CAPITOLO 1 GLI ACQUIFERI FRATTURATI 1.1 Introduzione Nella vita di tutti i giorni, un facile contatto con gli ambienti rocciosi fratturati si ha nella circostanza in cui, ad esempio, si conduca l’automobile lungo una strada che costeggi una collina o che scali una montagna, e come si apprezza in figura 1.1, ci si trova a fianco di una serie di “lacerazioni” di varia inclinazione che compaiono sulle pareti del pendio, a cui si da genericamente il nome di fratture. Ad essere precisi, però, non sono effettivamente le fratture a venire direttamente osservate, quanto piuttosto la loro intersezione con una superficie naturale (come una rupe) o artificiale (una galleria); dal momento che queste intersezioni sono approssimativamente dritte, si immagina che le fratture siano porzioni di più estese superfici planari. Tale idealizzazione non risulta completamente errata: il lento ma costante movimento delle placche tettoniche crea degli stress interni di ingente entità, i quali generano delle fenditure nella roccia madre, nonappena viene raggiunto il carico di rottura del materiale, che possono essere assunte planari. La figura citata poc’anzi evidenzia che molto di frequente le fratture emergono insieme ad altre di uguale o differente orientamento a formare un raggruppamento che viene propriamente definito rete di fratture. 15 Figura 1.1 Versante roccioso fratturato Una buona parte degli acquiferi più estesi si trova all’interno di sistemi rocciosi fessurati, tanto è vero, che circa l’80% della risorsa idrica, impiegata per usi potabili, viene estratta da formazioni di tale tipo. Recenti studi hanno messo in luce come anche mezzi tradizionalmente considerati di bassa permeabilità, come ad esempio scisti o graniti, vengano attraversati da un considerevole flusso idrico, grazie alla propria fratturazione. Le formazioni rocciose fratturate, dunque, si distinguono per essere sistemi idrogeologici estremamente complessi; molteplici, inoltre, risultano essere gli ambiti, all’interno dei quali si manifesta un notevole, e progressivamente crescente, interesse per lo studio delle potenzialità offerte da tali formazioni. In particolare: Utilizzo degli acquiferi per soddisfacimento di bisogni idrici primari Deposito sottosuperficiale dei rifiuti pericolosi (radioattivi, o tossici industriali, ad esempio) Sfruttamento delle riserve petrolifere Conservazione di energia termica e sfruttamento delle riserve geotermiche Estrazione di minerali Applicazioni geotecniche più disparate Analisi delle dinamiche terrestri in profondità, come, ad esempio, terremoti o emissioni idrotermiche sulla piattaforma oceanica Come traspare dalla varietà delle tematiche abbracciate, lo studio delle caratteristiche delle formazioni fratturate richiede un impegno “borderline”, multidisciplinare, tanto è vero, che ricercatori con background culturale piuttosto differente (idrogeologico, geologico, fisico, chimico, statistico, matematico, ingegneristico), hanno contribuito significativamente, mediante un’ampia gamma di indagini teoriche, numeriche, di laboratorio e di campo, ciascuno nel suo, alla comprensione delle proprietà intrinseche di tali formazioni. L’ampiezza di un simile coagulo d’interesse, di certo, arricchisce la comprensione della sua natura assai complessa, ma allo stesso tempo impedisce una risoluzione integrata del problema: esiste, a tale proposito, una certa ambiguità associata con i mezzi fratturati, che di fatto rende limitata la capacità di previsione nei riguardi dei processi di flusso e trasporto al loro interno. 16 Gli ordini di grandezza delle dimensioni delle fratture variano dai micron alle centinaia di chilometri, e, per ogni parte di tale intervallo, manifestano un effetto tangibile sui processi di flusso e trasporto internamente alla crosta terrestre. Nello specifico, non si può trascurare come i succitati processi, possano espletarsi in domini mono o plurifasici (miscibili o meno), completamente o parzialmente saturi, in reti di fratture o in formazioni porose e fratturate. Dal momento che la circolazione sotterranea, a scala locale, è governata principalmente dal sistema di fratture, i metodi numerici e analitici tradizionali, nei quali si assume che le proprietà idrogeologiche registrino variazioni piuttosto regolari, come se si trattasse di un unico mezzo continuo, sono in grado di garantire un’approssimazione modesta. Solo quando il problema del flusso viene analizzato a scala regionale, o meglio ancora, quando la fratturazione risulta essere particolarmente densa, i modelli continui possono dimostrare un’accettabile applicabilità al caso degli acquiferi fratturati. Inoltre, tenuto conto della disposizione altamente irregolare delle fratture all’interno dell’ammasso roccioso, risulta complicata una rappresentazione delle discontinuità su base puramente individuale. Esiste un ampio spettro di approcci modellistici ai quali ci si può rivolgere per affrontare con responsabilità il problema, come ad esempio il ricorso a tecniche stocastiche, o ibridazioni di modelli stocastici e deterministici, o anche modelli che fanno riferimento alla geometria frattale. Ciascuno di tali modelli, però, presenta una controindicazione talvolta insormontabile: per ridurre l’incertezza connaturata al problema stesso, essi necessitano di un grado di dettaglio delle informazioni di base sovente impossibile da ottenere, e così, si rende indispensabile spingersi verso un compromesso soddisfacente tra quantità e qualità di informazioni disponibili, ed affidabilità del modello di calcolo. 1.2 Breve rassegna sull’utilità ingegneristica delle strutture idrogeologiche fratturate 1.2.1 Stoccaggio di materiale radioattivo e di scorie nucleari In anni piuttosto recenti, si è sviluppato considerevolmente l’interesse ingegneristico relativo alla circolazione ed al trasporto nelle strutture sotterranee fratturate, a bassa permeabilità. Il motivo probabilmente scatenante è da ricercarsi nella affannosa ricerca da parte di numerosi paesi sviluppati di un ricettore finale di scorie nucleari e di rifiuti altamente tossici, impossibili da 17 depositare, stante la vigente legislazione internazionale, in punti di stoccaggio superficiali, e addirittura non al di sopra del chilometro nel sottosuolo, per scorie altamente tossiche. Esistono, sotto questo punto di vista, informazioni ed esperienze di campo progressivamente più limitate mano a mano che cresce la profondità in corrispondenza della quale depositare i rifiuti, ed il semplice accertarsi, in via preliminare, se un deposito è sufficientemente isolato dal resto dell’ambiente richiede una serie di analisi che abbracciano diversi settori scientifici. Basti pensare che le sole peculiarità della circolazione alle profondità del deposito influenzano in modo determinante il tasso di dissoluzione di diversi radionuclidi, le velocità di flusso i tempi di residenza, e, conseguentemente, i tempi di decadimento delle scorie. Il problema si complica ove si tenga in debito conto che il flusso fluido sotterraneo possa avere componenti della propria velocità simultanee ma di diversa direzione, che inducono differenze di decadimento tra le specie presenti. Per tutti quei nuclidi che si adsorbono sulle pareti delle discontinuità, o si diffondono all’interno della matrice rocciosa, la frequenza dei canali conduttori e l’estensione della propria superficie esposta influenza direttamente l’area di contatto tra l’acqua in movimento