospedale ci­ vile di Rho, prima di essere trasferimento nel­ la clinica Devoto. I medici del lavoro denun­ ciavano l’estrema nocività e pericolosità del­ l’intero ciclo produttivo: Tutti gli operai provenivano da uno stabilimento nel quale fu prodotta iprite nel periodo 19351943. L’iprite veniva ottenuta facendo reagire in adatte proporzioni etilene con cloruro di zolfo, il prodotto della reazione (iprite tecnica) contenente come impurità zolfo e polisolfuri, veniva purifica­ ta mediante distillazione. Tra gli ambienti dove si svolgeva il ciclo di produzione, il reparto più in­ quinato era la distilleria, dove più che altrove la concentrazione di iprite nell’aria si innalzava per fughe dagli impianti, per qualche spruzzo ed anche in modo notevole durante la bonifica del pavimen­ to con cloruro di calce che si attuava allorché l’i­ prite liquida si rovesciava al suolo. Un primo ri­ schio era anche nelle opere di manutenzione e di pulizia degli impianti, per la inevitabile fuga di va­ pori e spruzzi di liquido. Infine l’azione corrosiva dell’iprite sugli impianti e la sua persistenza sulle pareti, sul pavimento e su ogni parte dell’attrezza­ tura determinava a distanza di tempo delle even­ tuali perdite, un continuo rischio di intossicazione sia per inalazione di vapori tossici sia per contatto con la sostanza liquida[...]. Per quanto istruiti sui pericoli della lavorazione e dotati di completo equipaggiamento di protezione, gli operai andava­ 3 Cfr. Cornelio Bellesini, Rischio professionale, patologia e assistenza dei lavoratori addetti alla produzione di aggressivi chimici, “La medicina del lavoro”, 1943, n. 104, pp. 107-108. 4 Cfr. E. Sartorelli, M. Giubileo, E. Bartali, Contributo allo studio della bronchite cronica asmatiforme con enfisema pol­ monare quale postumo di intossicazione professionale di iprite, “ La medicina del lavoro” , 1957, n.5, pp. 338. Aggressivi chimici e guerra no incontro inevitabilmente e frequentemente a le­ sioni di iprite, o liquida o sotto forma di vapori in concentrazioni più o meno elevate. Parecchi furo­ no i casi di lesioni cutanee causate dai vapori o da spruzzi liquidi, e si verificarono anche sporadici episodi di inalazione di vapori in forti concentra­ zioni5. Sulla base dei casi clinici osservati i medici della clinica Devoto affermavano: La gravità delle lesioni croniche bronchiali e pol­ monari presenti negli operai esaminati è un ulte­ riore documento della pericolosità delle intossica­ zioni acute anche da inalazione lievi di vapori di iprite; in tutti i soggetti infatti si è avuta la com­ parsa di postumi a carico dell’apparato respiratorio a decorso progressivo e invalidante6. Alla luce dunque dei dati conoscitivi che emergono dalla lettura delle osservazioni scientifiche dei medici del lavoro, la catastro­ fe ambientale pugliese del secondo dopoguer­ ra trova una più ampia e plausibile spiegazio­ ne. In Puglia si svolsero i preparativi di una guerra chimica mai dichiarata, ma organizza­ ta da tutti gli eserciti in campo. Alla fine del 1941 venne ultimato a Foggia la costruzione dell’impianto chimico dottor Saronio, collo­ cato nei pressi della cartiera, che produceva iprite e fosgene per le necessità degli eserciti dell’Asse. La distruzione della fabbrica alla fine del settembre 1943 da parte dei tedeschi in ritirata fu all’origine di una estesa conta­ minazione dei resti dell’edificio e dell’area 151 circostante. In un im portante documento trovato da Alessandro Massignani (cfr. do­ cumento n. 1), si fa riferimento all’azione bel­ lica che provocò la contaminazione7. L’area occupata dal sito bellico, dopo cinque anni dalla distruzione, risultava, come si legge nel­ la nota informativa del 18 giugno 1948 invia­ ta dal ministero della Difesa al prefetto di Foggia, non ancora bonificata89. Pochi mesi dopo la distruzione della fab­ brica, il 2 dicembre 1943, a Bari il bombar­ damento tedesco del porto provocò l’affon­ damento di un intero convoglio alleato che trasportava armi e tra queste i pericolosi ag­ gressivi chimici. Fu questo l’unico caso di morte chimica in Italia. Il 9 aprile 1945 si ve­ rificò poi un altro grave incidente: l’esplosio­ ne della Charles Handerson, un piroscafo americano che trasportava un ingente carico di bombe tra cui probabilmente i pericolosi gas9. La fine della guerra e gli inizi delle lunghe e complesse operazioni di bonifica non solo del porto di Bari, ma anche di quelli del Basso Adriatico da Molfetta a Manfredonia, dove tedeschi prima ed angloamericani dopo, ave­ vano riversato cospicui quantitativi di mate­ riale bellico pericoloso, sono responsabili, come cercheremo di spiegare, di altri e mas­ sicci fenomeni di contaminazione (cfr. docu­ mento n. 3).10 Bisogna poi considerare altre situazioni di inquinamento chimico provoca­ te dalle operazioni di svuotamento dei ma­ gazzini dei gas. 5 E. Sartorelli, M. Giubileo, E. Bartali, Contributo allo studio della bronchite cronica asmatiforme con enfisema polmo­ nare quale postumo di intossicazione professionale di iprite, cit., pp. 338-339. 6 E. Sartorelli, M. Giubileo, E. Bartali, Contributo allo studio della bronchite cronica asmatiforme, cit., p. 345. 7 Alessandro Massignani, Il Terzo Reich e l ’apporto bellico dell’Italia dopo l ’8 settembre 1943, “ Rivista di storia contem­ poranea”, 1993, n. 2-3, p. 251, n. 18. Il documento è conservato in National Archives and Record Service, Washington, T77/577/1756530-541. 8 Cfr. Ministero della Difesa a prefetto, 18 giugno 1948, in Archivio di Stato di Foggia, Prefettura, Ufficio di Gabinet­ to, B. 41. 9 Per una ricostruzione dell’incursione aerea tedesca del 2 dicembre, cfr. Glenn B. Infield, Disastro a Bari, Adda, Bari, 1977 (ed. orig. New York, 1971); Paolo Ferrari, Vito Antonio Leuzzi, Il bombardamento tedesco su Bari, “ Storia mili­ tare”, 1994, n. 14; e di chi scrive, Il "disastro di Bari". Armi chimiche e seconda guerra mondiale, “Italia contempora­ nea”, 1994, n. 194, pp. 158-162. 10 Cfr. V. A. Leuzzi, Guerra e contaminazione chimica in Puglia, “Italia contemporanea”, 994, pp. 807-811. 152 Vito Antonio Leuzzi Si deve alla letteratura medica la regi­ strazione dei primi casi di contaminazione in Puglia nel secondo dopoguerra. Uno studio del dottor Adamo M astrorilli, che prestava servizio nel 1946 presso l’Ospeda­ le Civile di M olfetta, conta 102 soggetti colpiti accidentalmente dall’iprite e curati dal 1946 al 1954. L’incidente più grave si verificò nell’estate del 1946: l’intero equi­ paggio di un peschereccio, che aveva cari­ cato a bordo un contenitore, fu colpito da­ gli effetti letali del gas. Nello studio di Mastronilli si legge: Inizialmente non fu possibile capire quale fosse stata la causa di tale ustione collettiva, successiva­ mente però dal comando alleato, all’uopo interes­ sato, si seppe che trattavasi di ustione da “mustard gas” gettato in bombole con altri residuati bellici lungo le coste del basso Adriatico alla fine della guerra. Nei primi 16 giorni di ricovero decedettero 5 soggetti più gravemente ustionati per sopravve­ nuta gravissima broncopolmonite massiva ribelle ad ogni terapia11. Dallo studio di Mastrorilli risulta che gli in­ fortuni marittimi, pari a 73 casi, furono i più numerosi. Si contano poi 22 casi di ustio­ ne di operai che prestavano la loro opera presso un cantiere per il recupero dei residua­ ti bellici; 4 casi per “recupero di frodo” ; 3 ca­ si accidentali verificatisi su una spiaggia, uno dei quali riguardava un bambino di 5 anni12. Qualche tempo dopo il dottor Nicola Mongelli Sciannameo descrive, in un suo la­ voro, un infortunio collettivo occorso a sei marittimi impegnati nelle operazioni di pesca a largo di Manfredonia nell’estate del 1959. In conclusione esprimeva queste preoccupate considerazioni: Non è improbabile che accidenti analoghi possano ancora verificarsi tra la gente di mare: è pertanto necessario che adeguate misure di propaganda e prevenzione vengano opportunamente diffuse ed adottate onde riuscire anzitutto a far conoscere il periodo poi a prevenire i danni diretti e le compli­ cazioni e a contenerli quanto più possibile13. Altri casi di “ intossicazione professionale” da iprite furono segnalati in un’area diversa da quella pugliese14. Gli studi sui casi di con­ taminazione in Puglia non proseguirono ol­ tre gli anni sessanta; una ripresa si sarebbe avuta trent’anni dopo, in seguito al verificar­ si di frequenti incidenti ai danni di marittimi di Molfetta. All’indagine medica sono sfuggiti, comun­ que, molti casi di ustione chimica, tra la fine degli anni quaranta ed i primi anni cinquan­ ta, conseguenti alle operazioni di bonifica dei porti del Basso Adriatico, in particolare quel­ lo del capoluogo pugliese, e dei depositi a ter­ ra nell’area barese. Durante le operazioni di svuotamento e recupero dell’ingente materia­ le bellico contenuto negli scafi americani af­ fondati nel porto di Bari, negli altri porti pu­ gliesi e nei depositi (cfr. documento n. 4) si verificarono fenomeni di contaminazione non solo di tutti gli operatori del nucleo smi­ namento porti che operava nel Basso Adria­ tico, ma anche di un gran numero di operai che prestavano la loro opera alle dipendenze di alcune ditte private. In uno dei primi rapporti sull’andamento dei lavori di sminamento e bonifica si legge: L’avanzata dell’esplorazione fortemente rallenta­ ta dalla visibilità [...] necessita di procedere con la massima cautela, a causa della presenza di iprite sul fondo: tutti gli operatori hanno riportato Cfr. Adamo Mastrolilli, Esiti a distanza di lesioni da vescicatori, “Giornale di medicina militare” , 1958, n. 4, p. 356. 12 A. Mastrolilli, Esiti a distanza di lesioni da vescicatori, cit., p. 356. 13 Nicola Mongelli Sciannameo, Infortunio collettivo da solfuro di etile biclorurato in un gruppo di pescatori, “ Rassegna di medicina industriale e di igiene del lavoro”, 1960, p. 446. 14 In particolare vennero descritte le conseguenze della contaminazione in sette operai addetti al recupero di proiettili chimici nell'area veneta. Cfr. E. Gaffurri, A. Felisi, Patologia polmonare cronica professionale da iprite, “ Medicina del lavoro”, 1957, n. 10. Aggressivi chimici e guerra ustioni da iprite alle mani ai polsi ed al collo, for­ tunatamente non gravi, grazie alla predetta caute­ la ed alla pronta bonifica antipritica opportuna­ mente studiata e realizzata15. Sembra peraltro evidente che i responsabili delle operazioni di bonifica volessero evitare il ricorso alle strutture sanitarie pubbliche. Una scelta ribadita anche nel caso di inciden­ ti di una certa entità: per esempio nell’ottobre 1947 (cfr. documento n. 2) a Barletta uno de­ gli operatori rimase ferito e nella relazione sull’incidente, dopo una descrizione dei sin­ tomi, si affermava: “ Le necessarie cure, che in media durano 30 giorni, sono state prati­ cate presso questo Nucleo direttamente dal­ l’esperto chimico dell’esercito” 16. La pericolosità dell’aggressivo chimico è costantemente evidenziata dagli esperti mili­ tari che si trovano a dover affrontare sempre nuovi problemi per i frequenti infortuni de­ nunciati dai palombari. In una relazione del giugno 1951 si legge: Contrariamente a quanto accaduto al palombaro S., di cui alla precedente relazione, il palombaro S. A. non è andato incontro ad alcuna rottura di guanti. Pertanto si è portati a considerare che le usuali protezioni alle mani sin’ora adottate duran­ te le immersioni nelle altre zone di lavoro e che ri­ spondono a quelle sancite dalle norme ufficiali, non offrono più le condizioni di sicurezza, sin qui richieste17. Gli inevitabili incidenti conseguenti all’azio­ ne di bonifica si estendono non solo ai com­ ponenti del nucleo sminamento porti o agli operai portuali delle ditte appaltatoci, ma anche alla popolazione civile. In un rapporto 153 dell’agosto 1947 dei responsabili della bonifi­ ca portuale si afferma: Sarebbe opportuno che l’organizzazione antipriti­ ca già perfettamente attrezzata con le squadre di bonifica composte da civili, disponesse di un pro­ prio automezzo per i continui frequenti umanitari interventi in zone infette e fuori sede dei normali porti in cui sono in corso lavori di sminamento18. Nel capoluogo pugliese nel marzo del 1951 “ numerosi cittadini” riportarono ustioni per aver raccolto del legname impregnato di iprite proveniente da una delle navi affondate nel 1943 (cfr. documenti n. 5 e 6). Tutti i col­ piti vennero curati senza ricorrere né ad am­ bulatori né ad ospedali pubblici19. La pericolosità della situazione delle aree portuali coinvolte nelle operazioni di bonifi­ ca, da Manfredonia a Siponto, Zapponeta e Margherita di Savoia nella provincia di Fog­ gia e da Barletta a Trani, Bisceglie e Molfetta in provincia di Bari, emerge dalla lettura dei rapporti del nucleo sminamento porti; quella del capoluogo pugliese, che appare la più cri­ tica, si rileva anche dai gravissimi incidenti, talvolta mortali, capitati a individui che ten­ tano furtivamente di recuperare dal fondo del mare residui di ferro o ad operai impe­ gnati in altri lavori nell’area portuale (diversi da quelli di bonifica)20. Non è possibile tuttavia per gli incidenti mortali rilevare una diretta connessione con la presenza dei contenitori di iprite dissemi­ nati nell’area portuale barese. Si è riusciti a documentare, grazie alla ricerca avviata nel 1993 dall’Istituto di medicina del lavoro di­ retto dal professor Giorgio Assennato del- 15 Rapporto sull’andamento dei lavori di sminamento e di bonifica, in Archivio di Stato di Bari (d’ora in poi AS Bari) Genio Civile, Opere Marittime, B. 641. Si tratta del documento n. 2 di seguito riprodotto. 