C - I PROBLEMI DELLA FILOSOFIA: LA CONCEZIONE DELLA REALTÀ 1
3 -K. Pomian “I problemi della filosofia”
2 - Filosofia della città e tradizione aristocratico-sacerdotale
4 - W. J. Ong “Oralità e scrittura”
5 - J.-P. Vernant”Le origini del pensiero greco”
3 - K. POMIAN –I PROBLEMI DELLA FILOSOFIA
Come parlare della filosofia? e, anzitutto, da dove incominciare?
Di questo problema sono probabilmente possibili parecchie soluzioni. Quella che
abbiamo scelto noi si pone dapprincipio all'esterno della filosofia e cerca di
arrivare ad essa per via indiretta. Cominceremo infatti ponendo la seguente
domanda: quali sono gli oggetti che almeno un gruppo componente la nostra
società riconosce essere esistenti o reali? Vedremo che questi oggetti sono
diversi, che essi possono essere distribuiti tra un certo numero di categorie,
e che agli oggetti di ciascuna categoria si presume corrisponda un rapporto
specifico suscettibile di essere stabilito con essi e altresì un discorso intorno a
questi oggetti, il quale pretende essere un discorso vero, un sapere, poiché gli
oggetti ai quali esso si riferisce sono ritenuti esistere. Finché manteniamo
l'atteggiamento spontaneo, da tutti adottato nella vita quotidiana, questa pluralità
di discorsi, che affermano di essere delle conoscenze, non ci turba. Eppure
questi discorsi non sono semplicemente diversi: sembrano essere, o sono, in
conflitto. Ed è questo conflitto che ci costringe ad abbandonare l'atteggiamento
spontaneo e a domandarci se tutti gli oggetti, che crediamo esistere, esistano;
se tutti i rapporti, che pensiamo siano rapporti con oggetti esistenti, lo siano
davvero; se tutti i discorsi, che affermano di essere dei saperi, siano dei saperi.
Sono strane domande queste. E tali sono perché, mettendo in discussione la
legittimità della pretesa allo statuto di sapere avanzata da discorsi diversi,
costringono colui che le pone a porsi inizialmente al di fuori di tutti quei
discorsi, in uno spazio vuoto. Noi cercheremo qui di mostrare che tutte le
filosofie rispondono a domande di questo genere, e che rispondere a domande
di questo genere è appunto filosofare. ...
Che esistano esseri viventi e cose inerti, come pure oggetti non appartenenti
ad alcuna di queste due classi, è cosa che tutti ammettiamo (pur non
essendone sempre consapevoli e, spesso, senza aver neppure bisogno di proclamarlo) per il semplice fatto di praticare attività diverse, di cui s'intesse la
nostra vita quotidiana: di produrre e di consumare di comprare e vendere,
spostarsi e riposarsi, leggere e scrivere, pregare e osservare, pensare e calcolare, guardare ciò che si offre alla nostra vista e partecipare ad imprese collettive, parlare e far l'amore... Ognuna di queste attività ci costringe, infatti, a
tener conto di qualche cosa differente da noi stessi e tale che dobbiamo ora
adattarci a esso, ora modificarlo con piú o meno fatica. Oggetti nei quali
talora c'imbattiamo porgono una certa resistenza alla nostra azione o al nostro
pensiero, esercitano su questi una costrizione e, in tal modo, si pongono innanzi
a noi come esistenti o reali. E noi li percepiamo spontaneamente come già
dati, come enti che esercitano su di noi una sorta di pressione che insistono
perché noi accettiamo la loro realtà, e noi allora gliela accordiamo talvolta
senza riflettervi, senza considerare in ogni singolo caso i pro e i contro; del
resto, sovente essa ci pare ovvia.
1
.. Si ha ragione di accordare esistenza o realtà (i due termini qui son presi
come sinonimi) a tutti gli oggetti ai quali esse vengono accordate nella nostra
società, se non dall'opinione comune, almeno da quelle di determinati gruppi?
Qualche problema ....
... Quanto all’articolazione interna della sfera di visibilità, al numero di fenomeni che
vi distinguiamo e identifichiamo, ciò dipende manifestamente dall'allenamento degli
occhi. Chiunque può infatti constatare che gli occhi conoscono un processo di
apprendimento, e che determinati oggetti, prima non visti benché soddisfacessero a
tutte le condizioni richieste per esserlo, divengono sensibili non appena si viene
sensibilizzati alla loro presenza. Ora, questa sensibilizzazione è ingenerata da un
sapere (un saper dire o un saper fare) che suggerisce delle domande da porre a
ciò che può vedersi, suscita delle aspettative, orienta lo sguardo. Da tutto ciò
consegue che l'atto di vedere non è né potrebbe essere un rapporto immediato fra gli
occhi, intesi come meramente ricettivi, ed un oggetto che compaia nel campo
visuale.
Lo sguardo è sempre in qualche modo provvisto di informazioni, prima di posarsi su
di un oggetto; il che spiega le difficoltà che incontriamo quando veniamo posti
dinanzi a un oggetto completamente nuovo, e che riconosciamo tale, le piú volte,
solo dopo una serie di tentativi vani di ricondurlo a qualche cosa, se non già vista,
tale almeno che se ne sia già sentito parlare.
… S e si assume che il sapere quotidiano e la scienza forniscano due rappresentazioni
di un medesimo mondo, è evidente che queste saranno non solo differenti, ma
difficilmente compatibili. Infatti, secondo la fisica attuale, l'Universo non e che
una poltiglia di elettroni protoni, fotoni, ecc., tutti esseri dalle proprietà mal definite
in perenne interazione. Come può darsi che codesta poltiglia si organizzi, sulla
nostra scala, in un mondo relativamente stabile e coerente, ben lontano dal caos
quantistico e meccanicistico che la teoria ci suggerisce? ... a noi interessa soltanto
l'accertamento di una incompatibilità fra un mondo rappresentato come «poltiglia
di elettroni » e un mondo composto da oggetti stabili, tra il mondo della scienza e il
mondo della conoscenza percettiva.
... l’esistenza di altri oggetti ancora. Per esempio, la prima persona del singolare
designa manifestamente chi sta parlando ed è visibile, ma, oltre a ciò, un oggetto
che parla, il quale, invece, visibile non è. In effetti, questo oggetto non è identificabile con il corpo, del quale vediamo muoversi le labbra e a cui attribuiamo
l'origine dei suoni che percuotono le nostre orecchie, perché esso è assunto come
fonte di senso e come ricettore di quelli. La psicologia, la psicanalisi e la
linguistica cercano di ricostruire questa fonte di senso.
… Abbiamo sottolineato a piú riprese la funzione svolta dalla fede
nell'ammissione, che ciascuno di noi fa, dell'esistenza di oggetti osservabili (quelli
della scienza) e riproducibili (quelli della storia, della sociologia, ecc...);
senza dubbio, veniamo assicurati che possiamo convincercene da noi, ma
è manifesto che non lo facciamo, giacché tale possibilità è prettamente teorica: il
solo modo di convincersi veramente che esistono neutrini o che sia esistito un
faraone di nome Tutmosi III, è di diventare fisico o egittologo rispettivamente. In
effetti, nella vita quotidiana l'esistenza di oggetti osservabili e riproducibili è
ammessa attraverso un riconoscimento dell'autorità degli scienziati e degli storici,
entrambi i quali costituiscono dei gruppi di professionisti organizzati in istituzioni.
Lo stesso avviene con la fede in Dio; solo che qui vien riconosciuta l'autorità di un
altra istituzione: di una Chiesa o di una setta, di un libro ritenuto frutto di
2
rivelazione o di una tradizione.
Per un non-scienziato, quindi, l'affermazione dell'esistenza di particelle elementari differisce dall'affermazione dell'esistenza di Dio, non logicamente, ossia per il suo fondamento (che, in entrambi i casi, è costituito da un atto di
fede), ma socialmente per la natura dell'istituzione la cui autorità viene riconosciuta. Queste due affermazioni differiscono altresì in quanto che la prima
si ritiene non incida sul comportamento quotidiano dell'individuo, mentre ci si
attende che la seconda fondi il rispetto di talune norme che regolano i rapporti
dell'individuo con gli altri e con se stesso.
… A sentire i discorsi dei corifei delle diverse istituzioni, non si può non esser
colpiti dal posto in essi occupato dal riferimento all'avvenire. Il fatto, in sé, non ha
nulla di sorprendente: è del tutto legittimo ammettere l'esistenza di una condizione
futura della nostra società e di assimilarla a un oggetto provvisoriamente invisibile.
Ma non ci si limita soltanto ad affermare che questo stato futuro della società
perverrà all'esistenza: se ne parla anche come se fosse possibile prevederne i
caratteri principali. È questo, infatti, che si pretende. Gli uni considerano
l'avvenire un prolungamento del presente e assicurano che è possibile
inferirne le linee generali a partire dai caratteri degli oggetti sociali che già ci
sono noti. Si suppone quindi che questi ultimi rappresentino qualche cosa
che ancora non è, ma che tuttavia si lascia in qualche modo cogliere;
contengono (così si dice) delle virtualità, che è possibile studiare fin d'ora,
sebbene la loro attuazione sia condizionale e lontana nel tempo. Altri
considerano l'avvenire opposto al presente per questo o quel rispetto, ossia
per quasi tutti i riguardi, e interpongono fra i due una rottura rivoluzionaria; il che,
tuttavia, non impedisce loro di caratterizzare l'avvenire giovandosi della sua
opposizione nei confronti del presente, e di mostrare quali saranno le
differenze tra quello e questo.
Quanto a chi ascolta codesti discorsi, per lui le descrizioni dell'avvenire, quali che
siano, sono oggetti di fede; li accetta in quanto riconosce l'autorità delle
istituzioni o, dei gruppi che se ne fanno garanti, e che sono altrettante chiese.
da K. Pomian “Filosofia/filosofie”in Enciclopedia Einaudi, vol. VI
3
2 - FILOSOFIA DELLA CITTÀ E TRADIZIONE ARISTOCRATICOSACERDOTALE
L’elaborazione delle concezioni della realtà
La polis greca: aristocrazia e demos
I filosofi della città: Talete, Anassimandro, Anassagora
La tradizione aristocratico-sacerdotale: Pitagora, Eraclito, Parmenide e Zenone
Linguaggio, pensiero e realtà in Protagora e Gorgia
L’ELABORAZIONE DELLE
CONCEZIONI DELLA REALTÀ
L’elaborazione delle concezioni della realtà
Le visioni della realtà della ___________
Tra i compiti specifici che la filosofia si è assunta vi è quello di elaborare una
visione della realtà che risulti conciliabile con tutti i saperi che vengono ritenuti
veri, fondati. All’interno della filosofia antica è possibile individuare come
particolarmente significative quattro diverse concezioni della realtà che hanno
fissato alcune costanti del modo di concepire la realtà della cultura occidentale.
Tali concezioni sono costituite dall’idealismo platonico, dal materialismo antico
(Democrito e Epicuro), dal razionalismo aristotelico e dal vitalismo stoico.
L’idealismo platonico e il materialismo antico sono il frutto delle due tradizioni,
quella aristocratico-sacerdotale e quella dei filosofi della città, che hanno
caratterizzato il dibattito dei primi filosofi (sec. VII-V a.C.), mentre le altre due
concezioni sono il frutto delle elaborazioni successive e per certi versi possono
essere viste come dei tentativi di mediazione tra le istanze dell’idealismo e quelle
del materialismo.
La tradizione aristocratico-sacerdotale e quella dei filosofi della città sono, come
abbiamo accennato, legate allo sviluppo della civiltà urbana che comportò anche
una maggiore complessità dalla vita sociale, dovuta alla presenza di nuovi ceti
sociali che entrarono in conflitto con la classe aristocratica che deteneva il potere.
Tale conflitto si espresse a livello politico, come scontro tra aristocratici e
democratici, e a livello culturale nell’elaborazione di due concezioni contrapposte
che si formarono all’interno di un dibattito plurisecolare.
Le due tradizioni sono strettamente legate a gruppi sociali di riferimento diversi,
gli aristocratici la prima e i nuovi ceti cittadini la seconda, sia, in molti casi, per
la provenienza sociale dei filosofi, sia perché le concezioni elaborate appaiono
consone agli interessi, ai saperi, alla mentalità di gruppi sociali diversi.
Gruppo sociale
di riferimento
Filosofia della città
Tradizione aristocratico-sacerdotale
____________________________
_____________________________
__________________:
1 ________________________________
2 ________________________________
3 ________________________________
4 ________________________________
Tradizione aristocratico-sacerdotale
______________________________
Filosofo della città
______________________________
Sviluppo città
_________________________
Politica
_______________
________________
Cultura
Rivelatori:
1 - _________________________________________________
_______________
________________
2 - concezioni consoni _________________________________
La polis greca: aristocrazia e demos
LA POLIS GRECA: ARISTOCRAZIA E
DEMOS
DAL _______________________ ALLA
La civiltà micenea, che riproduceva in Grecia l'organizzazione sociale tipica delle
monarchie orientali crollò intorno all'XI secolo, dopo che il suo equilibrio interno
_____________________
4
si era gravemente logorato, a causa di una serie di invasioni di popoli stranieri, fra
cui quella dei Dori.
Uno dei principali effetti di queste invasioni fu la migrazione dalla madrepatria
verso le coste egee dell'Asia Minore di una popolazione che poi avrebbe assunto
il nome di Ioni. Fino alla fine dell'VIII secolo, nessuna nuova organizzazione
sociale unitaria sostituisce la distrutta civiltà micenea. Ne restano piuttosto i
frammenti: villaggi isolati, raccolti intorno al tempio e al palazzo del signore
locale (basileus, re) dove vivono,
separati dal resto della popolazione, gli
aristocratici e che detengono il potere militare e religioso. Nella loro migrazione,
gli Ioni riproducono inizialmente le stesse forme di organizzazione. Per tutto
questo periodo, la Grecia appare svolgere, nel contesto del mondo mediterraneo,
un ruolo assolutamente periferico.
Fra l'VIII e il VII secolo affluiscono però dall'Oriente, passando in primo luogo
attraverso la Ionia una serie di innovazioni tecnico-economiche destinate ad
avere profonde ripercussioni sociali. Innanzitutto, la tecnologia dell'estrazione e
della lavorazione del ferro che veniva a sostituire quella del bronzo, il metallo
usato fino a quel momento nelle civiltà orientali e micenea. Non essendo una
lega, il ferro è di lavorazione più semplice; i suoi giacimenti sono assai più
largamente diffusi, ciò che liberava i produttori dalla dipendenza forzosa nei
riguardi di chi controllava le lunghe vie commerciali del rame e dello stagno; gli
utensili prodotti, infine, risultavano più resistenti ed economici di quelli in
bronzo. Tutto ciò determinava la possibilità, anche per comunità non integrate in
vaste organizzazioni politiche, come gli imperi orientali, di procurarsi attrezzi
agricoli ed armi in quantità sufficienti; nei villaggi e nelle nascenti città si
aprivano rapidamente le fucine dei fabbri, di cui abbiamo già una eco, verso la
fine dell'VIII secolo, nei poemi di Esiodo.
Una seconda, fondamentale innovazione fu costituita dal conio della moneta
metallica (oro, argento), da cui gli scambi internazionali ricevettero un fortissimo
impulso. Fra le prime a trarne beneficio furono le comunità ioniche, che venivano
a trovarsi proprio sulla cerniera fra i grandi itinerari commerciali dell'Est e
dell'Ovest, e disponevano tutte, per la loro collocazione costiera, di porti
eccellenti sull'Egeo. Lo sviluppo di un'economia monetaria ebbe presto profonde
conseguenze sociali. Da un lato, esso indeboliva i medi e piccoli coltivatori, usi a
procurarsi il necessario nei mercati locali mediante la pratica del baratto dei
prodotti. Dall'altro, cominciava a determinare la formazione di ceti meno
direttamente legati alla terra: commercianti, cambiavalute, usurai, professionisti
che scambiavano il loro servizio non più contro cibo e doni, ma contro denaro,
uno strumento socialmente assai più efficace.
Tutto questo dava luogo, a partire sempre dalla Ionia, alla rapida trasformazione
delle iniziali comunità agricole in città ad economia mista. La città è, fin
dall’inizio, bipolare. Essa è fondata e diretta dall'aristocrazia (discendente in via
più o meno diretta da quella micenea) che se ne serve come di un centro politico
per la mediazione e l'armonizzazione degli interessi delle grandi famiglie, per il
controllo unificato del territorio e dei traffici che incominciavano a svilupparsi
nel porto e nel mercato, infine per i contatti, ormai indispensabili, con l'economia
monetaria e i suoi agenti sociali. Il polo aristocratico della città è l’acropoli, una
struttura religiosa (vi sono siti i maggiori templi), politica (vi siede il Senato
cittadino) e militare (come fortezza sovrastante la polis) che assicura il dominio
sulla città. Va sottolineato che per tutto il periodo che stiamo considerando, e
salva qualche eccezione, l'aristocrazia rimane legata alla terra come fonte
principale di ricchezza. Il suo rapporto con l’economia commerciale e monetaria
non è di impegno diretto (non si ha un'aristocrazia mercantile come quella che si
sarebbe sviluppata nell'Europa medievale e rinascimentale), ma si risolve
soprattutto nel prelievo fiscale (dazi, imposte, ecc.), e, qualche volta, nel prestito
a interesse agli operatori commerciali. L'altro polo della città è la piazza del
Il _______________________:
organizzazione sociale:
fino XI a.C. : ______________________
fino VIII a.C.:______________________
migrazioni ___________ verso ________
________________
La formazione della ___________ ionica
Cause:
1 –nuove __________________: il ferro
consente __________________________
_________________________________
2 - ______________________________:
uso della moneta metallica
A - + ___________________________
+ importanza porti Egeo
B –emergere nuovi _________________
La città:
______________________________
______________________________
VS
______________________________
______________________________
5
mercato (agorà), dove si muove una folla eterogenea di commercianti al minuto e
di esportatori e importatori, di contadini impoveriti che hanno abbandonata la
campagna, di artigiani, di stranieri privi di diritti politici (i meteci) attratti in città
dalle possibilità di guadagno che essa offre. Questa aggregazione sociale forma il
«popolo», il demos urbano, che si viene gradualmente, ma sempre più consapevolmente ponendo in antitesi all'aristocrazia egemone.
Un'altra innovazione, giunta fra l'VIII e il VII secolo dalla Fenicia, aiuta il demos
urbano a far propri gli strumenti culturali necessari alla propria crescita sociale e
politica: si tratta della scrittura alfabetica. La scrittura micenea, derivata dai
modelli ideografici orientali, per la sua stessa difficoltà era rimasta patrimonio di
un ceto chiuso di sacerdoti e scribi di palazzo, ed era andata perduta insieme con
quella società. Per quasi tre secoli, dunque, la Grecia non aveva conosciuto alcun
tipo di scrittura. La cultura era trasmessa in forma esclusivamente orale, ad opera
dei sacerdoti e dei poeti che cantavano i loro racconti nei palazzi aristocratici. La
scrittura alfabetica, di facile apprendimento e di agevole impiego, si rivelò uno
strumento efficace per la diffusione della cultura tradizionale e anche per la
costituzione, in forme nuove che essa stessa agevolava (la redazione delle leggi
della città e del mercato, manuali professionali, rapporti di viaggio e così via), di
una cultura diversa. Anche se l'insegnamento a livello elementare della scrittura
sarebbe stato introdotto solo nell'ultima parte del V secolo, è certo che la
diffusione dell'alfabeto rappresentò un veicolo potente per la laicizzazione ed una
relativa democratizzazione della cultura.
La tensione politica, sociale e poi anche culturale fra aristocrazia e demos, fra
acropoli e agorà, interessò in forme diverse, nel periodo in esame, tutte le città
greche, determinando nel loro ambito una conflittualità ora latente ora acuta. Va
però messa in rilievo una tendenza ad una distribuzione geografica relativamente
omogenea delle forze. Nella fascia ionica, prima autonoma e poi, nel V secolo,
sottoposta all'egemonia ateniese, il demos tende a prevalere, sia politicamente sia
culturalmente, anche se l’aristocrazia non può certo mai dirsi del tutto sconfitta.
Al contrario, in gran parte della madrepatria greca, della Sicilia e della Magna
Grecia, l'aristocrazia terriera e militare continua ad esercitare una preponderante
egemonia, solo a tratti interrotta da vicende interne e internazionali. Le
contraddizioni raggiungono la massima tensione nell'Atene della seconda metà
del V secolo. A livello internazionale Atene guida una lega democratica in una
guerra decisiva contro la coalizione aristocratica, la guerra del Peloponneso, da
cui esce sconfitta. Sul piano interno, una potente aristocrazia vive un'alterna
vicenda di alleanze e di scontri col demos; essa produrrà, prima, gli equilibri innovatori realizzati da Pericle, poi, alla fine del secolo, tutta una serie di tentativi
per restaurare una tirannide aristocratica. Il IV secolo si aprirà dunque su queste
tensioni irrisolte.
Quanto si è osservato finora sull'organizzazione sociale del mondo greco in
questo periodo, e sulle sue contraddizioni, permette anche di identificare
agevolmente i luoghi nei quali la cultura viene prodotta: da un lato, vi è la cultura
che abbiamo definito
aristocratico-sacerdotale; questa tradizione viene
profondamente innovata e potenziata — senza che ne siano smarriti i caratteri
essenziali — nel VI e V secolo ad opera di pensatori come Pitagora, Parmenide
ed Eraclito. Al lato opposto vi è la formazione di una cultura nuova, quella dei
filosofi della città, a carattere prevalentemente tecnico-scientifico, che risponde
alle esigenze maturate nel demos e nell’agorà. Questa cultura ha i suoi centri a
Mileto nel VI secolo e ad Atene nel V e i suoi maggiori rappresentanti sono
Talete, Anassimandro e Anassagora. Naturalmente, queste due tradizioni non si
sviluppano in un reciproco isolamento. Vi è poi una terza forma di produzione
culturale, quella poetica, che resta legata ai suoi committenti originari, gli
aristocratici (con la parziale eccezione dei tragici ateniesi, più direttamente
coinvolti nello scontro ideologico della città).
Il ruolo della ____________________
dalla scrittura _________________
alla scrittura ___________________
-
+ _______________________
-
+ _______________________
uso
- __________________
____________ saperi
Il conflitto ________________ vs
_________________
distribuzione _____________________:
Ionia + Atene: egemonia
____________________
___________________: egemonia
______________________
Magna Grecia: prevalere _____________
________________________________
(Pitagora, Eraclito, _________________)
_______________________: prevalere
_________________________________
(Talete, ___________________________
6
Un'ultima avvertenza necessaria riguarda la forma dei testi che assicuravano la
trasmissione della cultura. Non bisogna pensare a libri o trattati di tipo moderno.
Nella maggior parte dei casi, il testo filosofico e scientifico rappresenta ancora la
trascrizione di una comunicazione nata in forma orale. Si tratterà così, per la La ____________________ dei testi
cultura aristocratica, di testi di tipo profetico o oracolare, legati alla
comunicazione tipica del tempio; per la cultura legata al demos, della trascrizione
di «conferenze» pubblicamente tenute sull'agorà o nei ginnasi adiacenti. Fanno
eccezione a questo stile ancora semi-orale i manuali relativi alla pratica professionale: si tratta, ad esempio, di testi di matematica e soprattutto di medicina,
destinati alla circolazione all'interno dei rispettivi gruppi di tecnici.
XVII sec. a.C. –XII sec. a.C.: Civiltà micenea
Progressiva penetrazione degli Achei in
Grecia
Civiltà dei Palazzi (Micene, Argo, Pilo)
Monarchie di tipo orientale
Scrittura “lineare B”(sistema sillabico)
XV sec.: Conquista di Creta (fine della
civiltà minoica)
XIII sec. : Spedizione achea contro Troia
XII sec. a.C. – IX sec. a.C.: Medioevo ellenico
Invasioni doriche
Civiltà dei Palazzi, dove vive l’aristocrazia
guerriera
Prima colonizzazione: sulle coste dell’Asia
Minore (Mileto, Samo, Smirne)
La metallurgia del ferro sostituisce quella del
bronzo
La dominazione aristocratica sostituisce il
regime monarchico
Nessun sistema di scrittura
VIII sec. a.C. - VI sec. a.C.: Età arcaica
Formazione delle polis
VIII sec. a.C.: Seconda colonizzazione:
popolazioni greche si trasferiscono sulle coste
italiane (Taranto, Siracusa, Agrigento, Napoli)
Sistema di scrittura alfabetico
Elaborazione dei poemi omerici
VII sec. a.C.: Introduzione della moneta
Codificazioni scritta delle leggi (Draconte ad
Atene)
Esiodo
VI sec. a.C.: Solone (594) e Pisistrato (546-528):
riforma timocratica dello stato ateniese
Clistene (508): riforma democratica dello stato
ateniese
Filosofi di Mileto
V sec. a.C. –IV sec. a.C.: Età classica
L’area geografica in cui è nata la
filosofia
7
Trascrizione poemi omerici
Dal discorso mitologico al discorso razionale
Esiodo (VIII-VII sec. a.C.)
