SALUTE MENTALE DELLA DONNA E RUOLO FEMMINILE NEL MONDO DEL LAVORO OGGI Aspetti psichiatrici di una rivoluzione culturale Conferenza tenuta alla Federazione Italiana Donne Arti Professioni Affari (F.I.D.A.P.A.), Sezione di Termini Imerese, presso il Grand Hotel delle Terme di Termini Imerese, giovedì 22 febbraio 1996 GIOVANNI IANNUZZO Sono molto lieto di essere qui con voi questa sera, per parlare di un tema così provocatorio e intrigante come il rapporto oggi esistente tra la salute mentale della donna e il ruolo femminile nel mondo del lavoro. Quando mi è stato chiesto di partecipare ad un ciclo di conferenze organizzate dalla vostra associazione sul tema “Donna e lavoro” decisi di affrontare proprio questo tema per almeno due motivi diversi: il primo è che il problema della salute mentale delle donne è oggi di grande attualità, e su di esso si concentra l'attenzione di un certo numero di istituzioni scientifiche; il secondo è che parlare del ruolo femminile nel mondo del lavoro oggi significa prendere in considerazione non tanto o non solo una nuova situazione sociale – infatti l’inserimento della donna nel mondo del lavoro è una realtà da decenni – ma soprattutto psicologica che ha proprio le caratteristiche di una rivoluzione culturale dirompente, non priva di contenuti eversivi. Un problema col quale, per quanto non in maniera entusiastica, istituzioni sociali, centri di ricerca e centri di potere devono fare i conti. Le rivoluzioni possono essere accettate con entusiasmo o possono essere subite. Comunque non le si può ignorare. Dicevamo della salute mentale delle donne. Una simile specificazione (“delle donne”) sembrerebbe riportare alla mente antiche discriminazioni anche sul piano psichiatrico, che hanno caratterizzato per secoli quel mare magnum di luoghi comuni sulla stabilità o l'equilibrio delle donne. Ricordate sicuramente la definizione aristotelica di isteria, dal greco hystéra, utero, derivante a sua volta da una antica radice linguistica indoeuropea: malattia tipicamente femminile, le cui manifestazioni erano provocate proprio dalle migrazioni dell'utero all'interno del corpo della donna. Questi luoghi comuni ormai appartengono ad una storia universale del pregiudizio, ed è pertanto ovvio che quando parliamo di salute mentale della donna ci riferiamo ad un concetto del tutto diverso. Anzitutto alla presa d'atto del fatto che il femminile è sempre più presente nella nostra società e che, anche per semplici motivi demografici, il numero delle donne aumenta costantemente e quello degli uomini diminuisce. E' un dato incontrovertibile. Allora, accostarsi ad un problema come quello della salute mentale implica la presa d'atto di una specificità, che è quella del femminile. La cultura, le scienze, e la psichiatra tra esse ovviamente, sono da sempre state “al maschile”: non hanno, per secoli, preso in considerazione il fatto che il femminile è profondamente, strutturalmente diverso dal maschile, e che quindi necessità di un aggiustamento nelle valutazioni, per così dire di una “taratura” degli strumenti di osservazione che tenga conto di questa diversità. Per capire i problemi della salute mentale della donna, bisogna prima capire i problemi della donna, che sono profondamente diversi da quelli dell'uomo. Ecco allora la nascita di società appositamente dedicate allo studio della Salute Mentale della donna, o di commissioni 1 speciali delle più importanti società psichiatriche internazionali (come l’American Psychiatric Association), sui problemi specifici dell'essere donna. Uno dei temi fondamentali del ruolo progressivamente diverso della donna nel XX secolo è stata l’emancipazione femminile. Per quanto sembri riduttivo, bisogna ammettere che solo in minima parte essa è stata dovuta ad una progressiva presa di coscienza delle donne; le motivazioni fondamentali sono di natura storica ed economica. Nel ‘900, per esempio, il potenziamento delle banche e delle assicurazioni, oltre che dei servizi pubblici hanno determinato un iniziale grande assorbimento delle donne nel mondo del lavoro (il 50% in più tra il 1906 e il 1936). Ma un altro fattore, ancora più importante, è stato rappresentato dai due conflitti mondiali, che hanno imposto alla donna di sostituire nella vita ‘civile’ milioni di uomini partiti per il fronte. Se di emancipazione