e la roccia. In Canada, in Svizzera, in Svezia sono stati attivati dei programmi di ricerca (mentre in Finlandia sono in fase di attivazione) ad ampio raggio, che coinvolgono diversi interessi scientifici, per studiare il trasporto dei soluti di natura nucleare nelle rocce cristalline. Altri paesi, comprese Francia, Giappone, Spagna, Regno Unito e Stati Uniti hanno, o hanno avuto, programmi di ricerca orientati verso le rocce cristalline; in più, presso la miniera svedese di Stripa è gia arrivato alla terza fase un programma internazionale di ricerca su campo di cui la letteratura può dare ampio rendiconto. Le indagini sono state opportunamente indirizzate alla valutazione la sicurezza del deposito a lungo termine, con una scala temporale che può variare dalle centinaia di anni a diversi milioni, essendo questo il tempo di dimezzamento di alcuni nuclidi, particolarmente longevi. Le ricerche si concentrano nella comprensione dei processi che determinano i percorsi del flusso liquido, i tassi di rilascio dell’inquinante da parte delle scorie, e la capacità di trasporto del mezzo liquido: il trasporto di soluti viene pesantemente condizionato dalla chimica delle acque, così come dai processi di reazione che comprendono lo scambio di specie disciolte o sospese con la roccia in contatto con l’acqua mobile. L’acqua che si muove attraverso le fratture, all’interno delle rocce, potrebbe benissimo trasportare radionuclidi disciolti, provenienti da un deposito di rifiuti radioattivi. La valutazione scrupolosa della misura e delle modalità del trasporto di tali radionuclidi è un’operazione molto delicata ed impegnativa, e si basa su studi analitici e numerici riguardanti la circolazione fluida sotterranea, e le regole d’interazione con il materiale roccioso incontrato. Nelle tre più recenti, e maggiormente riuscite, analisi di sicurezza per depositi di scorie nucleari nel sottosuolo, realmente realizzati, in Svezia ed in Svizzera, i calcoli si basarono su 18 modelli idrogeologici convenzionali che ricorrono alla legge di Darcy, previa assimilazione della struttura ad un mezzo poroso equivalente, ma, ad ogni modo, i radionuclidi non si spostano quasi mai con la velocità dell’acqua che li trasporta. La loro velocità varia anche sensibilmente dalla velocità media del fluido a causa sia di variazioni nella struttura vettoriale tridimensionale della velocità dell’acqua, che di differenze di miscelazione di porzioni di fluido; in ragione di tali processi, che possono essere inglobati nel termine “dispersione”, non esiste un’unica velocità di spostamento dell’inquinante all’interno del fluido in moto. In casi estremi, che però si verificano non di rado nelle strutture fratturate, quando le possibilità di percorsi per il fluido sono limitate e troppo reciprocamente distanti, un numero sparuto di percorsi preferenziali domina il processo di trasporto (channeling). La maggior parte dei nuclidi presenti nell’acqua delle rocce cristalline investigate sono cationici, o neutri; essi possono adsorbirsi sulle superfici polarizzate negativamente dei minerali rocciosi, e/o scambiare con essi degli ioni. Tali processi possono considerevolmente ritardare i radionuclidi, che in qualche circostanza, ci si può attendere si muovano con velocità più lenta dell’acqua di diversi ordini di grandezza; per un dato flusso liquido, il ritardo può rivelarsi più intenso per un nuclide se possiede un numero superiore di facce con cui altri nuclidi possano interagire, perciò una delle questioni centrali su cui concentrarsi è individuare quante superfici di fratture, e di che tipo, il nuclide incontra, nel corso del suo tragitto in mezzo all’acqua. In aggiunta alle interazioni con le pareti delle discontinuità, i radionuclidi possono diffondersi all’interno della matrice rocciosa ed assorbirvisi, tenendo in considerazione il fatto che tali superfici interne al sistema di circolazione sono più estese di diversi ordini di grandezza delle superfici delle fratture in contatto con l’acqua, e che quindi i tempi di ritardo possono aumentare considerevolmente. Viene usualmente assunto che le rocce fratturate, quanto meno in profondità, siano sufficientemente cataclasate e frammentate per permettere di effettuare medie volumetriche omogenee, e di lavorare, di conseguenza, con parametri medi significativi. Nello studio delle conseguenze di un deposito sotterraneo di materiale radioattivo, le proprietà idrogeologiche più importanti sono senza dubbio la conduttività idraulica e la porosità. Le dimensioni del volume oltre il quale la media d’insieme può venire effettuata viene detto volume elementare rappresentativo (REV), e funge, fra l’altro, da base concettuale per i modelli continui, a patto che tale volume sia significativamente inferiore al volume di roccia studiato. Se è così, per determinare le direzioni di circolazione della soluzione fluida, di acqua e radionuclidi, in ogni punto del volume roccioso d’interesse, si può ricorrere ad una particolare equazione di bilancio di massa, che comprende la legge di Darcy, in accordo con le appropriate condizioni al contorno. Chiaramente, eventuali variazioni prevedibili, o note, delle proprietà nello spazio, come zone di differente fratturazione, possono essere incluse senza difficoltà. Da qui, non senza complicazioni di carattere 19 prevalentemente computazionale, si può ottenere una mappa attendibile dei percorsi di circolazione, e, ove necessario, le reali grandezze delle velocità possono essere impiegate direttamente nei modelli di trasporto. Nel caso in cui si verifichi il fenomeno del channeling, le percentuali di massa fluida presenti in ciascun percorso si valutano in maniera più agevole, vista la limitatezza dei percorsi preferenziali prevista in caso di channeling, ed i calcoli relativi al trasporto possono essere effettuati in modo individuale. 1.2.2 Produzione e stoccaggio di energia geotermica L'energia geotermica è il calore contenuto nell'interno della Terra. E' stato stimato, assumendo una temperatura superficiale media di 15 °C, che esso sia dell'ordine di 12,6 x 1024 MJ e che quello contenuto nella sola crosta sia dell'ordine di 5,4 x 1021 MJ. L'energia termica della Terra è quindi enorme, ma soltanto una parte di essa può essere sfruttata. Sino ad oggi, l'utilizzazione di questa energia è stata limitata a quelle aree nelle quali le condizioni geologiche permettono ad un vettore (acqua in fase liquida o vapore) di "trasportare" il calore dalle formazioni calde profonde alla superficie o vicino ad essa, formando quelle che chiamiamo risorse geotermiche. A causa della fratturazione della crosta, che permette la risalita di materiali fusi molto caldi, ai margini si formano anche vulcani ed aree a gradiente geotermico molto elevato; il gradiente geotermico, che dà la misura dell'aumento della temperatura con la profondità, ha un valore medio di 2,5-3°C/100 m, ma, nelle aree "geotermiche" esso può essere anche dieci volte superiore alla norma. Sistemi geotermici possono formarsi in regioni con gradiente geotermico normale o poco più alto e, soprattutto, nelle regioni prossime ai margini delle zolle crostali, dove il valore del gradiente geotermico può essere anche notevolmente superiore a quello medio. Nel primo caso, questi sistemi hanno temperature basse, di solito non più di 100°C a profondità economicamente utili, mentre nel secondo caso, si può avere una vasta gamma di temperature, da basse sino ad