G
R
E
C
I
A
IX sec. V sec. a.C
A (presocratici)
N
T
I
C
A
G
R
E
C
I
A
C
L
A
S
S IV sec.
I a.C.
C
A
Talete (VII–VI sec. a.C.)
L’acqua come principio di tutte le cose
Anassimandro (610-547 a.C.)
________________________________________
Pitagora (570-490)
________________________________________
Eraclito (550-480 a.C.)
________________________________________
Parmenide (prima metà V sec. a.c.)
________________________________________
Zenone (490 a. C -?)
________________________________________
Anassagora (496-428 a. C.)
________________________________________
Protagora (481 a. C. - ?)
________________________________________
Gorgia (480-380 a.C.)
________________________________________
Democrito (460-370 a.C.)
Materialismo antico
Socrate (470-399 a.C.)
Il dialogo e l’anima
Platone (427-347 a.C.)
Idealismo antico
Aristotele (384-322 a.C.)
Razionalismo antico
Il problema delle fonti
La filosofia greca di cui ci occupiamo in questo capitolo è nota come filosofia
presocratica. Il concetto di filosofia presocratica non si riferisce però soltanto ai filosofi
vissuti prima di Socrate ma, generalmente, a tutti quelli, contemporanei o perfino più
giovani di Socrate, che non furono influenzati dal pensiero di Socrate. Questa classificazione risale ad Aristotele, che considerò Socrate una sorta di spartiacque nella storia
della filosofia, soprattutto per l'interesse che Socrate ebbe per le questioni antropologiche.
I filosofi presocratici si occuparono infatti prevalentemente della natura e di questioni
cosmologiche.
Nessuno scritto dei presocratici ci è giunto intero, ne possediamo soltanto frammenti
spesso di pochissime righe o perfino di poche parole. Quindi la nostra conoscenza del
pensiero dei presocratici deve fondarsi su testimonianze indirette, su ciò che i filosofi
successivi ci raccontano di quelli che li hanno preceduti. Data la situazione delle fonti,
l'interpretazione di alcuni aspetti del pensiero nei presocratici è spesso controversa e
congetturale. La migliore fonte secondaria di cui disponiamo è Aristotele stesso, il quale
ebbe la possibilità di leggere gli scritti dei filosofi che lo avevano preceduto. Tuttavia
Aristotele interpreta il pensiero dei suoi predecessori alla luce delle proprie teorie e spesso
tende a sottolinearne gli aspetti che lui considera anticipazioni della sua filosofia. Anche
Platone costituisce una fonte importante di conoscenza della filosofia presocratica, là
dove, nei suoi dialoghi, cita o discute le opinioni degli antichi filosofi. Poiché tutti i
filosofi discutono le opinioni di coloro che li hanno preceduti, si può dire che in genere gli
scritti di tutti i filosofi possono costituire una fonte per conoscere il pensiero di quelli
8
precedenti. Ma siccome i filosofi hanno una loro teoria personale da sostenere, non dobbiamo aspettarci che siano imparziali nel raccontarci il passato.
Un'altra categoria di fonti è quella dei dossografi, cioè di quegli scrittori che hanno
compilato una raccolta di opinioni e dottrine. Il più famoso è Diogene Laerzio (III sec.
d.C.), che scrisse le Vite dei filosofi.
A partire dall'Ottocento, alcuni studiosi di filosofia antica hanno passato sistematicamente
al vaglio i testi classici in nostro possesso, alla ricerca di "frammenti" e "testimonianze".
Poi hanno compilato delle raccolte che al giorno d'oggi possono dirsi praticamente
complete. Accade però ogni tanto che la decifrazione di antichi papiri ci faccia conoscere
qualcosa di nuovo.
I filosofi della città: Talete, Anassimandro, Anassagora
Una nuova società e una nuova visione del mondo
Una nuova spiegazione della natura
Talete: l’acqua come principio
Anassimandro: l’indeterminato come principio
Anassagora di Clazomene: i semi e il Pensiero
Il nuovo tipo di razionalità
Una nuova società e una nuova visione del mondo
Dalla culturale ___________ (aedi) alla
cultura _______________ (____________
La nuova cultura che, come si è visto, viene alla ribalta nell'ambiente delle città
ioniche come Mileto durante il VI secolo, offre alla comunità un servizio
paragonabile a quello degli aedi. Essa si assume, cioè, il compito di elaborare il
patrimonio delle conoscenze sociali, di farlo circolare, di proporre alla
collettività un insieme di risposte ai problemi che questa si pone. Tuttavia
qualcosa è mutato profondamente nella condizione dei nuovi operatori culturali.
La diffusione della scrittura consente di redigere opere scritte che si sottraggono
all'immediatezza della comunicazione orale propria del poeta. Questo determina,
da un lato, una maggior individuazione dell'opera, che reca con sé, nelle vicende
della propria circolazione, il nome dell’autore: dunque anche, da parte dell'autore
stesso, un maggior senso della propria individualità, un distacco dai moduli fissi
di una tradizione in cui il sapere sociale si trasmette anonimamente. D'altro lato
l'opera scritta, e per giunta in prosa, deve recuperare in termini di chiarezza, di
ordine e di rigore concettuale quel che le manca in termini di pienezza emotiva,
propria del rapporto che si instaura, grazie alla recitazione orale, fra il poeta e il
suo ascoltatore. Di qui il nuovo tipo di comunicazione, al tempo stesso più
individuale nella produzione dell'informazione, e più oggettivo nella sua
trasmissione, che i pensatori ionici inaugurano. Tutto ciò corrisponde del resto
alla diversa destinazione sociale del lavoro intellettuale cui sono chiamati.
_______________)
___________________ redazione scritta
dei testi:
1 - + _____________________ opera
+ ______________________________
autore
distacco ________________________
+ _____________________________
2 - ___ emotiva
+ chiara, _______________
+ ______________________
Le conseguenze della diffusione della scrittura
uso -- __________________
(vedi pag. _____)
___________________________
Redazione _______________ testi: 1 ________________________________ 2 __________________________________
Dalla scrittura ________________ alla scrittura _________________
Nell'orizzonte chiuso e insicuro della società seguita al crollo del mondo
miceneo, una società legata alle campagne e ai palazzi di un'aristocrazia ancora
nostalgica di quei passati splendori, il compito affidato ai poeti come gli Omeridi
9
ed Esiodo era stato esattamente quello di fissare un sistema di valori individuali e Una nuova _________________
di gruppo che garantissero la coesione sociale, di stabilire norme di condotta tali
da assicurare un equilibrato rapporto fra l'individuo, la comunità e gli dèi. Ben una nuova ______________________
diversi erano invece i problemi posti dalla società ionica del VI secolo, ormai
avviata a raggiungere una piena maturità urbana, tecnica e commerciale.
Si trattava di ripensare il mondo, quello della natura e quello della tradizione,
secondo l'ottica imposta da una società nuova; a questo compito si dedicarono
uomini come Talete, Anassimandro, Anassimene1, Senofane2 e, più tardi,
Anassagora.
Una nuova spiegazione della natura
I problemi che la nascente riflessione ionica si trova ad affrontare sono
innanzitutto relativi all’esigenza dei nuovi ceti cittadini di conoscere e
appropriarsi dell'ambiente naturale e quindi di superare la
tradizionale
spiegazione religiosa del mondo della natura.
Per una società agricola, compattamente raccolta attorno al palazzo del signore e
al tempio in cui i sacerdoti venerano gli dèi, natura e divinità non costituiscono un
problema: la natura si risolverà nell'insieme dei fenomeni e delle forze che non
dipendono dall'uomo, nel ciclo delle stagioni, nella necessità di una serie ben
regolata e ripetitiva di pratiche indispensabili a far crescere i raccolti; la divinità,
dal canto suo, consisterà nella presenza e nell'azione di una pluralità di dèi, e,
anche qui, nella richiesta che non può venir disattesa di una pratica rituale che
trova la sua garanzia nel ripetersi immutabile di gesti, parole, atti di culto.
Occorre che si verifichi una cesura, una brusca soluzione di continuità nello
sviluppo dell’organizzazione sociale perché queste consuetudini immutabili
vengano trasformate in un oggetto da cui si prendono le distanze, e che viene
sottoposto ad indagine.
La cesura di cui si é detto si verificò nel mondo ionico del VII e VI secolo, a tutti
i livelli della vita sociale. Innanzitutto lo sviluppo delle città, le cui mura
venivano in un certo senso a recidere il cordone ombelicale che aveva legato
l'uomo alla campagna, all'ambiente naturale: l'uomo viveva ora all'interno di un
ambiente artificiale, da lui stesso costruito; si era dunque prodotta nello spazio
dell'esperienza una scissione che distingueva un dentro e un fuori, un «umano» e
un «naturale», una scissione che permetteva di pensare la natura come un tutto
omogeneo e separato dallo spazio propriamente umano, dunque come un oggetto
estraneo da conoscere. Questa situazione era poi accentuata dalla crescita,
all'interno della città di tutta una serie di attività tecniche non direttamente
connesse con quella forma di collaborazione, fra uomo e natura che è
l'agricoltura. Si pensi alle tecniche della navigazione, che sfruttano e perciò
devono conoscere le leggi del cielo, del mare, dei venti; si pensi alla tecnica, in
La ___________________ della natura:
A - in una società _________________
cicli ____________________ 
____________________________
divinità:________________________
- in ___________________________
fattori del cambiamento:
1 –______________________________
separazione tra:
______________ vs _________________
______________ vs _________________
2 - ________________________________
non più ___________________________
1
Anassimene, di Mileto (586-528 a.C.), si occupò soprattutto di meteorologia e di astronomia. Scrisse
un'opera in prosa, cui fu apposto in seguito il titolo Sulla natura, e della quale ci resta un solo
frammento.
2
Senofane, vissuto tra i secoli VI e V, elabora la sua esperienza filosofica nella Magna Grecia, benché
fosse di origine ionica.
Nato a Colofone, in Asia Minore, intorno al 565 a.C., Senofane abbandona la sua città dopo la conquista
persiana (540 ca), viaggia attraverso l'Italia meridionale e la Sicilia, partecipa alla fondazione di Elea e
continua nel suo girovagare fino a un'età molto avanzata (secondo la tradizione, muore quasi centenario
intorno al 470).
Nella sua vita itinerante, Senofane svolge l'attività di rapsodo, recitando in pubblico composizioni
poetiche proprie o altrui. Dei suoi scritti, opere in versi fra cui un poema sulla natura, rimangono alcune
decine di frammenti.
10
qualche misura emblematica, della metallurgia. Il fabbro usa violenza alla terra
per ricavarne i metalli che gli occorrono, li tratta secondo procedimenti ingegnosi
che la natura non ha spontaneamente rivelato, e ne ottiene strumenti con i quali
estendere il dominio umano sull'ambiente. Per questi suoi aspetti, la figura del
fabbro, anche se socialmente necessaria, era sempre stata tenuta ai margini della
società, quasi fosse circondata da un alone di empietà. Ora, nelle città ioniche, il
fabbro e gli altri tecnici suoi simili — il vasaio, il costruttore, ed anche il medico
che non cura più le malattie con procedure rituali e sacre ma con terapie e farmaci
profani — , non solo vengono integrandosi nel corpo sociale, ma pongono con
chiarezza la propria richiesta di partecipare al potere politico e alla gestione
ideologica della comunità.
È in questo quadro che si colloca il principale problema che si sono posti i filosofi
di Mileto quello cioè di identificare uno o pochi principi sufficienti a spiegare
tutti i comportamenti, tutti i mutamenti, tutti i fenomeni della natura. Questa
ricerca del principio o arché cui si dedicarono i primi fisiologi ionici, così
chiamati perché si proponevano di studiare la natura, è, al di là della relativa
rozzezza delle ipotesi formulate, un fatto di fondamentale importanza nella
costituzione del nuovo stile di razionalità: perché significava andar oltre
l'immediatezza degli eventi osservati per scoprirne l’origine, la ragione.
Ciò che nasce a Mileto nel VI secolo è una spregiudicata forma di razionalità
intesa a metter ordine in un mondo di esperienza sociale nuovo, ad assicurarne il
controllo, mediante una stretta unione di capacità tecnico-pratiche e di
elaborazione intellettuale.
ma _______________________________
Filosofi di Mileto:
individuare ___________________
per ____________________ la natura
nuova ________________________:
scoprire _____________/ _____________
delle cose
Talete: l’acqua come principio
TALETE
La definizione di Talete3 (fine VII – prima metà VI secolo a. C.) come
“ingegnoso nelle tecniche”di Platone definisce bene la figura di questo antico
sapiente. Talete agisce nella fiorente Mileto del VI secolo come un avveduto
consigliere politico e soprattutto come il protagonista di una nuova forma di
sapere: pratico, laico, essenzialmente tecnologico. Le cognizioni matematiche
che gli derivano dall'Oriente vengono appunto utilizzate per la soluzione di
problemi pratici: per esempio il calcolo della distanza delle navi in mare, oppure
la previsione di eclissi e di fenomeni meteorologici (da cui Talete, secondo una
testimonianza di Aristotele, non mancò di trarre direttamente un guadagno: in
base alla previsione di un'annata favorevole al raccolto di olive, egli fece incetta
di frantoi, rivendendoli poi a prezzi di monopolio). Delle stesse cognizioni egli
dovette fare applicazioni di tipo ingegneristico, se è attendibile la tradizione
secondo cui Talete deviò il corso di un fiume per permettere il passaggio
dell'esercito di Creso: un episodio, questo, emblematico dell'atteggiamento
aggressivo nei confronti della natura proprio dei sapienti delle città ioniche, della
loro aspirazione ad un dominio tecnologico sull'ambiente.
Sul piano più strettamente teorico, conosciamo soltanto due tesi di Talete, in una
forma fortemente condizionata dalla tradizione filosofica posteriore che ce le ha
conservate. La prima di esse consiste nell'affermazione che tutto (cioè tutto il
mondo della natura) è «pieno di dèi». Tale affermazione è stata vista come una
Talete come ______________________
_________________________:
- ________________________________
_________________________________
- utilizza il saper per _______________
________________
- ________________________________
Le tesi di Talete:
1 - ________________________________:
___________________________________
___________________________________
3
Talete, di famiglia forse non greca, visse a Mileto tra la fine del VII e la prima metà del VI secolo a.C.
Probabilmente non scrisse alcuna opera sistematica. Compì viaggi in Asia Minore e in Egitto. Si occupò
di meteorologia, di astronomia e di geometria; in questi ultimi due campi ebbe conoscenza del patrimonio
scientifico egiziano e babilonese. Gli fu attribuita la previsione dell'eclissi solare del 28 maggio 585 a.C.,
e l'enunciazione e dimostrazione di cinque teoremi di geometria; in entrambi i casi però è certo che la
tradizione ha ampliato i suoi meriti. Svolse attività commerciale e prese parte attiva alla vita politica di
Mileto.
11
rivalutazione del pensiero tecnico, pratico nei confronti del pensiero religioso,
poiché in questo modo la divinità viene a coincidere con la natura oggetto di
studio del pensiero pratico sottraendo la sapienza che proviene dalla divinità al
retaggio esclusivo della casta sacerdotale a cui spettava l’interpretazione della
volontà divina.
La seconda, e più famosa tesi di Talete, è quella che fa consistere nell'acqua (o
meglio nell'elemento umido) il principio della natura, da intendersi nel senso che
essa è l'elemento dal quale i fenomeni vitali traggono la loro origine e la loro
condizione di possibilità, l'elemento generatore e vivificante per eccellenza.
Del significato teorico di questa ricerca di un «principio» sufficiente a spiegare
tutti i comportamenti, tutti i mutamenti, tutti i fenomeni della natura si è detto nel
paragrafo precedente.
Quanto all'identificazione del principio nell'acqua, essa non può sorprendere:
Talete indica come principio costitutivo di tutte le cose l’acqua basandosi sulla
constatazione empirica dell’importanza dell’acqua per la vita; né piante né
animali possono vivere e crescere senz'acqua. Egli è anche sicuramente
influenzato dalle antiche culture fluviali della Mesopotamia e dell'Egitto, paesi la
cui vita dipende dai cicli alluvionali dei rispettivi fiumi, ed è al tempo stesso
l’interprete di una cultura marittima come quella delle città ioniche, la cui attività
è proiettata prevalentemente sul mare; e l'acqua è l'elemento primigenio in molta
parte delle mitologie orientali.
Talete non fondò certamente una scuola a Mileto, né fu l'iniziatore di una corrente
filosofica; piuttosto egli fu uno degli iniziatori di un nuovo stile di pensiero, di un
modo diverso di concepire e di utilizzare il sapere, che in quell'ambiente sociale
erano destinati, nel VI e nel V secolo, a trovare numerosi seguaci.
2 - ________________________________
________________________________:
giustificato da:
a - ___________________________:
importanza dell’acqua per la vita
b - ___________________________:
- ruolo acqua nelle mitologie orientali
- Mileto città marinara
Un __________________________
Anassimandro: l’indeterminato come principio
ANASSIMANDRO
Quel che in Talete era ancora soltanto la proposta di uno stile di ricerca, di un
atteggiamento di pensiero, divenne con Anassimandro4, suo concittadino e
contemporaneo più giovane, un quadro teorico in grado di contrapporre alla
vecchia visione mitico-religiosa una nuova visione del mondo.
Anche Anassimandro (sec. VI a.C.) fu un attivo esponente dei nuovi ceti urbani
prendendo parte sia alla vita politica, guidando la fondazione di una colonia, sia
alla costruzione del nuovo sapere tecnico e pratico proprio di questi nuovi
protagonisti sociali dal momento che la tradizione gli attribuisce la compilazione
della prima carta geografica per la navigazione e la costruzione di un orologio
solare.
In Anassimandro la ricerca del principio di tutte le cose si approfondisce
diventando la ricerca dello stato primordiale da cui hanno origine tutte le cose,
dello stato a cui esse tendono (del loro stato finale) e del motivo per cui esse
sussistono. Secondo Anassimandro lo stato originario è costituito da uno stato di
indeterminatezza (apeiron) da cui le cose emergono tramite una lotta e
sopraffacendosi l’un l’altra (come ad esempio il caldo sopraffa il freddo o
viceversa), scontando però la loro colpa, legata alla sopraffazione, ritornando
nell’indeterminato.
Tale teoria è stata vista come la generalizzazione dell’esperienza sensoriale dei
navigatori sottocosta, sicuramente propria della società in cui Anassimandro
viveva, dal momento che Mileto era una fiorente città costiera che viveva dei
Anassimandro: dallo _______________
_________ a una nuova _______________
_______________________
Anassimandro come __________________
_________________________:
- ________________________________
_________________________________
- ________________________________
_________________________________
4
Anassimandro, di Mileto, nacque probabilmente nel 610 a. C. Prese parte attiva alla vita politica della
sua città, guidando la fondazione di una colonia. Si occupò dell'intera gamma delle scienze naturali allora
esistenti. Scrisse un'opera in prosa, cui fu apposto in seguito il titolo Sulla natura, e della quale ci resta un
solo frammento.
12
commerci marini. Ai navigatori sottocosta, infatti, il paesaggio appare
indeterminato, confuso in lontananza determinandosi, facendosi più chiaro, più
distinto man mano che si avvicinano.
In ogni caso alla base delle riflessioni di Anassimandro sembrano esserci le
osservazioni e le esperienze che derivano dall’elaborazione delle tecniche
necessarie a rappresentare lo spazio e il tempo che la società dell’epoca imparava
a misurare.
Il fatto che la misurazione implichi la definizione delle cose entro limiti e
contorni definiti o che la stesura di una carta geografica richieda la delimitazione
delle diverse terre emerse e dei mari, nonché la loro separazione e opposizione
suggeriscono a Anassimandro l’idea che esista uno sfondo comune, un
contenitore che non ha delimitazioni, è indeterminato .
Anassimandro giunge ad affermare per la prima volta una legge che regola il
corso della natura sostenendo, in un frammento, che : “Da dove le cose traggono
la loro nascita lì si compie anche la loro dissoluzione secondo necessità, infatti
devono reciprocamente pagare, secondo l’ordine del tempo, la colpa della loro
ingiustizia”.
La separazione dall’apeiron originario, che costituisce il processo di
individuazione attraverso cui si formano le singole cose, poiché richiede la
PRINCIPIO = 1- origine delle cose come in _______________ +
2 ___________________________________ +
3 ______________________________________
a _________________________ b emersione delle cose tramite ___________________________
c __________________________________________________
Giustificato da: A - ________________________________________________
B –esperienze tecniche di ______________________________ (___________________) e
__________________________________ (______________________)
_________________-___________________ = definire delle cose entro limiti e contorni
LA LEGGE CHE REGOLA IL CORSO DELLA NATURA: ___________________________ = ingiustizia
_____________
Giustizia = ________________________________________
Caratteristiche: 1 _____________________________________
2 _____________________________________
Giustificata da: B (contesto tecnico)
C - ____________________________: a _______________________________________
b __________________________________________
COSMOLOGIA: terra al ____________ di una sfera (universo) ferma perché _______________________________
Caratteristiche vedi 1 Giustificata da: C/ b
sopraffazione di altre singole cose (la malattia si afferma a spese della salute)
costituisce un’ingiustizia che il tempo (“secondo l’ordine del tempo”) si incarica
13
di superare poiché tutto ciò che nasce è destinato a dissolversi, a ritornare
nell’indeterminato. Il tempo, che come abbiamo ricordato la società in cui viveva
Anassimandro incominciava a misurare, diventa il tribunale che impedisce a un
elemento di sopraffare definitivamente gli altri, l’indifferenziato a cui ciascuna
cosa ritorna è la condizione che garantisce un ordine non più gerarchico, come
nella visione tradizionale, bensì basato sulla ricerca di un equilibrio tra elementi
in contrasto ma uguali, nessuno dei quali deve conseguire un domino definitivo.
Tale legge che regola il corso della natura non viene imposta dall’esterno, come
intervento della giustizia punitiva divina com’era nella mitologia, in quanto
agisce invece come una forma di compensazione che si attua in maniera
immanente dentro il corso dei fatti.
Essa, inoltre, appare profondamente influenzata dall’esperienza politica della
polis sia per il ricorso al concetto di legge di giustizia, lo stesso che Solone aveva
applicato al mondo umano considerando la legge come punizione della
prevaricazione e della sopraffazione, sia per il rifiuto dell’ordine gerarchico che si
richiama all’esperienza democratica della polis e alla conseguente affermazione
dell’uguaglianza di tutti i suoi membri.
Un altro riflesso dell’esperienza sociale della polis, che vuole reggersi non tanto
sulla dominazione onnipotente del monarca ma sull’equilibrio tra le diverse parti
sociali, lo si ritrova anche nella visione cosmologica di Anassimandro che
rinuncia all’immagine mitica di un mondo stratificato in cui la terra sta sotto e i
cieli sono la dimora delle divinità. Egli immagina infatti l’universo come una
sfera al cui centro vi è la terra di forma cilindrica che rimane ferma a causa
dell’uguale distanza da tutte le parti, ossia per una sorta di equilibrio di forze.
Anassagora di Clazomene: i semi e il Pensiero
Verso la fine del VI secolo, le invasioni persiane distrussero l’autonomia e la
prosperità delle città ioniche, e con esse parvero spegnere la vivace attività di
pensiero che vi si era sviluppata. Dopo la vittoria su Serse a Salamina (480),
tuttavia, una coalizione greca guidata da Atene riconquista il controllo dell'Egeo e
respinge i Persiani dalla Ionia. Si forma così una zona d'influenza ateniese alla
quale le città ioniche sarebbero rimaste legate per tutto il V secolo: Atene
sostituisce ora Mileto nel ruolo di centro egemone sul piano politico, economico e
presto anche culturale. Il primo grande pensatore ionico che vi si trasferisce,
«importandovi», come dice la tradizione, «la filosofia», è Anassagora di
Clazomene5.
L'ambiente che trova nella metropoli attica verso la metà del secolo è per molti
aspetti ideale ai fini di una risoluta continuazione dello stile ionico di pensiero.
Un'ala avanzata dell'aristocrazia, sotto la guida di Clistene e poi di Pericle, aveva
rinunciato alla difesa statica dei propri interessi ed aveva accettato di farsi
interprete delle spinte provenienti da un largo ed aggressivo ceto urbano
composto di artigiani commercianti, marinai (il demos). In questa situazione di
equilibrio dinamico, in cui l'aristocrazia avvertiva la necessità di rinnovare il
proprio patrimonio culturale tradizionale, e il demos era alla ricerca di una
ANASSAGORA
Da _______________ a ______________
Atene a metà del V sec:
aristocrazia  _____________________
_________________________________
demos  __________________________
5
Anassagora (500-428) nacque a Clazomene, ma visse ad Atene per un lungo periodo, probabilmente dal
463 al 433. Ivi fu maestro e consigliere di Pericle e tenne pubbliche lezioni; tra i suoi uditori vanno citati
Ippocrate di Cos, Socrate e Tucidide. Fu accusato di empietà dai nemici di Pericle perché diceva che il
sole è un metallo infuocato, e fu bandito da Atene nel 433; si rifugiò a Lampsaco, dove tenne nuovamente
una scuola, e morì nel 428. Si occupò di matematica, astronomia, biologia e medicina. Scrisse un trattato
in prosa, cui in seguito fu apposto il solito titolo Sulla natura, e che egli diffuse fuori dalla cerchia dei suoi
uditori (si tratta probabilmente del primo libro venduto sull'agorà); di esso ci restano numerosi frammenti.
