SALUTE MENTALE DELLA DONNA E RUOLO FEMMINILE NEL

SALUTE MENTALE DELLA DONNA E RUOLO
FEMMINILE NEL MONDO DEL LAVORO OGGI
Aspetti psichiatrici di una rivoluzione culturale
Conferenza tenuta alla Federazione Italiana Donne Arti Professioni Affari (F.I.D.A.P.A.), Sezione di
Termini Imerese, presso il Grand Hotel delle Terme di Termini Imerese, giovedì 22 febbraio 1996
GIOVANNI IANNUZZO
Sono molto lieto di essere qui con voi questa sera, per parlare di un tema così provocatorio
e intrigante come il rapporto oggi esistente tra la salute mentale della donna e il ruolo
femminile nel mondo del lavoro. Quando mi è stato chiesto di partecipare ad un ciclo di
conferenze organizzate dalla vostra associazione sul tema “Donna e lavoro” decisi di
affrontare proprio questo tema per almeno due motivi diversi: il primo è che il problema
della salute mentale delle donne è oggi di grande attualità, e su di esso si concentra
l'attenzione di un certo numero di istituzioni scientifiche; il secondo è che parlare del ruolo
femminile nel mondo del lavoro oggi significa prendere in considerazione non tanto o non
solo una nuova situazione sociale – infatti l’inserimento della donna nel mondo del lavoro
è una realtà da decenni – ma soprattutto psicologica che ha proprio le caratteristiche di una
rivoluzione culturale dirompente, non priva di contenuti eversivi. Un problema col quale,
per quanto non in maniera entusiastica, istituzioni sociali, centri di ricerca e centri di
potere devono fare i conti. Le rivoluzioni possono essere accettate con entusiasmo o
possono essere subite. Comunque non le si può ignorare.
Dicevamo della salute mentale delle donne. Una simile specificazione (“delle donne”)
sembrerebbe riportare alla mente antiche discriminazioni anche sul piano psichiatrico, che
hanno caratterizzato per secoli quel mare magnum di luoghi comuni sulla stabilità o
l'equilibrio delle donne. Ricordate sicuramente la definizione aristotelica di isteria, dal
greco hystéra, utero, derivante a sua volta da una antica radice linguistica indoeuropea:
malattia tipicamente femminile, le cui manifestazioni erano provocate proprio dalle
migrazioni dell'utero all'interno del corpo della donna. Questi luoghi comuni ormai
appartengono ad una storia universale del pregiudizio, ed è pertanto ovvio che quando
parliamo di salute mentale della donna ci riferiamo ad un concetto del tutto diverso.
Anzitutto alla presa d'atto del fatto che il femminile è sempre più presente nella nostra
società e che, anche per semplici motivi demografici, il numero delle donne aumenta
costantemente e quello degli uomini diminuisce. E' un dato incontrovertibile. Allora,
accostarsi ad un problema come quello della salute mentale implica la presa d'atto di una
specificità, che è quella del femminile. La cultura, le scienze, e la psichiatra tra esse
ovviamente, sono da sempre state “al maschile”: non hanno, per secoli, preso in
considerazione il fatto che il femminile è profondamente, strutturalmente diverso dal
maschile, e che quindi necessità di un aggiustamento nelle valutazioni, per così dire di una
“taratura” degli strumenti di osservazione che tenga conto di questa diversità. Per capire i
problemi della salute mentale della donna, bisogna prima capire i problemi della donna,
che sono profondamente diversi da quelli dell'uomo. Ecco allora la nascita di società
appositamente dedicate allo studio della Salute Mentale della donna, o di commissioni
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speciali delle più importanti società psichiatriche internazionali (come l’American
Psychiatric Association), sui problemi specifici dell'essere donna.
Uno dei temi fondamentali del ruolo progressivamente diverso della donna nel XX secolo
è stata l’emancipazione femminile. Per quanto sembri riduttivo, bisogna ammettere che
solo in minima parte essa è stata dovuta ad una progressiva presa di coscienza delle donne;
le motivazioni fondamentali sono di natura storica ed economica. Nel ‘900, per esempio, il
potenziamento delle banche e delle assicurazioni, oltre che dei servizi pubblici hanno
determinato un iniziale grande assorbimento delle donne nel mondo del lavoro (il 50% in
più tra il 1906 e il 1936). Ma un altro fattore, ancora più importante, è stato rappresentato
dai due conflitti mondiali, che hanno imposto alla donna di sostituire nella vita ‘civile’
milioni di uomini partiti per il fronte. Se di emancipazione si è trattato, quindi, è stata
certamente una “emancipazione sotto tutela”.
