C - I PROBLEMI DELLA FILOSOFIA: LA CONCEZIONE DELLA REALTÀ 1 3 -K. Pomian “I problemi della filosofia” 2 - Filosofia della città e tradizione aristocratico-sacerdotale 4 - W. J. Ong “Oralità e scrittura” 5 - J.-P. Vernant”Le origini del pensiero greco” 3 - K. POMIAN –I PROBLEMI DELLA FILOSOFIA Come parlare della filosofia? e, anzitutto, da dove incominciare? Di questo problema sono probabilmente possibili parecchie soluzioni. Quella che abbiamo scelto noi si pone dapprincipio all'esterno della filosofia e cerca di arrivare ad essa per via indiretta. Cominceremo infatti ponendo la seguente domanda: quali sono gli oggetti che almeno un gruppo componente la nostra società riconosce essere esistenti o reali? Vedremo che questi oggetti sono diversi, che essi possono essere distribuiti tra un certo numero di categorie, e che agli oggetti di ciascuna categoria si presume corrisponda un rapporto specifico suscettibile di essere stabilito con essi e altresì un discorso intorno a questi oggetti, il quale pretende essere un discorso vero, un sapere, poiché gli oggetti ai quali esso si riferisce sono ritenuti esistere. Finché manteniamo l'atteggiamento spontaneo, da tutti adottato nella vita quotidiana, questa pluralità di discorsi, che affermano di essere delle conoscenze, non ci turba. Eppure questi discorsi non sono semplicemente diversi: sembrano essere, o sono, in conflitto. Ed è questo conflitto che ci costringe ad abbandonare l'atteggiamento spontaneo e a domandarci se tutti gli oggetti, che crediamo esistere, esistano; se tutti i rapporti, che pensiamo siano rapporti con oggetti esistenti, lo siano davvero; se tutti i discorsi, che affermano di essere dei saperi, siano dei saperi. Sono strane domande queste. E tali sono perché, mettendo in discussione la legittimità della pretesa allo statuto di sapere avanzata da discorsi diversi, costringono colui che le pone a porsi inizialmente al di fuori di tutti quei discorsi, in uno spazio vuoto. Noi cercheremo qui di mostrare che tutte le filosofie rispondono a domande di questo genere, e che rispondere a domande di questo genere è appunto filosofare. ... Che esistano esseri viventi e cose inerti, come pure oggetti non appartenenti ad alcuna di queste due classi, è cosa che tutti ammettiamo (pur non essendone sempre consapevoli e, spesso, senza aver neppure bisogno di proclamarlo) per il semplice fatto di praticare attività diverse, di cui s'intesse la nostra vita quotidiana: di produrre e di consumare di comprare e vendere, spostarsi e riposarsi, leggere e scrivere, pregare e osservare, pensare e calcolare, guardare ciò che si offre alla nostra vista e partecipare ad imprese collettive, parlare e far l'amore... Ognuna di queste attività ci costringe, infatti, a tener conto di qualche cosa differente da noi stessi e tale che dobbiamo ora adattarci a esso, ora modificarlo con piú o meno fatica. Oggetti nei quali talora c'imbattiamo porgono una certa resistenza alla nostra azione o al nostro pensiero, esercitano su questi una costrizione e, in tal modo, si pongono innanzi a noi come esistenti o reali. E noi li percepiamo spontaneamente come già dati, come enti che esercitano su di noi una sorta di pressione che insistono perché noi accettiamo la loro realtà, e noi allora gliela accordiamo talvolta senza riflettervi, senza considerare in ogni singolo caso i pro e i contro; del resto, sovente essa ci pare ovvia. 1 .. Si ha ragione di accordare esistenza o realtà (i due termini qui son presi come sinonimi) a tutti gli oggetti ai quali esse vengono accordate nella nostra società, se non dall'opinione comune, almeno da quelle di determinati gruppi? Qualche problema .... ... Quanto all’articolazione interna della sfera di visibilità, al numero di fenomeni che vi distinguiamo e identifichiamo, ciò dipende manifestamente dall'allenamento degli occhi. Chiunque può infatti constatare che gli occhi conoscono un processo di apprendimento, e che determinati oggetti, prima non visti benché soddisfacessero a tutte le condizioni richieste per esserlo, divengono sensibili non appena si viene sensibilizzati alla loro presenza. Ora, questa sensibilizzazione è ingenerata da un sapere (un saper dire o un saper fare) che suggerisce delle domande da porre a ciò che può vedersi, suscita delle aspettative, orienta lo sguardo. Da tutto ciò consegue che l'atto di vedere non è né potrebbe essere un rapporto immediato fra gli occhi, intesi come meramente ricettivi, ed un oggetto che compaia nel campo visuale. Lo sguardo è sempre in qualche modo provvisto di informazioni, prima di posarsi su di un oggetto; il che spiega le difficoltà che incontriamo quando veniamo posti dinanzi a un oggetto completamente nuovo, e che riconosciamo tale, le piú volte, solo dopo una serie di tentativi vani di ricondurlo a qualche cosa, se non già vista, tale almeno che se ne sia già sentito parlare. … S e si assume che il sapere quotidiano e la scienza forniscano due rappresentazioni di un medesimo mondo, è evidente che queste saranno non solo differenti, ma difficilmente compatibili. Infatti, secondo la fisica attuale, l'Universo non e che una poltiglia di elettroni protoni, fotoni, ecc., tutti esseri dalle proprietà mal definite in perenne interazione. Come può darsi che codesta poltiglia si organizzi, sulla nostra scala, in un mondo relativamente stabile e coerente, ben lontano dal caos quantistico e meccanicistico che la teoria ci suggerisce? ... a noi interessa soltanto l'accertamento di una incompatibilità fra un mondo rappresentato come «poltiglia di elettroni » e un mondo composto da oggetti stabili, tra il mondo della scienza e il mondo della conoscenza percettiva. ... l’esistenza di altri oggetti ancora. Per esempio, la prima persona del singolare designa manifestamente chi sta parlando ed è visibile, ma, oltre a ciò, un oggetto che parla, il quale, invece, visibile non è. In effetti, questo oggetto non è identificabile con il corpo, del quale vediamo muoversi le labbra e a cui attribuiamo l'origine dei suoni che percuotono le nostre orecchie, perché esso è assunto come fonte di senso e come ricettore di quelli. La psicologia, la psicanalisi e la linguistica cercano di ricostruire questa fonte di senso. … Abbiamo sottolineato a piú riprese la funzione svolta dalla fede nell'ammissione, che ciascuno di noi fa, dell'esistenza di oggetti osservabili (quelli della scienza) e riproducibili (quelli della storia, della sociologia, ecc...); senza dubbio, veniamo assicurati che possiamo convincercene da noi, ma è manifesto che non lo facciamo, giacché tale possibilità è prettamente teorica: il solo modo di convincersi veramente che esistono neutrini o che sia esistito un faraone di nome Tutmosi III, è di diventare fisico o egittologo rispettivamente. In effetti, nella vita quotidiana l'esistenza di oggetti osservabili e riproducibili è ammessa attraverso un riconoscimento dell'autorità degli scienziati e degli storici, entrambi i quali costituiscono dei gruppi di professionisti organizzati in istituzioni. Lo stesso avviene con la fede in Dio; solo che qui vien riconosciuta l'autorità di un altra istituzione: di una Chiesa o di una setta, di un libro ritenuto frutto di 2 rivelazione o di una tradizione. Per un non-scienziato, quindi, l'affermazione dell'esistenza di particelle elementari differisce dall'affermazione dell'esistenza di Dio, non logicamente, ossia per il suo fondamento (che, in entrambi i casi, è costituito da un atto di fede), ma socialmente per la natura dell'istituzione la cui autorità viene riconosciuta. Queste due affermazioni differiscono altresì in quanto che la prima si ritiene non incida sul comportamento quotidiano dell'individuo, mentre ci si attende che la seconda fondi il rispetto di talune norme che regolano i rapporti dell'individuo con gli altri e con se stesso. … A sentire i discorsi dei corifei delle diverse istituzioni, non si può non esser colpiti dal posto in essi occupato dal riferimento all'avvenire. Il fatto, in sé, non ha nulla di sorprendente: è del tutto legittimo ammettere l'esistenza di una condizione futura della nostra società e di assimilarla a un oggetto provvisoriamente invisibile. Ma non ci si limita soltanto ad affermare che questo stato futuro della società perverrà all'esistenza: se ne parla anche come se fosse possibile prevederne i caratteri principali. È questo, infatti, che si pretende. Gli uni considerano l'avvenire un prolungamento del presente e assicurano che è possibile inferirne le linee generali a partire dai caratteri degli oggetti sociali che già ci sono noti. Si suppone quindi che questi ultimi rappresentino qualche cosa che ancora non è, ma che tuttavia si lascia in qualche modo cogliere; contengono (così si dice) delle virtualità, che è possibile studiare fin d'ora, sebbene la loro attuazione sia condizionale e lontana nel tempo. Altri considerano l'avvenire opposto al presente per questo o quel rispetto, ossia per quasi tutti i riguardi, e interpongono fra i due una rottura rivoluzionaria; il che, tuttavia, non impedisce loro di caratterizzare l'avvenire giovandosi della sua opposizione nei confronti del presente, e di mostrare quali saranno le differenze tra quello e questo. Quanto a chi ascolta codesti discorsi, per lui le descrizioni dell'avvenire, quali che siano, sono oggetti di fede; li accetta in quanto riconosce l'autorità delle istituzioni o, dei gruppi che se ne fanno garanti, e che sono altrettante chiese. da K. Pomian “Filosofia/filosofie”in Enciclopedia Einaudi, vol. VI 3 2 - FILOSOFIA DELLA CITTÀ E TRADIZIONE ARISTOCRATICOSACERDOTALE L’elaborazione delle concezioni della realtà La polis greca: aristocrazia e demos I filosofi della città: Talete, Anassimandro, Anassagora La tradizione aristocratico-sacerdotale: Pitagora, Eraclito, Parmenide e Zenone Linguaggio, pensiero e realtà in Protagora e Gorgia L’ELABORAZIONE DELLE CONCEZIONI DELLA REALTÀ L’elaborazione delle concezioni della realtà Le visioni della realtà della ___________ Tra i compiti specifici che la filosofia si è assunta vi è quello di elaborare una visione della realtà che risulti conciliabile con tutti i saperi che vengono ritenuti veri, fondati. All’interno della filosofia antica è possibile individuare come particolarmente significative quattro diverse concezioni della realtà che hanno fissato alcune costanti del modo di concepire la realtà della cultura occidentale. Tali concezioni sono costituite dall’idealismo platonico, dal materialismo antico (Democrito e Epicuro), dal razionalismo aristotelico e dal vitalismo stoico. L’idealismo platonico e il materialismo antico sono il frutto delle due tradizioni, quella aristocratico-sacerdotale e quella dei filosofi della città, che hanno caratterizzato il dibattito dei primi filosofi (sec. VII-V a.C.), mentre le altre due concezioni sono il frutto delle elaborazioni successive e per certi versi possono essere viste come dei tentativi di mediazione tra le istanze dell’idealismo e quelle del materialismo. La tradizione aristocratico-sacerdotale e quella dei filosofi della città sono, come abbiamo accennato, legate allo sviluppo della civiltà urbana che comportò anche una maggiore complessità dalla vita sociale, dovuta alla presenza di nuovi ceti sociali che entrarono in conflitto con la classe aristocratica che deteneva il potere. Tale conflitto si espresse a livello politico, come scontro tra aristocratici e democratici, e a livello culturale nell’elaborazione di due concezioni contrapposte che si formarono all’interno di un dibattito plurisecolare. Le due tradizioni sono strettamente legate a gruppi sociali di riferimento diversi, gli aristocratici la prima e i nuovi ceti cittadini la seconda, sia, in molti casi, per la provenienza sociale dei filosofi, sia perché le concezioni elaborate appaiono consone agli interessi, ai saperi, alla mentalità di gruppi sociali diversi. Gruppo sociale di riferimento Filosofia della città Tradizione aristocratico-sacerdotale ____________________________ _____________________________ __________________: 1 ________________________________ 2 ________________________________ 3 ________________________________ 4 ________________________________ Tradizione aristocratico-sacerdotale ______________________________ Filosofo della città ______________________________ Sviluppo città _________________________ Politica _______________ ________________ Cultura Rivelatori: 1 - _________________________________________________ _______________ ________________ 2 - concezioni consoni _________________________________ La polis greca: aristocrazia e demos LA POLIS GRECA: ARISTOCRAZIA E DEMOS DAL _______________________ ALLA La civiltà micenea, che riproduceva in Grecia l'organizzazione sociale tipica delle monarchie orientali crollò intorno