Misurazione di c: l’aberrazione Cunial Andrea, Girardi Nicola e Peruzzo Riccardo Sommario Da quando l’uomo ha capito che la luce ha una velocità finita ha sempre cercato di definire qual è il valore di tale velocità. I primi esperimenti fatti per misurare c sono stati fatte con il metodo dell’aberrazione, osservando le apparenti anomalie della velocità di rivoluzione dei satelliti medicei attorno a Giove; le prime misurazioni furono molto grossolane, poi, col passare degli anni, sempre più precise, così precise che il metodo usato (aberrazione astronomica) non risultava più adatto a conseguire una maggiore accuratezza nelle misure e gli scienziati che tentarono di misurare la velocità della luce dovettero inventare e usare altri metodi sempre più sofisticati e con un uso sempre più massiccio della tecnologia. Anche se il metodo dell’aberrazione non è molto preciso, gli astronomi l’hanno usato per molti decenni proprio per la sua semplicità, infatti non occorrevano sofisticati strumenti di misurazione se non un telescopio e molta pazienza per osservare le varie rivoluzioni dei satelliti durante il corso dell’anno; data la grande mole di astronomi che hanno usato questo metodo i risultati sono stati molteplici. 1. Introduzione Oggi la velocità della luce si misura in modo molto preciso grazie ai laser e all’elettronica mediante il tempo di ritardo tra due impulsi laser, generati contemporaneamente, che percorrono cammini di diversa lunghezza. Nel 1983 si è deciso di adottare il valore di 299 792 458 ± 1 m/s [1]. In passato, però, il lavoro per determinare questa misura fu lungo e faticoso; molti scienziati si avvicinarono con vari metodi al valore che oggi riteniamo quello più attendibile. Fu durante il XVIII e XIX secolo che la ricerca della velocità della luce (“c”), attraverso lo studio dell’aberrazione della luce stessa, si sviluppò in maniera più marcata. Questa tematica è stata inizialmente trattata da Olaus Roemer (1644-1710) [1] che con i suoi studi sulle irregolarità delle eclissi del satellite Io di Giove (già osservate in precedenza da Cassini) ha ottenuto la prima prova concreta sia della finitezza di questa velocità, sia del suo valore numerico. In seguito, osservazioni più accurate dei satelliti di Giove, furono fatte da J.B.J. Delambre (1749-1822) [1] che accurò ancor di più la misurazione. Ma la svolta decisiva alla ricerca fu compiuta dall’astronomo inglese James Bradley (1693-1762) [1] che osservando la stella gamma del Dragone in differenti periodi dell'anno, notò strane e inspiegabili variazioni nella posizione dell'astro (aberrazione astronomica). A costui, seguirono scienziati del calibro di Armand Hippolyte Louis Fizeau (1819-1896) [1], JeanBernard-Léon Foucault (1819-1868) [1], Albert Michelson (1852-1931) [1], Edward Morley (18381923) [1] e Albert Einstein (1879-1955) [1]; quest’ultimo raggiunse il valore più preciso per il secolo scorso. Nel testo seguente ci prefiggiamo di spiegare come si è giunti al calcolo della velocità della luce attraverso la scoperta e lo studio dell’aberrazione astronomica, concentrandoci maggiormente sugli esperimenti svolti da O. Roemer, J.B.J. Delambre e, soprattutto, James Bradley. 2. Sviluppo Già nell’antichità greca Empedocle [1] sosteneva che la luce viaggiasse con velocità limitata, mentre Lucrezio (I secolo a.C.) [1], nel De Rerum Natura, attribuiva alla luce una velocità “inimmaginabile” e a lungo si credette che essa si propagasse istantaneamente, con velocità infinita e in assenza di un mezzo materiale propagatore. 1 Il primo che tentò di dare una valutazione della velocità della luce fu Galileo Galilei (1564-1642) [1], il quale riteneva che tale velocità, per quanto grande, non fosse infinita, anche se la finitezza non era percepibile nella maggior parte dei fenomeni naturali. L'esperimento che ideò Galileo fu quello di porre due persone l'una di fronte all'altra munite di due lumi. La prima persona scopre il proprio lume, la seconda esegue la medesima operazione non appena scorge il segnale. In tal modo la prima persona avrebbe dovuto avere la possibilità di misurare il tempo necessario alla luce per compiere il percorso di andata e ritorno. Ma tale velocità era veramente troppo grande per poter essere apprezzata su distanze terrestri, ragione per cui l'esperimento, pur se ripetuto ponendo le persone a distanza di due o tre miglia, non diede alcun risultato. Le prime vere misurazioni operate al di fuori dell’ambiente terrestre e quindi operando su distanze spaziali ben più