Secondo qualcuno, il XX secolo avrebbe dovuto scrivere la storia della rivalità tra uomo e
donna. In realtà, tra uomo e donna non c'è sinora stata la disponibilità delle stesse armi, dei
medesimi mezzi, ed anzi, viene abitualmente messa in atto una sottile discriminazione che assume le forme di una sottile segregazione del sistema di formazione e nel mondo del
lavoro. Si tenta cioè di perpetuare o di reinventare la legittimazione del principio della
divisione sessuale dei ruoli. Ancora oggi, uomini e donne, insomma, vengono distribuiti in
sfere separate di formazione e lavoro.
C'è un fenomeno che la Lagrave mette in evidenza, e cioè che: “Allorché le donne
progrediscono in un mestiere o una disciplina, gli uomini disertano o hanno già disertato.
Non è una situazione di rivalità, e neanche di giusta concorrenza, è una defezione
silenziosa”.
Ma, se è così, poco male: lo spazio che verrà lasciato alle donne nel mondo del lavoro sarà
sempre più ampio...
Discutere del ruolo femminile nel mondo del lavoro oggi significa comunque affrontare
almeno tre problemi.
1. Il mutamento della struttura socio-economica, che ha reso necessaria una
nuova posizione della donna all'interno delle strutture produttive, con un
impatto sociale a dir poco rivoluzionario.
La struttura socio-economica è andata cambiando progressivamente, ma in maniera
sempre più decisa, dalla fine della seconda guerra mondiale, ma tale cambiamento è
diventato straordinariamente veloce da circa un decennio a questa parte. In un mondo che
è sempre più villaggio globale, dominato da una comunicazione sempre più tecnologica ed
aggressiva, è cambiata totalmente la mappa dei bisogni fondamentali. Che sono diventati
sempre meno essenziali, e sempre più ludici, indotti, subdoli, ma comunque bisogni non
meno essenziali, in apparenza, di quelli per così dire tradizionali.
Il soddisfacimento di tali nuovi bisogni indotti ha richiesto una sempre maggiore pressione
lavorativa, mediata da una vera cultura del superfluo. Le problematiche sociali a monte di
questa situazione sono complesse e non è certo questa la sede per esaminarle. Voglio solo
suggerire che ad un certo momento è divenuto obbligatorio il fatto che la donna lavorasse,
per portare il proprio contributo economico. Ciò ha significato, da parte maschile, il crollo
almeno parziale delle difese tradizionalmente messe in atto per impedire che la donna
lavorasse, che, insomma, la donna fosse “altro” rispetto ai ruoli tradizionali di moglie e di
madre. Come già accennavo, non sono affatto convinto che il grande afflusso delle donne
nel mondo del lavoro, specialmente dopo la fine del secondo conflitto mondiale, sia
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dovuto ad una nuova presa di coscienza della donna e del proprio ruolo sociale: credo che
la donna questa coscienza l'abbia avuta sempre, in qualche modo, magari non in modo
massificato, non mediatico, ma con grande lucidità. Il problema è che la lotta col il
maschio diventava spesso difficile, complessa, troppo impegnativa. Ad un certo momento
la società è cambiata. La nuova funzione sociale della donna veniva ad essere non più
domestica (modello arcaico di interazione familiare), ma collaboratrice nella produzione
di reddito. Ad una società maschilista (con gli uomini, cioè, in posizione di assoluto potere
gestionale e organizzativo) questa soluzione poteva anche apparire comoda: una riduzione
della presenza intrafamiliare della donna poteva bene associarsi con attività lavorative
appositamente calibrate per la donna: insegnante, impiegata, infermiera, insomma tutte
professioni di “supporto” e culturalmente “adatte” ad una donna. Che così si è ritrovata ad
essere impegnata comunque su due fronti, ed entrambi part-time: casa e lavoro esterno.