16 Rapporto sull’andamento dei lavoridi sminamento e di bonifica, loc. cit. a nota 15. 17 Rapporto sull’andamento dei lavoridi sminamento e di bonifica, loc. cit. a nota15. 18 Rapporto sull’andamento dei lavoridi sminamento é di bonifica, loc. cit. a nota15. 19 Prefetto a Ministero dell’interno, Bari 22 marzo 1951, in AS Bari, Prefettura, Gabinetto III versamento B. 240. Si tratta del doc. 5 riprodotto in appendice. Rapporto sull’andamento dei lavori di bonifica, loc. cit. a nota 15. 154 Vito Antonio Leuzzi l’Università di Bari in collaborazione con l’Istituto pugliese per la storia dell’antifasci­ smo e dell’Italia contemporanea, altri 121 casi di contaminazione, avvenuti tra il 1955 e il 1980, tra i marittimi di Molfetta. Si trat­ ta di denunce di infortuni presentate dai pe­ scatori, entro 48 ore dall’incidente, alla Cas­ sa marittima della città pugliese che racco­ glie il più alto numero di addetti alla pesca del Basso Adriatico. Dal 1980 le denunce ve­ nivano presentate solo nell’eventualità che l’incidente comportasse il ricovero in ospe­ dale. È dunque evidente che dal 1980 gli in­ cidenti di modesta entità venivano risolti ambulatoriamente. In ogni caso nel 1990, nel 1994 e nel luglio 1996 le strutture ospe­ daliere di Bari e Molfetta registrano altri ca­ si di contaminazione da iprite tra i pescatori. Per l’incidente del 1990, che coinvolse l’inte­ ro equipaggio di un piccolo peschereccio, è disponibile uno studio della Clinica derma­ tologica dell’Università di Bari nel quale si legge: Oltre ai cinque casi da noi osservati, presso la Ca­ pitaneria di porto di Molfetta risultano denuncia­ ti, nell’arco di dieci anni, altri 94 casi di pescatori con ustioni di varia intensità da gas mostarda, tut­ ti con più o meno identiche manifestazioni cutanee e alle congiuntive21. La frequenza dei casi di contaminazione, al­ cuni anche molto seri, sino a tutti gli anni ot­ tanta e novanta pone interrogativi inquietan­ ti sull’entità della contaminazione del Basso Adriatico ed in particolare dell’area barese. La gravità della situazione dal punto di vi­ sta ambientale è sottolineata in una relazione del 1993 del Laboratorio di biologia marina di Bari al ministero della Marina mercantile nella quale si afferma: L’area di ricerca del Basso Adriatico si estende lun­ go la costa pugliese fra la perpendicolare alla testa del Gargano e quella al Capo d ’Otranto, al largo il limite è rappresentato dalla batimetrica dei 700 m. La superficie complessiva di tale aerea ha una estensione di 4536,6 miglia nautiche quadrate, pari a 15.560 Kmq, di cui circa 3/4 è rappresentata da fondo strascicabile. La restante parte non è utilizza­ bile a causa della natura rocciosa del substrato o della presenza di residuati bellici (a volte pericolosi, come nel caso di contenitori di iprite)22. Vito Antonio Leuzzi Documento n. 1 OKH/chef H Rust u BdE [Oberkommando des Heeres/Chef der Heeresrüstung und Befehlshaber des Ersatzheeres = Comando supremo dell’esercito/capo degli armamenti e dell’esercito di riserva] N. 69/43 del 2 ottobre 1943 Rapporto della commissione speciale del WaA [Waffenamt = Ufficio armamenti] per aggressivi chimici in Italia sulla ricognizione dei luoghi di fabbricazione ed immagazzinaggio. 1) partecipanti : Oberregierungs-Baurat [consi­ gliere di prima classe alle costruzioni] Dr. Ehmann W alRü Mun 3 [Amtsgruppe für industrielle Rü­ stung = gruppo uffici per l’armamento industriale Monaco 3] Oberregierungs-Baurat Dr v.d.Linde Wa Prüf 9 [Waffernamt Amtsgruppe Entwicklung und Prüf­ wesen = gruppo uffici dell’ufficio armamenti eser­ cito per prove e sviluppo] Regierungs-Baurat [consigliere di seconda clas­ se alle costruzioni] Dr. Jacob Wa Prüf 9 [...] 4) Risultati: a) impianti di aggressivi chimici dell’Industria Chimica Dott. Saronio per iprite e difosgene, co­ struita tra il 1940 e il 1942. Produzione circa 200 t al mese di iprite e (stimata) 100 t al mese di disfogene. 21 Cfr. G Angelini, G.A. Vena, C. Foti, R. Filotico, M. Grandolfo, Dermatite da contatto con gas iprite, “ Bollettino di dermatologia allerg o lo g i e professionale”, 1990, n. 1, pp. 71-74. 22 Unità operativa numero 9, Laboratorio di biologia marina Bari, Valutazione delle risorse demersali nell'Adriatico me­ ridionale dal Promontorio del Gargano al Capo d ’Otranto, relazione finale triennio 1990-1993, in Archivio laboratorio di biologia marina di Bari. Aggressivi chimici e guerra L’iprite viene prodotta dal processo di clorazio­ ne dello zolfo e l’ottenuta D-iprite depurata per distillazione. I prodotti di partenza vennero prodotti in loco (etilene ed alcool, cloruro di zolfo e zolfo e cloro. Il cloro venne trasportato dalla vicina fab­ brica di cellulosa. Questi impianti di clorazione vennero fatti saltare già il 22.9.43 da un incaricato del Sonderstab [comando speciale] del M inistro del Reich per il Ruk [Rüstungs und Kriegsproduk­ tion = Armamenti e produzione bellica]). Il disfogene è stato fabbricato con la perclorazione del metilistere dell’acido formico che a sua volta venne procurato in loco mediante esterifica­ zione dell’acido formico con il metanolo. Gli im­ pianti erano nuovi e messi presumibilmente solo da poco in funzione. Scorte di aggressivi chimici non erano disponibili né vi erano residui nelle ap­ parecchiature. Gli impianti furono fatti saltare il 26.9.43 alle 11.00, dopo che alle truppe erano state distribuite le istruzioni minuziose ed inoltre stabilito che con le condizioni atmosferiche dominanti una eventua­ le nuvola che si fosse originata di aggressivo chimi­ co non potesse dirigersi verso le linee nemiche che si trovavano a 10 Km. a sud. Dalla visita del luogo da far saltare risultò che le 6 sale di produzione con le apparecchiature che vi si trovavano erano praticamente del tutto distrutte. Dopo la riuscita demoli­ zione la zona venne contrassegnata da un cartello di avviso con la scritta “Attenzione, pericolo di morte!”, in maniera che il nemico non si facesse l’i­ dea di una zona di sbarramento chimica. Sebbene le truppe avessero ricevuto l’ordine dello sgombero da Foggia per la notte dal 25 al 26 settembre si poteva ottenere con urgente rap­ presentazione del caso al comandante del settore che lo sganciamento fosse spostato di qualche ora fino alla avvenuta demolizione. [traduzione dal tedesco di Alessandro Massignani] Documento n. 2 Nucleo Sminamento Porti Puglie Bari Bari 8 ottobre 1947 Il Capo Nucleo Maggiore A.N. [••■] 155 N.S.P. [Nucleo sminamento porti Bari] N° 66 alt lavori porto Barletta settimana dal 1°/10/47 al 7/10/47 alt Media cinque operatori più esperto chimico Esercito alt esplorata zona antistante set­ tore 24 ampiezza metri quadrati 4800 alt Fascia banchina tramontana et ponente Rimossi Rottami alt rinvenute et rimosse et trasportate in punto adatto 10 bombe ed aggressivi chimici alt Traspor­ tate in deposito Bari con automezzo 17 bombe at iprite alt D urante trasporto nonostante rottura tre bombe e conseguente perdita liquido nessun in­ cidente at persona et nessuna infestazione zone di transito grazie opportuna e ben studiata attrezza­ tura [...] Destinatario M aristat Roma, M aridipart Ta­ ranto M arina Brindisi M aricentrosub Taranto Companare Bari Circomare Barletta et p.c. Genio Civile Bari alt N.S.Bari 123008 Documento n. 3 Nucleo Sminamento Puglie Bari Data inizio delle operazioni 1° aprile 1949 Rapporto riassuntivo sulla condotta delle ope­ razioni Gli ordigni e aggressivi chimici rimossi o affon­ dati sono bombe a yprite ricuperate in Bari dai set­ tori non ancora bonificati, nei quali le ricognizioni continuano [...]. D urante le operazioni sugli ordigni tutti gli operatori sono rimasti ustionati leggermente e hanno riportato leggeri disturbi alle vie respirato­ rie. A Palo del Colle è stata fatta una ricognizione con il Capo sezione Autonoma Artiglieria mate­ riali difesa Chimica Roma, per esaminare la possi­ bilità del trasporto via terra e successivo affonda­ mento degli ordigni e aggressivi chimici rinvenuti. Il giorno 20 un rappresentante americano della Commissione alleata di Napoli è venuto in Bari per accertamenti sul carico delle stive P/fo [piro­ scafo] n. 3. L’inoltrarsi della buona stagione, l’elevata tem­ peratura e le giornate di calma piatta rendono l’ambiente di lavoro particolarmente gravoso data la forte concentrazione di vapori tossici che richie­ de l’uso della protezione totale. Pur continuando il Vito Antonio Leuzzi 156 lavoro si rimane in attesa degli elettroventilatori, già richiesti [...] Il capo nucleo Tenente di Vascello Documento n. 4 Nucleo sminamento Puglie Bari Vale per Messaggio Postale N. 67 M aristat= Roma M aridipart = Taranto Mari­ na = Brindisi Maricentrosub = La Spezia Compa­ nare = Bari e per conoscenza Genio civile Bari Bari, li 21 luglio 1949 Testo: Decade dall’11 luglio al 20 luglio 1949 In media 8 operatori più esperto chimico E.I. [Esercito italiano] Continuano le ricognizioni nei settori non an­ cora bonificati. Sono state rimosse ed affondate nel deposito subacqueo — 54 bombe ad yprite. Sono stati rinvenuti e recuperati 148 proiettili p.c. — 18 cassette di munizioni. Sono stati ritirati i seguenti ordigni rinvenuti a Palo Del Colle e trasportati nel deposito Y a terra: — 546 bombette a yprite; — 447 spezzoni a yprite, — 16 granate perforanti Sono state recuperate in banchina, verificate, tamponate e sistemate nei cilindri del deposito Y a terra: — 51 bombe ad yprite. Sono stati prelevati dai deposti a terra, imbar­ cati su mezzi navali, trasportati negli alti fondali e affondati: — 91 bombe ad yprite — 546 bombette a yprite — 447 spezzoni a yprite — 148 proiettili p.c. — 16 granate perforanti — 18 cassette munizioni [...] Data la forte quantità di ordigni si è dovuto uti­ lizzare come deposito yprite anche il magazzino materiali (non aerato). Documento n. 5 Bari, 22 marzo 1951 Ministero Interno Gabinetto - Roma Ministero Interno Sicurezza - Roma Alto Commissariato Sanità - Roma Ministero Marina Mercantile Gabinetto - Roma n,1495-Gab. Stamane causa mareggiata sono state portate a riva numerose tavole impregnate iprite proveniente da piroscafo affondato questo porto ultima guerra et in via di recupero alt Dette tavole sono state raccolte da numerosi cittadini che habent riportato leggere ustioni tossi­ co specie at mani alt Est stato immediatamente provveduto at boni­ fica colpiti presso Ufficio Sanitario Militare Mari­ na et non si lamenta sinora alcun caso grave alt At opera Autorità di polizia et mezzo apposite squadre antipritiche est stato provveduto recupero materiale alt Si fa riserva inviare più dettagliato rapporto alt Prefetto [...] Documento n. 6 Bari li 4 aprile 1954 Nucleo Sminamento porti Puglie Rapporto di fine lavori Relazione di fine lavori sulla bonifica del porto di Bari 1) Per ordine di Marina Brindisi, in data 21/11/ 1953 viene iniziato lo sgombero del deposito su­ bacqueo, del legname, residuato delle cassette con­ tenenti le bombe ad yprite, accatastatovi. Detta operazione viene ultimata in 31 giornate lavorative (ne erano state previste 30). Vengono recuperate circa 70 tonnellate di legname ypritato e 189 bombe ad yprite. G ran parte del legname viene bruciato (circa 40 t.), il rimanente, non po­ tendo venire distrutto con il fuoco a causa dell’ec­ cessiva umidità, viene legato a fasci, appesantito con massi ed affondato al largo di Bari, in zona di alti fondali (1 aprile 1954). La percentuale di sicurezza per la bonifica del deposito subacqueo è del 95%. La bonifica viene ultimata il 22 gennaio 1954. Il Capo Nucleo Tenente di Vascello Tra fonti e ricerca Servizi segreti alleati e Resistenza Max Salvadori a cura di Giorgio Vaccarino Nel gennaio 1985 avevo ricevuto dalla genti­ lezza di Max Salvadori (Massimo Salvadori Paleotti) un suo rapporto sul Soe (Special Operations Executive), con il titolo Glossa in margine alla seconda guerra mondiale: il Soe, “quarta arma’’ spuntata, elaborato sulla base di dati da lui raccolti in occasione della serie televisiva della Bbc sul Soe e la Resistenza. “Avendone fatto un articolo, che non so se sarà pubblicato, ho pensato che forse gliene interesserebbe una copia — generosamente aggiungeva — per la sua fondamentale Storia della Resistenza in Europa”. A quella data io non ero ancora in condizione di valermene in un’opera generale, e neppure in seguito fi­ no a oggi, per cui ritengo mio dovere, anche per onorare la memoria di un uomo del valore e dell’importanza storica di Max Salvadori, di non privarne ulteriormente altri studiosi, che intendessero utilizzare le sue preziose e detta­ gliate informazioni. Pochi in realtà sono gli studi organici sul Soe: in primo luogo quello di Frederick W. Deakin, presentato al convegno su “ L’Italia nella seconda guerra mondiale e nella Resi­ stenza” , dell’aprile 19851. Max Salvadori — scrive Deakin — “ era stato, come Valiani, avvicinato dal Soe in Messico e godeva di pa­ ri fiducia tra i gruppi antifascisti a lui familia­ ri, che erano emersi in Italia dopo il settem­ bre 1943 e che avevano lavorato assieme nel­ l’esilio durante il periodo tra le due guerre. Dopo aver reso preziosi servizi al Soe nel Sud, a Napoli e a Roma, Salvadori fu paraca­ dutato in veste di ufficiale britannico nell’Ita­ lia del Nord, tra Cuneo e Savona. Preso con­ tatto con il colonnello Stevens e con il Cln to­ rinese, egli raggiunse Milano ai primi di mar­ zo del 1945.1 suoi rapporti via radio rivesto­ no un’importanza particolare. Egli riuscì a far accettare al Soe e ai suoi superiori militari la propria convinzione, fondata su di un at­ tento esame della situazione in tutta la Lom­ bardia e in particolare a Milano, dove egli