consistenti, furono fatte nel XVII secolo. Lo scienziato che intraprese tale iniziativa per la prima volta fu Olaus Roemer (1644-1710). Re Filippo III di Spagna offrì un premio per un metodo per la determinazione della longitudine di una nave in mare aperto. Galileo propose un metodo al re di Spagna (1616-1617) che fu giudicato poco pratico. Dopo aver studiato il problema a Copenhagen, Roemer si recò all'osservatorio di Uranienborg, sull'isola di Hven, vicino a Copenaghen, nel 1671. Dopo diversi mesi, Jean Picard e Roemer osservarono circa 140 eclissi della luna di Giove, Io, mentre a Parigi Giovanni Cassini osservava le stesse eclissi. Confrontando i tempi delle eclissi, fu calcolata la differenza di longitudine tra Parigi e Uraninborg. Cassini osservò le lune di Giove tra il 1666 e il 1668 e scoprì delle discrepanze nelle sue misure che, in un primo momento, aveva attribuito al fatto che la luce doveva avere velocità finita. Nel 1672 Roemer si recò a Parigi e continuò ad osservare i satelliti di Giove come assistente di Cassini; unendo le proprie osservazioni, si accorse che i tempi tra le eclissi (in particolare di Io) diventavano più brevi quando la Terra si avvicinava a Giove e più lunghi quando la Terra si allontanava. Cassini pubblicò nell'agosto del 1675 una pubblicazione dove affermava: Cette seconde inégalité paraît venir de ce que la lumière emploie quelques temps à venir du satellite jusqu'à nous, et qu'elle met environ dix à onze minutes à parcourir un espace égal au demi-diamètre de l'orbite terrestre. [Traduzione: Questa seconda differenza sembra essere dovuta al fatto che la luce impiega del tempo per raggiungerci, partendo dal satellite; sembra che la luce impieghi dai dieci agli undici minuti per attraversare una distanza uguale alla metà del diametro dell'orbita terrestre.] Roemer stimò che il tempo impiegato dalla luce per percorrere il diametro dell'orbita terrestre, una distanza di due unità astronomiche, fosse circa 22 minuti. Questo si rivelò essere di più del valore accettato ai giorni nostri, che è circa di 16 minuti e 40 secondi. La sua scoperta venne presentata alla Académie royale des sciences e riassunta più tardi in una pubblicazione, "Démonstration touchant le mouvement de la lumière trouvé par M. Roemer de l'Académie des sciences", il 7 dicembre 1676. Nella pubblicazione Roemer affermava «che per una distanza di circa 3000 leghe, valore molto prossimo al diametro della Terra, la luce impiega meno di un secondo di tempo ». Visto che Roemer non aveva una misura accurata per l'unità astronomica, egli non poté dare un valore per la velocità nella sua pubblicazione oltre al già menzionato valore di massima. In ogni caso, molti altri calcolarono la velocità partendo dai suoi dati, primo fra tutti fu Christiaan Huygens; dopo aver corrisposto con Roemer e avendo a disposizione più dati, Huygens dedusse che la velocità viaggiava a 16,6 diametri della Terra per secondo. Se Roemer avesse usato 2 la distanza tra Sole e Terra della quale era in possesso a quel tempo, avrebbe ottenuto una velocità di circa 135.000 km/s. [2] La teoria che la velocità della luce fosse finita, non fu pienamente accettata fino alla misura della cosiddetta aberrazione della luce, effettuata da James Bradley nel 1727. Tale misurazione venne fatta un po’ per caso durante l’osservazione della stella γ Draconis; nel corso di questi studi durati circa un anno e conseguenti misure durante tutto il periodo di osservazione, J Bradley notò strane deviazioni della posizione dell’astro. La prima cosa che poteva venire in mente era che si trattasse di un fenomeno di parallasse stellare. Tale fenomeno si ha quando osservando le stelle da posizioni diametralmente opposte dell'orbita della Terra intorno al Sole, si vedono proiettate sulla volta celeste in posizioni leggermente diverse. L'angolo sotto cui si vede la stella, a sei mesi di distanza è l'angolo di parallasse. È evidente che questo varia al mutare della distanza della stella dalla Terra, ma Bradley notò che la modificazione delle posizioni apparenti riguarda tutte le stelle e l'ampiezza degli spostamenti di esse è la stessa (fatto in contrasto con la spiegazione mediante la parallasse poiché, in questo caso, si dovrebbe concludere che tutte le stelle si trovano alla stessa distanza dalla Terra, cosa assurda). Gli spostamenti non erano quindi causati dalla parallasse, ma da qualcosa d’altro e Bradley riuscì a dare una spiegazione risalendo alla composizione della velocità della Terra nella sua orbita con quella della luce proveniente dalla stella osservata.