all'XI secolo, dopo che il suo equilibrio interno _____________________ 4 si era gravemente logorato, a causa di una serie di invasioni di popoli stranieri, fra cui quella dei Dori. Uno dei principali effetti di queste invasioni fu la migrazione dalla madrepatria verso le coste egee dell'Asia Minore di una popolazione che poi avrebbe assunto il nome di Ioni. Fino alla fine dell'VIII secolo, nessuna nuova organizzazione sociale unitaria sostituisce la distrutta civiltà micenea. Ne restano piuttosto i frammenti: villaggi isolati, raccolti intorno al tempio e al palazzo del signore locale (basileus, re) dove vivono, separati dal resto della popolazione, gli aristocratici e che detengono il potere militare e religioso. Nella loro migrazione, gli Ioni riproducono inizialmente le stesse forme di organizzazione. Per tutto questo periodo, la Grecia appare svolgere, nel contesto del mondo mediterraneo, un ruolo assolutamente periferico. Fra l'VIII e il VII secolo affluiscono però dall'Oriente, passando in primo luogo attraverso la Ionia una serie di innovazioni tecnico-economiche destinate ad avere profonde ripercussioni sociali. Innanzitutto, la tecnologia dell'estrazione e della lavorazione del ferro che veniva a sostituire quella del bronzo, il metallo usato fino a quel momento nelle civiltà orientali e micenea. Non essendo una lega, il ferro è di lavorazione più semplice; i suoi giacimenti sono assai più largamente diffusi, ciò che liberava i produttori dalla dipendenza forzosa nei riguardi di chi controllava le lunghe vie commerciali del rame e dello stagno; gli utensili prodotti, infine, risultavano più resistenti ed economici di quelli in bronzo. Tutto ciò determinava la possibilità, anche per comunità non integrate in vaste organizzazioni politiche, come gli imperi orientali, di procurarsi attrezzi agricoli ed armi in quantità sufficienti; nei villaggi e nelle nascenti città si aprivano rapidamente le fucine dei fabbri, di cui abbiamo già una eco, verso la fine dell'VIII secolo, nei poemi di Esiodo. Una seconda, fondamentale innovazione fu costituita dal conio della moneta metallica (oro, argento), da cui gli scambi internazionali ricevettero un fortissimo impulso. Fra le prime a trarne beneficio furono le comunità ioniche, che venivano a trovarsi proprio sulla cerniera fra i grandi itinerari commerciali dell'Est e dell'Ovest, e disponevano tutte, per la loro collocazione costiera, di porti eccellenti sull'Egeo. Lo sviluppo di un'economia monetaria ebbe presto profonde conseguenze sociali. Da un lato, esso indeboliva i medi e piccoli coltivatori, usi a procurarsi il necessario nei mercati locali mediante la pratica del baratto dei prodotti. Dall'altro, cominciava a determinare la formazione di ceti meno direttamente legati alla terra: commercianti, cambiavalute, usurai, professionisti che scambiavano il loro servizio non più contro cibo e doni, ma contro denaro, uno strumento socialmente assai più efficace. Tutto questo dava luogo, a partire sempre dalla Ionia, alla rapida trasformazione delle iniziali comunità agricole in città ad economia mista. La città è, fin dall’inizio, bipolare. Essa è fondata e diretta dall'aristocrazia (discendente in via più o meno diretta da quella micenea) che se ne serve come di un centro politico per la mediazione e l'armonizzazione degli interessi delle grandi famiglie, per il controllo unificato del territorio e dei traffici che incominciavano a svilupparsi nel porto e nel mercato, infine per i contatti, ormai indispensabili, con l'economia monetaria e i suoi agenti sociali. Il polo aristocratico della città è l’acropoli, una struttura religiosa (vi sono siti i maggiori templi), politica (vi siede il Senato cittadino) e militare (come fortezza sovrastante la polis) che assicura il dominio sulla città. Va sottolineato che per tutto il periodo che stiamo considerando, e salva qualche eccezione, l'aristocrazia rimane legata alla terra come fonte principale di ricchezza. Il suo rapporto con l’economia commerciale e monetaria non è di impegno diretto (non si ha un'aristocrazia mercantile come quella che si sarebbe sviluppata nell'Europa medievale e rinascimentale), ma si risolve soprattutto nel prelievo fiscale (dazi, imposte, ecc.), e, qualche volta, nel prestito a interesse agli operatori commerciali. L'altro polo della città è la piazza del Il _______________________: organizzazione sociale: fino XI a.C. : ______________________ fino VIII a.C.:______________________ migrazioni ___________ verso ________ ________________ La formazione della ___________ ionica Cause: 1 –nuove __________________: il ferro consente __________________________ _________________________________ 2 - ______________________________: uso della moneta metallica A - + ___________________________ + importanza porti Egeo B –emergere nuovi _________________ La città: ______________________________ ______________________________ VS ______________________________ ______________________________ 5 mercato (agorà), dove si muove una folla eterogenea di commercianti al minuto e di esportatori e importatori, di contadini impoveriti che hanno abbandonata la campagna, di artigiani, di stranieri privi di diritti politici (i meteci) attratti in città dalle possibilità di guadagno che essa offre. Questa aggregazione sociale forma il «popolo», il demos urbano, che si viene gradualmente, ma sempre più consapevolmente ponendo in antitesi all'aristocrazia egemone. Un'altra innovazione, giunta fra l'VIII e il VII secolo dalla Fenicia, aiuta il demos urbano a far propri gli strumenti culturali necessari alla propria crescita sociale e politica: si tratta della scrittura alfabetica. La scrittura micenea, derivata dai modelli ideografici orientali, per la sua stessa difficoltà era rimasta patrimonio di un ceto chiuso di sacerdoti e scribi di palazzo, ed era andata perduta insieme con quella società. Per quasi tre secoli, dunque, la Grecia non aveva conosciuto alcun tipo di scrittura. La cultura era trasmessa in forma esclusivamente orale, ad opera dei sacerdoti e dei poeti che cantavano i loro racconti nei palazzi aristocratici. La scrittura alfabetica, di facile apprendimento e di agevole impiego, si rivelò uno strumento efficace per la diffusione della cultura tradizionale e anche per la costituzione, in forme nuove che essa stessa agevolava (la redazione delle leggi della città e del mercato, manuali professionali, rapporti di viaggio e così via), di una cultura diversa. Anche se l'insegnamento a livello elementare della scrittura sarebbe stato introdotto solo nell'ultima parte del V secolo, è certo che la diffusione dell'alfabeto rappresentò un veicolo potente per la laicizzazione ed una relativa democratizzazione della cultura. La tensione politica, sociale e poi anche culturale fra aristocrazia e demos, fra acropoli e agorà, interessò in forme diverse, nel periodo in esame, tutte le città greche, determinando nel loro ambito una conflittualità ora latente ora acuta. Va però messa in rilievo una tendenza ad una distribuzione geografica relativamente omogenea delle forze. Nella fascia ionica, prima autonoma e poi, nel V secolo, sottoposta all'egemonia ateniese, il demos tende a prevalere, sia politicamente sia culturalmente, anche se l’aristocrazia non può certo mai dirsi del tutto sconfitta. Al contrario, in gran parte della madrepatria greca, della Sicilia e della Magna Grecia, l'aristocrazia terriera e militare continua ad esercitare una preponderante egemonia, solo a tratti interrotta da vicende interne e internazionali. Le contraddizioni raggiungono la massima tensione nell'Atene della seconda metà del V secolo. A livello internazionale Atene guida una lega democratica in una guerra decisiva contro la coalizione aristocratica, la guerra del Peloponneso, da cui esce sconfitta. Sul piano interno, una potente aristocrazia vive un'alterna vicenda di alleanze e di scontri col demos; essa produrrà, prima, gli equilibri innovatori realizzati da Pericle, poi, alla fine del secolo, tutta una serie di tentativi per restaurare una tirannide aristocratica. Il IV secolo si aprirà dunque su queste tensioni irrisolte. Quanto si è osservato finora sull'organizzazione sociale del mondo greco in questo periodo, e sulle sue contraddizioni, permette anche di identificare agevolmente i luoghi nei quali la cultura viene prodotta: da un lato, vi è la cultura che abbiamo definito aristocratico-sacerdotale; questa tradizione viene profondamente innovata e potenziata — senza che ne siano smarriti i caratteri essenziali — nel VI e V secolo ad opera di pensatori come Pitagora, Parmenide ed Eraclito. Al lato opposto vi è la formazione di una cultura nuova, quella dei filosofi della città, a carattere prevalentemente tecnico-scientifico, che risponde alle esigenze maturate nel demos e nell’agorà. Questa cultura ha i suoi centri a Mileto nel VI secolo e ad Atene nel V e i suoi maggiori rappresentanti sono Talete, Anassimandro e Anassagora. Naturalmente, queste due tradizioni non si sviluppano in un reciproco isolamento. Vi è poi una terza forma di produzione culturale, quella poetica, che resta legata ai suoi committenti originari, gli aristocratici (con la parziale eccezione dei tragici ateniesi, più direttamente coinvolti nello scontro ideologico della città). Il ruolo della ____________________ dalla scrittura _________________ alla scrittura ___________________ - + _______________________ - + _______________________ uso - __________________ ____________ saperi Il conflitto ________________ vs _________________ distribuzione _____________________: Ionia + Atene: egemonia ____________________ ___________________: egemonia ______________________ Magna Grecia: prevalere _____________ ________________________________ (Pitagora, Eraclito, _________________) _______________________: prevalere _________________________________ (Talete, ___________________________ 6 Un'ultima avvertenza necessaria riguarda la forma dei testi che assicuravano la trasmissione della cultura. Non bisogna pensare a libri o trattati di tipo moderno. Nella maggior parte dei casi, il testo filosofico e scientifico rappresenta ancora la trascrizione di una comunicazione nata in forma orale. Si tratterà così, per la La ____________________ dei testi cultura aristocratica, di testi di tipo profetico o oracolare, legati alla comunicazione tipica del tempio; per la cultura legata al demos, della trascrizione di «conferenze» pubblicamente tenute sull'agorà o nei ginnasi adiacenti. Fanno eccezione a questo stile ancora semi-orale i manuali relativi alla pratica professionale: si tratta, ad esempio, di testi di matematica e soprattutto di medicina, destinati alla circolazione all'interno dei rispettivi gruppi di tecnici. XVII sec. a.C. –XII sec. a.C.: Civiltà micenea Progressiva penetrazione degli Achei in Grecia Civiltà dei Palazzi (Micene, Argo, Pilo) Monarchie di tipo orientale Scrittura “lineare B”(sistema sillabico) XV sec.: Conquista di Creta (fine della civiltà minoica) XIII sec. : Spedizione achea contro Troia XII sec. a.C. – IX sec. a.C.: Medioevo ellenico Invasioni doriche Civiltà dei Palazzi, dove vive l’aristocrazia guerriera Prima colonizzazione: sulle coste dell’Asia Minore (Mileto, Samo, Smirne) La metallurgia del ferro sostituisce quella del bronzo La dominazione aristocratica sostituisce il regime monarchico Nessun sistema di scrittura VIII sec. a.C. - VI sec. a.C.: Età arcaica Formazione delle polis VIII sec. a.C.: Seconda colonizzazione: popolazioni greche si trasferiscono sulle coste italiane (Taranto, Siracusa, Agrigento, Napoli) Sistema di scrittura alfabetico Elaborazione dei poemi omerici VII sec. a.C.: Introduzione della moneta Codificazioni scritta delle leggi (Draconte ad Atene) Esiodo VI sec. a.C.: Solone (594) e Pisistrato (546-528): riforma timocratica dello stato ateniese Clistene (508): riforma democratica dello stato ateniese Filosofi di Mileto V sec. a.C. –IV sec. a.C.: Età classica L’area geografica in cui è nata la filosofia 7 Trascrizione poemi omerici Dal discorso mitologico al discorso razionale Esiodo (VIII-VII sec. a.C.) G R E C I A IX sec. V sec. a.C A (presocratici) N T I C A G R E C I A C L A S S IV sec. I a.C. C A Talete (VII–VI sec. a.C.) L’acqua come principio di tutte le cose Anassimandro (610-547 a.C.) ________________________________________ Pitagora (570-490) ________________________________________ Eraclito (550-480 a.C.) ________________________________________ Parmenide (prima metà V sec. a.c.) ________________________________________ Zenone (490 a. C -?) ________________________________________ Anassagora (496-428 a. C.) ________________________________________ Protagora (481 a. C. - ?) ________________________________________ Gorgia (480-380 