era il solo vero rappresentante del Comando al­ leato, che un’insurrezione popolare era inevi­ tabile e che sarebbe stata lealmente controlla­ ta, dal Clnai. Il massiccio afflusso di volonta­ ri, verificatosi dopo il dicembre 1944, non la­ sciava altra scelta. Nelle fasi conclusive, quando i conflitti in­ testini a Milano assunsero toni assai aspri, sia Valiani che Salvadori esercitarono una fun­ zione moderatrice decisiva, con l’appoggio di Pizzoni e di Parri. Alla fine era nato un co­ mando militare unificato”2. L’attenzione dello studio di Deakin è so­ prattutto rivolta agli aspetti politici dell’atti- 1 Federick W. Deakin, Lo Special Operations Executive e la lotta partigiano, in Francesca Ferratini Tosi, Gaetano Gras­ si, Massimo Legnani (a cura di), L ’Italia nella seconda guerra mondiale e nella Resistenza , Milano, Angeli, 1988, pp. 93139. F.W. Deakin, Lo Special Operations Executive, cit., pp. 124-125. ’Italia contemporanea”, marzo 1997, n. 206 Max Salvadori 158 vità del Soe, che dal febbraio 1942 era stato sottoposto alla sovraintendenza del conser­ vatore Lord Wolmer Selborne, subentrato in tale funzione al laburista Hugh Dalton, ministro dell’Economia di guerra. Lord Sel­ borne aveva fatto avere il 24 ottobre 1944 al primo ministro Churchill un promemoria dal titolo Maquis italiani, in cui riconosceva l’estrema importanza del movimento, tanto da allarmarsi per la riduzione del volume to­ tale del trasporto aereo per l’Italia e i Balca­ ni, da duemila a seicento tonnellate mensili, di cui solo trecentoventi destinate all’Italia. “ In quanto responsabile dell’appoggio alla Resistenza — Selborne scriveva — ritengo che a questo punto dovremmo dare la priori­ tà ai partigiani italiani in vista del loro diretto contributo alle nostre operazioni militari”3. Churchill annotava sulle sue carte: “ Conti­ nuo a pensare che sia della massima impor­ tanza mantenere i maquis italiani sul cam­ po”4. Tale opinione era condivisa da Mac­ millan, che il 15 settembre aveva segnalato al Foreign Office: “ La Resistenza italiana ha pagato e continua a pagare lauti dividen­ di. La linea del generale Wilson è di dare ai patrioti italiani il massimo appoggio median­ te l’aviazione”5. Senonché il noto messaggio Alexander del 13 novembre 1944 ai partigiani italiani “ ordinava esattamente ciò che Sel­ borne aveva avversato: una sospensione delle operazioni militari e un risparmio di muni­ zioni e materiali sino alla fine delfinverno” 6. Piano questo che rientrava nel contesto di un generale rinvio delle operazioni dell’offensiva preparata dagli alleati per raggiungere la Val­ le Padana entro il dicembre 1944. A quanto risulta — osserva Deakin — l’autore di que­ sto messaggio radio sarebbe stato un pastore protestante che lavorava per la Sezione guer­ 3 4 5 6 7 F.W. F.W. F.W. F.W. F.W. Deakin, Deakin, Deakin, Deakin, Deakin, Lo Lo Lo Lo Lo Special Special Special Special Special Operations Executive, Operations Executive , Operations Executive, Operations Executive, Operations Executive, cit., cit., cit., cit., cit., ra psicologica del Quartier generale alleato, proprio nel momento in cui pareva assai giu­ sto avvisare i partigiani italiani (non si capi­ sce bene perché poi cosi platealmente per ra­ dio) in quanto preziosi ausiliari nelle opera­ zioni temporaneamente rinviate. L’episodio è stato ampiamente criticato come un m ar­ chiano errore psicologico, subito seguito pe­ raltro da un aumento dei rifornimenti ai par­ tigiani, che nel novembre-dicembre 1944 rag­ giunsero nuovi livelli7. Il rapporto di Max Salvadori verte, invece, soprattutto sulla quantità e sulla qualità degli interventi praticati dal Soe, integrando util­ mente le informazioni di Deakin, ma anche gettando luce sui fondamentali orientamenti del Soe circa la condotta politica in Italia. Co­ si l’attività da esso messa in atto nel giugno 1944 per la sostituzione del governo Badoglio che, “come Darían per i francesi, costituiva ora” — afferma Salvadori nel testo che pub­ blichiamo — “un ostacolo allo sviluppo della resistenza armata italiana” , con un governo espresso tutto dal Cln, avveniva proprio in considerazione del fatto che il Cln aveva avu­ to nella Resistenza un ruolo di gran lunga su­ periore a quello dei badogliani. Se i collegamenti con la Resistenza romana furono tenuti soprattutto daH’americano Oss (Office of Strategie Services), in Toscana fu la Special Force, espressione del Soe, a consi­ derare il Cln come autentica autorità di go­ verno in territorio occupato, tanto da avviare la delegazione del Clnai a prendere accordi definitivi il 7 dicembre 1944 a Caserta e poi a Roma col Comando alleato e con il gover­ no italiano, sulla base di un testo predisposto originariamente dallo stesso Soe. “Alla diffidenza iniziale nei confronti di un movimento clandestino non controllabile p. 115. p. 116. p. 116. p. 116. p. 117. Servizi segreti alleati e Resistenza dall’alto — osserva Elena Aga-Rossi — e di­ retto non da militari ma da civili e per lo più fortemente politicizzati, si sostituì una sem­ pre maggiore disponibilità di fronte al con­ tributo che i partigiani potevano dare nella guerra contro i tedeschi” 8. Diversamente aveva ragionato Churchill nell’interpretazio­ ne di David W. Ellwood, e cioè che “un go­ verno come quello di Badoglio rappresenta­ va l’interlocutore perfetto, in grado di garan­ tire la continuità, non soltanto dello Stato e dell’autorità costituzionale, ma anche delle responsabilità del fascismo. Affidare il go­ verno del paese ai firmatari dell’armistizio [per primo Badoglio], significava rafforzare il concetto che la nazione, nel suo insieme, aveva perso la guerra”9. Nel testo di Max Salvadori che presentia­ mo, mettendo in evidenza la diversa politica 159 del Soe in sostegno del Cln contro la conti­ nuità badogliana, l’autore esprime il suo giu­ dizio di fronte agli schieramenti ideologici in­ terni, che continuarono a farsi sentire dopo la fine del conflitto, creando serie difficoltà al­ l’adozione di una politica filo occidentale, ve­ ra idea ispiratrice e conduttrice di tutta la sua azione. Osserva infatti che se lo scontrò ideo­ logico tra i militanti non compromise la col­ laborazione nel periodo bellico, esso si ravvi­ vò nel dopoguerra attraverso le difficoltà “create dalla diffidenza scontrosa, e a volte astiosa” , di esponenti di osservanza “stalini­ sta”, che ritenevano essere il “capitalismo” e insieme r “imperialismo” — e cioè le demo­ crazie atlantiche — il nemico permanente, so­ pravvissuto alla lotta contro il nazifascismo. Giorgio Vaccarino Glossa in margine alla seconda guerra mondiale Il Soe “ quarta arma” spuntata Nell’ottobre del 1984 un amico mi scriveva: “l’o­ ra è arrivata per scrivere una storia dei servizi speciali [segreti] inglese e americano nel tempo della guerra [...] non sarà facile” . Risposi che di servizi segreti alleati ne operarono diversi, e che, se erano seri, la documentazione sarebbe stata scarsa e in generale di poco rilievo, e se non erano seri la documentazione sarebbe stata abbondante e poco attendibile (avrei dovuto aggiungere che una storia del genere andava inquadrata nell’in­ sieme di operazioni militari e di avvenimenti non militari, e richiedeva in particolare la cono­ scenza di quanto facevano i servizi segreti dell’av­ versario). Pubblicazioni italiane recenti rivelano una no­ tevole ignoranza nei riguardi non solo delle attivi­ tà dei servizi segreti alleati ma anche della loro na­ tura e delle loro funzioni. A partire dalla primave­ ra del 1943 e in vista degli sbarchi di luglio opera­ va, in Sicilia soprattutto, l’Oss americano, creato da poco e composto di militari e civili. Operavano pure tre servizi britannici completamente separati e differenziati e composti solo di militari di cui il primo da sempre, il secondo a partire dall’autun­ no e il terzo dall’estate. Il Sis (Secret Intelligence Service), filiazione del MI 6, si occupava esclusi­ vamente di spionaggio, aveva la propria rete di ra­ dio clandestine e di contatti e, per ragioni di sicu- Elena Aga-Rossi, La politica angloamericana verso la Resistenza italiana, in F. Ferratini Tosi, G. Grassi, M. Legnani (a cura di), L ’Italia nella seconda guerra mondiale e nella Resistenza , cit., p. 154. 1 David W. Ellwood, L ’alleato nemico, Milano, Feltrinelli, 1977, p. 419. 160 Max Salvadori rezza, non aveva niente a che fare con altri servi­ zi; l’A Force o MI 9, la cui funzione — sul mo­ dello di quanto era stato fatto in Grecia dopo il disastro dell’aprile-maggio 1941 — era di far fug­ gire prigionieri di guerra (in Italia ne aiutò circa 10.000 a passare il fronte o a raggiungere la costa dove venivano imbarcati) e che pure aveva la sua rete; infine il Soe (Special Operations Executive, conosciuto sotto vari nomi, in Italia come Number 1 Special Force), corpo autonomo volontario delle forze armate britanniche, creato con lo sco­ po di aiutare la Resistenza operando clandestina­ mente in territorio occupato dal nemico e abitato da popolazioni presumibilmente in gran parte amiche. Nel settembre-ottobre 1984 il Soe è stato il tema di una serie televisiva prodotta dalla Bbc. Il 16 ottobre gli spettatori avevano visto l’episo­ dio dedicato all’Italia, “ splendido tributo agli italiani ed allo sforzo del Soe” , mi scrisse, forse esagerando, il giorno seguente da Londra un amico. Sul Soe in generale ci sono libri di Foot, Bevoor, Davidson ed altri. Vi è quanto scrissero nelle loro memorie di guerra ufficiali che ne avevano fatto parte, e quanto ne fu scritto, di solito fugace­ mente, in biografie, quale per esempio quella re­ cente di Tilman, conosciuto in G ran Bretagna per aver scalato cime deH’Himalaia, il quale, rotta­ si una gamba nel discendere con il paracadute, fu per parecchi mesi Blo (British Liaison Officer, uf­ ficiale britannico di collegamento) presso i parti­ giani garibaldini veneti1. Ma non esiste e non ci sa­ rà mai una storia completa per la semplice ragione che era norma, quasi sempre rispettata, mettere per scritto il meno possibile e distruggere il più di quanto era stato scritto. Accenni alla Special Force, a volte senza rendersi conto che si trattava di quella organizzazione, si trovano nella memo­ rialistica del tempo di guerra; con abbondanza di errori ne è stato scritto in storie serie e meno serie della Resistenza; oltre alle distorsioni dovute a schemi ideologici, per ragioni ovvie, la reticenza è stata regola. Il segreto era dettato dal fatto elementare che operando il Soe in territorio nemico occorreva prendere precauzioni — che a molti sembravano eccessive e che mai lo erano — per evitare che ar­ rivasse al nemico notizia di quanto si veniva pre­ parando (lancio di armi e altro materiale, invio di missioni) o che veniva progettato (demolizione di un ponte, costruzione di una pista di atterraggio, attacco ad un treno). L’Abwehr e la Sd — menzio­ nate da storici della Resistenza quasi esclusivamente per la funzione di torturatori e di carnefici — erano organizzazioni serie, anzi serissime (ne seppero qualcosa britannici ed olandesi puntual­ mente catturati appena arrivati nei Paesi Bassi e che fecero la fine che in tempo di guerra fanno gli irregolari ed in particolare i com battenti in borghese). Il segreto però faceva e fa lavorare Fimmaginazione: da allora molti hanno fantasti­ cato di piani machiavellici della “ perfida Albio­ ne” e dello sciocco zio Sam, di “manovre tenebro­ se della reazione in agguato” , frase allora di moda (“gli alleati [...] vogliono far massacrare i patrio­ ti” era “ sentimento diffuso nella maggioranza del movimento partigiano” , come scrive AgaRossi citando Spriano). Molti, chi intenzional­ mente e chi no, hanno scambiato posizioni e vel­ leità personali per decisioni prese da chissà quale vertice politico e militare che aveva ben altre pre­ occupazioni: la voce del padrone di marca totali­ taria non funzionò mai fra ufficiali e truppa allea­ ti, ognuno sbizzarrendosi a dire la sua senza bada­ re a direttive che di solito non c’erano. Andrebbe­ ro fatti dei confronti: oltre agli americani, anche francesi, sovietici e tedeschi avevano servizi ana­ loghi al Soe, di solito di minor rilievo ed aggregati ai servizi di informazione. Progettato embrionalmente nel 1938, il Soe venne strutturato a partire dal luglio 1940. Duran­ te il periodo di massima attività (1944) erano in forza complessivamente quasi 10.000 uomini ed oltre 3.000 donne. Dato il tipo di attività, la pro­ porzione di ufficiali era elevata, circa 2.800 alla fi­ ne del 1944. Nel Regno Unito vi erano il comando, i campi di addestramento (alcuni usati unitamente ai commandos), e le basi per operazioni al di là del Mare del Nord e della Manica. Operazioni nei Balcani e nel Vicino Oriente avevano come base 1 Basil Davidson, Special Operations Europe. Scenes from the anti-nazi war, London, Victor Gollancz ltd, 1980 (trad, italiana di Antonio Bronda, Milano, Rizzoli, 1981); Id., Partisan picture, Bedford, Gordon Fraser, 1946; Michael Foot, Resistance in France, London, Hmso, 1966; Harold William Tilman, When Men and Mountain Meet, Cambridge, Cam­ bridge University Press, 1946. Servizi segreti alleati e Resistenza una sezione del Soe al Cairo. Nel dicembre 1943 venne organizzato il Som (Special Operations Me­ diterranean) per operazioni nell’Europa meridio­ nale. Operazioni nell’Asia sud-orientale occupata dai giapponesi ebbero la loro base a Ceylon (Sri Lanka). Effettuate da gruppi di minuscola consistenza numerica, le operazioni del Soe andavano dal sa­ botaggio spicciolo di depositi militari, vie e mezzi di comunicazione, impianti industriali e altro, alla sovversione — oggi si direbbe destabilizzazione — su scala nazionale mediante il potenziamento di movimenti di resistenza. La creazione e l’attività del Soe furono condi­ zionate dalla situazione e dalle convinzioni dei po­ chi che presero l’iniziativa della sua istituzione e divennero i suoi primi organizzatori. Ripetendo cose conosciute, giova ricordare che nel 1938 la quasi totalità dei cittadini del Regno Unito e degli altri Stati indipendenti del Commonwealth — Au­ stralia, Canada, Eire (o Irlanda del Sud, in corso di disassociazione), Nuova Zelanda, Unione sud­ africana — erano contrari alla guerra. Memori del bagno di sangue del 1914-1918, erano pacifisti nel Regno Unito i conservatori (salvo pochissimi, in pratica Churchill ed alcuni suoi amici), i laburi­ sti (salvo nessuno), i liberali; negli altri Stati del Commonwealth erano pacifisti gli oriundi britan­ nici, ed era contraria ad una guerra, contro il Reich in particolare, la maggioranza dei cittadini non anglosassoni (afrikaners, franco-canadesi, ir­ landesi cattolici), spesso filonazisti; era contraria ad una guerra contro il Tripartito la quasi totalità degli abitanti politicizzati delle colonie, protettorati e mandati britannici. Il livello di preparazione militare era basso nel Regno Unito e quasi nullo negli altri Stati del Commonwealth. Come indice bastano due cifre: fra marina, esercito ed aviazio­ ne erano in servizio attivo nel Regno Unito poco più di 40.000 uomini e negli altri Stati del Com­ monwealth circa 33.000. In termini numerici, il rapporto di forza fra Terzo Reich e Regno Unito era all’incirca dell'ordine di tre ad uno. L’autonomia favorita dalla tradizione e dalla struttura istituzionale, che presentava una flessi­ bilità burocratica maggiore che in altri paesi, la­ sciava spazio ad iniziative personali; dissentendo dall’opinione pubblica e dalla posizione del parla­ mento e del governo, alcuni funzionari di alto li­ vello del ministero degli Esteri e di quello della 161 Guerra, d’accordo con poche personalità politi­ che, ritenevano che il dinamismo nazista, lungi dall’appagarsi di concessioni (la politica delfappeasement) avrebbe prima o poi costretto i britan­ nici a scegliere fra ulteriori concessioni equivalen­ ti ad una resa ed un confronto che poteva sfociare in un conflitto armato. Si sa che venne discusso a livello ministeriale, e bocciato in pieno, il memo­ riale del 1937 di sir Laurence Collier del Foreign Office, nel quale affermava che concessioni ad Hitler e a Mussolini avrebbero avuto effetto con­ troproducente. Nell’eventualità che nazione, parlamento e go­ verno scegliessero ad un certo momento il con­ fronto (come effettivamente avvenne a partire dal­ la crisi provocata dall’occupazione di Praga) oc­ correva compensare [’inferiorità militare con l’im­ piego di mezzi diversi da quelli convenzionali. Da qui la creazione dal 1938, quasi in sordina e su sca­ la assai modesta, di organismi la cui funzione era la pianificazione di attività operative clandestine: la Sezione D al ministero degli Esteri ed il GS(R), più tardi MI R, a quello della Guerra. Da qui anche contatti con esuli tedeschi in primo luogo, e poi italiani ed austriaci. Col succedersi delle crisi internazionali del 1938-1939, diventava evidente a quei dirigenti bri­ tannici, che sempre più numerosi rifiutavano l’al­ ternativa delle concessioni, che i francesi — i quali troppo avevano sofferto nel 1914-1918 — non sa­ rebbero andati oltre un’azione difensiva (nessuno però si aspettava il tracollo del maggio-giugno 1940); che gli Stati cosiddetti successori (Polonia, Piccola Intesa) non potevano nel migliore dei casi offrire più di una resistenza di breve durata; che modesto sarebbe stato inizialmente il contributo militare del Commonwealth e che l’Impero era un mito tanto sotto il profilo militare che sotto l’a­ spetto economico; che non vi era da fare assegna­ mento né sugli Stati Uniti (in preda all'isolazioni­ smo malgrado Roosevelt) né sull’Unione Sovieti­ ca, i cui dirigenti erano ossessionati dall’odio per il “ capitalismo” identificato soprattutto con la Gran Bretagna. Per un periodo del quale era im­ possibile prevedere la durata, la guerra sarebbe stata un duello fra 80 milioni di tedeschi satanica­ mente entusiasti, quelli del Reich ottimamente ar­ mati ed addestrati, sostenuti da un’economia flori­ da ed efficiente, rafforzati da alleati, clienti e quin­ te colonne influenti, e 60 milioni di britannici ed 162 Max Salvadori oriundi britannici del Commonwealth, scarsamen­ te armati, dotati nel Regno Unito di strutture eco­ nomiche antiquate, privi di validi appoggi esterni. Fra i britannici era vivo il ricordo della guerra boera, quando poche diecine di migliaia di irrego­ lari tennero testa a truppe regolari dieci volte più numerose, e del successo dei guerriglieri in Arabia nel 1916-1918 ed in Irlanda nel 1919-1921: era na­ turale pensare a qualcosa di analogo per resistere durante gli anni necessari a trovare alleati e a crea­ re una forza militare capace di affrontare da pari a pari il Reich hitleriano. Il 20 marzo 1939 i dirigenti della Sezione D e del MI R presentarono al capo di stato maggiore un memoriale che suggeriva la creazione di un corpo specializzato, per operazioni clandestine in Stati danubiani particolarmente esposti a pres­ sioni tedesche. Vennero autorizzati lo studio del­ la “procedura per eventuali azioni di guerriglia” e, sul piano pratico, la fabbricazione di materiale utile a sabotaggio e guerriglia. Vennero appron­ tati alcuni manuali il cui autore, generale Colin Gubbins, divenne nel 1943 comandante del Soe: L ’arte della guerriglia, Manuale del partigiano, L ’uso di esplosivi. L’arrivo a Londra nel marzo 1939 di personale dei servizi segreti cecoslovacchi facilitò più tardi operazioni del Soe nel protettorato di Boemia e Moravia (ad esempio 12 missio­ ni vennero inviate neH’invemo 1941-1942), sospe­ se dopo l’eccidio di Lidice, e portò al tentativo di operazioni in Slovacchia, conclusosi con l’ucci­ sione dei partecipanti. La Sezione D inviò perso­ nale in Ungheria, Romania e Jugoslavia. Ufficiali britannici, recatisi a Varsavia nell’agosto 1939, lasciarono radio trasmittenti e cifrari a personale dei servizi segreti polacchi: il collegamento fra Londra e la Resistenza polacca funzionò sino alla fine dell’insurrezione di Varsavia (2 ottobre 1944). Nell’aprile-giugno 1940 compagnie “auto­ nome” di sabotatori cooperarono con unità del­ l’esercito norvegese. Contatti con la Francia oc­ cupata vennero mantenuti tramite le dieci radio trasm ittenti affidate nel maggio-giugno 1940 a personale dei servizi segreti francesi. Il 25 maggio 1940, quando si profilava la possi­ bilità che Regno Unito e Commonwealth rimanes­ sero soli contro il Reich hitleriano, validamente appoggiato in tutti i continenti dal nazifascismo diventato movimento mondiale, il comando su­ premo britannico chiedeva al governo l’autorizza­ zione ad organizzare azioni clandestine da affidare a un corpo militare specializzato, col duplice sco­ po di recare il maggior danno economico al nemi­ co e di indebolirne il morale. Entro quattro setti­ mane — oltre a perdere in Francia la quasi totalità dell’armamento dell’esercito — la possibilità era diventata realtà. Col consenso del gabinetto di guerra del quale facevano parte conservatori, laburisti e liberali, il primo ministro — dal 10 maggio Churchill — autorizzava in luglio la fusione della Sezione D e del MI R, creando il Soe, dotato di un proprio sta­ tuto e di piena autonomia, e affidava a Hugh Dalton, allora il numero due del partito laburista e mi­ nistro della guerra economica, la responsabilità di guidare la nuova organizzazione e di rappresen­ tarla nel gabinetto. “ Set Europe ablaze” , mettete a fuoco l’Europa, sembra che Churchill dicesse ac­ comiatandosi dai suoi collaboratori. Dalton avrebbe voluto fare del Soe una “quarta arma” a pari livello delle armi tradizionali. Man­ cavano i mezzi. Non ci riusci. Coadiuvato da un consiglio dei 16 membri (metà militari e metà civi­ li), erano di sua competenza la formulazione di di­ rettive generali nell’ambito di piani strategici deci­ si dal governo in collaborazione col comando su­ premo, il coordinamento con le altri armi, l’azione di controllo diretta ad assicurare l’efficienza del­ l’organizzazione, la gestione finanziaria. Il Foreign Office chiese che venissero evitate azioni che potevano portare a rappresaglie contro la po­ polazione. Fra i collaboratori di Dalton (sostituito dal 1942 da lord Selborne) vi furono Hugh Gaitskell, a partire dal 1955 capo del partito laburista, ed il diplomatico Gladwyn Jebb, più tardi capo del gruppo liberale alla camera dei Lord. Dell’orga­ nizzazione e delle operazioni del Soe vennero inca­ ricati ufficiali che, giovanissimi, si erano distinti durante la prima guerra mondiale, ed altri che nel 1939-1940 erano stati in Polonia, Finlandia e Norvegia o avevano organizzato nel Regno Unito unità di sabotatori e guerriglieri, che avrebbero operato nell’eventualità (per molti britannici cer­ tezza) di uno sbarco tedesco. Per i britannici era un periodo tragico. Mate­ rialmente e psicologicamente i sette mesi da mag­ gio a novembre 1940 furono forse i più difficili del­ la guerra. Non ci fu lo sbarco ma ci furono i bom­ bardamenti aerei (mille aereoplani tedeschi in un sol giorno!) e la distruzione di un quinto dei fab­ Servizi segreti alleati e Resistenza bricati, il blocco dell’isola ed il siluramento di mi­ lioni di tonnellate di naviglio prezioso che portava materie prime per l’industria di guerra e cibo per la popolazione; ci furono l’evacuazione di bambini ed anziani dalle città più esposte, e la mobilitazio­ ne totale di uomini e donne in grado di portar armi e di lavorare. Il Soe ebbe difficoltà ad organizzar­ si. Faceva difetto il materiale. Mancavano esplosi­ vo ed armi di ogni genere, ed anche campi di adde­ stramento, uniformi, razioni. Era limitato il finan­ ziamento. Totalmente impegnata nel mantenere aperte vie di comunicazione, la Marina non aveva imbarcazioni da mettere a disposizione del Soe. Nella misura in cui vi era naviglio disponibile, ave­ vano priorità i commandos, organizzati anch’essi nell’estate del 1940. L’aviazione — quantitativa­ mente inferiore a quella tedesca — non aveva ri­ serve di aereoplani né prima né dopo le battaglie aeree dell’estate e autunno 1940. Ancora nell’ago­ sto 1941 il Soe non disponeva che di 5 aereoplani, saliti ad una trentina alla fine del 1942. Il recluta­ mento era reso difficile dalla mobilitazione totale e dalla priorità delle forze armate regolari e dell’eco­ nomia. Una selezione severa veniva compiuta du­ rante l’addestramento che richiedeva parecchi me­ si: non bastavano un buon fisico e coraggio in si­ tuazioni che richiedevano nervi a posto, iniziativa, tenacia, conoscenza intima di lingue, costumi e mentalità stranieri, abilità tecniche svariate, dalla produzione di documenti falsi all’uso di esplosivi e di cifrari, abilità anche ad individuare agenti provocatori, maestri del doppio gioco ed altri ruf­ fiani che gravitano intorno ai servizi segreti. Uffi­ ciali e sottufficiali in missione — cioè in territorio occupato dal nemico — avevano piena autonomia e non potevano contare che su se stessi. Non fu unico il caso dell’ufficiale Soe rimasto isolato in Malesia dopo la caduta di Singapore, riapparso dopo due anni, organizzatore di partigiani che die­ dero filo da torcere ai giapponesi, e la cui azione venne ritenuta l’equivalente di quello che avrebbe potuto fare un reggimento. Variava da paese a paese la possibilità di trova­ re volontari fra gli abitanti di territori occupati in cui il Soe era autorizzato ad operare (nel 1942 14 Stati europei, escludendo quelli baltici, 15 a parti­ re dall’estate 1943 quando vi fu inclusa l’Italia, e colonie e protettorati asiatici ed africani). Per quanto sia doloroso ammetterlo, occorre tener presente che dovunque vi erano, a volte numerosi, 163 nazifascisti e loro compagni di viaggio. Né era sufficiente essere antitedesco, antigiapponese e antiitaliano (nei Balcani occidentali, in Africa orientale) per essere disposto ad entrare nella Re­ sistenza militante. I rischi erano molti: per esem­ pio veniva detto a francesi che arrivavano in Gran Bretagna e, presi accordi col Soe, volevano rien­ trare in Francia che le possibilità di sopravviven­ za erano del 50 per cento (furono in realtà di circa il 75 per cento). Dovunque erano efficienti la Abwehr e la Sd che potevano contare su una fitta re­ te di collaboratori ossequiosi e a volte tragica­ mente numerosi. Un fattore negativo di portata non indifferente fu rappresentato dal sentimento antibritannico, largamente diffuso in settori a vol­ te maggioritari di nazioni mediterranee ed asiati­ che, acuito in Francia dalla tragedia di Orano del 3 luglio 1940, in cui persero la vita 1.300 ma­ rinai francesi, cannoneggiati da una squadra in­ glese. Sin dal 1939 furono numerosi i cechi, i polacchi, gli ebrei di ogni nazionalità desiderosi di coopera­ re col Soe, poi anche norvegesi, olandesi ed altri. Malgrado la vicinanza, i numerosi contatti perso­ nali cordiali, la base in Gran Bretagna della France Libre, i frequenti collegamenti radio, ci volle del tempo prima che in Francia venissero costituiti nuclei di resistenti in grado di operare in collaborazione col Soe. Lo stesso avvenne in Grecia, dove unità del Soe avevano accompagnato il corpo di spedizione del Commonwealth sbarcato nel marzo 1941, ed erano rimaste dopo la vittoria tedesca (una o due sconfinando in Albania). Dopo l’occu­ pazione della Jugoslavia da parte dell’Asse ci vol­ lero cinque