oltre 400°C. Le risorse geotermiche sono presenti nella maggior parte della superficie del pianeta, in ambienti geologicamente diversi, in regioni sia a gradiente geotermico normale, sia superiore al normale. Esse possono inquadrarsi in varie tipologie di sistemi geotermici: Sistemi ad acqua dominante. In questi sistemi l'acqua liquida è la fase continua, che controlla la pressione nel serbatoio geotermico. Questi sistemi 20 geotermici, la cui temperatura può andare da ‹125°C a ›225°C, sono i più diffusi nel mondo. Essi possono produrre, in funzione dalla loro temperatura e pressione, acqua calda, una miscela di acqua e vapore, vapore umido e, in alcuni casi, vapore secco. Sistemi a vapore dominante. Nel serbatoio di questi sistemi normalmente coesistono acqua liquida e vapore, che è la fase continua che controlla la pressione. Sono sistemi ad alta temperatura, che normalmente producono vapore secco o surriscaldato. I sistemi geotermici di questo tipo sono piuttosto rari; i più conosciuti sono Larderello in Italia e The Geysers in California. Sistemi geopressurizzati, che possono formarsi nei grandi bacini sedimentari (p.e. il Golfo del Messico) a profondità di 3-7 km. I sistemi geopressurizzati sono sistemi chiusi, privi di alimentazione, nei quali il fluido si trova a pressione litostatica; costituiscono una categoria a sé stante. Potrebbero produrre energia termica e idraulica (acqua calda in pressione) e gas metano. Questa risorsa è stata studiata in modo approfondito, ma, sino ad oggi, non è seguito uno sfruttamento industriale. Un sistema geotermico può essere definito schematicamente come “un sistema fluido convettivo, che, in uno spazio confinato nella parte superiore della crosta terrestre, trasporta il calore da una sorgente termica al luogo, generalmente la superficie, dove il calore stesso è assorbito (disperso o utilizzato)” (Hochstein, 1990). Un sistema geotermico è formato da tre elementi: la sorgente di calore, il serbatoio ed il fluido, che è il mezzo che trasporta il calore. La sorgente di calore può essere una intrusione magmatica a temperatura molto alta (›600°C), che si è posizionata a profondità relativamente piccola (5-10 km), oppure, come in certi sistemi a bassa temperatura, il normale calore della Terra. Il serbatoio è un complesso di rocce calde permeabili nel quale i fluidi possono circolare assorbendo il calore. Il serbatoio generalmente è ricoperto da rocce impermeabili e connesso a zone di ricarica superficiali dalle quali le acque meteoriche possono sostituire, totalmente o parzialmente, i fluidi perduti attraverso vie naturali (per esempio sorgenti) o che sono estratti mediante pozzi. Il fluido geotermico, nella maggioranza dei casi, è acqua meteorica in fase liquida o vapore, in dipendenza dalla sua temperatura e pressione. Quest’acqua spesso trascina con se sostanze chimiche e gas, come CO2, H2S ed altri. La Figura 1.2 è la rappresentazione, schematica e molto semplificata, di un sistema geotermico. Le leggi che regolano la convezione dei fluidi sono alla base del meccanismo dei sistemi geotermici; essa si attiva in seguito al riscaldamento ed alla conseguente espansione termica del fluido in un campo gravitazionale; il calore alla base del sistema di circolazione è l’energia che alimenta e muove il sistema. Il fluido caldo e di minor densità tende a salire e ad essere sostituito 21 dal fluido più freddo e di densità maggiore, proveniente dai margini del sistema. La convezione, per sua natura, tende a far aumentare la temperatura delle parti alte del sistema, mentre la temperatura delle parti inferiori diminuisce (White, 1973). Figura 1.2 Rappresentazione schematica di un sistema geometrico Il fenomeno descritto può sembrare semplice; in realtà, la costruzione del modello di un sistema geotermico reale non è affatto facile. Essa coinvolge diverse discipline e richiede una vasta esperienza, soprattutto se si ha a che fare con sistemi ad alta temperatura. In natura, inoltre, si possono formare sistemi geotermici in varie combinazioni di situazioni geologiche, fisiche e chimiche, dando origine a tipi diversi di sistemi. La sorgente di calore è l’unico dei tre elementi di un sistema geotermico che deve essere naturale. Gli altri due elementi, se esistono le condizioni adatte, possono essere “artificiali”. Per esempio, i fluidi geotermici estratti dal serbatoio per alimentare la turbina di una centrale elettrica, dopo averne sfruttato l’energia, possono essere immessi di nuovo nel serbatoio attraverso appositi pozzi di reiniezione. In questo modo la ricarica naturale del serbatoio è integrata dalla ricarica artificiale. Da diversi anni, inoltre, la reiniezione dei fluidi sfruttati è stata adottata per ridurre drasticamente l’impatto ambientale degli impianti geotermici. Nel Progetto Rocce Calde Secche (HDR Project, figura 1.3), avviato negli Stati Uniti nei primi anni ’70, sia il fluido che il serbatoio sono artificiali. Attraverso un pozzo appositamente perforato, acqua ad alta pressione viene pompata in una formazione di roccia calda compatta, provocando la sua fratturazione idraulica. L’acqua penetra e circola nelle fratture prodotte artificialmente ed estrae il calore dalle rocce all’intorno, che funzionano come un serbatoio naturale. Questo serbatoio viene poi raggiunto ed intersecato da un secondo pozzo usato per estrarne l’acqua, che ha acquistato calore. 22 Questo sistema, quindi, consiste (i) del pozzo usato per la fratturazione idraulica, attraverso il quale l’acqua fredda è iniettata nel (ii) serbatoio artificiale, e (iii) del pozzo per l’estrazione dell’acqua calda. L’intero sistema, comprendente anche l’impianto di utilizzazione in superficie, forma un circuito chiuso, evitando ogni contatto tra il fluido e l’ambiente esterno. Questo interessante progetto, dopo qualche anno di esperimenti, è stato sospeso a causa del suo elevato costo e di alcune difficoltà tecniche non superate completamente. Figura 1.3. Schema di possibile progetto HDR. Il pozzo a destra inizialmente inietta acqua ad alta pressione, che frattura le rocce calde e crea il serbatoio artificiale; successivamente diventa una parte del sistema. Il pozzo a sinistra estrae il fluido (immesso dall'altro pozzo), che si è riscaldato circolando attraverso le fratture. L'insieme forma un sistema chiuso: pozzo di iniezione - serbatoio caldo- pozzo di estrazione - impianto di utilizzazione in superficie. In anni più recenti, una notevole attività di ricerca e sperimentazione è stata dedicata alla stimolazione del serbatoio, che utilizza alcune delle tecnologie del Progetto Rocce Calde Secche. La stimolazione del serbatoio può essere efficace nel caso, abbastanza frequente, in cui formazioni rocciose, contenenti fluidi caldi, abbiano una permeabilità troppo bassa, insufficiente a consentire la circolazione dei fluidi e a mantenere un sistema geotermico. Questa situazione può dipendere semplicemente dalla natura della formazione rocciosa, ma potrebbe anche essere l’effetto della occlusione parziale delle fratture preesistenti, all’interno o ai margini di un campo geotermico, a causa della deposizione di minerali durante lo sfruttamento. In condizioni favorevoli, la permeabilità delle rocce può essere migliorata o può essere ripristinata quella originaria con tecniche derivate dall’industria petrolifera, che prevedono l’iniezione di soluzioni acide nel 23 sottosuolo. Gli esperimenti fatti sinora sembrano tuttavia indicare che il metodo più efficace di stimolazione sia la fratturazione idraulica. Oltre a ciò, è utile sottolineare che esiste un altro modo, sia pure meno quantitativamente produttivo, per ricavare energia da ambienti geologici fratturati: le gallerie che attraversano i massicci rocciosi drenano le acque sotterranee che incontrano. Queste acque sono evacuate verso l’esterno delle gallerie mediante dei canali e vengono generalmente riversate nei corsi d’acqua; in dipendenza della spessore delle rocce che ricoprono il tunnel, la temperatura delle acque intercettate può raggiungere dai 20 ai 40° C. Associata a delle quantità importanti, questa potenziale risorsa geotermica può essere utilizzata per soddisfare il fabbisogno energetico dei consumatori vicini agli sbocchi delle gallerie. 