Uno splendido parelio (falsi Soli), fenomeno ottico dovuto alla presenza di microcristalli di ghiaccio nell’ alta atmosfera che deviano la luce del Sole dando luogo a due macchie parallele e laterali all’astro diurno. Le due code laterali sono ancora più rare a vedersi. La particolarissima foto è stata scattata da Alvise Tomaselli da Arabba. IN QUESTO NUMERO Editoriale di Claudio Pra pag. 2 Urano di Andrea Tomaselli pag. 3 Tunguska, un bel mattino di estate, 100 anni fa… di Tomaso Avoscan pag. 4 L’incantevole spettacolo del cielo stellato di Salvatore Albano pag. 7 Astrotest pag. 9 Lo spazio… del sorriso pag. 9 La distanza delle stelle di Mirco Nadalet pag. 10 Per contattare il responsabile del giornalino Claudio Pra: e-mail : [email protected] Telefono: 0437/523186 Indirizzo: via Saviner Di Calloneghe 22 32020 Rocca Pietore (Bl) IN QUESTO NUMERO Virus non letale di Vittorio De Nardin pag. 11 Lo spazio da ascoltare: Let there be rock di Cristina Avoscan pag. 12 Primi passi in cielo: istruzioni per l’uso di Claudio Pra pag. 13 Finalmente chiarita l’origine della pietra di barcis di Tomaso Avoscan pag. 16 Gli astrofili di “Cieli Dolomitici” pag. 17 Sito internet dell’Associazione: www.cielidolomitici.it e-mail [email protected] WEBMASTER Andrea Cibien N°9 GIORNALINO DELL’ ASSOCIAZIONE ASTROFILI AGORDINI “CIELI DOLOMITICI” N°9 1 EDITORIALE di Claudio Pra Anno nuovo, Direttivo nuovo! Dopo un 2007 di quasi stallo per vicissitudini che lasciamo volentieri alle spalle, il 2008 si è aperto sotto il segno della volontà di proseguire là dove eravamo rimasti, con la puntuale attività svolta a prezzo di grandi sforzi (magari spesso non ripagati da un adeguato interesse) e il lavoro sotterraneo ma importante, spesso di routine, che i responsabili portano avanti in Associazione. A proposito di responsabili, nei primi mesi dell’anno, come scritto sopra, si è insediato il nuovo gruppo dirigente votato dagli Associati cui spetta guidare l’Associazione per i prossimi tre anni. Nuovo si fa per dire perché a parte una faccia nuova, come spesso, per non dire sempre, succede, le persone che si prendono la briga di guidare un Associazione locale sono sempre le stesse. Non certo per sete di potere ma per...mancanza di alternative. Il problema non si pone finché c’è voglia e motivazione. Poi, quando queste vengono a mancare, si rischia di occupare un posto solo per non mandare tutto all’aria. Certo senza stimoli i risultati non possono essere granché positivi. Non preoccupatevi comunque, non è ancora il caso nostro, almeno non mi pare. Però in futuro un ricambio sarà fisiologico e sarebbe bello che la ricerca di un nuovo presidente, segretario o membro del direttivo non fosse una caccia al tesoro. Ne va della vita di “Cieli Dolomitici”. Ecco comunque l’esito del voto: Tomaso Avoscan 50 voti, Alvise Tomaselli 31, Claudio Pra 24, Andrea Cibien 23, G. Battista Cibien 9, Olivio Gnech e Alberto Bertini 8, Rosanna Avoscan 7, Mirco Nadalet 6, Marzio Soppesa e Eva Gabrieli 4, Marco Rossi 3, Raffaele Gnech e Katia Vallata 1, schede nulle 2. Da questo risultato, dopo qualche rinuncia, è uscito il nuovo Direttivo così composto: Presidente Tomaso Avoscan, Vicepresidente Alvise Tomaselli, Segretario Alberto Bertini, Tesoriere Marzio Soppesa, Consiglieri Claudio Pra, Andrea Cibien più un membro nominato dalla Giunta del Comune di S. Tomaso. Buon lavoro! In questo giornalino trovano spazio numerosi contributi “inediti”, vale a dire di Associati che per la prima volta si sono “buttati” scrivendo un loro articolo. Questo è un buon segno. Prossimamente aspettiamo altri pronti ad imitarli. Anche il più semplice e modesto contributo è importante. Nella pagina seguente avrà l’onore di aprire “Cieli Dolomitici” numero 9 proprio una delle nuove firme, addirittura un bambino. A proposito di bambini: numerosissimi quelli presenti a Cencenighe in una limpida serata di maggio strappata a una primavera piena di neve, pioggia e nubi. Tutti ad osservare Saturno e la Luna, due tra i più fotogenici protagonisti del cielo. E’ proprio in serate come questa che si gettano le basi per “catturare” adepti alla causa celeste. È proprio guardando con gli occhi da bambino quella incredibile piccola sfera circondata da un anello che un giorno si racconterà con emozione e nostalgia di quella volta che si osservò per la prima volta Saturno e da lì magari cominciò il dialogo con il cielo attraverso un piccolo binocolo, poi un piccolo telescopio, poi… La meraviglia dopo aver accostato l’occhio all’oculare in serate simili si legge comunque anche in chi bambino non lo è più. Così il cielo accomuna tutti in un unico stupore. E’ il premio più bello per gli organizzatori della serata. Alla prossima! Vi invitiamo a collaborare alla realizzazione del giornalino. Inviate il vostro materiale a Claudio Pra: e-mail : [email protected] Indirizzo: via Saviner Di Calloneghe 22 32020 Rocca Pietore (Bl) LA BIBLIOTECA DELL’ASSOCIAZIONE Tra le opportunità offerte agli Associati c’è quella di poter accedere alla biblioteca dell’Associazione. La biblioteca è ben fornita (oltre a molti libri e riviste ci sono anche videocassette e DVD) ed è auspicabile che in futuro un buon numero di persone se ne servano. Ricordiamo che per accedere alla biblioteca bisogna contattare Rosanna al 3288220252 per fissare un appuntamento 2 URANO di Andrea Tomaselli (quinta elementare di Taibon Agordino) Urano fu scoperto il 31 marzo 1781, quando William Herschel Lo osservò attraverso il suo telescopio durante una sistematica esplorazione della volta celeste. Urano è uno dei quattro “giganti gassosi” del sistema solare esterno ( gli altri tre sono Giove, Saturno e Nettuno). Urano ha un diametro di 52000 km, quattro volte quello della Terra, è distante 2900 milioni di km dal Sole impiega 84 anni a completare un’orbita, l’inclinazione dell’asse di rotazione del pianeta è di 98°. Urano ha una trentina di satelliti di cui i più importanti sono: Ariel, Umbriel, Titania, Oberon e Miranda. Urano può essere visto facilmente con un binocolo, si presenta come una debole stella. Il suo periodo di rotazione è di 17 ore, 14 minuti, 24 secondi. La caratteristica più interessante del pianeta è l’orientamento del suo asse di rotazione. Mentre tutti gli altri pianeti hanno il proprio asse quasi perpendicolare al piano dell’orbita, quello di Urano è quasi parallelo, quindi si muove lungo la sua orbita “rotolando”. La sua atmosfera è composta da idrogeno, elio e metano che ne conferisce un colore spiccatamente blu. Nel 1986 la sonda spaziale “Voyager 2” rilevò nubi trasportate da correnti d’aria con velocità comprese tra i 100 e i 600 km/h. Per quanto riguarda la struttura centrale, si ritiene che Urano abbia un nucleo roccioso circondato da un mantello di ghiaccio, Herschel in origine gli diede il nome di “Stella di George” in onore del re della Gran Bretagna, Giorgio III. Urano possiede anche un sistema di anelli appena percettibile, composto da materia scura e polverizzata con spessori intorno ai 10 m. Il sistema di anelli fu scoperto il 10 marzo 1977. Herschel scoprì anche Oberon e Titania. Ho potuto ammirare Urano con il binocolone del mio papà, si presentava come una “stellina” dal colore azzurro/blu in mezzo ad una miriade di stelline. Urano e gli altri pianeti del sistema solare sono stati trattati a scuola e spiegati nella interessante visita presso il planetario e osservatorio astroIl planetario disegnato da Andrea Tomaselli nomico di San Tomaso Agordino. 3 TUNGUSKA, UN BEL MATTINO DI ESTATE, 100 ANNI FA … di Tomaso Avoscan (adattamento di articolo Sapere – aprile 2008) Siberia centrale, 30 giugno 1908, ore 7,14 del mattino: un’immensa scia luminosa squarcia il cielo seguita da un boato che risuona fino a mille chilometri di distanza. Un’esplosione di energia pari a mille bombe di Hiroshima in pochi istanti rade al suolo 80 milioni di alberi su un’area di circa 2 000 chilometri quadrati a 88 chilometri a nord del lago Bajkal, una località che prende il nome dal vicino fiume Podkamennaja Tunguska. A 600 chilometri di distanza il treno della Transiberiana rischia di deragliare mentre onde anomale vengono registrate dai sismografi di Berlino, Zagabria e Londra. Nelle ore successive una forte tempesta elettromagnetica mette fuori uso le bussole per molto tempo. Un bagliore permane per giorni nei cieli di Asia ed Europa. Una cronaca inglese dell’epoca riporta la presenza per giorni di una luce diffusa che permetteva di “leggere il Times a Londra in piena notte”. Cosa accadde veramente a Tunguska? Fin da subito si pensò alla caduta di un asteroide o di una cometa e, a partire dagli anni Venti, furono organizzate numerose spedizioni per verificare questa ipotesi. All’inizio degli anni Venti Leonid Kulik, un mineralogista di origine estone, si appassionò al mistero di Tunguska dedicandosi a lla ricerca di ogni tipo di informazione fino alla sua morte nel 1942. A partire dal 1921, nell’arco di dodici anni, organizzò ben quattro spedizioni nell’area dell’evento. Kulik effettuò campionamenti, scattò foto aeree e distribuì questionari agli abitanti. Un impresa notevole per l’epoca, anche in considerazione del fatto che quella che a memoria d’uomo è la maggiore esplosione dovuta alla collisione della Terra con un oggetto extraterrestre si