si è trattato, quindi, è stata certamente una “emancipazione sotto tutela”. Secondo qualcuno, il XX secolo avrebbe dovuto scrivere la storia della rivalità tra uomo e donna. In realtà, tra uomo e donna non c'è sinora stata la disponibilità delle stesse armi, dei medesimi mezzi, ed anzi, viene abitualmente messa in atto una sottile discriminazione che assume le forme di una sottile segregazione del sistema di formazione e nel mondo del lavoro. Si tenta cioè di perpetuare o di reinventare la legittimazione del principio della divisione sessuale dei ruoli. Ancora oggi, uomini e donne, insomma, vengono distribuiti in sfere separate di formazione e lavoro. C'è un fenomeno che la Lagrave mette in evidenza, e cioè che: “Allorché le donne progrediscono in un mestiere o una disciplina, gli uomini disertano o hanno già disertato. Non è una situazione di rivalità, e neanche di giusta concorrenza, è una defezione silenziosa”. Ma, se è così, poco male: lo spazio che verrà lasciato alle donne nel mondo del lavoro sarà sempre più ampio... Discutere del ruolo femminile nel mondo del lavoro oggi significa comunque affrontare almeno tre problemi. 1. Il mutamento della struttura socio-economica, che ha reso necessaria una nuova posizione della donna all'interno delle strutture produttive, con un impatto sociale a dir poco rivoluzionario. La struttura socio-economica è andata cambiando progressivamente, ma in maniera sempre più decisa, dalla fine della seconda guerra mondiale, ma tale cambiamento è diventato straordinariamente veloce da circa un decennio a questa parte. In un mondo che è sempre più villaggio globale, dominato da una comunicazione sempre più tecnologica ed aggressiva, è cambiata totalmente la mappa dei bisogni fondamentali. Che sono diventati sempre meno essenziali, e sempre più ludici, indotti, subdoli, ma comunque bisogni non meno essenziali, in apparenza, di quelli per così dire tradizionali. Il soddisfacimento di tali nuovi bisogni indotti ha richiesto una sempre maggiore pressione lavorativa, mediata da una vera cultura del superfluo. Le problematiche sociali a monte di questa situazione sono complesse e non è certo questa la sede per esaminarle. Voglio solo suggerire che ad un certo momento è divenuto obbligatorio il fatto che la donna lavorasse, per portare il proprio contributo economico. Ciò ha significato, da parte maschile, il crollo almeno parziale delle difese tradizionalmente messe in atto per impedire che la donna lavorasse, che, insomma, la donna fosse “altro” rispetto ai ruoli tradizionali di moglie e di madre. Come già accennavo, non sono affatto convinto che il grande afflusso delle donne nel mondo del lavoro, specialmente dopo la fine del secondo conflitto mondiale, sia 2 dovuto ad una nuova presa di coscienza della donna e del proprio ruolo sociale: credo che la donna questa coscienza l'abbia avuta sempre, in qualche modo, magari non in modo massificato, non mediatico, ma con grande lucidità. Il problema è che la lotta col il maschio diventava spesso difficile, complessa, troppo impegnativa. Ad un certo momento la società è cambiata. La nuova funzione sociale della donna veniva ad essere non più domestica (modello arcaico di interazione familiare), ma collaboratrice nella produzione di reddito. Ad una società maschilista (con gli uomini, cioè, in posizione di assoluto potere gestionale e organizzativo) questa soluzione poteva anche apparire comoda: una riduzione della presenza intrafamiliare della donna poteva bene associarsi con attività lavorative appositamente calibrate per la donna: insegnante, impiegata, infermiera, insomma tutte professioni di “supporto” e culturalmente “adatte” ad una donna. Che così si è ritrovata ad essere impegnata comunque su due fronti, ed entrambi part-time: casa e lavoro esterno. Ad una società maschilista (e quando parlo di maschilismo mi riferisco al consenso che il perpetuarsi di questi ruoli sociali riceveva anche da molte donne!) questa condizione appariva ampiamente accettabile. Non a caso tale processo è stato fortemente incoraggiato ed incentivato. Ed a ragione poiché di trattava di una posizione autenticamente antifemminile: in base alle esigenze maschili, si concedeva un nuovo spazio fruibile alla donna, ma pur sempre rigidamente delimitato. Il problema che non fu preso