1.2 Breve rassegna sull`utilità ingegneristica delle strutture

CAPITOLO 1
GLI ACQUIFERI FRATTURATI
1.1 Introduzione
Nella vita di tutti i giorni, un facile contatto con gli ambienti rocciosi fratturati si ha nella
circostanza in cui, ad esempio, si conduca l’automobile lungo una strada che costeggi una collina o
che scali una montagna, e come si apprezza in figura 1.1, ci si trova a fianco di una serie di
“lacerazioni” di varia inclinazione che compaiono sulle pareti del pendio, a cui si da genericamente
il nome di fratture. Ad essere precisi, però, non sono effettivamente le fratture a venire
direttamente osservate, quanto piuttosto la loro intersezione con una superficie naturale (come
una
rupe)
o
artificiale
(una
galleria);
dal
momento
che
queste
intersezioni
sono
approssimativamente dritte, si immagina che le fratture siano porzioni di più estese superfici
planari. Tale idealizzazione non risulta completamente errata: il lento ma costante movimento delle
placche tettoniche crea degli stress interni di ingente entità, i quali generano delle fenditure nella
roccia madre, nonappena viene raggiunto il carico di rottura del materiale, che possono essere
assunte planari. La figura citata poc’anzi evidenzia che molto di frequente le fratture emergono
insieme ad altre di uguale o differente orientamento a formare un raggruppamento che viene
propriamente definito rete di fratture.
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Figura 1.1 Versante roccioso fratturato
Una buona parte degli acquiferi più estesi si trova all’interno di sistemi rocciosi fessurati,
tanto è vero, che circa l’80% della risorsa idrica, impiegata per usi potabili, viene estratta da
formazioni di tale tipo. Recenti studi hanno messo in luce come anche mezzi tradizionalmente
considerati di bassa permeabilità, come ad esempio scisti o graniti, vengano attraversati da un
considerevole flusso idrico, grazie alla propria fratturazione.
Le formazioni rocciose fratturate, dunque, si distinguono per essere sistemi idrogeologici
estremamente complessi; molteplici, inoltre, risultano essere gli ambiti, all’interno dei quali si
manifesta un notevole, e progressivamente crescente, interesse per lo studio delle potenzialità
offerte da tali formazioni. In particolare:

Utilizzo degli acquiferi per soddisfacimento di bisogni idrici primari

Deposito sottosuperficiale dei rifiuti pericolosi (radioattivi, o tossici industriali, ad
esempio)