1.2.3 Contenitore naturale della risorsa idrica Le formazioni geologiche sotterranee hanno la fondamentale funzione di fornire all’uomo risorsa idrica in quantità sufficienti al soddisfacimento delle sue necessità vitali, ed accessorie, e, conseguentemente, l’interesse nei confronti di tali formazioni, inquadrabile nel contesto di un insostituibile contributo alla vita umana, si polarizza verso una conoscenza progressivamente più approfondita del funzionamento degli acquiferi, del loro sistema di ricarica e di alimentazione, delle relazioni con l’ambiente geologico che li ospita, degli effetti che l’intervento dell’uomo può provocare su quello stesso ambiente, incentivata, tra l’altro, dalla sempre maggiore richiesta di risorsa degli ultimi tempi. Gli acquiferi che si presentano con maggiore frequenza sono costituiti da depositi non consolidati di materiali sciolti con origine geologica molto diversa; fluviale, come i depositi di materiali alluvionali dei fiumi o le terrazze fluviali, deltaica, se si tratta di depositi accumulati allo sbocco dei fiumi, depositi sedimentari, causati dall’accumulo di particelle trasportate dalla gravità, dal vento, dal gelo. Grazie, in genere, alle buoni condizioni di ricarica, alla buona permeabilità, ed alla scarsa profondità del livello piezometrico forniscono notevoli quantità d’acqua se sfruttate adeguatamente. Tra le rocce sedimentarie consolidate che racchiudono il 95% delle acque sotterranee della terra la più importante è il calcare, roccia formata quasi esclusivamente da carbonato di calcio che varia incredibilmente di densità, porosità, e permeabilità in base all’ambiente sedimentario presente durante la sua formazione ed al successivo sviluppo di zone permeabili per dissoluzione del carbonato, ovvero la formazione di carsismo, che possono arrivare a formare veri e propri fiumi sotterranei e tutta una morfologia particolare. In alcuni casi, non è addirittura possibile parlare di 24 permeabilità poiché non si compie il regime laminare a causa delle notevoli dimensioni delle fessure. Tuttavia queste rocce, se non sono carsificate, possono essere poco permeabili al pari delle marne, una via di mezzo tra calcari ed argille. La porosità e la permeabilità di conglomerati ed arenarie considerati come ghiaie e sabbie cementate diminuisce a causa del cemento che unisce e conferisce coesione. Di conseguenza, se il cemento viene meno, a causa di eventuali dissoluzioni chimiche o piuttosto dell’incompleto riempimento dei pori intergranulari, queste formazioni possono essere sfruttate come acquiferi. Per le rocce vulcaniche, è arduo stilare una classificazione basata sulla loro intrinseca capacità di costituire un buon acquifero dal momento che dipende dalle caratteristiche fisiche e chimiche delle rocce stesse, e dall’eruzione che le ha generate, dal grado di alterazione, dall’età e da altri fattori, non di rado concomitanti. Infine, tra le rocce ignee e metamorfiche le uniche parti adatte a formare buoni acquiferi si trovano nella zona alterata superficiale o nelle regioni più fratturate da faglie e diaclasi che consentono una considerevole circolazione d’acqua ma, nonostante ciò, costituiscono gli acquiferi più scarsi in quanto a resa idrica. Le risorse idriche disponibili in natura in un bacino, senza regolazione, coincidono approssimativamente con il deflusso di origine sotterranea, quindi le loro variazioni nel tempo sono molto inferiori rispetto a quelle del deflusso diretto o superficiale, che invece segue il ritmo delle piogge e quello dei disgeli. Lo sfruttamento delle acque sotterranee comporta quasi sempre un aumento delle risorse idriche disponibili in un bacino per una delle seguenti ragioni: può regolare le oscillazioni del deflusso sotterraneo dei fiumi; può indurre un’infiltrazione negli acquiferi attigui al fiume, con acqua non regolata, ed evitare la sua perdita in mare; può diminuire l’evapotraspirazione facendo abbassare la profondità della zona satura; permette un discreto approvvigionamento idrico nel bacino basso, in corrispondenza del quale risulta estremamente complicato effettuare opere di regolazione superficiale. In contrapposizione a quanto detto, l’utilizzazione delle acque sotterranee può influenzare sensibilmente la portata del fiume, pregiudicando i beneficiari delle acque a valle delle captazioni se non è presente un’organizzazione legale ed amministrativa che permetta di esercitare uno sfruttamento controllato e pianificato. Uno dei problemi critici dell’idrologia sotterranea risiede nella determinazione della cosiddetta portata di sicurezza, vale a dire il volume che si può estrarre nell’unità di tempo da un generico acquifero senza provocare effetti indesiderati. Il concetto di portata di sicurezza è piuttosto simile a quello di risorse idriche disponibili, anche se, quanto meno inizialmente, il concetto di portata di sicurezza era sinonimo di volume costante di acqua che si poteva estrarre 25 annualmente in modo indefinito senza alterare le riserve di acqua sotterranea. Ovviamente, nessun acquifero può essere sfruttato a lungo ad un ritmo superiore a quello della ricarica naturale. Di fatto, quasi sempre questo sfruttamento deve essere minore. L’acqua accumulata in un bacino sotterraneo può essere classificata in riserve morte o riserve vive. Queste ultime sono situate al di sopra dei livelli di prosciugamento, e la loro altezza piezometrica rappresenta l’energia che origina il movimento dell’acqua. Spesso, anche una parte delle riserve morte, situate al di sotto del livello di prosciugamento, partecipa al flusso dell’acqua, ma non lo genera. Molte rocce consolidate, pur avendo talvolta una porosità relativamente elevata, si comportano all’atto pratico come le rocce impermeabili, e l’acqua riesce a circolare esclusivamente attraverso le crepe e le fessure; altre volte la roccia stessa presenta una certa, se pur ridotta, permeabilità, in modo che le crepe e le fessure agiscano come collettori che trasmettono l’acqua ceduta dalle pareti oltre all’acqua che contengono; altre volte, invece, accade che la roccia stessa sia piuttosto permeabile, per cui l’importanza relativa della circolazione dell’acqua attraverso le crepe e fessure risulta assai minore. Il comportamento idraulico dei diversi tipi di rocce consolidate si dimostra particolarmente vario, e spesso, dipende da fattori esterni alla loro composizione. Gli sforzi tettonici condizionano la diaclasizzazione, l’esfogliazione, i piani di fratturazione e di piega; il clima condiziona l’alterazione superficiale della roccia e la creazione di strati permeabili (alteriti), così come il fatto che le crepe siano colme