a.C.) ________________________________________ Democrito (460-370 a.C.) Materialismo antico Socrate (470-399 a.C.) Il dialogo e l’anima Platone (427-347 a.C.) Idealismo antico Aristotele (384-322 a.C.) Razionalismo antico Il problema delle fonti La filosofia greca di cui ci occupiamo in questo capitolo è nota come filosofia presocratica. Il concetto di filosofia presocratica non si riferisce però soltanto ai filosofi vissuti prima di Socrate ma, generalmente, a tutti quelli, contemporanei o perfino più giovani di Socrate, che non furono influenzati dal pensiero di Socrate. Questa classificazione risale ad Aristotele, che considerò Socrate una sorta di spartiacque nella storia della filosofia, soprattutto per l'interesse che Socrate ebbe per le questioni antropologiche. I filosofi presocratici si occuparono infatti prevalentemente della natura e di questioni cosmologiche. Nessuno scritto dei presocratici ci è giunto intero, ne possediamo soltanto frammenti spesso di pochissime righe o perfino di poche parole. Quindi la nostra conoscenza del pensiero dei presocratici deve fondarsi su testimonianze indirette, su ciò che i filosofi successivi ci raccontano di quelli che li hanno preceduti. Data la situazione delle fonti, l'interpretazione di alcuni aspetti del pensiero nei presocratici è spesso controversa e congetturale. La migliore fonte secondaria di cui disponiamo è Aristotele stesso, il quale ebbe la possibilità di leggere gli scritti dei filosofi che lo avevano preceduto. Tuttavia Aristotele interpreta il pensiero dei suoi predecessori alla luce delle proprie teorie e spesso tende a sottolinearne gli aspetti che lui considera anticipazioni della sua filosofia. Anche Platone costituisce una fonte importante di conoscenza della filosofia presocratica, là dove, nei suoi dialoghi, cita o discute le opinioni degli antichi filosofi. Poiché tutti i filosofi discutono le opinioni di coloro che li hanno preceduti, si può dire che in genere gli scritti di tutti i filosofi possono costituire una fonte per conoscere il pensiero di quelli 8 precedenti. Ma siccome i filosofi hanno una loro teoria personale da sostenere, non dobbiamo aspettarci che siano imparziali nel raccontarci il passato. Un'altra categoria di fonti è quella dei dossografi, cioè di quegli scrittori che hanno compilato una raccolta di opinioni e dottrine. Il più famoso è Diogene Laerzio (III sec. d.C.), che scrisse le Vite dei filosofi. A partire dall'Ottocento, alcuni studiosi di filosofia antica hanno passato sistematicamente al vaglio i testi classici in nostro possesso, alla ricerca di "frammenti" e "testimonianze". Poi hanno compilato delle raccolte che al giorno d'oggi possono dirsi praticamente complete. Accade però ogni tanto che la decifrazione di antichi papiri ci faccia conoscere qualcosa di nuovo. I filosofi della città: Talete, Anassimandro, Anassagora Una nuova società e una nuova visione del mondo Una nuova spiegazione della natura Talete: l’acqua come principio Anassimandro: l’indeterminato come principio Anassagora di Clazomene: i semi e il Pensiero Il nuovo tipo di razionalità Una nuova società e una nuova visione del mondo Dalla culturale ___________ (aedi) alla cultura _______________ (____________ La nuova cultura che, come si è visto, viene alla ribalta nell'ambiente delle città ioniche come Mileto durante il VI secolo, offre alla comunità un servizio paragonabile a quello degli aedi. Essa si assume, cioè, il compito di elaborare il patrimonio delle conoscenze sociali, di farlo circolare, di proporre alla collettività un insieme di risposte ai problemi che questa si pone. Tuttavia qualcosa è mutato profondamente nella condizione dei nuovi operatori culturali. La diffusione della scrittura consente di redigere opere scritte che si sottraggono all'immediatezza della comunicazione orale propria del poeta. Questo determina, da un lato, una maggior individuazione dell'opera, che reca con sé, nelle vicende della propria circolazione, il nome dell’autore: dunque anche, da parte dell'autore stesso, un maggior senso della propria individualità, un distacco dai moduli fissi di una tradizione in cui il sapere sociale si trasmette anonimamente. D'altro lato l'opera scritta, e per giunta in prosa, deve recuperare in termini di chiarezza, di ordine e di rigore concettuale quel che le manca in termini di pienezza emotiva, propria del rapporto che si instaura, grazie alla recitazione orale, fra il poeta e il suo ascoltatore. Di qui il nuovo tipo di comunicazione, al tempo stesso più individuale nella produzione dell'informazione, e più oggettivo nella sua trasmissione, che i pensatori ionici inaugurano. Tutto ciò corrisponde del resto alla diversa destinazione sociale del lavoro intellettuale cui sono chiamati. _______________) ___________________ redazione scritta dei testi: 1 - + _____________________ opera + ______________________________ autore distacco ________________________ + _____________________________ 2 - ___ emotiva + chiara, _______________ + ______________________ Le conseguenze della diffusione della scrittura uso -- __________________ (vedi pag. _____) ___________________________ Redazione _______________ testi: 1 ________________________________ 2 __________________________________ Dalla scrittura ________________ alla scrittura _________________ Nell'orizzonte chiuso e insicuro della società seguita al crollo del mondo miceneo, una società legata alle campagne e ai palazzi di un'aristocrazia ancora nostalgica di quei passati splendori, il compito affidato ai poeti come gli Omeridi 9 ed Esiodo era stato esattamente quello di fissare un sistema di valori individuali e Una nuova _________________ di gruppo che garantissero la coesione sociale, di stabilire norme di condotta tali da assicurare un equilibrato rapporto fra l'individuo, la comunità e gli dèi. Ben una nuova ______________________ diversi erano invece i problemi posti dalla società ionica del VI secolo, ormai avviata a raggiungere una piena maturità urbana, tecnica e commerciale. Si trattava di ripensare il mondo, quello della natura e quello della tradizione, secondo l'ottica imposta da una società nuova; a questo compito si dedicarono uomini come Talete, Anassimandro, Anassimene1, Senofane2 e, più tardi, Anassagora. Una nuova spiegazione della natura I problemi che la nascente riflessione ionica si trova ad affrontare sono innanzitutto relativi all’esigenza dei nuovi ceti cittadini di conoscere e appropriarsi dell'ambiente naturale e quindi di superare la tradizionale spiegazione religiosa del mondo della natura. Per una società agricola, compattamente raccolta attorno al palazzo del signore e al tempio in cui i sacerdoti venerano gli dèi, natura e divinità non costituiscono un problema: la natura si risolverà nell'insieme dei fenomeni e delle forze che non dipendono dall'uomo, nel ciclo delle stagioni, nella necessità di una serie ben regolata e ripetitiva di pratiche indispensabili a far crescere i raccolti; la divinità, dal canto suo, consisterà nella presenza e nell'azione di una pluralità di dèi, e, anche qui, nella richiesta che non può venir disattesa di una pratica rituale che trova la sua garanzia nel ripetersi immutabile di gesti, parole, atti di culto. Occorre che si verifichi una cesura, una brusca soluzione di continuità nello sviluppo dell’organizzazione sociale perché queste consuetudini immutabili vengano trasformate in un oggetto da cui si prendono le distanze, e che viene sottoposto ad indagine. La cesura di cui si é detto si verificò nel mondo ionico del VII e VI secolo, a tutti i livelli della vita sociale. Innanzitutto lo sviluppo delle città, le cui mura venivano in un certo senso a recidere il cordone ombelicale che aveva legato l'uomo alla campagna, all'ambiente naturale: l'uomo viveva ora all'interno di un ambiente artificiale, da lui stesso costruito; si era dunque prodotta nello spazio dell'esperienza una scissione che distingueva un dentro e un fuori, un «umano» e un «naturale», una scissione che permetteva di pensare la natura come un tutto omogeneo e separato dallo spazio propriamente umano, dunque come un oggetto estraneo da conoscere. Questa situazione era poi accentuata dalla crescita, all'interno della città di tutta una serie di attività tecniche non direttamente connesse con quella forma di collaborazione, fra uomo e natura che è l'agricoltura. Si pensi alle tecniche della navigazione, che sfruttano e perciò devono conoscere le leggi del cielo, del mare, dei venti; si pensi alla tecnica, in La ___________________ della natura: A - in una società _________________ cicli ____________________ ____________________________ divinità:________________________ - in ___________________________ fattori del cambiamento: 1 –______________________________ separazione tra: ______________ vs _________________ ______________ vs _________________ 2 - ________________________________ non più ___________________________ 1 Anassimene, di Mileto (586-528 a.C.), si occupò soprattutto di meteorologia e di astronomia. Scrisse un'opera in prosa, cui fu apposto in seguito il titolo Sulla natura, e della quale ci resta un solo frammento. 2 Senofane, vissuto tra i secoli VI e V, elabora la sua esperienza filosofica nella Magna Grecia, benché fosse di origine ionica. Nato a Colofone, in Asia Minore, intorno al 565 a.C., Senofane abbandona la sua città dopo la conquista persiana (540 ca), viaggia attraverso l'Italia meridionale e la Sicilia, partecipa alla fondazione di Elea e continua nel suo girovagare fino a un'età molto avanzata (secondo la tradizione, muore quasi centenario intorno al 470). Nella sua vita itinerante, Senofane svolge l'attività di rapsodo, recitando in pubblico composizioni poetiche proprie o altrui. Dei suoi scritti, opere in versi fra cui un poema sulla natura, rimangono alcune decine di frammenti. 10 qualche misura emblematica, della metallurgia. Il fabbro usa violenza alla terra per ricavarne i metalli che gli occorrono, li tratta secondo procedimenti ingegnosi che la natura non ha spontaneamente rivelato, e ne ottiene strumenti con i quali estendere il dominio umano sull'ambiente. Per questi suoi aspetti, la figura del fabbro, anche se socialmente necessaria, era sempre stata tenuta ai margini della società, quasi fosse circondata da un alone di empietà. Ora, nelle città ioniche, il fabbro e gli altri tecnici suoi simili — il vasaio, il costruttore, ed anche il medico che non cura più le malattie con procedure rituali e sacre ma con terapie e farmaci profani — , non solo vengono integrandosi nel corpo sociale, ma pongono con chiarezza la propria richiesta di partecipare al potere politico e alla gestione ideologica della comunità. È in questo quadro che si colloca il principale problema che si sono posti i filosofi di Mileto quello cioè di identificare uno o pochi principi sufficienti a spiegare tutti i comportamenti, tutti i mutamenti, tutti i fenomeni della natura. Questa ricerca del principio o arché cui si dedicarono i primi fisiologi ionici, così chiamati perché si proponevano di studiare la natura, è, al di là della relativa rozzezza delle ipotesi formulate, un fatto di fondamentale importanza nella costituzione del nuovo stile di razionalità: perché significava andar oltre l'immediatezza degli eventi osservati per scoprirne l’origine, la ragione. Ciò che nasce a Mileto nel VI secolo è una spregiudicata forma di razionalità intesa a metter ordine in un mondo di esperienza sociale nuovo, ad assicurarne il controllo, mediante una stretta unione di capacità tecnico-pratiche e di elaborazione intellettuale. ma _______________________________ Filosofi di Mileto: individuare ___________________ per ____________________ la natura nuova ________________________: scoprire _____________/ _____________ delle cose Talete: l’acqua come principio TALETE La definizione di Talete3 (fine VII – prima metà VI secolo a. C.) come “ingegnoso nelle tecniche”di Platone definisce bene la figura di questo antico sapiente. Talete agisce nella fiorente Mileto del VI secolo come un avveduto consigliere politico e soprattutto come il protagonista di una nuova forma di sapere: pratico, laico, essenzialmente tecnologico. Le cognizioni matematiche che gli derivano dall'Oriente vengono appunto utilizzate per la soluzione di problemi pratici: per esempio il calcolo della distanza delle navi in mare, oppure la previsione di eclissi e di fenomeni meteorologici (da cui Talete, secondo una testimonianza di Aristotele, non mancò di trarre direttamente un guadagno: in base alla previsione di un'annata favorevole al raccolto di olive, egli fece incetta di frantoi, rivendendoli poi a prezzi di monopolio). Delle stesse cognizioni egli dovette fare applicazioni di tipo ingegneristico, se è attendibile la tradizione secondo cui Talete deviò il corso di un fiume per permettere il passaggio dell'esercito di Creso: un episodio, questo, emblematico dell'atteggiamento aggressivo nei confronti della natura proprio dei sapienti delle città ioniche, della loro aspirazione ad un dominio tecnologico sull'ambiente. Sul piano più strettamente teorico, conosciamo soltanto due tesi di Talete, in una forma fortemente condizionata dalla tradizione filosofica posteriore che ce le ha conservate. La prima di esse consiste nell'affermazione che tutto (cioè tutto il mondo della natura) è «pieno di dèi». Tale affermazione è stata vista come una Talete come ______________________ _________________________: - ________________________________ _________________________________ - utilizza il saper per _______________ ________________ - ________________________________ Le tesi di Talete: 1 - ________________________________: ___________________________________ ___________________________________ 3 Talete, di famiglia forse non greca, visse a Mileto tra la fine del VII e la prima metà del VI secolo a.C. Probabilmente non scrisse alcuna opera sistematica. Compì viaggi in Asia Minore e in Egitto. Si occupò di meteorologia, di astronomia e di geometria; in questi ultimi due campi ebbe conoscenza del patrimonio scientifico egiziano e babilonese. Gli fu attribuita la previsione dell'eclissi solare del 28 maggio 585 a.C., e l'enunciazione e dimostrazione di cinque teoremi di geometria; in entrambi i casi però è certo che la tradizione ha ampliato i suoi meriti. Svolse attività commerciale e prese parte attiva alla vita politica di Mileto. 