mesi per stabilire un primo contatto con la Resistenza che riconosceva la legittimità del governo in esilio, di più per arrivare alla Resi­ stenza antigovernativa (titina). Quando il Cairo era la base per operazioni nei Balcani, un ostacolo fu rappresentato dalla presenza, fra egiziani politi­ cizzati, come pure nel resto del mondo musulma­ no, di numerosi ammiratori e partigiani del Reich hitleriano. La direttiva esplicita di usare come criterio nelle relazioni con la Resistenza la capacità di recar danno al nemico, escludeva prese di posizione po­ litiche. D ’altra parte ogni movimento di Resisten­ za aveva un aspetto politico la cui natura e portata spesso sfuggivano sia al comando del Soe che agli ufficiali di collegamento — come, d ’altra parte, 164 Max Salvadori mancava fra i resistenti, salvo pochissimi, la com­ prensione non solo delle difficoltà di ogni genere che i britannici dovevano affrontare ma anche e soprattutto della m entalità britannica e di ciò che, nel Regno Unito e negli altri Stati indipenden­ ti del Commonwealth, era ritenuto importante. Creava malintesi per esempio l’istituto monarchi­ co che in nazioni mediterranee era sinonimo di autoritarismo reazionario, mentre per i britannici si riassumeva nell’espressione del “re che regna ma non governa” , il re personificando la continuità dello Stato (funzione essenziale in particolare nei regimi democratici) e spettando il governare esclu­ sivamente al parlamento, ed ai rappresentanti li­ beramente eletti dai cittadini. La quasi totalità del personale del Soe, ad ogni livello, rientrava po­ liticamente nell’ambito deH’antiautoritarismo de­ moliberale, moderato a destra e riformista a sini­ stra, che da generazioni caratterizzava i popoli bri­ tannici ed oriundi britannici, e che si riassumeva in pochi principi: self-government o autogoverno co­ stituzionale democratico; pluralismo; coesistenza, nell’ambito di leggi uguali per tutti, del rispetto re­ ciproco e della partecipazione al processo demo­ cratico; economia approssimativamente di merca­ to. Tali principi raramente erano menzionati per­ ché ritenuti naturali o quasi. Vi erano (non molti) simpatizzanti stalinisti (due al Cairo vennero uti­ lizzati per collegamenti con partigiani balcanici, uno venne poi aggregato ad una missione inviata in Alta Italia). Ex simpatizzanti del Buf (l’organiz­ zazione fascista britannica), se ve ne erano, non si fecero notare. M olto si è scritto e si continua a scrivere di “ideologia anticomunista” britannica — soprat­ tutto da parte .di chi non sa cosa sia l’empirismo, il modo di pensare prevalente fra britannici ed oriundi britannici. Occorre intendersi. Lo stalini­ smo degli anni trenta e quaranta non era il comu­ nismo eterogeneo, con punte perfino liberali, degli anni ottanta. Eccettuate poche diecine di migliaia di stalinisti e loro compagni di viaggio, cittadini britannici di ogni ceto e convinzione vedevano nell’Urss stalinista un avversario temibile. Il timore che incuteva presentava due aspetti: da una parte, l’immagine della Russia, stato vasto e potente col quale — come tutti i giovani imparavano a scuola — vi era stata per generazioni (anche se ignorava­ no le date, 1814-1907 e dal 1917 in poi) una guerra fredda, calda nel 1853-1856, interrotta per far fronte al militarismo tedesco e ripresa in seguito al colpo di stato leninista; dall’altra, la rappresen­ tazione dei comunisti che odiavano visceralmente la democrazia (capitalismo nel loro gergo), aveva­ no tradito gli alleati durante la prima guerra mon­ diale prolungando sofferenze e moltiplicando per­ dite umane e si erano schierati apertamente con la Germania in seguito all’accordo Hitler-Stalin del 23 agosto 1939. Pochi credevano che l’Urss avreb­ be collaborato con la Francia e la Gran Bretagna se a Monaco, invece di sacrificare la Cecoslovac­ chia, si fosse deciso di rischiare la guerra. Con la Russia, si poteva, forse, arrivare ad un compro­ messo, con i comunisti pure: con la Russia comu­ nista era ben difficile. Questo era l’atteggiamento comune in Gran Bretagna durante la guerra. Que­ sto era il tema di conversazioni fra gli ufficiali e fra le reclute del Soe. Non si trattava di ideologia ma di constatazione di una situazione di fatto. La Resistenza fu raramente un movimento uni­ tario anche se a volte diede l’impressione di esser­ lo, per esempio nel protettorato di Boemia e Mo­ ravia, in Norvegia e, fino al 1944, in Polonia; per­ ciò alcuni ufficiali di collegamento del Soe in mis­ sione si schierarono con una fazione o un’altra, mentre i più tentarono di mantenere contatti con le varie fazioni e di indurle a compiere un’azione comune. Accadde in Francia, dove ufficiali del Soe fecero incontrare Moulin e De Gaulle e pro­ mossero la formazione del Conseil N ational de la Resistance, poi del Cfln (Comité français de li­ bération national) e delle Ffi (Forces françaises de l’Intérieur); l’accordo di Algeri fra gollisti e giraudisti, promosso dal Soe, rimase invece lettera morta. In Grecia, personale Soe si collegò con bande di andartes [insorti] e successivamente con gruppi che facevano capo ai “sei colonnelli”, col Fronte di liberazione nazionale (Earn), con la Le­ ga repubblicana (Edes), col Fronte di Liberazione nazionale e sociale (Ekka); sotto l’egida del Soe vi fu una temporanea cooperazione fra Earn e Edes, per esempio in un’impresa riuscita del novembre 1942; un incontro nell’agosto 1943 al Cairo fra esponenti dell’Eam, dell’Edes e dell’Ekka non die­ de invece risultati tangibili. Una missione Soe sbarcata sulla costa montenegrina nel settembre 1941 raggiungeva i cetnici serbi; seguirono altre missioni britanniche ed americane, e l’invio di un quantitativo modesto (220-230 tonnellate) di ma­ teriale; nel maggio del 1943 una prima missione Servizi segreti alleati e Resistenza raggiungeva i partigiani dell’Avnoj, la coalizione creata poco prima da Tito; dato il ruolo militare della Jugoslavia la quale —- secondo quanto di­ chiarò Churchill — nel maggio 1943 impegnava 15 divisioni tedesche ed altre 30 divisioni nemiche, un generale di brigata venne inviato in settembre dal Soe presso i partigiani che già ricevevano rifornimenti alleati via mare. La relazione del gene­ rale indusse il comando Soe a chiedere al governo l’autorizzazione a sospendere rifornimenti ai cetnici (continuati su scala sempre modesta dagli americani), concentrando gli aiuti sui partigiani di Tito. In Albania missioni Soe presenti sin dalla primavera del 1941, erano in collegamento col Fronte nazionale nel nord del paese, con residui zoghisti e col Movimento di liberazione nazionale organizzato nel settembre 1942 e diretto da Hoxha. Di sei missioni inviate in Ungheria nel 1944, cinque vennero catturate dai tedeschi, la sesta fu costretta a sconfinare in Jugoslavia. Dopo l’invio di missioni dall’esito disastroso, esponenti del Soe stabilirono in Romania contatti col Fronte pa­ triottico organizzato nel giugno 1943 per iniziati­ va comunista, con i resistenti che facevano capo a Maniu, massimo dirigente dell’ex partito dei con­ tadini, e con quelli che facevano capo ad esponen­ ti liberali; in Bulgaria stabili contatti col Fronte patriottico organizzato già nel 1942. Nei territori francesi di oltremare il Soe si trovava nella neces­ sità di collegarsi separatamente con la Resistenza gollista e con quella antigollista. Nelle società plu­ rinazionali della Birmania, della Malesia e dell’In­ donesia, l’atteggiamento verso i giapponesi varia­ va radicalmente da gruppo etnico a gruppo etnico e vi erano resistenti alla macchia e resistenti in or­ ganizzazioni che appoggiavano gli invasori. Mal­ grado le direttive, malgrado anche la ripugnanza sincera e profondamente sentita a relegare in se­ condo piano l’azione militare — clandestina dei sabotatori, aperta dei guerriglieri — l’ufficiale di collegamento era spesso costretto ad occuparsi di politica. L’invio di missioni per stabilire collegamenti era il primo passo. Il secondo era l’invio del mate­ riale di guerra ed altri rifornimenti destinati a po­ tenziare la Resistenza. Qui vi fu di regola un diva­ rio notevole fra operazioni e loro risultato — fra quello che il Soe faceva e quello che la Resistenza riteneva dovesse essere fatto. Bastano alcuni esem­ pi, che occorre tradurre in termini di sforzi com­ 165 piuti da una parte e di delusioni dall’altra. Su 5 lanci effettuati nell’autunno 1943 per rifornire il Cln laziale, uno solo riuscì; negli altri casi il mate­ riale cadde in mano a tedeschi, a repubblichini e a gente del luogo. Su quasi 900 voli effettuati nel gennaio-aprile 1945 per rifornire i Volontari della libertà nelfltalia del Nord, ne riuscirono poco più di 500 (a seconda del tipo di velivolo usato, ogni aereoplano portava da 1,2 tonnellate di materiale a 2 tonnellate). La Resistenza norvegese veniva in­ formata del numero di lanci e teneva una contabi­ lità del materiale ricevuto; il Soe sapeva anche dei 23 aereoplani perduti (spesso con i loro equipaggi) e di numerose operazioni via mare fallite. Il 20 set­ tembre 1944 vennero lanciati agli insorti di Varsa­ via 1.284 contenitori: gli insorti ne raccolsero 228. Nel 1944 il comando Soe riteneva che su tre voli diretti in Francia, in media uno falliva a causa del maltempo, dell’assenza di partigiani all’appun­ tamento, di errori compiuti dai piloti, e che neppu­ re l’80 per cento del materiale effettivamente para­ cadutato arrivava a destinazione. Dopo la libera­ zione risultò che su mezzo milione di armi di ogni genere inviate alla Resistenza francese, due quinti non vennero usate contro i tedeschi, ma accanto­ nate da gruppi partigiani che volevano servirsene più tardi per uso interno. Secondo dati incompleti, circa 40.000 tonnella­ te di materiale di ogni genere — per quattro quinti armi, munizioni ed esplosivo, il resto medicinali, vestiario, generi alimentari — vennero inviate alla Resistenza presente negli stati europei occupati dal nemico. Quantitativi modesti vennero inviati via mare (per esempio 300 tonnellate ai partigiani norvegesi), il resto via aria per un totale di diecine di migliaia di voli. Alla vigilia dello sbarco in Nor­ mandia, il Soe stimava che i partigiani combatten­ ti francesi fossero circa 140.000, quelli jugoslavi 250.000, quelli italiani un po’ meno di 100.000. Quasi un terzo del materiale inviato era destinato alla Resistenza francese, un po’ più di un terzo alla Resistenza jugoslava (i partigiani titini ricevettero cinquanta volte di più di quello che avevano rice­ vuto i cetnici di Mihajlovic). Incluso quanto andò perduto, circa 3.000 tonnellate vennero inviate al­ la Resistenza italiana (i dati sono incerti: una rela­ zione della Royal Air Force dà un totale di oltre 4.000 tonnellate, incluse forse quelle lanciate per conto dell'Oss). La Resistenza danese e quella nor­ vegese ricevettero ognuna armi sufficienti per 166 Max Salvadori 25.000 combattenti, quella olandese ebbe 30.000 fucili-mitragliatori. Secondo dati solo parzialmente attendibili, fra personale proprio e volontari di varie nazionalità, 6.700 persone vennero inviate dal Soe nell’Europa occupata; di queste 1.784 in Francia. Grazie al Soe migliaia vennero evacuati (fra i francesi un futuro presidente della repubblica che stava per essere catturato dai tedeschi), inclusi i fuorusciti italiani, prevalentemente dell’area democratica ed anche alcuni vicini al Pei (l’evacuazione nell’inverno 1942 dalla Francia non occupata di un esponente il quale ebbe a Londra un incontro disastroso col futuro primo ministro laburista Attlee, ed il suo ritorno, costarono ai contribuenti britannici — il Soe era obbligato a tenere conti dettagliati — l’equivalente di trenta milioni di lire di oggi). Con la cooperazione dell’Oss, il Soe evacuò dalla Jugoslavia circa 12.000 persone, la maggior parte partigiani feriti, poi curati in ospedali della Puglia. Moulin, Tito, Cadorna furono fra i dirigenti della Resistenza armata che vennero aiutati a passare il fronte in una direzione o nell’altra o in ambedue. Il Soe organizzò e fece funzionare per periodi a volte abbastanza lunghi proprie vie di comunica­ zione, come la Comet da Bruxelles a Gibilterra [la via cioè che utilizzava l’aviazione alleata], usata da circa 700 persone. Il tasso di perdite umane variava, ma vi sono solo dati parziali. A titolo di esempio: del persona­ le Soe e dei volontari addestrati dal Soe catturati dai giapponesi, quasi nessuno sopravvisse; delle 51 persone, venute dalla Gran Bretagna fra il mar­ zo 1942 ed il maggio 1943 e catturate dall’Abwehr nei Paesi Bassi, sopravvissero solo in 5; peri circa un quarto delle 400 persone sbarcate o paracadu­ tate da una delle sezioni del Soe con l’incarico di avviare operazioni in Francia; sempre in Francia perirono 13 delle 53 donne inviate dal Soe, e 7 dei 27 polacchi inviati alla vigilia dello sbarco in Normandia per rafforzare i réseaux creati da im­ migrati polacchi; 95 furono i britannici uccisi del Som che aveva una forza l’equivalente di circa un battaglione. “Operazioni Speciali” era un’espressione elasti­ ca. Rientravano nell’ordinaria amministrazione il ritorno a Dunkerque di tre ufficiali per distruggere un deposito di 200.000 tonnellate di combustibile; le 950 azioni effettuate in Francia durante la notte dal 5 al 6 giugno 1944; la distruzione di 37.000 ton­ nellate di naviglio giapponese compiuta da una missione i cui membri persero la vita. Vi era altro. Personale del Soe partecipò agli avvenimenti del 25-28 marzo a Belgrado che contribuirono a ritar­ dare di alcune settimane l’attacco tedesco all’Urss (l’informazione sull’operazione Barbarossa otte­ nuta a Belgrado