o prive di materiali poco permeabili. Le azioni endogene sono le principali responsabili della presenza di sbarramenti e di intrusioni che talvolta favoriscono ed altre volte ostacolano il flusso dell’acqua. L’erosione porta alla luce rocce prima sotterrate in profondità, e durante questo processo si produce una decompressione che allarga le fessure e ne crea altre nuove. Le rocce calcaree sono alcune volte permeabile per semplice fratturazione, altre per fratturazione e permeabilità della roccia, e più raramente per sola permeabilità della roccia. Malgrado ciò, accade molto spesso che le crepe s’ingrandiscano per dissoluzione, alcune più di altre, cosicché il sistema si modifica presentando una superiore eterogeneità, ed un’anisotropia più marcata. Questo fenomeno ha come conseguenza scientifica l’estrema complicazione dei calcoli idraulici, necessari a trattare analiticamente le aree interessate. In tali rocce, la zona carsificata può rimanere limitata alle zone vicine al livello freatico, mentre soltanto la roccia inferiore presenta piccole fessure che la rendono poco permeabile ed addirittura praticamente impermeabile. Nel primo caso, il flusso si mantiene limitato alla zona superiore carsificata che agisce come livello di deflusso, a volte attivo esclusivamente nei periodi di pioggia. L’analisi degli idrogrammi delle sorgenti nelle zone carsiche permette di identificare un moto predominante nei periodi delle piogge che corrisponde ai grandi condotti; tuttavia, quando 26 questi si svuotano, poiché non si ha più ricarica diretta, si stabilisce un flusso più lento frenato da crepe e fessure sempre più strette. In genere, la permeabilità delle rocce fratturate non supera in media pochi m/giorno, e spesso risulta decisamente inferiore; nei materiali vulcanici più anziani sono comuni valori tra 0,01 e 1 m/giorno, fino ad arrivare anche a 100 m/giorno in quelli di più recente formazione; nei calcari fratturati i valori più frequenti sono compresi tra 0,1 e 10 m/giorno. In particolare, la permeabilità può variare da zero fino a valori di molte migliaia di m/giorno; nei punti di maggiore permeabilità spesso il flusso è turbolento, e la legge di Darcy non è applicabile, sebbene si tratti di un’eccezione piuttosto che di una regola. Le crepe presentano un certo livello piezometrico in ogni punto; se esiste una rete di crepe interconnesse è possibile stabilire le superfici piezometriche, tenuto conto che si tratta di superfici virtuali, dal momento che sono definite dalle maglie di linee piezometriche corrispondenti all’intersezione di queste crepe con un piano orizzontale, come si può distintamente apprezzare in figura 1.4. Figura 1.4 Andamento qualitativo della piezometrica in un ammasso roccioso fratturato (Custodio E., Llamas M. R.; 2005) 1.3 Geologia di un ammasso roccioso fratturato Sebbene il termine frattura viene usualmente riferito ad ogni tipo di fenditura, di crepa, di fessura presenti all’interno della formazione rocciosa, in termini geologici per frattura si intende ogni discontinuità planare, o anche curviplanare, che ha avuto origine in conseguenza di un processo di deformazione fragile nella crosta terrestre. Gli spostamenti relativi tra le pareti delle fratture possono essere sia normali al piano di discontinuità, sia appartenenti al piano stesso, e, limitatamente all’ambito della modellazione di circolazione fluida e trasporto, una più dettagliata classificazione non è necessaria. Supponendo di poter considerare come piana la superficie di una frattura singola, essa viene definita da alcune grandezze: la lunghezza caratteristica L, che ne definisce estensione, la 27 forma, la posizione geografica del suo centro di gravità, e la sua orientazione, espressa mediante il versore ortogonale al piano di fratturazione. Inoltre, la definizione dell’area di contatto tra le superfici (che rimanda alla definizione di apertura di una frattura, di cui si avrà modo di dire più diffusamente in seguito), è altresì una caratteristica imprescindibile, in quanto, da una parte, fornisce preziose informazioni circa il meccanismo di trasmissione degli stress meccanici, mentre dall’altra contribuisce nella determinazione dell’apertura della frattura, quanto meno a livello locale, che rappresenta un parametro idraulico di fondamentale importanza. All’interno di una simile ossatura, è importante evidenziare la distinzione che esiste tra rocce fratturate, e rocce fratturate con matrice porosa, essenzialmente dipendente dal ruolo ricoperto, nell’ambito della circolazione, del trasporto, e anche dell’immagazzinamento, dalla porosità della matrice solida: da ciò si evince con nettezza che il substrato concettuale su cui poggia lo studio delle formazioni fratturate tende a distinguersi da quello su cui poggia lo studio dei mezzi porosi, nell’accezione idraulicamente più classica del termine. Così, un differente armamentario di riferimenti concettuali, approcci modellistici, e tecniche d’indagine fisica devono essere presi in considerazione. I piani di debolezza nelle rocce dipendono strettamente dalle variazioni di stress meccanico della crosta terrestre: la roccia risponde a tali variazioni fratturandosi in modi differenti, in dipendenza della direzione di massimo stress e del tipo della matrice solida. Sulla base del mutuo movimento delle pareti durante la formazione delle discontinuità, si distinguono tre grosse categorie geomeccaniche di fratture: Fratture per divaricazione (opening fractures), in cui la separazione delle pareti della frattura dipende dall’esistenza di uno stress meccanico normale al piano di discontinuità (fig 1.5a). Per tale motivo, questa tipologia di fratture viene anche detta “frattura per estensione” Fratture per scorrimento (sliding fractures), in cui le due pareti delle fratture si allontanano reciprocamente, mantenendo lo spostamento in direzione normale al fronte di rottura (fig 1.5b) Fratture per taglio (shearing fractures), in cui le pareti sono soggette ad una forza di taglio allineata parallelamente al fronte di rottura (fig 1.5c) Non è infrequente il caso in cui, in letteratura, anche il secondo tipo di discontinuità venga definita frattura di taglio. Le fratture per divaricazione vengono più comunemente definite, sia pure in modo meno rigoroso, giunti; esse sono le fratture più comuni, e possono venire individuate in quasi tutti i tipi di roccia, nei materiali consolidati, così come nei sedimenti inconsolidati. Vengono solitamente generati da sollevamenti sotterranei, erosioni, sovrapressioni fluide, e azioni termiche e chimiche, e 28 si caratterizzano come strutture sistematiche o non sistematiche; i giunti appartenenti ad un set specifico, che mantengono caratteristiche consistenti come orientazione, morfologia, mineralizzazione, e distribuzione degli affioramenti, sia in scala locale che regionale, possono venire definiti sistematici; quelli non sistematici, al contrario, presentano superfici particolarmente incurvate ed irregolari, e non sono facilmente associabili ad uno stress meccanico generativo. Le reti di giunti, a loro volta, invece, consistono di un numero indistinguibile di famiglie di fratture, spesso particolarmente dense e ben connesse. Figura 1.5 Tipologie generali di fratturazione, e, nel dettaglio, tipologie geomeccaniche di fratturazione: a) opening fractures; b) sliding fractures; c) shearing fractures (Custodio E., Llamas M. R., 2005; Delleur J. W., 2005) 1.3.1 Rapporto