Sfruttamento delle riserve petrolifere

Conservazione di energia termica e sfruttamento delle riserve geotermiche

Estrazione di minerali

Applicazioni geotecniche più disparate

Analisi delle dinamiche terrestri in profondità, come, ad esempio, terremoti o
emissioni idrotermiche sulla piattaforma oceanica
Come traspare dalla varietà delle tematiche abbracciate, lo studio delle caratteristiche delle
formazioni fratturate richiede un impegno “borderline”, multidisciplinare, tanto è vero, che
ricercatori con background culturale piuttosto differente (idrogeologico, geologico, fisico, chimico,
statistico, matematico, ingegneristico), hanno contribuito significativamente, mediante un’ampia
gamma di indagini teoriche, numeriche, di laboratorio e di campo, ciascuno nel suo, alla
comprensione delle proprietà intrinseche di tali formazioni. L’ampiezza di un simile coagulo
d’interesse, di certo, arricchisce la comprensione della sua natura assai complessa, ma allo stesso
tempo impedisce una risoluzione integrata del problema: esiste, a tale proposito, una certa
ambiguità associata con i mezzi fratturati, che di fatto rende limitata la capacità di previsione nei
riguardi dei processi di flusso e trasporto al loro interno.
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Gli ordini di grandezza delle dimensioni delle fratture variano dai micron alle centinaia di
chilometri, e, per ogni parte di tale intervallo, manifestano un effetto tangibile sui processi di flusso
e trasporto internamente alla crosta terrestre. Nello specifico, non si può trascurare come i
succitati processi, possano espletarsi in domini mono o plurifasici (miscibili o meno),
completamente o parzialmente saturi, in reti di fratture o in formazioni porose e fratturate.
Dal momento che la circolazione sotterranea, a scala locale, è governata principalmente dal
sistema di fratture, i metodi numerici e analitici tradizionali, nei quali si assume che le proprietà
idrogeologiche registrino variazioni piuttosto regolari, come se si trattasse di un unico mezzo
continuo, sono in grado di garantire un’approssimazione modesta. Solo quando il problema del
flusso viene analizzato a scala regionale, o meglio ancora, quando la fratturazione risulta essere
particolarmente densa, i modelli continui possono dimostrare un’accettabile applicabilità al caso
degli acquiferi fratturati. Inoltre, tenuto conto della disposizione altamente irregolare delle fratture
all’interno dell’ammasso roccioso, risulta complicata una rappresentazione delle discontinuità su
base puramente individuale.
Esiste un ampio spettro di approcci modellistici ai quali ci si può rivolgere per affrontare con
responsabilità il problema, come ad esempio il ricorso a tecniche stocastiche, o ibridazioni di
modelli stocastici e deterministici, o anche modelli che fanno riferimento alla geometria frattale.
Ciascuno di tali modelli, però, presenta una controindicazione talvolta insormontabile: per ridurre
l’incertezza connaturata al problema stesso, essi necessitano di un grado di dettaglio delle
informazioni di base sovente impossibile da ottenere, e così, si rende indispensabile spingersi verso
un compromesso soddisfacente tra quantità e qualità di informazioni disponibili, ed affidabilità del
modello di calcolo.
1.2 Breve rassegna sull’utilità ingegneristica delle strutture
idrogeologiche fratturate
1.2.1 Stoccaggio di materiale radioattivo e di scorie nucleari
In anni piuttosto recenti, si è sviluppato considerevolmente l’interesse ingegneristico
relativo alla circolazione ed al trasporto nelle strutture sotterranee fratturate, a bassa permeabilità.
Il motivo probabilmente scatenante è da ricercarsi nella affannosa ricerca da parte di numerosi
paesi sviluppati di un ricettore finale di scorie nucleari e di rifiuti altamente tossici, impossibili da
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depositare, stante la vigente legislazione internazionale, in punti di stoccaggio superficiali, e
addirittura non al di sopra del chilometro nel sottosuolo, per scorie altamente tossiche.
Esistono,
sotto
questo
punto
di
vista,
informazioni
ed
esperienze
di
campo
progressivamente più limitate mano a mano che cresce la profondità in corrispondenza della quale
depositare i rifiuti, ed il semplice accertarsi, in via preliminare, se un deposito è sufficientemente
isolato dal resto dell’ambiente richiede una serie di analisi che abbracciano diversi settori scientifici.
Basti pensare che le sole peculiarità della circolazione alle profondità del deposito influenzano in
modo determinante il tasso di dissoluzione di diversi radionuclidi, le velocità di flusso i tempi di
residenza, e, conseguentemente, i tempi di decadimento delle scorie. Il problema si complica ove
si tenga in debito conto che il flusso fluido sotterraneo possa avere componenti della propria
velocità simultanee ma di diversa direzione, che inducono differenze di decadimento tra le specie
presenti. Per tutti quei nuclidi che si adsorbono sulle pareti delle discontinuità, o si diffondono
all’interno della matrice rocciosa, la frequenza dei canali conduttori e l’estensione della propria
superficie esposta influenza direttamente l’area di contatto tra l’acqua in movimento e la roccia.
In Canada, in Svizzera, in Svezia sono stati attivati dei programmi di ricerca (mentre in
Finlandia sono in fase di attivazione) ad ampio raggio, che coinvolgono diversi interessi scientifici,
per studiare il trasporto dei soluti di natura nucleare nelle rocce cristalline. Altri paesi, comprese
Francia, Giappone, Spagna, Regno Unito e Stati Uniti hanno, o hanno avuto, programmi di ricerca
orientati verso le rocce cristalline; in più, presso la miniera svedese di Stripa è gia arrivato alla
terza fase un programma internazionale di ricerca su campo di cui la letteratura può dare ampio
rendiconto.
Le indagini sono state opportunamente indirizzate alla valutazione la sicurezza del deposito
a lungo termine, con una scala temporale che può variare dalle centinaia di anni a diversi milioni,
essendo questo il tempo di dimezzamento di alcuni nuclidi, particolarmente longevi. Le ricerche si
concentrano nella comprensione dei processi che determinano i percorsi del flusso liquido, i tassi di
rilascio dell’inquinante da parte delle scorie, e la capacità di trasporto del mezzo liquido: il
trasporto di soluti viene pesantemente condizionato dalla chimica delle acque, così come dai
processi di reazione che comprendono lo scambio di specie disciolte o sospese con la roccia in
contatto con l’acqua mobile.
L’acqua che si muove attraverso le fratture, all’interno delle rocce, potrebbe benissimo
trasportare radionuclidi disciolti, provenienti da un deposito di rifiuti radioattivi. La valutazione
