QUALE FAMIGLIA NELLA POST-MODERNITA`? Stefano Salucci

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CONVEGNO
“FAMIGLIA, LAVORO E CRISI ECONOMICA”
23 Gennaio 2010
Auditorium Pia Casa
Lucca
DON STEFANO SALUCCI
QUALE FAMIGLIA OGGI?
Una lettura del suo ruolo nella post-modernità
Il mio intervento si prefigge di evidenziare alcuni aspetti rilevanti della situazione della famiglia
nella società post-moderna, soprattutto in relazione alle attuali problematiche derivanti dalla crisi
economica e dalle sue ricadute sul mondo del lavoro. Non si può negare che la nostra società
occidentale stia attraversando un momento di forte crisi valoriale che ha messo in discussione
l’idea stessa di famiglia; possiamo trovare le radici di questo fenomeno in un andamento socioculturale che si va ampliamente globalizzando e andrebbe analizzato confrontando fra di loro
diversi contesti nazionali, europei e non: oggi tuttavia, mi limiterò a dire qualcosa sulla situazione
italiana attuale, così come ci viene presentata nella più recente letteratura sociologica.
Noto, tanto per partire, che certe tendenze che già si manifestavano in crescita dieci anni fa, hanno
avuto singolare incremento nell’ultimo quinquennio, mentre altre si sono andate stabilizzando: la
situazione è tanto fluida che è difficile fermarla in un’immagine fissa. Più interessante, invece, è
provare a fare delle riflessioni che aiutino a comprendere come impostare per il prossimo avvenire
le politiche familiari.
Fino a trent’anni fa per definire l’idea di famiglia avremmo potuto parafrasare la
definizione che Benedetto Croce dava dell’arte nell’incipit del suo “Breviario di estetica1”: “Alla
domanda: che cos’è la famiglia? Si potrebbe rispondere celiando (ma non sarebbe una celia
“Che cos’è l’arte? Alla domanda: che cos’è l’arte? Si potrebbe rispondere celiando (ma non sarebbe una celia sciocca):
che l’arte è ciò che tutti sanno che cosa sia.” B.CROCE, Breviario di estetica. Quattro lezioni. Laterza, Bari 19273, 9.
1
sciocca): che la famiglia è ciò che tutti sanno che cosa sia”. Questo non è più vero adesso: quei
processi sociali, culturali ed anche economici che corrispondono al nome di secolarizzazione,
consumismo, globalizzazione, individualizzazione ed altro ancora, hanno messo in discussione il
contenuto stesso del vocabolo “famiglia”. Più che mai assistiamo ad una relativizzazione del
termine che, a seconda dei contesti socio-culturali in cui è utilizzato, è comprensivo delle più varie
situazioni.
Così, ad esempio, una convivenza omosessuale, nell’ambito della cultura gay, è definita
tranquillamente famiglia, per non parlare delle convivenze eterosessuali che ormai hanno assunto
pacificamente tale status2 anche nel comune sentire, persino entro la comunità cristiana. Si
sostiene, da più parti, che la famiglia è “morta”: piuttosto, mi pare, se ne è “sfocata” l’idea, non
corrispondendo più ad un modello fisso universalmente riconosciuto.
Anche le figure parentali hanno perduto la propria connotazione: i genitori hanno il primo figlio, in
media, dopo i trent’anni e, dunque, i nostri adolescenti (mettiamo quindicenni) hanno spesso per
padri e madri persone che una volta si definivano “di mezz’età”, cioè sopra i 50 anni; i nonni,
d’altro canto, sono spesso persone in piena carriera, ancora inseriti nel mondo del lavoro, oppure
dediti ad attività varie e con una pluralità di interessi personali. Tutto questo ci dice quanto siano
cambiati e stiano cambiando i rapporti tra le generazioni.