Ad una società maschilista (e quando parlo di maschilismo mi riferisco al consenso che il
perpetuarsi di questi ruoli sociali riceveva anche da molte donne!) questa condizione
appariva ampiamente accettabile. Non a caso tale processo è stato fortemente incoraggiato
ed incentivato. Ed a ragione poiché di trattava di una posizione autenticamente antifemminile: in base alle esigenze maschili, si concedeva un nuovo spazio fruibile alla
donna, ma pur sempre rigidamente delimitato. Il problema che non fu preso debitamente
in considerazione (il che, consentitemi la digressione, dimostra per l’ennesima volta che i
fenomeni sociali sono difficilmente prevedibili!) fu che una massiccia immissione della
donna nel mondo del lavoro non poteva essere limitata ad una presenza funzionale ai
bisogni maschili. Credo che alla base di questo vi sia stata la profonda, antica disistima
che la società ‘maschile’ ha sempre avvertito nei confronti della donna.
Una prima conseguenza di questo cambiamento di una situazione millenaria, infatti, fu il
significativo mutamento sociale nella struttura familiare, che ha profondamente
ristrutturato i ruoli intrafamiliari tradizionali, aprendo nuovi spazi all'iniziativa femminile.
Infatti, ovviamente, la donna che lavorava doveva necessariamente ristrutturare i propri
impegni all’interno della famiglia: non poteva essere più quell’angelo del focolare, ruolo
che la società tradizionalmente maschilista le attribuiva, con tutte le conseguenze del caso:
la famiglia cominciò ad assumere lentamente nuove caratteristiche.
Nonostante questo, sul piano delle attività lavorative, il ruolo della donna nella seconda
metà del ‘900 sembrava comunque essere stato definito: come forza lavoro poteva anche
andar bene, ma senza mettere a repentaglio settori strategici del potere maschile. In realtà
le cose andarono diversamente, e la conseguenza di questo ingresso della donna nel
mondo del lavoro fu quella di incentivare un nuovo fenomeno, che rappresenta il secondo
problema da discutere.
2. La presenza sempre maggiore non solo di donne che lavorano, ma anche di
donne in posizioni dirigenziali, o che comunque aspirano, con diritto, a
posizioni dirigenziali.
Ho l’impressione che sia stato questo nuovo fenomeno sociale (e psicologico) a creare,
forse per la prima volta nella storia dell’umanità, una condizione di aperta conflittualità
inter sessuale, perché questo aspetto del ruolo della donna nel mondo del lavoro non era
stato previsto, non faceva comunque parte delle regole del gioco. Produrre era un discorso,
attentare alle solide posizioni dirigenziali maschili (insomma, al potere maschile) era
tutt'altro discorso. Una donna operaia era una cosa, una donna docente universitario
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un'altra. Una donna impiegata andava ancora bene, una donna top-manager andava molto
meno bene e questo solo perché – indipendentemente dalle capacità individuali - questi
ruoli erano tipicamente maschili, a fronte e a dispetto di una situazione demografica
palesemente dalla parte della donna. Ma il percorso delle donne nel mondo del lavoro è
diventato inarrestabile. Forse, però, è il caso di chiedersi a quale prezzo. E' un prezzo
difficile da quantificare. Sicuramente al prezzo di una elevata conflittualità, conseguenza
inevitabile della conquista di nuove posizioni sociali ed al cambiamento del proprio ruolo
sessuale e sociale. E questo ci porta ad esaminare brevemente il terzo problema.
3. Una fondamentale conseguenza del cambiamento del ruolo sociale e familiare
femminile è stata la necessità di acquisire, insieme ai ruoli, alcune
caratteristiche psicologiche e comportali del genere maschile.
L’acquisizione e il mantenimento di ruoli tradizionalmente “maschili”, in condizione di
aperta competitività di genere ed in una società che per millenni è stata dominata da
modelli maschili,
ha implicato per le donne l’apprendimento di modalità di
comportamento maschili. Non è cosa che può stupire, direi anzi che è fisiologica. Senza
voler banalizzare l’argomento, direi che è qualcosa di molto simile ai ruoli e ai
comportamenti che si assumono in ambito professionale. Pochi si aspetterebbero un
terrorista dai modi umani e gentili o una infermiera brutale e sadica. Che poi talvolta le
cose vadano in maniera strana e che esistano davvero terroristi dal volto umano e
infermiere sadiche è un altro discorso. Ma esiste una correlazione indiscutibile fra ruolo
sociale e comportamenti ad esso connessi. Allora, nel mondo “direttivo e gestionale’
maschile, aggressività, competitività e una certa deficienza di sensibilità sono da sempre la
norma, anzi talvolta sono considerati la chiave del successo. Per arrivare a questi ruoli le
donne hanno dovuto adeguarsi agli stessi modelli tradizionali di comportamento.