è verificata nella regione meno popolata della Russia, il distretto di Evenkia grande due volte e mezzo l’Italia ma abitato solo da diciassettemila persone. Quasi come cercare un ago in un pagliaio! Tra i testimoni rintracciati da Kulik, un cacciatore che si trovava nelle vicinanze raccontò di aver «provato un forte calore e udito un forte boato» e di essere stato «scaraventato a sei metri di distanza, il tutto sotto una “pioggia di pietre seguita da una forte ondata di calore”. Gli abitanti di Vanavara, un villaggio a una settantina di chilometri dal luogo dell’esplosione, videro una colonna di fuoco alta 12 chilometri che si trasformò in una nuvola a forma di fungo ancora più alta. «Avevo appena attaccato il cavallo all’aratro», riferì al ricercatore russo un uomo che all’epoca era ancora un ragazzo, «e stavo per sistemarne un altro quando udii un colpo come di uno sparo. Mi voltai e vidi un oggetto infuocato di forma allungata che solcava il cielo. La parte anteriore era molto più larga di quella posteriore e il suo colore ricordava quello di un fuoco che arde alla luce del giorno. Era molte volte più grande del Sole, ma meno luminoso, tanto che potevo osservarlo a occhio nudo. Dietro la fiamma trascinava qualcosa somigliante a polvere, che si addensava in nuvolette; le fiamme erano seguite da aloni blu. Il volo dell’oggetto infuocato durò per circa tre minuti, poi scomparve dietro il profilo di una collina a nord. Sentii ancora scoppi come d’arma da fuoco e la terra tremò. Le imposte delle finestre sbatterono al momento in cui persi di vista l’oggetto. Terrorizzato mi rifugiai in una capanna con altri contadini» . Il lavoro di Kulik aprì la strada alle successive ricerche, come egli stesso aveva prefigurato. Nel corso delle sue spedizioni Kulik individuò un’area boschiva rasa al suolo come luogo d’impatto del misterioso oggetto cosmico. Notò anche una serie di piccoli crateri che ritenne essere stati causati dalla caduta di frammenti del corpo celeste, ma l’ipotesi venne poi smentita da successive ricerche che attribuirono a cause geofisiche l’origine di quelle cavità. E così in assenza di prove evidenti, con il passare degli anni la teoria dell’impatto diretto al suolo venne abbandonata e prese sempre più piede l’ipotesi che un corpo solido di origine cosmica fosse esploso a 5-10 chilometri di altitudine. A cavallo fra gli anni Cinquanta e Sessanta il geochimico russo Kirill Florenskij organizzò sei spedizioni (la prima nel 1958, nel cinquantenario dell’evento) alla ricerca di particelle di materiale proveniente dallo spazio senza però trovare niente. Si orientò quindi verso l’altra possibile spiegazione: una cometa. Ma anche questa rimase solo un ipotesi. Ma nemmeno un piccolo frammento è stato trovato, e così tutt’oggi gli scienziati si chiedono che fine abbiano fatto i residui dell’oggetto che provocò quella catastrofe. Come spesso succede con i misteri scientifici che conquistano la scena mediatica, nel corso degli anni la fantasia umana si è sbizzarrita nel formulare ipotesi di ogni sorta. Immancabilmente qualcuno ha suggerito che si trattasse di un UFO esploso a pochi chilometri di altezza (addirittura nel 2004 l’agenzia di stampa russa Interfax annunciò un presunto ritrovamento di residui dell’astronave aliena) o di un fallito tentativo di contatto da parte di civiltà tramite un potente raggio laser. Fortunatamente, l’interesse della comunità scientifica nei confronti di Tunguska fu immediato ed anima ancora molti ricercatori di varie discipline che tutt’oggi continuano a cercare di capire la reale dinamica dell’evento. Tra le più ardite ipotesi avanzate nel corso dei decenni, vi è quella che immagina che un piccolo buco nero abbia attraversato la Terra o che si sia trattato della collisione con una massa di antimateria che avrebbe scatenato 4 una immensa reazione nucleare. Ma, restando nel campo delle ipotesi più plausibili, oggi gli scienziati si dividono fra la teoria dell’asteroide (un frammento di roccia vagante nello spazio interplanetario) e quella della cometa (un corpo prevalentemente formato di ghiaccio e polveri che compie orbite ellittiche regolari più o meno ampie intorno al Sole). Ora, proprio mentre si preparano le celebrazioni per il centenario dell’evento, che si svolgeranno dal 26 al 28 giugno a Mosca, i risultati di una spedizione italiana, per la prima volta, e forse in modo definitivo, confermano l’ipotesi dell’asteroide. Lo scorso agosto, Luca Gasperini insieme ad altri ricercatori dell’Istituto di Scienze Marine (ISMAR) del CNR e delle università di Bologna e Trieste hanno esposto sulla rivista americana Terra Nova le sorprendenti conclusioni della spedizione effettuata a Tunguska nel 1999 e successivamente hanno annunciato una nuova pubblicazione per il prossimo giugno, in occasione della conferenza celebrativa di Mosca. Grazie all’impiego di strumentazioni avanzate e alla messa in campo di competenze interdisciplinari Gasperini e colleghi sono convinti di aver trovato numerose evidenze che permettono di ricostruire la dinamica dell’evento: un asteroide avrebbe attraversato la nostra atmosfera esplodendo a qualche chilometro dalla superficie terrestre. Un frammento sopravvissuto alla disintegrazione avrebbe poi proseguito nella corsa cadendo in un punto situato pochi chilometri più avanti. In seguito, la depressione conica nel terreno sarebbe stata riempita d’acqua dal fiume Kimchu che tutt’ora vi confluisce dando origine al piccolo lago Cheko. Nel 1991 la prima spedizione italiana fu organizzata per iniziativa di Giuseppe Longo e Menotti Galli, due fisici dell’Università di Bologna che a Tunguska effettuarono delle indagini sugli alberi sopravvissuti e sugli strati di torba. Nel 1999 lo stesso Longo organizzò una seconda spedizione per studiare in modo più approfondito le caratteristiche del lago Cheko, situato a otto chilometri dall’epicentro della deflagrazione. All’epoca le uniche informazioni su quel lago provenivano dall’analisi di alcuni campioni di materiale raccolti nel 1963, che però, con la tecnologia dell’epoca, non avevano fornito risultati utili. La spedizione italiana aveva quindi due obiettivi: individuare nel fondale tracce di detriti prodotti dall’esplosione e stabilire se la depressione che dà origine al lago fosse stata generata proprio dall’impatto con un frammento del corpo celeste. Un’ipotesi legittimata dalla constatazione che, in effetti, le mappe della zona riportano la presenza del lago solo a partire dal 1928 e nessuna testimonianza dei primi anni del Novecento vi fa accenno. Da qui il sospetto che la sua origine potesse essere legata all’esplosione del 1908. La campagna Tunguska99 ha permesso per la prima volta di investigare la morfologia del fondale per mezzo di strumenti di scansione acustica, sismica, visiva ed elettromagnetica. Anche i depositi del sottofondo del lago sono stati analizzati con tecniche molto sofisticate. E i risultati sono stati sorprendenti fin dalle prime osservazioni. Il lago Cheko, di forma moderatamente oblunga e largo circa 500 metri, comunica con il fiume Kimchu che forma un’ansa proprio in corrispondenza del bacino fungendo da suo immissario ed emissario. Se si esclude l’area periferica di bassa profondità, di natura alluvionale, la morfologia del lago si è mostrata piuttosto regolare, con una forma a imbuto a base leggermente ellissoidale e una batimetria massima di 50 metri corrispondente al vertice del cono. Questo dato è già anomalo in confronto a tutti gli altri laghi siberiani di origine termo-carsica che si formano per un fenomeno di scioglimento localizzato del permafrost (lo strato del sottosuolo permanentemente gelato, nella zona spesso anche fino a 30 metri), hanno una profondità minore a parità di superficie e un fondo generalmente piatto. La forma conica del lago Cheko è invece molto simile ai 170-180 crateri da impatto conosciuti sulla Terra. Anche gli studi sedimentologici hanno fornito importanti indizi: la stratificazione fine e regolare tipica dei laghi costituisce solo un sottile strato superficiale al di sotto del quale i rilevamenti hanno individuato esclusivamente sedimenti di natura irregolare. Tutto ciò va a favore dell’ipotesi che il lago sia di recente formazione. Partendo da questo presupposto, i ricercatori hanno rivolto le successive indagini a verificare se la nascita del lago sia coincisa con la caduta dell’asteroide e a considerare tutte le possibili cause alternative estranee all’evento di natura cosmica. Sono così giunti a escludere che il lago si sia potuto formare per erosione, poiché i bacini di questo tipo hanno una morfologia a ferro di cavallo e con un rialzo al centro, o per sprofondamento, tipo dolina carsica, poiché ciò non è compatibile con la conformazione geologica della zona, o ancora che abbia un’origine sismica, in quanto la zona è tettonicamente stabile. Scartata, infine, anche l’origine vulcanica: la regione mostra tracce di attività vulcanica risalente a milioni di anni fa, ma un bacino con un tasso di sedimentazione come quello registrato nel lago Cheko sarebbe stato colmato dai detriti apportati dal fiume nel giro di poche migliaia di anni. Una volta escluse queste ipotesi, resta quella della formazione del lago concomitante all’impatto con l’asteroide. Tanto