11 rivalutazione del pensiero tecnico, pratico nei confronti del pensiero religioso, poiché in questo modo la divinità viene a coincidere con la natura oggetto di studio del pensiero pratico sottraendo la sapienza che proviene dalla divinità al retaggio esclusivo della casta sacerdotale a cui spettava l’interpretazione della volontà divina. La seconda, e più famosa tesi di Talete, è quella che fa consistere nell'acqua (o meglio nell'elemento umido) il principio della natura, da intendersi nel senso che essa è l'elemento dal quale i fenomeni vitali traggono la loro origine e la loro condizione di possibilità, l'elemento generatore e vivificante per eccellenza. Del significato teorico di questa ricerca di un «principio» sufficiente a spiegare tutti i comportamenti, tutti i mutamenti, tutti i fenomeni della natura si è detto nel paragrafo precedente. Quanto all'identificazione del principio nell'acqua, essa non può sorprendere: Talete indica come principio costitutivo di tutte le cose l’acqua basandosi sulla constatazione empirica dell’importanza dell’acqua per la vita; né piante né animali possono vivere e crescere senz'acqua. Egli è anche sicuramente influenzato dalle antiche culture fluviali della Mesopotamia e dell'Egitto, paesi la cui vita dipende dai cicli alluvionali dei rispettivi fiumi, ed è al tempo stesso l’interprete di una cultura marittima come quella delle città ioniche, la cui attività è proiettata prevalentemente sul mare; e l'acqua è l'elemento primigenio in molta parte delle mitologie orientali. Talete non fondò certamente una scuola a Mileto, né fu l'iniziatore di una corrente filosofica; piuttosto egli fu uno degli iniziatori di un nuovo stile di pensiero, di un modo diverso di concepire e di utilizzare il sapere, che in quell'ambiente sociale erano destinati, nel VI e nel V secolo, a trovare numerosi seguaci. 2 - ________________________________ ________________________________: giustificato da: a - ___________________________: importanza dell’acqua per la vita b - ___________________________: - ruolo acqua nelle mitologie orientali - Mileto città marinara Un __________________________ Anassimandro: l’indeterminato come principio ANASSIMANDRO Quel che in Talete era ancora soltanto la proposta di uno stile di ricerca, di un atteggiamento di pensiero, divenne con Anassimandro4, suo concittadino e contemporaneo più giovane, un quadro teorico in grado di contrapporre alla vecchia visione mitico-religiosa una nuova visione del mondo. Anche Anassimandro (sec. VI a.C.) fu un attivo esponente dei nuovi ceti urbani prendendo parte sia alla vita politica, guidando la fondazione di una colonia, sia alla costruzione del nuovo sapere tecnico e pratico proprio di questi nuovi protagonisti sociali dal momento che la tradizione gli attribuisce la compilazione della prima carta geografica per la navigazione e la costruzione di un orologio solare. In Anassimandro la ricerca del principio di tutte le cose si approfondisce diventando la ricerca dello stato primordiale da cui hanno origine tutte le cose, dello stato a cui esse tendono (del loro stato finale) e del motivo per cui esse sussistono. Secondo Anassimandro lo stato originario è costituito da uno stato di indeterminatezza (apeiron) da cui le cose emergono tramite una lotta e sopraffacendosi l’un l’altra (come ad esempio il caldo sopraffa il freddo o viceversa), scontando però la loro colpa, legata alla sopraffazione, ritornando nell’indeterminato. Tale teoria è stata vista come la generalizzazione dell’esperienza sensoriale dei navigatori sottocosta, sicuramente propria della società in cui Anassimandro viveva, dal momento che Mileto era una fiorente città costiera che viveva dei Anassimandro: dallo _______________ _________ a una nuova _______________ _______________________ Anassimandro come __________________ _________________________: - ________________________________ _________________________________ - ________________________________ _________________________________ 4 Anassimandro, di Mileto, nacque probabilmente nel 610 a. C. Prese parte attiva alla vita politica della sua città, guidando la fondazione di una colonia. Si occupò dell'intera gamma delle scienze naturali allora esistenti. Scrisse un'opera in prosa, cui fu apposto in seguito il titolo Sulla natura, e della quale ci resta un solo frammento. 12 commerci marini. Ai navigatori sottocosta, infatti, il paesaggio appare indeterminato, confuso in lontananza determinandosi, facendosi più chiaro, più distinto man mano che si avvicinano. In ogni caso alla base delle riflessioni di Anassimandro sembrano esserci le osservazioni e le esperienze che derivano dall’elaborazione delle tecniche necessarie a rappresentare lo spazio e il tempo che la società dell’epoca imparava a misurare. Il fatto che la misurazione implichi la definizione delle cose entro limiti e contorni definiti o che la stesura di una carta geografica richieda la delimitazione delle diverse terre emerse e dei mari, nonché la loro separazione e opposizione suggeriscono a Anassimandro l’idea che esista uno sfondo comune, un contenitore che non ha delimitazioni, è indeterminato . Anassimandro giunge ad affermare per la prima volta una legge che regola il corso della natura sostenendo, in un frammento, che : “Da dove le cose traggono la loro nascita lì si compie anche la loro dissoluzione secondo necessità, infatti devono reciprocamente pagare, secondo l’ordine del tempo, la colpa della loro ingiustizia”. La separazione dall’apeiron originario, che costituisce il processo di individuazione attraverso cui si formano le singole cose, poiché richiede la PRINCIPIO = 1- origine delle cose come in _______________ + 2 ___________________________________ + 3 ______________________________________ a _________________________ b emersione delle cose tramite ___________________________ c __________________________________________________ Giustificato da: A - ________________________________________________ B –esperienze tecniche di ______________________________ (___________________) e __________________________________ (______________________) _________________-___________________ = definire delle cose entro limiti e contorni LA LEGGE CHE REGOLA IL CORSO DELLA NATURA: ___________________________ = ingiustizia _____________ Giustizia = ________________________________________ Caratteristiche: 1 _____________________________________ 2 _____________________________________ Giustificata da: B (contesto tecnico) C - ____________________________: a _______________________________________ b __________________________________________ COSMOLOGIA: terra al ____________ di una sfera (universo) ferma perché _______________________________ Caratteristiche vedi 1 Giustificata da: C/ b sopraffazione di altre singole cose (la malattia si afferma a spese della salute) costituisce un’ingiustizia che il tempo (“secondo l’ordine del tempo”) si incarica 13 di superare poiché tutto ciò che nasce è destinato a dissolversi, a ritornare nell’indeterminato. Il tempo, che come abbiamo ricordato la società in cui viveva Anassimandro incominciava a misurare, diventa il tribunale che impedisce a un elemento di sopraffare definitivamente gli altri, l’indifferenziato a cui ciascuna cosa ritorna è la condizione che garantisce un ordine non più gerarchico, come nella visione tradizionale, bensì basato sulla ricerca di un equilibrio tra elementi in contrasto ma uguali, nessuno dei quali deve conseguire un domino definitivo. Tale legge che regola il corso della natura non viene imposta dall’esterno, come intervento della giustizia punitiva divina com’era nella mitologia, in quanto agisce invece come una forma di compensazione che si attua in maniera immanente dentro il corso dei fatti. Essa, inoltre, appare profondamente influenzata dall’esperienza politica della polis sia per il ricorso al concetto di legge di giustizia, lo stesso che Solone aveva applicato al mondo umano considerando la legge come punizione della prevaricazione e della sopraffazione, sia per il rifiuto dell’ordine gerarchico che si richiama all’esperienza democratica della polis e alla conseguente affermazione dell’uguaglianza di tutti i suoi membri. Un altro riflesso dell’esperienza sociale della polis, che vuole reggersi non tanto sulla dominazione onnipotente del monarca ma sull’equilibrio tra le diverse parti sociali, lo si ritrova anche nella visione cosmologica di Anassimandro che rinuncia all’immagine mitica di un mondo stratificato in cui la terra sta sotto e i cieli sono la dimora delle divinità. Egli immagina infatti l’universo come una sfera al cui centro vi è la terra di forma cilindrica che rimane ferma a causa dell’uguale distanza da tutte le parti, ossia per una sorta di equilibrio di forze. Anassagora di Clazomene: i semi e il Pensiero Verso la fine del VI secolo, le invasioni persiane distrussero l’autonomia e la prosperità delle città ioniche, e con esse parvero spegnere la vivace attività di pensiero che vi si era sviluppata. Dopo la vittoria su Serse a Salamina (480), tuttavia, una coalizione greca guidata da Atene riconquista il controllo dell'Egeo e respinge i Persiani dalla Ionia. Si forma così una zona d'influenza ateniese alla quale le città ioniche sarebbero rimaste legate per tutto il V secolo: Atene sostituisce ora Mileto nel ruolo di centro egemone sul piano politico, economico e presto anche culturale. Il primo grande pensatore ionico che vi si trasferisce, «importandovi», come dice la tradizione, «la filosofia», è Anassagora di Clazomene5. L'ambiente che trova nella metropoli attica verso la metà del secolo è per molti aspetti ideale ai fini di una risoluta continuazione dello stile ionico di pensiero. Un'ala avanzata dell'aristocrazia, sotto la guida di Clistene e poi di Pericle, aveva rinunciato alla difesa statica dei propri interessi ed aveva accettato di farsi interprete delle spinte provenienti da un largo ed aggressivo ceto urbano composto di artigiani commercianti, marinai (il demos). In questa situazione di equilibrio dinamico, in cui l'aristocrazia avvertiva la necessità di rinnovare il proprio patrimonio culturale tradizionale, e il demos era alla ricerca di una ANASSAGORA Da _______________ a ______________ Atene a metà del V sec: aristocrazia _____________________ _________________________________ demos __________________________ 5 Anassagora (500-428) nacque a Clazomene, ma visse ad Atene per un lungo periodo, probabilmente dal 463 al 433. Ivi fu maestro e consigliere di Pericle e tenne pubbliche lezioni; tra i suoi uditori vanno citati Ippocrate di Cos, Socrate e Tucidide. Fu accusato di empietà dai nemici di Pericle perché diceva che il sole è un metallo infuocato, e fu bandito da Atene nel 433; si rifugiò a Lampsaco, dove tenne nuovamente una scuola, e morì nel 428. Si occupò di matematica, astronomia, biologia e medicina. Scrisse un trattato in prosa, cui in seguito fu apposto il solito titolo Sulla natura, e che egli diffuse fuori dalla cerchia dei suoi uditori (si tratta probabilmente del primo libro venduto sull'agorà); di esso ci restano numerosi frammenti. Scrisse anche un trattato, per noi perduto, sulla prospettiva, e forse anche opere di matematica e di medicina. 