debitamente in considerazione (il che, consentitemi la digressione, dimostra per l’ennesima volta che i fenomeni sociali sono difficilmente prevedibili!) fu che una massiccia immissione della donna nel mondo del lavoro non poteva essere limitata ad una presenza funzionale ai bisogni maschili. Credo che alla base di questo vi sia stata la profonda, antica disistima che la società ‘maschile’ ha sempre avvertito nei confronti della donna. Una prima conseguenza di questo cambiamento di una situazione millenaria, infatti, fu il significativo mutamento sociale nella struttura familiare, che ha profondamente ristrutturato i ruoli intrafamiliari tradizionali, aprendo nuovi spazi all'iniziativa femminile. Infatti, ovviamente, la donna che lavorava doveva necessariamente ristrutturare i propri impegni all’interno della famiglia: non poteva essere più quell’angelo del focolare, ruolo che la società tradizionalmente maschilista le attribuiva, con tutte le conseguenze del caso: la famiglia cominciò ad assumere lentamente nuove caratteristiche. Nonostante questo, sul piano delle attività lavorative, il ruolo della donna nella seconda metà del ‘900 sembrava comunque essere stato definito: come forza lavoro poteva anche andar bene, ma senza mettere a repentaglio settori strategici del potere maschile. In realtà le cose andarono diversamente, e la conseguenza di questo ingresso della donna nel mondo del lavoro fu quella di incentivare un nuovo fenomeno, che rappresenta il secondo problema da discutere. 2. La presenza sempre maggiore non solo di donne che lavorano, ma anche di donne in posizioni dirigenziali, o che comunque aspirano, con diritto, a posizioni dirigenziali. Ho l’impressione che sia stato questo nuovo fenomeno sociale (e psicologico) a creare, forse per la prima volta nella storia dell’umanità, una condizione di aperta conflittualità inter sessuale, perché questo aspetto del ruolo della donna nel mondo del lavoro non era stato previsto, non faceva comunque parte delle regole del gioco. Produrre era un discorso, attentare alle solide posizioni dirigenziali maschili (insomma, al potere maschile) era tutt'altro discorso. Una donna operaia era una cosa, una donna docente universitario 3 un'altra. Una donna impiegata andava ancora bene, una donna top-manager andava molto meno bene e questo solo perché – indipendentemente dalle capacità individuali - questi ruoli erano tipicamente maschili, a fronte e a dispetto di una situazione demografica palesemente dalla parte della donna. Ma il percorso delle donne nel mondo del lavoro è diventato inarrestabile. Forse, però, è il caso di chiedersi a quale prezzo. E' un prezzo difficile da quantificare. Sicuramente al prezzo di una elevata conflittualità, conseguenza inevitabile della conquista di nuove posizioni sociali ed al cambiamento del proprio ruolo sessuale e sociale. E questo ci porta ad esaminare brevemente il terzo problema. 3. Una fondamentale conseguenza del cambiamento del ruolo sociale e familiare femminile è stata la necessità di acquisire, insieme ai ruoli, alcune caratteristiche psicologiche e comportali del genere maschile. L’acquisizione e il mantenimento di ruoli tradizionalmente “maschili”, in condizione di aperta competitività di genere ed in una società che per millenni è stata dominata da modelli maschili, ha implicato per le donne l’apprendimento di modalità di comportamento maschili. Non è cosa che può stupire, direi anzi che è fisiologica. Senza voler banalizzare l’argomento, direi che è qualcosa di molto simile ai ruoli e ai comportamenti che si assumono in ambito professionale. Pochi si aspetterebbero un terrorista dai modi umani e gentili o una infermiera brutale e sadica. Che poi talvolta le cose vadano in maniera strana e che esistano davvero terroristi dal volto umano e infermiere sadiche è un altro discorso. Ma esiste una correlazione indiscutibile fra ruolo sociale e comportamenti ad esso connessi. Allora, nel mondo “direttivo e gestionale’ maschile, aggressività, competitività e una certa deficienza di sensibilità sono da sempre la norma, anzi talvolta sono considerati la chiave del successo. Per arrivare a questi ruoli le donne hanno dovuto adeguarsi agli stessi modelli tradizionali di comportamento. Perché sarebbe un problema? Semplicemente perché, così facendo, la donna rischia