Scrisse anche un trattato, per noi perduto, sulla prospettiva, e forse anche opere di matematica e di medicina.
14
propria ideologia complessiva, si comprende l'importanza del ruolo svolto da
Anassagora in Atene. Consigliere personale di Pericle da un lato, ideologo del
demos dall'altro, egli è in qualche modo la cerniera di quell'equilibrio: quando
questo comincerà ad incrinarsi, verso il 430, lasciando esplodere con violenza le
contraddizioni sociali, Anassagora sarà una delle prime vittime. Processato per
empietà a causa dell'impostazione ateistica della sua astronomia, egli sarà
costretto a lasciare per sempre Atene.
La cosmologia di Anassagora si muove all'interno della tradizione ionica,
rinnovandola tuttavia profondamente. Anche qui vi è una situazione iniziale della
storia dell'universo, in cui «tutte le cose erano insieme», in cui regna cioè una
indeterminazione totale. Non si tratta tuttavia, a differenza delle ipotesi
precedenti, di un materiale primario da cui il mondo si sarebbe generato: nella
indistinzione originaria di Anassagora sono presenti tutti i semi da cui avrebbero
avuto origine le cose, già differenziati qualitativamente ma non ancora aggregati
secondo quelle proporzioni e quei rapporti da cui ogni singola cosa è definita.
Anassagora rinuncia così a presupporre l'esistenza di un qualsiasi principio elementare del mondo. I principi sono in numero illimitato, e sono identici, per
quantità e qualità, ora come all'inizio della storia del mondo; durante questa storia
tuttavia essi hanno dato luogo a relazioni reciproche, a composizioni diverse per
modalità e proporzione, a livelli di equilibrio in cui hanno via via preso forma gli
oggetti del mondo attuale. All'idea di un universo che si sviluppa in modo
rettilineo dall'indeterminazione alla determinazione, Anassagora sostituisce
dunque quella, più complessa, di un mondo i cui vari stadi sono definiti dagli
equilibri e dalle aggregazioni ordinate che si realizzano fra i suoi componenti;
nessun elemento è assoluto o primario, nulla può isolarsi dalle relazioni che
connettono l'intero cosmo; ogni cosa, poi, partecipa dei principi di tutte,
dovendosi la sua individuazione soltanto alla peculiare modalità di
organizzazione e non ad una differenza sostanziale dalle altre.
Il passaggio dall'indistinzione originaria dei «semi» all'organizzazione che
caratterizza il presente stato del mondo, ha luogo, secondo Anassagora, per
l’intervento di un principio ordinatore che agisce dall'esterno su
quell'indistinzione e regola il processo di formazione del cosmo. E qui sta la
seconda radicale innovazione di Anassagora rispetto alla tradizione ionica.
Il principio dell'universo non sta infatti più nella forza «materna» di una sostanza
primaria che genera l'universo e lo nutre di sé. Il principio è il Nous, il Pensiero o
l'Intelligenza, che non genera il mondo ma lo forma, lo organizza secondo un una
legge che esso impone. Qui occorre una importante precisazione. Per Anassagora,
il Nous non è né Dio né spirito, anzi è un principio materiale, sebbene sia la «più
sottile e rarefatta» di tutte le sostanze, e, al contrario di ogni altra cosa, sia puro e
non commisto con la molteplicità dei «semi» della natura. Inoltre, l'azione che
esercita sul mondo non ha nulla di provvidenziale o finali-stico: il processo che
esso mette in movimento è in parte meccanico (il vortice originario che decanta,
come il tornio del vasaio, l'originaria indistinzione dei «semi»), in parte
embriologico (la crescita differenziata dei singoli oggetti naturali). L’introduzione
da parte di Anassagora di un principio tendenzialmente esterno alla natura e
«dominatore» di essa, di un principio «paterno» in quanto legislatore e garante
degli equilibri costitutivi del mondo, rappresenta una effettiva rottura teorica ed
esprime una svolta profonda verificatasi nella coscienza sociale. Alla metà del V
secolo, e da un'ottica ateniese, i contorni del mondo sono assai meno inquietanti
di quanto lo fossero un secolo prima, i popoli esterni ormai noti e sconfitti, le
tecniche, come i loro agenti sociali, mature e aggressive; il destino del mondo
sembra più che mai dipendere dai progetti razionali dell'uomo della città, dagli
equilibri che esso riesce ad instaurare. Tutto ciò pur sempre nell'alveo della
tradizione ionica, ma la certezza che vi si accompagna ha una solidità senza
precedenti.
Anassagora
consigliere di ____________ (aristocrazia)
ideologo ___________________________
Stato originario = illimitati ________
diversi per _______________ e
__________________________
Stati successivi = aggregazione _________
a formare le singole cose
ma i _____________ rimangono ________
_________________________________
dall’universo ____________________
di ___________________________
all’universo _______________________
di ____________________________
Il ______________________ (Nous) come
___________________________________
caratteristiche:
1 non ______________ il mondo ma
___________________________
2 non è _______________ perché
___________________________________
3 non impone un _________________
ma mette in moto un processo __________
___________________________________
dalla ______________________________
___________________________________
al _________________________________
__________________________________
giustificato da _____________________
_________________________________
15
Così, benché il Nous di Anassagora non abbia, a livello cosmologico, nulla di
antropomorfico, è naturale che, nel mondo storico, esso trovi un diretto
equivalente nell'attività delle tecniche umane.
Anassagora riprendendo le scoperte di Alcmeone, un medico esponente della
scienza ionica, concepisce la conoscenza come ricerca e il cervello come suo
organo centrale. Ma vi reca un'importante innovazione, affermando che la
conoscenza si sviluppa attraverso «l'esperienza, la memoria, il sapere e la
tecnica». L'esperienza e la sua accumulazione nella memoria sono quindi le fonti
del sapere. Ma il sapere non è fine a se stesso, anzi culmina nelle sue applicazioni
tecniche. E si tratta proprio delle tecniche, certo razionali ma legate
intrinsecamente al lavoro manuale, come quello del fabbro o del medico:
Anassagora lo conferma quando sostiene che «l'uomo è il più intelligente degli
animali grazie al possesso delle mani». Le mani garantiscono infatti da un lato un
rapporto più ricco con l'esperienza, dall'altro, se guidate dal sapere, una
appropriazione anche conoscitiva della natura altrimenti impossibile.
Anassagora non esprime qui soltanto l'ideologia della città giunta al suo pieno
sviluppo; egli si ricollega piuttosto direttamente a quel demos artigianale che
pone ormai la sua candidatura, contro l'aristocrazia, ad una egemonia di fatto e di
diritto sulla città stessa. Non fa meraviglia, allora, che nell'astronomia di
Anassagora il cielo non sia più popolato da astri divini ma da pezzi di metallo
incandescente, proprio come quelli che il fabbro maneggia nella sua bottega; ed è
logico, dunque, che Anassagora sia stato il primo bersaglio di una controffensiva
aristocratica che vedrà alla fine soccombenti il demos e la cultura che, da Talete
in poi, ne era venuta esprimendo le esigenze.
Nous e _________________________
Il cervello come ___________________
________________________________
Esperienza + ____________________ =
______________________
_______________________
_____________
uomo = animale
più intelligente
____________________________ : nuovo
ruolo sociale e politico dei ceti artigianali
Cosmologia:
corpi celesti = ______________________
DIFFERENZE ANASSAGORA / ANASSIMANDRO
Il nuovo tipo di razionalità
IL NUOVO TIPO DI RAZIONALITA’
Il tipo di razionalità che è all’opera nei filosofi ionici consiste dunque nel
selezionare all’interno dell’esperienza osservativa o tecnica un gruppo di
fenomeni ritenuti di importanza fondamentale per generalizzarli ed assumerli a
principio.
Per questo possiamo affermare che ai filosofi della città è legata l’elaborazione
del metodo induttivo. Tale metodo parte dall’osservazione dei casi particolari per
arrivare a stabilire un principio generale/legge.
Infatti, utilizzando il metodo induttivo si parte dall’osservazione dei casi
particolari tratti dall’esperienza per arrivare generalizzando a un principio, legge
che si applica a più casi. Così, ad esempio e come abbiamo già detto, Talete parte
dall’osservazione empirica dell’importanza dell’acqua per le piante, gli animali,
l'uomo per arrivare alla conclusione che l’acqua costituisce il principio di tutte le
cose.
Tale metodo, nella misura in cui ricorre ad ipotesi generali per spiegare vasti
gruppi di fenomeni, è stato considerato come l’espressione embrionale del
moderno metodo scientifico o comunque delle scienze naturali che anch’esse
Esperienza ________________________
_________________________________
Il metodo _______________________:
__________________________________
__________________________________
es _____________________
16
andavano trovando le loro prime espressioni (ad esempio la biologia, la
medicina6). Evidentemente tale scienze non si basavano, come quelle moderne, su
un metodo sperimentale, ma semplicemente sull’osservazione puramente
empirica tratta dall’esperienza quotidiana.
In ogni caso, rispetto alle tradizione mitica precedente, i filosofi della città
tendono ad andare oltre all’immediatezza degli eventi osservati per passare,
soprattutto in Anassimandro e Anassagora, dal piano concreto al piano astratto.
Infine, allontanandosi ancora una volta dalla mitologia, non vi è una
personificazione anche quando qualche elemento viene considerato di natura
divina.
differenze con scienza moderna:
osservazione non _____________________
ma _______________________________
dal piano ________________________
al piano ____________________________
La tradizione aristocratico-sacerdotale: Pitagora, Eraclito, Parmenide e Zenone
Pitagora: ____________________________________________
Eraclito: ____________________________________________
Parmenide: ____________________________________________
Zenone: ____________________________________________
_________________________________________________
La città greca non comprende soltanto la piazza del mercato, le sue attività e le
sue tecniche; essa non è popolata soltanto da artigiani, medici, ingegnosi studiosi
della natura. Al polo opposto, e in posizione dominante, sta l’acropoli con i suoi
templi, i suoi tribunali, gli edifici del senato cittadino; e l'acropoli è governata dai
membri di quelle grandi famiglie aristocratiche che per antica tradizione
detengono le supreme funzioni sacerdotali, l'amministrazione della giustizia, il
reggimento del potere. Sono state queste famiglie a fondare le città e, all'origine,
a regnare su di esse. La loro forza viene dalla ricchezza terriera congiunta con una
sapienza sacra, intorno agli dèi e ai destini del mondo, che lunghe generazioni di
sacerdoti hanno raccolto e custodito nei templi.
Questa connessione fra potere politico e sapere sacro aveva dietro di sé una lunga
tradizione, dalla remota antichità delle civiltà babilonese ed egiziana fino ai regni
micenei, ma nella nuova situazione sociale delle città greche fra il VII e il V
secolo, l’egemonia sociale e il potere politico delle classi aristocratico-sacerdotali
e il loro sapere mitico-religioso viene, come abbiamo visto, duramente attaccata
e contestata da ceti diversi, protagonisti di attività e di forme di sapere estranee a
quella tradizione.
Di fronte a questo attacco il sapere aristocratico-religioso dimostra di sapersi
________________________________
Vs
_________________________________
Il sapere ___________________________
connesso con ______________________
6
Ippocrate di Cos, vissuto forse fra il 460 e il 370 a. C., fu il caposcuola della scuola medica di Cos, la più
avanzata del V secolo; insegnò medicina ad Atene e già durante il IV secolo era considerato il massimo
medico greco. I bibliotecari del Museo di Alessandria raccolsero sotto il suo nome tutte le opere di
medicina del V e IV secolo, creando il cosiddetto Corpus hippocraticum, che comprende una settantina di
trattati e che costituisce la maggiore collezione di testi scientifici antichi a noi pervenuti. Molte di queste
opere hanno il carattere di pubbliche conferenze; altre di manuali per il medico pratico. Il livello di
consapevolezza metodologica è dovunque assai elevato; lo spirito è decisamente razionalistico, e continue
sono le polemiche contro la superstizione magico-religiosa e la ciarlataneria dei medici privi di una sicura
base scientifica. Sul piano medico, i livelli più elevati si toccano probabilmente in campo chirurgico e
nella comprensione dei rapporti fra organismo, regime alimentare ed ambiente. Piuttosto arretrate invece
l'anatomia e la fisiologia. Sul piano terapeutico gli Ippocratici preferiscono ricorrere, anziché ai farmaci,
al regime dietetico, cioè ad una terapia paziente e complessiva dell'organismo ammalato, che comprende
non solo gli alimenti, ma gli esercizi fisici, i bagni e così via.
17
rinnovare abbandonando le vecchie forme: la tradizionale saggezza mitologica, il
moralismo ingenuo, le forme primitive di teologia antropomorfa. Le nuove forme
di razionalità teorica che elaborano Pitagora, Eraclito e Parmenide, sicuramente i
maggiori protagonisti di questa tradizione, mentre lasciano intatto l’essenziale
della tradizione cui questa aristocrazia si richiama, si dimostrano in grado di far
emergere per la prima volta nuove ed efficaci risorse della ragione umana:
matematiche, logiche e dialettiche.
Per chi detiene, da sempre, le chiavi che gli consentono l'accesso al tempio, che
gli aprono quelle «Porte» (come dirà Parmenide) al cui interno è custodita la
divinità e la sapienza sacra che ne deriva, il rapporto con la verità non può certo,
avvenire secondo le modalità che Senofane7 aveva descritto. Non può cioè
trattarsi di una ricerca faticosa e prolungata, nel corso della quale gli uomini, una
generazione dopo l’altra, vengono estendendo il loro sapere e il loro controllo
sulla natura. Questo sapere è laico nei suoi contenuti naturalistici, profano perché
accessibile a tutti i ricercatori, quindi volgare agli occhi dei discendenti di stirpi
di re e sacerdoti. Il loro accesso alla verità è diverso, e non può comportare né il
ricorso alla fatica dei sensi, né il lavoro delle mani, né l'imperfezione di un
progresso mai concluso. Per Pitagora, per Eraclito, per Parmenide la verità è
invece il contenuto di una rivelazione che la divinità elargisce loro, scelti per
questo dono in virtù della loro preparazione ad accoglierlo, delle loro doti in
qualche misura sovrumane. La verità viene così rivelata, tutta insieme, a una
cerchia ristretta di «iniziati» (secondo la terminologia religiosa dei «misteri», in
cui la divinità appariva appunto a chi aveva terminato i riti di iniziazione,
escludendo i profani); e l'iniziazione qui non è solo personale, ma anche dinastica
ed ereditaria. Il saggio, che ha ricevuta questa rivelazione, viene posto con ciò
stesso al di sopra della folla numerosa come l'uno sta al di sopra dei molti
(Pitagora), l'immortale al di sopra dei mortali (Parmenide), il desto al di sopra
dei dormienti (Eraclito).
L’abbandono delle _________________
tradizionali:
- ______________________________
- ______________________________
- ______________________________
I protagonisti: _______________________
__________________________________
Le nuove forme di ___________________:
__________________________________
Il generale disinteresse per il lavoro manuale,
per le pratiche della produzione e il disprezzo
sociale che circondava i lavoratori manuali
(schiavi e artigiani) si espresse nella
emblematica figura del dio Efesto, signore della
metallurgia e del lavoro. Il fabbro dell'Olimpo
era un dio storpio, gobbo senza alcuna dignità,
ridicolizzato crudelmente dal resto della
famiglia olimpica e persino dagli uomini.
Rispetto
a
questa
cultura
religiosa
caratterizzata da uno scarso interesse per la
tecnologia, la valorizzazione delle tecniche
appare come specificità della cultura ionica.
Un tratto comune a tutti questi pensatori è dunque il modo con cui alla verità,
della quale essi si sentono depositari, si arriva. Ma altri se ne possono indicare.
Per i filosofi della città che intendono valorizzare il sapere prodotto dai nuovi ceti
urbani, artigiani, mercanti, architetti, ingegneri o medici, il sapere ha innanzitutto
un valore pratico, deve essere utile. Per la tradizione aristocratico-sacerdotale,
invece, il sapere conserva una funzione che lo lega non tanto alle attività pratiche
quanto, invece, alla sfera della religione, del sacro. Così ad esempio Pitagora, il
primo esponente di questa tradizione, fondò una setta religiosa ed è presentato
come una figura di guaritore-santone o un discendente diretto della divinità.
7
Per Senofane vedi nota 2
18
Ancora, Eraclito, la cui famiglia secondo la tradizione era di discendenza regale e
conservava prerogative sacerdotali, consegnò il testo della sua opera al tempio
perché lo conservasse. Opera di cui ci sono rimasti circa 120 frammenti costituiti
da massime, sentenze, brevi ragionamenti espressi in un linguaggio oscuro e
profetico influenzato dallo stile ieratico-liturgico proprio della tradizione
sacerdotale.
Poiché attribuiscono un valore diverso al sapere, le due tradizioni si differenziano
anche nel modo di intendere il rapporto tra sensi e ragione.
Per i filosofi della città occorre che la ragione spieghi il mondo così come appare
ai sensi nel corso dell’esperienza, mentre per i filosofi della tradizione
aristocratico-sacerdotale vi è una totale opposizione tra sensi e ragione dal
momento che i sensi ci rivelano il mondo così come appare mentre la ragione la
realtà vera.
Proprio perché vogliono capire il mondo, la natura, così come lo conosciamo
tramite la nostra esperienza, i filosofi di Mileto si ripromettono di ricercare il
principio costitutivo e l’origine di tutte le cose.
Al contrario per i filosofi della tradizione aristocratico-sacerdotale i sensi o ci
rivelano una verità solo apparente (Parmenide) o parziale (Eraclito) che si ferma
al disordine (caos) legato al continuo divenire e mutare delle cose, mentre la
ragione giunge a cogliere l’ordine (kosmos) più o meno segreto, che deve reggere
l'apparente disordine del mondo e della storia, e alla contemplazione (theoria), in
cui si riassume l’atteggiamento del sapiente che osserva il mondo per
riconoscervi quell'ordine. Di queste idee è, innanzitutto, importante rilevarne
l'origine religiosa e sociale. Nell'uso arcaico, kosmos significa l'ordinamento
della processione, del rito sacro, l'arredo del tempio e l'abbigliamento del
sacerdote; theoria l'atteggiamento dei partecipanti al rito, convenuti per osservare
(theorein) le manifestazioni visibili della divinità.
L'antico mondo della tradizione orientale e micenea, basato sul sistema reggiatempio-agricoltura, rivelava chiaramente l'ordine immutabile, il piano divino che
lo reggeva. I re e i sacerdoti si succedevano secondo ben definite regole
dinastiche, i raccolti si susseguivano nel rispetto delle invariabili leggi naturali.
Nella crisi del VI secolo questo ordine appare infranto e perduto. L'instabilità
della vita sociale, l’avvicendarsi delle forme politiche, il rapido sviluppo di
tecniche non agricole, definiscono l'immagine di un mondo umano e naturale in
continua e incontrollabile trasformazione: quello che per i portavoce del punto di
vista democratico è il progresso, appare invece un disordine caotico, privo di ogni
legge e di ogni limite, ai pensatori legati alla tradizione aristocratica.
Al di là di questo disordine, occorre allora riscoprire l'ordine reale del mondo, il
kosmos, che non può essere venuto meno perché esso è di origine divina. Alla
scoperta della chiave dell'ordine collabora in modo decisivo la divinità stessa,
che, come abbiamo visto illumina la mente del saggio.
Relativamente al modo di procedere della conoscenza è possibile stabilire
un’ulteriore differenza tra le due tradizioni. Infatti, mentre i filosofi della città,
come abbiamo visto privilegiarono, mettendolo a punto, per così dire, il metodo
induttivo, altrettanto fecero, i filosofi della tradizione aristocratico-sacerdotale per
quanto riguarda il metodo deduttivo.
Per i filosofi della tradizione aristocratico-sacerdotale se alla scoperta della verità
collabora in maniera decisiva la divinità o la capacità di intuire la verità che
illuminano la mente del saggio, spetta alla ragione del saggio sviluppare tutte le
implicazioni della rivelazione o dell’intuizione originaria.
Le forme di razionalità che vengono utilizzate per elaborare questa intuizione
originaria condividono tutte una struttura prevalentemente deduttiva. Tale metodo
inverte il rapporto caso particolare  principio/legge, tipico del metodo
induttivo, in quanto parte dal principio/legge caso per arrivare al particolare.
Dati certi principi accettati come veri perché intuiti o rivelati in via puramente
19
razionale, cioè senza far ricorso ai dati sensoriali o all’esperienza, attraverso una
serie di passaggi consequenziali se ne ricavano tutte le implicazioni.
Tale metodo che è appunto quello deduttivo è tipico della matematica, della
geometria e della logica che in quello stesso periodo, negli stessi ambienti e
spesso con gli stessi protagonisti, vedi Pitagora per le prime due e Parmenide per
la logica, si andavano affermando come scienze.
Il processo cognitivo è dunque caratterizzato da due momenti:
l’intuizione/rivelazione dei principi ritenti veri e la deduzioni ricavate senza far
ricorso ai dati percettivi (all'esperienza).
Accettati i principi da cui si parte (a cui la rivelazione dà autorità) si ottiene in
questo modo un sapere necessario, nel senso che le implicazioni ricavate vengono
necessariamente riconosciute come vere; un sapere universale ed eterno, perché le
conseguenze a cui si giunge valgono per tutti in ogni tempo e luogo. Questo
sapere è razionalmente puro, cioè non implica per la sua costruzione e per la sua
conferma il ricorso all'indagine dei sensi e al lavoro delle mani: è gerarchico nel
senso che stabilisce un chiaro rapporto di dipendenza fra principi, sviluppi e
conclusioni. Esso esprime quindi, nelle stesse regole che presiedono alla sua
costruzione, la convinzione che nel mondo e nella società esista un ordine
stabilito per sempre, e che si tratti di un ordine in cui i saggi dominino sugli
ignari, i pochi sui molti, gli immortali sui mortali.
Questo modo di concepire la verità, questo tipo di costruzione del sapere, e la
concezione del mondo gerarchizzata che sta loro dietro, comportano, per tutti i
pensatori di cui ci stiamo occupando, l'introduzione di una lunga serie di scissioni
e di contrapposizioni all'interno della loro visione della realtà. Si tratta di
scissioni e contrapposizioni che a noi risultano familiari, ma che nascono proprio
in questo orizzonte di pensiero. Ecco dunque il formarsi di numerose coppie
concettuali, in cui il primo membro è contrassegnato positivamente e il secondo
negativamente: la realtà (stabile, ordinata, divina) e l'apparenza (caotica,
mutevole, ingannevole); l'essere (vero) e il divenire (illusione, apparenza); la
ragione (che riconosce l'ordine del mondo e costruisce un sapere che lo
manifesta) e i sensi (che sono ingannati e confusi dall'illusione dell'apparenza);
l'anima (che recepisce la rivelazione divina, ed è la sede della vera ragione) e il
corpo (che è immerso nel divenire, ed è vittima dell'inganno dei sensi); l'uno (il
saggio che è destinato alla rivelazione e all'esercizio del potere) e i molti (il
demos, il volgo ignaro e presuntuoso, che si ribella alla verità e al potere
legittimo)
Il tentativo, da parte dei filosofi della città di dare una spiegazione unitaria alla
realtà è riscontrabile già nell’obiettivo dichiarato dei filosofi di Mileto che si
ripromettono di ricercare “il principio di tutte le cose”, la loro origine comune, o,
ancora, nel superamento della contrapposizione tra divinità e natura con
l’identificazione della prima nella seconda che abbiamo visto operato da Talete.
Queste caratteristiche della visione della realtà elaborate dalle due tradizioni
possono essere considerate la prima formulazione delle prospettive caratterizzanti
l’idealismo e il materialismo antico.
L’elaborazione di una completa concezione della realtà consona alle due
tradizioni, come abbiamo accennato sopra, è legata,
per la tradizione
aristocratico-sacerdotale, all’opera di Platone (V-IV sec. a.C.) che ammetterà
l’esistenza di due livelli della realtà di cui uno, quello non materiale,
soprasensibile, ideale, costituisce la realtà vera che condiziona, guida la realtà
materiale, sensibile ( idealismo antico), e, per i filosofi della città, a Democrito,
dapprima, e a Epicuro (IV-III sec. a.C.), in seguito, per i quali esista un unico
livello di realtà, quello materiale, retto da leggi naturali ( materialismo antico).