Altro paradosso, poi, è rappresentato dal fatto che ovunque ed in ogni circostanza si parli di
famiglia eppure non si riesca più a definire l’oggetto di questo parlare: ad esempio è denunziata da
tutti scarsa attenzione alla famiglia nelle politiche sociali, ma certo tipo di welfare-state si imposta
solo se si ha chiaro un chiaro modello di famiglia. Ora nel 1948 non parevano esserci dubbi di
questo tipo se i padri della Repubblica affermano nella legge fondamentale dello Stato, la
Costituzione, che “la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul
matrimonio” (Art. 29 primo comma)! La confusione odierna, invece, è giunta a fare dire ad alcuni
2
Cfr. PONTIFICIO CONSIGLIO PER LA FAMIGLIA, Dichiarazione in merito ad una recente risoluzione del Parlamento
Europeo sulle unioni di fatto e la convivenza di persone dello stesso sesso, 17 Marzo 2000.
che, di per sé, l’Art. 29 non può costituire un ostacolo alla istituzione di unioni omosessuali in
quanto non specifica che il matrimonio debba essere “tra un uomo e una donna”!
Pier Paolo Donati in un saggio di alcuni anni fa affermava che
“la schizofrenia verso la famiglia è stata tipica della modernità, e ha certamente radici molto
lontane, ma gli esiti più radicali e manifesti si mostrano solo ora, dopo essere rimasti a lungo
latenti. È nella crisi odierna della modernità che si manifesta la profondissima ambivalenza che
la società del Novecento ha avuto verso la famiglia: da un lato l’ha esaltata come luogo privato
degli affetti, cellula del mercato e del consenso politico, dall’altro l’ha combattuta come sfera
caratterizzata da legami forti e stabili. Lo svolgersi di questa ambivalenza è ciò che caratterizza
il puzzle odierno della famiglia e delle politiche familiari”3
Abbiamo bene appreso dalla psicologia sociale come la vita familiare si dipani attraverso un
preciso ciclo di vita che, a partire dalla formazione della coppia, passa all’esperienza della nascita e
della crescita dei figli, al loro “sganciamento” dal nucleo fino ad arrivare all’età anziana 4. Tale
dinamismo è andato via via sostituendosi al concetto stesso di “famiglia”, fino a diventarne
sinonimo: il ciclo di vita, infatti, è stato progressivamente inteso in senso individuale e il momento
familiare come quello in cui un certo numero di individui si trova a vivere insieme. In altre parole
“la famiglia non è più vissuta e vista come cellula della società. Oggi la cellula della società è
l’individuo5, come dire che la società è imperniata su di esso e soprattutto sulle sue funzioni di
produttore e di consumatore.”6 È chiaro che questa visione non personalistica né cristiana ma anzi
fortemente “narcisista”, in quanto incentrata sul singolo, ha dei risvolti sociali affatto trascurabili:
non dimentichiamoci che nel racconto mitologico Narciso, di fatto, finisce per suicidarci, nel vano
tentativo di ricongiungersi con la sua propria immagine riflessa nello stagno. Paradossalmente,
infatti è proprio il sistema-famiglia ad essere sempre più inteso come “trappola” per l’individuo che
in qualsiasi momento dovrebbe potersi auto-determinare per obbedire esclusivamente al proprio
istinto egoico, senza sentirsi obbligato da legami di qualsivoglia natura: in tal senso si può leggere
l’opinione ormai largamente condivisa sul “diritto a rifarsi una vita” dopo aver rotto una relazione
P.DONATI, “La famiglia come soggetto sociale: ragione, sfide e programmi” in L.SANTOLINI – V.SOZZI, La famiglia
soggetto sociale: radici, sfide, progetti, Città Nuova, Roma 2002, 34.
4
Cfr. E.SCABINI, Psicologia sociale della famiglia…,Cit., Parte seconda. Famiglia, ciclo di vita e di sviluppo, 115-250.