più che nessuna mappa o testimonianza precedente al 1908 fa riferimento all’esistenza del 5 specchio d’acqua. Anche lo studio dei pochi alberi sopravvissuti confermerebbe questa teoria: la conformazione del tronco mostra in maniera evidente una flessione nella direzione della lunghezza del lago; gli anelli di accrescimento testimoniano inoltre una forte accelerazione subito dopo il 1908, dovuta probabilmente all’ampliamento dello spazio vitale in seguito alla morte della vegetazione circostante. Lo scenario ipotizzato sulla base di queste considerazioni e dei rilevamenti effettuati è quello di un asteroide di 50-60 metri di diametro precipitato a una velocità di 20 chilometri al secondo ed esploso a 5-10 chilometri di altezza. Ciò avrebbe causato la principale onda di devastazione. Ma un frammento dell’asteroide sarebbe stato proiettato, a velocità ridotta, 8 chilometri più avanti rispetto all’epicentro formando la depressione conica che il fiume ha poi riempito di acqua. La possibilità che il corpo extraterrestre fosse una cometa anziché un asteroide non è del tutto esclusa ma viene stimata dagli scienziati con una probabilità del 17 per cento. L’ipotesi avanzata su Terra Nova dai ricercatori italiani non convince però Gareth Collins e i colleghi dell’Imperial College di Londra, che mettono in discussione la teoria italiana in merito alla corrispondenza fra l’origine del lago Cheko e l’impatto. Secondo Collins, la forma allungata del lago non sarebbe compatibile con le presunte dimensioni dell’oggetto precipitato e con una bassa velocità. Piuttosto, la particolare morfologia del bacino potrebbe essere conseguenza di una unica esplosione avvenuta a 20 chilometri di altezza che avrebbe totalmente vaporizzato l’asteroide. La presenza di alberi sopravvissuti in corrispondenza dell’epicentro ne sarebbe la conferma. Ma secondo Enrico Bonatti, geologo, da anni impegnato nelle ricerche su Tunguska e tra gli autori dello studio pubblicato la scorsa estate, «le anomalie riscontrate rispetto ai crateri tipici, ovvero un basso rapporto fra la profondità e il diametro e la mancanza nei dintorni di materiale espulso dall’impatto, si possono spiegare considerando le particolari caratteristiche del terreno». L’acqua e il metano abbondantemente presenti nel suolo e nel permafrost, spiega il ricercatore, sarebbero evaporati in seguito al calore sviluppato dalla collisione e ciò avrebbe contribuito allo sprofondamento, accrescendo le dimensioni del cratere negli istanti successivi alla collisione. Per questa peculiare caratteristica del suolo nella zona colpita, il cratere potrebbe essere stato scavato da un oggetto più piccolo di quanto necessario per avere lo stesso effetto in un terreno di altra natura, per esempio più secco o roccioso. Tutto questo spiegherebbe anche la limitata espulsione di materiale nell’area circostante. «La zona è ricca di acqua e paludi: l’impatto potrebbe essere stato attenuato dal terreno morbido», conclude Bonatti. La bassa velocità del frammento precipitato spiegherebbe anche la forma ellittica del lago (impatti ad alta velocità formano crateri perfettamente circolari, a meno che l’angolo di incidenza non sia particolarmente piccolo). Bonatti inoltre non esclude che un frammento dell’asteroide possa trovarsi ancora intatto lì sotto: i rilievi sismologici hanno individuato nel centro del lago, sotto uno strato di 10-15 metri di fango, una discontinuità nella densità del sedimento che potrebbe corrispondere al materiale precipitato o comunque a un punto in cui il terreno è stato compattato dalla pressione dello scontro. L’obiettivo è ora trovare in questo punto, anche tramite operazioni di trivellazione, le prove definitive della presenza del corpo responsabile della formazione del cratere. «C’è di sicuro un corpo denso», afferma Bonatti, «e future indagini partiranno da questo indizio per cercare le prove che possano dimostrare la nostra teoria». Riprese effettuate con una telecamera subacquea fanno scorgere rami affioranti dal fondo del lago: potrebbero essere residui degli alberi presenti nel punto d’impatto. Ciò sarebbe confermato dai rilievi ecografici. La prossima spedizione, che si pensa potrà svolgersi nel 2009, dovrà scoprire se sotto il lago c’è effettivamente un frammento dell’asteroide. I ricercatori italiani sono convinti di essere vicini alla soluzione definitiva dell’enigma. Se così fosse, presto non solo sarà svelato un mistero che dura da cento anni ma i geofisici avranno a disposizione un modello in più per descrivere eventi come questo, che non sono poi così rari come si potrebbe pensare. Un fatto del genere si può verificare sul nostro pianeta con una frequenza che va da qualche secolo a mille anni. Se proviamo a immaginare le conseguenze che un impatto simile può avere in un’area popolata non è difficile comprendere l’importanza di avere a disposizione le conoscenze necessarie, se non a prevenirlo, quantomeno a essere preparati a una simile eventualità, a calcolarne preventivamente gli effetti. L’oggetto responsabile della catastrofe di Tunguska era relativamente piccolo a confronto con gli asteroidi e le comete che vagano nel Sistema Solare e che potrebbero colpire la Terra: il meteorite che presumibilmente causò l’estinzione dei dinosauri 65 milioni di anni fa aveva un diametro stimato intorno ai dieci chilometri. Anche in questo numero, nella pagina che segue, pubblichiamo il contributo di un astrofilo di fama, Salvatore Albano, curatore della rubrica “Nel cielo” sul mensile astronomico Coelum. Salvatore si occupa di astronomia dall’età di 14 anni ed è un grande appassionato e conoscitore di profondo cielo. Ha pubblicato sull’argomento i libri “L’osservazione visuale del cielo profondo” (Il Castello editore 2004), una guida adatta sia all’astrofilo esperto che al neofita, con la descrizione di oltre 400 oggetti e i consigli pratici per la loro osservazione, e “L’ arte di osservare con il telescopio” (Il Castello editore 2008), alta risoluzione nella osservazione visuale degli oggetti del cielo profondo in uscita in questi giorni. Un grazie caloroso a Salvatore per questo regalo a “Cieli Dolomitici” 6 L’INCANTEVOLE SPETTACOLO DEL CIELO STELLATO di Salvatore Albano L’astronomia come passione La bellezza del cielo stellato ci avvolge da ogni parte, siamo letteralmente “immersi nello spazio” ma, stranamente, nonostante una Terra sovrappopolata, solo pochi (in relazione ai molti ovviamente) se ne rendono conto. Ci sono i semplici curiosi, e chi, come chi legge queste righe (almeno spero) nutre una sincera passione per la scienza del cielo, e per coltivarla è disposto a rubare ore preziose al sonno, ma anche a deturpare il portafoglio dei soldi necessari all’acquisto di una strumentazione che gli dovrà permettere di immergersi nel vasto cielo. In altri termini, avverte la necessità di stare al contatto con tutto quello che possiamo definire; “celeste”. Capita al sottoscritto che dopo un lungo periodo di forzata astinenza (provocata de nubi insistenti) dall’osservazione astronomica, di sentire i “morsi” di una fame insaziabile di cielo, di stelle… Chi leggendo queste righe non si meraviglia, è senz’altro un appassionato di cose celesti o, in altri termini, un astrofilo, ossia un amante di degli astri. L’importanza di un cielo cristallino Quando, nell’ormai lontano inverno del 1981 cominciavo a muovere i primi passi in quest’affascinante mondo, avevo a disposizione un cielo ancora non totalmente devastato dalle luci, tanto che, dalla provincia di Torino riuscivo ancora a intravedere (nelle nottate spazzate dal Favonio) la Via Lattea; sbiadita, slavata, eterea e trasparente, ma presente! Ho cominciato a familiarizzare con le costellazioni, in primis il gigante Orione, che non ho mai smesso di salutare, proprio come si fa con un caro amico, a ogni sua ricomparsa verso est, nei mesi invernali. Ho cominciato quindi a occhio nudo e, ricordo quei giorni con nostalgia (le stelle si apprezzano anche senza nessun ausilio ottico!). Si capisce che data la qualità del cielo di periferia di allora, equiparabile a quello di campagna di oggi, mi ha permesso di sfruttare senza muovermi da casa, il mio primo 114/900, con il quale, sempre dalla provincia di Torino, ho osservato tutti gli oggetti del catalogo di Messier. Avendo la comodità di un’osservazione casalinga non mi sono mai preso la briga di muovermi verso cieli montani; errore assai grande! Dopo qualche tempo, mi ritrovavo in macchina con un amico, nei pressi di Avigliana, a circa 30/40 km da Torino e, guardando il cielo rimasi letteralmente impietrito; una Via Lattea evidente e in certi punti (verso lo zenit) addirittura scolpita. Cominciai a rendermi conto della reale (nonché abissale) differenza tra un cielo “vero” e uno “finto”. Da allora non ho mai spesso di recarmi in quota (sebbene non ho mai trascurato l’osservazione dalla mia postazione periferica). Molti anni sono trascorsi da allora, la qualità del cielo è notevolmente peggiorata, ma ci sono ancora molti astrofili che, nonostante tutto “osservano” (o almeno pensano di farlo) esclusivamente dal balcone di casa, non rendendosi evidentemente conto dell’enorme baratro che li separa da un buio cielo d’alta montagna. Con questo non si vuole precludere certamente l’osservazione ”casalinga”, bisognerà solamente adottare alcune riserve: 1. Non tutti gli oggetti celesti risentono in ugual misura dell’inquinamento luminoso. I pianeti rappresentano un buon esempio, spesso si osservano meglio dalle brumose città dall’aria ferma, che dalla montagna. Un discorso analogo lo si può affrontare per le stelle doppie (a patto che le stelle non siano eccessivamente deboli). Anche gli ammassi globulari più brillanti e le nebulose planetarie “rispondono” bene a un cielo moderatamente inquinato. Perfino alcune nebulose eclatanti (M42/M8/M17 tanto per citarne alcune) possono essere osservate con profitto da una buona postazione suburbana. 