e confermata da altre fonti venne trasmessa da Churchill a Stalin il quale scelse di non tenerne conto). Fallì nel 1941 il tentativo di bloccare il Danubio alla Porta di Ferro. Nello stes­ so anno il Soe assistè il generale americano Dono­ van nell’organizzare l’Oss, ben presto attivo sia in Europa e nel Mediterraneo, sia in Estremo Orien­ te. Personale Soe danneggiò nel 1941 il centro clandestino tedesco che dal Messico trasmetteva istruzioni a sottomarini che operavano nel Mare delle Antille e nel Golfo del Messico, e nel 1942 mise fuori servizio l’altro centro che a Tangeri gui­ dava sottomarini nemici nello stretto di Gibilterra. Un’incursione effettuata da una squadra di 9 uo­ mini distrusse, in Norvegia, l’impianto di Rjukan per la produzione di acqua pesante, provocando un ritardo notevole negli esperimenti di scienziati tedeschi impegnati nella fabbricazione dell’arma segreta (bomba atomica) alla quale fecero allusio­ ne nei loro discorsi il Führer e il duce. Gli scienzia­ ti ai quali era stata affidata nel 1942 l’esecuzione del Progetto M anhattan per la costruzione di una bomba atomica avevano bisogno della colla­ borazione del Premio Nobel danese Niels Bohr: forniti di una lettera di un amico britannico di Bohr, ufficiali del Soe lo raggiunsero in Danimar­ ca e lo condussero in Svezia, da dove passò in Sco­ zia e poi negli Stati Uniti. La missione sovietica, guidata da un generale e inviata in Jugoslavia nel gennaio 1944 per prendere accordi con l’Avnoj, raggiunse il quartier generale di Tito con l’aiuto del Soe. Nell’aprile 1944 una missione Soe catturò nell’isola di Creta un generale tedesco e lo portò al Cairo. Occorreva grafite, della quale il Madagascar era un im portante produttore: il Soe aiutò francesi liberi ad occupare l’isola e la grafite divenne disponibile. Occorreva chinino, prodotto allora soprattutto in zone occupate dai giapponesi: lo procurò il Soe. Alla pari della Germania e del Giappone, come Stato nemico, abitato presumibilmente da popola­ zione in maggioranza leale all’Asse ed al Triparti­ to, avversa agli alleati ed in particolare ai britanni­ ci, fino all’estate del 1943 l’Italia non rientrava Servizi segreti alleati e Resistenza nella zona operativa del Soe. Scarsa — non solo nel Regno Unito — era la conoscenza della situa­ zione interna italiana. Restava l’impressione creata da folle inneggianti all’Impero e da imponenti ma­ nifestazioni antibritanniche ed antifrancesi. Dopo il 10 giugno 1940 fonti di informazione, e di disin­ formazione, erano i diplomatici segregati nella Cit­ tà del Vaticano, gli agenti e i doppi agenti del Sis, gli esuli e i profughi tagliati fuori dalla realtà italia­ na, gli intellettuali, gli uomini politici e gli uomini d’affari britannici interessati all’Italia i quali poco sapevano e meno comprendevano. A Londra ed a Washington arrivavano rapporti e rapportini to­ talmente inattendibili e che nessuno prendeva sul serio. Ogni notizia riguardava ambienti ristretti, mancavano contatti con le masse: era ignorata l’e­ straneità di settori sempre più vasti della nazione; niente trapelava della creazione nel 1942 del Parti­ to d’azione e della riorganizzazione di forze socia­ liste, di scioperi nel triangolo industriale. Le autorità britanniche sapevano qualcosa del frondismo antitedesco in Italia solo parzialmente e vagamente antifascista, in ambienti ufficiali, uffi­ ciosi e salottieri e ne erano esagerati sia la portata che l’impegno. Venivano ripetuti i soliti nomi: Ca­ viglia, Badoglio, la principessa di Piemonte. L’an­ tifascismo militante clandestino, conosciuto in ma­ niera vaga e distorta tramite giornalisti ed esuli, era ritenuto fenomeno di scarso rilievo, anche se a Londra erano rispettati in particolare Sturzo e Sforza. Relazioni sullo stato d’animo in comunità italiane all’estero erira oriundi italiani nelle Ameri­ che e sondaggi fra i prigionieri di guerra conferma­ vano che, pur essendo pochi i filotedeschi (anche fra i fascisti), fatta eccezione per gli italiani residen­ ti in Africa orientale (i quali auspicavano aperta­ mente la vittoria tedesca), aveva avuto successo la propaganda antibritannica orchestrata dal regi­ me. In ambienti di esuli e di profughi erano antialleate le componenti marxiste ed anarchiche (salvo alcune notevoli eccezioni fra queste ultime) ed era antibritannica la componente salveminiana. D u­ rante la campagna di Sicilia la popolazione si era tappata in casa e la maggioranza di quanti si erano fatti avanti per collaborare col governo militare al­ leato non riusciva a conquistarsi la sua fiducia. I manifestanti del 26 luglio erano contro la guerra, ma questo non voleva dire che fossero filoalleati. Anche dopo la decisione di iniziare l’offensiva sul continente europeo con attacchi che, si spera­ 167 va, avrebbero messo l’Italia fuori combattimento, il comando Soe non ritenne opportuno impegnare nella penisola personale e mezzi, egualmente scar­ si. L’attività clandestina alleata si limitava al servi­ zio informazioni e all’addestramento da parte dell’Oss di siculoamericani per una eventuale infiltra­ zione in Sicilia. Il comando Soe di fronte al colpo di Stato del 25 luglio espresse soddisfazione, per­ ché cominciava ad avverarsi la previsione di un collasso politico-militare italiano, ma non entusia­ smo: il maresciallo Badoglio veniva messo nella categoria delle personalità ambivalenti e perciò es­ senzialmente infide. Della stessa categoria aveva­ no fatto parte il reggente jugoslavo Paolo Karageorgevich e l’alto commissario francese nell’Afri­ ca del Nord, ammiraglio Darlan. In agosto venne paracadutato il tenente Mallaby del Soe: catturato immediatamente e torturato, venne poi utilizzato per contatti connessi ai negoziati fra alleati e Ba­ doglio. Durante i negoziati che culminarono con l’armistizio del 3 settembre, ufficiali del Soe entra­ rono in relazione col Sim (Servizio di informazio­ ne militare), sospettato però, allora e dopo, di am­ biguità. Soprattutto per tastare il terreno, piccole unità Soe accompagnarono l’8a Armata in Sicilia e la 5a Armata a Salerno. Grazie a queste unità raggiunsero Siracusa o Salerno esuli che volevano riprendere in territorio occupato l’attività clandestina alla quale si erano dedicati prima di espatriare o alla quale avevano contribuito dall’estero: alcuni passarono le linee a piedi prima che il fronte si stabilizzasse sulla li­ nea Gustav, altri vennero paracadutati o sbarcati, preferibilmente sulla costa tirrena. Altri esuli ri­ masero in territorio liberato, si incontrarono con compagni della Resistenza lunga (quella del ven­ tennio) e con altri che avevano partecipato alla riorganizzazione dell’antifascismo militante nel 1942. Creata in territorio liberato una organizza­ zione Cln, ufficiali del Soe ne facilitarono le attivi­ tà, che culminarono nel congresso di Bari del gen­ naio 1944 e nella formazione in aprile di un gover­ no con partecipazione Cln. I nomi di esuli rientrati in Italia subito dopo gli sbarchi di luglio e di settembre, sono noti ma, a di­ stanza di oltre quaran’anni, vale la pena di ricor­ darne alcuni. Il primo ad essere paracadutato dal Soe in territorio occupato (a sud di Empoli il 23 o 24 settembre 1943) fu Petacchi, militante anar­ chico, il quale in brevissimo tempo riusci a metter­ 168 Max Salvadori si in rapporto con compagni del carrarese ed orga­ nizzò bande partigiane per conto del comando mi­ litare del Ctln (Comitato toscano di liberazione nazionale). Grazie al Soe arrivarono in Italia, chi dagli Stati Uniti, chi dal Messico, chi da Londra, Claudio Cianca, Antonio Gentili, Bruno Pierleoni, Alberto Tarchiani, i quali rimasero nel 19431944 a Napoli rafforzando l’alternativa a Bado­ glio rappresentata dal Cln. Arrivarono Leo Valiani e Renato Pierleoni, i quali in ottobre passarono il fronte, recandosi uno a Milano e l’altro a Roma; Roberto Almagià, già ufficiale d’aviazione, il qua­ le riprese servizio col poco che restava delle forze aeree italiane; Aldo Garosci, che nel gennaio 1944 venne paracadutato vicino a Roma insieme al figlio di Guido De Ruggero. Arrivò Sforza, ospitato a Napoli da Caracciolo, amico di La Mal­ fa: checché ne pensassero Churchill ed Eden (e l’o­ norevole Francesco Frola nel libro osceno II vec­ chio scemo ed i suoi compari2), Sforza venne tratta­ to col riguardo dovuto all’esponente più noto del­ l’antifascismo italiano nelle due Americhe, il quale — come molti nel Soe si aspettavano — poteva un giorno dirigere il governo italiano. Erano state trasferite in Puglia le basi operative per azioni Soe in paesi balcanici e danubiani. Le operazioni nei Balcani avevano precedenza asso­ luta su quelle in Italia, particolarmente operazioni in Jugoslavia, perno strategico di sempre maggio­ re importanza per sottrarre forze tedesche sia al fronte occidentale che a quello orientale. Nell’ot­ tobre 1943 una unità del Soe, equivalente circa ad una compagnia, arrivò in Puglia per crearvi una base per operazioni nell’Italia occupata. Era­ no già giunti in territorio liberato, fra gli altri, in­ viati del Ccln (Comitato centrale di liberazione na­ zionale) e del Cln regionale marchigiano. Dopo es­ sere stati identificati, presero accordi per l’invio di armi, di munizioni, di esplosivo e di radio trasmit­ tenti, e vennero aiutati a rientrare nelle loro sedi. Tra andata e ritorno se ne andavano dalle sei alle otto settimane. Al Nord, prima Parri e Valiani, poi altri passarono la frontiera e si misero in contatto col rappresentante del Soe (e con quello dell’Oss) in Svizzera. Su indicazione del Ccln, ufficiali Soe cercarono il generale Giuseppe Pavone e diedero il via all’iniziativa di creare nell’autunno 1943 un 2 corpo autonomo di volontari italiani per azioni di sabotaggio e di guerriglia; trattandosi soprat­ tutto di azioni sul versante tirrenico in cui operava la 5a Armata, su richiesta americana, l’iniziativa venne passata all’Oss. Arrivarono ex prigionieri di guerra evasi l’8 settembre da campi di concen­ tramento, i quali — oltre ad esprimere ammirazio­ ne e gratitudine per la generosità della popolazio­ ne che li aveva aiutati — diedero notizie, di solito piuttosto vaghe, su gruppi a volte numerosi di re­ sistenti armati desiderosi di collegamenti con gli alleati e bisognosi di rifornimenti. Il Soe venne an­ che a sapere di iniziative prese da ex prigionieri di guerra rimasti in territorio occupato, come la for­ mazione di un Battaglione internazionale nell’Apuania. Chi non è in grado di rivivere nella mente la si­ tuazione di allora, non sa quanto fosse difficile mettere insieme i pezzi del puzzle che era la Resi­ stenza. Di essa si avevano notizie incerte, vaghe, spesso contraddittorie, a volte esagerate, quasi sempre distorte, giunte da fonti disparate con una lentezza esasperante. Ci vollero settimane e mesi per ottenere un quadro che nelle linee genera­ li poteva essere ritenuto corretto di quanto era av­ venuto dopo l’8 settembre e di quanto avveniva a Nord del fronte. Condizionati dagli eventi prece­ denti e dai luoghi comuni largamente diffusi, po­ chi fra gli alleati si erano aspettati la disintegrazio­ ne completa del fascismo e quella quasi completa delio Stato, il dileguarsi dell’esercito ed il distacco assoluto della maggioranza della popolazione dal­ l’alleato di ieri — distacco che per molti era odio. Il comando della Special Force venne a sapere, con sorpresa e con compiacimento, di scontri un po’ dovunque fra italiani e tedeschi nei giorni suc­ cessivi all'annuncio dell’armistizio; comprese che le giornate di Napoli non erano state un fatto iso­ lato, accelerato dall’avvicinarsi di truppe alleate, ma l’indice di quanto sarebbe prima o poi avvenu­ to in tutta l’Italia occupata. Divenne chiaro che spontaneamente, senza che vi fosse stata un’auto­ rità centrale, senza che vi fossero direttive, un mo­ vimento di resistenza armata contro i tedeschi ed i loro non numerosi collaboratori si era formato ed aveva messo radici dalla linea Gustav alle Alpi, che già alla fine dell’autunno 1943 vi aderivano Francesco Frola, // vecchio scemo e i suoi compari, Torino, Fiorini, 1947. Servizi segreti alleati e Resistenza diecine di migliaia di uomini e donne, capaci di agire perché appoggiati da vasti settori della po­ polazione; che vi erano bande di guerriglieri in zo­ ne rurali e gruppi clandestini armati in centri ur­ bani; che esistevano zone in cui erano precari il controllo tedesco e l’autorità della Repubblica so­ ciale. Era chiaro anche che pur mancando struttu­ re ben definite al di là di quelle delle singole bande e dei gruppi clandestini, una netta distinzione esi­ steva fra “politici” , che aderivano in particolare ai tre partiti di sinistra del Cln, o “ badogliani” ligi alla monarchia ed al capo del governo: preoccu­ pava il fatto che potesse verificarsi in Italia — a tutto vantaggio dei tedeschi e dei collaborazionisti — una ripetizione di quanto avveniva allora nella Resistenza francese, greca, jugoslava (non avven­ ne e questo fu motivo di sollievo per l’intero Soe, ed è ancor oggi motivo di ammirazione per quanti nel Regno Unito si interessano all’Italia). Sulla base di dati disgraziatamente incompleti (e con ogni probabilità destinati a rimanere tali), du­ rante i diciannove mesi dall’ottobre 1943 all’aprile 1945, la Special Force inviò in territorio italiano oc­ cupato poco meno di un centinaio di missioni, com­ poste in media di un capo-missione, un marconista ed un aiutante. Circa una metà delle missioni ave­ vano personale italiano e l’altra metà personale bri­ tannico (e del Commonwealth) o misto. I medesimi dati incompleti danno come partecipanti 161 