5
Cfr. U.BECK, “L’individualizzazione nelle società moderne” in ID., I rischi della libertà. L’individuo nell’epoca della
globalizzazione, Bologna, Il Mulino, 2000.
6
G.REDIGOLO, “Accogliere e comprendere”, in V. DANNA (Ed.), Separati da chi ? Separati e divorziati: i cristiani si
interrogano, Effatà Editrice, Torino 2003, 33.
3
coniugale (e spesso, la rivendicazione di tale “diritto” risulta essere anche il motivo per cui la si
rompe) oppure certe teorie psico-pedagogiche che, svalorizzando le figure genitoriali, affermano la
necessità di non dare regole ai figli perché possano esprimere liberamente la propria personalità
(partendo dal presupposto che la personalità ognuno se la formi “da sé”, senza l’aiuto di nessuno).
“Coppia e famiglia centrate sull’individuo, non sono vissute come esperienze di relazione, di
comunione, ma come esperienze di sicurezza, di piacere, di confort, di protezione. È ben vero
che si tratta comunque di compiti che la famiglia ha sempre cercato di svolgere. Il limite di oggi
è che alla famiglia si chiede sempre più di soddisfare le esigenze degli individui e non del
gruppo familiare. La famiglia è più della somma dei suoi componenti, ed è questo di più che
non viene cercato e capito, che è scomparso.”7
Anche l’ideologia femminista ha contribuito ad assestare colpi decisivi al concetto tradizionale di
famiglia: l’emancipazione della donna e il suo ingresso sempre più deciso ed importante nel mondo
del lavoro, infatti, pur costituendo elementi di indubbio progresso sociale che hanno grandemente
contribuito alla valorizzazione del “genio” femminile8, non sempre sono stati improntati al giusto
equilibrio. Talora molte donne “in carriera” invece di vivere con la propria specifica sensibilità
femminile i ruoli che man mano si trovano a ricoprire, hanno finito per imitare le peggiori
caratteristiche degli uomini (quelle che lo stesso femminismo indica come “maschiliste”): questo è
avvenuto perché non si è compreso appieno che “l’intreccio delle due attività – la famiglia ed il
lavoro- assume, nel caso della donna, caratteristiche diverse da quelle dell’uomo.”9 La donna,
infatti, soprattutto quando è madre, riveste un ruolo singolare e particolarissimo nella dimensione
domestica e questo dato non può essere ignorato, ma anzi dovrebbe essere di stimolo per riuscire
ad “armonizzare la legislazione e l’organizzazione del lavoro con le esigenze della missione della
donna all’interno della famiglia.”10
Il lavoro è forse la dimensione che incide più pesantemente sulla vita della famiglia. Nell’ultimo
decennio il mondo del lavoro è profondamente cambiato: nella società pre-industriale il lavoro era
prodotto della cultura e produceva, in certo modo, cultura. Questo termine porta in sé l’idea del
G.REDIGOLO, “Accogliere e comprendere”, cit.,35.
Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Lettera alle donne, 29 Giugno 1995, nn.9-10.
9
CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Lettera sulla collaborazione dell’uomo e della donna
nella Chiesa…, cit., n.13.
10
Ivi.
7
8
curare ciò che cresce da sé (colo -ere, coltivo): l’uomo di cultura infatti (e per comprendere bene
ciò che dico si può pensare alla cultura contadina o artigianale) consente a tutto di crescere
secondo il proprio ordine e lo aiuta in questa crescita, cercando di scoprire il senso intimo della
realtà11. La rivoluzione industriale del XIX° Sec. ha di fatto introdotto un’idea nuova di “civiltà”
vale a dire un complesso di istituzioni “prodotte” dagli uomini quasi come controparte della natura.