scrupolosa della misura e delle modalità del trasporto di tali radionuclidi è un’operazione molto
delicata ed impegnativa, e si basa su studi analitici e numerici riguardanti la circolazione fluida
sotterranea, e le regole d’interazione con il materiale roccioso incontrato.
Nelle tre più recenti, e maggiormente riuscite, analisi di sicurezza per depositi di scorie
nucleari nel sottosuolo, realmente realizzati, in Svezia ed in Svizzera, i calcoli si basarono su
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modelli idrogeologici convenzionali che ricorrono alla legge di Darcy, previa assimilazione della
struttura ad un mezzo poroso equivalente, ma, ad ogni modo, i radionuclidi non si spostano quasi
mai con la velocità dell’acqua che li trasporta. La loro velocità varia anche sensibilmente dalla
velocità media del fluido a causa sia di variazioni nella struttura vettoriale tridimensionale della
velocità dell’acqua, che di differenze di miscelazione di porzioni di fluido; in ragione di tali processi,
che possono essere inglobati nel termine “dispersione”, non esiste un’unica velocità di
spostamento dell’inquinante all’interno del fluido in moto. In casi estremi, che però si verificano
non di rado nelle strutture fratturate, quando le possibilità di percorsi per il fluido sono limitate e
troppo reciprocamente distanti, un numero sparuto di percorsi preferenziali domina il processo di
trasporto (channeling).
La maggior parte dei nuclidi presenti nell’acqua delle rocce cristalline investigate sono
cationici, o neutri; essi possono adsorbirsi sulle superfici polarizzate negativamente dei minerali
rocciosi, e/o scambiare con essi degli ioni. Tali processi possono considerevolmente ritardare i
radionuclidi, che in qualche circostanza, ci si può attendere si muovano con velocità più lenta
dell’acqua di diversi ordini di grandezza; per un dato flusso liquido, il ritardo può rivelarsi più
intenso per un nuclide se possiede un numero superiore di facce con cui altri nuclidi possano
interagire, perciò una delle questioni centrali su cui concentrarsi è individuare quante superfici di
fratture, e di che tipo, il nuclide incontra, nel corso del suo tragitto in mezzo all’acqua.
In aggiunta alle interazioni con le pareti delle discontinuità, i radionuclidi possono
diffondersi all’interno della matrice rocciosa ed assorbirvisi, tenendo in considerazione il fatto che
tali superfici interne al sistema di circolazione sono più estese di diversi ordini di grandezza delle
superfici delle fratture in contatto con l’acqua, e che quindi i tempi di ritardo possono aumentare
considerevolmente.
Viene usualmente assunto che le rocce fratturate, quanto meno in profondità, siano
sufficientemente cataclasate e frammentate per permettere di effettuare medie volumetriche
omogenee, e di lavorare, di conseguenza, con parametri medi significativi. Nello studio delle
conseguenze di un deposito sotterraneo di materiale radioattivo, le proprietà idrogeologiche più
importanti sono senza dubbio la conduttività idraulica e la porosità. Le dimensioni del volume oltre
il quale la media d’insieme può venire effettuata viene detto volume elementare rappresentativo
(REV), e funge, fra l’altro, da base concettuale per i modelli continui, a patto che tale volume sia
significativamente inferiore al volume di roccia studiato. Se è così, per determinare le direzioni di
circolazione della soluzione fluida, di acqua e radionuclidi, in ogni punto del volume roccioso
d’interesse, si può ricorrere ad una particolare equazione di bilancio di massa, che comprende la
legge di Darcy, in accordo con le appropriate condizioni al contorno. Chiaramente, eventuali
variazioni prevedibili, o note, delle proprietà nello spazio, come zone di differente fratturazione,
possono essere incluse senza difficoltà. Da qui, non senza complicazioni di carattere
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prevalentemente computazionale, si può ottenere una mappa attendibile dei percorsi di
circolazione, e, ove necessario, le reali grandezze delle velocità possono essere impiegate
direttamente nei modelli di trasporto.
Nel caso in cui si verifichi il fenomeno del channeling, le percentuali di massa fluida presenti
in ciascun percorso si valutano in maniera più agevole, vista la limitatezza dei percorsi preferenziali
prevista in caso di channeling, ed i calcoli relativi al trasporto possono essere effettuati in modo
individuale.
1.2.2 Produzione e stoccaggio di energia geotermica
L'energia geotermica è il calore contenuto nell'interno della Terra. E' stato stimato,
assumendo una temperatura superficiale media di 15 °C, che esso sia dell'ordine di 12,6 x 1024 MJ
e che quello contenuto nella sola crosta sia dell'ordine di 5,4 x 1021 MJ. L'energia termica della
Terra è quindi enorme, ma soltanto una parte di essa può essere sfruttata.
Sino ad oggi, l'utilizzazione di questa energia è stata limitata a quelle aree nelle quali le
condizioni geologiche permettono ad un vettore (acqua in fase liquida o vapore) di "trasportare" il
calore dalle formazioni calde profonde alla superficie o vicino ad essa, formando quelle che
chiamiamo risorse geotermiche.
A causa della fratturazione della crosta, che permette la risalita di materiali fusi molto caldi,
ai margini si formano anche vulcani ed aree a gradiente geotermico molto elevato; il gradiente
geotermico, che dà la misura dell'aumento della temperatura con la profondità, ha un valore medio
di 2,5-3°C/100 m, ma, nelle aree "geotermiche" esso può essere anche dieci volte superiore alla
norma.
Sistemi geotermici possono formarsi in regioni con gradiente geotermico normale o poco
più alto e, soprattutto, nelle regioni prossime ai margini delle zolle crostali, dove il valore del
gradiente geotermico può essere anche notevolmente superiore a quello medio. Nel primo caso,
questi sistemi hanno temperature basse, di solito non più di 100°C a profondità economicamente
utili, mentre nel secondo caso, si può avere una vasta gamma di temperature, da basse sino ad
oltre 400°C.
Le risorse geotermiche sono presenti nella maggior parte della superficie del pianeta, in
ambienti geologicamente diversi, in regioni sia a gradiente geotermico normale, sia superiore al
normale. Esse possono inquadrarsi in varie tipologie di sistemi geotermici:

Sistemi ad acqua dominante. In questi sistemi l'acqua liquida è la fase
continua, che controlla la pressione nel serbatoio geotermico. Questi sistemi
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geotermici, la cui temperatura può andare da ‹125°C a ›225°C, sono i più diffusi
nel mondo. Essi possono produrre, in funzione dalla loro temperatura e pressione,
acqua calda, una miscela di acqua e vapore, vapore umido e, in alcuni casi,
vapore secco.