20
________________________
Funzione del sapere
Rapporto sensi-ragione
Filosofia della città
Tradizione aristocratico-sacerdotale
Senofane: ______________________________________________
1- ____________________________________
Talete: ________________________________________________
Parmenide: ________________________________________
Funzione ___________________________________
Funzione ___________________________________________
- Talete: ________________________________________________
- ______________: - ________________________________________
- __________________: ___________________________________
- _______________: ________________________________________
Il mondo come appare ai sensi (l'esperienza) va spiegato
razionalmente
I sensi ci rivelano un mondo apparente, la ragione la realtà vera
_________________________________________________________
La ricerca del principio __________________________
______________________
Metodo _______________________________
Metodo ______________________
_______________________: casi particolari tratti dall'esperienza
Principio (rivelato, intuito): __________________
Generalizzazione: ______________________________________
____________: implicazioni, conseguenze, spiegazione casi particolari
Talete:
_________________________________________
Parmenide:
______________: SE l'essere è e il non-essere non è
__________________________________________
conseguenza:
Tipo di scienze: _____________________________________
ALLORA ________________________________
PERCHE' ________________________________
accettati come veri i principi di partenza il sapere risulta: __________
________________________________________________________
21
Processo cognitivo:
Intuizione/Rivelazione: __________________  Ragione: _________
__________________________________________________________
Tipo di scienze: ___________________________________________
_______________________
Visione _______________________della realtà
Visione della realtà caratterizzata _______________________________
Talete: - _______________________________________________
Parmenide: ___________________vs ________________________
- _______________________________________________
Pitagora: ____________________ vs ________________________
Democrito: _____________________________________________
Eraclito: _____________________ vs ________________________
Platone: ___________________________________________________
Tipo di razionalità:
1 –___________________________________________________ Talete: _____________________________________________________
Parmenide:___________________________________________________
2 –___________________________________________________ Anassimandro:_________________________________________________
Parmenide:___________________________________________________
3 –___________________________________________________
22
PITAGORA
Pitagora: ____________________________________________
La figura di Pitagora8 è quella che meglio riassume in sé tutti i tratti caratteristici
del filosofo legato alla tradizione sacerdotale. I misteriosi e sovrannaturali poteri
di cui sembrava dotato, l'ispirazione divina che guidava le sue parole, ne fecero,
ancor vivo, un personaggio quasi leggendario; egli stesso si diceva discendente da
Apollo per via di successive reincarnazioni della sua anima. Altrettanto
importante, per delineare la sua figura è la setta aristocratica che si raccolse a
Crotone attorno a Pitagora. Si trattava da un lato di un'associazione religiosa (la
casa di Pitagora, in cui la setta si riuniva, venne presto considerata un tempio), i
cui adepti erano ammessi alla rivelazione del sapere del maestro, e vincolati al
segreto intorno alle dottrine più importanti. Ma si trattava, al tempo stesso, di un
centro di studi scientifici, certo sviluppati in virtù del loro valore teologico e
morale, come si dirà più avanti.
I contributi scientifici della scuola pitagorica sono sati importanti soprattutto per
quel che riguarda la matematica, la geometria, la medicina, l’astronomia e la
musica. In tutti questi campi, pur non arrivando mai a liberarli del tutto dalle
pratiche magico-religiose ad essi connessi, l’opera dei pitagorici costituisce il
primo tentativo di razionalizzarne le problematiche.
Infine, la setta rappresentava anche un potente gruppo politico, ad indirizzo
aristocratico ed ultraconservatore, il cui potere si estendeva su Crotone e larghe
zone della Magna Grecia. La setta rimase molto potente almeno fino alla metà del
V secolo quando una rivolta democratica la spazzò via da tutte le città, tranne
Taranto che ancora all’inizio del secolo successivo era governata da Archita,
l’ultimo dei pitagorici ad avere una posizione politica di rilievo, che fu tra gli
ispiratori del progetto filosofico-politico di Platone.
Dal punto di vista teorico sulla base delle testimonianze e dei frammenti in nostro
possesso, non è possibile distinguere adeguatamente la dottrina originaria di
Pitagora da quella della scuola da lui fondata.
La maggior parte delle nostre fonti si riferisce infatti alla generazione dei pitagorici vissuti tra il V e il IV secolo (la cosiddetta "seconda generazione" del
movimento, che ha in Filolao9 l’esponente più importante) e non precisa quali
delle dottrine attribuite a questi filosofi fossero già appartenute a Pitagora e ai
suoi primi seguaci. Nel ricostruire la filosofia del pitagorismo va pertanto tenuto
presente che si tratta di teorizzazioni più volte rielaborate, lungo un periodo di
tempo molto vasto che copre almeno due secoli, dalla metà del VI fino all' età di
La figura ____________________ di
Pitagora
La setta pitagorica:
1 - ______________________________
2 - _______________________________
___________________________________
matematica, geometria, medicina,
astronomia e musica
3 - ________________________________
__________________________________
Le fonti
8
Pitagora, figlio forse di un incisore di monete, nacque attorno al 570 a.C. a Samo nella Ionia. Per ostilità
al governo di Policrate, che nel 535 circa era divenuto tiranno di Samo e svolgeva una politica avversa
alla grande aristocrazia terriera, nel 530 si trasferì a Crotone. Qui fondò una setta iniziatica, le cui dottrine
erano tramandate oralmente e non dovevano essere rese note all'esterno. Già presso i Pitagorici della
seconda generazione divenne una figura semidivina: gli vennero attribuiti miracoli e ogni innovazione
dottrinale venne sempre ricondotta al suo insegnamento e in questo modo garantita. Ciò rende impossibile
una ricostruzione precisa delle dottrine professate dal Pitagora storico; esse comunque consistettero
soprattutto in una cosmologia e in una numerologia, che di tale cosmologia costituiva il fondamento. Nota
è la storia politica del primo pitagorismo. La setta poco dopo la sua fondazione assunse il governo di
Crotone e vi svolse una politica rigidamente antidemocratica. Nel 510 Crotone su consiglio di Pitagora
affrontò in guerra la democratica Sibari e la distrusse. Negli anni successivi altre città della Magna Grecia
furono governate da Pitagorici. Nel 500 circa una rivolta democratica abbatté il governo della setta a
Crotone; Pitagora fuggì a Metaponto, dove poco dopo morì, lasciandosi morire di fame nel tempio delle
Muse. La setta rimase però potente nella Magna Grecia fino al 454, quando una seconda rivolta democratica la spazzò via da tutte le città, tranne che da Taranto.
9
Filolao, originario della Magna Grecia, fu, ancor giovane, tra i Pitagorici che si rifugiarono in Grecia in
seguito alla rivolta democratica del 454 a.C. Fu attivo soprattutto a Tebe fino alla fine del V secolo. Fu tra
i primi a mettere per iscritto alcune dottrine della setta, dopo averle notevolmente rielaborate. Si occupò
soprattutto di matematica e di astronomia.
23
Socrate e di Platone.
Le dottrine fondamentali del pitagorismo si possono racchiudere nell'arco di due
opposizioni, che riflettono l'opposizione fondamentale fra il bene e il male: quella
fra anima e corpo, e quella fra limite (ordine) e illimitato (disordine/caos).
LE TEORIE PITAGORICHE
1- _____________________(bene) _________________ (male)
dall’opposizione fondamentale ________ / __________
2- _____________________(bene) _________________ (male)
1 –L’OPPOSIZIONE ___________________________
_____________________  sorte anima
se ____________________ dettato da _______________________________
allora anima = _______________del corpo  ciclo _____________________
liberazione anima = ____________________________ attraverso non ______________________ ma ________________________
____________________ del corpo con pratiche magico simboliche
Con ogni probabilità la tesi dell’immortalità dell’anima, costretta a incarnarsi via
via in corpi sempre diversi, trasmigrando dall'uno all'altro dopo la morte fisica di
ognuno di essi, fu elaborata fin dal primo pitagorismo, a cui spetta dunque il
merito di aver introdotto nella filosofia un’altra tematica, quella relativa all’uomo,
che sarà destinata a caratterizzare il dibattito filosofico a partire da Socrate.
Al pitagorismo e all’orfismo, che si diffuse anch’esso nel VI secolo, si deve
l’elaborazione dell’idea della dipendenza della sorte dell’anima individuale dal
comportamento per cui se il corpo, che è la prigione dell'anima, riesce a
coinvolgerla nella sua impurità, a contaminarla con i suoi desideri, i suoi istinti, i
suoi bisogni materiali, l'anima sconta questa colpa reincarnandosi in animali
sempre inferiori, e quindi aumentando il suo fardello di contaminazioni.
Alla vecchia concezione della purificazione tramite la partecipazione ai riti
religiosi, pitagorismo e orfismo aggiungono la necessità di conservare la purezza
dell’anima tramite un comportamento ascetico che impone all’individuo
l’astinenza, la rinuncia e il sacrificio che si realizzano in una serie di divieti che
simboleggiano magicamente lo scioglimento dai legami del corpo (non mangiare
fave, non portare anelli, ecc.).
In quest’ottica va inteso il modello di vita pitagorico caratterizzato da una visione
negativa del corpo e da una rivalutazione del significato religioso della
conoscenza. La visione negativa del corpo, “tomba dell’anima”, non comporta
una svalutazione completa del corpo stesso in quanto “l’anima come armonia del
corpo” richiedeva il controllo dei bisogni del corpo, ma anche la salute del corpo
intesa come equilibrio dei principi che regolano il funzionamento dell’organismo
(da qui tra il resto l’interesse dei pitagorici per la medicina).
La rivalutazione del significato religioso della conoscenza, rifacendosi alla
tradizione per cui il sacerdote era l’interprete della sapienza divina, vedeva la
filosofia come purificazione dell’anima e strumento della sua salvezza. Lo studio
veniva dai pitagorici identificato con la contemplazione, con la rivelazione
mistica, estatica secondo il significato originario della parola greca “Theoria”.
In questo modo la conoscenza veniva identificata in un sapere intuitivo, razionale,
lontano dall’evidenza percettiva e contrapposto al sapere quotidiano e pratico.
In questo quadro si comprende il valore morale e religioso dell'idea di limite,
ordine, misura, che domina il pensiero pitagorico. La vita del saggio è appunto la
pratica dell'ordine e della misura nei riguardi degli istinti, dei desideri, di tutte le
pulsioni corporee; il suo dovere è di indurre tutti, con la persuasione o con la
forza del potere politico, a rispettare questi stessi canoni d'ordine.
__________________________________
Il modello di vita pitagorico:
a - _______________________________
ma non ____________________________
b - _______________________________
filosofia = ________________________
_________________________________
studio = __________________________
conoscenza = ______________________
_________________________________
il valore morale dell’idea di _________
_______________________________
saggio = ___________________________
+ _________________________________
__________________________________
24
L’opposizione tra limite e illimitato sembra derivare, da un lato, dalle ricerche
della scuola di Mileto sul principio delle cose, e in particolare dalla teoria
dell’illimitato di Anassimandro, dall’altro dalla sensibilità propria di Pitagora ai
problemi etico-religiosi che pongono in primo piano l’opposizione bene/male che
spinge Pitagora a sdoppiare il principio in due opposti. Il principio del limitato,
finito, misurabile che rappresenta l’ordine e il bene e il principio del’illimitato,
infinito, incommensurabile che si identifica con il disordine, il caos e il male .
Dall’identificazione del limitato, del finito con il misurabile deriva la concezione,
fondamentale per i pitagorici, del numero come principio e fondamento della
realtà che si esprime nella tesi, presente in Filolao, che tutte le cose sono numeri.
All’origine di questo concezione che individua nel numero il costituente
elementare delle cose vi è sicuramente il simbolismo dei numeri presente in molte
culture che attribuiscono un significato magico a certi numeri (vedi ad esempio le
ricorrenze del numero sette: sette giorni della settimana, sette savi, sette peccati
capitali, … ). Bisogna anche tenere presente l’aumentato peso dell’economia
mercantilistica e monetaria che favorì la razionalizzazione della superstizione dei
numeri mettendo in primo piano la funzionalità dei numeri. Ai numeri inoltre
erano ricorsi gli astronomi babilonesi per descrivere i moti dei corpi celesti. Gli
stessi pitagorici avevano infine scoperto che gli accordi musicali sono esprimibili
in rapporti numerici, in quanto esiste una relazione costante tra lunghezza delle
corde della lira e gli accordi fondamentali.
Per comprendere la tesi per cui tutte le cose sono numero occorre tener conto
anche del fatto che i pitagorici intendevano come numero soltanto i numeri interi
e che i greci rappresentavano i numeri come punti circondati da uno spazio vuoto.
La generazione dei corpi fisici veniva infatti spiegata secondo un modello (vedi
figura) che procedendo per progressive unità punto passava dal punto alla linea,
dalla linea al piano e quindi dal piano al solido, l’unità costitutiva dei corpi fisici.
1
2
3
4
origine:
1 _______________________________
2 _______________________________
bene = ___________________________
male = ___________________________
limitato = _______________________
tutte le cose sono _________________
giustificato da:
1 - ________________________________
2-
economia monetaria
______________________________
3 - _______________________________
4 - _______________________________
5 - _______________________________
A -_______________________________
B - _______________________________
La generazione dei corpi fisici (vedi figura)
Punto
Linea
superficie
solido (piramide)
Come i numeri sono i costituenti delle cose così le caratteristiche dei numeri sono
anche le caratteristiche del mondo fisico e morale. Così alla contrapposizione tra
numeri dispari e pari (che riassume in sé la contrapposizione tra limitato e
illimitato e identifica il dispari come perfetto perché limitato in quanto se diviso
per due da sempre resto uno e il pari come imperfetto e illimitato in quanto se
diviso per due non da resto) corrispondono altre opposizioni delle entità
geometrico-matematiche (retto/curvo, quadrato/rettangolo, unità/molteplicità), del
modo fisico (destra/sinistra, luce/tenebre, quiete/movimento, maschio/femmina,
anima/corpo) e del mondo morale (buono/cattivo, bene/male)..
All’interno di un quadro di questo genere venivano poi riprese una moltitudine di
significati magico-simbolici per cui, ad esempio, il numero dieci veniva
considerato il numero perfetto perché formato dalla somma dei primi quattro
numeri, numeri da cui deriva la generazione di tutte le cose. D’altra parte il dieci
costituisce il numero fondamentale del sistema numerico decimale teorizzato in
ambiente pitagorico (si pensi alla tabellina pitagorica).
25
numeri = ______________________________________
caratteristiche dei numeri = __________________________________________
numeri =
dispari / ______________ / perfetto
_____________ =
unità _________________________
___________ / illimitato / ____________________
__________________________________________
vs
_____________ =
________________________
________________________________
_____________ =
________________________
________________________________
Il significato magico dei numeri: ___________________________________________________________________________
L’importanza attribuita alla matematica costituisce sicuramente il maggior
contributo dei pitagorici alla storia del pensiero scientifico e filosofico
dell’occidente. Questo consentì che all’interno della scuola avvenissero le prime
razionalizzazione dei problemi geometrico-matematici il cui massimo risultato
può essere considerata la geometria euclidea.
Comunque l’identificazione tra razionale e misurabile/calcolabile, riscontrabile
anche nella scienza moderna, non si liberò mai del tutto da una concezione che
attribuiva valore magico-simbolico
ai numeri e funzioni misticoreligiose alla matematica.
Conservando quindi un valore
qualitativo ai numeri, per cui un
numero oltre che una certa quantità
rappresenta anche qualcosa d’altro
(la perfezione, la giustizia, la
divinità, … ) non ricondusse i
fenomeni naturali a rapporti
quantitativi
effettivamente
misurabili e calcolabili. La
matematica divenne invece con la
sua struttura deduttiva il modello
della conoscenza razionale in
quanto basata sul ragionamento
(deduzione delle conseguenze dai
La regolarità matematica della natura,
principi) senza bisogno di ricorrere
l'intuizione di fondo del Pitagorismo, nel
all’osservazione e alla conoscenza
disegno d un artista moderno, J. Beuys
empirica e quindi in quanto fondata
(1948)
su oggetti non direttamente
riscontrabili nella realtà.
Il pitagorismo e la ____________________
- _________________________________
____________________________ +
- _______________________________
no ______________________________
________________________________
matematica come _________________
__________________________________
ERACLITO
Eraclito: ____________________________________________
_________________________ Eraclito e
Eraclito10, uomo legato all'acropoli, al tempio e alla reggia, di discendenza
regale visse nella ionica e democratica Efeso. Per il demos della città e per le sue ___________________________ Efeso
10
Eraclito nacque ad Efeso da famiglia aristocratica, che era tradizione discendesse da antichi re, e il cui
capo per questo godeva ancora di privilegi nel cerimoniale sia religioso che civile. Quando, per la morte
del padre, tali privilegi vennero a spettare ad Eraclito, si tramanda che questi vi abbia rinunciato a favore
del fratello minore. La data di nascita non è nota, e solo con molta approssimazione può essere collocata
attorno al 540 a. C. Non sappiamo quale ruolo abbia svolto negli avvenimenti politici della sua città; nei
26
tecniche, Eraclito non ha che parole di sdegno e ricorre nei loro riguardi allo
scherno e all'invettiva. Malato, rifiuta di lasciarsi curare dai medici profani;
secondo la tradizione scende sulla piazza di Efeso, vi si copre di sterco, e muore
divorato dai cani.
Eraclito sperimenta nel modo più acuto l'esperienza tragica del conflitto, della
tensione, del mutamento che sconvolge l'ordine sociale. Da questa esperienza è
profondamente segnata tutta la sua flessione.
La contraddizione, il divenire, il mutamento universale vanno riconosciuti come
caratteri essenziali e insopprimibili del mondo in cui viviamo. La realtà è un
perpetuo fluire e trasformarsi, nel reciproco conflitto, di tutte le cose; «la Guerra,
dice Eraclito, è il padre del mondo».
Ma per quanto sia acuta la sua consapevolezza del confitto e del mutamento
universale, Eraclito non può arrestarsi ad essa. II punto fermo, da, cui ripartire è
per Eraclito l'ispirazione divina che parla nell'anima del saggio. La verità sta
dentro di noi, solo che siamo desti e pronti a coglierne il messaggio; è inutile, e
qui la polemica colpisce Pitagora, andarla a cercare negli astri, nelle armonie
musicali, nei numeri. La via giusta è indicata nel precetto delfico «conosci te
stesso», che più tardi anche Socrate avrebbe fatto proprio.
Il messaggio divino che ispira il saggio è il logos. Eraclito adopera il termine
logos per indicare contemporaneamente la legge che governa l’universo e la
ragione come facoltà dell’uomo di comprendere tale legge, intendendo la
razionalità come qualcosa di esterno al pensiero dell’uomo.
Benchè la ragione sia comune a tutti non tutti arrivano a comprendere la legge che
governa l’universo in quanti non tutti arrivano alla vera conoscenza, alla
conoscenza razionale. Eraclito esprime questa convinzione opponendo “i più”al
“saggio”, “coloro che dormono”a “coloro che sono svegli”. Infatti, i più vivono
continuamente in una specie di sogno e, come nei sogni, hanno ciascuno un
proprio mondo senza alcun rapporto con quello degli altri dal momento che
seguono i sensi, le opinioni, le credenze irrazionali. Viceversa al saggio, a colui
che è sveglio le cose non appaiono più dal proprio particolare punto di vista.
Abbandonando le idee comuni e il punto di vista delle scienze particolari il saggio
saprà riflettere in solitudine e troverà dentro di sé la verità che per Eraclito, come
abbiamo detto, non va ricercata nelle cose ma è frutto di un’ispirazione divina
che parla nell’anima del saggio.
Ciò che il logos, come ragione, rivela al saggio è costituito dalla legge universale
che governa tanto il mondo come la società e il comportamento individuale e che
è, come si è detto, da Eraclito chiamata ancora logos. In questo secondo
significato il logos non è il pensiero razionale bensì una legge, una forza che
agisce dentro la realtà. Essa rappresenta, come per Anassimandro il passaggio
dall’indeterminato al determinato e quindi il ritorno all’indeterminato, la norma
che regola gli eventi, il divenire delle cose.
Tale legge si basa su due principi: l’incessante divenire, mutare delle cose che ci è
testimoniato dai sensi; l’unità degli opposti, dei contrari che ci è rivelato dalla
ragione.
La realtà è, per Eraclito, un perpetuo fluire e trasformarsi di tutte le cose (panta
rei). In alcuni celebri frammenti Eraclito paragona questo continuo fluire delle
cose alla corrente di un fiume le cui acque non sono mai le stesse affermando, ad
esempio, che: “Non è possibile discendere due volte nello stesso fiume.”.
Il continuo fluire delle cose, per cui nulla resta immutabile, fisso ma tutto cambia,
si trasforma per Eraclito riguarda sia noi stessi, sia la società che la natura.
Eraclito tende ancora a identificare tale principio in qualcosa di reale: il fuoco.
Dal conflitto ________________
al conflitto _______________________
La verità non è _________________
(ctr ________________) ma __________
attraverso __________________________
Il Logos:
1- _______________________________
2 - ______________________________
comune a tutti, ma non ________________
__________________________________
perché:
i più : sensi  _______________________
___________: _______________ +
__________________________________
Verità
3 - ________________________________
__________________________________
due _______________________:
A - _______________________________
testimoniato __________________
implica ____________________________
esempio __________________________
frammenti che ci restano però vi è una ricorrente politica antidemocratica. Scrisse un libro composto
quasi per intero da aforismi di tono oracolare e spesso volutamente oscuri; il testo di questo libro fu da lui
depositato nel tempio di Artemide, e per sua volontà non fu reso pubblico prima della sua morte (la cui
data non ci è nota). Di questo scritto ci restano circa 130 frammenti.
27
Per quanto sia qualcosa di reale il fuoco non è un elemento particolare quanto
invece un processo e l’estrema mobilità del fuoco ben simboleggia il continuo
mutare, divenire delle cose. Inoltre, in alcuni frammenti il fuoco viene inteso non
tanto come il processo fisico della combustione bensì come il principio animatore
del mondo e quindi divino.
Se il divenire delle cose ci è testimoniato dai sensi per comprendere il secondo
principio su cui si fonda il logos occorre servirsi della ragione.
Infatti, secondo la testimonianza dei sensi, dell’esperienza noi siamo portati a
ritenere che i contrari si escludano reciprocamente, così, ad esempio, se siamo
svegli non dormiamo, se siamo sazi non abbiamo fame. Questa convinzione
appare però ingenua agli occhi della ragione per cui ciascun contrario è
strettamente legato al suo opposto. Legame che è determinato dalla stessa
opposizione dal momento che ogni coppia di opposti si presenta come
complementare, momenti di una stessa unità. Complementarietà che può essere
data, ad esempio, dalla correlatività per cui non è possibile valutare correttamente
un contrario senza tenere conto dell’altro (valutare della malattia senza tener
conto della salute); oppure essere costituita dal fatto che i contrari sono uniti
dall’essere compresenti nello stesso oggetto (la stessa strada può apparire in salita
o in discesa); o, ancora, essere ottenuta dal superamento dei differenti punti di
vista di diversi osservatori (la stessa acqua, quella dei mari, è indispensabile per i
pesci, inutilizzabile per l’uomo).
L’unità dei contrari non elimina tuttavia il momento conflittuale, poiché è il
conflitto tra le cose che porta ogni cosa a trasformarsi nel suo contrario. Per
questo Eraclito può in un suo frammento proclamare che: “La guerra (polemos) è
il padre di tutte le cose.”.
Il tipo di razionalità messa in atto da Eraclito è stata definita dialettica, intesa
come la capacità del pensiero di cogliere le opposizioni tra i diversi aspetti della
realtà, le loro contraddizioni ma anche l’unitarietà dei diversi aspetti. È d’altronde
da sottolineare che uno schema concettuale tipicamente greco è rappresentato dal
cosiddetto “pensiero polare”, ossia la tendenza a pensare la molteplicità non come
un mucchio di cose tra loro diverse, ma come un insieme articolato secondo
coppie di opposti. Tendenza presente un po’in tutti gli autori che abbiamo
esaminato a partire da Anassimandro.
Parmenide: ____________________________________________
il ____________________
reale ma
____________________________
simbolo ____________________________
per Eraclito _____________________
B - ________________________________
_________________________________
testimoniata _____________________
complementarietà dei _________________
data da:
a - ________________________________
b - _______________________________
c - ________________________________
il conflitto _________________________
_________________________________
La razionalità ____________________
Il pensiero _______________________
PARMENIDE
Parmenide = ______________________
Centralità problemi :
11
Parmenide visse a Elea, città da cui prese il nome la scuola da lui fondata detta
appunto eleatica, e che era situata sulla costa dell’attuale Campania. Nacque
attorno al 515 a. C. in una famiglia aristocratica e ricoprì ruoli politici all’interno
della città.