Osserva acutamente Benedetto XVI nella sua “Caritas in Veritate” al n.70: “La tecnica attrae
fortemente l'uomo, perché lo sottrae alle limitazioni fisiche e ne allarga l'orizzonte. Ma la libertà
umana è propriamente se stessa solo quando risponde al fascino della tecnica con decisioni che
siano frutto di responsabilità morale. Di qui, l'urgenza di una formazione alla responsabilità etica
nell'uso della tecnica”12. L’uomo di civiltà (il “tecnocrate”) introduce sempre e solo il proprio
ordine come su una realtà grezza “non trasforma più la materia prima prodotta dalla natura ma
elabora quella prodotta dalla cultura e dalla tecnologia, che è appunto l’informazione. Le attività
propriamente produttive delle imprese sono meno del 20%. Tutto il resto è progettazione, gestione,
amministrazione, commercio, controllo.”13 Il risultato della civiltà, dunque, è il passaggio da un
lavoro come cultura ad una produzione della civiltà che potremmo definire, con un neologismo
coniato da Stanislaw Grygiel, “produttura”14. Non per niente si osserva come il lavoro moderno
abbia perso di concretezza, sebbene questo mutamento sia stato ben mascherato con slogan ad
effetto come quelli che propagandano la flessibilità come strumento per vivere meglio in famiglia.
Sebbene porti in sé anche elementi positivi (come nota ancora il Pontefice15) la flessibilità aumenta
Per approfondire il tema si può leggere l’originale approccio di S.GRYGIEL, “L’uscita dalla caverna e la salita al
monte Moria. Saggio su cultura e civiltà”, in Il nuovo Aeropago, 2-3/2000, 25-61
12
BENEDETTO XVI, Caritas in Veritate, n.70
13
G.REDIGOLO, “Accogliere e comprendere”, cit.,37.
14
S.GRYGIEL, “L’uscita dalla caverna…”, 30
15
BENEDETTO XVI, Caritas in Veritate, n.25 :“La mobilità lavorativa, associata alla deregolamentazione generalizzata,
è stata un fenomeno importante, non privo di aspetti positivi perché capace di stimolare la produzione di nuova
ricchezza e lo scambio tra culture diverse. Tuttavia, quando l'incertezza circa le condizioni di lavoro, in conseguenza
dei processi di mobilità e di deregolamentazione, diviene endemica, si creano forme di instabilità psicologica, di
difficoltà a costruire propri percorsi coerenti nell'esistenza, compreso anche quello verso il matrimonio. Conseguenza
di ciò è il formarsi di situazioni di degrado umano, oltre che di spreco sociale. Rispetto a quanto accadeva nella società
industriale del passato, oggi la disoccupazione provoca aspetti nuovi di irrilevanza economica e l'attuale crisi può solo
peggiorare tale situazione. L'estromissione dal lavoro per lungo tempo, oppure la dipendenza prolungata dall'assistenza
pubblica o privata, minano la libertà e la creatività della persona e i suoi rapporti familiari e sociali con forti sofferenze
sul piano psicologico e spirituale. Desidererei ricordare a tutti, soprattutto ai governanti impegnati a dare un profilo
11
la tensione, l’ansia, perché esige tempi dedicati al lavoro che non tollerano condizionamenti:
cambiar spesso lavoro, lavorare fuori della propria zona, passare molto tempo lontano da casa non
fa altro che indebolire il legame tra lavoro e famiglia, squalificandoli entrambi.
Un altro dato rilevante, spesso conseguenza del fatto che è l’uomo il più impegnato fuori della
famiglia, è la forte perdita di centralità della figura paterna, perdita avvertibile anche in molti
aspetti della vita sociale16.
La società ha assunto infatti sempre più il valore materno della
“soddisfazione dei bisogni” (società “Grande Madre”), che è valore regressivo in quanto rimanda ai
bisogni della prima infanzia, e si è, per così dire, infantilizzata. La figura del pater familias è stata
sempre più emarginata per essere sostituita da un generico e stucchevole paternalismo: diretta
conseguenza del regredire della figura del padre è il rifiuto di ogni elemento di sofferenza (come ha
bene evidenziato la psicanalisi freudiana, il padre è colui che deve infliggere la “ferita” che separa
il figlio dal rapporto simbiotico con la madre17) che sta diventando tipico della nostra società.