tra scala e geometria Sotto l’aspetto della scala di larghezza, le fratture possono venire ricondotte ad una delle seguenti tre scale di grandezza: scala microscopica, scala mesoscopica, scala megascopica. A scala microscopica, microfratture isolate o continue, di forma prevalentemente discoidale, possono essere comunemente generate in rocce cristalline o sedimentarie, e possono arrivare al massimo a 1000 μm in lunghezza, e qualche μm in larghezza. In generale, esse appartengono alle fratture di prima categoria, benché in sparute eccezioni, esse possono anche appartenere alle 29 fratture di seconda categoria, specie quando ci si trovi in prossimità di fratture di dimensioni maggiori del secondo tipo. Nelle rocce cristalline, la quasi totale porosità della matrice rocciosa è costituita dalle microfratture, e può raggiungere l’1%. Nelle formazioni sedimentarie, invece, alla porosità secondaria delle discontinuità, si deve aggiungere anche quella primaria, in questo caso piuttosto consistente, dovuta alla tenue cementazione della matrice, o anche alla presenza di piccole cavità prodotte dal passaggio dell’acqua; per tale ragione, la porosità nelle rocce sedimentarie può raggiungere anche il 50%. A scala mesoscopica, le dimensioni delle fratture si concentrano nell’intervallo compreso tra 50 cm e 1000 m in lunghezza, e tra 10 μm e 10 mm in larghezza. Tali fratture si presentano il più delle volte in raggruppamenti caratterizzati da un’orientazione simile, correlata alla genesi della frattura. A tale scala, si osservano con più frequenza dei giunti piuttosto che fratture di taglio, anche se queste ultime non sono rare. Una classe estremamente comune ed importante a questa scala, è quella che fa capo alle fratture con struttura a fogli; tale caratteristica conformazione è dovuta all’espansione verticale conseguente allo scarico esercitato dall’erosione. Le strutture a fogli sono presenti in tutti i tipi di roccia, molto spesso parallele alla superficie terrestre, e rappresentano condotti comuni per la circolazione dell’acqua nel sottosuolo a scala regionale. Nelle rocce plutoniche e metamorfiche, risultano essere indipendenti dalla macrostruttura originale e dalla tessitura del materiale, e vengono rinvenute con decrescente frequenza al crescere della larghezza. A scala megascopica, le faglie e le zone ricche di fratture di taglio dominano nettamente la morfologia delle discontinuità. Una faglia può essere definita come una discontinuità planare che si crea tra due blocchi di roccia uniforme, laddove lo spostamento ha luogo parallelamente alla discontinuità, generata da un evento tettonico di larga scala. Si tratta di fratture contraddistinte da diverse peculiarità associate, e possono distinguersi per valori alti o bassi della permeabilità, in dipendenza dai campi locali di stress meccanici, e dai materiali di riempimento. Le faglie possono avere diverse orientazioni, sebbene sia quella sub-verticale a venire rilevata con maggiore assiduità dalle campagne di indagini fotografiche, e possono talvolta confondersi con le zone di taglio; esse vengono tipicamente osservate nei terreni metamorfici, e si distinguono per un’elevata permeabilità. In più d’un ambiente fratturato, la frequenza e la spaziatura delle faglie e delle zone di taglio è sparsa: ad esempio, in numerosi rilievi su campo, si sono riscontrate faglie che penetrano verticalmente l’intero spessore dello strato metamorfico, con la spaziatura tra faglie di diverse decine di chilometri. In tal modo, dalla scala locale a quella regionale, le faglie dominano il sistema di circolazione sotterranea. Le reti di faglie consistono tipicamente di due o tre famiglie distinte di fratture orientate, ma si rivelano sovente essere debolmente interconnesse. 30 Una vena, infine, rappresenta una frattura mineralizzata entro cui la circolazione liquida si affievolisce progressivamente, per via proprio dei depositi minerali, indipendentemente dal processo di generazione della stessa. 1.4 Caratteristiche geometriche di una frattura singola La semplificazione tradizionalmente più comune per una frattura singola, prevede il ricorso a due superfici parallele e lisce: tale concettualizzazione risulta particolarmente conveniente per tutte le analisi quantitative sulla circolazione. Negli anni più recenti, notevoli sforzi sono stati spesi per caratterizzare la morfologia delle superfici di parete delle discontinuità naturali; in effetti, la scabrezza delle superfici delle fratture, come emerge con evidenza da analisi profilometriche, o, ultimamente, da tomografie computerizzate a raggi x, è sensibilmente irregolare, e possiede, come è stato dimostrato in diversi studi, proprietà di autosimiglianza, indipendentemente dal tipo di roccia madre e dal meccanismo di genesi. In considerazione della scabrezza delle superfici di una frattura, è naturale esaminare con maggiore precisione la definizione di “apertura”. In termini piuttosto semplificati, essa può venire definita come un parametro che concorre a valutazioni quantitative attorno alla realizzazione di modelli di flusso e trasporto. Mediante il profilometro, strumento speditivo di indagine locale, non è possibile misurare direttamente il valore dell’apertura, perché, a tale scopo, la frattura dovrebbe venire aperta per consentire l’introduzione dello strumento, né d’altra parte, possono assumere valenza definitiva le valutazioni di carattere probabilistico, elaborate sulla base dell’osservazione degli affioramenti superficiali: la definizione di apertura di una frattura è funzione molto stretta del processo fisico per il quale è necessaria 1.5 Proprietà del flusso in una singola frattura Come accennato nel precedente paragrafo, la circolazione fluida in una singola frattura viene quasi sempre analizzata assumendo l’analogia tra le pareti della discontinuità e due superfici parallele di apertura costante (parallele plates). Secondo tale analogia, la soluzione delle equazioni di Navier-Stokes per flusso laminare di un fluido viscoso, incomprimibile, costretto a scorrere in mezzo a due superfici piane lisce, viene designata legge cubica, termine appositamente coniato per questo specifico contesto 31 Q C ( 2b ) 3 h (1.1) La precedente espressione descrive l’andamento della portata volumetrica per unità di perdita di carico, mentre 2b rappresenta l’apertura della discontinuità e C è una costante legata alle proprietà del fluido ed alla geometria del dominio del flusso. La figura 1.6 pone in evidenza la distribuzione parabolica della velocità indicata dalla soluzione delle equazioni di Navier-Stokes in una sezione che tagli ortogonalmente la frattura con le pareti parallele. Una trattazione rigorosa che delinei con scrupolo la determinazione di tale legge cubica, per la quale si rimanda a diversi testi di sugli acquiferi fratturati di orientamento analitico, come Flow and contaminant transport in fractured rock di Bear, esula dagli obiettivi del presente lavoro. Figura 1.6 Andamento parabolico delle velocità all'interno di una frattura (Delleur J. W., 2005) Come si è visto, la portata è proporzionale al cubo dell’apertura, da cui la dicitura “cubica” per definire la legge; per flusso rettilineo uniforme, la costante C può essere espressa come C g W 12 L (1.2) dove ρ rappresenta la densità, g l’accelerazione di gravità, μ la viscosità cinematica, W la larghezza della frattura, ed L la lunghezza. Per flusso in dominio radiale, C si può