All’interno della riflessione di Parmenide diventa centrale il problema della
conoscenza che, come abbiamo visto, è strettamente connesso con quello della
concezione della realtà e che in modo embrionale era già presente in Eraclito che
aveva identificato con il termine logos sia la ragione umana e il discorso che essa
produce, sia la legge che governa l’universo. In Parmenide vengono messi in
primo piano i problemi del rapporto tra pensiero, linguaggio e realtà e della “via”,
cioè del metodo, che occorre percorrere per giungere alla conoscenza vera.
Secondo Parmenide la conoscenza umana può seguire due distinte vie, due metodi
A - ________________ + B - concezione
________________
già in ____________________ (vedi
_______________)
A + B = rapporti _____________________
__________________________________
__________________________________
11
Parmenide, di famiglia aristocratica, nacque ad Elea, nella Magna Grecia, attorno al 515 a. C. Delle
vicende della sua vita sappiamo soltanto che svolse opera di legislatore nella sua città e che nel 450 circa
compì un viaggio ad Atene. La sua formazione culturale si compì all'inizio certamente sotto la prevalente
influenza del pitagorismo. Scrisse un'opera filosofica in esametri, alla quale fu in seguito dato il titolo
Sulla natura, divisa in due parti (Verità e Opinione).
28
diversi: la via della ragione che conduce alla verità e la via dei sensi che conduce
non alla verità ma all’opinione. Le due vie sono per Parmenide nettamente divise.
Il suo poema, di cui ci sono rimasti ampi frammenti, si apre con il resoconto di un
viaggio in cui Parmenide stesso, prescelto per una rivelazione sovraumana,
guidato dalle dee giunge alla Porta della verità (in cui si può riconoscere la Porta
Rosa di Elea che in effetti separava la città bassa, portuale e commerciale,
dall’acropoli con il suo tempio) la quale separa per sempre e da sempre la luce
dalle tenebre, la verità dall’errore. Le due vie sono divise e inconciliabili poiché
l’unica che rende possibile il sapere e comprensibile il reale è la via del pensiero,
della ragione.
Accettando i dati dell’esperienza, di ciò che appare all’immediatezza dei sensi
occorre, osserva Parmenide, ammettere che la realtà e la nostra esperienza sono
descrivibili in termini di opposizioni, scissioni. Così ad esempio possiamo con
Pitagora contrapporre anima e corpo, con Eraclito ammettere che la fatica rende
piacevole il riposo o la fame la sazietà e fare della lotta tra gli opposti la stessa
legge dell’universo o, come Anassimandro, parlare della reciproca sopraffazione
delle cose.
Passando al piano della ragione, del discorso razionale occorre innanzitutto
secondo Parmenide, poiché la ragione generalizza, che l’oggetto del discorso non
siano le cose particolari, gli esseri di cui ci testimoniano i sensi bensì l’essere in
generale ovvero la condizione comune di tutte le cose che sono che è appunto il
loro esistere, il loro essere (di ciascuna cosa, di ciascun ente di cui ammettiamo
l’esistenza infatti possiamo innanzitutto dire che essa è). Volendo poi conservare
anche sul piano della ragione l’opposizione, la scissione testimoniata dai sensi
all’essere così inteso occorrerebbe opporre il non–essere che Parmenide intende
come il nulla. Però, osserva Parmenide, pensare implica sempre pensare a
qualcosa dal momento che pensare il nulla significa non pensare, e, allo stesso
modo, parlare implica sempre dire qualcosa perché dire il nulla equivale a non
dire, allora possiamo pensare e parlare solo dell’essere e non del non-essere.
1 - _____________  _______________
2 - ______________  ______________
Il ______________ di Parmenide
la _____________________ (___________
_____________)
Per _________________ solo per _______
realtà = ____________________________
come per _________________________
1 - La via __________________________
____ I rapporti ______________________
__________________________________
IL PRINCIPIO DI PARMENIDE
Sensi
ragione
____________________
Cose particolari
essere ______________________ = ___________________________________
Opposizione ______________
allora
essere vs
_________________________ = _______________
ma pensare il __________ = _________________
dire il ____________ = __________________
quindi ______________________________________________________
per cui applicando _____________________________ A = A  _________
A = non A  _______
allora ____________________________________________________________
____________________________________________________________
Presupposti: _____________________ = ________________________ = _______________________________
pensare = _______________________________ dire = ______________________________
allora pensiero e linguaggio hanno _____________________________________________
29
Parmenide conclude quindi che solo l’essere esiste e il non-essere non esiste.
Trasferito sul piano del pensiero, del linguaggio il problema della comprensione
della realtà, Parmenide applica le leggi della ragione alla realtà per cui utilizzando
il principio logico della non contraddizione, secondo cui se è vera l’eguaglianza
A=A non può essere vero A= non A, egli può affermare il principio che solo
l’essere esiste e non può non esistere mentre il non-essere non esiste e non può
esistere. Tale è appunto secondo il poema di Parmenide il contenuto della
rivelazione della dea.
Il principio ha come suo presupposto la corrispondenza totale tra la realtà, il
pensiero che la conosce e il linguaggio che esprime il pensiero. Pensiero e
linguaggio si corrispondono pienamente poiché, secondo Parmenide, pensiero e
linguaggio richiedono necessariamente un oggetto fuori di sé dal momento che,
come abbiamo detto, il pensare implica sempre pensare a qualcosa, perché
pensare il nulla è non pensare e, allo stesso modo, il parlare implica sempre dire
qualcosa perché dire il nulla è non dire. Parmenide conclude così che “Lo stesso è
pensare ed essere”.
Con il suo principio, dal quale, come vedremo adesso, Parmenide trae per via
logica, tutte le conseguenze possibile determinando così le caratteristiche
dell’essere, egli inaugura una forma di conoscenza puramente razionale che
utilizza un metodo logico-deduttivo.
Partendo dal presupposto che occorra rifiutare tutto ciò che comporta il nonessere che non può essere né pensato né detto, Parmenide ne deduce che l’essere
deve necessariamente essere unico, perché se fosse molteplice implicherebbe il
non-essere in quanto tra due o tre cose vi sarebbe un vuoto, ovvero il non-essere.
Allo stesso modo l’essere è necessariamente ingenerato e imperituro, altrimenti
nascendo verrebbe dal nulla e morendo sparirebbe nel nulla.
L’essere inoltre è: eterno, cioè al di fuori del tempo, perché se fosse nel tempo
implicherebbe il non-essere in quanto il tempo è costituito dal presente che non è
più il passato e non è ancora il futuro; è immutabile ed immobile perché il
mutamento e il moto implicano l’esistenza di stati in cui l’essere non è più o non è
ancora; finito ed ha forma sferica in quanto per i greci la sfera è la figura perfetta
e la finitezza sinonimo di compiutezza e quindi ancora di perfezione.
L’unicità, l’eternità e l’immutabilità dell’essere garantisce l’assolutezza e la
certezza della conoscenza che la ragione acquisisce di quest’oggetto, dell’essere
in quanto esclude che la realtà vera, al di là dell’apparenza sia soggetta al
Se solo l’essere è e il non essere non è allora:
l’essere è unico
se fosse ____________________
_____________________ se __________________________
_____________________ se __________________________
l’essere è eterno
se __________________________
_____________________ se ___________________________
___________________ = compiutezza
l’essere è sferico
i
vuoto tra 2 o più cose
m
p ________________________________________
l
i _________________________________________
c
h ________________________________________
e
r _________________________________________
e
b __________________________________________
b
e
= ___________
Essere = ________________,_________________,__________________  conoscenza __________________________
(no ___________________)
(universale e ____________________)
30
divenire, al mutamento come la realtà quale ci viene testimoniata dai sensi.
È da sottolineare anche il fatto che Parmenide attribuisce all’essere le stesse
caratteristiche che la tradizione religiosa di altre culture contemporanee
attribuivano alla divinità, così, ad esempio, nella tradizione ebraica di Dio si dice
che “è colui che è”. Parmenide però nel suo sforzo di giustificare la sua
concezione si allontana dalla tradizione puramente religiosa e questo fa di lui il
fondatore della logica, intesa come ragionamento deduttivo che da un principio
evidente trae una serie di conclusioni.
Inoltre, l'essere di cui parla Parmenide è, esiste, necessariamente (non è possibile
che non sia). Questo comporta di conseguenza che le cose mutevoli (che ora sono,
ora non sono) non appartengono all'essere (assoluto) e come tali non esistono.
Con l'impostazione data da Parmenide al problema dell'essere, si determina così
un insanabile contrasto la verità dichiarata dalla ragione — che afferma l'esistenza
di un essere unico immutabile — e l'evidenza sensibile che, attestando la
molteplicità e il divenire delle cose, appare come una costante smentita del l'unità
e dell'immobilità dell'essere. Tra la ragione, che afferma sicura la radicale
differenza tra essere non essere, e quindi l'impossibilità di una loro
identificazione, e l'esperienza, che invece li mescola, li identifica, li pone nello
stesso tempo come identici e non identici, Parmenide sceglie di stare dalla parte
della prima, perché a ciò lo costringe il rigore del pensiero. Le cose molteplici che
sotto i nostri occhi nascono, si trasformano e muoiono, le cose che appaiono
nell'esperienza, sono pura illusione.
Ora, la storia della filosofia e della scienza sono ricche di esempi in cui questo
metodo è stato usato con successo, cioè di casi in cui l'applicazione di certi
principi razionali ha permesso di appurare che la vera realtà delle cose non può
coincidere semplicemente con quella che appare. Si pensi, ad esempio, alle
scoperte astronomiche di Copernico o di Galileo, i quali, in fondo a precisi
ragionamenti dimostrativi, sono giunti a provare contro tutte le apparenze che
nella vera realtà delle cose la Terra si muove mentre il Sole sta fermo, e non
viceversa. Con Parmenide, insomma, si fa strada, nel modo un po' intemperante
tipico di chi apre per la prima volta una via, l'idea che una corretta comprensione
della realtà sia resa possibile più da un uso corretto della ragione che da una
raccolta acritica di apparenze.
La via dei sensi si differenzia dalla via del pensiero in quanto accetta una
concezione della realtà, dell’essere come molteplice e in continuo mutamento. Per
Parmenide questa via non conduce alla verità ma solo all’opinione.
La nostra conoscenza del mondo sensibile dovrà partire da un esame delle diverse
opinioni degli uomini per scartare quelle meno convincenti giungendo così a
possederne una conoscenza più credibile. Su queste basi non sarà però possibile
fondare una conoscenza vera ma solo verosimile cioè apparentemente vera e
quindi più credibile.
Nella seconda parte del suo poema applicando questo metodo Parmenide espone
la sua visione del mondo sensibile come il risultato della mescolanza di due
elementi che identica nella luce e nel buio, dalla loro unione si sono formate terra,
sole, volta celeste, tutte le cose e l’uomo stesso.
La maggior vero somiglianza di questa concezione risiederebbe nel fatto che luce
e tenebre rappresenterebbero una sorta di traduzione visiva dell’essere e del nonessere che verrebbero in questo modo trasformati in elementi dell’esperienza
sensibile.
L’essere di Parmenide e _____________
_________________________________
l’inesistenza delle __________________
_______________________________
_________________________________
vs
_______________________________
__________________________________
vs
___________________________________
2 - La via __________________________
non _________________ ma ___________
__________________________________
metodo = _________________________
__________________________________
Opinione sulla formazione del mondo:
_________________________________
dove luce = _________________________
tenebre = ___________________________
31
ZENONE
Zenone: ____________________________________________
Più giovane del maestro di circa quarant'anni, Zenone12 scrisse un libro in prosa,
dal titolo Sulla natura, in cui diede prova di una notevole abilità dialettica. Di
questo libro sono giunti fino a noi pochissimi frammenti e un certo numero di
testimonianze, alcune di non facile interpretazione. L'obiettivo principale, se non
unico, di Zenone fu quello di difendere le posizioni di Parmenide contro i suoi
detrattori. Interessante e originale fu il metodo da lui adottato, a cui deve gran
parte della sua fama. Zenone non argomentò in maniera diretta in difesa delle tesi
di Parmenide, ma assunse come premesse le asserzioni dei suoi avversari, per
evidenziarne le conseguenze contraddittorie: in questo modo i principi parmenidei
venivano dunque confermati in maniera indiretta. Il fatto di aver adottato una
simile procedura ha fatto di Zenone lo scopritore di quello che in matematica si
chiama "ragionamento per assurdo": per dimostrare la verità della proposizione x
si prova a vedere che cosa succede se la si nega; e se le conseguenze che ne
derivano sono contraddittorie o assurde, allora si può ritenere di aver dimostrato
la verità di quella proposizione. L'adozione di questo metodo spiega perché gli
argomenti di Zenone siano comunemente chiamati "paradossi" (dal greco parà +
dòxa, ossia contrario all’opinione), appunto perché egli si propose di mettere in
luce le conseguenze paradossali che derivano da assunzioni antiparmenidee. Ora,
tra tutte le caratteristiche che Parmenide aveva attribuito all'essere, le più
paradossali e contrarie al senso comune (e, per questo, oggetto di critiche e
scherno) erano probabilmente quelle secondo cui l'essere è immobile e uno. Chi
non vede, infatti, che la realtà si muove ed è molteplice? Perciò Zenone si concentrò soprattutto su questi due attributi, e compilò una duplice serie di paradossi,
volti a mostrare le conseguenze assurde che derivano, rispettivamente, dalle
affermazioni "l'essere è mobile" e "l'essere è molteplice".
Tra i paradossi "contro il movimento" è rimasto celebre il cosiddetto “Achille e la
tartaruga”. Zenone immagina una gara di corsa tra Achille (in Omero
frequentemente definito "piè veloce") e una tartaruga (animale paradigmatico per
la sua lentezza), e si propone di dimostrare che Achille, se concede alla tartaruga
un margine iniziale di vantaggio, non potrà mai raggiungerla. Dato il segnale di
partenza Achille impiegherà un certo tempo per arrivare nella posizione dove si
trovava all'inizio la tartaruga; la quale però, durante lo stesso tempo, avrà
compiuto un tratto di strada, per quanto breve. Ciò significa che alla fine di questo
primo lasso di tempo (in un istante che potremmo chiamare T1) Achille avrà sì
accorciato il distacco, ma sarà comunque ancora in svantaggio. Achille, dunque,
avrà bisogno di altro tempo per raggiungere la posizione in cui la tartaruga si
La _________________ delle tesi di
____________________________
I __________________________ =
ragionamento __________________
le conseguenze ________________ del
__________________ una verità
A –Paradossi contro il ________________
Per Parmenide l’essere è ______________
infatti ad ammettere __________________
paradosso di ________________________
12
Zenone nacque ad Elea attorno al 490 a.C. Fu il principale scolaro di Parmenide, con il quale compì un
viaggio ad Atene nel 450. Avendo un tiranno (forse di parte democratica) assunto il governo di Elea,
partecipò a una congiura per abbatterlo, ma fu scoperto e ucciso. Scrisse un'opera in prosa, il cui intento
era quello di difendere la dottrina del maestro dalle critiche che le erano state mosse; essa consta di
numerosi argomenti, miranti tutti a falsificare le tesi contrarie a quelle parmenidee.
32
trova adesso (nell'istante T1), e perciò potrà essere lì solo nell'istante T2. Ma nel
frattempo la tartaruga non ha smesso di muoversi, per cui nel tempo intercorso tra
T1 e T2 avrà coperto un certo spazio, per quanto minimo. Dunque Achille
nell'istante T2 è ancora in ritardo nei suoi confronti, e potrà raggiungere l'animale
solo nell'istante T3, quando però la tartaruga sarà già oltre, e così all'infinito. Se
ne deduce che Achille non potrà mai raggiungere la tartaruga.
I paradossi relativi al molteplice sono piuttosto complessi. Ne menzioneremo
pertanto solo uno, che è a un tempo il più chiaro e il più significativo. Se gli enti
sono molti, devono essere tanti quanti sono, dunque di numero finito. Però si può
anche dimostrare che sono di numero infinito. Infatti, "in mezzo agli enti ve ne
sono altri, e in mezzo a questi di nuovo degli altri". Possiamo capire che cosa
vuole dire Zenone con un esempio. Prendiamo uno scaffale pieno di libri.
Indubbiamente siamo di fronte a un insieme di cose che sono "molte", ma non
infinite. Ma, precisamente, quante sono? Per saperlo potremmo semplicemente
contare i libri. Ma i libri sono fatti di pagine, che sono anch'esse delle cose;
dunque dovremmo aggiungere al numero dei libri il numero complessivo delle
pagine. Ma i capitoli, i paragrafi, le frasi, le parole, le singole lettere, giù giù fino
alle macchioline di inchiostro di cui sono composte e alle loro parti (e così
all'infinito), non sono forse anch'esse delle "cose", identificate e distinte da un
proprio nome? Quante saranno, dunque, le "cose" che si trovano sullo scaffale?
Non è forse vero che il loro numero rischia di diventare infinito? Se si ammette
che i molti "sono", esistono dunque buoni argomenti sia per dire che sono finiti,
sia per dire che sono infiniti. E questo dimostra appunto la "paradossalità" del
concetto di molteplice.
La maggioranza dei paradossi di Zenone, e in particolare i due qui riportati, si
fondano sullo stesso motivo, cioè sulla differenza tra estensione in senso fisico ed
estensione in senso matematico. La matematica moderna afferma che in un
segmento matematico/geometrico esistono infiniti punti, ma tali punti non hanno
dimensione. Ove invece di un segmento si prenda una linea concretamente
tracciata su un piano, questa linea è fisicamente divisibile in molti punti, anche
piccolissimi, ma ciascuno di essi ha una dimensione; dunque non sono infiniti. Di
conseguenza Achille, che corre su un piano concreto e non lungo una linea
matematica, raggiungerà facilmente la tartaruga, perché i punti che attraversa non
sono infiniti come quelli di cui è formata la linea. Lo stesso discorso vale per il
paradosso sul molteplice. Tra un oggetto e l'altro ce ne sono sempre ancora degli
altri solo nel mondo teorico della geometria e della matematica (dove,
rispettivamente, tra due punti in un segmento e tra due numeri in una serie ve ne
sono sempre infiniti altri), mentre nel mondo reale la divisione, prima o poi trova
un termine.
Si potrebbe perciò avanzare riguardo agli argomenti di Zenone lo stesso sospetto
suggerito da quelli di Parmenide: che essi cioè esemplifichino semplicemente le
ingenuità in cui incorre un pensiero non ancora maturo. Ma in proposito valgono
osservazioni analoghe a quelle che abbiamo fatto per lo stesso Parmenide; anche
il pensiero di Zenone ha lo scopo e l'effetto di mostrare che le esigenze teoriche
promosse dalla ragione potrebbero entrare in conflitto con ciò che percepiamo
nell'esperienza. È possibile che Zenone, così come Parmenide, ne abbia ricavato
l'idea che la realtà sensibile non è comprensibile razionalmente. Ma non si tratta
di una conseguenza obbligata. Per altri filosofi, infatti, il conflitto tra razionale e
reale messo a fuoco dagli eleati costituirà uno stimolo decisivo per sviluppare le
istanze della ragione in modo più comprensivo e approfondito.
B –Paradossi contro __________________
Per Parmenide essere è ________________
infatti ad ammettere __________________
possiamo sostenere sia che gli enti sono
____________ sia che sono ___________
Divisibilità ________________________ e
divisibilità _________________________
Achille non corre __________________
_________________________________
gli oggetti non sono __________________
__________________________________
Sensi
vs ____________________
Razionale vs ______________________
33
Linguaggio, pensiero e realtà in Protagora e Gorgia
PROTAGORA E GORGIA
Lo scontro, nella filosofia, tra naturalismo ionico e sapere del tempio così come
quello, nella città, fra demos e aristocrazia, non si esaurì in una contrapposizione
statica e frontale.
Durante il V sec. a.C. dal dibattito filosofico provocato da tale scontro,
innanzitutto, si delinearono meglio i diversi piani della riflessione filosofica,
spesso ancora confusi nel periodo precedente. Infatti, soprattutto ad Atene , che
stava diventando il principale centro del dibattito, assunsero un’importanza
sempre maggiore le tematiche antropologiche e politiche con al centro i problemi
relativi all’uomo e al costituirsi dei rapporti sociali, soprattutto ad opera dei
sofisti e di Socrate.
D’altra parte per i filosofi della città, dopo Parmenide, si rendeva necessario
mostrare come i fenomeni naturali e quindi la nostra stessa esperienza possano
venir spiegati con schemi razionali non contraddittori e logicamente più
consistenti di quelli sperimentati dagli Ionici. Il nuovo modello di spiegazione
venne elaborato soprattutto da Democrito a cui, come abbiamo detto, è legata la
definitiva sistemazione della visione della realtà materialista e di cui diremo in
seguito. Allo stesso modo per chi, come Parmenide, accettava la superiorità della
ragione occorreva illustrare adeguatamente i rapporti tra la realtà colta dalla ragione e
il mondo dell'esperienza. Sarà, come vedremo, Platone a rispondere a questi problemi
elaborando la concezione idealista. Ora ci occuperemo invece del primo aspetto e
soprattutto del contributi dei sofisti al dibattito, inaugurato da Parmenide, sui
rapporti tra linguaggio, pensiero e realtà.
Il __________________________ tra la tradizione __________________________ e i ______________________________:
1 - emergere nuove tematiche:
_________________________________________________________________________________________
2 –elaborazione concezioni
Filosofi della città: spiegare ____________________ con nuovi schemi razionali  _________________
dopo Parmenide
Tradizione aristocratico- sacerdotale: spiegare ______________________________________  __________
Il modo con cui i sofisti affrontano il problema dei rapporti tra linguaggio,
pensiero e realtà, e, sostanzialmente, anche le differenza tra la loro impostazione e
quella di Parmenide dipende profondamente dai nuovi orizzonti che la vita
politica della città andava assumendo.
All'interno della città la preparazione di un gruppo dirigente capace di guidare
l'esperienza politica della città costituì uno dei principali problemi della società
ateniese nel V secolo. La provenienza sociale di questo gruppo non era nuova:
come si è già visto, il potere resta in Atene, almeno per quasi tutto il V secolo,
nelle mani delle vecchie famiglie aristocratiche. Si trattava però di capacità
nuove, richieste dal passaggio dal vecchio sistema di dominio alla pratica della
mediazione politica, dell'ampliamento del consenso, dell'immissione di ceti nuovi
nel dibattito sulle decisioni politiche.
Principale fra queste capacità era quella consistente nel saper usare il linguaggio
in modo persuasivo: nel sapere cioè convincere un'assemblea popolare, un
consiglio, un tribunale, della giustezza di una proposta, della bontà di una causa,
della validità di una candidatura. L’aristocrazia doveva dunque impadronirsi di
questo uso persuasivo, oratorio del linguaggio e della relativa tecnica, la retorica.
Rapporti pensiero, _________________,
_______________ e ________________
nella città
Le nuove ________________ richieste
alla classe ____________________
(aristocrazia)
L’uso ___________________________
del linguaggio
34
In relazione a questo bisogno comparve in Atene, a partire dalla metà del V
secolo, un gruppo di intellettuali, di formazione filosofica molto diversa fra loro,
che si dedicarono professionalmente alla preparazione del ceto dirigente, e in
particolare all'insegnamento della retorica. Si tratta dei sofisti (cioè
«sapientissimi»), tutti di origine straniera perché nessun cittadino ateniese di
buona condizione sociale avrebbe
consentito a prestare un servizio
professionale a pagamento. Esclusi
dall'attività politica per la loro condizione
di stranieri, sostanzialmente considerati
con un certo disprezzo (al pari cioè di
attori o musicisti) dai loro nobili clienti
perché vendevano un servizio in cambio
di denaro, i sofisti esercitarono tuttavia un
ruolo importante nell'Atene del V secolo,
in
rapporto
all'educazione
e
all'elaborazione di un'ideologia della città.
I più celebri fra essi furono Protagora,
Gorgia, Prodico, Antifonte, Ippia 13.
Nasce con loro una cultura diversa.
Nasce, anzi, «la cultura», intesa come
insieme di conoscenze e di capacità
La polemica innescata dalla professionalizzazione della filosofia inaugurata dai
distinte dalla sapienza del sacerdote, dalla
Sofisti (che concedevano il proprio inseproduzione teorica dello scienziato, dalle
gnamento solo a pagamento) è
abilità del tecnico specialista; intesa,
testimoniata
dalle
numerose
dunque, come la formazione giuridica,
caricature sui dipinti vascolari. I
retorico-linguistica, storica dell'uomo
“`sapientissimi” appaiono con il
politico in quanto tale, dell'uomo che
cranio rigonfio su ogni lato, quasi sul
nella città è alternativamente soggetto e
punto di scoppiare per i tanti e profondi
oggetto di decisioni e pratiche politiche.
pensieri che vi albergano.