2. Si dovranno schermare le luci circostanti, impedendo che entrino direttamente all’interno del telescopio. 3. Si utilizzino vari filtri interferenziali, adatti alla propria apertura e di differente tipo: utile per bloccare le luci dei lampioni risultano i filtri del tipo Deep Sky (banda larga). Filtri più selettivi (OIII/UHC) risultano indicati per nebulose planetarie, il primo, e nebulose a emissione. Non ci si attenda il miracolo, un cielo “sporcato” dalle luci, rimarrà tale nonostante il filtro! 4. Un cielo non perfettamente scuro è da preferire solo in una circostanza; quando si è impegnati a riconoscere le costellazioni, in quanto un cielo terso e cristallino rende più difficoltoso il riconoscimento delle stesse. Ho potuto rendermi direttamente conto di questo, notando l’imbarazzo di alcuni amici ai quali stavo insegnando a familiarizzarsi con il cielo stellato, i quali sono stati letteralmente presi dal panico in alta montagna. Un amico in particolare mi disse: “mamma mia, non ho mai visto così tante stelle, non ci capisco più nulla!” proprio quando, questa persona cominciava a riconoscere le costellazioni sotto un cielo cittadino... Comunque, quando possibile (tranne che nel 4° punto) sarà sempre meglio recarsi sotto un cristallino cielo d’alta montagna, per il quale non esiste sostituto alcuno, si potrà notare un notevole guadagno, anche sugli oggetti indicati come “adatti” sotto un cielo moderatamente inquinato. Morale: potendo è sempre meglio recarsi in quota. L’osservazione diretta 7 Frequentemente (sic!) si tende ad associare l’osservazione del cielo con una ben determinata strumentazione, come se gustare gli oggetti celesti dipendesse esclusivamente da questa. Non mi si fraintenda però; lungi da chi scrive screditare la strumentazione astronomica (adoro telescopi e binocoli d’ogni genere) ma il brivido provocato dell’osservazione dell’immensità, non dipende dal telescopio utilizzato, in quest’ambito entra in gioco la sensibilità di ognuno, in altri termini ciò che si prova per il cielo stellato. Personalmente, durante le mie serate dedicate all’osservazione di galassie deboli (a volte debolissime!) non posso fare a meno di osservare il firmamento a occhio nudo, perdendomi tra le innumerevoli stelle che punteggiano il nero cielo d’alta montagna. Ovviamente si passa dall’occhio nudo, al binocolo, al telescopio di vario diametro e tipo. A fianco Salvatore Albano “sul campo” con il suo “Bimbo”, un mega Dobson da mezzo metro di diametro. Ci sono due modalità d’osservazione: 1. Il “mordi e fuggi”. 2. L’approfondimento dell’oggetto osservato. Ci guarderemo bene dall’estremizzare entrambi gli aspetti; se da un lato (punto primo) ci ritroveremmo con due -trecento oggetti “sbirciati” ma non gustati, nel corso di una nottata al telescopio, dall’altro lato possiamo trascorrere buona parte della notte in compagnia di pochi oggetti, trascurando altri tesori. Chi scrive adotta una semplice via di mezzo, con un occhio di riguardo al “gustare” ciò che osservo. Mi riservo una bella scorpacciata di oggetti celesti, anche notevoli, a fine serata, tanto per affrancarmi gli occhi dalla precedente “fatica”. Un altro aspetto che non va trascurato, è la descrizione di ciò che osserviamo; i miei quaderni riportano le descrizioni di 25 anni fa! Questo modo di procedere è utile per diversi motivi. • Avere un database personale, può servire da serbatoio da condividere con altri. • Si attestano i progressi negli anni della nostra attività di attenti osservatori visuali, e le vie che ci hanno aiutato a conseguirli. • Confrontando osservazioni nuove, con quelle più datate, possiamo testimoniare il degrado della trasparenza atmosferica, per opera di un dilagante e vergognoso, inquinamento luminoso. • Alcuni oggetti possono riservarci delle piacevoli sorprese, come ad esempio la nebulosa variabile di Hubble (NGC 2261) permettendoci di registrare “in diretta” per così dire, i suoi mutamenti, sia (apparentemente) nella forma che nella luminosità. Possiamo inoltre renderci conto di come, nel corso degli anni, cambi anche la qualità degli strumenti astronomici, con l’introduzione di nuovi trattamenti e/o l’uso di un’elettronica sempre più sofisticata. Chiudo questa chiacchierata così, come l’ho iniziata, parlando di sensibilità verso il cielo stellato, raccontando un episodio inerente i miei inizi nell’osservazione telescopica. Siamo verso la metà dell’ormai lontano 1983, quando un ragazzino (il sottoscritto per l’appunto) si apprestava a osservare un cielo di periferia, molto meno inquinato di oggi. Benché avessi letteralmente divorato, leggendola attentamente per ben tre volte consecutive, l’incantevole enciclopedia della Curcio “Astronomia alla scoperta del cielo”, cominciando a masticare i difficili concetti teorici di questa affascinante materia, da un punto di vista pratico ero praticamente a zero. Il mio primo telescopio, un classico riflettore giapponese 114/900, un vero e proprio cavallo di battaglia per i principianti (non solo di allora) pagato ben 345.000 delle vecchie lire, mi sembrava bello ma ingovernabile, almeno per l’esperienza di un novellino. Nonostante conoscessi perfettamente le costellazioni, mi accorsi che orientarsi e puntare gli oggetti celesti al telescopio, era tutt’altro che una cosa facile! Mi ritrovai ben presto a dover fronteggiare, da una parte l’innegabile fascino che sentivo (e sento) verso gli oggetti celesti, mentre dall’altra c’erano le angherie pratiche, di uno strumento difficile da puntare verso le meraviglie celesti che facevano belle mostre di se su libri e riviste. Ci fu un periodo di tempo che dedicai ad un’osservazione praticamente a casaccio; lasciavo andare l’asse di AR del telescopio e, molto lentamente, passavo in rassegna tutto quello che entrava nel campo oculare, non riconoscendo gli oggetti più deboli, morale: osservare non è così facile come sembra! Una calda serata d’estate, venne a trovarmi un mio zio astrofilo, che vive a 8 Monaco di Baviera, e mi vide in seria difficoltà nel tentare di puntare la grande M31. Venne in mio aiuto, allorché mi apprestavo a passargli l’atlante celeste (l’Atlas del Tirion). Costui mi guardò come se fossi una specie di marziano e, scalzandomi l’atlante di mano, puntò la galassia di Andromeda nel giro di qualche secondo, ne rimasi all’epoca fortemente impressionato. Quando per la prima volta entrò la luce di questo oggetto maestoso nel mio occhio, rimasi senza parole, incapace di esprimere qualunque giudizio, pensavo tra me e me; “ma sono proprio io a osservare direttamente una galassia così grande e distante?”. Molti anni sono trascorsi da allora, e di oggetti celesti ne puntai a migliaia, utilizzando diversi strumenti, dal piccolo (e indimenticabile) 114/900 al “Bimbo” il mio Dobson da 508 mm, al binocolo Fujinon 25X150, realmente impressionante, ma la sensazione “originale” provata ai tempi del 114 è ancora intatta dentro di me, come una eterna musica che mi pervade sempre, giorno e notte, quando osservo e quando (a causa di un cielo nuvolo) non osservo. Questa è la bellezza struggente del vasto e infinito cielo. ASTROTEST Rispondi e poi controlla le risposte sotto 1) Come viene chiamato quel fenomeno che si verifica quando la Luna si frappone (giacendo sullo stesso piano) a Terra e Sole? ………………………………………... 2) Se la Luna al primo quarto ha la gobba rivolta a est è calante o crescente? ………………………….. 3) Con quale rilevante fenomeno si manifesta sulla Terra la forza di gravità della Luna? ……………………… 4) Che stella ci troveremmo sopra la testa se ci trovassimo esattamente al Polo Nord? …………………………. 5) Come si chiama la più famosa costellazione invernale? ………………………….6) Qual è la stella più luminosa dell’emisfero boreale? 6) la gigante rossa Arturo, stella alfa della costellazione del Bovaro di magnitudine –0.04. 5) Orione che rappresenta un cacciatore ed è facile da individuare. 4) La Stella Polare, allineata quasi perfettamente con l’asse di rotazione terrestre. 3) Con le maree, ovvero l’innalzamento dell’acqua di mari e oceani. 2) Calante. 