Sistemi a vapore dominante. Nel serbatoio di questi sistemi normalmente
coesistono acqua liquida e vapore, che è la fase continua che controlla la
pressione. Sono sistemi ad alta temperatura, che normalmente producono vapore
secco o surriscaldato. I sistemi geotermici di questo tipo sono piuttosto rari; i più
conosciuti sono Larderello in Italia e The Geysers in California.

Sistemi geopressurizzati, che possono formarsi nei grandi bacini sedimentari
(p.e. il Golfo del Messico) a profondità di 3-7 km. I sistemi geopressurizzati sono
sistemi chiusi, privi di alimentazione, nei quali il fluido si trova a pressione
litostatica; costituiscono una categoria a sé stante. Potrebbero produrre energia
termica e idraulica (acqua calda in pressione) e gas metano. Questa risorsa è
stata studiata in modo approfondito, ma, sino ad oggi, non è seguito uno
sfruttamento industriale.
Un sistema geotermico può essere definito schematicamente come “un sistema fluido
convettivo, che, in uno spazio confinato nella parte superiore della crosta terrestre, trasporta il
calore da una sorgente termica al luogo, generalmente la superficie, dove il calore stesso è
assorbito (disperso o utilizzato)” (Hochstein, 1990). Un sistema geotermico è formato da tre
elementi: la sorgente di calore, il serbatoio ed il fluido, che è il mezzo che trasporta il calore. La
sorgente di calore può essere una intrusione magmatica a temperatura molto alta (›600°C), che si
è posizionata a profondità relativamente piccola (5-10 km), oppure, come in certi sistemi a bassa
temperatura, il normale calore della Terra. Il serbatoio è un complesso di rocce calde permeabili
nel quale i fluidi possono circolare assorbendo il calore. Il serbatoio generalmente è ricoperto da
rocce impermeabili e connesso a zone di ricarica superficiali dalle quali le acque meteoriche
possono sostituire, totalmente o parzialmente, i fluidi perduti attraverso vie naturali (per esempio
sorgenti) o che sono estratti mediante pozzi. Il fluido geotermico, nella maggioranza dei casi, è
acqua meteorica in fase liquida o vapore, in dipendenza dalla sua temperatura e pressione.
Quest’acqua spesso trascina con se sostanze chimiche e gas, come CO2, H2S ed altri. La Figura 1.2
è la rappresentazione, schematica e molto semplificata, di un sistema geotermico.
Le leggi che regolano la convezione dei fluidi sono alla base del meccanismo dei sistemi
geotermici; essa si attiva in seguito al riscaldamento ed alla conseguente espansione termica del
fluido in un campo gravitazionale; il calore alla base del sistema di circolazione è l’energia che
alimenta e muove il sistema. Il fluido caldo e di minor densità tende a salire e ad essere sostituito
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dal fluido più freddo e di densità maggiore, proveniente dai margini del sistema. La convezione,
per sua natura, tende a far aumentare la temperatura delle parti alte del sistema, mentre la
temperatura delle parti inferiori diminuisce (White, 1973).
Figura 1.2 Rappresentazione schematica di un sistema geometrico
Il fenomeno descritto può sembrare semplice; in realtà, la costruzione del modello di un
sistema geotermico reale non è affatto facile. Essa coinvolge diverse discipline e richiede una vasta
esperienza, soprattutto se si ha a che fare con sistemi ad alta temperatura. In natura, inoltre, si
possono formare sistemi geotermici in varie combinazioni di situazioni geologiche, fisiche e
chimiche, dando origine a tipi diversi di sistemi.
La sorgente di calore è l’unico dei tre elementi di un sistema geotermico che deve essere
naturale. Gli altri due elementi, se esistono le condizioni adatte, possono essere “artificiali”. Per
esempio, i fluidi geotermici estratti dal serbatoio per alimentare la turbina di una centrale elettrica,
dopo averne sfruttato l’energia, possono essere immessi di nuovo nel serbatoio attraverso appositi
pozzi di reiniezione. In questo modo la ricarica naturale del serbatoio è integrata dalla ricarica
artificiale. Da diversi anni, inoltre, la reiniezione dei fluidi sfruttati è stata adottata per ridurre
drasticamente l’impatto ambientale degli impianti geotermici.
Nel Progetto Rocce Calde Secche (HDR Project, figura 1.3), avviato negli Stati Uniti nei
primi anni ’70, sia il fluido che il serbatoio sono artificiali. Attraverso un pozzo appositamente
perforato, acqua ad alta pressione viene pompata in una formazione di roccia calda compatta,
provocando la sua fratturazione idraulica. L’acqua penetra e circola nelle fratture prodotte
artificialmente ed estrae il calore dalle rocce all’intorno,
che funzionano come un serbatoio
naturale. Questo serbatoio viene poi raggiunto ed intersecato da un secondo pozzo usato per
estrarne l’acqua, che ha acquistato calore.
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Questo sistema, quindi, consiste (i) del pozzo usato per la fratturazione idraulica, attraverso
il quale l’acqua fredda è iniettata nel (ii) serbatoio artificiale, e (iii) del pozzo per l’estrazione
dell’acqua calda. L’intero sistema, comprendente anche l’impianto di utilizzazione in superficie,
forma un circuito chiuso, evitando ogni contatto tra il fluido e l’ambiente esterno. Questo
interessante progetto, dopo qualche anno di esperimenti, è stato sospeso a causa del suo elevato
costo e di alcune difficoltà tecniche non superate completamente.
Figura 1.3. Schema di possibile progetto HDR. Il pozzo a destra inizialmente inietta acqua ad alta
pressione, che frattura le rocce calde e crea il serbatoio artificiale; successivamente diventa una parte del
sistema. Il pozzo a sinistra estrae il fluido (immesso dall'altro pozzo), che si è riscaldato circolando
attraverso le fratture. L'insieme forma un sistema chiuso: pozzo di iniezione - serbatoio caldo- pozzo di
estrazione - impianto di utilizzazione in superficie.
In anni più recenti, una notevole attività di ricerca e sperimentazione è stata dedicata alla
stimolazione del serbatoio, che utilizza alcune delle tecnologie del Progetto Rocce Calde Secche. La
stimolazione del serbatoio può essere efficace nel caso, abbastanza frequente, in cui formazioni
rocciose, contenenti fluidi caldi, abbiano una permeabilità troppo bassa, insufficiente a consentire
la circolazione dei fluidi e a mantenere un sistema geotermico. Questa situazione può dipendere
semplicemente dalla natura della formazione rocciosa, ma potrebbe anche essere l’effetto della
occlusione parziale delle fratture preesistenti, all’interno o ai margini di un campo geotermico, a
causa della deposizione di minerali durante lo sfruttamento. In condizioni favorevoli, la
permeabilità delle rocce può essere migliorata o può essere ripristinata quella originaria
con
tecniche derivate dall’industria petrolifera, che prevedono l’iniezione di soluzioni acide nel
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sottosuolo. Gli esperimenti fatti sinora sembrano tuttavia indicare che il metodo più efficace di
stimolazione sia la fratturazione idraulica.
Oltre a ciò, è utile sottolineare che esiste un altro modo, sia pure meno quantitativamente
produttivo, per ricavare energia da ambienti geologici fratturati: le gallerie che attraversano i
massicci rocciosi drenano le acque sotterranee che incontrano. Queste acque sono evacuate verso
l’esterno delle gallerie mediante dei canali e vengono generalmente riversate nei corsi d’acqua; in
dipendenza della spessore delle rocce che ricoprono il tunnel, la temperatura delle acque
intercettate può raggiungere dai 20 ai 40° C. Associata a delle quantità importanti, questa
potenziale risorsa geotermica può essere utilizzata per soddisfare il fabbisogno energetico dei
consumatori vicini agli sbocchi delle gallerie.
1.2.3 Contenitore naturale della risorsa idrica
Le formazioni geologiche sotterranee hanno la fondamentale funzione di fornire all’uomo
risorsa idrica in quantità sufficienti al soddisfacimento delle sue necessità vitali, ed accessorie, e,
conseguentemente, l’interesse nei confronti di tali formazioni, inquadrabile nel contesto di un
insostituibile contributo alla vita umana, si polarizza verso una conoscenza progressivamente più
approfondita del funzionamento degli acquiferi, del loro sistema di ricarica e di alimentazione, delle
relazioni con l’ambiente geologico che li ospita, degli effetti che l’intervento dell’uomo può
provocare su quello stesso ambiente, incentivata, tra l’altro, dalla sempre maggiore richiesta di
risorsa degli ultimi tempi.
Gli acquiferi che si presentano con maggiore frequenza sono costituiti da depositi non
consolidati di materiali sciolti con origine geologica molto diversa; fluviale, come i depositi di
materiali alluvionali dei fiumi o le terrazze fluviali, deltaica, se si tratta di depositi accumulati allo
sbocco dei fiumi, depositi sedimentari, causati dall’accumulo di particelle trasportate dalla gravità,
dal vento, dal gelo. Grazie, in genere, alle buoni condizioni di ricarica, alla buona permeabilità, ed
alla scarsa profondità del livello piezometrico forniscono notevoli quantità d’acqua se sfruttate
adeguatamente.
Tra le rocce sedimentarie consolidate che racchiudono il 95% delle acque sotterranee della
terra la più importante è il calcare, roccia formata quasi esclusivamente da carbonato di calcio che
varia incredibilmente di densità, porosità, e permeabilità in base all’ambiente sedimentario
presente durante la sua formazione ed al successivo sviluppo di zone permeabili per dissoluzione
del carbonato, ovvero la formazione di carsismo, che possono arrivare a formare veri e propri fiumi
sotterranei e tutta una morfologia particolare. In alcuni casi, non è addirittura possibile parlare di
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permeabilità poiché non si compie il regime laminare a causa delle notevoli dimensioni delle
fessure.
Tuttavia queste rocce, se non sono carsificate, possono essere poco permeabili al pari delle
marne, una via di mezzo tra calcari ed argille. La porosità e la permeabilità di conglomerati ed