Assistiamo, per dirla sempre in termini freudiani, a un perdurare nell’individuo adulto della libido
narcisistica, propria dell’immaturità, che obbedisce solo al comando dell’id (“mi piace e dunque lo
voglio”) e non sa più evolversi nella libido oggettuale, caratterizzante la maturità, che subordina il
principio-piacere al principio- realtà.
In sintesi si configura oggi uno scenario complesso: è in atto una complessiva riduzione delle
dimensioni della famiglia media e, soprattutto, una sua forte differenziazione, riconducibile a
fattori diversi quali18:
-
invecchiamento progressivo della popolazione causato dall’allungamento della vita
media e dalla denatalità;
rinnovato agli assetti economici e sociali del mondo, che il primo capitale da salvaguardare e valorizzare è l'uomo, la
persona, nella sua integrità: “L'uomo infatti è l'autore, il centro e il fine di tutta la vita economico-sociale”
16
Segnaliamo sull’argomento l’illuminante saggio di C.RISÈ, Il padre, l’assente inaccettabile, Edizioni San Paolo,
Cinisello Balsamo (Mi), 2003.
17
Cfr. ivi, 14-28.
18
Seguiamo parzialmente lo schema proposto da: F.BELLETTI, “Famiglie in situazione difficile o irregolare. Da una
ridefinizione in termini sociologici alla individuazione delle linee evolutive.” in UFFICIO NAZIONALE DELLA CEI PER LA
PASTORALE DELLA FAMIGLIA, Matrimoni in difficoltà: quale accoglienza e cura pastorale?, Edizioni Cantagalli, Siena
2000, 124.
-
maggior partecipazione della donna al mondo del lavoro e conseguente diminuzione di
famiglie monoreddito dipendenti da un unico capofamiglia;
-
riduzione del numero di figli per donna;
-
sviluppo di progetti lavorativi meno incentrati su sinergie a carattere familiare: sempre
meno la famiglia si vede impegnata in un medesimo ambito (ad eccezione di alcuni
settori della piccola impresa) e il rapporto di lavoro si individualizza sempre più;
-
un crescente sentire la famiglia come ambito di relazioni esclusive e private, poco aperte
all’esterno e regolate da codici interni alla famiglia stessa.
Se aggiungiamo altri fattori quali il progressivo ritardo dell’età del matrimonio e, comunque, la
riduzione del tasso di nuzialità e il ricorso sempre più frequente al divorzio o alla separazione
possiamo assistere da una parte ad una progressiva parcellizzazione della famiglia e, dall’altra, ad
una certa tendenza alla stagnazione che può essere evidenziata nel dato dell’allungamento
progressivo del periodo trascorso in casa dai figli.
Su questo fenomeno vogliamo spendere una parola: se esso può essere ricondotto da una parte
all’allungamento del periodo scolastico e dal conseguente ritardo dell’ingresso nel mondo del
lavoro (su cui incide anche l’alto tasso di disoccupazione proprio del nostro paese) dall’altra è
anche favorito da un clima familiare a “bassa conflittualità generazionale”, nettamente diverso da
quello che caratterizzò gli anni ’70 del secolo scorso. Questo dato non è certo positivo in quanto
indica il dilagare dell’indifferentismo e della caduta di forti spinte ideali a favore di un generico
buonismo.19 Certo non lo si può risolvere per legge, obbligando i figli ad uscire di casa a diciotto
anni, così come ci è toccato sentire in questi giorni.