1) Eclisse di Sole che può essere parziale, anulare o totale. Risposte LO SPAZIO… DEL SORRISO S i l v a n o G a n z 9 LE DISTANZE DELLE STELLE di Mirco Nadalet Vi siete mai chiesti quanto sono distanti quei puntini luminosi che avete sopra la testa nelle limpide notti? Beh! A guardarli parrebbero tutti alla stessa distanza, oppure verrebbe da pensare che quelli più luminosi siano più vicini, ma non è proprio così. Osservando nel periodo estivo, alte in cielo, vedremo delle stelle particolarmente luminose. Tre di queste formano il famoso “Triangolo Estivo” composto dai principali astri delle costellazioni della Lyra (l’unica cosa buona che è rimasto del nostro vecchio conio), dell’Aquila e del Cigno. Rispettivamente Vega, Altair e Deneb. La loro luminosità a prima vista sembra simile ma, osservando con attenzione, noteremo la differenza: Vega è la più luminosa seguita da Altair e poi da Deneb. Partendo dal presupposto che luminosità maggiore equivale a distanza inferiore otterremmo che Vega è la stella più vicina a noi seguita da Altari e poi da Deneb. Nella realtà non è così, perché si tratta di stelle con caratteristiche fisiche molto diverse tra loro. Dati alla mano, la distanza delle tre stelle in questione misurata con strumentazioni molto precise (anche se con ordini di errore sempre più elevati all’aumentare della reale distanza della stella) è la seguente: Altair dista circa 17 anni luce ed è la più vicina. Segue Vega distante circa 26 anni luce e poi Deneb distante più o meno ben 1600 anni luce. Pensate, guardando queste tre stelle stiamo osservando la luce che è partita 17-25 e 1600 anni fa. Praticamente è come fare un viaggio su una macchina del tempo perché osserviamo il passato di questi astri da cui la luce che vediamo è partita molti anni fa. Ricordo che la velocità della luce è di circa 300.000 chilometri al secondo. Per fare un altro esempio, restando questa volte nel nostro Sistema Solare, possiamo dire che osservando la Luna, che da noi dista mediamente 384.000 chilometri, la vediamo com’era poco più di un secondo prima e il Sole che è distante circa 150 milioni di chilometri, lo vediamo com’era circa 8 minuti prima. Ritornando alle stelle, è veramente bello fermarsi in un posto buio ad osservarle e poter dire “La luce di quella stella è partita anni fa”. Avendo un minimo di conoscenza del firmamento si apprezzerà sicuramente di più. Nella cartina sottostante, ho inserito due costellazioni vicine, La Lyra e il Cigno, altissime e ben riconoscibili nel periodo estivo, ed ho indicato in anni luce la distanza delle stelle più luminose, Vega e Deneb, di cui abbiamo parlato. Come si può vedere, ribadisco, non è assolutamente vero che luminosità maggiore significa distanza inferiore. Per poter affermare con certezza quale sia la reale luminosità delle stella bisogna usare la magnitudine assoluta. La magnitudine assoluta è la luminosità delle stelle portate alla distanza di 32,6 anni luce da noi. Praticamente prendiamo le stelle che ci interessano e di cui conosciamo le caratteristiche principali (dimensioni, temperatura, massa ecc.),e le spostiamo alla medesima distanza. Fatto questo ecco allora i risultati delle stelle precedentemente menzionate: Vega: 48 volte più luminosa del sole, diametro e massa rispettivamente 2.8 e 2.5 volte superiore. Deneb: 67.000 volte più luminosa del Sole, diametro e massa rispettivamente 140 e 25 volte superiore. Altair: 11 volte più luminosa del Sole, diametro e massa rispettivamente 1.7 e 1.6 volte superiore. Vediamone alcune altre della mappa: Albireo: 680 volte più luminosa del Sole, diametro e massa rispettivamente 110 e 5 volte superiore. Sadr: 23.000 volte più luminosa del Sole, diametro e massa rispettivamente 170 e 12 volte superiore. Sheliak: 2000 volte più luminosa del Sole, diametro e massa rispettivamente 18 e 10 volte superiore. Sulafat: 1550 volte più luminosa del Sole, diametro e massa rispettivamente 16 e 5 volte superiore. Come si può vedere, le stelle prese ad esempio, tutte facilmente visibili ad occhio nudo in una buona notte d’estate, sono più grandi e luminose del nostro Sole. Ma la nostra Stella posta alla distanza di 32,6 anni luce come apparirebbe? Beh! Il nostro caro Sole è una stella modesta che a quella distanza apparirebbe come una stellina visibile sì ad occhio nudo ma di certo non molto luminosa. Per un ipotetica cività aliena il nostro Sole non meriterebbe nemmeno un nome ma forse solo una lettera di un ipotetico alfabeto. 10 VIRUS NON LETALE di Vittorio De Nardin Tutto è incominciato l’anno scorso quando, verso la fine di ottobre, ho partecipato ad una serata osservativa organizzata da “Cieli Dolomitici”. In effetti era da un po’ di tempo che aspettavo questa occasione che mi avrebbe permesso di provare sul campo quel fantastico strumento che risponde al nome di “telescopio”. Fino ad allora avevo scrutato il cielo con un binocolo 10x40, però mi rendevo conto che dovevo compiere il passo successivo, ovvero dotarmi di uno strumento di maggiore potenzialità. Quindi quale occasione migliore di una serata trascorsa assieme a delle persone appassionate di astronomia alle quali poter chiedere informazioni per un eventuale acquisto? In special modo mi è stata molto utile la chiacchierata che ho fatto con il bravo e simpatico Mirko Nadalet. Dopo qualche tempo avevo fra le mani un piccolo rifrattore da 80 mm; è un ottimo strumento e ogni volta che lo uso mi rendo conto di aver fatto un’eccellente investimento. Quando ho intenzione di uscire per alzare gli occhi al cielo mi bastano 5 minuti per assemblarlo e poi è subito pronto per essere utilizzato. Questa per me è una caratteristica fondamentale che deve avere il primo strumento di cui si dota l’astrofilo in erba: deve essere piccolo e maneggevole per poterlo facilmente portare ovunque, in qualsiasi momento. Taluni pensano invece che si debba partire subito magari con un riflettore da 250 mm., senza pensare che più grande è il telescopio , più si deve lavorare per renderlo operativo (contrappesi , allineamento degli specchi, acclimatamento…piccoli sacrifici per un astrofilo convinto, ma che possono diventare grandi sacrifici per una persona che si avvicina all’osservazione telescopica) con il rischio di stufarsi subito e perdere per strada un potenziale appassionato di astronomia. Inoltre iniziando con un piccolo telescopio si può apprezzare il successivo passo, ovvero l’acquisto di un secondo strumento più grande: si potrà così infatti gioire per la quantità maggiore di dettagli che si osservano attraverso l’oculare. Le mie prime osservazioni risalgono a quest’ inverno ed eccone una testimonianza; Un accurata vestizione , atta a prevenire i vari tipi di ipotermia, è d’obbligo. Poi mi piazzo davanti a casa armato del fido atlante del cielo e incomincio ad accarezzare con gli occhi le varie costellazioni: l’ Auriga, i Gemelli, il Toro, Orione tanto per citarne alcune. Ora ha inizio la passeggiata fra le varie meraviglie che si nascondono nel buio della notte…Attraverso il cercatore vado a rintracciare alcuni oggetti Messier , che per un astrofilo alle prime armi rappresentano una piccola conquista ogni qualvolta si riesce ad individuarne uno. Come prima tappa punto verso la costellazione di Andromeda per osservare l’omonima galassia: già ad occhio nudo si riesce ad individuarla , è un oggetto facilissimo da trovare. Poi saltello un po’ qua un po’ là per il cielo alla ricerca di alcuni ammassi stellari: M44, M38, M35 e così via. Un’occhiatina anche a qualche altra galassia come M81 e M82 e gran finale con la nebulosa M42 in Orione. Ad ogni uscita cerco sempre di individuare qualche nuovo oggetto; talvolta non riesco in quest’ ”impresa" ma non demordo; la volta successiva andrà sicuramente meglio ! Comunque, senza andare troppo lontano, anche il nostro bel sistema solare ci offre delle perle non indifferenti: la Luna con i suoi bei crateri, Giove con i satelliti galileiani, Saturno con i suoi anelli, Venere con le sue fasi, Marte il pianeta rosso…Se poi magari c’è qualche cometa nelle vicinanze…evviva!! Una cosa che mi colpisce in particolare è che quando ad esempio osservo una galassia, in realtà l’immagine che giunge ai miei occhi risale a qualche milione di anni fa ed è come se avessi fra le mani la macchina del tempo. In sostanza posso affermare che ogni notte è veramente una festa; la noia è un termine sconosciuto per l’astrofilo che ha solo l’imbarazzo della scelta. Il fascino che esercitano su di me le stelle è veramente qualcosa di unico, che faccio fatica a spiegare. E’ qualcosa che vorrei fosse condiviso da tante altre persone, magari anche da quei ragazzi che non trovano niente di meglio da fare che andare a sbronzarsi perché non sanno cosa fare….Vabbè , non voglio inciampare in facili moralismi , però trovarsi la sera a guardare ciò che sta sopra le nostre teste, è un’esperienza che varrebbe la pena di provare almeno una volta; poi magari potrebbe succedere di essere contagiati dal virus “dell’astrofilia” che, vi assicuro, è veramente un gran bel virus, per nulla pericoloso , anzi… Le due riviste astronomiche che consigliamo caldamente sono Nuovo Orione e Coelum. La prima esce ogni ultimo giovedì del mese mentre la seconda è in edicola i primi giorni del mese. Entrambe costano 6 euro. 11 LO SPAZIO DA ASCOLTARE Let there be rock di Cristina Avoscan Lo spazio. Il cosmo. Cio’ che li abita. Le innumerevoli galassie dell’Universo. O meglio, degli Universi . “Le stelle sono tante, milioni di milioni... la stella di Negroni vuol dire qualita’!” Mai trascurare la pubblicita’ di un innocuo salamino! Poi scopri che è vero. Da quando infatti scienza, tecnologia e ricerca, nel secondo dopoguerra, hanno compiuto balzi da gigante, anche noi comuni mortali (non edotti in merito), cominciamo a rimirare ed apprezzare le volte celesti con occhio meno vago, diverso . E