di perdere la propria profonda identità di ruolo e di genere. Il cinema, in particolare credo quello americano, si è occupa spesso di questi argomenti, legati poi ad un immaginario collettivo. Ricordo, per esempio, Working Girl, tradotto in italiano con l'improbabile titolo di “Donne in carriera”: Non è un grandissimo film, badate bene, ma lo ricordo per due motivi: il primo – personale - è perché lo vidi in aereo, giusto mentre stavo andando a New York (dove il film è ambientato; ha una bellissima colonna sonora, ed una delle prime immagini è proprio la skyline della Grande Mela); il secondo, decisamente più rilevante, è perché ci dice molto non tanto sulle donne e sul loro equilibrio psichico nel mondo del lavoro, quanto su come gli uomini vivono la donna che lavora. Ed è emblematico il fatto che si tratti di un film statunitense, prodotto, insomma, nella società che più si è fatta simbolo del mondo contemporaneo. Una riflessione possibile sul ruolo della donna nel mondo del lavoro oggi, è quello della violenza sessuale, o se volete, in termini più morbidi, della violenza “di genere”. Esistono due livelli di violenza: il primo è caratterizzato dai toccamenti e strofinii, dai commenti osceni ed atti esibizionistici, dalla violenza sessuale vera e propria; il secondo consiste nell'impedire alla donna di affermarsi, di proseguire nella carriera, di emergere nella professione. E’ vero, è una situazione reale e problematica, che si sta tentando di affrontare opportunamente dal punto di vista legislativo. Ed è una situazione talmente “forte” che ha provocato una reazione tutta “maschile” come quella espressa dal film Revelations (Rivelazioni), con Michael Douglas e Demi Moore, dove l’oggetto delle 4 molestie sessuali è un maschio che, in condizione di subordinazione rispetto ad una donna, subisce episodi di “violenza sessuale”. Per quanto io abbia forti perplessità sugli aspetti “realistici” del film o semplicemente sulla sua attendibilità, esso rappresenta un segnale di allarme culturale, una piccola spia rossa che lampeggia per indicare un cambiamento nei rapporti di genere. Di fatto dobbiamo ammettere che sta cambiando il costume, sta cambiando la società, ma questa non può essere una giustificazione né storica né sociale. Il dato di fatto inoppugnabile è che gli uomini non accettano, troppo spesso, l'emancipazione della donna, la vivono come provocazione, come sostanziale attentato al proprio predominio,che è ormai un predominio puramente formale, storico, e pertanto assolutamente virtuale. L'uomo preferisce la donna in un certo modo, e fa di tutto per viverla in quel modo, una condizione, cioè, di palese subordinazione. Vorrei parlarvi, a proposito di questo, di altri due film – e perdonate il mio continuo ricorso alla filmografia - che, secondo me, dimostrano come questa immagine della donna sia rafforzata dal cinema, molto più forse che dalla letteratura. Sapete che esiste un filone cinematografico (probabilmente un vero e proprio sottogenere, visto il numero, ed anche la qualità, delle pellicole ) che in qualche modo pone al centro della trama uno psichiatra. Figura inquietante e intrigante, lo psichiatra è da sempre al centro dell'attenzione popolare. Le sue frequentazioni con la psicopatologia, il suo compito per così dire statutario di comprendere e descrivere la malattia mentale, ne fa un personaggio indispensabile di tante trame cinematografiche. Un tempo questa figura era, dal punto di vista sociale, tipicamente maschile. Esistevano quasi esclusivamente psichiatri maschi e i rari psichiatri donna al massimo si occupavano di bambini o erano in atteggiamento di adorante sottomissione nei confronti dei loro mentori e maestri maschi. Ora la situazione, da un prospettiva sociale e professionale, è certamente cambiata. Ma non è cambiato l'immaginario collettivo. Penso di potervelo rapidamente dimostrare prendendo rapidamente in considerazione due film appartenenti a questo “genere”, molto simili per trama e contenuto. In tutti e i protagonisti sono un paziente e uno psichiatra; lo psichiatra in qualche modo si innamora del suo paziente e questo provoca una serie di eventi successivi che concernono ovviamente la vita privata dello psichiatra stesso e che costruiscono in realtà la trama. I due film in questione sono Analisi finale, interpretato