[1] A Bradley venne questa ispirazione osservando la direzione di una bandiera posta su un pennone di una nave su cui era in viaggio che non era posta né a favore del vento né parallela alla direzione della nave. La bandiera risentiva della combinazione di due flussi d'aria, rispetto al sistema di riferimento della barca: uno dovuto al vento, e l'altro dovuto al moto della barca. In modo simile, pensò, la velocità della luce che arriva dalla Polare è modificata, nel nostro sistema di riferimento, dalla velocità addizionale della Terra! [3] Notiamo che alla base della spiegazione sugli spostamenti anomali delle stelle vi sono due ipotesi fondamentali: la Terra si muove intorno al Sole e la luce si muove con velocità c finita. Bradley, una volta conosciuta la velocità di rotazione della Terra attorno al sole (30 km/s), ottenne una stima della velocità della luce pari a 301 000 km/s [1]. I metodi di Roemer e di Bradley erano basati sull’osservazione astronomica e avevano lo svantaggio di dipendere dalla conoscenza esatta della distanza della Terra dal Sole. Questo dato non fu preciso nemmeno durante il secolo (se ai tempi di Bradley si fosse conosciuta, come oggi, l’esatta ampiezza dell’orbita terrestre, il suo errore sulla velocità della luce sarebbe stato contenuto entro l'1,6%). Già all’inizio del successivo secolo Delambre calcolò con precisione maggiore la velocità della luce, studiando sempre i satelliti di Giove (in particolar modo “Io”) e grazie anche a più di un secolo di misurazioni sempre più accurate, riuscì a stimare il tempo che la luce del sole impiega per arrivare alla Terra in 8 minuti e 12 secondi che, a seconda del valore assunto per l'unità astronomica, porta a calcolare la velocità della luce a poco più di 300.000 km/s. Tuttavia anche queste misure furono soggette ad errori di misurazione e ben presto furono soppiantate da altri metodi innovativi elaborati prima da A.H.L. Fizeau, J.B.L. Foucault, A. Michelson & E. Morley e A. Einstein. 3. Commenti Due curiosità sono risaltate cercando fonti per scrivere il testo di questo articolo: − Il primo a ipotizzare che la velocità della luce fosse finita è stato Galileo Galilei che però non ha potuto avvallare la sua teoria sperimentalmente per l’assenza di strumenti con cui effettuare le proprie misure; invece il primo a poter dare delle stime di c fu Roemel che misurò la velocità della luce grazie ai satelliti medicei di Giove, scoperti proprio da Galileo Galilei con il suo “occhiale”. 3 − La velocità della terra lungo la sua orbita è molto vicina ad un decimillesimo di c (il margine è inferiore al punto percentuale). Come in molti altri esperimenti si scoprono cose che non centravano con quello per cui è stato fatto l’esperimento, anche misurando la velocità della luce con il metodo dell’aberrazione si è scoperto che la luce solare arriva sulla Terra sempre nello stesso tempo, sia che la Terra si stia avvicinando al Sole, ed in questo caso dovremmo osservarne una maggiore perché il nostro pianeta andrebbe incontro ad essa, sia che la Terra se ne stia allontanando, ed in questo caso ne dovremmo avere una minore perché i raggi solari sarebbero costretti a rincorrere la Terra. E' questa una caratteristica della luce, da cui si ricava che la sua velocità, la massima attualmente conosciuta, non risponde alle regole del sistema galileano ed è perciò uguale per ogni punto di riferimento a prescindere dallo spazio e dal tempo. Di questo se ne accorse A. Einstein che elaborò la teoria della relatività prendendo spunto dalla scoperta di due scienziati americani, i quali, alla fine del diciannovesimo secolo avevano notato che, nonostante la luce viaggi ad una velocità grandissima, questa non può superare comunque i 300ֹ000 km al secondo. Essa è dunque una quantità finita che si mantiene costante nel tempo e nello spazio. La velocità della luce è talmente alta che si è iniziato a calcolarla solo nella seconda metà del XVII secolo e ci sono voluti altri 250 anni di misurazioni, di calcoli, di tecnologia e di esperimenti sempre nuovi per calcolare c con una precisione tale da poter essere definita molto prossima a quella vera. Ma che cos’è in verità l’aberrazione della luce? L'aberrazione della luce, il primo strumento degli scienziati che provarono a misurare la velocità della luce, può essere un argomento infido: si ha l'impressione di averlo capito perfettamente, ma facendo i conti si giunge ad un risultato opposto a quanto accade in realtà. Proviamo