calcolare: C g 2 12 ln re rw (1.3) nella quale rw rappresenta il raggio del pozzo, ammesso che esista un pompaggio a produrre il flusso in un dominio radiale, mentre re il raggio d’influenza. Sostituendo la legge cubica 32 all’interno della legge di Darcy, la trasmissività (Tfr) e la conduttività idraulica (Kfr) della discontinuità si calcolano mediante T fr g 2b3 K fr 2b 12 (1.4) In tal modo, impiegando la precedente equazione, è possibile mettere in relazione termini tipicamente usati per descrivere la permeabilità di un mezzo poroso con quelli propri di un mezzo fratturato. Il grafico parametrico di figura 1.7 illustra con chiarezza, per un insieme di valori di conduttività idraulica, lo spessore del mezzo poroso perfettamente equivalente, dal punto di vista idraulico, ad una frattura singola di data apertura. Ad esempio si può affermare che il volume d’acqua che attraversa un mezzo poroso di spessore pari a 10 metri, con conduttività idraulica di 10-4 m/s equivale esattamente allo stesso volume che attraversa una frattura di larghezza pari a 1 mm, sospinto dalle stesse forze. Figura 1.7 Diagramma parametrico che associa l'apertura di una frattura con lo spessore equivalente di un acquifero poroso (De Marsily G.,1986) Combinando la precedente equazione con la legge di Darcy, si ottiene la velocità media di un volume d’acqua che attraversa una frattura v g 2b2 dh 12 dx (1.5) La figura 1.8, al contrario, esprime la velocità della circolazione sotterranea prevista dalla legge cubica in dipendenza di un range di gradienti idraulici, espressi, nella precedente equazione 33 dal termine dh/dx. Non sfugga come, a differenza di quello che può solitamente verificarsi presso i mezzi porosi, anche per valori del gradiente idraulico davvero modesti, la velocità all’interno della frattura assume valori significativi. Figura 1.8 Velocità della circolazione sotterranea in una frattura secondo la legge cubica (De Marsily G.,1986) Qualora vi siano gradienti idraulici elevati, può insorgere con buona probabilità moto turbolento. La transizione dal moto laminare a quello turbolento può essere agevolmente stimata a partire dal numero di Reynolds, Re, il quale, per una frattura planare standard, si definisce Re v Dh (1.6) in cui Dh rappresenta il diametro idraulico, e v la velocità media. Per fratture planari, Dh si definisce come Dh 2 * 2b (1.7) In aggiunta a ciò, può essere definita la scabrezza di una frattura secondo Rr Dh (1.8) nella quale ε definisce l’altezza media delle asperità, vale a dire il picco sulla superficie topografica delle pareti della frattura. La transizione tra flusso laminare e turbolento avviene in corrispondenza di Re pari a 2300, mentre quella da flusso liscio a flusso rugoso in prossimità di Rr 34 pari a 0.033. Impiegando, poi, l’espressione di Rr, la conduttività idraulica in una frattura in cui si verifichi moto rugoso e laminare, si può indicare K fr g 2b 2 12 1 8.8Rr1.5 (1.9) Alternativamente, l’influenza della scabrezza della superficie della frattura può venire inglobata direttamente nella legge cubica, semplicemente introducendo un fattore correttivo f che tenga conto delle deviazioni dalle condizioni ideali su cui si basa la formulazione dell’equazione della legge cubica. Come risultato di studi sperimentali condotti usando sia la geometria rettilinea che quella radiale, ed in discontinuità costituite da diversi tipi litologici di roccia, ed aventi aperture che vanno dai 4 ai 250 μm, f è stato osservato variare tra 1.04 e 1.65 (Witherspoon et al., 1980). Il risultato di un’esperienza simile ha condotto alla scrittura di una forma più generalizzata della legge cubica Q C 3 2b h f (1.10) Dove f = 1 per pareti lisce e f leggermente superiore ad 1 per pareti scabre. In questo modo, la previsione della circolazione sotterranea conserva la sua attendibilità in svariate condizioni, anche quando si pone a priori f pari ad 1. 1.6 Cenni sul trasporto di soluti in una frattura singola Il trasporto di costituenti acquosi conservativi e reattivi in fratture discrete è generalmente governata da uno o più fra i seguenti fenomeni fisici: Dispersione idrodinamica Avvezione Decadimento biologico o radioattivo Diffusione all’interno della matrice rocciosa In più, il trasporto di componenti reattivi può venire significativamente influenzato da processi geochimici quali le reazioni acido/base, le reazioni di ossidoriduzione, i fenomeni di precipitazione/dissolvimento, o di adsorbimento/desorbimento. 35 Di conseguenza, l’equazione che regola il trasporto di soluto in una singola frattura deve necessariamente comprendere la formalizzazione di tutti i fenomeni fisici elencati in precedenza, vale a dire il trasporto avvettivo, la dispersione longitudinale, la diffusione molecolare dalla frattura alla matrice, l’adsorbimento sulla faccia della matrice ed all’interno di essa, il decadimento radioattivo. Essa, quindi, si può esprimere come c c 2c 2b Ra v DL 2 Ra c 2q 0 x x t (1.11) nella quale la coordinata x rappresenta la direzione dell’asse della frattura, come è evidente in figura 1.9, C la concentrazione del soluto nella discontinuità, λ è la costante di decadimento, mentre infine q la portata diffusiva perpendicolare all’asse della frattura. Il fattore di ritardo, Ra, è definito come Ra 1 K df b (1.12) Figura 1.9 Rappresentazione schematica di una frattura penetrante in una roccia porosa (Delleur J. W., 2005) dove Kdf è il coefficiente di distribuzione per le pareti della frattura, definito come massa di soluto adsorbita per unità di area, divisa per la concentrazione del soluto in soluzione. Per porre in relazione tale coefficiente con l’omologo per la matrice rocciosa, Kd, il quale si basa sulla densità di nucleo del materiale, è necessaria una stima preliminare della superficie specifica interna del mezzo, , definita, a sua volta, come l’area delle pareti dei pori esposte al fluido, ed avente l’unità di misura dell’area per unità di massa. In tal modo, la relazione può essere espressa come 36 K d K df (1.13) Il coefficiente di dispersione idrodinamica DL, viene definito conservando la sua caratterizzazione per i mezzi porosi tradizionali D L L v D' (1.14) nella quale L rappresenta la dispersività longitudinale nella direzione dell’asse della discontinuità, e D’ il coefficiente di diffusione efficace, il quale incorpora l’effetto geometrico del percorso del fluido attraverso lo spazio vuoto dei pori. L’equazione che governa il trasporto per la matrice si scrive (Tange et al, 1981) c' D' 2 c' c ' 0 t R' x 2 (1.15) determinata per una frattura singola che penetra un mezzo infinito, in cui c’ rappresenta la concentrazione nella matrice, ed il coefficiente di ritenzione della matrice R’, definito a sua volta come R' 1 b Kd m (1.16) nella quale b rappresenta la densità di nucleo della matrice rocciosa, e m la porosità della matrice. Il termine di perdita diffusiva q nell’equazione 1.11 altro non schematizza se non la portata di massa diffusiva q che coinvolge l’interfaccia matrice-frattura. Ricorrendo alla prima legge di Fick, il termine q può essere scritto diversamente q m D' c' z (1.17) z b Così, l’equazione conclusiva per il trasporto di soluti all’interno della frattura diventa c c 2c c' 2b Ra v DL 2 Ra c 2 m D' x z x t z b 0 (1.18) 37 In una roccia fratturata che comprende anche una percentuale non trascurabile di porosità primaria, la trasmigrazione del soluto dalla frattura alla matrice rocciosa mediante il