Perché sarebbe un problema? Semplicemente perché, così facendo, la donna rischia di
perdere la propria profonda identità di ruolo e di genere.
Il cinema, in particolare credo quello americano, si è occupa spesso di questi argomenti,
legati poi ad un immaginario collettivo. Ricordo, per esempio, Working Girl, tradotto in
italiano con l'improbabile titolo di “Donne in carriera”: Non è un grandissimo film,
badate bene, ma lo ricordo per due motivi: il primo – personale - è perché lo vidi in aereo,
giusto mentre stavo andando a New York (dove il film è ambientato; ha una bellissima
colonna sonora, ed una delle prime immagini è proprio la skyline della Grande Mela); il
secondo, decisamente più rilevante, è perché ci dice molto non tanto sulle donne e sul loro
equilibrio psichico nel mondo del lavoro, quanto su come gli uomini vivono la donna che
lavora. Ed è emblematico il fatto che si tratti di un film statunitense, prodotto, insomma,
nella società che più si è fatta simbolo del mondo contemporaneo.
Una riflessione possibile sul ruolo della donna nel mondo del lavoro oggi, è quello della
violenza sessuale, o se volete, in termini più morbidi, della violenza “di genere”. Esistono
due livelli di violenza: il primo è caratterizzato dai toccamenti e strofinii, dai commenti
osceni ed atti esibizionistici, dalla violenza sessuale vera e propria; il secondo consiste
nell'impedire alla donna di affermarsi, di proseguire nella carriera, di emergere nella
professione. E’ vero, è una situazione reale e problematica, che si sta tentando di
affrontare opportunamente dal punto di vista legislativo. Ed è una situazione talmente
“forte” che ha provocato una reazione tutta “maschile” come quella espressa dal film
Revelations (Rivelazioni), con Michael Douglas e Demi Moore, dove l’oggetto delle
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molestie sessuali è un maschio che, in condizione di subordinazione rispetto ad una donna,
subisce episodi di “violenza sessuale”. Per quanto io abbia forti perplessità sugli aspetti
“realistici” del film o semplicemente sulla sua attendibilità, esso rappresenta un segnale di
allarme culturale, una piccola spia rossa che lampeggia per indicare un cambiamento nei
rapporti di genere. Di fatto dobbiamo ammettere che sta cambiando il costume, sta
cambiando la società, ma questa non può essere una giustificazione né storica né sociale.
Il dato di fatto inoppugnabile è che gli uomini non accettano, troppo spesso,
l'emancipazione della donna, la vivono come provocazione, come sostanziale attentato al
proprio predominio,che è ormai un predominio puramente formale, storico, e pertanto
assolutamente virtuale. L'uomo preferisce la donna in un certo modo, e fa di tutto per
viverla in quel modo, una condizione, cioè, di palese subordinazione.
Vorrei parlarvi, a proposito di questo, di altri due film – e perdonate il mio continuo
ricorso alla filmografia - che, secondo me, dimostrano come questa immagine della donna
sia rafforzata dal cinema, molto più forse che dalla letteratura. Sapete che esiste un filone
cinematografico (probabilmente un vero e proprio sottogenere, visto il numero, ed anche
la qualità, delle pellicole ) che in qualche modo pone al centro della trama uno psichiatra.
Figura inquietante e intrigante, lo psichiatra è da sempre al centro dell'attenzione popolare.
Le sue frequentazioni con la psicopatologia, il suo compito per così dire statutario di
comprendere e descrivere la malattia mentale, ne fa un personaggio indispensabile di tante
trame cinematografiche. Un tempo questa figura era, dal punto di vista sociale,
tipicamente maschile. Esistevano quasi esclusivamente psichiatri maschi e i rari psichiatri
donna al massimo si occupavano di bambini o erano in atteggiamento di adorante
sottomissione nei confronti dei loro mentori e maestri maschi. Ora la situazione, da un
prospettiva sociale e professionale, è certamente cambiata. Ma non è cambiato
l'immaginario collettivo. Penso di potervelo rapidamente dimostrare prendendo
rapidamente in considerazione due film appartenenti a questo “genere”, molto simili per
trama e contenuto. In tutti e i protagonisti sono un paziente e uno psichiatra; lo psichiatra
in qualche modo si innamora del suo paziente e questo provoca una serie di eventi
successivi che concernono ovviamente la vita privata dello psichiatra stesso e che
costruiscono in realtà la trama.