a vederci chiaro: l'aberrazione è uno spostamento apparente della posizione di un oggetto celeste nel corso dell'anno, dovuta al fatto che alla velocità della luce con cui viaggiano i fotoni dobbiamo sommare la velocità della Terra lungo la propria orbita. Noi, essendo solidali con la Terra, vediamo questa velocità "di riflesso" nei fotoni che ci vengono dalle stelle. L'esempio tipico che si fa a riguardo è quello della persona che corre sotto la pioggia, e deve orientare l'ombrello in avanti per evitare di bagnarsi. Sostituiamo un telescopio all'ombrello e dei fotoni alle gocce di pioggia, e avremo un'analogia quasi perfetta, c'è però una differenza, e non è di poco conto: i fotoni viaggiano alla velocità della luce in qualsiasi sistema di riferimento, ma ciò non vale per le gocce di pioggia! Spieghiamoci meglio: per calcolare il vettore velocità delle gocce di pioggia nel sistema di riferimento della persona che corre, dobbiamo effettuare la somma vettoriale di due quantità: la velocità delle gocce nel sistema di riferimento a riposo e l'inverso della velocità della persona (questo, lo ripetiamo, perché la persona vede il proprio moto "riflesso" in quello delle gocce di pioggia). La figura mostra l'operazione: se la persona fosse ferma, vedrebbe una goccia di pioggia provenire dalla direzione A con vettore velocità c. Invece si mette a correre con velocità v, e per questo vede la goccia provenire dalla direzione B con vettore velocità c1. Si può vedere che il vettore velocità della goccia di pioggia è cambiato sia in direzione che in modulo; per un fotone, invece, assisteremmo soltanto a un cambiamento in direzione. La trattazione classica che abbiamo fatto, comunque, ci consente di capire che la posizione apparente delle stelle tende ad avvicinarsi alla direzione del moto dell'osservatore. Non è pensabile invece che la Terra possa "lasciarsi dietro" una stella nello stesso modo in cui, per esempio, un'automobile si lascia dietro un lampione. Il diametro dell'orbita terrestre è di circa trecento milioni di chilometri, mentre le stelle più vicine non distano meno di quarantamila 4 miliardi di chilometri circa. Insomma, l'aberrazione non si spiega col cambiamento di posizione della Terra nel corso della propria orbita: ciò sta all'origine di un altro fenomeno, di assai minore entità, la precessione, che è sempre inferiore al secondo d'arco. L'aberrazione invece dipende dalla velocità della Terra lungo la propria orbita, che si somma con la velocità dei fotoni. Questo implica che l'aberrazione ha lo stesso valore per tutti i corpi celesti che vediamo (lo spostamento massimo è di circa 20,5 secondi d'arco), mentre la precessione diminuisce quanto più l'oggetto è distante (un'auto si lascia velocemente alle spalle un lampione ai margini della strada, ma la posizione apparente di una montagna lontana cambia con molta più lentezza). 4. Conclusioni Si evince quindi che con il metodo dell’aberrazione astronomica le misure non possono essere precise, ci sono troppe variabili non calcolabili con precisione, e queste introducono troppi errori sulla misura finale. I metodi migliori per calcolare il valore di c più vicino a quello vero sono sicuramente altri, anche se con l’aberrazione della luce le misurazioni e i conti sono molto più semplici e gli strumenti da usare sono molto più semplici e meno costosi. L’ultima constatazione che c’è da fare è il valore di c che da Roemer. In varie fonti il valore riportato è quello che abbiamo deciso di inserire nel corpo dell’articolo; consultando altre fonti, però, ci troviamo davanti ad una moltitudine di valori che vanno da 135000 Km/s a 270000Km/s. Tale discrepanza di valori ci ha indotto a ricercare i dati che Roemer aveva a disposizione: Il tempo (t=22 minuti) che la luce impiega a percorrere il diametro dell’orbita terrestre intorno al Sole. Il diametro ( d = 28 ⋅ 1010 m ) di quest’orbita. Inserendo tali dati nella formula adatta, abbiamo trovato il valore che Roemer avrebbe dovuto trovare nei suoi calcoli: d 28 ⋅ 1010 m c= = ≈ 2,1 ⋅ 10 8 m / sec = 210000 Km / sec t 22 ⋅ 60 sec Tuttavia, il maggior numero di fonti che riportano il valore 135000 Km/s, ci ha fatto mantenere tale valore all’interno dell’articolo stesso [4]. 5. Referenze [1] Chiedi a Ulisse, http://ulisse.sissa.it/Answer.jsp?questionCod=108920876 [2] Wikipedia, http://it.wikipedia.org/wiki/Ole_Roemer [3] L'aberrazione della luce delle stelle, http://www.phy6.org/stargaze/Iaberr.htm [4] Fisica/mente, http://www.fisicamente.net/index-37.htm 5