14 propria ideologia complessiva, si comprende l'importanza del ruolo svolto da Anassagora in Atene. Consigliere personale di Pericle da un lato, ideologo del demos dall'altro, egli è in qualche modo la cerniera di quell'equilibrio: quando questo comincerà ad incrinarsi, verso il 430, lasciando esplodere con violenza le contraddizioni sociali, Anassagora sarà una delle prime vittime. Processato per empietà a causa dell'impostazione ateistica della sua astronomia, egli sarà costretto a lasciare per sempre Atene. La cosmologia di Anassagora si muove all'interno della tradizione ionica, rinnovandola tuttavia profondamente. Anche qui vi è una situazione iniziale della storia dell'universo, in cui «tutte le cose erano insieme», in cui regna cioè una indeterminazione totale. Non si tratta tuttavia, a differenza delle ipotesi precedenti, di un materiale primario da cui il mondo si sarebbe generato: nella indistinzione originaria di Anassagora sono presenti tutti i semi da cui avrebbero avuto origine le cose, già differenziati qualitativamente ma non ancora aggregati secondo quelle proporzioni e quei rapporti da cui ogni singola cosa è definita. Anassagora rinuncia così a presupporre l'esistenza di un qualsiasi principio elementare del mondo. I principi sono in numero illimitato, e sono identici, per quantità e qualità, ora come all'inizio della storia del mondo; durante questa storia tuttavia essi hanno dato luogo a relazioni reciproche, a composizioni diverse per modalità e proporzione, a livelli di equilibrio in cui hanno via via preso forma gli oggetti del mondo attuale. All'idea di un universo che si sviluppa in modo rettilineo dall'indeterminazione alla determinazione, Anassagora sostituisce dunque quella, più complessa, di un mondo i cui vari stadi sono definiti dagli equilibri e dalle aggregazioni ordinate che si realizzano fra i suoi componenti; nessun elemento è assoluto o primario, nulla può isolarsi dalle relazioni che connettono l'intero cosmo; ogni cosa, poi, partecipa dei principi di tutte, dovendosi la sua individuazione soltanto alla peculiare modalità di organizzazione e non ad una differenza sostanziale dalle altre. Il passaggio dall'indistinzione originaria dei «semi» all'organizzazione che caratterizza il presente stato del mondo, ha luogo, secondo Anassagora, per l’intervento di un principio ordinatore che agisce dall'esterno su quell'indistinzione e regola il processo di formazione del cosmo. E qui sta la seconda radicale innovazione di Anassagora rispetto alla tradizione ionica. Il principio dell'universo non sta infatti più nella forza «materna» di una sostanza primaria che genera l'universo e lo nutre di sé. Il principio è il Nous, il Pensiero o l'Intelligenza, che non genera il mondo ma lo forma, lo organizza secondo un una legge che esso impone. Qui occorre una importante precisazione. Per Anassagora, il Nous non è né Dio né spirito, anzi è un principio materiale, sebbene sia la «più sottile e rarefatta» di tutte le sostanze, e, al contrario di ogni altra cosa, sia puro e non commisto con la molteplicità dei «semi» della natura. Inoltre, l'azione che esercita sul mondo non ha nulla di provvidenziale o finali-stico: il processo che esso mette in movimento è in parte meccanico (il vortice originario che decanta, come il tornio del vasaio, l'originaria indistinzione dei «semi»), in parte embriologico (la crescita differenziata dei singoli oggetti naturali). L’introduzione da parte di Anassagora di un principio tendenzialmente esterno alla natura e «dominatore» di essa, di un principio «paterno» in quanto legislatore e garante degli equilibri costitutivi del mondo, rappresenta una effettiva rottura teorica ed esprime una svolta profonda verificatasi nella coscienza sociale. Alla metà del V secolo, e da un'ottica ateniese, i contorni del mondo sono assai meno inquietanti di quanto lo fossero un secolo prima, i popoli esterni ormai noti e sconfitti, le tecniche, come i loro agenti sociali, mature e aggressive; il destino del mondo sembra più che mai dipendere dai progetti razionali dell'uomo della città, dagli equilibri che esso riesce ad instaurare. Tutto ciò pur sempre nell'alveo della tradizione ionica, ma la certezza che vi si accompagna ha una solidità senza precedenti. Anassagora consigliere di ____________ (aristocrazia) ideologo ___________________________ Stato originario = illimitati ________ diversi per _______________ e __________________________ Stati successivi = aggregazione _________ a formare le singole cose ma i _____________ rimangono ________ _________________________________ dall’universo ____________________ di ___________________________ all’universo _______________________ di ____________________________ Il ______________________ (Nous) come ___________________________________ caratteristiche: 1 non ______________ il mondo ma ___________________________ 2 non è _______________ perché ___________________________________ 3 non impone un _________________ ma mette in moto un processo __________ ___________________________________ dalla ______________________________ ___________________________________ al _________________________________ __________________________________ giustificato da _____________________ _________________________________ 15 Così, benché il Nous di Anassagora non abbia, a livello cosmologico, nulla di antropomorfico, è naturale che, nel mondo storico, esso trovi un diretto equivalente nell'attività delle tecniche umane. Anassagora riprendendo le scoperte di Alcmeone, un medico esponente della scienza ionica, concepisce la conoscenza come ricerca e il cervello come suo organo centrale. Ma vi reca un'importante innovazione, affermando che la conoscenza si sviluppa attraverso «l'esperienza, la memoria, il sapere e la tecnica». L'esperienza e la sua accumulazione nella memoria sono quindi le fonti del sapere. Ma il sapere non è fine a se stesso, anzi culmina nelle sue applicazioni tecniche. E si tratta proprio delle tecniche, certo razionali ma legate intrinsecamente al lavoro manuale, come quello del fabbro o del medico: Anassagora lo conferma quando sostiene che «l'uomo è il più intelligente degli animali grazie al possesso delle mani». Le mani garantiscono infatti da un lato un rapporto più ricco con l'esperienza, dall'altro, se guidate dal sapere, una appropriazione anche conoscitiva della natura altrimenti impossibile. Anassagora non esprime qui soltanto l'ideologia della città giunta al suo pieno sviluppo; egli si ricollega piuttosto direttamente a quel demos artigianale che pone ormai la sua candidatura, contro l'aristocrazia, ad una egemonia di fatto e di diritto sulla città stessa. Non fa meraviglia, allora, che nell'astronomia di Anassagora il cielo non sia più popolato da astri divini ma da pezzi di metallo incandescente, proprio come quelli che il fabbro maneggia nella sua bottega; ed è logico, dunque, che Anassagora sia stato il primo bersaglio di una controffensiva aristocratica che vedrà alla fine soccombenti il demos e la cultura che, da Talete in poi, ne era venuta esprimendo le esigenze. Nous e _________________________ Il cervello come ___________________ ________________________________ Esperienza + ____________________ = ______________________ _______________________ _____________ uomo = animale più intelligente ____________________________ : nuovo ruolo sociale e politico dei ceti artigianali Cosmologia: corpi celesti = ______________________ DIFFERENZE ANASSAGORA / ANASSIMANDRO Il nuovo tipo di razionalità IL NUOVO TIPO DI RAZIONALITA’ Il tipo di razionalità che è all’opera nei filosofi ionici consiste dunque nel selezionare all’interno dell’esperienza osservativa o tecnica un gruppo di fenomeni ritenuti di importanza fondamentale per generalizzarli ed assumerli a principio. Per questo possiamo affermare che ai filosofi della città è legata l’elaborazione del metodo induttivo. Tale metodo parte dall’osservazione dei casi particolari per arrivare a stabilire un principio generale/legge. Infatti, utilizzando il metodo induttivo si parte dall’osservazione dei casi particolari tratti dall’esperienza per arrivare generalizzando a un principio, legge che si applica a più casi. Così, ad esempio e come abbiamo già detto, Talete parte dall’osservazione empirica dell’importanza dell’acqua per le piante, gli animali, l'uomo per arrivare alla conclusione che l’acqua costituisce il principio di tutte le cose. Tale metodo, nella misura in cui ricorre ad ipotesi generali per spiegare vasti gruppi di fenomeni, è stato considerato come l’espressione embrionale del moderno metodo scientifico o comunque delle scienze naturali che anch’esse Esperienza ________________________ _________________________________ Il metodo _______________________: __________________________________ __________________________________ es _____________________ 16 andavano trovando le loro prime espressioni (ad esempio la biologia, la medicina6). Evidentemente tale scienze non si basavano, come quelle moderne, su un metodo sperimentale, ma semplicemente sull’osservazione puramente empirica tratta dall’esperienza quotidiana. In ogni caso, rispetto alle tradizione mitica precedente, i filosofi della città tendono ad andare oltre all’immediatezza degli eventi osservati per passare, soprattutto in Anassimandro e Anassagora, dal piano concreto al piano astratto. Infine, allontanandosi ancora una volta dalla mitologia, non vi è una personificazione anche quando qualche elemento viene considerato di natura divina. differenze con scienza moderna: osservazione non _____________________ ma _______________________________ dal piano ________________________ al piano ____________________________ La tradizione aristocratico-sacerdotale: Pitagora, Eraclito, Parmenide e Zenone Pitagora: ____________________________________________ Eraclito: ____________________________________________ Parmenide: ____________________________________________ Zenone: ____________________________________________ _________________________________________________ La città greca non comprende soltanto la piazza del mercato, le sue attività e le sue tecniche; essa non è popolata soltanto da artigiani, medici, ingegnosi studiosi della natura. Al polo opposto, e in posizione dominante, sta l’acropoli con i suoi templi, i suoi tribunali, gli edifici del senato cittadino; e l'acropoli è governata dai membri di quelle grandi famiglie aristocratiche che per antica tradizione detengono le supreme funzioni sacerdotali, l'amministrazione della giustizia, il reggimento del potere. Sono state queste famiglie a fondare le città e, all'origine, a regnare su di esse. La loro forza viene dalla ricchezza terriera congiunta con una sapienza sacra, intorno agli dèi e ai destini del mondo, che lunghe generazioni di sacerdoti hanno raccolto e custodito nei templi. Questa connessione fra potere politico e sapere sacro aveva dietro di sé una lunga tradizione, dalla remota antichità delle civiltà babilonese ed egiziana fino ai regni micenei, ma nella nuova situazione sociale delle città greche fra il VII e il V secolo, l’egemonia sociale e il potere politico delle classi aristocratico-sacerdotali e il loro sapere mitico-religioso viene, come abbiamo visto, duramente attaccata e contestata da ceti diversi, protagonisti di attività e di forme di sapere estranee a quella tradizione. Di fronte a questo attacco il sapere aristocratico-religioso dimostra di sapersi ________________________________ Vs _________________________________ Il sapere ___________________________ connesso con ______________________ 6 Ippocrate di Cos, vissuto forse fra il 460 e il 370 a. C., fu il caposcuola della scuola medica di Cos, la più avanzata del V secolo; insegnò medicina ad Atene e già durante il IV secolo era considerato il massimo medico greco. I bibliotecari del Museo di Alessandria raccolsero sotto il suo nome tutte le opere di medicina del V e IV secolo, creando il cosiddetto Corpus hippocraticum, che comprende una settantina di trattati e che costituisce la maggiore collezione di testi scientifici antichi a noi pervenuti. Molte di queste opere hanno il carattere di pubbliche conferenze; altre di manuali per il medico pratico. Il livello di consapevolezza metodologica è dovunque assai elevato; lo spirito è decisamente razionalistico, e continue sono le polemiche contro la superstizione magico-religiosa e la ciarlataneria dei medici privi di una sicura base scientifica. Sul piano medico, i livelli più elevati si toccano probabilmente in campo chirurgico e nella comprensione dei rapporti fra organismo, regime alimentare ed ambiente. Piuttosto arretrate invece l'anatomia e la fisiologia. Sul piano terapeutico gli