processo di diffusione, può essere significativa. Al fine di illustrare l’effetto della diffusione all’interno della matrice, il grafico di figura 1.10 utilizza la soluzione dell’equazione 1.18, nel caso riguardante la concentrazione relativa del soluto in una frattura singola, di ampiezza pari a 500 m, che attraversa un mezzo di porosità che raggiunge il 20%. La velocità all’interno della frattura si attesta attorno ai 10 metri giornalieri, con punte minime anche di un solo metro, mentre la dispersività varia tra 0.05 metri e 0.5 metri. L’input di concentrazione è continuo, e il punto di misura si trova a 50 metri dall’immissione. Quello che da subito emerge, è che l’effetto della trasmigrazione di soluto è profondo; talmente profondo, che l’influenza della dispersione idrodinamica sulla diffusione longitudinale del soluto è completamente sopraffatta. Figura 1.10 Profili di concentrazione in una frattura di 0.5 mm, a 50 m dalla sorgente continua. viene illustrata l'influenza della porosità della matrice sul trasporto di soluti in una frattura singola (Tsang Y. W., Tsang C. F., 1987) Il trasporto di soluti dipende inscindibilmente dalla distribuzione delle velocità all’interno della discontinuità. Il tempo di residenza dei soluti è influenzato, invece, dalla distribuzione dei vuoti lungo i percorsi della circolazione comunicanti, e, di conseguenza, dalla lunghezza e dalla tortuosità di tali percorsi. Così, il tempo di residenza può risultare più lungo di quello calcolato teoricamente affidandosi al modello di superfici lisce e parallele, anche se il valore dell’apertura assunta nel modello è stata ottenuta da misurazioni reali. L’area di contatto delle superfici, e la scabrezza delle fratture, determinano uno scostamento dal valore medio della velocità interna, talvolta piuttosto significativo, come hanno messo in evidenza numerosi esperimenti con i traccianti: nello specifico, la velocità misurata supera quella teorica se la scabrezza delle pareti ha direzione preferenziale parallela al flusso. La variazione delle dimensioni dell’apertura ha anch’essa un peso considerevole nella determinazione della dispersione dei soluti. Tsang, ad esempio, nel 1987 mise a punto un modello 38 monodimensionale per il trasporto all’interno di una frattura di apertura variabile, con variazione di apertura spazialmente correlata lungo l’estensione della frattura; i risultati numerici conseguiti misero in luce che modificazioni progressive dell’apertura sono in grado di mutare la “velocità” dei percorsi scelti dal fluido per il trasporto di soluti. Oltre a quanto detto, occorre sottolineare che un altro fattore determinante è la tortuosità e la connettività dei percorsi di circolazione. In un modello nel quale le aperture sono correlate e distribuite secondo una lognormale, Moreno nel 1988 rilevò che la dispersività (sintetizzata nel suo coefficiente ), dipende più fortemente di quanto fosse previsto in teoria dalla varianza della distribuzione dell’apertura. Inoltre, gli effetti di connettività e tortuosità, possono, in talune circostanze, invalidare la legge cubica, come è stato rilevato in più d’un esperimento di laboratorio eseguito a questo scopo. Certo è che, almeno ad oggi, vi è la necessita di studi ed indagini addizionali, in modo da porre più quantitativamente in relazione le proprietà geometriche degli spazi vuoti, interni alle discontinuità, con le peculiarità del trasporto di soluti, così come per irrobustire la correlazione tra l’effettiva apertura e le caratteristiche del trasporto. 1.7 Determinazione parametri caratteristici: cenni sulle prove di campo e laboratorio L’elaborazione, lo sviluppo, la taratura e la validazione di modelli concettuali e poi numerici, sono condizionati dalla disponibilità di misure fisiche a scala di laboratorio ed in situ. Le analisi vengono comunemente basate sulle misure effettuate in corrispondenza delle emergenze superficiali delle fratture, ovvero sulle carote estratte dal terreno, o ancora attraverso tecniche geofisiche o idrauliche. Una preliminare distinzione può essere proficuamente abbozzata: Dati ricavati dalla geologia, vale a dire misure della giacitura delle fratture, della loro lunghezza, dell’apertura, della densità, basate sull’analisi degli affioramenti sulle pareti rocciose e sui campioni ricavati dal terreno. L’insieme di tali rilevamenti viene condotto principalmente in situ, sebbene risultati accettabili possano essere tirati fuori anche da analisi di laboratorio. Generalmente, tale tipologia di dati viene espressa in forme di distribuzioni probabilistiche (Priest e altri, 1976). Dati ricavati da tecniche geofisiche. Un numero considerevole di tecniche geofisiche può essere impiegato per ottenere informazioni addizionali sulle caratteristiche fisiche delle discontinuità. Le tecniche più diffusamente impiegate nella pratica 39 includono i metodi sismici, elettrici e radar, anche se negli ultimi tempi stanno facendosi strada tecniche di indagine in foro. Dati ricavati da tecniche idrauliche e dall’impiego dei traccianti. Le prime vengono condotte attraverso il pompaggio o l’estrazione di un certo volume d’acqua da un foro, isolando pneumaticamente, al contempo, un settore del foro per volta; esse restituiscono utili informazioni sulla conduttività idraulica di una singola frattura o d’insieme. Le seconde, al contrario, al fine di caratterizzare il flusso e le proprietà del trasporto di una singola frattura e d’insieme, ricorrono ad un ampio spettro di modalità con cui iniettare i traccianti ed eseguire i pompaggi. Ulteriore dettaglio di informazioni può essere ottenuto mediante il ricorso a test multipozzo, a test di risposta della pressione, ad iniezione di aria. Ad ogni buon conto, la natura reale e completa della rete di fratture nel sottosuolo è impossibile da determinare attraverso indagini geognostiche, sia pure molto sofisticate, e i risultati finali che è possibile ottenere, richiedono anche un livello non trascurabile di estrapolazioni soggettive: di conseguenza, frequenti semplificazioni e schematizzazioni caratterizzano l’interpretazione dei pochi dati disponibili. Con l’eccezione della puntuale, e per sua natura limitata, conoscenza discendente da indagini geologiche, nessuna delle tecniche di misurazione di cui s’è appena detto misura direttamente le caratteristiche delle fratture: piuttosto, esse stimano la risposta dovuta alla presenza delle fratture. In tal modo, un problema centrale nel quadro della caratterizzazione delle discontinuità si concentra nella distinzione tra ciò che viene misurato e ciò che viene, invece, determinato, e dunque, il processo di elaborazione delle misure diviene, di frequente, un processo modello-dipendente, con la delicata conseguenza della non unicità della soluzione del problema inverso. 40 RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI Bear J., Tsang C. F., de Marsily G.; Flow and contaminant transport in fractured rock ; Academic Press, Inc.; 1993 Custodio E., Llamas M. R.; Idrologia sotterranea; Dario Flaccovio Editore, 2005 De Marsily G.; Quantitative hydrogeology; Academic Press, Inc.; 1986 Delleur J. W.; The handbook of Groundwater engeneering; ENGnetBase, 2005 Di Molfetta A.; Ingegneria degli acquiferi; Politeko; 2002 Faybishenko B., Witherspoon P. A.; Dynamics of fluids in fractured rocks ; AGU geophysical monograph series, vol 122; 2000 Firdleifsson I. 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