le domande, di conseguenza, proliferano . Antiche o nuove, esse perpetuano un’ansia di sapere, propria di chi al mondo fu prima di noi: “Ci sarà vita lassù? O è già stata e mai si saprà? E dove poi? Magari su un pianeta al nostro consimile?” Lo storicismo fallisce, per sua natura, quesiti che hanno l’età dell’uomo stesso. Ma poco ci importa. Sono il movimento stesso, la forza di gravità esercitata fra corpi sospesi ad “animare” il cosmo. E da tali invisibili – poiché anni luce da noi – attriti e frizioni, sgorga, come da una fonte onnipresente, la voce di dimensioni lontane, forse eterne. E si propaga sin nell’oggi. Stando almeno a tutti quei musicisti e compositori degli ultimi 80 anni, colti o incolti, che con tali quesiti continuarono a battagliare, battendoci il capo. E via con altre domande allora, stavolta da tradursi in musica: “Che suono avrà mai il vuoto cosmico? E il buio siderale che incombe, assecondato dalla fantasia, minaccioso o pacifico su questo nostro sperduto bruscolo brulicante d’esistenze chiamato Terra?” Coloro i quali creano o disfano mondi – in musica, suoni, e talvolta parole – non sanno sempre sottrarsi alla fascinazione degli intra mundia. Vogliono anzi accompagnarne in note lo scorrere sempiterno nei sentieri, ellittici, del Tempo. E la questione d’una voce dello spazio profondo è divenuta per loro - poco a poco, fatalmente – anche riflessione sul suono stesso, la sua natura, i suoi modi… le sue “voci”. Tralasciando quelli che sul tema spazio hanno solo e invariabilmente imbastito mitologie pacchiane (il metal, ad esempio) oppure i passionisti “spacey” della comunicavità spicciola (new age, ambient music e space jazz) che han ridotto la suggestione in didascalia, l’idea dell’infinito, del moto senza posa, della solitudine, delle immensità desolate, suggerite dalle “visioni” cosmiche di alcuni artisti, son divenute metafore acquisite – talvolta in suoni, tal altra in termini mitico-utopici – del nostro stesso sentire la musica. Ma incominciamo dalle basi. Lo strumento principe per tanti gruppi rock futuri – psichedelici, progressive giù giù fino agli odierni – fu sicuramente il “Theremin”, unico fra gli altri perché il musicista non suonava su nulla di fisico come tasti fori o corde, ma suonava l’aria stessa. Il suo sound astratto, caldo e vibrante, mutava l’ascolto in un viaggio interstellare. Sarebbero stati poi i vari oscillatori, Moog e Mellotron, a sostituirlo come mezzi privilegiati dell’effetto “spacey” nel rock, ma il Theremin fu il primo reale antecedente specifico di tutta la space music elettronica degli anni Sessanta. Esso era una metafora fisica dell’impalpabilità stessa dei cieli oltre il cielo. A vedersi pareva un aggeggio bizzarro, incomprensibile, spaziale, persino ufologico: due lunghe antenne a protendersi su una scatola scura, campi magnetici attorno. L’effetto visivo era quasi magico. Fu il compositore Americano Edgar Varese nel ‘59 a commissionare allo scienziato sovietico Leon Theremin la costruzione di tale strumento elettronico. Evidentemente, l’accoppiata USA- Unione Sovietica si doveva riproporre anche in questo campo! Ma parliamo di musica elettronica? No, non solo. La storia della musica è costellata di opere “spaziali”. E si va di genere in genere come di galassia in galassia. Si parte dal free jazz di Coleman (“Science Fiction” del 1972) al blues di Coltrane (“Interstellar Space” del 1974) fino ad arrivare al rock . Della galassia rock ci interessa un sistema in particolare, quello del rock “psichedelico”, e se questo fosse il sistema solare Jimi Hendrix ne diventerebbe sicuramente il Sole . Da lui tutti gli altri del genere dipesero e continueranno a dipendere . Fu il primo grande a comporre la musica dello spazio, ispirato non tanto dalle osservazioni telescopiche quanto dall’abuso di LSD. Le droghe gli facevano sentire quello che all’orecchio umano non è normalmente concesso, ovvero udire i colori e vedere i suoni, in una trasmutazione dei sensi. Nella canzone “3rd stone from the Sun”, dal celebre album “Are you experienced” del ’67 scrisse: “Flotta spaziale a navicella vedetta/ dacci per favore la tua posizione/passo/sono in orbita intorno al terzo pianeta dalla stella chiamata sole/passo/ vuol dire Terra” . E in un altro celebre brano, “1983, a merman I should turn to be” immaginò un futuro apocalittico di una Terra che pur continuando a ruotare su se stessa, indefessa e caotica, lasciava all’uomo l’unica speranza di morire e rinascere in terre lontane nello Spazio. Un vizio comune all’intera cultura hippie, questa fuga in avanti, nel tempo futuro. Sentito, incoercibile, l’ottimismo, come da viversi nello Spazio. Space is the Place, insomma. Chissà perché, poi, i pianeti, se colonizzati dall’uomo, dovrebbero essere migliori della Terra stessa! Io che nell’ottantatrè ci sono nata ho potuto constatare che le previsioni del nostro amico Jimi erano un po’ troppo negative. Magari qualcuno la fuga nello Spazio la sogna ancora, ma per fortuna non ha ancora trovato il modo di trasferirsi su Marte o sulla Luna . Se così fosse stato, magari Napoli avrebbe meno proble12 mi di rifiuti, ma anche lo Spazio sarebbe un posto meno bello... I semi di Jimi Hendrix attecchirono presto, e portano i nomi seguenti: i Jefferson Airplane, Airplane che dopo una serie di esperimenti musicali beat- folk-blues-soul e jazz (evidentemente non avevano le idee molto chiare) si convertirono presto allo space rock, e cambiarono il loro nome in Jeffreson Starship; i Greatful Dead, Dead che composero negli stessi luoghi e negli stessi anni dei veri e propri inni pagani al Sole, in crogioli incandescenti di materia sonica viva (”Anthem of The Sun”, 1968); e ancora Tim Buckley. Buckley Forse i più ricorderanno il figlio Jeff, fascinoso cantautore del decennio scorso che morì giovane in un drammatico incidente nelle acque del Mississippi. Suo padre era, se possibile, più bravo. Bravo e coraggioso, in quanto si cimentò in grandi progetti. Alti, più che grandi, perché il suo percorso fu tutto in salita, un viaggio verso le infinite lande stellari. A chissa’ che lembo delle quali s’aggrappava, si scuoteva, agitandosi tutta, la sperimentazione dello “Starsailor” del brano emonimo. Con Buckley per la prima volta fu la voce a diventare strumento dello Spazio. Stracciata, ricompiuta, attutita, sovrapposta, intersecata, un Sabba di voci cosmico–infernali, che diventava danza per citare Jim Morrison: Morrison “…delirando, delirando nella notte senza speranza, qui fuori nel perimetro non ci sono stelle .” Fu in questo clima quasi soprannaturale che fecero la loro comparsa i Pink Floyd . Il loro deus ex machina fu certamente Syd Barret, Barret che fece uso di stupefacenti tanto quanto uno stupefacente uso della sua geniale fantasia. Fu l’unico a tenere veramente testa a Jimi Hendrix in quanto a LSD e droghe psichedeliche. Le prime righe introduttive dell’LP “The piper at the gates of Dawn” del 1976 ci catapultano immediatamente in “medias res”: “…giallo e verde limpido, una seconda scena, una battaglia con il blu che conoscevi una volta . Affondando giù i suoni risuonano sotto le acque ghiacciate. Giove e Saturno, Oberon, Miranda e Titania, le stelle, possono spaventare.” (“Astronomy Domine”) . Un big bang artistico, questo, che ha pochi eguali in tutta la storia del rock .L’atmosfera, di minaccia e, al contempo, di estatica attesa, si consuma sul tintinnio intermittente d’un segnale radio in avvicinamento. Man mano che ingrandisce, scompare. Le chitarre, allora sovvengono. Nitide, profonde nei riff riverberanti spazialmente, risuonano come metallo alle orecchie. Il frutto della “sapienza” al mixer, alla consolle, del giovane Syd. Barret è il demiurgo sonico che tenta, dalla propria cameretta, di riordinare il Cosmo. Riuscendoci. L’esperimento è alchemico: ridipingere le stelle, i “vuoti” che le attutiscono, variando nei toni i suoni, quasi fossero colori di una tavolozza. Let there be stars, let there be rock… PRIMI PASSI IN CIELO: ISTRUZIONI PER L’USO di Claudio Pra I primi passi nell’osservazione del cielo sono probabilmente i più emozionanti ma chiaramente non mancano le difficoltà. Poca dimestichezza ed esperienza inesistente con davanti uno sterminato mondo da scoprire. Se si ha la fortuna di poter contare sull’aiuto di qualche astrofilo scafato, uno di quelli che hanno girato in lungo e in largo per le praterie celesti e hanno visto “cose che voi umani”…allora sarà come fare un corso accellerato di… cielo e ben presto ci si saprà districare decentemente lassù. In mancanza di tale personaggio niente paura, si fa lo stesso, con tanta pazienza, passione ed entusiasmo. Ci vorrà più tempo per essere ottimi conoscitori di quel mondo infinito e intricato ma alla fine sarà ancora più soddisfacente il sapore dello scoprire e dell’apprendere da autodidatta. Il mio articolo dedicato ai neofiti ha lo scopo di dare qualche indicazione, fornire alcuni consigli, svelare qualche “trucco” e correggere qualche convincimento non proprio esatto, senza entrare troppo nello specifico perché non voglio annoiarvi. Non so se vogliate considerarmi l’astrofilo scafato di sopra. Diciamo che un po’ ci ho bazzicato e bazzico ancora lassù e l’esperienza sul campo penso sia la miglior scuola per poter parlare di osservazione. Bene, bando alle chiacchiere e chi mi reputa degno di essere seguito, mi segua! Il miglior momento per osservare la luna è il plenilunio Quanti lo credono? La maggior parte. Si certo, vista in un certo contesto la Luna piena appaga l’occhio e colpisce per quel suo svelarsi finalmente per metà con i suoi chiaroscuri, illuminando discretamente paesi e città, boschi e montagne. Ma se si parla di osservazioni strumentali allora ecco che è proprio il plenilunio il momento più sfavorevole per puntare telescopi e binocoli sul nostro satellite naturale. Poco o nulla ci sarà di interessante da vedere se non zone più chiare ed altre più scure. La luna va invece osservata quando è in fase, concentrando la nostra attenzione sul confine tra ombra e luce detto terminatore. E’ lì che la luce solare, arrivando sotto una certa angolazione, mette in risalto tutta una serie di particolari come crateri, monti, valli ecc. Già un piccolo binocolo permette una visione soddisfacente dei dettagli maggiori. Al telescopio sarà come affacciarsi dall’oblò di una navicella spaziale in orbita lunare senza correre rischi tipo “Houston, we have a problem”... 