Ippocratici preferiscono ricorrere, anziché ai farmaci, al regime dietetico, cioè ad una terapia paziente e complessiva dell'organismo ammalato, che comprende non solo gli alimenti, ma gli esercizi fisici, i bagni e così via. 17 rinnovare abbandonando le vecchie forme: la tradizionale saggezza mitologica, il moralismo ingenuo, le forme primitive di teologia antropomorfa. Le nuove forme di razionalità teorica che elaborano Pitagora, Eraclito e Parmenide, sicuramente i maggiori protagonisti di questa tradizione, mentre lasciano intatto l’essenziale della tradizione cui questa aristocrazia si richiama, si dimostrano in grado di far emergere per la prima volta nuove ed efficaci risorse della ragione umana: matematiche, logiche e dialettiche. Per chi detiene, da sempre, le chiavi che gli consentono l'accesso al tempio, che gli aprono quelle «Porte» (come dirà Parmenide) al cui interno è custodita la divinità e la sapienza sacra che ne deriva, il rapporto con la verità non può certo, avvenire secondo le modalità che Senofane7 aveva descritto. Non può cioè trattarsi di una ricerca faticosa e prolungata, nel corso della quale gli uomini, una generazione dopo l’altra, vengono estendendo il loro sapere e il loro controllo sulla natura. Questo sapere è laico nei suoi contenuti naturalistici, profano perché accessibile a tutti i ricercatori, quindi volgare agli occhi dei discendenti di stirpi di re e sacerdoti. Il loro accesso alla verità è diverso, e non può comportare né il ricorso alla fatica dei sensi, né il lavoro delle mani, né l'imperfezione di un progresso mai concluso. Per Pitagora, per Eraclito, per Parmenide la verità è invece il contenuto di una rivelazione che la divinità elargisce loro, scelti per questo dono in virtù della loro preparazione ad accoglierlo, delle loro doti in qualche misura sovrumane. La verità viene così rivelata, tutta insieme, a una cerchia ristretta di «iniziati» (secondo la terminologia religiosa dei «misteri», in cui la divinità appariva appunto a chi aveva terminato i riti di iniziazione, escludendo i profani); e l'iniziazione qui non è solo personale, ma anche dinastica ed ereditaria. Il saggio, che ha ricevuta questa rivelazione, viene posto con ciò stesso al di sopra della folla numerosa come l'uno sta al di sopra dei molti (Pitagora), l'immortale al di sopra dei mortali (Parmenide), il desto al di sopra dei dormienti (Eraclito). L’abbandono delle _________________ tradizionali: - ______________________________ - ______________________________ - ______________________________ I protagonisti: _______________________ __________________________________ Le nuove forme di ___________________: __________________________________ Il generale disinteresse per il lavoro manuale, per le pratiche della produzione e il disprezzo sociale che circondava i lavoratori manuali (schiavi e artigiani) si espresse nella emblematica figura del dio Efesto, signore della metallurgia e del lavoro. Il fabbro dell'Olimpo era un dio storpio, gobbo senza alcuna dignità, ridicolizzato crudelmente dal resto della famiglia olimpica e persino dagli uomini. Rispetto a questa cultura religiosa caratterizzata da uno scarso interesse per la tecnologia, la valorizzazione delle tecniche appare come specificità della cultura ionica. Un tratto comune a tutti questi pensatori è dunque il modo con cui alla verità, della quale essi si sentono depositari, si arriva. Ma altri se ne possono indicare. Per i filosofi della città che intendono valorizzare il sapere prodotto dai nuovi ceti urbani, artigiani, mercanti, architetti, ingegneri o medici, il sapere ha innanzitutto un valore pratico, deve essere utile. Per la tradizione aristocratico-sacerdotale, invece, il sapere conserva una funzione che lo lega non tanto alle attività pratiche quanto, invece, alla sfera della religione, del sacro. Così ad esempio Pitagora, il primo esponente di questa tradizione, fondò una setta religiosa ed è presentato come una figura di guaritore-santone o un discendente diretto della divinità. 7 Per Senofane vedi nota 2 18 Ancora, Eraclito, la cui famiglia secondo la tradizione era di discendenza regale e conservava prerogative sacerdotali, consegnò il testo della sua opera al tempio perché lo conservasse. Opera di cui ci sono rimasti circa 120 frammenti costituiti da massime, sentenze, brevi ragionamenti espressi in un linguaggio oscuro e profetico influenzato dallo stile ieratico-liturgico proprio della tradizione sacerdotale. Poiché attribuiscono un valore diverso al sapere, le due tradizioni si differenziano anche nel modo di intendere il rapporto tra sensi e ragione. Per i filosofi della città occorre che la ragione spieghi il mondo così come appare ai sensi nel corso dell’esperienza, mentre per i filosofi della tradizione aristocratico-sacerdotale vi è una totale opposizione tra sensi e ragione dal momento che i sensi ci rivelano il mondo così come appare mentre la ragione la realtà vera. Proprio perché vogliono capire il mondo, la natura, così come lo conosciamo tramite la nostra esperienza, i filosofi di Mileto si ripromettono di ricercare il principio costitutivo e l’origine di tutte le cose. Al contrario per i filosofi della tradizione aristocratico-sacerdotale i sensi o ci rivelano una verità solo apparente (Parmenide) o parziale (Eraclito) che si ferma al disordine (caos) legato al continuo divenire e mutare delle cose, mentre la ragione giunge a cogliere l’ordine (kosmos) più o meno segreto, che deve reggere l'apparente disordine del mondo e della storia, e alla contemplazione (theoria), in cui si riassume l’atteggiamento del sapiente che osserva il mondo per riconoscervi quell'ordine. Di queste idee è, innanzitutto, importante rilevarne l'origine religiosa e sociale. Nell'uso arcaico, kosmos significa l'ordinamento della processione, del rito sacro, l'arredo del tempio e l'abbigliamento del sacerdote; theoria l'atteggiamento dei partecipanti al rito, convenuti per osservare (theorein) le manifestazioni visibili della divinità. L'antico mondo della tradizione orientale e micenea, basato sul sistema reggiatempio-agricoltura, rivelava chiaramente l'ordine immutabile, il piano divino che lo reggeva. I re e i sacerdoti si succedevano secondo ben definite regole dinastiche, i raccolti si susseguivano nel rispetto delle invariabili leggi naturali. Nella crisi del VI secolo questo ordine appare infranto e perduto. L'instabilità della vita sociale, l’avvicendarsi delle forme politiche, il rapido sviluppo di tecniche non agricole, definiscono l'immagine di un mondo umano e naturale in continua e incontrollabile trasformazione: quello che per i portavoce del punto di vista democratico è il progresso, appare invece un disordine caotico, privo di ogni legge e di ogni limite, ai pensatori legati alla tradizione aristocratica. Al di là di questo disordine, occorre allora riscoprire l'ordine reale del mondo, il kosmos, che non può essere venuto meno perché esso è di origine divina. Alla scoperta della chiave dell'ordine collabora in modo decisivo la divinità stessa, che, come abbiamo visto illumina la mente del saggio. Relativamente al modo di procedere della conoscenza è possibile stabilire un’ulteriore differenza tra le due tradizioni. Infatti, mentre i filosofi della città, come abbiamo visto privilegiarono, mettendolo a punto, per così dire, il metodo induttivo, altrettanto fecero, i filosofi della tradizione aristocratico-sacerdotale per quanto riguarda il metodo deduttivo. Per i filosofi della tradizione aristocratico-sacerdotale se alla scoperta della verità collabora in maniera decisiva la divinità o la capacità di intuire la verità che illuminano la mente del saggio, spetta alla ragione del saggio sviluppare tutte le implicazioni della rivelazione o dell’intuizione originaria. Le forme di razionalità che vengono utilizzate per elaborare questa intuizione originaria condividono tutte una struttura prevalentemente deduttiva. Tale metodo inverte il rapporto caso particolare principio/legge, tipico del metodo induttivo, in quanto parte dal principio/legge caso per arrivare al particolare. Dati certi principi accettati come veri perché intuiti o rivelati in via puramente 19 razionale, cioè senza far ricorso ai dati sensoriali o all’esperienza, attraverso una serie di passaggi consequenziali se ne ricavano tutte le implicazioni. Tale metodo che è appunto quello deduttivo è tipico della matematica, della geometria e della logica che in quello stesso periodo, negli stessi ambienti e spesso con gli stessi protagonisti, vedi Pitagora per le prime due e Parmenide per la logica, si andavano affermando come scienze. Il processo cognitivo è dunque caratterizzato da due momenti: l’intuizione/rivelazione dei principi ritenti veri e la deduzioni ricavate senza far ricorso ai dati percettivi (all'esperienza). Accettati i principi da cui si parte (a cui la rivelazione dà autorità) si ottiene in questo modo un sapere necessario, nel senso che le implicazioni ricavate vengono necessariamente riconosciute come vere; un sapere universale ed eterno, perché le conseguenze a cui si giunge valgono per tutti in ogni tempo e luogo. Questo sapere è razionalmente puro, cioè non implica per la sua costruzione e per la sua conferma il ricorso all'indagine dei sensi e al lavoro delle mani: è gerarchico nel senso che stabilisce un chiaro rapporto di dipendenza fra principi, sviluppi e conclusioni. Esso esprime quindi, nelle stesse regole che presiedono alla sua costruzione, la convinzione che nel mondo e nella società esista un ordine stabilito per sempre, e che si tratti di un ordine in cui i saggi dominino sugli ignari, i pochi sui molti, gli immortali sui mortali. Questo modo di concepire la verità, questo tipo di costruzione del sapere, e la concezione del mondo gerarchizzata che sta loro dietro, comportano, per tutti i pensatori di cui ci stiamo occupando, l'introduzione di una lunga serie di scissioni e di contrapposizioni all'interno della loro visione della realtà. Si tratta di scissioni e contrapposizioni che a noi risultano familiari, ma che nascono proprio in questo orizzonte di pensiero. Ecco dunque il formarsi di numerose coppie concettuali, in cui il primo membro è contrassegnato positivamente e il secondo negativamente: la realtà (stabile, ordinata, divina) e l'apparenza (caotica, mutevole, ingannevole); l'essere (vero) e il divenire (illusione, apparenza); la ragione (che riconosce l'ordine del mondo e costruisce un sapere che lo manifesta) e i sensi (che sono ingannati e confusi dall'illusione dell'apparenza); l'anima (che recepisce la rivelazione divina, ed è la sede della vera ragione) e il corpo (che è immerso nel divenire, ed è vittima dell'inganno dei sensi); l'uno (il saggio che è destinato alla rivelazione e all'esercizio del potere) e i molti (il demos, il volgo ignaro e presuntuoso, che si ribella alla verità e al potere legittimo) Il tentativo, da parte dei filosofi della città di dare una spiegazione unitaria alla realtà è riscontrabile già nell’obiettivo dichiarato dei filosofi di Mileto che si ripromettono di ricercare “il principio di tutte le cose”, la loro origine comune, o, ancora, nel superamento della contrapposizione tra divinità e natura con l’identificazione della prima nella seconda che abbiamo visto operato da Talete. Queste caratteristiche della visione della realtà elaborate dalle due tradizioni possono essere considerate la prima formulazione delle prospettive caratterizzanti l’idealismo e il materialismo antico. L’elaborazione di una completa concezione della realtà consona alle due tradizioni, come abbiamo accennato sopra, è legata, per la tradizione aristocratico-sacerdotale, all’opera di Platone (V-IV sec. a.C.) che ammetterà l’esistenza di due livelli della realtà di cui uno, quello non materiale, soprasensibile, ideale, costituisce la realtà vera che condiziona, guida la realtà materiale, sensibile ( idealismo antico), e, per i filosofi della città, a Democrito, dapprima, e a Epicuro (IV-III sec. a.C.), in seguito, per i quali esista un unico livello di realtà, quello materiale, retto da leggi naturali ( materialismo antico). 