da Richard Gere e Kim Basinger, e Il principe delle maree con Barbra Streisand. Il primo è un thriller, il secondo ha un contenuto che vorrebbe essere più “esistenziale”. Ma quanta differenza! Lo psichiatra maschio di Analisi finale è attento, accorto, acuto, lucido, pur nei suoi coinvolgimenti sentimentali, e alla fine padroneggia perfettamente la situazione. La psichiatra di Il principe delle maree è invece troppo coinvolta, incapace, impotente, quasi in balia del suo amore per il suo paziente e comunque appare del tutto sprovveduta. Lo psichiatra di Analisi finale è maschio, lo psichiatra di Il principe delle maree è femmina. Il che è socialmente spiegabile: dalla donna ci si aspetta comportamenti improntati ad una visione tradizionale e quindi necessariamente soft del femminile. Dal maschio un comportamento improntato al ruolo storico della virilità. Ce lo si aspetta a letto, ma ce si lo aspetta anche sul lettino (dell’analista)… Penso che questa visione tradizionale dei ruoli di genere sia strettamente correlata al ‘potere’ della maternità, differenza sostanziale tra uomo e donna non solo in senso biologico, ma anche con riferimento al senso che alla procreazione è stato dato sia a livello sociale, sia al livello culturale, psichico, simbolico. Tutti gli uomini provengono da un corpo di donna, dal quale devono però separarsi per potersi differenziare, per diventare uomini. Esiste insomma la paura verso la donna, così diversa, così potente, così invidiabile 5 perché possiede la magia della procreazione. Nel corpo della donna è l'Origine, l'oggetto del desiderio, l'angoscia di separazione. La donna è Madre, e nell'esserlo è onnipotente, manifesta una “superiorità” incolmabile nei confronti del sesso maschile, per sua stessa natura così fragile, così debole. Come suggerisce Gonzales De Chavez è per superare questa paura e questa invidia che l'uomo ha inventato la discriminazione tra i sessi. Ed è una forma di discriminazione che, come psichiatri, vediamo spesso. Per esempio, l'uomo ha quasi sempre paura dello psichiatra, o dello psicoterapeuta che prende in cura la propria moglie, la propria fidanzata, la propria compagna. Ha paura delle rivelazioni che ella può fare, della messa a nudo dei difetti di una virilità improbabile, della presa di coscienza della donna che il compagno è in effetti assai più fragile, più debole, più “piccolo”, probabilmente, di quanto egli non voglia ammettere con se stesso o di quanto in effetti non capisca egli stesso. E’ la riproposizione di un arcaico modello antropologico. L'uomo ha paura della donna che prende coscienza, perché la donna, per definizione culturale, non deve essere consapevole di se stessa, delle proprie potenzialità, e, in una parola, del proprio potere. Facciamo un esempio fantascientifico. In una società futura, tecnologicamente assai progredita, la donna potrebbe continuare a procreare anche senza sessualità, senza, insomma, la presenza attiva di uomini. Ma in un mondo di soli uomini, questo non sarebbe possibile. Alla donna sembra essere stata affidata la sopravvivenza della specie, istinto primario della specie – di ogni specie. La consapevolezza femminile di questa possibilità potrebbe alterare equilibri e ruoli arcaici. Non si tratta però solo di condizionamenti culturali. La definizione dei ruoli sociali di genere sembra originarsi da fattori biologici. Tenterò molto brevemente di descriverli, nel modo più semplice possibile. Nel mondo animale esistono due modi diversi per “funzionare” sessualmente in senso riproduttivo: la femmina può produrre moltissime uova, con un investimento di energia minimo in ciascuna di esse, oppure produrne pochissime con un grande investimento di energia. La prima strategia viene chiamata strategia R, la seconda strategia K. Solo per fare un esempio, la riproduzione delle ostriche è fondata su una strategia R, quella degli oranghi su una strategia K. Una strategia K è centrata sulla cura dei piccoli, senza la quale esiste il rischio dell’estinzione di un intero pool genico. Quindi per evitare l'estinzione una specie che utilizza una strategia K di riproduzione deve tentare di avere quanto più figli possibile e di curarli con grande attenzione, nel modo migliore concesso dall’ecosistema. La nostra specie, Homo Sapiens Sapiens, ha sempre utilizzato