13 Bisogna sempre scegliere un posto buio per osservare il cielo. Più buio è meglio è Non proprio. Dipende da cosa si intende osservare. Certo cogliere una debole galassia o una tenue nebulosa da sotto un lampione è dura. Ma se il nostro obbiettivo è la Luna o uno dei cinque pianeti visibili a occhio nudo allora non serve cercare il buio assoluto. Sono talmente luminosi che anche da posti ben illuminati si possono tranquillamente osservare evitando che riflessi parassiti entrino nello strumento. Quindi la ricerca del buio è indispensabile per osservare oggetti deboli. Loro odiano qualsiasi tipo di illuminazione, perfino quella provocata dalla Luna e per dispetto non si mostrano. O la luce è solo la loro o niente. Narcisisti! Più si ingrandisce e meglio si vede Dipende. Intanto l’ingrandimento è legato all’agitazione o meno dell’atmosfera, allo strumento a disposizione e alla morfologia dell’oggetto osservato. Parlando di agitazione atmosferica, a volte tutto è calmo come uno specchio d’acqua in una giornata senza brezza. Se guardiamo il fondo del laghetto possiamo benissimo vedere quello che c’è. Ma se in acqua gettiamo un sasso tutto comincia ad apparirci confuso ed è quello che succede se l’atmosfera è turbolenta. Alzare l’ingrandimento in questa situazione è devastante perché viene accentuato l’effetto “acqua mossa”. Se soffia un forte vento ad esempio, non c’è speranza di avere immagini ferme. Indice di agitazione atmosferica è lo scintillare eccessivo delle stelle. Bisognerà imparare questo termine: seeing. Il seeing misura il grado di agitazione atmosferica ed è valutato secondo delle scale. In definitiva cattivo seing uguale immagini illeggibili, buon seeing uguale immagini ferme e quindi ottime. Tentare di osservare la Luna, i pianeti e le stelle doppie strette, oggetti che necessitano un buon ingrandimento, in serate di cattivo seeing è perdere tempo. In ogni caso su tutti gli oggetti un buon seeing ci avvantaggia ma su alcuni risulta determinante mentre su altri meno. Ogni strumento poi “sopporta” un certo numero di ingrandimenti (seeing a parte) a seconda del suo diametro, della sua focale e della sua qualità. Una regola empirica dice che per un telescopio rifrattore l’ingrandimento massimo è pari al doppio del suo diametro obbiettivo espresso in millimetri. Un telescopio da 12 centimetri può essere “tirato” fino a 240 ingrandimenti. Per i telescopi riflettori ci si fermerà a un po’ meno. Ma questo è da prendere come orientamento. E’ sperimentando che valuteremo il nostro strumento che se di buona qualità potrà portarci oltre il limite presunto. Ancora, alcuni deboli oggetti estesi non “tengono” l’ingrandimento e scompaiono appena si forza. Altri necessitano di essere ingranditi molto. Altri sono così estesi che ingrandendo si coglie solo una piccola parte di essi. Una bella e luminosa cometa con tanto di coda ad esempio, da più soddisfazione in un piccolo binocolo da pochi ingrandimenti che in un grande telescopio accoppiato a un oculare che ingrandisce molto. Con quest’ ultimo “entreremo” dentro” la cometa notando dei particolari fini, ma perderemo la visione d’insieme, più spettacolare. Così è anche per una grande nebulosa, galassia o ammasso di stelle. Maggiore ingrandimento significa quasi sempre perdita di campo, ricordiamolo. A volte è però indispensabile ingrandire molto. Se si vogliono cogliere piccoli dettagli sui pianeti, si desidera mettere in evidenza il dischetto di una nebulosa planetaria piccola, altrimenti scambiata per una stellina, o ancora si vuole risolvere in uno spolverio di stelline una di quelle sfere all’apparenza uniformi chiamate ammassi globulari, dobbiamo per forza salire con l’ingrandimento (seeing permettendo naturalmente). Ogni occasione ha il suo ingrandimento dunque, che andrà scelto anche con delle prove. Un oggetto va preferibilmente osservato quando si trova alto in cielo Certo, questo è vero e basta sperimentarlo. Se osserviamo un debole oggetto vicino all’orizzonte e poi lo riosserviamo quando si è alzato considerevolmente in cielo, noteremo che quello che sembrava qualcosa di appena percepibile non è poi così debole. All’orizzonte e dintorni l’atmosfera terrestre è densissima e ha il potere di affievolire la luminosità di quel che osserviamo (estinzione atmosferica). Nemmeno pianeti e Luna o comunque tutti quegli oggetti da osservare in “alta risoluzione” vanno puntati quando sono bassi vista la scadente qualità delle immagini rese. l’agitazione atmosferica è sempre alta laggiù (quindi seeing pessimo). Bisognerà quindi aspettare che l’oggetto sotto osservazione sia abbastanza alto (allo zenith, cioè sopra la testa a perpendicolo sarebbe il massimo ma non pretendiamo troppo). In ogni caso l’osservazione più proficua avviene al transito al meridiano (linea immaginaria che unisce il nord al sud) o comunque nelle vicinanze di questo punto quando l’oggetto raggiunge la sua massima altezza. A volte saremo costretti però a osservare, volenti o nolenti, giù in basso. Due esempi: oggetti che scorrono a latitudine fortemente negativa, nell’emisfero australe a noi accessibile, non si alzeranno mai più di tanto. Quindi aspetteremo che transitino al meridiano e dovremo accontentarci di ciò che vediamo. Ancora: molte comete diverranno spettacolari non lontano dal Sole e la prospettiva ci porterà a osservarle al tramonto o all’alba proprio all’orizzonte. Anche in questo caso si fa di necessità virtù. I puristi si astengano e ripieghino su altri target. Un oggetto debole non va mai fissato ma osservato “di traverso” Verissimo! E’ la così detta visione distolta con cui si mette in azione la parte dell’occhio più sensibile in condizione di scarsa luminosità. Oggetti che fissati spariscono, ricompaiono magicamente se guardati di sbieco. La visione distolta è un “trucco” fondamentale per chiunque voglia cimentarsi con il deep-sky, ovvero il cielo pro14 fondo. Da quelle profondità dello spazio quasi sempre ci arriverà all’occhio qualcosa di difficilmente percepibile e con questo accorgimento si potrà sperare di catturare qualche fotone. Occhio a non esagerare, pena lo strabismo… Una volta al buio occorre lasciare adattare l’occhio all’oscurità Certamente. Soprattutto se vogliamo dare la caccia a oggetti deboli si dovrà abituare l’occhio all’oscurità con un periodo di adattamento di almeno una ventina di minuti, anche di più. Nel frattempo potremo scrutare il cielo senza strumenti, ripassandoci qualche costellazione o ammirando qualche quadretto celeste particolare. Una volta acquisita la “vista notturna” la dovremo difendere con i denti da qualsiasi fonte luminosa che non siano stelle, pianeti o galassie. Per consultare cartine, cambiare l’oculare ecc. useremo, unica concessione, una pila schermata con un panno rosso che non compromette, se non minimamente, l’occhio adattato. Se nel bel mezzo della serata arriva una macchina che vi punta addosso gli abbaglianti manco foste Richard Gere sul set di un film, siete autorizzati a tirargli dietro la prima cosa che avete sotto mano. Magari evitate oculari e strumenti che vi sono costati un occhio, come quello adattato al buio fino a poco prima… Per evitare il freddo si può osservare al chiuso, piazzando lo strumento davanti a una finestra Un astrofilo deve essere disposto a qualche sacrificio e il freddo è uno dei sacrifici. Osservare dietro a una finestra significa stare al calduccio, certo, ma perdere la qualità dell’immagine che deve passare per il vetro. La lavorazione di lenti e specchi dei telescopi è molto accurata e mirata e non è paragonabile a quella, magari pur buona, che riguarda il vetro di una finestra (che magari è di maggiore qualità però di qualche strumento da ipermercato). Anche lo strumento qualitativamente migliore del mondo, con davanti il vetro di una porta o finestra, presenterà immagini insoddisfacenti. Niente altro che il cielo quindi davanti a un telescopio o binocolo e copriamoci bene per sopportare il freddo. Certo se la finestra è apocromatica come i telescopi di qualità elevatissima… Non bisogna mai fissare gli obbiettivi della serata ma uscire e improvvisare Non direi