20 ________________________ Funzione del sapere Rapporto sensi-ragione Filosofia della città Tradizione aristocratico-sacerdotale Senofane: ______________________________________________ 1- ____________________________________ Talete: ________________________________________________ Parmenide: ________________________________________ Funzione ___________________________________ Funzione ___________________________________________ - Talete: ________________________________________________ - ______________: - ________________________________________ - __________________: ___________________________________ - _______________: ________________________________________ Il mondo come appare ai sensi (l'esperienza) va spiegato razionalmente I sensi ci rivelano un mondo apparente, la ragione la realtà vera _________________________________________________________ La ricerca del principio __________________________ ______________________ Metodo _______________________________ Metodo ______________________ _______________________: casi particolari tratti dall'esperienza Principio (rivelato, intuito): __________________ Generalizzazione: ______________________________________ ____________: implicazioni, conseguenze, spiegazione casi particolari Talete: _________________________________________ Parmenide: ______________: SE l'essere è e il non-essere non è __________________________________________ conseguenza: Tipo di scienze: _____________________________________ ALLORA ________________________________ PERCHE' ________________________________ accettati come veri i principi di partenza il sapere risulta: __________ ________________________________________________________ 21 Processo cognitivo: Intuizione/Rivelazione: __________________ Ragione: _________ __________________________________________________________ Tipo di scienze: ___________________________________________ _______________________ Visione _______________________della realtà Visione della realtà caratterizzata _______________________________ Talete: - _______________________________________________ Parmenide: ___________________vs ________________________ - _______________________________________________ Pitagora: ____________________ vs ________________________ Democrito: _____________________________________________ Eraclito: _____________________ vs ________________________ Platone: ___________________________________________________ Tipo di razionalità: 1 –___________________________________________________ Talete: _____________________________________________________ Parmenide:___________________________________________________ 2 –___________________________________________________ Anassimandro:_________________________________________________ Parmenide:___________________________________________________ 3 –___________________________________________________ 22 PITAGORA Pitagora: ____________________________________________ La figura di Pitagora8 è quella che meglio riassume in sé tutti i tratti caratteristici del filosofo legato alla tradizione sacerdotale. I misteriosi e sovrannaturali poteri di cui sembrava dotato, l'ispirazione divina che guidava le sue parole, ne fecero, ancor vivo, un personaggio quasi leggendario; egli stesso si diceva discendente da Apollo per via di successive reincarnazioni della sua anima. Altrettanto importante, per delineare la sua figura è la setta aristocratica che si raccolse a Crotone attorno a Pitagora. Si trattava da un lato di un'associazione religiosa (la casa di Pitagora, in cui la setta si riuniva, venne presto considerata un tempio), i cui adepti erano ammessi alla rivelazione del sapere del maestro, e vincolati al segreto intorno alle dottrine più importanti. Ma si trattava, al tempo stesso, di un centro di studi scientifici, certo sviluppati in virtù del loro valore teologico e morale, come si dirà più avanti. I contributi scientifici della scuola pitagorica sono sati importanti soprattutto per quel che riguarda la matematica, la geometria, la medicina, l’astronomia e la musica. In tutti questi campi, pur non arrivando mai a liberarli del tutto dalle pratiche magico-religiose ad essi connessi, l’opera dei pitagorici costituisce il primo tentativo di razionalizzarne le problematiche. Infine, la setta rappresentava anche un potente gruppo politico, ad indirizzo aristocratico ed ultraconservatore, il cui potere si estendeva su Crotone e larghe zone della Magna Grecia. La setta rimase molto potente almeno fino alla metà del V secolo quando una rivolta democratica la spazzò via da tutte le città, tranne Taranto che ancora all’inizio del secolo successivo era governata da Archita, l’ultimo dei pitagorici ad avere una posizione politica di rilievo, che fu tra gli ispiratori del progetto filosofico-politico di Platone. Dal punto di vista teorico sulla base delle testimonianze e dei frammenti in nostro possesso, non è possibile distinguere adeguatamente la dottrina originaria di Pitagora da quella della scuola da lui fondata. La maggior parte delle nostre fonti si riferisce infatti alla generazione dei pitagorici vissuti tra il V e il IV secolo (la cosiddetta "seconda generazione" del movimento, che ha in Filolao9 l’esponente più importante) e non precisa quali delle dottrine attribuite a questi filosofi fossero già appartenute a Pitagora e ai suoi primi seguaci. Nel ricostruire la filosofia del pitagorismo va pertanto tenuto presente che si tratta di teorizzazioni più volte rielaborate, lungo un periodo di tempo molto vasto che copre almeno due secoli, dalla metà del VI fino all' età di La figura ____________________ di Pitagora La setta pitagorica: 1 - ______________________________ 2 - _______________________________ ___________________________________ matematica, geometria, medicina, astronomia e musica 3 - ________________________________ __________________________________ Le fonti 8 Pitagora, figlio forse di un incisore di monete, nacque attorno al 570 a.C. a Samo nella Ionia. Per ostilità al governo di Policrate, che nel 535 circa era divenuto tiranno di Samo e svolgeva una politica avversa alla grande aristocrazia terriera, nel 530 si trasferì a Crotone. Qui fondò una setta iniziatica, le cui dottrine erano tramandate oralmente e non dovevano essere rese note all'esterno. Già presso i Pitagorici della seconda generazione divenne una figura semidivina: gli vennero attribuiti miracoli e ogni innovazione dottrinale venne sempre ricondotta al suo insegnamento e in questo modo garantita. Ciò rende impossibile una ricostruzione precisa delle dottrine professate dal Pitagora storico; esse comunque consistettero soprattutto in una cosmologia e in una numerologia, che di tale cosmologia costituiva il fondamento. Nota è la storia politica del primo pitagorismo. La setta poco dopo la sua fondazione assunse il governo di Crotone e vi svolse una politica rigidamente antidemocratica. Nel 510 Crotone su consiglio di Pitagora affrontò in guerra la democratica Sibari e la distrusse. Negli anni successivi altre città della Magna Grecia furono governate da Pitagorici. Nel 500 circa una rivolta democratica abbatté il governo della setta a Crotone; Pitagora fuggì a Metaponto, dove poco dopo morì, lasciandosi morire di fame nel tempio delle Muse. La setta rimase però potente nella Magna Grecia fino al 454, quando una seconda rivolta democratica la spazzò via da tutte le città, tranne che da Taranto. 9 Filolao, originario della Magna Grecia, fu, ancor giovane, tra i Pitagorici che si rifugiarono in Grecia in seguito alla rivolta democratica del 454 a.C. Fu attivo soprattutto a Tebe fino alla fine del V secolo. Fu tra i primi a mettere per iscritto alcune dottrine della setta, dopo averle notevolmente rielaborate. Si occupò soprattutto di matematica e di astronomia. 23 Socrate e di Platone. Le dottrine fondamentali del pitagorismo si possono racchiudere nell'arco di due opposizioni, che riflettono l'opposizione fondamentale fra il bene e il male: quella fra anima e corpo, e quella fra limite (ordine) e illimitato (disordine/caos). LE TEORIE PITAGORICHE 1- _____________________(bene) _________________ (male) dall’opposizione fondamentale ________ / __________ 2- _____________________(bene) _________________ (male) 1 –L’OPPOSIZIONE ___________________________ _____________________ sorte anima se ____________________ dettato da _______________________________ allora anima = _______________del corpo ciclo _____________________ liberazione anima = ____________________________ attraverso non ______________________ ma ________________________ ____________________ del corpo con pratiche magico simboliche Con ogni probabilità la tesi dell’immortalità dell’anima, costretta a incarnarsi via via in corpi sempre diversi, trasmigrando dall'uno all'altro dopo la morte fisica di ognuno di essi, fu elaborata fin dal primo pitagorismo, a cui spetta dunque il merito di aver introdotto nella filosofia un’altra tematica, quella relativa all’uomo, che sarà destinata a caratterizzare il dibattito filosofico a partire da Socrate. Al pitagorismo e all’orfismo, che si diffuse anch’esso nel VI secolo, si deve l’elaborazione dell’idea della dipendenza della sorte dell’anima individuale dal comportamento per cui se il corpo, che è la prigione dell'anima, riesce a coinvolgerla nella sua impurità, a contaminarla con i suoi desideri, i suoi istinti, i suoi bisogni materiali, l'anima sconta questa colpa reincarnandosi in animali sempre inferiori, e quindi aumentando il suo fardello di contaminazioni. Alla vecchia concezione della purificazione tramite la partecipazione ai riti religiosi, pitagorismo e orfismo aggiungono la necessità di conservare la purezza dell’anima tramite un comportamento ascetico che impone all’individuo l’astinenza, la rinuncia e il sacrificio che si realizzano in una serie di divieti che simboleggiano magicamente lo scioglimento dai legami del corpo (non mangiare fave, non portare anelli, ecc.). In quest’ottica va inteso il modello di vita pitagorico caratterizzato da una visione negativa del corpo e da una rivalutazione del significato religioso della conoscenza. La visione negativa del corpo, “tomba dell’anima”, non comporta una svalutazione completa del corpo stesso in quanto “l’anima come armonia del corpo” richiedeva il controllo dei bisogni del corpo, ma anche la salute del corpo intesa come equilibrio dei principi che regolano il funzionamento dell’organismo (da qui tra il resto l’interesse dei pitagorici per la medicina). La rivalutazione del significato religioso della conoscenza, rifacendosi alla tradizione per cui il sacerdote era l’interprete della sapienza divina, vedeva la filosofia come purificazione dell’anima e strumento della sua salvezza. Lo studio veniva dai pitagorici identificato con la contemplazione, con la rivelazione mistica, estatica secondo il significato originario della parola greca “Theoria”. In questo modo la conoscenza veniva identificata in un sapere intuitivo, razionale, lontano dall’evidenza percettiva e contrapposto al sapere quotidiano e pratico. In questo quadro si comprende il valore morale e religioso dell'idea di limite, ordine, misura, che domina il pensiero pitagorico. La vita del saggio è appunto la pratica dell'ordine e della misura nei riguardi degli istinti, dei desideri, di tutte le pulsioni corporee; il suo dovere è di indurre tutti, con la persuasione o con la forza del potere politico, a rispettare questi stessi canoni d'ordine. __________________________________ Il modello di vita pitagorico: a - _______________________________ ma non ____________________________ b - _______________________________ filosofia = ________________________ _________________________________ studio = __________________________ conoscenza = ______________________ _________________________________ il valore morale dell’idea di _________ _______________________________ saggio = ___________________________ + _________________________________ __________________________________ 24 L’opposizione tra limite e illimitato sembra derivare, da un lato, dalle ricerche della scuola di Mileto sul principio delle cose, e in particolare dalla teoria dell’illimitato di Anassimandro, dall’altro dalla sensibilità propria di Pitagora ai problemi etico-religiosi che pongono in primo piano l’opposizione bene/male che spinge Pitagora a sdoppiare il principio in due opposti. Il principio del limitato, finito, misurabile che rappresenta l’ordine e il bene e il principio del’illimitato, infinito, incommensurabile che si identifica con il disordine, il caos e il male . Dall’identificazione del limitato, del finito con il misurabile deriva la concezione, fondamentale per i pitagorici, del numero come principio e fondamento della realtà che si esprime nella tesi, presente in Filolao, che tutte le cose sono numeri. All’origine di questo concezione che individua nel numero il costituente elementare delle cose vi è sicuramente il simbolismo dei numeri presente in molte culture che attribuiscono un significato magico a certi numeri (vedi ad esempio le ricorrenze del numero sette: sette giorni della settimana, sette savi, sette peccati capitali, … ). Bisogna anche tenere presente l’aumentato peso dell’economia mercantilistica e monetaria che favorì la razionalizzazione della superstizione dei numeri mettendo in primo piano la funzionalità dei numeri. Ai numeri inoltre erano ricorsi gli astronomi babilonesi per descrivere i moti dei corpi celesti. Gli stessi pitagorici avevano infine scoperto che gli accordi musicali sono esprimibili in rapporti numerici, in quanto esiste una relazione costante tra lunghezza delle corde della lira e gli accordi fondamentali. Per comprendere la tesi per cui tutte le cose sono numero occorre tener conto anche del fatto che i pitagorici intendevano come numero soltanto i numeri interi e che i greci rappresentavano i numeri come punti circondati da uno spazio vuoto. La generazione dei corpi fisici veniva infatti spiegata secondo un modello (vedi figura) che procedendo per progressive unità punto passava dal punto alla linea, dalla linea al piano e quindi dal piano al solido, l’unità costitutiva dei corpi fisici. 