italia­ ni, fra militari e civili, e 110 ufficiali e sottufficiali britannici e del Commonwealth (i capo-missione britannici e Blo furono una quarantina). Per verificare l’ignoranza in un ampio lasso di tempo della localizzazione esatta delle forze partigiane (Valdossola: ma dove in Valdossola? Come arrivare a mettersi in contatto?) basta leggere la re­ lazione sul primo incontro in Svizzera di Parri col rappresentante Soe; emerge anche l’impossibilità di individuare località nelle quali poter effettuare con successo — cioè senza che cadessero subito in mano a tedeschi o a repubblichini — lanci di pa­ racadutisti e di materiale (localizzazione e località cominciarono ad essere precise solo durante l’in­ verno 1944). Durante i primi mesi la maggior par­ te delle operazioni della Special Force vennero ef­ fettuate via mare o via terra (attraverso il fronte) con personale che conosceva la zona a cui era di­ retto, ed era questa una condizione che già impo­ neva dei limiti; ebbero come destinazione princi­ palmente l’Italia centrale, sia di qua che di là degli 169 Appennini. Un altro limite era imposto dalla divi­ sione di zone operative — non sempre rispettata! — tra 5a Armata (Oss) e 8a Armata (Soe). Facendo assegnamento sul Sim il cui comando al Sud insisteva sulla propria disponibilità a colla­ borare e sulla facilità con la quale poteva essere riattivata la rete di radio clandestine che esisteva prima dell’occupazione tedesca, la Special Force inviò missioni di volontari reclutati dal Sim e ad­ destrati dal Soe. Si trattava per lo più di ufficiali inferiori e di sottufficiali; vi erano anche alcuni uf­ ficiali superiori ed almeno un generale. Il risultato fu in genere soddisfacente dal punto di vista delle informazioni raccolte e trasmesse (con compiaci­ mento da parte del Sis). Non lo fu dal punto di vi­ sta della Resistenza armata, si trattasse di guerri­ glia o di sabotaggio. Per il comando del Sim, come per il governo Badoglio, non vi erano in Alta Italia che formazioni “badogliane” (Autonomi, Fiam­ me Verdi, Osoppo che, come è noto, aderirono più tardi al Cln tramite il Partito liberale o la De­ mocrazia cristiana), ma ci volle del tempo per sta­ bilire dei contatti. Più rapidamente i volontari del Sim entrarono in relazione con ufficiali alla mac­ chia in Italia centrale, con i quali crearono il Rag­ gruppamento bande, diviso in quattro settori. Con alcune nobili eccezioni note a chiunque si interessi alla Resistenza, il raggruppamento era conosciuto alla Special Force più per il suo attendismo che per il suo attivismo: esemplare fu il caso degli otto uf­ ficiali superiori che, dall’alto (800 metri) del palaz­ zotto di Monte San Martino dove erano ospiti, te­ nevano d’occhio la valle sottostante ma, a diffe­ renza dei “politici” della zona, non presero parte a nessuna azione. Di gran lunga superiori furono i risultati otte­ nuti già nel 1943-1944 da missioni inviate senza la cooperazione del Sim. Gli esempi non mancano. Il ritorno a Roma nell’ottobre 1943 dell’inviato del Ccln contribuì a dissipare malintesi ed a chia­ rire che al Soe (come pure all’Oss) interessava l’at­ tività antitedesca ed antirepubblichina e non il co­ lore politico dei militanti. Lo testimoniano l’aiuto che la Special Force ed il Som da Algeri diedero a chi voleva andare in territorio occupato per colla­ borare col Cln. Lo prova anche l’invio, non sem­ pre riuscito, di rifornimenti. Fra i primissimi a rientrare in territorio occupato vi era stato un esponente del Pda marchigiano, grazie al quale la Special Force riuscì a rifornire partigiani azioni­ 170 Max Salvadori sti, comunisti ed indipendenti (ma non “badoglia­ ni”) della zona. Un paracadutista della Nembo, sbarcato sulla costa maremmana, riuscì in prima­ vera a far giungere lanci di materiale che riforniro­ no partigiani comunisti toscani. Uno dei pochi ex prigionieri di guerra che aveva chiesto di tornare in patria per raggiungere la Resistenza, venne sbarcato sulla costa ligure e passò in Piemonte do­ ve partecipò con merito all’attività partigiana. Non tutto riusciva: venne catturato ed ucciso un altro volontario sbarcato sulla costa ligure; dei cinque giovani che nel dicembre 1943 tentarono di passare il fronte in Molise, uno fu ucciso da una mina (ed un’altra feri l’ufficiale Soe che li ac­ compagnava) e i nomi di due di essi compaiono tra le vittime delle Fosse Ardeatine. Sorpresa all’alba di un giorno d’inverno da una pattuglia tedesca, una missione appena sbarcata a sud di Ancona perse il materiale che portava con sé (riuscì più tar­ di a ricuperare la radio trasmittente e riprese i con­ tatti con la Special Force); nella primavera 1944 il nemico affondò lo zatterone che trasportava una missione destinata a raggiungere i partigiani dell’Appennino umbro-marchigiano. A distanza di quarant’anni e più, la parola scrit­ ta è fredda, non riesce a dare il senso di quello che l’azione allora significava quando agire voleva spesso dire morire lontano da tutti e da tutto, ed il silenzio era il manto funereo che avvolgeva chi moriva; non dà il senso della passione che muove­ va chi agiva, della tenacia paziente di cui occorre­ va dar prova, del coraggio morale più necessario di quello fisico. I mezzi che il XV Gruppo d’armate ed il coman­ do alleato nel Mediterraneo mettevano a disposi­ zione della Number 1 Special Force erano severa­ mente limitati. Il comando del Som ritenne ai pri­ mi del 1944 che un mutamento nella situazione po­ litica dell’Italia liberata poteva aumentare l’effica­ cia sia del personale che dei mezzi. Era convinzio­ ne condivisa anche dal comando Soe in Gran Bre­ tagna che, come Darlan nell’Africa del Nord nel novembre 1942, Badoglio in Italia nel settembre 1943 aveva assolto ad un compito essenziale ren­ dendo possibile e consolidando il successo degli al­ leati; e che Badoglio — di nuovo come Darlan per i francesi — costitutiva ora un ostacolo allo svi­ luppo della Resistenza arm ata italiana. Ritenen­ do, giustamente, che il Cln aveva nella Resistenza un ruolo di gran lunga superiore a quello dei “ba­ dogliani” (i quali probabilmente avrebbero finito, in territorio occupato, con l’aderire all’organizza­ zione militare ciellenista, eliminando un dualismo che nuoceva alla Resistenza e di conseguenza agli alleati), d’accordo con la Commissione alleata di controllo, il Som chiese al ministro britannico per gli affari mediterranei residente ad Algeri di prendere l’iniziativa per sostituire al governo del maresciallo un governo Cln, e di far propria la for­ mula intanto elaborata da Croce, De Nicola e Sforza per una soluzione interinale della questione istituzionale. Il ministro (e futuro primo ministro), Harold Macmillan venne in Italia ai primi di aprile del 1944: il risultato della sua venuta è parte della storia italiana di quegli anni. A partire dalla fine della primavera 1944, inve­ ce di volontari italiani, venivano inviati in territo­ rio occupato ufficiali di collegamento britannici e del Commonwealth (Blo) per ricevere richieste di materiale, per organizzare farrivo e la distribuzio­ ne di quanto — non molto e mai sufficiente — po­ teva essere messo a disposizione della Resistenza, e per coordinare le operazioni dei partigiani, costi­ tuitisi poi nel Corpo volontari della libertà, con quelle del XV Gruppo d’armate. Trovandosi Ro­ ma nella zona operativa della 5a Armata, collegamenti con la Resistenza romana vennero tenuti so­ prattutto, ma mai esclusivamente, dall’Oss. Invece in Toscana, dove confluirono in estate la 5a e l’8a Armata, la missione della Special Force inviata a Firenze cominciò a considerare il Cln come auto­ rità di governo in territorio occupato, ed anche in territorio liberato durante l’intervallo fra l’oc­ cupazione tedesca e l’arrivo dell’Allied Military Government, l’amministrazione militare alleata. Sempre nell’estate 1944, su richiesta del Clnai, la Special Force chiese al generale Cadorna se era di­ sposto a recarsi al Nord e, ottenuto il suo consen­ so, in agosto lo paracadutò insieme ad un aiutan­ te. In autunno la Special Force aiutò la delegazio­ ne del Clnai, incaricata di prendere accordi defini­ tivi col Comando alleato e col governo italiano, a raggiungere Caserta (sede del Comando) e Roma e a ritornare al Nord, e preparò il testo originario degli accordi firmati il 7 dicembre che legittimava­ no per gli alleati la posizione del Cln in territorio occupato come governo interinale. Dopo lo sbarco in Normandia, l’Italia non era più per gli alleati che un fronte del tutto seconda­ rio. Aveva l’unica funzione di impegnare forze te­ Servizi segreti alleati e Resistenza desche, funzione che poteva essere assolta sull’Ar­ no come sulla linea Gotica, meglio che sul Po, Il trasferimento in Francia di divisioni del XV Grup­ po d’armate e contemporaneamente la riduzione precipitosa nella quantità di materiale di ogni gene­ re assegnato al fronte italiano (una decisione che fu all’origine del proclama ai partigiani del generale Alexander, consapevole di quanto tragicamente era avvenuto in Grecia nel 1941 ed a Varsavia nel 1944) diedero una nuova dimensione al contributo militare italiano, sia a quello del Cil (Corpo italiano di liberazione) sia, e soprattutto, a quello del Cvl. Con il cambiamento di governo nel giugno 1944 e l’allontanamento del maresciallo e del re, si dilegua­ rono le difficoltà create dagli ambienti badogliani che avevano voluto monopolizzare le relazioni fra alleati e Resistenza, come in generale quelle fra Ita­ lia liberata ed Italia occupata. Anche se ingigantite nel dopoguerra dalla storiografia ligia alla linea del Pei, in complesso non erano state gravi le difficoltà create durante la guerra dalla differenza scontrosa, ed a volte astiosa, di esponenti stalinisti convinti che, pur combattendo il nazifascismo, il nemico di sempre fossero il ‘capitalismo’, cioè la democrazia, e l’Mmperialismo’, cioè le democrazie atlantiche. Delle 3.000 tonnellate circa di materiale inviato dal­ la Number 1 Special Force in meno di venti mesi, 171 quasi 2.200 tonnellate vennero paracadutate dopo che entrarono in funzione i Blo (dei poco più di 40 Blo, 5 perirono mentre erano in missione, 6 ven­ nero catturati, altri vennero feriti; alle perdite van­ no aggiunte quelle sofferte in operazioni diverse dal collegamento della Special Force con la Resi­ stenza). “Il contributo partigiano alla vittoria allea­ ta superò di molto le aspettative più ottimiste” , concludeva il rapporto finale della Number 1 Spe­ cial Force. Smobilitato, il Soe cessò di esistere nel gennaio 1946. Le valutazioni sull’attività che svolse varia­ rono durante la guerra e variano ancora oggi. In­ dubbiamente i risultati furono inferiori alle aspet­ tative del 1940: la “ quarta arm a” di Dalton fu un’arma spuntata. Per alcuni, si tratti di militari o di civili, il contributo del Soe alla vittoria finale fu nullo o quasi, per altri fu essenziale. Simili giu­ dizi appartengono per lo più al mondo di ciò che non può essere provato; è meglio dunque limitarsi a dire che venne fatto quello che allora doveva es­ sere fatto e che, nell’adempimento del loro dovere, non tanto di combattenti quanto di cittadini con­ sapevoli e responsabili, molti morirono. Non si vince se chi combatte non è disposto a sacrificare la propria vita. Max Salvadori SPAGNA CONTEMPORANEA Sommario del n. 10, 1996 Studi e ricerche Gabriele Ranzato, La “città delle barricate’’. Funzioni e significati delle barricate a Barcellona in un secolo di sommosse (1835-1937)-, Sandro Tomà, Le due repubbli­ che. Aspirazioni e realizzazioni del catalanismo politico (1931-1935): Alberto Toni­ ni, La politica mediorientale della Spagna di Franco fra il 1945 e il 1955\ Sheryl Lynn Postman, Un destello repentino en La sombra del ciprés es alargada de Mi­ guel Delibes; Bianca Amaducci, ¡Ay, Carmela!: testo letterario, testo spettacolo, film-, Luca De Boni, L'opposizione cattolica al franchismo: la Ft.O.C. e il giornale “¡Tu!’’ (1946-1951) Dossier Il presidente Scalfaro e “Spagna contemporanea": a proposito della neutralità spa­ gnola nella seconda guerra mondiale-, Alfonso Botti, Franco e i cattolici italiani. Er­ meneutica di una frase-, Luis de Llera, Scalfaro en Madrid... y aquella metedura de paia Rassegne e note Antoni Montserrat, L ’antifascismo catalano e l ’Italia. Riflessioni di un militante anti­ franchista Fondi e Fonti Silvia Biazzo, Alcune fonti orali per una storia del Frente de Liberación Popular (1956-1969) Recensioni Genesi e sviluppo del pensiero politico carlista (N. Del Corno); Una biografia di Jeroni Alomar Poquet, il sacerdote fucilato dai franchisti nel 1937 (A. Botti); L ’inani­ mato amante di Garcfa Blàzquez (C. Perugini); Paolo VI e la Spagna (A. Botti) Schede (di S. Biazzo, A. Botti, L. Casali, N. del Corno, M. Llombart, M. Novarino, A. Olivares) Segnalazioni bibliografiche Luciano Casali, Luigi Paselli, Un aggiornamento della bibliografia sulla guerra ci­ vile spagnola in Italia-, Spoglio riviste del 1955 Cuestión de detalle (A. Botti) Note a convegni Giovani, memoria e storia del Novecento Maurizio Gusso I complessi rapporti tra formazione dei gio­ vani, memoria e storia — con particolare ri­ ferimento a quella del ventesimo secolo — sono stati al centro del VII Seminario di stu­ dio sulla storia contemporanea “ Giovani me­ moria e storia: la storia nella formazione del­ le nuove generazioni” , promosso dal Centro ricerche Giuseppe Di Vittorio, dalla Fonda­ zione Anna Kuliscioff e dall’Istituto milanese per la storia della Resistenza e del movimen­ to operaio (Isrmo) e svoltosi il 19 settembre 1996 nella sala consigliare del Palazzo comu­ nale di Sesto San Giovanni. Il seminario ha preso lo spunto da un testo base di Alessan­ dro Cavalli (/ giovani e la m em oria del fa s c i­ smo e della R e siste n za , “ Il M ulino” , 1996, n. 1), letto preventivamente dai discussants. Per problemi di spazio, si sintetizzano qui so­ lo gli interventi di Cavalli e dei discussants. Dopo l’apertura dei lavori da parte del presidente deH’Isrmo Elio Quercioli e del vicesindaco di Sesto San Giovanni Angelo Ge­ losa, Cavalli ha ripreso l’ipotesi di fondo del suo scritto — la monumentalizzazione della Resistenza come veicolo per la rimozione del fascismo dalla coscienza collettiva degli italiani — chiarendone le implicazioni meto­ dologiche. A tale ipotesi Cavalli è giunto a partire dai suoi studi sulle reazioni delle co­ munità locali a eventi cruciali come i terre­ moti e sulle diverse modalità di una ricostru­ zione della comunità (a un tempo ricostruzio­ ne di un’identità e di una memoria), ricondu­ cibili a due grandi modelli. Italia contemporanea”, marzo 1997, n. 206 In primo luogo il “modello Friuli” , basato sulla rimozione dell’evento cruciale (il terre­ moto) al fine di poter ricostruire la continuità con il passato precedente tale evento (la rico­ struzione è avvenuta cercando di conservare il più possibile della struttura della comunità precedente, senza celebrare con alcun monu­ mento l’evento cruciale distruttivo). A esso si contrappone il “modello Gibellina” , basato sulla rimozione del passato pre­ cedente l’evento cruciale terremoto attraver­ so la sua monumentalizzazione (la nuova Gibellina è stata ricostruita in un territorio di­ verso da quello dove sorgeva precedentemen­ te; sulle macerie della vecchia Gibellina è sta­ to eretto un monumento alle vittime del ter­ remoto). Cavalli ha precisato il carattere “provoca­ torio” del suo contributo da sociologo al di­ battito storiografico e le questioni di metodo inerenti al trasferimento della categoria psi­ canalitica di “rimozione” dall’ambito origi­ nario degli individui, che dimenticano, attra­ verso un processo a metà intenzionale, a me­ tà non intenzionale, eventi o situazioni della loro vita che rappresentano una minaccia al­ la loro identità, all’ambito delle collettività umane, dove il processo di rimozione ha a che fare con i contenuti e i modi del discorso pubblico, politico o pedagogico. Al di fuori dell’esperienza diretta, i canali di trasmissione della memoria possono essere i familiari/conoscenti, la scuola e i media. La trasmissione della memoria del fascismo alle 174 Maurizio Gusso generazioni nate dopo il 1945 (che rappresen­ tano oggi più dei due terzi degli italiani) avrebbe seguito il “ modello Gibellina” per il concorso di una serie di fattori. La memo­ ria del fascismo sarebbe stata rimossa da par­ te della maggioranza dei familiari/conoscenti dei nati prima del 1945 per l’imbarazzo di es­ sere stati fascisti o di non essersi opposti al fascismo; da parte della scuola, dove non è infrequente che il programma di storia si con­ cluda con la prima guerra mondiale, si sareb­ be verificata una forma di reticenza analoga; il grosso dell’informazione sarebbe stato vei­ colato dai media e sarebbe giunto alle genera­ zioni nate dopo il 1945 in forma di frammenti sparsi, non riconducibili a schemi interpreta­ tivi adeguati. D ’altra parte, le stesse grandi culture politiche fondatrici della prima re­ pubblica, nata dalla Resistenza, avrebbero, sia pure in forme e gradazioni diverse, contri­ buito a rimuovere alcuni aspetti della memo­ ria del fascismo: la “cultura liberal-democratica” , adottando l'interpretazione crociana del fascismo come parentesi oscura nel pro­ cesso di costruzione della democrazia libera­ le, avrebbe rimosso le proprie responsabilità nei confronti dell’avvento del fascismo; la “ cultura cattolica” avrebbe rimosso le re­ sponsabilità della Chiesa nei confronti della formazione e del consolidamento del regime fascista; la “ cultura socialista m arxista” avrebbe rimosso 1’esistenza di nessi fra rivo­ luzione bolscevica e nascita dei movimenti fa­ scisti in Europa (a questo proposito Cavalli ha criticato sia gli storici revisionisti come Nolte, sia il rifiuto acritico degli elementi utilmente provocatori delle sue tesi, pur uni­ laterali). Cavalli ha concluso la sua comunicazione introduttiva ricordando il carattere ambiva­ lente — fra monumentalizzazione/rimozione e ricordo — di ogni celebrazione e auspican­ do l’invenzione di nuove forme di trattazione della Resistenza in grado di trasformarla in un momento di trasmissione e non di rimo­ zione della complessa memoria del fascismo. Franco Della Peruta ha affrontato il nodo della trasmissione della memoria e della co­ noscenza storica attraverso la scuola a parti­ re dai complessi problemi della motivazione dei giovani allo studio della storia e del neces­ sario equilibrio fra ricerca storica e trasmis­ sione didattica; ha suggerito, analogamente a quanto sta attualmente realizzando il mini­ stero, di recuperare la trasmissione di valori morali, civili e politici attraverso l’educazio­ ne civica e di dilatare il tempo scolastico ri­ servato alle grandi trasformazioni e alla con­ tinua accelerazione storica degli ultimi due secoli, dedicando al Novecento l’ultimo anno della secondaria superiore e recuperando la conoscenza dei secoli precedenti per grandi aree tematiche e problematiche. Luigi Vimercati ha sostenuto che gli inse­ gnanti dei licei normalmente affrontano fa­ scismo, antifascismo e Resistenza, mentre più facilmente rimuovono l’esperienza dei re­ gimi comunisti e raramente affrontano la sto­ ria successiva alla seconda guerra mondiale, pure presente nei programmi e nei manuali. I problemi nascono dai meccanismi distorti degli esami di m aturità (non sempre storia rientra fra le materie d’esame) e degli abbina­ menti di cattedra (che vedono storia ancella di filosofia o di letteratura italiana), ma più ancora dalla sempre maggiore perifericità della scuola nell’educazione dei giovani e dai limiti delle soluzioni istituzionali e con­ trattuali previste per la formazione dei do­ centi (burocratizzazione dei corsi di aggior­ namento e mancato riconoscimento dell’autoaggiornamento); gli Istituti storici della Resistenza potrebbero costituire indispensa­ bili centri per la promozione dell’insegna­ mento della storia e in particolare di quella contemporanea. Angelo Bendotti ha sottolineato come la trasmissione della memoria storica — un te­ ma da tempo dibattuto nella rete federativa degli Istituti storici della Resistenza — sia agevolata o contrastata anche a seconda dei linguaggi utilizzati e ha citato due incisivi Note a convegni esempi di trasmissione della memoria storica attraverso i nuovi linguaggi dei media: il li­ bro, il video e il compact disc realizzati da Da­ vide Ferrario, Guido Chiesa e altri (D. Ferra­ no e al., M ateriali resistenti, Bergamo, Dinosaura/Laboratorio 80, 1995; il Cd M ateriale resistente contiene reinterpretazioni di famo­ si canti della Resistenza da parte di gruppi rock italiani) e una rilettura a fumetti della Shoah (Art Spiegelman, M aus: racconto di un sopravvissuto, Milano, Rizzoli, 19891992,2 voi.); spesso le generazioni nate prima del 1945 non riescono a trasmettere la memo­ ria storica perché usano vecchi linguaggi e forme di comunicazione inadeguate in quan­ to intrise di retorica monumentalizzante. Claudio Pavone, riprendendo alcune ri­ flessioni di Vittorio Foa ( Questo Novecento, Einaudi, Torino, 1996), ha ricordato che ogni generazione e ogni individuo pongono al pas­ sato domande diverse, legate a contesti diver­ si, anche se si può recuperare il concetto, ela­ borato da Marc Bloch nell 'Apologia della sto­ ria, di “ generazione lunga” , che accomuna generazioni e individui legati da analoghe esperienze. Il necessario equilibrio fra memo­ ria e oblio non può essere regolato a priori: ogni generazione, ogni persona deve scegliere fra le varie soluzioni dei problemi che gli po­ ne la vita individuale e collettiva; studiare la memoria e la storia del passato significa tra­ smettere il senso della scelta. Fra storiografia e memoria ci devono essere sia distinzione, sia intreccio: da un lato la costruzione della storiografia è diversa dalla elaborazione della memoria; dall’altro, però, entrambe possono contribuire a creare una coscienza civica che saldi l’omaggio pietoso ai morti e la scoperta delle radici di lunga durata del presente. Il nesso fra monumentalizzazione e rimozione, come pure l’ideologia della “ pacificazione” tra antifascisti e fascisti, che si riallaccia al re­ visionismo storiografico, sono sintomi di un cattivo rapporto fra memoria e storiografia. Elda Guerra ha presentato la ricerca “ In­ dividualità, generazioni e popolazioni giova­ 175 nili. Tracciati, valori, cornici”, promossa dal Centro di documentazione delle donne di Bo­ logna e dal Landis (Laboratorio nazionale per la didattica della storia) e condotta attra­ verso 80 interviste in profondità a 40 ragazze e 40 ragazzi di 16-20 anni delle aree metropo­ litane di Bologna, Roma e Milano (in colla­ borazione con lTsrmo). L’ipotesi di partenza è che la modificazione profonda delle forme di esperienza e delle concezioni del mondo delle generazioni più giovani, influenzata dalle nuove tecnologie comunicative, costrin­ ga a ripensare il rapporto fra insegnamento e apprendimento della storia. Dalla parte della ricerca dedicata alle immagini della Resisten­ za emergono memorie fortemente divise (condizionate dalle diverse scelte fatte all’e­ poca dai nonni), variegate e ambivalenti (la Resistenza come movimento di liberazione includente anche le donne e la resistenza non arm ata, ma su uno sfondo di guerra e violenza), ricollegabili a un rapporto difficile con la contem poraneità (guerra del Golfo, guerra jugoslava, Cemobyl, caduta del muro di Berlino; stragi nell’Italia repubblicana) e con il futuro, immaginato o come riproduzio­ ne dello stato di cose esistente o come cata­ strofe. Altri interventi, più brevi, si sono succedu­ ti nel pomeriggio. Secondo Tommaso Detti l’accelerazione storica e la mancata trasmis­ sione della memoria a opera della famiglia, della scuola e dei mass media hanno prodotto nelle giovani generazioni uno sradicamento dal passato, una dilatazione del presente co­ me unico spazio possibile e un’incertezza del futuro. Data questa frattura, la memoria non è più ricostruibile. Il dopoguerra è finito e l’esperienza dell’antifascismo, pur storica­ mente indispensabile alla costruzione della democrazia in Italia, non è più riproponibile come chiave privilegiata per declinare il so­ stantivo democrazia ai giovani. Come soste­ neva Nicola Gallerano, il contesto della con­ temporaneità non favorisce la formazione della memoria se la storiografia non soccorre 176 Maurizio Gusso a contestualizzare il passato in una prospetti­ va storica; un importante obiettivo formati­ vo della storia insegnata dovrebbe essere quello di far riflettere sui complessi rapporti e sulle differenze fra storia e memoria. Dopo gli interventi di Vittorio Bellavite, Federico Ottolenghi, Giovanni Cesareo, Claudio Dellavalle e Vitaliano Caimi, Al­ berto De Bernardi ha sostenuto che nella storia insegnata il ventesimo secolo è entra­ to solo come “ fattualistica” , ossia come se­ rie di informazioni frammentarie, slegate dalle prospettive della storia-scienza; per in­ trodurlo a pieno titolo occorre ripensare le rilevanze storiche (per esempio la modernità e la sua crisi; i grandi sistemi ideologici; de­ mocrazia e partiti di massa; rapporto fra sviluppo/sottosviluppo, modernizzazione, Welfare State e forme di integrazione socia­ le negli stati) e le rilevanze formative (quelle relative alla storia-scienza, ma anche quelle tradizionali della formazione etica dei gio­ vani e della biografia della nazione, in cui si fa fatica a integrare fascismo, antifasci­ smo, Resistenza e secondo dopoguerra, co­ me luoghi “ non pacificati” ), ridisegnando tutti i programmi in modo da spostarne il baricentro dalla storia antica e medievale al­ la contemporanea. Dopo gli interventi di Guido Panseri, Teo­ doro Sala e Antonino Criscione, Gianni Perona ha sottolineato come Cernobyl, non a caso spesso citato come evento cruciale dai ragazzi intervistati nella ricerca del Landis, sia un paradigma dell’incontrollabilità dei processi storici e dell’opacità delle cose che contano nella società contemporanea, carat­ terizzata dalla sovrabbondanza di informa­ zioni insignificanti; ha rammentato che la di­ dattica non può surrogare le rimozioni com­ piute dai soggetti storici (come la rimozione della questione ebraica nella Resistenza ita­ liana); ha sostenuto che per insegnare il No­ vecento occorre un approccio interdisciplina­ re fondato sulla rottura dell’identificazione idealistica fra storia, storia della filosofia/letteratura e filosofia/letteratura e della tradi­ zionale struttura narrativa della comunica­ zione storica, nonché sulla coscienza delle connessioni, particolarm ente strette nella tradizione occidentale, fra comunicazione storica, comunicazione letteraria e discorso politico. Dopo gli interventi di Maurizio Gusso e Marina Medi, Luigi Ganapini, concludendo i lavori, ha rammentato i rischi insiti nella ri­ mozione della coscienza storica, di cui la ri­ mozione della complessità della storia del fa­ scismo, dell’antifascismo, della Resistenza e del neofascismo rappresenta un esempio in­ quietante, e ha sottolineato la densità e l’in­ tensità del dibattito, di cui ha auspicato un approfondimento in ulteriori iniziative degli istituti promotori e partecipanti al seminario. Maurizio Gusso