proprio che questa sia una cosa da fare anche se sa tanto di libertà. Magari fissare gli obbiettivi non è una regola tassativa come altre ma vi assicuro che programmare in anticipo la serata vuole dire uscire con le idee chiare ed evitare perdite di tempo e di stimoli. Parlo soprattutto di osservazione del cielo profondo. Una bella lista di oggetti che si vogliono osservare con tanto di pagina dell’atlante su cui si trovano. Cartine preparate ad hoc. Così trarremo il massimo profitto nel tempo trascorso sotto il cielo. A volte non si è potuta pianificare la serata per mancanza di tempo e allora piuttosto di rinunciare all’appuntamento con le stelle meglio uscire lo stesso alla ricerca magari dei più facili oggetti Messier del periodo per i quali basta un atlante o una cartina semplice, meraviglie da vedere o rivedere per l’ennesima volta, ma sempre capaci di riempirci gli occhi di stupore. Il Grande Ammasso di Ercole (M 13), la Grande Nebulosa di Andromeda (M 31) o quella di Orione (M 42) sono splendide anche alla centesima volta. A parte la mancanza di tempo, l’ideale, ripeto, è prepararsi un programma, anche molti giorni prima. Il rischio altrimenti è quello che corre un turista disinformato in visita a una città sconosciuta e ricca di cose da vedere; al ritorno si accorge di essersi perso un sacco di monumenti, musei e posti suggestivi avendo girovagato senza meta e costrutto. Il turista ha sprecato soldi, l’astrofilo ha sprecato...sonno. Molto altro resta da dire naturalmente ma il mio spazio è quasi finito. Concludo con due “trucchi”: Se osservate un debole oggetto che sfortunatamente si trova nei pressi di una stella abbastanza luminosa che con la sua luminosità vi abbaglia e “annega” nella luce la meraviglia che volete osservare impedendovi di vederla o comunque ve lo fa percepire male, dovrete far sparire la stella spostandola fuori dal campo dell’oculare. Se necessario alzate anche un po’ l’ingrandimento. Ecco che allora finalmente la flebile luce della galassia, nebulosa o altro comparirà o si svelerà in maniera molto migliore. Sempre nell’osservazione di oggetti deboli, ma proprio deboli che quasi non si vedono, un colpetto leggero al tubo del telescopio in modo che l’immagine vibri aiuta a percepirli meglio. Lo consigliano i vecchi lupi di… cielo. Sarà vero? Provare per credere. ALCUNI SITI ASTRONIMICI CONSIGLIATI www.coelum.com/ (sito della rivista Coelum) www.uai.it/web/guest/home (sito dell’ Unione Astrofili Italiani) www.venetostellato.it/ (sito di Veneto Stellato-inquinamento luminoso) www.astronautica.us/index.htm (sito italiano di Astronautica) www.nasa.gov/multimedia/imagegallery/index.html/ (sito della NASA) www.heavens-above.com/ (sito per la previsione del passaggio di satelliti artificiali) cfa-www.harvard.edu/iau/Ephemerides/Comets/index.html (sito aggiornatissimo sulle comete) 15 FINALMENTE CHIARITA L’ORIGINE DELLA PIETRA DI BARCIS di Tomaso Avoscan Finalmente sono state tacitate le numerose critiche espresse in più occasioni dal collezionista di meteoriti Matteo Chinellato di Venezia che definiva il campione di Barcis quale “pseudometeorite” . Dopo ben 58 anni dal suo ritrovamento in prossimità dell’attuale lago di Barcis in Valcellina (PN) il mistero dell’origine della pietra ferrosa della massa originale pari a 56 kg è stato finalmente risolto. Due ricercatori del CNR di Milano (Istituto per la dinamica dei processi ambientali) Agostino Rizzi e Pietro Vignola hanno evidenziato l’origine extra-terrestre del pietra di Barcis e dandone una corretta classificazione. Il contributo ha riguardato lo studio delle caratteristiche tessiturali e la composizione chimica e mineralogica di un campione di lega ferro-nichel prelevato dalla pietra ferrosa di Barcis simile al campione presente al Planetario e che ci è stato dato in comodato d’uso dall’Istituto Minerario Follador che possiede il blocco originale. Il campione, di circa 5 mm di diametro, è stato inglobato in resina epossidica, lucidato e metallizzato con carbonio. Le analisi chimiche e le immagini in elettroni retrodiffusi sono state ottenute per mezzo di una microsonda elettronica a dispersione di energia (EDS) Edax Genesis 4000 JXM montata su un microscopio elettronico a scansione (SEM) Tescan Vega TS 5136 XM operante a 20 kV di potenziale di accelerazione con 190 pA di corrente e con diametro di fascio pari a 250 nm. Come standard sono stati utilizzati minerali (apatite per il P, albite per il Si e celestina per lo S) e metalli puri (Mn, Co, Fe, Ni). Le correzioni per gli effetti di matrice (ZAF) sono state effettuate per mezzo di una routine del software EDAX. Le analisi chimiche quantitative, eseguite sul campione di Barcis per mezzo di microsonda elettronica a dispersione di energia, hanno messo in evidenza che la massa metallica è costituita da due differenti tipi di lega ferro-nichel corrispondenti ai minerali kamacite e taenite. La kamacite, che costituisce il bordo esterno del campione e le parti scure delle tessiture lamellari, ha una composizione omogenea, costituita prevalentemente da ferro contenente il 6.83 % di nichel e 1.33% di cobalto. Sono stati inoltre individuati silicio, fosforo zolfo e manganese sotto forma di tracce. La taenite, che costituisce le lamelle chiare, mostra anch’essa una composizione chimica omogenea formata da ferro contenente il 35.75% di nichel e tracce di silicio, fosforo zolfo e manganese. Le composizioni chimiche della kamacite e della taenite di Barcis corrispondono ai dati riportati per la meteorite ferrosa di Bagnone . Le particolari tessiture evidenziate risultano essere del tutto identiche alle figure di Widmanstätten presenti in genere, nelle meteoriti metalliche ottaedritiche, per mezzo di attacco acido su sezione lucidata. Questo particolare tipo di tessitura nelle leghe ferronichel (kamacite, taenite) è tipico di materiali di origine extraterrestre. Il campione di Barcis corrisponde a una meterorite metallica costituita da una lega ferro -nikel. La patina esterna di ossidazione è il risultato di processi di alterazione che, la meteorite, ha subito dopo il suo arrivo sulla superficie della Terra. La composizione chimica e mineralogica e le caratteristiche tessiturali del campione studiato permettono di classificare la meteorite metallica di Barcis come ottaedrite plessitica. 16 GLI ASTROFILI DI “CIELI DOLOMITICI” Ospite della consueta rubrica dedicata agli Associati Catia Vallata, iscritta della prima ora, quasi sempre presente alle iniziative organizzate e buona conoscitrice del cielo. Con a un piccolo telescopio comperato grazie alla passione aumentata dopo l’iscrizione a “Cieli Dolomitici” osserva il cielo da una piccola frazione di S. Tomaso. Sei diventata un astrofila “attiva” grazie all’Associazione o già osservavi il cielo prima? Osservavo già prima, a occhio nudo e con il binocolo. Una volta iscritta ho deciso invece di acquistare un piccolo telescopio. Che cosa hai avuto modo di osservare al telescopio? Prevalentemente i pianeti che mi attraggono particolarmente. Non disdegno però comete, galassie e stelle doppie. Abitando in una frazione piccola e isolata come Canacede puoi immergerti in un cielo splendidamente nero, senza luci che disturbano. Ti rendi conto della fortuna che hai? E’ proprio grazie alla qualità del cielo visibile dalla mia abitazione che mi sono appassionata. Da piccola, una volta buio, uscivo con mio papà per andare alla stalla e non potevo non notare quello spettacolo che stava sopra la mia testa. Papà mi ha insegnato a riconoscere la Via Lattea e altro. La più grossa soddisfazione osservativa provata finora? L’osservazione di Saturno puntato con le mie mani. Lo vidi per la prima volta partecipando a una serata dell’ Associazione ma pareva finto, quasi come una fotografia. Quando l’ho visto attraverso il mio telescopio è stato come trovarsi di fronte a una incredibile realtà. Ti muovi con padronanza tra le stelle o sei ancora in fase di apprendimento? Mi arrangio piuttosto bene. Le principali stelle e costellazioni le riconosco. Hai una richiesta per i responsabili dell’Associazione? Vorrei fossero trattati argomenti particolari come ad esempio il fenomeno dei fulmini globulari. PLANETARIO DI S. TOMASO LO SPETTACOLO DEL CIELO RICOSTRUITO ARTIFICIALMENTE Le serate si tengono ogni venerdì con inizio alle 20.30. Per partecipare occorre prenotarsi telefonando al Comune di S. Tomaso in mattinata allo 0437/598004 oppure passare direttamente in Comune. Il costo delle lezioni è fissato per tutti in 5 euro. Al raggiungimento del tetto massimo di prenotazioni per una serata, si sarà dirottati alla successiva o alla prima dove ci sia posto (se d' accordo). Per le scolaresche sono due le giornate di apertura settimanale, il mercoledì e il giovedì con lezioni alle 9.00 e alle 10.30. La prenotazione va effettuata sempre ai numeri del municipio e il pagamento (anticipato) è possibile tramite bollettino di c/c Il costo va dai 2,50 euro a persona per le scuole dell' obbligo ai 3,50 euro per le superiori. Il numero massimo di studenti per lezione non può superare i 25 per le scuole dell' obbligo e i 20 per le superiori (nel numero rientrano gli accompagnatori). Per gli Associati a “Cieli Dolomitici” l’ingresso è gratuito. Ho visto cose che voi umani nemmeno immaginate... 17