Altro dato rilevante è la crescita delle famiglie unipersonali, oltre ad essere conseguenza
dell’invecchiamento della popolazione è dovuto anche per l’incremento consistente di persone
separate o divorziate: tuttavia l’aumento di questa forma di vita tra le giovani generazioni è dovuta
anche alla tendenza sempre più diffusa a non sposarsi per paura di contrarre legami stabili e
19
Tra i neologismi questo termine ha una certa valenza sociologica perché sintetizza un diffuso modo di vivere i
rapporti interpersonali
duraturi (il timore dell’impegno definitivo connota pesantemente la post-modernità) e anche alla
crescente mobilità lavorativa che rende difficile la programmazione a lungo termine. Per inciso ci
chiediamo se, per quello che noi intendiamo per famiglia, una sola persona possa esser definita
tale: non parliamo, naturalmente, di chi si ritrova solo a causa della morte del coniuge o dei
genitori o, comunque, non per sua volontà, ma chi sceglie lo stato di single come stile di vita. Se la
famiglia è realmente una chiesa domestica (laicamente potremmo tradurre l’espressione in “cellula
della società”) essa deve essere caratterizzata da un desiderio di comunione interpersonale che,
laddove non possa esser realizzato nella dimensione coniugale, deve attuarsi in forme alternative di
amore ed apertura agli altri.
La partenza dei figli dalla famiglia d’origine, poi, va a costituire molti “nidi vuoti”, cioè coppie di
genitori o genitori soli (vedovi o separati) senza figli: questo dato rappresenta un’altra sfida in
termini pastorali e sociali in quanto queste persone possono rappresentare una vera risorsa per
molti ambiti (si pensi, ad esempio, a quello del volontariato) e debbono, perciò, essere oggetto di
una particolare attenzione. Anche le politiche sociali
nei loro confronti potrebbero tendere
maggiormente a valorizzarli nelle loro potenzialità, essendo molti appartenenti a questa categoria
pensionati con ottima efficienza psico-fisica.
Come si nota i dati sulla situazione della famiglia si presentano a noi come variegati e spesso
apparentemente contraddittori se non letti in un quadro più vasto, confrontandoli, ad esempio, con
quelli del lavoro e della casa: tuttavia hanno in sé elementi che
sollecitano in modo forte
l’impegno di tutta la comunità, civile ed ecclesiale. Queste mie osservazioni, di per sé di carattere
generale, vanno infatti coniugate in prospettiva particolare, tenendo conto delle situazioni di vario
tipo che viviamo nella nostra regione, a livello provinciale e comunale: in tal modo può essere
possibile approcciare adeguatamente il problema e dare risposte concrete e decise a quelle politiche
che tendono, consapevolmente o no, a marginalizzare la famiglia.
Concludo osservando che questi anni di crisi hanno avuto il merito, se così posso esprimermi, di
mostrare quanto le famiglie siano maestre nell’ “inventare” nuovi stili di vita, liberi dai
condizionamenti della civiltà dei consumi e dalla spietata razionalità dell’homo oeconomicus, che
rifugge la fantasia e resta schiacciato solo sul presente. È necessario svincolarsi da tali “suggestivi”
modelli per vivere ciò che è specificamente cristiano:
“(la famiglia) è il primo luogo in cui l’annuncio del vangelo della carità può essere da tutti
vissuto e verificato in maniera semplice e spontanea. (…) Il rapporto di reciproca carità tra
l’uomo e la donna, primo e originario segno dell’amore trinitario di Dio, la fedeltà coniugale, la
paternità e maternità responsabile e generosa, l’educazione delle nuove generazioni all’autentica
libertà di figli di Dio, l’accoglienza degli anziani e l’impegno di aiuto verso le altre famiglie in
difficoltà, se praticati con coerenza e dedizione, in un contesto sociale spesso non disponibile e
anche ostile, fanno della famiglia la prima vivificante cellula da cui ripartire per tessere rapporti
di autentica umanità nella vita sociale.”20
20
CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Evangelizzazione e testimonianza della carità. Orientamenti pastorali per gli
anni ’90, 8 Dicembre 1990, n.30.
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