I due film in questione sono Analisi finale, interpretato da Richard Gere e Kim Basinger,
e Il principe delle maree con Barbra Streisand. Il primo è un thriller, il secondo ha un
contenuto che vorrebbe essere più “esistenziale”.
Ma quanta differenza! Lo psichiatra maschio di Analisi finale è attento, accorto, acuto,
lucido, pur nei suoi coinvolgimenti sentimentali, e alla fine padroneggia perfettamente la
situazione. La psichiatra di Il principe delle maree è invece troppo coinvolta, incapace,
impotente, quasi in balia del suo amore per il suo paziente e comunque appare del tutto
sprovveduta. Lo psichiatra di Analisi finale è maschio, lo psichiatra di Il principe delle
maree è femmina. Il che è socialmente spiegabile: dalla donna ci si aspetta comportamenti
improntati ad una visione tradizionale e quindi necessariamente soft del femminile. Dal
maschio un comportamento improntato al ruolo storico della virilità. Ce lo si aspetta a
letto, ma ce si lo aspetta anche sul lettino (dell’analista)…
Penso che questa visione tradizionale dei ruoli di genere sia strettamente correlata al
‘potere’ della maternità, differenza sostanziale tra uomo e donna non solo in senso
biologico, ma anche con riferimento al senso che alla procreazione è stato dato sia a livello
sociale, sia al livello culturale, psichico, simbolico. Tutti gli uomini provengono da un
corpo di donna, dal quale devono però separarsi per potersi differenziare, per diventare
uomini. Esiste insomma la paura verso la donna, così diversa, così potente, così invidiabile
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perché possiede la magia della procreazione. Nel corpo della donna è l'Origine, l'oggetto
del desiderio, l'angoscia di separazione. La donna è Madre, e nell'esserlo è onnipotente,
manifesta una “superiorità” incolmabile nei confronti del sesso maschile, per sua stessa
natura così fragile, così debole. Come suggerisce Gonzales De Chavez è per superare
questa paura e questa invidia che l'uomo ha inventato la discriminazione tra i sessi.
Ed è una forma di discriminazione che, come psichiatri, vediamo spesso. Per esempio,
l'uomo ha quasi sempre paura dello psichiatra, o dello psicoterapeuta che prende in cura la
propria moglie, la propria fidanzata, la propria compagna. Ha paura delle rivelazioni che
ella può fare, della messa a nudo dei difetti di una virilità improbabile, della presa di
coscienza della donna che il compagno è in effetti assai più fragile, più debole, più
“piccolo”, probabilmente, di quanto egli non voglia ammettere con se stesso o di quanto in
effetti non capisca egli stesso. E’ la riproposizione di un arcaico modello antropologico.
L'uomo ha paura della donna che prende coscienza, perché la donna, per definizione
culturale, non deve essere consapevole di se stessa, delle proprie potenzialità, e, in una
parola, del proprio potere.
Facciamo un esempio fantascientifico. In una società futura, tecnologicamente assai
progredita, la donna potrebbe continuare a procreare anche senza sessualità, senza,
insomma, la presenza attiva di uomini. Ma in un mondo di soli uomini, questo non
sarebbe possibile. Alla donna sembra essere stata affidata la sopravvivenza della specie,
istinto primario della specie – di ogni specie. La consapevolezza femminile di questa
possibilità potrebbe alterare equilibri e ruoli arcaici.
Non si tratta però solo di condizionamenti culturali. La definizione dei ruoli sociali di
genere sembra originarsi da fattori biologici. Tenterò molto brevemente di descriverli, nel
modo più semplice possibile.
Nel mondo animale esistono due modi diversi per “funzionare” sessualmente in senso
riproduttivo: la femmina può produrre moltissime uova, con un investimento di energia
minimo in ciascuna di esse, oppure produrne pochissime con un grande investimento di
energia. La prima strategia viene chiamata strategia R, la seconda strategia K. Solo per
fare un esempio, la riproduzione delle ostriche è fondata su una strategia R, quella degli
oranghi su una strategia K. Una strategia K è centrata sulla cura dei piccoli, senza la
quale esiste il rischio dell’estinzione di un intero pool genico. Quindi per evitare
l'estinzione una specie che utilizza una strategia K di riproduzione deve tentare di avere
quanto più figli possibile e di curarli con grande attenzione, nel modo migliore concesso
dall’ecosistema.