Tipico di questo atteggiamento è il nuovo
mito del progresso, che il sofista Protagora14 contrapponeva a quelli, di natura
tecnico-scientifica, elaborati dai primi pensatori ionici . Secondo Protagora,
l'uomo si differenzia dagli animali e supera le sue naturali debolezze grazie alle
tecniche, proprio come avevano detto i naturalisti ionici. Ma le tecniche da sole
non bastano a garantire le costituzione della città, delle società politiche in cui
l'uomo si realizza propriamente come tale. Occorre la virtù politica, di cui Zeus fa
dono indistintamente a tutti gli uomini (a differenza delle tecniche che sono
sempre specialistiche). Il mito di Protagora fa dunque delle tecniche politiche, in
primo luogo la retorica, quelle che nella città regnano su tutte le altre; così viene
anche sancita la supremazia dei politici e dei loro educatori-consiglieri, i Sofisti,
su tutti coloro che detengono un sapere o una capacità professionale diversa.
I ______________________ e
l’insegnamento della _________________
a ________________________
I principali sofisti: ___________________
__________________________________
La formazione di un nuovo tipo di cultura:
__________________________________
né ______________________________
nè ________________________________
ma _______________________________
___________________________________
- Protagora: _______________________
__________________________________
uomo = ____________________ +
_____________________
__________________
_______________
13
Ippia nacque ad Elide e fu attivo come oratore e ambasciatore della sua città in molte città greche nella
seconda metà del V secolo a. C. Scrisse numerosi discorsi e opere di carattere storico e antiquario, delle
quali ci restano pochi e brevi frammenti. Affermò come ideale di vita l'autosufficienza individuale: si
vantava di saper praticare tutte le tecniche utili al soddisfacimento dei bisogni dell'uomo. Vantava anche
un sapere enciclopedico: sappiamo che trattò questioni di geometria, astronomia, musica, pittura e
scultura.
14
Protagora di Abdera nacque verso il 485 a.C. e visse circa 70 anni. Svolse attività di oratore e maestro
di retorica in molte città greche, ma soprattutto ad Atene, dove fece parte della cerchia di Pericle. Nel 444
redasse la costituzione di Turii. Scrisse due opere in prosa, delle quali ci restano pochi brevi frammenti: la
Verità, o Discorsi demolitori, e le Antilogie. Sostenne, tra il resto, che gli uomini non sono in grado di
decidere se gli dèi esistono; per questa sua tesi fu forse accusato di ateismo e abbandonò Atene.
35
Nello stesso senso si muove Gorgia15. Gli scienziati e gli specialisti, egli dice, o
falliscono nel tentativo di far prevalere le proprie posizioni, o, se vi riescono, è
perché in realtà fanno uso del discorso persuasivo, cioè del discorso retorico. La
capacità di persuadere è perciò decisiva ad ogni livello della vita della città. La
retorica, dunque, è la forma di sapere più indispensabile a chiunque voglia vivere
ed agire nel suo contesto; il retore e il politico, non lo scienziato ed il tecnico,
sono in possesso delle chiavi che aprono tutte le porte nella città. Questo tema è
ancora ripreso, nel IV secolo, da Isocrate16. Secondo questo grande maestro di
oratoria, un'educazione scientifica è utile, in giovane età, ai fini di una sorta di
ginnastica mentale; ma le nozioni veramente utili all'uomo, cioè al cittadino nella
pienezza delle sue funzioni, sono quelle linguistiche, retoriche e giuridiche, sono
quella preparazione alla politica che è costituita dalla storiografia (nel senso
appunto in cui la intendevano Tucidide e Senofonte17). È facile vedere come si
sviluppi, ad opera di questi autori, un'idea della cultura destinata a una lunga
fortuna: di una cultura «umanistica», cioè, contrapposta a quella scientifica e
destinata a formare l’ideologia, le capacità, la generica informazione necessaria
alle attività tipiche della città, quelle politiche e giuridiche. Anche quando queste
ultime saranno passate in mano di esperti professionisti, si continuerà a pensare
che questo sia l'unico tipo di formazione del cittadino libero e di buona estrazione
sociale, cioè dell'uomo nel pieno senso della parola.
Abbiamo già visto come l'attenzione dei Sofisti si concentrasse sul linguaggio,
concepito come strumento essenziale della comunicazione politica, soprattutto nel
suo aspetto persuasivo, retorico. Questo atteggiamento implica però due tesi di
ordine più direttamente filosofico, che qui è necessario considerare. La prima di
queste tesi afferma la neutralità del linguaggio rispetto ai fini e ai valori; la
seconda comporta uno sganciamento del linguaggio stesso dalla questione della
verità e della conoscenza e una relativizzazione del valore del sapere. Entrambe le
tesi sono opera soprattutto di Protagora e Gorgia. Quanto alla prima, Gorgia
insiste sulla potenza del linguaggio come strumento di persuasione, capace di
indurre un individuo o una folla ai comportamenti voluti dall'oratore, di sostenere
o di confutare qualsiasi tesi, e così via. Ma, al pari di ogni strumento, il
linguaggio può essere usato per fini buoni o cattivi; essi dipendono dall'utente (il
politico, l'avvocato), non dallo strumento in sé, che resta indifferente e neutrale
rispetto alle questioni morali.
In questo quadro va interpretata anche la posizione di Protagora, che si diceva
capace (come del resto tutti i Sofisti) di «rendere forte il discorso debole». Questa
affermazione fu interpretata, dagli uomini legati alla morale tradizionale, nel
senso di «far prevalere la tesi cattiva». Essa significa invece la capacità del sofista
— tecnico degli strumenti di comunicazione politica — di rendere efficienti
questi strumenti, lasciando a chi se ne serve la decisione sulla loro destinazione
- __________________:
l’importanza _______________________
- ___________________________:
_________________
______ ___________
__________
__________________
___________
cultura __________________________
vs
___________________________________
LINGUAGGIO, PENSIERO E REALTÀ
Le tesi dei __________________:
1 - ________________________________
________________________________
- Gorgia:
linguaggio = _________________ di
persuasione
_________________________________
- ______________________:
rendere forte ________________________
_________________________________
15
Gorgia nacque a Leontini, in Sicilia, circa il 485 a.C. Fu discepolo di Empedocle. Fu famosissimo come
oratore in tutta la Grecia, specie ad Atene. Morì in Tessaglia, pare all'età di 109 anni. Scrisse numerosi
discorsi, due dei quali (l'Encomio di Elena e l'Apologia di Palamede) si sono, conservati per intero.
Compose uno scritto di argomento filosofico che si intitolava La natura, o del non-essere.
16
Isocrate nacque ad Atene nel 436 a.C. da Teodoro, mercante di flauti. Frequentò in gioventù le lezioni
di Prodico e Gorgia. Visse quasi sempre ad Arene, dove morì nel 338, a 98 anni. Attorno al 390 fondò
una scuola di che ebbe un grande successo.
17
Tucidide (460 - circa 390) e Senofonte (430 –355) concepirono e scrissero nella città e per la città
(entrambi gli storici ebbero un importante ruolo politico-militare nelle vicende di Atene) le loro opere storiche.
Le storie di Tucidide e di Senofonte operano una rigorosa selezione ed organizzazione del materiale utilizzato. Viene
escluso ogni riferimento ai costumi civili e religiosi dei popoli, agli aspetti tecnico-economici della storia, ai
problemi geografici e scientifici. Il punto di vista centrale, attorno a cui tutto il racconto si organizza, è costituito
dai problemi politici della città di Atene; i protagonisti della storia sono i suoi capi politici e militari, e i loro
avversari. Questo tipo di storiografia, che d'allora in poi sarebbe stato considerato «classico», poteva in realtà
essere concepito soltanto in un ambiente in cui il momento politico prevaleva di gran lunga sugli altri aspetti della
vita sociale, e tendeva a riassorbirli al proprio interno.
36
morale.
Ancora più importante è la tesi sulla neutralità del linguaggio rispetto alla verità e
della relativizzazione di quest’ultima. Come è noto, il linguaggio possedeva, per
pensatori come Parmenide ed Eraclito, una sua diretta capacità di rivelazione
della verità; questa investitura del linguaggio in termini di verità derivava dal richiamo al suo uso profetico ed oracolare, all'uso cioè proprio del sacerdote nel
tempio. Dislocato nello spazio politico della città, il linguaggio appare invece ai
Sofisti del tutto neutro in termini di vero e falso, come lo era in termini di bene e
di male.
La tesi viene motivata in forme diverse da Gorgia e Protagora.
Quanto a Protagora, egli poneva in dubbio la possibilità di una conoscenza
assoluta e oggettiva della realtà. «L'uomo», egli diceva, «è la misura di tutte le
cose, di quelle che sono in quanto sono, di quelle che non sono in quanto non
sono». La tesi fondamentale di Protagora è dunque che la nostra conoscenza è
relativa alla realtà così come essa ci appare e non come essa è veramente. Infatti,
se intendiamo per uomo l’individuo singolo e per cose gli oggetti percepiti con i
sensi, la tesi di Protagora sosterebbe che le cose appaiono diversamente a seconda
degli individui e dei loro diversi stati fisici o psichici (ad esempio, una certa cosa
può piacere o non piacere a seconda delle persone e delle circostanze in cui si
trovano). Se, invece, intendiamo con uomo l’umanità o la natura dell’uomo e con
cose la realtà in generale, allora la tesi di Protagora afferma che gli individui
giudicano la realtà tramite i parametri tipici della loro specie, cioè dell’uomo (ad
esempio la visione binoculare impone una certa strutturazione dello spazio, o gli
ultrasuoni non possono essere percepiti, e quindi esistere per l’uomo, senza
l’utilizzo di particolari apparecchiature). Infine, se per uomo intendiamo la civiltà,
la cultura a cui appartiene l’individuo e per cose i valori, i modelli che essa
propone, allora l’affermazione di Protagora indica che ognuno valuta le cose
2 - _______________________________
__________________________________
Parmenide, ___________________:
linguaggio =_____________________
__________________________________
Sofisti: ________________________ =
________________________________
PROTAGORA
PROTAGORA
la nostra conoscenza è ______________________________________________________: "L'uomo misura di tutte le cose"
La nosta conoscenza è condizionata da:
uomo = ____________________
 _____________ _____________________________________________________________
- Se
cose = _____________________
uomo = ____________________
 _____________ _____________________________________________________________
- Se
cose = _____________________
uomo = ____________________
 _____________ _____________________________________________________________
- Se
cose = _____________________
L’uomo conosce non _______________________________ ma ___________________________________________
Verità ___________________: la verità non è _____________ ma il frutto di _____________________________________
Valore _______________________ delle nostre conoscenze (es. origine _________________ della religione per ________)
Metodo _______________: _________________________________________________  non esiste _______________
________________________
secondo la mentalità del gruppo sociale a cui appartiene.
Poiché, dunque, l’uomo giudica delle cose a seconda della specie a cui appartiene,
37
della società in cui vive e della particolare situazione in cui si trova, allora ciò che
egli giudica non è la realtà in se stessa, oggettivamente data quanto invece la
realtà come essa gli appare.
In questo modo veniva rifiutata l’idea che esistesse una verità assoluta, unica o un
sistema di valori valido per tutti, come voleva la tradizione aristocraticosacerdotale, diventando la verità e i valori il frutto di una scelta tra punti di vista
relativi.
In quest’ottica per molti versi modernissime, dal momento che è stata ripresa da
molti pensatori dell’Ottocento e del Novecento, i sofisti hanno sottolineato il
valore convenzionale delle nostre conoscenze. Così, ad esempio, in Crizia18
ritroviamo la tesi per cui gli dei sono un’invenzione dei governanti che, non
potendo controllare direttamente i governati, li hanno indotti a credere
nell’esistenza di una divinità invisibile che conosce e punisce i comportamenti
proibiti dalle leggi imposte da chi governa. Prodico19 sosteneva, invece, che
l'origine della religione era dovuta al fatto che gli antichi avevano posto come dei
le cose che giovavano loro (p.es. il pane, l'acqua, ecc.) e quegli uomini che
avevano fatto scoperte utili.
Allo stesso modo i sofisti misero in luce la natura convenzionale delle leggi
sostenendo, ad esempio, con Antifonte20 che le leggi positive e le convenzioni
sociali dei diversi popoli sono in genere distorsioni dell'ordinamento della natura,
nel quale gli uomini sono legati dalla reciproca uguaglianza e da una spontanea
solidarietà, oppure con Trasimaco21 che riteneva che per natura ciascuno mira a
sopraffare gli altri, e che le leggi e l'apparato giudiziario non sono altro che la
mascheratura di sopraffazioni avvenute.
A questa concezione relativista va riportato anche il metodo dell’antilogia o del
discorso doppio, cioè la tecnica di costruire su ogni questione due discorsi
contrastanti. Anticamente si pensava che per ogni discorso esistesse un unico
punto di vista vero ed un unico discorso capace di esprimerlo. Protagora ritiene,
invece, che non esista una situazione che non possa esere considerata anche da
un’altra ottica e quindi dia origine a un discorso diverso. Il metodo antilogico
dimostra che non esiste un’unica interpretazione della realtà, bensì una
complessità di angoli prospettici.
La posizione di Gorgia è ancora più radicale e le sue tesi possono essere
considerate come la prima formulazione dello scetticismo (atteggiamento di che
nega ogni possibilità di conoscere il vero).
Le tesi enunciate da Gorgia sono le seguenti: 1- Nulla c’è. 2- Se anche qualcosa
c’è, non è conoscibile dall’uomo. 3- Se anche è conoscibile, è incomunicabile agli
altri.
Origine _____________________
Crizia:
__________________________
______________:
dei = _____________________________
__________________________________
Origini __________________________
____________________:
distorsioni ________________________
_______________________:
__________________________________
Protagora: il metodo __________________
GORGIA
+ radicale: ________________________
Tesi:
1 - __________________________ =
non ______________________________
__________________________________
18
Crizia, cugino primo della madre di Platone, nacque ad Atene attorno al 460 a.C. e fu il principale
esponente dell'ala estremista del partito aristocratico. Dopo la sconfitta di Atene nella guerra del
Peloponneso (404) fu a capo dei governo, appoggiato da Sparta, detto dei Trenta Tiranni, e tentò di
ripristinare le antiche strutture della polis aristocratica, servendosi di metodi molto violenti: durante il suo
breve governo furono uccisi non meno di millecinquecento suoi avversari politici. Fu ucciso in uno
scontro armato contro i democratici nel 403. Scrisse composizioni poetiche, opere drammatiche e opere
in prosa, tra cui le Costituzioni, gli Aforismi e le Conversazioni.
19
Prodico nacque a Ceo attorno al 465 a. C. Fu più volte ambasciatore ad Atene, dove tenne
ripetutamente lezioni. Scrisse un'opera, intitolata Le ore, della quale ci sono rimasti pochi e brevi
frammenti. Attribuiva grande importanza alla delimitazione dei significati delle parole affini, allo scopo
di rafforzare l'efficacia della tecnica retorica.
20
Antifonte nacque ad Atene, dove fu attivo nella seconda metà del V secolo a.C. Scrisse quattro opere:
la Verità, Della concordia, il Politico e Dell'interpretazione dei sogni, delle quali ci restano numerosi
frammenti, alcuni abbastanza estesi. Si occupò di astronomia, meteorologia e geometria.
21
Trasimaco nacque a Calcedone attorno al 460 a.C. e fu attivo ad Atene negli ultimi decenni del V
secolo. Fu noto soprattutto come oratore; scrisse un Trattato oratorio e numerosi discorsi, dei quali ci
restano pochi frammenti, tutti brevi tranne uno, dal discorso Sulla costituzione, nel quale propugnava il ripristino della «costituzione dei padri».
38
Con la sua prima tesi, «nulla c’è», Gorgia non intende negare la realtà
testimoniata dai nostri sensi, ma la possibilità di individuare una qualsiasi
struttura razionale, arché, numeri, essere, che possa essere utilizzata per spiegare
la realtà.
In particolare, contro la tesi di Parmenide per cui solo l’essere esiste Gorgia
argomenta che per negare l’esistenza del non essere occorre comunque pensarlo e
dirlo sia pure per escluderlo.
La seconda tesi afferma che “se anche esistesse, noi non la potremmo conoscere”,
in quanto, per conoscerla, dovremmo presupporre che la nostra mente sia una fotografia esatta della realtà. Ma ciò non accade. Infatti, se pensiamo spesso l'inesistente, vuol dire che il pensiero non rispecchia necessariamente la realtà o che la
realtà non si rispecchia necessariamente nel pensiero. In tal modo, Gorgia
colpisce al cuore l'equazione eleatica pensiero-essere, introducendo un divorzio o
una frattura radicale fra la mente e le cose.
Inoltre, argomenta Gorgia, se ha ragione Parmenide quando dice che è
impossibile pensare ciò che non è, allora tutte le rappresentazioni mentali
possiedono ugual valore poiché non è più possibile distinguere il vero dal falso ,
infatti per fare ciò occorre poter pensare il falso, ovvero ciò che non è.
La terza tesi , infine, sostiene che se anche la realtà fosse conoscibile non sarebbe
spiegabile con parole, poiché il linguaggio è altra cosa dalla realtà e non possiede
un'adeguata capacità rivelativa nei suoi confronti. Infatti, secondo Gorgia,
linguaggio e realtà non coincidono appartenendo a due livelli eterogenei. In
questo modo Gorgia riconosce il rapporto convenzionale, e quindi dovuto a un
accordo tra gli uomini, tra parola e realtà esterna superando la convinzione
ingenua che tra parola e realtà vi sia un rapporto naturale, cioè indipendente dalla
volontà umana.
Sulla base della natura convenzionale del linguaggio Gorgia conclude che il
linguaggio è un semplice strumento adatto alla comunicazione tra gli uomini, ma
non esprime l’essenza, la struttura della realtà che, poiché non è fatta di parole,
non sarà mai riconducibile a esse.
Gorgia con le sue tesi supera la presunta identità fra realtà, linguaggio e verità che
costituiva il motivo centrale del pensiero di Parmenide e, in particolare, demolisce
la concezione realistica del linguaggio, presente in Parmenide, per cui parole e
cose si identificano a tal punto che nominare una cosa significa affermarne
immediatamente l’esistenza (“non si può dire né pensare ciò che non è”).
Allo stesso tempo per Gorgia la parola non serve neppure a identificare la cosa,
ossia a descriverla per ciò che essa è veramente. Il linguaggio vive in una
dimensione autonoma e svincolata dalle cose, in quanto non è legato ad esse da
alcun sistema stabile di riferimento.
Oggetto della riflessione dei sofisti non è dunque l’individuazione di ciò che è
essenziale per concettualizzare, pensare la realtà, quanto invece l’analisi critica
del processo conoscitivo umano che porta all’individuazione dei suoi limiti. Tali
limiti sono, per Protagora, costituiti dai condizionamenti soggettivi, sociali e
biologici e , per Gorgia, dai limiti degli strumenti, pensiero e linguaggio, a nostra
disposizione per conoscere la realtà.
Dall’esistenza di questi limiti traggono due conclusioni alquanto diverse, infatti
per Protagora “non è possibile dire il falso”, mentre per Gorgia “tutto è falso”.
Per Protagora non è possibile dire il falso nel senso che ciascuna opinione
esprime un punto di vista che può essere riportato alle condizioni soggettive o
sociali che l’hanno prodotta. Esiste comunque, secondo Protagora, un criterio,
l’utilità, che ci consente, non di determinare il valore assoluto delle nostre
conoscenze, ma di scegliere tra le diverse opinioni.
Per Gorgia, invece, tutto è falso nel senso che i discorsi dello
scienziato/naturalista e del sapiente/sacerdote, che pretendono di rivelare una
verità assoluta, non sono altro che espressioni linguistiche più o meno convincenti
Contro Parmenide: per negare l’esistenza
__________________________________
2 - ________________________________
___________________________________
Pensiero = _________________
NO perché _________________________
__________________________________
Contro Parmenide: ___________________
__________________________________
__________________________________
3 - ________________________________
___________________________________
No linguaggio = __________________
perché legame _____________________
_______________ e ________________
eterogenei (la realtà non è fatta
__________________)
superamento concezione _____________
del linguaggio _____________________
Dalla ricerca dei __________________
all’individuazione ________________
____________________________
39
ma sempre diverse e irriducibili alla realtà.
CONSEGUENZE ______________CONOSCENZA UMANA
- Protagora: __________________________________ perché ________________________________________________
______________________________________________________
Criterio di ________________ = _____________________
- ____________________: tutto è falso perché _____________________________________________________________
Criterio di ________________ = _____________________
- ____________________________:
Le concezioni di Protagora e di Gorgia ponevano le basi per una prima ricerca
sistematica sulla lingua, per il primo, e per l’identificazione tra retorica e __________________________________
persuasione in Gorgia.
Protagora, infatti, intendendo la lingua come un sistema autonomo, dotato di
regole sue proprie del tutto indipendenti dagli usi che se ne fanno e dalle cose che
si vogliono significare, elabora una embrionale grammatica studiando generi,
concordanze, tempi verbali, ecc … , per mettere ordine nelle forme del linguaggio.
Necessità questa sollevata anche dal passaggio da un uso esclusivamente orale del
linguaggio ad una fase caratterizzata dall’uso scritto.
Gorgia, invece, finisce per teorizzare un uso spregiudicato della retorica intesa
Il desiderio di stupire l'uditorio con tesi eccentriche, tipico dei
Sofisti, spinse Gorgia a scrivere l'Encomio di Elena, un breve
saggio in cui sosteneva la non colpevolezza della donna che con il
suo adulterio aveva provocato la guerra di Troia (il disegno
riprende da una ceramica la scena in cui Paride, il giovane principe spartano, conduce con sé la donna). L'Elogio di Elena comincia
così: se tutto deriva dagli dei, Elena poveretta che colpa ne ha?
Cioè gli dei hanno detto loro quello che vogliono, gli dei hanno in
mano il tutto e quindi tutto è dovuto agli dei.
Ammettiamo che invece degli dei ci sia la necessità, la ragion
d'essere del tutto, un ordine dove tutto è scandito necessariamente.
Se fosse vero che tutta la struttura della realtà è impacchettata in
modo che ogni momento sia in risposta all'altro, necessariamente come in un grande teorema di matematica, in un tutt'uno ordinato allora dovremmo dire: "Povera Elena è nata in quel punto lì,
nell'ordine del tutto, e rispecchia la necessità del tutto". Quindi
Elena, anche in questo caso non avrebbe nessuna colpa.
Terzo punto: ammettiamo –dice Gorgia - che invece Elena sia stata sedotta da Paride. Mediante che
cosa? Mediante la parola. Allora neanche in questo caso Elena può essere considerata colpevole perché
le parole hanno il potere di trascinare chi le ascolta, affascinandolo sino a fargli perdere il controllo di
se stesso. L'arte della parola condivide con la magia la capacità di sedurre e manipolare le menti,
privandole della volontà. Scrive Giorgia:"Se invece fu la parola a persuadere e ingannare la mente,
neppure sotto questo rispetto è difficile scusarla e scioglierla dall'accusa. Nel modo seguente: la parola è
un potente signore che, pur dotato di corpo piccolissimo e invisibile, compie le opere più divine . Essa
può far cessare il timore, togliere il dolore, dare una gioia, accrescere la compassione."
come arte della persuasione, della suggestione. La persuasione di cui parla non è
il frutto di una mediazione razionale, come poteva essere l’accordo sull’utile di
Protagora, bensì l’occasionale prevalere di un punto di vista che riesce a imporsi
sugli altri e risulta vincente solo grazie alla potenza del discorso che lo sostiene.
Accanto a questo uso a fini persuasivi Gorgia ne ammette un altro più
significativo ed è quello di tipo critico dialettico. Egli come gli altri sofisti intende
la dialettica come la tecnica della discussione di qualsiasi tesi. Gorgia trasforma
- ________________________:
a –l’esaltazione ___________________
__________________________________
b –dialettica come __________________
________________________________
40
così il metodo della dimostrazione indiretta, che fa apparire la verità di una tesi
mediante la confutazione della tesi opposta, impiegata da Zenone in una tecnica
per demolire le pretese di verità di qualsiasi tesi.
Le riflessioni di Protagora e Gorgia sui rapporti tra linguaggio e realtà, linguaggio
e verità seguono la transizione da una fase acritica della problematica filosofica,
fondata sul postulato dell’identità tra i due termini, ad una fase critica in cui
prevale la consapevolezza della problematicità del loro rapporto.
Nell’antichità il problema di ristabilire un legame tra linguaggio, pensiero e realtà
e cioè tra parole, significati prodotti dal pensiero e oggetti esterni sarà l’oggetto
del dibattito successivo. Socrate, e soprattutto Platone, cercheranno di ripristinare
questo legame per poter tornare a distinguere tra vero e falso e proporre la
filosofia come ricerca della verità assoluta.