arenarie considerati come ghiaie e sabbie cementate diminuisce a causa del cemento che unisce e
conferisce coesione. Di conseguenza, se il cemento viene meno, a causa di eventuali dissoluzioni
chimiche o piuttosto dell’incompleto riempimento dei pori intergranulari, queste formazioni
possono essere sfruttate come acquiferi.
Per le rocce vulcaniche, è arduo stilare una classificazione basata sulla loro intrinseca
capacità di costituire un buon acquifero dal momento che dipende dalle caratteristiche fisiche e
chimiche delle rocce stesse, e dall’eruzione che le ha generate, dal grado di alterazione, dall’età e
da altri fattori, non di rado concomitanti.
Infine, tra le rocce ignee e metamorfiche le uniche parti adatte a formare buoni acquiferi si
trovano nella zona alterata superficiale o nelle regioni più fratturate da faglie e diaclasi che
consentono una considerevole circolazione d’acqua ma, nonostante ciò, costituiscono gli acquiferi
più scarsi in quanto a resa idrica.
Le risorse idriche disponibili in natura in un bacino, senza regolazione, coincidono
approssimativamente con il deflusso di origine sotterranea, quindi le loro variazioni nel tempo sono
molto inferiori rispetto a quelle del deflusso diretto o superficiale, che invece segue il ritmo delle
piogge e quello dei disgeli.
Lo sfruttamento delle acque sotterranee comporta quasi sempre un aumento delle risorse
idriche disponibili in un bacino per una delle seguenti ragioni: può regolare le oscillazioni del
deflusso sotterraneo dei fiumi; può indurre un’infiltrazione negli acquiferi attigui al fiume, con
acqua non regolata, ed evitare la sua perdita in mare; può diminuire l’evapotraspirazione facendo
abbassare la profondità della zona satura; permette un discreto approvvigionamento idrico nel
bacino basso, in corrispondenza del quale risulta estremamente complicato effettuare opere di
regolazione superficiale.
In contrapposizione a quanto detto, l’utilizzazione delle acque sotterranee può influenzare
sensibilmente la portata del fiume, pregiudicando i beneficiari delle acque a valle delle captazioni
se non è presente un’organizzazione legale ed amministrativa che permetta di esercitare uno
sfruttamento controllato e pianificato.
Uno dei problemi critici dell’idrologia sotterranea risiede nella determinazione della
cosiddetta portata di sicurezza, vale a dire il volume che si può estrarre nell’unità di tempo da un
generico acquifero senza provocare effetti indesiderati. Il concetto di portata di sicurezza è
piuttosto simile a quello di risorse idriche disponibili, anche se, quanto meno inizialmente, il
concetto di portata di sicurezza era sinonimo di volume costante di acqua che si poteva estrarre
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annualmente in modo indefinito senza alterare le riserve di acqua sotterranea. Ovviamente, nessun
acquifero può essere sfruttato a lungo ad un ritmo superiore a quello della ricarica naturale. Di
fatto, quasi sempre questo sfruttamento deve essere minore.
L’acqua accumulata in un bacino sotterraneo può essere classificata in riserve morte o
riserve vive. Queste ultime sono situate al di sopra dei livelli di prosciugamento, e la loro altezza
piezometrica rappresenta l’energia che origina il movimento dell’acqua. Spesso, anche una parte
delle riserve morte, situate al di sotto del livello di prosciugamento, partecipa al flusso dell’acqua,
ma non lo genera.
Molte rocce consolidate, pur avendo talvolta una porosità relativamente elevata, si
comportano all’atto pratico come le rocce impermeabili, e l’acqua riesce a circolare esclusivamente
attraverso le crepe e le fessure; altre volte la roccia stessa presenta una certa, se pur ridotta,
permeabilità, in modo che le crepe e le fessure agiscano come collettori che trasmettono l’acqua
ceduta dalle pareti oltre all’acqua che contengono; altre volte, invece, accade che la roccia stessa
sia piuttosto permeabile, per cui l’importanza relativa della circolazione dell’acqua attraverso le
crepe e fessure risulta assai minore.
Il comportamento idraulico dei diversi tipi di rocce consolidate si dimostra particolarmente
vario, e spesso, dipende da fattori esterni alla loro composizione. Gli sforzi tettonici condizionano la
diaclasizzazione, l’esfogliazione, i piani di fratturazione e di piega; il clima condiziona l’alterazione
superficiale della roccia e la creazione di strati permeabili (alteriti), così come il fatto che le crepe
siano colme o prive di materiali poco permeabili. Le azioni endogene sono le principali responsabili
della presenza di sbarramenti e di intrusioni che talvolta favoriscono ed altre volte ostacolano il
flusso dell’acqua. L’erosione porta alla luce rocce prima sotterrate in profondità, e durante questo
processo si produce una decompressione che allarga le fessure e ne crea altre nuove.
Le rocce calcaree sono alcune volte permeabile per semplice fratturazione, altre per
fratturazione e permeabilità della roccia, e più raramente per sola permeabilità della roccia.
Malgrado ciò, accade molto spesso che le crepe s’ingrandiscano per dissoluzione, alcune più di
altre, cosicché il sistema si modifica presentando una superiore eterogeneità, ed un’anisotropia più
marcata. Questo fenomeno ha come conseguenza scientifica l’estrema complicazione dei calcoli
idraulici, necessari a trattare analiticamente le aree interessate.
In tali rocce, la zona carsificata può rimanere limitata alle zone vicine al livello freatico,
mentre soltanto la roccia inferiore presenta piccole fessure che la rendono poco permeabile ed
addirittura praticamente impermeabile. Nel primo caso, il flusso si mantiene limitato alla zona
superiore carsificata che agisce come livello di deflusso, a volte attivo esclusivamente nei periodi di
pioggia. L’analisi degli idrogrammi delle sorgenti nelle zone carsiche permette di identificare un
moto predominante nei periodi delle piogge che corrisponde ai grandi condotti; tuttavia, quando
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questi si svuotano, poiché non si ha più ricarica diretta, si stabilisce un flusso più lento frenato da
crepe e fessure sempre più strette.
In genere, la permeabilità delle rocce fratturate non supera in media pochi m/giorno, e
spesso risulta decisamente inferiore; nei materiali vulcanici più anziani sono comuni valori tra 0,01
e 1 m/giorno, fino ad arrivare anche a 100 m/giorno in quelli di più recente formazione; nei calcari
fratturati i valori più frequenti sono compresi tra 0,1 e 10 m/giorno. In particolare, la permeabilità
può variare da zero fino a valori di molte migliaia di m/giorno; nei punti di maggiore permeabilità
spesso il flusso è turbolento, e la legge di Darcy non è applicabile, sebbene si tratti di un’eccezione
piuttosto che di una regola.
Le crepe presentano un certo livello piezometrico in ogni punto; se esiste una rete di crepe
interconnesse è possibile stabilire le superfici piezometriche, tenuto conto che si tratta di superfici
virtuali, dal momento che sono definite dalle maglie di linee piezometriche corrispondenti
all’intersezione di queste crepe con un piano orizzontale, come si può distintamente apprezzare in
figura 1.4.
Figura 1.4 Andamento qualitativo della piezometrica in un ammasso roccioso fratturato (Custodio E.,
Llamas M. R.; 2005)
1.3 Geologia di un ammasso roccioso fratturato
Sebbene il termine frattura viene usualmente riferito ad ogni tipo di fenditura, di crepa, di
fessura presenti all’interno della formazione rocciosa, in termini geologici per frattura si intende
ogni discontinuità planare, o anche curviplanare, che ha avuto origine in conseguenza di un
processo di deformazione fragile nella crosta terrestre. Gli spostamenti relativi tra le pareti delle
fratture possono essere sia normali al piano di discontinuità, sia appartenenti al piano stesso, e,
limitatamente all’ambito della modellazione di circolazione fluida e trasporto, una più dettagliata
classificazione non è necessaria.
Supponendo di poter considerare come piana la superficie di una frattura singola, essa
viene definita da alcune grandezze: la lunghezza caratteristica L, che ne definisce estensione, la
27
forma, la posizione geografica del suo centro di gravità, e la sua orientazione, espressa mediante il
versore ortogonale al piano di fratturazione.
Inoltre, la definizione dell’area di contatto tra le superfici (che rimanda alla definizione di
apertura di una frattura, di cui si avrà modo di dire più diffusamente in seguito), è altresì una
caratteristica imprescindibile, in quanto, da una parte, fornisce preziose informazioni circa il
meccanismo di trasmissione degli stress meccanici, mentre dall’altra contribuisce nella
determinazione dell’apertura della frattura, quanto meno a livello locale, che rappresenta un
parametro idraulico di fondamentale importanza.
All’interno di una simile ossatura, è importante evidenziare la distinzione che esiste tra
rocce fratturate, e rocce fratturate con matrice porosa, essenzialmente dipendente dal ruolo
ricoperto, nell’ambito della circolazione, del trasporto, e anche dell’immagazzinamento, dalla
porosità della matrice solida: da ciò si evince con nettezza che il substrato concettuale su cui
poggia lo studio delle formazioni fratturate tende a distinguersi da quello su cui poggia lo studio
dei mezzi porosi, nell’accezione idraulicamente più classica del termine. Così, un differente
armamentario di riferimenti concettuali, approcci modellistici, e tecniche d’indagine fisica devono
essere presi in considerazione.
I piani di debolezza nelle rocce dipendono strettamente dalle variazioni di stress meccanico
della crosta terrestre: la roccia risponde a tali variazioni fratturandosi in modi differenti, in
dipendenza della direzione di massimo stress e del tipo della matrice solida.
Sulla base del mutuo movimento delle pareti durante la formazione delle discontinuità, si
distinguono tre grosse categorie geomeccaniche di fratture:

Fratture per divaricazione (opening fractures), in cui la separazione delle pareti della
frattura dipende dall’esistenza di uno stress meccanico normale al piano di
discontinuità (fig 1.5a). Per tale motivo, questa tipologia di fratture viene anche
detta “frattura per estensione”

Fratture per scorrimento (sliding fractures), in cui le due pareti delle fratture si
allontanano reciprocamente, mantenendo lo spostamento in direzione normale al
fronte di rottura (fig 1.5b)

Fratture per taglio (shearing fractures), in cui le pareti sono soggette ad una forza
di taglio allineata parallelamente al fronte di rottura (fig 1.5c)
Non è infrequente il caso in cui, in letteratura, anche il secondo tipo di discontinuità venga
definita frattura di taglio.
Le fratture per divaricazione vengono più comunemente definite, sia pure in modo meno
rigoroso, giunti; esse sono le fratture più comuni, e possono venire individuate in quasi tutti i tipi
di roccia, nei materiali consolidati, così come nei sedimenti inconsolidati. Vengono solitamente
generati da sollevamenti sotterranei, erosioni, sovrapressioni fluide, e azioni termiche e chimiche, e
28
si caratterizzano come strutture sistematiche o non sistematiche; i giunti appartenenti ad un set
specifico,
che
mantengono
caratteristiche
consistenti
come
orientazione,
morfologia,
mineralizzazione, e distribuzione degli affioramenti, sia in scala locale che regionale, possono
venire definiti sistematici; quelli non sistematici, al contrario, presentano superfici particolarmente
incurvate ed irregolari, e non sono facilmente associabili ad uno stress meccanico generativo. Le
reti di giunti, a loro volta, invece, consistono di un numero indistinguibile di famiglie di fratture,
spesso particolarmente dense e ben connesse.
Figura 1.5 Tipologie generali di fratturazione, e, nel dettaglio, tipologie geomeccaniche di fratturazione: a)
opening fractures; b) sliding fractures; c) shearing fractures (Custodio E., Llamas M. R., 2005; Delleur J.
W., 2005)
1.3.1 Rapporto tra scala e geometria
Sotto l’aspetto della scala di larghezza, le fratture possono venire ricondotte ad una delle
seguenti tre scale di grandezza: scala microscopica, scala mesoscopica, scala megascopica.
A scala microscopica, microfratture isolate o continue, di forma prevalentemente discoidale,
possono essere comunemente generate in rocce cristalline o sedimentarie, e possono arrivare al
massimo a 1000 μm in lunghezza, e qualche μm in larghezza. In generale, esse appartengono alle
fratture di prima categoria, benché in sparute eccezioni, esse possono anche appartenere alle
29
fratture di seconda categoria, specie quando ci si trovi in prossimità di fratture di dimensioni
maggiori del secondo tipo.
Nelle rocce cristalline, la quasi totale porosità della matrice rocciosa è costituita dalle
microfratture, e può raggiungere l’1%. Nelle formazioni sedimentarie, invece, alla porosità
secondaria delle discontinuità, si deve aggiungere anche quella primaria, in questo caso piuttosto
consistente, dovuta alla tenue cementazione della matrice, o anche alla presenza di piccole cavità
prodotte dal passaggio dell’acqua; per tale ragione, la porosità nelle rocce sedimentarie può
raggiungere anche il 50%.
A scala mesoscopica, le dimensioni delle fratture si concentrano nell’intervallo compreso tra
50 cm e 1000 m in lunghezza, e tra 10 μm e 10 mm in larghezza. Tali fratture si presentano il più
delle volte in raggruppamenti caratterizzati da un’orientazione simile, correlata alla genesi della
frattura. A tale scala, si osservano con più frequenza dei giunti piuttosto che fratture di taglio,
anche se queste ultime non sono rare. Una classe estremamente comune ed importante a questa
scala, è quella che fa capo alle fratture con struttura a fogli; tale caratteristica conformazione è
dovuta all’espansione verticale conseguente allo scarico esercitato dall’erosione. Le strutture a fogli
sono presenti in tutti i tipi di roccia, molto spesso parallele alla superficie terrestre, e
rappresentano condotti comuni per la circolazione dell’acqua nel sottosuolo a scala regionale. Nelle
rocce plutoniche e metamorfiche, risultano essere indipendenti dalla macrostruttura originale e
dalla tessitura del materiale, e vengono rinvenute con decrescente frequenza al crescere della
larghezza.
A scala megascopica, le faglie e le zone ricche di fratture di taglio dominano nettamente la
morfologia delle discontinuità. Una faglia può essere definita come una discontinuità planare che
si crea tra due blocchi di roccia uniforme, laddove lo spostamento ha luogo parallelamente alla
discontinuità, generata da un evento tettonico di larga scala. Si tratta di fratture contraddistinte da
diverse peculiarità associate, e possono distinguersi per valori alti o bassi della permeabilità, in
dipendenza dai campi locali di stress meccanici, e dai materiali di riempimento. Le faglie possono
avere diverse orientazioni, sebbene sia quella sub-verticale a venire rilevata con maggiore assiduità
dalle campagne di indagini fotografiche, e possono talvolta confondersi con le zone di taglio; esse
vengono tipicamente osservate nei terreni metamorfici, e si distinguono per un’elevata
permeabilità. In più d’un ambiente fratturato, la frequenza e la spaziatura delle faglie e delle zone
di taglio è sparsa: ad esempio, in numerosi rilievi su campo, si sono riscontrate faglie che
penetrano verticalmente l’intero spessore dello strato metamorfico, con la spaziatura tra faglie di
diverse decine di chilometri. In tal modo, dalla scala locale a quella regionale, le faglie dominano il
sistema di circolazione sotterranea. Le reti di faglie consistono tipicamente di due o tre famiglie
distinte di fratture orientate, ma si rivelano sovente essere debolmente interconnesse.
30
Una vena, infine, rappresenta una frattura mineralizzata entro cui la circolazione liquida si
affievolisce progressivamente, per via proprio dei depositi minerali, indipendentemente dal
processo di generazione della stessa.
1.4 Caratteristiche geometriche di una frattura singola
La semplificazione tradizionalmente più comune per una frattura singola, prevede il ricorso
a due superfici parallele e lisce: tale concettualizzazione risulta particolarmente conveniente per
tutte le analisi quantitative sulla circolazione.
Negli anni più recenti, notevoli sforzi sono stati spesi per caratterizzare la morfologia delle
superfici di parete delle discontinuità naturali; in effetti, la scabrezza delle superfici delle fratture,
come emerge con evidenza da analisi profilometriche, o, ultimamente, da tomografie
computerizzate a raggi x, è sensibilmente irregolare, e possiede, come è stato dimostrato in diversi
studi, proprietà di autosimiglianza, indipendentemente dal tipo di roccia madre e dal meccanismo
di genesi.
In considerazione della scabrezza delle superfici di una frattura, è naturale esaminare con
maggiore precisione la definizione di “apertura”. In termini piuttosto semplificati, essa può venire
definita come un parametro che concorre a valutazioni quantitative attorno alla realizzazione di
modelli di flusso e trasporto. Mediante il profilometro, strumento speditivo di indagine locale, non è
possibile misurare direttamente il valore dell’apertura, perché, a tale scopo, la frattura dovrebbe
venire aperta per consentire l’introduzione dello strumento, né d’altra parte, possono assumere
valenza definitiva le valutazioni di carattere probabilistico, elaborate sulla base dell’osservazione
degli affioramenti superficiali: la definizione di apertura di una frattura è funzione molto stretta del
processo fisico per il quale è necessaria
1.5 Proprietà del flusso in una singola frattura
Come accennato nel precedente paragrafo, la circolazione fluida in una singola frattura
viene quasi sempre analizzata assumendo l’analogia tra le pareti della discontinuità e due superfici
parallele di apertura costante (parallele plates). Secondo tale analogia, la soluzione delle equazioni
di Navier-Stokes per flusso laminare di un fluido viscoso, incomprimibile, costretto a scorrere in
mezzo a due superfici piane lisce, viene designata legge cubica, termine appositamente coniato
per questo specifico contesto
31
Q
 C ( 2b ) 3
h
(1.1)
La precedente espressione descrive l’andamento della portata volumetrica per unità di
perdita di carico, mentre 2b rappresenta l’apertura della discontinuità e C è una costante legata
alle proprietà del fluido ed alla geometria del dominio del flusso.
La figura 1.6 pone in evidenza la distribuzione parabolica della velocità indicata dalla
soluzione delle equazioni di Navier-Stokes in una sezione che tagli ortogonalmente la frattura con
le pareti parallele. Una trattazione rigorosa che delinei con scrupolo la determinazione di tale legge
cubica, per la quale si rimanda a diversi testi di sugli acquiferi fratturati di orientamento analitico,
come Flow and contaminant transport in fractured rock di Bear, esula dagli obiettivi del presente
lavoro.
Figura 1.6 Andamento parabolico delle velocità all'interno di una frattura (Delleur J. W., 2005)
Come si è visto, la portata è proporzionale al cubo dell’apertura, da cui la dicitura “cubica”
per definire la legge; per flusso rettilineo uniforme, la costante C può essere espressa come
C
g W
12  L
(1.2)
dove ρ rappresenta la densità, g l’accelerazione di gravità, μ la viscosità cinematica, W la
larghezza della frattura, ed L la lunghezza. Per flusso in dominio radiale, C si può calcolare:
C
g
2
12  ln re rw 
(1.3)
nella quale rw rappresenta il raggio del pozzo, ammesso che esista un pompaggio a
produrre il flusso in un dominio radiale, mentre re il raggio d’influenza. Sostituendo la legge cubica
32
all’interno della legge di Darcy, la trasmissività (Tfr) e la conduttività idraulica (Kfr) della
discontinuità si calcolano mediante
T fr 
g
2b3  K fr 2b
12 
(1.4)
In tal modo, impiegando la precedente equazione, è possibile mettere in relazione termini
tipicamente usati per descrivere la permeabilità di un mezzo poroso con quelli propri di un mezzo
fratturato.
Il grafico parametrico di figura 1.7 illustra con chiarezza, per un insieme di valori di
conduttività idraulica, lo spessore del mezzo poroso perfettamente equivalente, dal punto di vista
idraulico, ad una frattura singola di data apertura. Ad esempio si può affermare che il volume
d’acqua che attraversa un mezzo poroso di spessore pari a 10 metri, con conduttività idraulica di
10-4 m/s equivale esattamente allo stesso volume che attraversa una frattura di larghezza pari a 1
mm, sospinto dalle stesse forze.
Figura 1.7 Diagramma parametrico che associa l'apertura di una frattura con lo spessore equivalente di un
acquifero poroso (De Marsily G.,1986)
Combinando la precedente equazione con la legge di Darcy, si ottiene la velocità media di
un volume d’acqua che attraversa una frattura
v
g
2b2 dh
12
dx
(1.5)
La figura 1.8, al contrario, esprime la velocità della circolazione sotterranea prevista dalla
legge cubica in dipendenza di un range di gradienti idraulici, espressi, nella precedente equazione
33
dal termine dh/dx. Non sfugga come, a differenza di quello che può solitamente verificarsi presso i
mezzi porosi, anche per valori del gradiente idraulico davvero modesti, la velocità all’interno della
frattura assume valori significativi.
Figura 1.8 Velocità della circolazione sotterranea in una frattura secondo la legge cubica (De Marsily
G.,1986)
Qualora vi siano gradienti idraulici elevati, può insorgere con buona probabilità moto
turbolento. La transizione dal moto laminare a quello turbolento può essere agevolmente stimata a
partire dal numero di Reynolds, Re, il quale, per una frattura planare standard, si definisce
Re 
v