La nostra specie, Homo Sapiens Sapiens, ha sempre utilizzato una strategia K di
riproduzione (non per scelta, ovviamente, ma per sua programmazione biologica), ma
perché essa si rivelasse efficiente è stata da sempre necessaria una maggiore cooperazione
sociale all'interno del gruppo. Detto in altri termini, una femmina che doveva fare figli il
più frequentemente possibile e provvedere alla loro cura non poteva allo stesso tempo
cacciare e procurarsi il cibo. Aveva bisogno della cooperazione del maschio, a cui erano
delegate inevitabilmente queste funzioni. Per un aumento della cooperazione sociale era
però necessaria una diminuzione dell'aggressività sessuale, e quindi la sostituzione di una
riproduzione fondata esclusivamente sullo stimolo ormonale con l’individualizzazione del
legame di coppia, facilitato nella nostra specie da un “estro” costante e non periodico. Il
“legame di coppia” si fonda allora sulla particolarità di attività sessuali stabili,
caratterizzate dalle scelta del maschio di una sola femmina (o comunque talvolta di poche
femmine), scelta che, essendo diffusa nel gruppo, lasciava indifferenti gli altri maschi. Il
legame di coppia funge quindi da armonizzatore sociale: la femmina si prende cura della
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prole, il maschio si può allontanare senza perdere la possibilità di perpetuarsi e non solo
provvede alle esigenze della propria “famiglia”, ma può collaborare con il gruppo
mediante la spartizione di cibo sovrabbondante.
La presenza di un compagno stabile e la spartizione di cibo rese possibile alla femmina,
una minore mobilità, una aumentata capacità riproduttiva, il che significa prole più
numerosa e, trattandosi di mammiferi, di un alto investimento, quindi di cure
estremamente attente. La prole numerosa è una risposta alle strategie riproduttive K, per la
sopravvivenza della specie, ma questo implicò la strutturazione di un ruolo: le attività
esterne spettavano esclusivamente all'uomo, mentre quelle interne al nucleo protofamiliare spettavano alla donna.
Parliamo di società primitive, dei nostri remoti antenati, più o meno di ottantamila anni fa,
però fu in quel lontano momento protostorico che possono essere rintracciate le pretese
egemoniche sociali e relazionali del maschio.
Nel lungo processo di emancipazione femminile, che ha portato la donna all’acquisizione
di ruoli professionali, economici e di potere pari o spesso superiori a quelli maschili,
quell’arcaico assetto sociale è stato del tutto rivoluzionato. Oggi la “parità” fra i sessi è
una realtà – forse ancora imperfetta, che incontra ancora molte resistenze, ma di certo una
realtà. Si tratta di un indiscutibile progresso sociale, una vera rivoluzione e su questo credo
che anche i più inveterati maschilisti debbano concordare. Una sola domanda resta senza
risposta: poiché ogni progresso ha inevitabilmente un costo, quale prezzo è stato pagato
sia dagli uomini sia dalle donne – dall’umanità, insomma – per questa rivoluzione? Non
ho risposte certe (e non credo che alcuno le abbia!) e quindi vi dirò semplicemente la mia
opinione personale. Io penso che nel tentativo di acquisire potere e rappresentatività nella
società le donne abbiano dovuto sacrificare una parte importante della loro stessa, intima,
profonda natura. Hanno dovuto adeguarsi a modelli tradizionalmente maschili, e quindi
aggressivi, competitivi, egoistici. Hanno rinunciato a quell’aspetto “lunare” così caro alle
antiche società matriarcali, per adottare quei modelli “solari” sui quali si sono fondate poi
le società patriarcali. Hanno sacrificato sull’altare dei diritti della donna lo straordinario e
naturale potere del femminile. Certo, è stata una necessità storica e culturale, forse dettata
proprio da una plurimillenaria repressione maschilista, ma non credo che sia una strada
che abbia un senso. In una società giusta vanno garantiti i diritti di tutti, ma nel rispetto
della natura di ciascuno, genere o individuo che sia. La società, oggi, va sempre più verso
l’acquisizione di un progressivo potere da parte delle donne e questo è un fatto inevitabile.
Ma per essere anche un fatto buono, una società del futuro non dovrà solo evitare che le
bambine giochino con le bambole, ma anche insegnare ai maschi quanto può essere bello
giocare con le bambole. Solo allora la rivoluzione “al femminile” della società sarà
completa.
© Giovanni Iannuzzo, luglio 2008
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