Dall’atteggiamento ________________
all’atteggiamento ____________________
Socrate e ____________________: il
ristabilimento _______________________
__________________________________
41
4 - W. J. ONG22 - ORALITÀ E SCRITTURA
1 –La scoperta delle differenze tra cultura ______________ e cultura
_________________
2 –Dalla parola ____________ alla parola ______________
3 –Le caratteristiche del pensiero in ____________________________
4 –Retaggi della cultura orale
1 –La scoperta delle differenze tra cultura ______________ e cultura
_________________
Differenze di fondo sono state scoperte in anni recenti tra i modi della conoscenza
e dell'espressione verbale nelle culture ad oralità primaria - vale a dire culture
senza la scrittura - e quelli delle culture profondamente influenzate dall'uso della
stessa. Con sorprendenti implicazioni: molti dei tratti per noi noti del pensiero e
dell'espressione letteraria, filosofica e scientifica, nonché della comunicazione
orale tra alfabetizzati, non sono dell'uomo in quanto tale, ma derivano dalle risorse
che la tecnologia della scrittura mette a disposizione della coscienza umana.
Abbiamo, dunque, dovuto rivedere il nostro modo stesso di intendere l'identità
umana. …
È utile accostarsi all'oralità e alla scrittura in modo sincronico, mettendo a
confronto le culture orali e quelle chirografiche (basate sulla scrittura) coesistenti
in un certo periodo di tempo. Ma è ugualmente essenziale l'approccio diacronico o
storico, vale a dire il confronto tra periodi successivi. La società umana si formò
dapprima con l'aiuto del discorso orale, e conobbe la scrittura solo più tardi, e
all'inizio, limitatamente a certi gruppi. L'homo sapiens esiste sulla terra da un
numero di anni che va dai 30.000 ai 50.000, mentre il più antico sistema di
scrittura risale solo a 6.000 anni fa. Uno studio diacronico dell'oralità, della
scrittura e delle varie tappe nell’'evoluzione dall'una all'altra crea strumenti
mediante i quali è possibile capire meglio non solo la cultura orale originaria e
quella scritta successiva, ma anche la cultura della stampa, che sviluppa
ulteriormente la scrittura, e quella elettronica, che si costruisce a partire dalla
scrittura e dalla stampa. In questo quadro diacronico, il passato e il presente,
Omero e la televisione, possono illuminarsi vicendevolmente. …
L'interesse più vivo nei confronti della differenza tra strutture mentali ed
espressione verbale dell'oralità e del la scrittura scaturì dal campo degli studi
letterari, soprattutto dal lavoro di Milman Parry23 sui testi dell'Iliade e dell'Odissea,
e ampliato successivamente da Eric A. Havelock24 e da altri. …
Solo ora, nell'era elettronica, ci rendiamo conto delle differenze esistenti fra oralità
e scrittura; sono state infatti le diversità fra i mezzi elettronici e la stampa che ci
hanno reso consapevoli di quelle precedenti fra scrittura e comunicazione orale.
22
W. J. Ong (1912-2003), storico delle culture e delle religioni statunitense. In Oralità e scrittura, da cui è
tratto il brano, Ong dimostra come l’introduzione di una nuova tecnologia (la scrittura) abbia
profondamente mutato le capacità del pensiero.
Ha compiuto studi significativi su alcuni gruppi etnici di scarsa alfabetizzazione , sulla funzione della
retorica e analisi di carattere letterario su William Shakespeare, la Bibbia, la Riforma e Controriforma, e
gli aspetti della cultura odierna di carattere popolare.
23
Milman Parry 23 (1902-35) rivoluzionò il panorama degli studi omerici, sostenendo che le strutture
formulari dei poemi omerici fossero spiegabili ipotizzando una composizione puramente orale, recitativa.
24
Eric A. Havelock (1903-1988) ha approfondito gli studi di Parry sul passaggio tra la cultura orale e
quella scritta nella Grecia antica, in particolare mostrando come gli inizi della filosofia greca siano legati
alla ristrutturazione del pensiero operata dalla scrittura.
42
L'era elettronica è anche un'era di «oralità di ritorno», quella del telefono, della
radio, della televisione, la cui esistenza dipende dalla scrittura e dalla stampa. Il
passaggio dall'oralità alla scrittura e da questa all'elaborazione elettronica
comporta un mutamento nelle strutture sociali, economiche, politiche, religiose,
ecc., ma di questo ci occuperemo solo indirettamente, qui ci interessano piuttosto
le differenze tra la «mentalità» delle culture orali e quella della cultura
alfabetizzata. …
2 –Dalla parola ____________ alla parola ______________
.. è possibile azzardare qualche generalizzazione sulla psicodinamica delle culture
orali primarie, vale a dire di quelle culture che non conoscono la scrittura. Per
ragioni di brevità, quando il contesto non dà adito ad incertezze di significato,
chiamerò le culture orali primarie semplicemente culture orali.
Gli alfabetizzati riescono ad immaginare solo con grande sforzo come sia una
cultura orale primaria, che non conosce affatto la scrittura, né la pensa possibile.
Provate a immaginare una cultura in cui nessuno ha mai «cercato» una parola in un
dizionario. In una cultura orale primaria, l'espressione «cercare una parola in un
dizionario» è priva di senso. Senza la scrittura, le parole come tali non hanno una
presenza visiva, anche quando gli oggetti che rappresentano sono visibili; esse sono
soltanto suoni che si possono «richiamare», ricordare, ma non c'è luogo alcuno
dove «cercarli». Non li si possono mettere a fuoco né rintracciare (metafore visive,
che dimostrano la dipendenza dalla scrittura), e non hanno nemmeno una direzione.
Sono suoni, occorrenze, eventi.
Il fatto che i popoli a tradizione orale spesso - forse sempre - ritengano che le
parole abbiano un potere magico è chiaramente collegato, almeno a livello
inconscio, al loro senso della parola come necessariamente parlata, e dunque
potente. Chi sia del tutto immerso nella mentalità tipografica non pensa alle parole
come suono, cioè come eventi, e dunque come dotate di potere; per loro, le parole
tendono piuttosto ad essere assimilate alle cose, che esistono «là fuori» su una
superficie piatta.
In secondo luogo, l'uomo chirografico e tipografico tende a pensare ai nomi come
ad etichette mentalmente affisse all'oggetto denominato. I popoli di tradizione orale
non hanno questo senso del nome come etichetta, poiché per loro il nome non è
cosa che si possa vedere. Se la rappresentazione scritta o stampata delle parole può
essere simile a un'etichetta, le parole vere, parlate, no. …
In una cultura orale, la restrizione della parola a suono determina non solo la
maniera di esprimersi, ma anche i processi intellettivi. Noi sappiamo ciò che
ricordiamo. Quando affermiamo di conoscere la geometria euclidea, non
intendiamo dire che in quel preciso momento ricordiamo tutti i suoi teoremi e le
sue dimostrazioni, ma che siamo in grado di ricordarli prontamente. Il teorema
«sappiamo ciò che ricordiamo» si applica anche a una cultura orale. Ma come
fanno le persone a richiamare qualcosa alla mente in una cultura orale? La
conoscenza organizzata, che oggi gli studiosi apprendono in modo da «saperla»,
cioè da potersela rammentare, è stata con pochissime eccezioni riunita e resa
disponibile per iscritto. È il caso questo non solo della geometria euclidea, ma della
storia della rivoluzione americana, del numero di goal nei campionati di calcio o
delle norme stradali.
Se una cultura orale non ha testi, come può raccogliere materiale e organizzarlo per
poterlo ricordare? E come chiedersi che cosa sa o può sapere in modo organizzato.
Supponiamo che un individuo appartenente a una cultura orale si metta a pensare
ad un problema particolarmente complicato, e che riesca finalmente ad articolare
una soluzione in sé relativamente complessa, consistente, diciamo, di qualche
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centinaio di parole. Come può egli tenere a mente tutte quelle parole, in modo da
essere poi in grado di ricordarle? Dove non esiste scrittura, non vi è nulla al di fuori
del pensatore stesso, nessun testo che lo aiuti a riprodurre il medesimo sviluppo di
pensiero, o anche a verificare se lo ha fatto. Gli aides-mémoire, ad esempio, i
bastoncini intagliati, o gli oggetti ordinati in un certo modo, non bastano di per sé a
richiamare alla mente una complicata sequenza di asserzioni. Innanzitutto, una
soluzione lunga e analitica è difficile da strutturarsi, ci vuole un interlocutore: è
difficile parlare a se stessi per ore di seguito. Un pensiero protratto in una cultura
orale è legato alla comunicazione. …
Le formule aiutano a dare ritmo al discorso e agiscono di per sé come aiuti
mnemonici, frasi fatte in bocca a tutti. «Rosso di sera, bel tempo si spera». «Divide
et impera». «Sbagliare è umano, perdonare è divino». «Vino generoso». «Forte come una quercia». «Il lupo perde il pelo ma non il vizio». Frasi fatte di questo o di
altri tipi, spesso a equilibrio ritmico, si possono occasionalmente trovare stampate,
le si può anche andare a cercare nei libri di proverbi, ma nelle culture orali esse non
sono occasionali, formano la sostanza stessa del pensiero. Senza di loro è
impossibile un pensiero che abbia una qualche durata, poiché esse lo costituiscono.
Quanto più sofisticato è il pensiero che si organizza oralmente, tanto più
aumentano le probabilità che esso sia caratterizzato dall'uso di frasi fatte. Questo
vale per tutte le culture orali dalla Grecia omerica a oggi, e in tutto il mondo. …
In una cultura orale, pensare in termini non formulaici, non mnemonici, se anche
fosse possibile, sarebbe una perdita di tempo, poiché il pensiero, una volta
formulato, non potrebbe più essere ricordato se non con l'aiuto della scrittura. Per
quanto raffinata non sarebbe perciò conoscenza duratura, ma pensiero fuggevole. I
modelli e le formule fisse nelle culture orali svolgono alcune delle funzioni della
scrittura in quelle chirografiche, ma nel fare ciò determinano, naturalmente, il tipo
di pensiero che può essere formulato, e il modo in cui l'esperienza viene
intellettualmente organizzata. In una cultura orale, tale organizzazione è di tipo
mnemonico. È questa una delle ragioni per cui, in S. Agostino (354-430 d.C.) e in
altri sapienti che vivevano in una cultura che conosceva la scrittura ma manteneva
anche forti residui di oralità, la memoria occupa un posto così importante tra i
poteri della mente. …
3 –Le caratteristiche del pensiero in ____________________________
La consapevolezza dell'esistenza di una base mnemonica nel pensiero e
nell'espressione delle culture a oralità primaria, permette di comprendere alcune
altre loro caratteristiche, oltre allo stile formulaico. Le caratteristiche trattate qui di
seguito sono fra quelle che differenziano il pensiero e l'espressione basati
sull'oralità da quelli basati sulla scrittura e sulla stampa, sono cioè le caratteristiche
che con maggiore probabilità sorprendono chi è cresciuto in culture permeate dalla
scrittura e dalla stampa. Questo elenco non è esclusivo né definitivo; vuole solo
fornire qualche suggerimento, poiché è necessario che si lavori e si rifletta ancora
molto per approfondire la comprensione del pensiero orale (e di conseguenza
giungere a una migliore comprensione di quello basato sulla scrittura, sulla stampa
e sull'elettronica).
Esamineremo, dunque, alcune di queste caratteristiche.
Innanzitutto, il pensiero e l’espressione in una cultura orale tendono a essere
aggregativi piuttosto che analitici.
Questa caratteristica si connette strettamente con l'uso di formule come ausili
mnemonici. Il pensiero e l'espressione a base orale tendono a comporsi non tanto di
unità discrete, quanto di gruppi di elementi come gli epiteti, i termini paralleli od
opposti e le frasi parallele od opposte. Chi è immerso in una cultura orale
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preferisce, specialmente in un discorso non quotidiano, sentir parlare non del
soldato, ma del soldato coraggioso; non della principessa, ma della bella
principessa; non della quercia, ma della quercia forte. In questo modo, l'espressione
orale porta con sé un bagaglio di epiteti e di altri elementi formulaici che
l'alfabetizzazione avanzata invece rigetta come pesi morti dalla ridondanza
fastidiosa.
I cliché usati per le denunce politiche in molte culture in via di sviluppo e a basso
livello tecnologico: «nemico del popolo», «guerrafondaio capitalista», che sembrano stupide ad una mentalità altamente alfabetizzata, sono residuati formulari
essenziali al pensiero orale. Uno dei molti indizi della presenza di un alto residuo
di oralità, anche se una oralità in diminuzione, è, nella cultura dell’'Unione
Sovietica (o almeno lo era alcuni anni fa, quando ho potuto riscontrare il fatto),
l'insistenza a parlare sempre della «Gloriosa Rivoluzione del 26 Ottobre». Qui la
formula con epiteto è un fattore stabilizzante obbligatorio, come lo erano in Omero
«il saggio Nestore» o «l'astuto Ulisse», o come «il glorioso 4 luglio» negli Stati
Uniti ancora all'inizio del XX secolo. …
Le espressioni tradizionali nelle culture orali non possono essere disgregate: è
costata fatica per metterle insieme nel corso di generazioni e non vi sono altri
luoghi per immagazzinarle se non la mente. Così i soldati saranno sempre coraggiosi, le principesse belle e le querce forti. Questo non significa che non vi
possano essere altri aggettivi per i soldati, per le principesse e le querce, anzi, vi
sono anche quelli opposti, ma anch'essi sono standard: il soldato spaccone, la
principessa infelice, possono far parte anch'essi del formulario. Ciò che vale per gli
epiteti, vale anche per le altre formule. Una volta che un'espressione formulaica si è
cristallizzata, è bene mantenerla intatta. Senza un sistema di scrittura, la
scomposizione del pensiero, cioè l'analisi, è un procedimento molto rischioso.
Il pensiero richiede una certa continuità. La scrittura stabilisce nel testo una linea di
continuità al di fuori della mente; se mi distraggo, o dimentico il contesto da cui
emerge il materiale che sto ora leggendo, esso può essere recuperato tornando
indietro nel testo. Questa operazione è del tutto occasionale, puramente ad hoc: la
mente concentra le proprie energie nell'andare avanti, poiché ciò cui si riaggancia
sta inerte fuori di sé, sempre disponibile sulla pagina scritta. Nel discorso orale la
situazione è diversa: non c'è niente cui riagganciarsi al di fuori della mente, poiché
l'espressione orale svanisce appena pronunciata. Di conseguenza il pensiero deve
procedere più lentamente, mantenendo al centro dell'attenzione gran parte dei
contenuti già trattati; di qui un’altra caratteristica del pensiero orale: la sua
ridondanza, la ripetizione del già detto, mezzi per mantenere saldamente sul
tracciato sia l'oratore, sia l'ascoltatore.
Dal momento che la ridondanza caratterizza il pensiero e il discorso orali, essa è, in
senso profondo, più naturale al pensiero e al linguaggio di quanto non lo sia la
linearità. Un pensiero e un discorso lineari e non ripetitivi, o analitici sono
creazioni artificiali, strutturate dalla tecnologia della scrittura. Eliminare in maniera
rilevante la ridondanza richiede una tecnologia che superi il problema del tempo, e
questa è la scrittura, che richiede alla psiche uno sforzo per impedire all'espressione
di ricadere nei moduli ad essa più naturali. La psiche può affrontare questo sforzo
anche grazie al fatto che la scrittura manuale è un processo fisicamente molto lento,
in genere circa un decimo della velocità del discorso orale. Con la scrittura, la
mente viene frenata e le è così permesso di interrompere e riorganizzare il suo
procedere più naturale e ridondante. …
Poiché in una cultura ad oralità primaria una conoscenza concettualizzata che non
venga ripetuta ad alta voce svanisce presto, le società che su di essa si basano
devono investire molta energia nel ripetere più volte ciò che è stato faticosamente
imparato nel corso dei secoli. Questa esigenza crea una mentalità altamente
tradizionalista e conservatrice che, a ragion veduta, inibisce la sperimentazione
intellettuale. La conoscenza è preziosa ed è arduo raggiungerla, per cui la società
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tiene in gran considerazione i vecchi saggi che si specializzano nel conservarla, che
conoscono e possono raccontare le storie dei giorni che furono. La scrittura, e
ancor più la stampa, immagazzinando la conoscenza al di fuori della mente,
degradano invece l'immagine dei vecchi saggi, semplici ripetitori del passato, in
favore di più giovani scopritori di cose nuove. …
Tutto il pensiero concettuale è, fino a un certo punto, astratto. Un termine
«concreto» come «albero» non si riferisce semplicemente a un singolo albero
«concreto», ma è un'astrazione del tutto slegata dalla realtà sensibile: si riferisce a
un concetto che non è né quest'albero né quello, ma che si può applicare a ogni
albero. Ogni singolo oggetto che noi definiamo albero è «concreto» e niente affatto
«astratto», è solo se stesso, ma il termine che noi gli applichiamo è di per sé
un'astrazione. Ciononostante, se tutto il pensiero concettuale è in qualche misura
astratto, alcune utilizzazioni di un concetto sono più astratte di altre.
Le culture orali tendono ad usare i concetti in ambiti di riferimento situazionali e
operativi. Su questo fenomeno è stato scritto. Havelock ha mostrato che il concetto
greco pre-socratico di giustizia ha carattere operativo piuttosto che formalmente
concettualizzato, e giunse alla stessa conclusione per quanto riguarda l'epiteto
amymón applicato da Omero ad Egisto: esso non significa «irreprensibile», una
linda astrazione con la quale i letterati hanno solitamente tradotto il termine, ma
«bello come lo è un guerriero pronto alla battaglia».
Nulla di più esauriente è stato scritto sul pensiero operativo del libro di A.R. Lurija
“Storia sociale dei processi cognitivi". Dietro suggerimento del famoso psicologo
russo Lev Vygotsky25, Lurija eseguì un'ampia ricerca su illetterati e su persone a
bassa alfabetizzazione nelle aree più remote dell'Uzbekistan e della Kirghizia in
Unione Sovietica negli anni 1931 e 1932. Il suo libro fu pubblicato nell'edizione
russa originale soltanto nel 1974, quarantadue anni dopo la conclusione delle sue
ricerche, ed apparve in traduzione inglese due anni dopo. …
Egli identifica le persone che interroga in base ad una gamma che va
dall'analfabetismo totale a livelli diversi di alfabetizzazione, e i suoi dati
chiaramente rientrano nella classificazione basata sulla differenza tra i processi
cognitivi dell'oralità e quelli della scrittura. L'evidenziazione di tali differenze
mostra che una moderata conoscenza della scrittura è sufficiente a creare
grandissime differenze nei processi mentali.
I dati furono raccolti da Lurija e dai suoi colleghi nel corso di lunghe conversazioni
nell'atmosfera tranquilla di una casa da tè, dove le domande relative alla loro
ricerca erano formulate in modo informale, quasi come gli indovinelli con cui i
soggetti avevano familiarità. Veniva insomma fatto ogni sforzo per adattare le
domande ai soggetti nel loro proprio ambiente. Questi non avevano ruoli di rilievo
nella società, ma vi sono buone ragioni per credere che possedessero
un'intelligenza normale, e fossero quindi rappresentativi della loro cultura. Fra le
scoperte di Lurija, ne segnaliamo alcune che rivestono particolare interesse
nell'ambito del nostro discorso.
Gli illetterati (orali) identificavano le figure geometriche dando loro nomi di
oggetti e non di entità astratte come cerchi, quadrati, ecc. Un cerchio veniva
chiamato piatto, setaccio, secchio, orologio, luna; un quadrato era uno specchio,
una porta, una casa, un asse per far seccare le albicocche. I soggetti presi in esame
da Lurija identificavano i disegni come rappresentazioni delle cose reali che essi
conoscevano; non ritenevano di avere a che fare con cerchi o quadrati astratti, ma
con oggetti concreti. Gli studenti invece, anche quelli ad un livello moderato di
alfabetizzazione, davano alle figure geometriche nomi di categorie appunto
geometriche: cerchi, quadrati, triangoli, e così via, davano cioè risposte insegnate
loro a scuola e non legate all'esperienza concreta.
25
Lev Vygotsky (1896-1934), le sue ricerche sui processi cognitivi, condannata durante lo stalinismo, sono state
importanti poiché hanno messo l’attenzione sui rapporti tra linguaggio e pensiero.
46
In un’altra situazione ai soggetti interrogati venivano mostrati i disegni di quattro
oggetti, tre dei quali appartenenti a una categoria, e il quarto ad un'altra, e veniva
loro chiesto di raggruppare quelli che erano simili fra loro, o che potevano essere
riuniti assieme, o definiti con una stessa parola. Una serie consisteva di disegni
raffiguranti gli oggetti martello, sega, ceppo, accetta. I soggetti illetterati pensavano
a raggrupparli non in termini di categorie (tre strumenti e il ceppo che non è uno
strumento) ma di situazioni pratiche - «pensiero situazionale» -, senza utilizzare per
la classificazione il concetto di «strumento» che si poteva riferire a tutti gli oggetti
tranne che al ceppo. Nell'ottica di un lavoratore, il ceppo può essere agevolmente
accomunato agli attrezzi, poiché tali attrezzi sono stati fatti apposta per lavorare
con esso, non per esserne tenuti lontani in un misterioso gioco intellettuale. La
risposta di un contadino illetterato di 25 anni fu: «sono tutti simili, la sega segherà
il ceppo, e l'accetta lo romperà in piccole parti. Se bisogna buttar via qualcosa,
butto l'accetta che serve meno della sega». Dettogli che martello, sega e accetta
sono tutti attrezzi, egli respinse la classificazione categoriale persistendo nel
pensiero situazionale: «si, ma anche se abbiamo gli strumenti ci vuole il legno,
senza di esso non si costruisce niente».
D'altro canto, un giovane di diciotto anni, che per due soli anni aveva studiato
presso la scuola del villaggio, non solo classificò una serie simile in termini di
categorie, ma insistette sulla correttezza della propria classificazione . Un
lavoratore di 56 anni a bassa alfabetizzazione mescolò i due criteri di
classificazione, benché prevalente fosse quello categoriale. Presentatagli la serie
ascia, accetta e falce, che doveva completare con un oggetto preso dalla serie sega,
spiga, ceppo, egli completò la prima serie con sega, dicendo: «Sono tutti utensili
agricoli»; ma poi ci ripensò e aggiunse: «ma il grano si può mietere con la falce».
Evidentemente, una classificazione astratta non lo convinceva del tutto. …
Sappiamo che la logica formale è un'invenzione della cultura greca successiva
all'interiorizzazione della tecnologia della scrittura alfabetica, per cui essa possiede
fra le sue risorse conoscitive permanenti quel tipo di pensiero che la scrittura
alfabetica ha reso possibile. Alla luce di questa conoscenza, gli esperimenti di
Lurija sulle reazioni degli illetterati nei confronti di un ragionamento formalmente
sillogistico e deduttivo sono particolarmente illuminanti. In breve, i soggetti
sembravano non operare affatto mediante processi formali di deduzione; il che non
significa che non fossero in grado di pensare, o che il loro pensiero non fosse retto
dalla logica, ma soltanto che essi non lo adattavano a schemi puramente logici, i
quali sembravano loro privi di interesse. Perché privi di interesse? Perché i
sillogismi hanno a che vedere con il pensiero, ma nella pratica nessuno opera
mediante tali schemi formali. …
«All'estremo nord, dove c'è la neve, tutti gli orsi sono bianchi. La Terranova sta
all'estremo nord e li c'è sempre la neve. Di che colore sono gli orsi?». Una risposta
tipica è la seguente: «Non so, io ho visto un orso nero, altri non ne ho visti... ogni
località ha i suoi animali». Si può sapere di che colore sono gli orsi solo
osservandoli. Chi ha mai pensato di discutere nella vita pratica sul colore degli orsi
polari? Inoltre, come si fa a essere sicuri che in un paese nevoso tutti gli orsi siano
bianchi? Sottopostogli questo sillogismo una seconda volta, il direttore di una cooperativa agricola, quarantacinquenne e appena alfabetizzato, rispose: «Stando alle
vostre parole, tutti gli orsi debbono essere bianchi». «Stando alle vostre parole»
sembra indicare una certa conoscenza delle strutture intellettive formali. Un livello
minimo di alfabetizzazione comporta già una notevole differenza ma, d'altra parte,
la bassa alfabetizzazione fa sì che l'individuo si senta più a suo agio nei rapporti
interpersonali quotidiani che non in un mondo di pure astrazioni. «Stando alle
vostre parole» è come dire: è vostra responsabilità, non mia, se la risposta viene
fuori così.
.. il sillogismo è autoconsistente: le sue conclusioni derivano soltanto dalle
premesse. Coloro che non hanno ricevuto un'educazione accademica non
47
conoscono bene questa pratica, ma tendono piuttosto, nell'interpretazione degli
assunti, sillogismi o meno, ad andare al di là delle frasi stesse, come si fa
generalmente nelle situazioni reali della vita o negli indovinelli (comuni a tutte le
culture orali). Direi anche che il sillogismo assomiglia così a un testo, fisso e
isolato. Questo fatto mette in risalto la base chirografica della logica, mentre
l'indovinello appartiene al mondo orale. Occorre essere astuti per risolvere un
indovinello; si attinge ad una conoscenza spesso inconscia che va al di là
dell'esplicito.