Dh 
(1.6)
in cui Dh rappresenta il diametro idraulico, e v la velocità media. Per fratture planari, Dh si
definisce come
Dh  2 * 2b
(1.7)
In aggiunta a ciò, può essere definita la scabrezza di una frattura secondo
Rr 

Dh
(1.8)
nella quale ε definisce l’altezza media delle asperità, vale a dire il picco sulla superficie
topografica delle pareti della frattura. La transizione tra flusso laminare e turbolento avviene in
corrispondenza di Re pari a 2300, mentre quella da flusso liscio a flusso rugoso in prossimità di Rr
34
pari a 0.033. Impiegando, poi, l’espressione di Rr, la conduttività idraulica in una frattura in cui si
verifichi moto rugoso e laminare, si può indicare
K fr 
g 2b 2
12 1  8.8Rr1.5 
(1.9)
Alternativamente, l’influenza della scabrezza della superficie della frattura può venire
inglobata direttamente nella legge cubica, semplicemente introducendo un fattore correttivo f che
tenga conto delle deviazioni dalle condizioni ideali su cui si basa la formulazione dell’equazione
della legge cubica. Come risultato di studi sperimentali condotti usando sia la geometria rettilinea
che quella radiale, ed in discontinuità costituite da diversi tipi litologici di roccia, ed aventi aperture
che vanno dai 4 ai 250 μm, f è stato osservato variare tra 1.04 e 1.65 (Witherspoon et al., 1980).
Il risultato di un’esperienza simile ha condotto alla scrittura di una forma più generalizzata della
legge cubica
Q C
3
 2b 
h f
(1.10)
Dove f = 1 per pareti lisce e f leggermente superiore ad 1 per pareti scabre. In questo
modo, la previsione della circolazione sotterranea conserva la sua attendibilità in svariate
condizioni, anche quando si pone a priori f pari ad 1.
1.6 Cenni sul trasporto di soluti in una frattura singola
Il trasporto di costituenti acquosi conservativi e reattivi in fratture discrete è generalmente
governata da uno o più fra i seguenti fenomeni fisici:

Dispersione idrodinamica

Avvezione

Decadimento biologico o radioattivo

Diffusione all’interno della matrice rocciosa
In più, il trasporto di componenti reattivi può venire significativamente influenzato da
processi geochimici quali le reazioni acido/base, le reazioni di ossidoriduzione, i fenomeni di
precipitazione/dissolvimento, o di adsorbimento/desorbimento.
35
Di conseguenza, l’equazione che regola il trasporto di soluto in una singola frattura deve
necessariamente comprendere la formalizzazione di tutti i fenomeni fisici elencati in precedenza,
vale a dire il trasporto avvettivo, la dispersione longitudinale, la diffusione molecolare dalla frattura
alla matrice, l’adsorbimento sulla faccia della matrice ed all’interno di essa, il decadimento
radioattivo. Essa, quindi, si può esprimere come
 c

c
2c
2b Ra
 v  DL 2  Ra c  2q  0
x
x
 t

(1.11)
nella quale la coordinata x rappresenta la direzione dell’asse della frattura, come è evidente
in figura 1.9, C la concentrazione del soluto nella discontinuità, λ è la costante di decadimento,
mentre infine q la portata diffusiva perpendicolare all’asse della frattura. Il fattore di ritardo, Ra, è
definito come
Ra  1 
K df
b
(1.12)
Figura 1.9 Rappresentazione schematica di una frattura penetrante in una roccia porosa (Delleur J. W.,
2005)
dove Kdf è il coefficiente di distribuzione per le pareti della frattura, definito come massa di
soluto adsorbita per unità di area, divisa per la concentrazione del soluto in soluzione. Per porre in
relazione tale coefficiente con l’omologo per la matrice rocciosa, Kd, il quale si basa sulla densità di
nucleo del materiale, è necessaria una stima preliminare della superficie specifica interna del
mezzo, , definita, a sua volta, come l’area delle pareti dei pori esposte al fluido, ed avente l’unità
di misura dell’area per unità di massa. In tal modo, la relazione può essere espressa come
36
K d  K df
(1.13)
Il coefficiente di dispersione idrodinamica DL, viene definito conservando la sua
caratterizzazione per i mezzi porosi tradizionali
D L   L v  D'
(1.14)
nella quale L rappresenta la dispersività longitudinale nella direzione dell’asse della
discontinuità, e D’ il coefficiente di diffusione efficace, il quale incorpora l’effetto geometrico del
percorso del fluido attraverso lo spazio vuoto dei pori. L’equazione che governa il trasporto per la
matrice si scrive (Tange et al, 1981)
c' D'  2 c'

 c '  0
t R' x 2
(1.15)
determinata per una frattura singola che penetra un mezzo infinito, in cui c’ rappresenta la
concentrazione nella matrice, ed il coefficiente di ritenzione della matrice R’, definito a sua volta
come
R'  1 
b
Kd
m
(1.16)
nella quale b rappresenta la densità di nucleo della matrice rocciosa, e m la porosità della
matrice.
Il termine di perdita diffusiva q nell’equazione 1.11 altro non schematizza se non la portata
di massa diffusiva q che coinvolge l’interfaccia matrice-frattura. Ricorrendo alla prima legge di Fick,
il termine q può essere scritto diversamente
q   m D'
c'
z
(1.17)
z b
Così, l’equazione conclusiva per il trasporto di soluti all’interno della frattura diventa
 c