una strategia K di riproduzione (non per scelta, ovviamente, ma per sua programmazione biologica), ma perché essa si rivelasse efficiente è stata da sempre necessaria una maggiore cooperazione sociale all'interno del gruppo. Detto in altri termini, una femmina che doveva fare figli il più frequentemente possibile e provvedere alla loro cura non poteva allo stesso tempo cacciare e procurarsi il cibo. Aveva bisogno della cooperazione del maschio, a cui erano delegate inevitabilmente queste funzioni. Per un aumento della cooperazione sociale era però necessaria una diminuzione dell'aggressività sessuale, e quindi la sostituzione di una riproduzione fondata esclusivamente sullo stimolo ormonale con l’individualizzazione del legame di coppia, facilitato nella nostra specie da un “estro” costante e non periodico. Il “legame di coppia” si fonda allora sulla particolarità di attività sessuali stabili, caratterizzate dalle scelta del maschio di una sola femmina (o comunque talvolta di poche femmine), scelta che, essendo diffusa nel gruppo, lasciava indifferenti gli altri maschi. Il legame di coppia funge quindi da armonizzatore sociale: la femmina si prende cura della 6 prole, il maschio si può allontanare senza perdere la possibilità di perpetuarsi e non solo provvede alle esigenze della propria “famiglia”, ma può collaborare con il gruppo mediante la spartizione di cibo sovrabbondante. La presenza di un compagno stabile e la spartizione di cibo rese possibile alla femmina, una minore mobilità, una aumentata capacità riproduttiva, il che significa prole più numerosa e, trattandosi di mammiferi, di un alto investimento, quindi di cure estremamente attente. La prole numerosa è una risposta alle strategie riproduttive K, per la sopravvivenza della specie, ma questo implicò la strutturazione di un ruolo: le attività esterne spettavano esclusivamente all'uomo, mentre quelle interne al nucleo protofamiliare spettavano alla donna. Parliamo di società primitive, dei nostri remoti antenati, più o meno di ottantamila anni fa, però fu in quel lontano momento protostorico che possono essere rintracciate le pretese egemoniche sociali e relazionali del maschio. Nel lungo processo di emancipazione femminile, che ha portato la donna all’acquisizione di ruoli professionali, economici e di potere pari o spesso superiori a quelli maschili, quell’arcaico assetto sociale è stato del tutto rivoluzionato. Oggi la “parità” fra i sessi è una realtà – forse ancora imperfetta, che incontra ancora molte resistenze, ma di certo una realtà. Si tratta di un indiscutibile progresso sociale, una vera rivoluzione e su questo credo che anche i più inveterati maschilisti debbano concordare. Una sola domanda resta senza risposta: poiché ogni progresso ha inevitabilmente un costo, quale prezzo è stato pagato sia dagli uomini sia dalle donne – dall’umanità, insomma – per questa rivoluzione? Non ho risposte certe (e non credo che alcuno le abbia!) e quindi vi dirò semplicemente la mia opinione personale. Io penso che nel tentativo di acquisire potere e rappresentatività nella società le donne abbiano dovuto sacrificare una parte importante della loro stessa, intima, profonda natura. Hanno dovuto adeguarsi a modelli tradizionalmente maschili, e quindi aggressivi, competitivi, egoistici. Hanno rinunciato a quell’aspetto “lunare” così caro alle antiche società matriarcali, per adottare quei modelli “solari” sui quali si sono fondate poi le società patriarcali. Hanno sacrificato sull’altare dei diritti della donna lo straordinario e naturale potere del femminile. Certo, è stata una necessità storica e culturale, forse dettata proprio da una plurimillenaria repressione maschilista, ma non credo che sia una strada che abbia un senso. In una società giusta vanno garantiti i diritti di tutti, ma nel rispetto della natura di ciascuno, genere o individuo che sia. La società, oggi, va sempre più verso l’acquisizione di un progressivo potere da parte delle donne e questo è un fatto inevitabile. Ma per essere anche un fatto buono, una società del futuro non dovrà solo evitare che le bambine giochino con le bambole, ma anche insegnare ai maschi quanto può essere bello giocare con le bambole. Solo allora la rivoluzione “al femminile” della società sarà completa. © Giovanni Iannuzzo, luglio 2008 7