Nella ricerca condotta da Lurija, anche le richieste di definire gli oggetti più
concreti incontravano resistenza. «Spiegate che cos'è un albero». «Perché dovrei,
tutti sanno che cos'è un albero, non c'è bisogno che glielo dica io», rispose un
contadino analfabeta di ventidue anni. Perché definire, quando una situazione reale
è di gran lunga più soddisfacente di qualsiasi definizione? Il contadino aveva
ragione, non c'è modo di confutare il mondo dell'oralità primaria, lo si può solo
abbandonare imparando a leggere e a scrivere. …
Infine, gli illetterati interrogati da Lurija avevano difficoltà a produrre un'autoanalisi articolata. Questa richiede, infatti, una parziale demolizione del pensiero
situazionale, ha bisogno di isolare l'io, intorno al quale ruota l'intero mondo delle
esperienze vissute dall'individuo, e di spostare il centro di ogni situazione quel
tanto che basta per permettere di porvi l'io per esaminarlo e descriverlo. Lurija
poneva le sue domande solo dopo prolungate conversazioni sulle caratteristiche e
sulle differenze individuali delle persone . A un illetterato di 38 anni, proveniente
da una zona montana, fu chiesto: «E voi che uomo siete, come è il vostro carattere,
che qualità e che difetti avete? Come vi descrivereste?». Ed egli rispose: «Sono
venuto qui dal1'UchKurgan, ero molto povero, adesso mi sono sposato e ho dei
bambini». «Siete contento di voi o vorreste essere diverso?». «Sarebbe bello se
avessi più terra e potessi seminare più grano ... ». Le condizioni esterne della vita
governavano la sua attenzione. …
4 –Retaggi della cultura orale
Le reazioni dei soggetti interrogati suggeriscono che è forse è impossibile che un
test scritto, o addirittura un test orale elaborato all'interno di una cultura
alfabetizzata, sia in grado di determinare con esattezza le capacità intellettuali di
individui appartenenti ad una cultura completamente orale. Gli abitanti dell'isola
Pulawat nel Pacifico meridionale rispettano i loro navigatori, che devono essere
molto intelligenti a causa dell'abilità richiesta dal loro lavoro, non perché li
considerino «intelligenti», ma perché sono bravi navigatori. Un abitante
dell’'Africa centrale a cui era stato chiesto che cosa pensasse del nuovo preside
della scuola del villaggio rispose: «Stiamo un po' a vedere come balla». Chi
appartiene a una cultura orale calcola l'intelligenza di un individuo non in base a
complicati quiz testuali, ma a partire da un contesto concreto.
Le domande di tipo analitico compaiono in uno stadio di alfabetizzazione molto
avanzato, esse sono infatti assenti non solo nelle culture orali, ma anche in quelle
scritte. Gli esami scritti divennero d'uso generale, nel mondo occidentale, solo
migliaia di anni dopo l'invenzione della scrittura, quando essa aveva ormai prodotto
i suoi effetti sulle strutture mentali. Il latino classico non aveva parole per indicare
l'«esame» così come noi lo «sosteniamo» oggi e cerchiamo di «superarlo» nelle
scuole. Nel mondo occidentale fino alle ultime generazioni, e ancor oggi altrove, la
pratica accademica richiede che gli studenti ripetano in classe ad alta voce quel che
l'insegnante ha detto (ecco le formule, il retaggio orale) e che imparino a memoria
dai libri di testo o dalle istruzioni ricevute in classe.
W. J. Ong, Oralità e scrittura”, Il Mulino, 1986 (Estratti pag. 19-24, 59-87)
48
5 - J.-P. VERNANT26 - LE ORIGINI DEL PENSIERO GRECO
1 - Le novità della _______________greca
2 - Il crollo del sistema _______________: il mondo ___________
3 - Le novità della _____________
4 - Religioni _______________
5 - La filosofia tra ______________ e _____________________
6 - Mito e _________________
1 - Le novità della _______________greca
Qual è, mi sono dunque chiesto, l'origine del pensiero razionale in occidente?
Come è avvenuta la sua nascita nel mondo greco? Tre aspetti mi sono sembrati
caratterizzare per l'essenziale il nuovo tipo di riflessione la cui apparizione segna,
all'inizio del VI secolo, nella colonia greca di Mileto, in Asia Minore, l'inizio della
filosofia e delle scienze elleniche.
In primo luogo, si costituisce un ambito di pensiero esterno ed estraneo alla
religione. I «fisici» della Ionia danno alla genesi del cosmo e dei fenomeni naturali
spiegazioni di carattere profano e di tipo assolutamente positivo. Deliberatamente,
essi ignorano le potenze divine riconosciute dal culto, le pratiche rituali stabilite e i
racconti sacri tradizionalmente fissati dai canti di poeti «teologi» come Esiodo.
In secondo luogo, delinea l'idea di un ordine cosmico che non poggia, come nelle
teogonie tradizionali, sulla potenza di un dio sovrano, sulla sua monarchia,
(basiléia), ma su una legge immanente all'universo, una regola di ripartizione,
(nomos), che impone a tutti gli elementi costitutivi della natura un ordine
egualitario, in modo che nessuno possa esercitare sugli altri il suo dominio (kratos).
Infine questo pensiero ha un carattere profondamente geometrico. Si tratti di
geografia, di astronomia o di cosmologia esso concepisce e proietta il mondo fisico
entro un quadro spaziale che non è più definito dalle qualità religiose del fasto e del
nefasto, del celeste o dell'infernale ma è fatto di relazioni reciproche, simmetriche,
reversibili.
Questi tre aspetti, il carattere profano e positivo, la nozione di un ordine della
natura astrattamente concepito e fondato su rapporti di stretta uguaglianza, la
visione geometrica di un universo situato in uno spazio omogeneo e simmetrico,
sono strettamente collegati. Essi definiscono nell'insieme ciò che la razionalità
greca, nella sua forma e nel suo contenuto, comporta di nuovo in rapporto al
passato e di originale in confronto con le civiltà del Vicino Oriente che i Greci
hanno potuto conoscere.
A che cosa sono legate queste innovazioni, perché si sono prodotte nel mondo
greco? Rispondere a questi interrogativi voleva dire ricercare l'insieme delle
condizioni che hanno condotto la Grecia dalla civiltà dei palazzi micenei,
vicinissima ai regni orientali contemporanei, all'universo sociale e spirituale della
polis. L'avvento della città non si limita a segnare una serie di trasformazioni
economiche e politiche, implica un cambiamento di mentalità, la scoperta di un
altro orizzonte intellettuale, l'elaborazione di un nuovo spazio sociale centrato
sull'agorà, la piazza pubblica …
26
Jean-Pierre Vernant (1914-2007), francese, studioso dell’antichità classica, di storia delle religione,
resistente antifascista, maestro di cultura, d'impegno civile, di rigore morale e intellettuale.
Profondo conoscitore dei miti della Grecia arcaica, Vernant è considerato il caposcuola di un nuovo
utilizzo delle fonti mitologiche nella storia antica. Egli sostenne che lo studio comparato del mito, e del
rito che lo accompagna, svela le tracce della tradizione e delle vicende storico-politiche sulle quali il mito
si fonda e offre quindi nuova luce all’interpretazione della storia antica.
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2 - Il crollo del sistema _______________: il mondo ___________
Abbattuta Micene, il mare cessa di essere una via di passaggio per diventare una
barriera. Isolato, ripiegato su se stesso, il continente greco torna a una forma di
economia puramente agricola. Il mondo omerico non conosce più una divisione del
lavoro paragonabile a quella del mondo miceneo, né l'impiego su scala altrettanto
vasta della manodopera servile. Esso ignora le molteplici corporazioni di «uomini
dell'utensile» raggruppati nei dintorni del palazzo o residenti nei villaggi per
eseguirvi le ordinazioni del re. Nella caduta dell'impero miceneo, il sistema
palaziale crolla al completo; non si risolleverà mai più. Il termine anax27 scompare
dal vocabolario propriamente politico. Nell'impiego tecnico, per designare la
funzione regale, esso é sostituito dalla parola basileus, che, piuttosto che un'unica
persona in cui si concentrano tutte le forme del potere, designa, impiegata al
plurale, una categoria di Grandi che si pongono, gli uni come gli altri, alla sommità
della gerarchia sociale. Abolito il regno dell'anax, non si trova più traccia di un
controllo organizzato dal re, di un apparato amministrativo, di una classe di scribi.
La stessa scrittura scompare, come inghiottita nella rovina dei palazzi. Quando i
Greci la riscopriranno, verso la fine del IX secolo, questa volta prendendola a
prestito dai Fenici, non sarà soltanto una scrittura di un tipo diverso, fonetico, ma
un fatto di civiltà radicalmente differente: non più la specialità di una classe di
scribi, ma l'elemento di una cultura comune. Il suo significato sociale e psicologico
si sarà così trasformato, si potrebbe dire capovolto: la scrittura non avrà più lo
scopo di costituire archivi, per uso del re, nel segreto di un palazzo; essa servirà
ormai a una funzione di pubblicità; permetterà di divulgare, di porre sotto lo
sguardo di tutti, i vari aspetti della vita sociale e politica. …
3 - Le novità della _____________
L'apparizione della polis costituisce, nella storia del pensiero greco, un
avvenimento decisivo. Certo, sul piano intellettuale come nel campo delle
istituzioni, esso produrrà solo per gradi tutte le sue conseguenze: la polis conoscerà
fasi molteplici, forme variate. Tuttavia, fino dagli inizi, che si possono situare tra
l'VIII e il VII secolo, essa segna un punto di partenza, una vera invenzione; grazie
ad essa, la vita sociale e le relazioni tra gli uomini assumono una forma nuova, di
cui i Greci sentono pienamente l'originalità.
Il sistema della polis implica prima di tutto una straordinaria preminenza della
parola su tutti gli altri strumenti del potere. Essa diventa lo strumento politico per
eccellenza, la chiave di ogni autorità nello Stato, il mezzo di comando e di dominio
su altri. Questa potenza del linguaggio ricorda l'efficacia delle parole e delle
formule in certi rituali religiosi, o il valore attribuito ai «detti» del re; in realtà,
tuttavia, si tratta di una cosa affatto diversa. II linguaggio non é più la parola
rituale, la formula giusta, ma il dibattito contraddittorio, la discussione,
l'argomentazione. Presuppone un pubblico al quale esso si rivolge come a un
giudice che decide in ultima istanza, per alzata di mano, tra i due partiti che gli
sono presentati: è questa scelta puramente umana che misura la forza di
persuasione rispettiva dei due discorsi, assicurando la vittoria di uno degli oratori
sul suo avversario.
Tutte le questioni d'interesse generale che il sovrano aveva la funzione di regolare
sono ora sottomesse all'arte oratoria e devono essere decise al termine di un
dibattito; occorre dunque che possano essere fuse nella matrice di dimostrazioni
27
Termine con cui era indicato il sovrano in epoca micenea, sovrano a cui erano, come nelle monarchie
orientali, attribuiti poteri politici e facoltà divine.
50
antitetiche, di argomentazioni opposte. Tra la politica e il logos c’è così un
rapporto stretto, un legame reciproco. L'arte politica consiste essenzialmente nel
maneggiare il linguaggio; e il logos, all'origine, prende coscienza di se stesso, delle
sue regole, della sua efficacia, attraverso la sua funzione politica. Storicamente,
sono la retorica e la sofistica che, mediante l'analisi da esse intrapresa delle forme
del discorso quale strumento di vittoria nelle lotte dell'assemblea e del tribunale,
aprono la strada alle ricerche di Aristotele, definendo le regole della dimostrazione,
accanto a una tecnica della persuasione, e ponendo una logica del vero, propria del
sapere teorico, di fronte alla logica del verosimile o del probabile che presiede ai
dibattiti aleatori della pratica.
Un secondo aspetto della polis è il carattere di piena pubblicità dato alle
manifestazioni più importanti della vita sociale. Si può anche dire che la polis
esiste soltanto nella misura in cui si è riservata un dominio pubblico, nei due sensi,
diversi ma solidali, del termine un settore d'interesse comune, opposto agli affari
privati; pratiche aperte, stabilite alla luce del sole, opposte alle procedure segrete.
… Questo duplice movimento di democratizzazione e di divulgazione avrà
conseguenze decisive sul piano intellettuale. La cultura greca si costituisce aprendo
a una cerchia sempre più larga — e infine all'intero demos — l'accesso al mondo
spirituale riservato in origine a un'aristocrazia di carattere guerriero e sacerdotale
(l'epopea omerica è un primo esempio di questo processo: una poesia di corte,
cantata dapprima nelle sale dei palazzi, evade da essi, si allarga, e si muta in poesia
di festa). Ma questo allargamento comporta una profonda trasformazione.
Divenendo elementi di una cultura comune, le conoscenze, i valori, le tecniche
mentali sono a loro volta portati sulla piazza pubblica, sottomessi a critica e a
controversia. Non sono più conservati, come garanzie di potenza, nel segreto di tradizioni familiari; la loro pubblicazione susciterà esegesi, interpretazioni diverse,
opposizioni, dibattiti appassionati. Ormai la discussione, l'argomentazione, la
polemica diventano le regole del gioco intellettuale come del gioco politico. Il
controllo costante della comunità si esercita sulle creazioni dello spirito come sulle
magistrature dello Stato. La legge della polis, in opposizione al potere assoluto del
monarca, esige che le une e le altre siano ugualmente sottoposte a una «resa dei
conti». Esse non s'impongono più mediante la forza di un prestigio personale o
religioso: devono dimostrare la loro giustezza mediante processi di ordine
dialettico.
La parola forma, nel quadro della città, lo strumento della vita politica; e la
scrittura fornirà, sul piano propriamente intellettuale, il mezzo di una cultura
comune, e permetterà una divulgazione completa di conoscenze dapprima riservate
o interdette. Presa a prestito dai Fenici e modificata per ottenere una trascrizione
più precisa dei suoni greci, la scrittura potrà soddisfare questa funzione di
pubblicità perché anch'essa è diventata, quasi allo stesso titolo della lingua parlata,
un bene comune di tutti i cittadini. Le più antiche iscrizioni a noi note in alfabeto
greco mostrano che fin dall'VIII secolo non si tratta più di una conoscenza
specializzata, riservata agli scribi: la tecnica è largamente usata e liberamente
diffusa tra il pubblico. …
Si capisce così la portata di una rivendicazione che sorge col nascere della città: la
redazione delle leggi. Scrivendo le leggi, non si fa altro che assicurarne la
permanenza e la stabilità; le si sottrae all'autorità privata dei basileis, la cui
funzione era di «dire» il diritto; esse diventano bene comune, regola generale,
suscettibile di un'applicazione uguale per tutti. …
Quando a loro volta alcuni individui decidono di rendere pubblico il loro sapere
mediante la scrittura, sia sotto forma di libro come quelli che, per primi, avrebbero
scritto Anassimene e Ferecide28, o come quello che Eraclito depositò nel tempio di
28
Ferecide di Syros , (VI sec. a. C.), considerato da alcuni uno dei Sette sapienti greci e il maestro di
Pitagora, fu tra i primi a scrivere in prosa; anche nella sua opera si riscontrano i segni del passaggio dal
discorso mitologico a quello razionale
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Artemide a Efeso, sia sotto forma di parapegma, iscrizione monumentale su pietra,
analoga a quelle che la città fa incidere a nome dei suoi magistrati o dei suoi
sacerdoti (cittadini privati vi iscriveranno osservazioni astronomiche o tavole
cronologiche), la loro ambizione non è di far conoscere ad altri una scoperta
personale o una opinione personale: essi vogliono farne un bene comune della città,
una norma suscettibile, come la legge, d'imporsi a tutti. Divulgata, la loro saggezza
assume una consistenza e una oggettività nuove: si costituisce anch'essa come
verità. Non si tratta più di un segreto religioso, riservato ad alcuni eletti, favoriti da
una grazia divina. Certo, la verità del sapiente, come il segreto religioso, é
rivelazione dell'essenziale, di una realtà superiore che trascende di molto la
conoscenza comune degli uomini; ma consegnandola alla scrittura la si strappa alla
cerchia chiusa delle sette per esporla in piena luce agli sguardi dell'intera città; ciò
significa riconoscere che essa é per diritto accessibile a tutti, accettare di sottoporla,
come il dibattito politico, al giudizio di tutti, con la speranza che in definitiva sarà
accettata e riconosciuta da tutti. …
4 - Religioni _______________
Tuttavia questo passaggio della vita sociale alla pubblicità completa non avviene
senza difficoltà né senza resistenze. Il processo di divulgazione si svolge a tappe,
incontrando, in tutti i campi, ostacoli che ne limitano i progressi. ..
Del resto, nel campo della religione, ai margini della città e a fianco del culto
pubblico si sviluppano associazioni fondate sul segreto. Sette, confraternite e
misteri sono gruppi chiusi, gerarchizzati, con piani e gradi diversi. Organizzati sul
modello delle società iniziatiche, hanno la funzione di selezionare, attraverso una
serie di prove, una minoranza di eletti che beneficeranno di privilegi inaccessibili
alla gente comune. Ma, contrariamente alle antiche iniziazioni cui erano sottomessi
i giovani guerrieri e che conferivano loro un'abilitazione al potere, i nuovi
raggruppamenti segreti sono ormai confinati su un terreno puramente religioso. Nel
quadro della città, l'iniziazione non può più procurare che una trasformazione
«spirituale», senza incidenza politica. Gli eletti sono dei puri, dei santi. Vicini al
divino, sono certo votati a un destino eccezionale, ma lo conosceranno nell'aldilà.
La promozione di cui beneficiano appartiene a un altro mondo.
A tutti coloro che desiderano conoscere l'iniziazione, il mistero offre, senza
limitazione di nascita o di rango, la promessa di un'immortalità felice che
all'origine era un privilegio esclusivamente regale; esso divulga nella cerchia più
larga degli iniziati i segreti religiosi appartenenti in esclusiva a famiglie sacerdotali.
Ma nonostante questa democratizzazione di un privilegio religioso, il mistero non
si pone mai su una prospettiva di pubblicità. Al contrario, ciò che lo definisce come
mistero é la pretesa di raggiungere una verità inaccessibile per vie normali, e che
non potrebbe in nessun modo essere «esposta», di ottenere una rivelazione tanto
eccezionale che apre l'accesso a una vita religiosa sconosciuta al culto di Stato e
che riserva agli iniziati una sorte non paragonabile alla condizione ordinaria del
cittadino. Il segreto acquista così, in contrasto con la pubblicità del culto ufficiale,
un significato religioso particolare: definisce una religione della salvezza personale
mirante a trasformare l'individuo indipendentemente dall'ordine sociale, a
realizzare in lui come una nuova nascita che lo strappa alla condizione comune e lo
fa accedere a un piano di vita diverso. …
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5 - La filosofia tra ______________ e _____________________
La filosofia, al suo nascere, si trova dunque in una posizione ambigua: nei suoi
procedimenti, nella sua ispirazione, si apparenta in pari tempo alle iniziazioni dei
misteri e alle controversie dell'agorà; oscilla tra lo spirito di segretezza proprio delle sette e la pubblicità del dibattito contraddittorio che caratterizza l'attività politica.
A seconda dell'ambiente, del momento, delle circostanze, la vediamo organizzarsi
in confraternita chiusa o integrarsi del tutto nella vita pubblica, presentarsi come
una preparazione all'esercizio del potere nella città e offrirsi liberamente ad ogni
cittadino mediante lezioni pagate in denaro. Di questa ambiguità che segna la sua
origine, la filosofia greca non si é forse mai liberata del tutto. Il filosofo non cessa
di oscillare tra due atteggiamenti, di esitare tra due tentazioni contrarie. A volte
afferma di essere il solo qualificato per dirigere lo Stato e, sostituendosi
orgogliosamente al re divino, pretende, in nome del «sapere» che lo eleva al di
sopra degli uomini, di riformare tutta la vita sociale e di ordinare sovranamente la
città. A volte si ritira dal mondo per ripiegarsi in una sapienza puramente privata;
raggruppando attorno a sé alcuni discepoli, vuole instaurare con essi nella città una
città affatto diversa, al margine della prima, e, rinunciando alla vita pubblica, cerca
la salvezza nella conoscenza e nella contemplazione. …
6 - Mito e _________________
Si potrebbe supporre che il destino del pensiero greco di cui ho cercato di tracciare
il corso si sia giocato tra due termini, il mito e la ragione. In questa formula
semplice e rigida l'interpretazione, a mio avviso, implicherebbe un controsenso.
Mostravo già molto chiaramente che i Greci non hanno inventato la Ragione, come
categoria unica e universale, ma una ragione, quella di cui il linguaggio é
strumento e che consente di agire sugli uomini, non di trasformare la natura, una
ragione politica nel senso in cui Aristotele definisce l'uomo animale politico. Ma
abbiamo davvero il diritto di parlare di una ragione greca, al singolare? Quando
non ci si fermi più, come ho fatto, alla filosofia milesia del VI secolo ma si
prendano in considerazione gli sviluppi ulteriori della riflessione filosofica, il corpo
dei trattati medici, la redazione di inchieste storiche con Erodoto e Tucidide, le
ricerche matematiche, astronomiche, acustiche, ottiche, si é condotti a sfumare di
molto il quadro e a far riferimento a tipi diversi di razionalità diversamente attenti
all'osservazione del reale o alle esigenze formali della dimostrazione e per i quali il
punto di partenza, le procedure intellettuali, i principi, gli scopi non sono gli stessi.
Ciò che é vero della ragione lo è altrettanto del mito. I lavori recenti degli
antropologi ci mettono in guardia dalla tentazione di configurare il mito come una
specie di realtà mentale iscritta nella natura umana che ritroveremmo in opera
ovunque e sempre, prima, a lato e dietro le operazioni propriamente razionali. Due
motivi, nel caso greco, ci invitano alla prudenza e ci raccomandano di distinguere
nel pensiero mitico forme e livelli diversi. Il termine mito ci viene dai Greci. Ma
per coloro che lo usavano in epoca arcaica esso non aveva il senso che gli diamo
attualmente. Mythos vuol dire «parola», «racconto». All'inizio non si oppone
minimamente a logos il cui senso primo é «parola», «discorso», prima che designi
l’intelligenza e la ragione. È soltanto nel quadro della trattazione filosofica o
dell'inchiesta storica che, a partire dal V secolo, mythos, messo in opposizione a
logos, potrà caricarsi di una sfumatura peggiorativa e designare una affermazione
vana, destituita di fondamento in mancanza di una dimostrazione rigorosa o di una
testimonianza affidabile su cui poggiare. Ma anche in questo caso mythos,
squalificato dal punto di vista della verità nel suo contrasto con logos, non si
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applica a una categoria precisa di narrazioni sacre riguardanti gli dei o gli eroi.
Multiforme come Proteo, designa realtà assolutamente diverse: teogonie e
cosmogonie, certamente, ma anche favole di ogni tipo, genealogie, storie
fantastiche, proverbi, moralità, sentenze tradizionali; in breve tutto ciò che passa di
bocca in bocca e si trasmette in qualche modo spontaneamente. Nel contesto greco
dunque il mythos non si presenta come una forma particolare di pensiero ma come
l'insieme di ciò che veicola e diffonde, in mezzo alla casualità dei contatti, degli
incontri, delle conversazioni, la potenza senza volto, anonima e inafferrabile che
Platone chiama phèmè, il Rumore. Ma é appunto questo rumore di cui é fatto il
mythos greco ciò che noi non possiamo afferrare. E di qui viene un motivo
supplementare di prudenza. Nelle civiltà tradizionali che hanno conservato il loro
carattere orale, gli etnologi, quando conducono l'inchiesta sul campo, ascoltano i
racconti di ogni tipo che formano, nella loro ripetizione, la trama dei saperi comuni
ai membri del gruppo. Ma per la Grecia noi non possediamo e non possederemo
mai altro che testi scritti. I nostri miti non ci giungono vivi attraverso le parole
continuamente riprese e modificate dal Rumore; sono definitivamente fissati nelle
opere dei poeti epici, lirici, tragici che li utilizzano in funzione delle loro specifiche
esigenze estetiche conferendogli così, nella perfezione della forma, una dimensione
letteraria. …
Si tratta dunque, oggi, non di contrapporre il mito e la ragione come fossero due
avversari ben distinti ognuno con le sue proprie armi, ma di confrontare, con
un'analisi precisa dei testi, il modo diverso in cui «funziona» il discorso teologico
di un poeta come Esiodo paragonato ai testi dei filosofi o degli storici, di
individuare le divergenze nei modi di composizione, l'organizzazione e lo sviluppo
del racconto, i giochi semantici, le logiche della narrazione.
È appunto ciò che mi sono sforzato di fare insieme a molti altri, dopo il 1962, per
meglio distinguere nella loro specificità le vie che nella Grecia antica hanno a poco
a poco condotto a distinguere le figure di un mythos pensato come favola e opposte
sempre più nettamente a quelle di un logos pensato come ragionamento valido e
fondato.
J.-P. Vernant, “Le origini del pensiero greco”, Editori Riuniti, 1993, (estratti pag. 4-9, 4756)
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