c
2c
c'
2b Ra
 v  DL 2  Ra c  2 m D'
x
z
x
 t

z b
0
(1.18)
37
In una roccia fratturata che comprende anche una percentuale non trascurabile di porosità
primaria, la trasmigrazione del soluto dalla frattura alla matrice rocciosa mediante il processo di
diffusione, può essere significativa. Al fine di illustrare l’effetto della diffusione all’interno della
matrice, il grafico di figura 1.10 utilizza la soluzione dell’equazione 1.18, nel caso riguardante la
concentrazione relativa del soluto in una frattura singola, di ampiezza pari a 500 m, che
attraversa un mezzo di porosità che raggiunge il 20%. La velocità all’interno della frattura si
attesta attorno ai 10 metri giornalieri, con punte minime anche di un solo metro, mentre la
dispersività varia tra 0.05 metri e 0.5 metri. L’input di concentrazione è continuo, e il punto di
misura si trova a 50 metri dall’immissione. Quello che da subito emerge, è che l’effetto della
trasmigrazione di soluto è profondo; talmente profondo, che l’influenza della dispersione
idrodinamica sulla diffusione longitudinale del soluto è completamente sopraffatta.
Figura 1.10 Profili di concentrazione in una frattura di 0.5 mm, a 50 m dalla sorgente continua. viene
illustrata l'influenza della porosità della matrice sul trasporto di soluti in una frattura singola (Tsang Y. W.,
Tsang C. F., 1987)
Il trasporto di soluti dipende inscindibilmente dalla distribuzione delle velocità all’interno
della discontinuità. Il tempo di residenza dei soluti è influenzato, invece, dalla distribuzione dei
vuoti lungo i percorsi della circolazione comunicanti, e, di conseguenza, dalla lunghezza e dalla
tortuosità di tali percorsi. Così, il tempo di residenza può risultare più lungo di quello calcolato
teoricamente affidandosi al modello di superfici lisce e parallele, anche se il valore dell’apertura
assunta nel modello è stata ottenuta da misurazioni reali. L’area di contatto delle superfici, e la
scabrezza delle fratture, determinano uno scostamento dal valore medio della velocità interna,
talvolta piuttosto significativo, come hanno messo in evidenza numerosi esperimenti con i
traccianti: nello specifico, la velocità misurata supera quella teorica se la scabrezza delle pareti ha
direzione preferenziale parallela al flusso.
La variazione delle dimensioni dell’apertura ha anch’essa un peso considerevole nella
determinazione della dispersione dei soluti. Tsang, ad esempio, nel 1987 mise a punto un modello
38
monodimensionale per il trasporto all’interno di una frattura di apertura variabile, con variazione di
apertura spazialmente correlata lungo l’estensione della frattura; i risultati numerici conseguiti
misero in luce che modificazioni progressive dell’apertura sono in grado di mutare la “velocità” dei
percorsi scelti dal fluido per il trasporto di soluti.
Oltre a quanto detto, occorre sottolineare che un altro fattore determinante è la tortuosità
e la connettività dei percorsi di circolazione. In un modello nel quale le aperture sono correlate e
distribuite secondo una lognormale, Moreno nel 1988 rilevò che la dispersività (sintetizzata nel suo
coefficiente ), dipende più fortemente di quanto fosse previsto in teoria dalla varianza della
distribuzione dell’apertura. Inoltre, gli effetti di connettività e tortuosità, possono, in talune
circostanze, invalidare la legge cubica, come è stato rilevato in più d’un esperimento di laboratorio
eseguito a questo scopo.
Certo è che, almeno ad oggi, vi è la necessita di studi ed indagini addizionali, in modo da
porre più quantitativamente in relazione le proprietà geometriche degli spazi vuoti, interni alle
discontinuità, con le peculiarità del trasporto di soluti, così come per irrobustire la correlazione tra
l’effettiva apertura e le caratteristiche del trasporto.
1.7 Determinazione parametri caratteristici: cenni sulle prove
di campo e laboratorio
L’elaborazione, lo sviluppo, la taratura e la validazione di modelli concettuali e poi numerici,
sono condizionati dalla disponibilità di misure fisiche a scala di laboratorio ed in situ. Le analisi
vengono comunemente basate sulle misure effettuate in corrispondenza delle emergenze
superficiali delle fratture, ovvero sulle carote estratte dal terreno, o ancora attraverso tecniche
geofisiche o idrauliche. Una preliminare distinzione può essere proficuamente abbozzata:

Dati ricavati dalla geologia, vale a dire misure della giacitura delle fratture, della loro
lunghezza, dell’apertura, della densità, basate sull’analisi degli affioramenti sulle
pareti rocciose e sui campioni ricavati dal terreno. L’insieme di tali rilevamenti viene
condotto principalmente in situ, sebbene risultati accettabili possano essere tirati
fuori anche da analisi di laboratorio. Generalmente, tale tipologia di dati viene
espressa in forme di distribuzioni probabilistiche (Priest e altri, 1976).

Dati ricavati da tecniche geofisiche. Un numero considerevole di tecniche geofisiche
può essere impiegato per ottenere informazioni addizionali sulle caratteristiche
fisiche delle discontinuità. Le tecniche più diffusamente impiegate nella pratica
39
includono i metodi sismici, elettrici e radar, anche se negli ultimi tempi stanno
facendosi strada tecniche di indagine in foro.

Dati ricavati da tecniche idrauliche e dall’impiego dei traccianti. Le prime vengono
condotte attraverso il pompaggio o l’estrazione di un certo volume d’acqua da un
foro, isolando pneumaticamente, al contempo, un settore del foro per volta; esse
restituiscono utili informazioni sulla conduttività idraulica di una singola frattura o
d’insieme. Le seconde, al contrario, al fine di caratterizzare il flusso e le proprietà
del trasporto di una singola frattura e d’insieme, ricorrono ad un ampio spettro di
modalità con cui iniettare i traccianti ed eseguire i pompaggi. Ulteriore dettaglio di
informazioni può essere ottenuto mediante il ricorso a test multipozzo, a test di
risposta della pressione, ad iniezione di aria.
Ad ogni buon conto, la natura reale e completa della rete di fratture nel sottosuolo è
impossibile da determinare attraverso indagini geognostiche, sia pure molto sofisticate, e i risultati
finali che è possibile ottenere, richiedono anche un livello non trascurabile di estrapolazioni
soggettive:
di
conseguenza,
frequenti
semplificazioni
e
schematizzazioni
caratterizzano
l’interpretazione dei pochi dati disponibili.
Con l’eccezione della puntuale, e per sua natura limitata, conoscenza discendente da
indagini geologiche, nessuna delle tecniche di misurazione di cui s’è appena detto misura
direttamente le caratteristiche delle fratture: piuttosto, esse stimano la risposta dovuta alla
presenza delle fratture. In tal modo, un problema centrale nel quadro della caratterizzazione delle
discontinuità si concentra nella distinzione tra ciò che viene misurato e ciò che viene, invece,
determinato, e dunque, il processo di elaborazione delle misure diviene, di frequente, un processo
modello-dipendente, con la delicata conseguenza della non unicità della soluzione del problema
inverso.
40
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