1 2 3 4 origine: 1 _______________________________ 2 _______________________________ bene = ___________________________ male = ___________________________ limitato = _______________________ tutte le cose sono _________________ giustificato da: 1 - ________________________________ 2- economia monetaria ______________________________ 3 - _______________________________ 4 - _______________________________ 5 - _______________________________ A -_______________________________ B - _______________________________ La generazione dei corpi fisici (vedi figura) Punto Linea superficie solido (piramide) Come i numeri sono i costituenti delle cose così le caratteristiche dei numeri sono anche le caratteristiche del mondo fisico e morale. Così alla contrapposizione tra numeri dispari e pari (che riassume in sé la contrapposizione tra limitato e illimitato e identifica il dispari come perfetto perché limitato in quanto se diviso per due da sempre resto uno e il pari come imperfetto e illimitato in quanto se diviso per due non da resto) corrispondono altre opposizioni delle entità geometrico-matematiche (retto/curvo, quadrato/rettangolo, unità/molteplicità), del modo fisico (destra/sinistra, luce/tenebre, quiete/movimento, maschio/femmina, anima/corpo) e del mondo morale (buono/cattivo, bene/male).. All’interno di un quadro di questo genere venivano poi riprese una moltitudine di significati magico-simbolici per cui, ad esempio, il numero dieci veniva considerato il numero perfetto perché formato dalla somma dei primi quattro numeri, numeri da cui deriva la generazione di tutte le cose. D’altra parte il dieci costituisce il numero fondamentale del sistema numerico decimale teorizzato in ambiente pitagorico (si pensi alla tabellina pitagorica). 25 numeri = ______________________________________ caratteristiche dei numeri = __________________________________________ numeri = dispari / ______________ / perfetto _____________ = unità _________________________ ___________ / illimitato / ____________________ __________________________________________ vs _____________ = ________________________ ________________________________ _____________ = ________________________ ________________________________ Il significato magico dei numeri: ___________________________________________________________________________ L’importanza attribuita alla matematica costituisce sicuramente il maggior contributo dei pitagorici alla storia del pensiero scientifico e filosofico dell’occidente. Questo consentì che all’interno della scuola avvenissero le prime razionalizzazione dei problemi geometrico-matematici il cui massimo risultato può essere considerata la geometria euclidea. Comunque l’identificazione tra razionale e misurabile/calcolabile, riscontrabile anche nella scienza moderna, non si liberò mai del tutto da una concezione che attribuiva valore magico-simbolico ai numeri e funzioni misticoreligiose alla matematica. Conservando quindi un valore qualitativo ai numeri, per cui un numero oltre che una certa quantità rappresenta anche qualcosa d’altro (la perfezione, la giustizia, la divinità, … ) non ricondusse i fenomeni naturali a rapporti quantitativi effettivamente misurabili e calcolabili. La matematica divenne invece con la sua struttura deduttiva il modello della conoscenza razionale in quanto basata sul ragionamento (deduzione delle conseguenze dai La regolarità matematica della natura, principi) senza bisogno di ricorrere l'intuizione di fondo del Pitagorismo, nel all’osservazione e alla conoscenza disegno d un artista moderno, J. Beuys empirica e quindi in quanto fondata (1948) su oggetti non direttamente riscontrabili nella realtà. Il pitagorismo e la ____________________ - _________________________________ ____________________________ + - _______________________________ no ______________________________ ________________________________ matematica come _________________ __________________________________ ERACLITO Eraclito: ____________________________________________ _________________________ Eraclito e Eraclito10, uomo legato all'acropoli, al tempio e alla reggia, di discendenza regale visse nella ionica e democratica Efeso. Per il demos della città e per le sue ___________________________ Efeso 10 Eraclito nacque ad Efeso da famiglia aristocratica, che era tradizione discendesse da antichi re, e il cui capo per questo godeva ancora di privilegi nel cerimoniale sia religioso che civile. Quando, per la morte del padre, tali privilegi vennero a spettare ad Eraclito, si tramanda che questi vi abbia rinunciato a favore del fratello minore. La data di nascita non è nota, e solo con molta approssimazione può essere collocata attorno al 540 a. C. Non sappiamo quale ruolo abbia svolto negli avvenimenti politici della sua città; nei 26 tecniche, Eraclito non ha che parole di sdegno e ricorre nei loro riguardi allo scherno e all'invettiva. Malato, rifiuta di lasciarsi curare dai medici profani; secondo la tradizione scende sulla piazza di Efeso, vi si copre di sterco, e muore divorato dai cani. Eraclito sperimenta nel modo più acuto l'esperienza tragica del conflitto, della tensione, del mutamento che sconvolge l'ordine sociale. Da questa esperienza è profondamente segnata tutta la sua flessione. La contraddizione, il divenire, il mutamento universale vanno riconosciuti come caratteri essenziali e insopprimibili del mondo in cui viviamo. La realtà è un perpetuo fluire e trasformarsi, nel reciproco conflitto, di tutte le cose; «la Guerra, dice Eraclito, è il padre del mondo». Ma per quanto sia acuta la sua consapevolezza del confitto e del mutamento universale, Eraclito non può arrestarsi ad essa. II punto fermo, da, cui ripartire è per Eraclito l'ispirazione divina che parla nell'anima del saggio. La verità sta dentro di noi, solo che siamo desti e pronti a coglierne il messaggio; è inutile, e qui la polemica colpisce Pitagora, andarla a cercare negli astri, nelle armonie musicali, nei numeri. La via giusta è indicata nel precetto delfico «conosci te stesso», che più tardi anche Socrate avrebbe fatto proprio. Il messaggio divino che ispira il saggio è il logos. Eraclito adopera il termine logos per indicare contemporaneamente la legge che governa l’universo e la ragione come facoltà dell’uomo di comprendere tale legge, intendendo la razionalità come qualcosa di esterno al pensiero dell’uomo. Benchè la ragione sia comune a tutti non tutti arrivano a comprendere la legge che governa l’universo in quanti non tutti arrivano alla vera conoscenza, alla conoscenza razionale. Eraclito esprime questa convinzione opponendo “i più”al “saggio”, “coloro che dormono”a “coloro che sono svegli”. Infatti, i più vivono continuamente in una specie di sogno e, come nei sogni, hanno ciascuno un proprio mondo senza alcun rapporto con quello degli altri dal momento che seguono i sensi, le opinioni, le credenze irrazionali. Viceversa al saggio, a colui che è sveglio le cose non appaiono più dal proprio particolare punto di vista. Abbandonando le idee comuni e il punto di vista delle scienze particolari il saggio saprà riflettere in solitudine e troverà dentro di sé la verità che per Eraclito, come abbiamo detto, non va ricercata nelle cose ma è frutto di un’ispirazione divina che parla nell’anima del saggio. Ciò che il logos, come ragione, rivela al saggio è costituito dalla legge universale che governa tanto il mondo come la società e il comportamento individuale e che è, come si è detto, da Eraclito chiamata ancora logos. In questo secondo significato il logos non è il pensiero razionale bensì una legge, una forza che agisce dentro la realtà. Essa rappresenta, come per Anassimandro il passaggio dall’indeterminato al determinato e quindi il ritorno all’indeterminato, la norma che regola gli eventi, il divenire delle cose. Tale legge si basa su due principi: l’incessante divenire, mutare delle cose che ci è testimoniato dai sensi; l’unità degli opposti, dei contrari che ci è rivelato dalla ragione. La realtà è, per Eraclito, un perpetuo fluire e trasformarsi di tutte le cose (panta rei). In alcuni celebri frammenti Eraclito paragona questo continuo fluire delle cose alla corrente di un fiume le cui acque non sono mai le stesse affermando, ad esempio, che: “Non è possibile discendere due volte nello stesso fiume.”. Il continuo fluire delle cose, per cui nulla resta immutabile, fisso ma tutto cambia, si trasforma per Eraclito riguarda sia noi stessi, sia la società che la natura. Eraclito tende ancora a identificare tale principio in qualcosa di reale: il fuoco. Dal conflitto ________________ al conflitto _______________________ La verità non è _________________ (ctr ________________) ma __________ attraverso __________________________ Il Logos: 1- _______________________________ 2 - ______________________________ comune a tutti, ma non ________________ __________________________________ perché: i più : sensi _______________________ ___________: _______________ + __________________________________ Verità 3 - ________________________________ __________________________________ due _______________________: A - _______________________________ testimoniato __________________ implica ____________________________ esempio __________________________ frammenti che ci restano però vi è una ricorrente politica antidemocratica. Scrisse un libro composto quasi per intero da aforismi di tono oracolare e spesso volutamente oscuri; il testo di questo libro fu da lui depositato nel tempio di Artemide, e per sua volontà non fu reso pubblico prima della sua morte (la cui data non ci è nota). Di questo scritto ci restano circa 130 frammenti. 27 Per quanto sia qualcosa di reale il fuoco non è un elemento particolare quanto invece un processo e l’estrema mobilità del fuoco ben simboleggia il continuo mutare, divenire delle cose. Inoltre, in alcuni frammenti il fuoco viene inteso non tanto come il processo fisico della combustione bensì come il principio animatore del mondo e quindi divino. Se il divenire delle cose ci è testimoniato dai sensi per comprendere il secondo principio su cui si fonda il logos occorre servirsi della ragione. Infatti, secondo la testimonianza dei sensi, dell’esperienza noi siamo portati a ritenere che i contrari si escludano reciprocamente, così, ad esempio, se siamo svegli non dormiamo, se siamo sazi non abbiamo fame. Questa convinzione appare però ingenua agli occhi della ragione per cui ciascun contrario è strettamente legato al suo opposto. Legame che è determinato dalla stessa opposizione dal momento che ogni coppia di opposti si presenta come complementare, momenti di una stessa unità. Complementarietà che può essere data, ad esempio, dalla correlatività per cui non è possibile valutare correttamente un contrario senza tenere conto dell’altro (valutare della malattia senza tener conto della salute); oppure essere costituita dal fatto che i contrari sono uniti dall’essere compresenti nello stesso oggetto (la stessa strada può apparire in salita o in discesa); o, ancora, essere ottenuta dal superamento dei differenti punti di vista di diversi osservatori (la stessa acqua, quella dei mari, è indispensabile per i pesci, inutilizzabile per l’uomo). L’unità dei contrari non elimina tuttavia il momento conflittuale, poiché è il conflitto tra le cose che porta ogni cosa a trasformarsi nel suo contrario. Per questo Eraclito può in un suo frammento proclamare che: “La guerra (polemos) è il padre di tutte le cose.”. Il tipo di razionalità messa in atto da Eraclito è stata definita dialettica, intesa come la capacità del pensiero di cogliere le opposizioni tra i diversi aspetti della realtà, le loro contraddizioni ma anche l’unitarietà dei diversi aspetti. È d’altronde da sottolineare che uno schema concettuale tipicamente greco è rappresentato dal cosiddetto “pensiero polare”, ossia la tendenza a pensare la molteplicità non come un mucchio di cose tra loro diverse, ma come un insieme articolato secondo coppie di opposti. Tendenza presente un po’in tutti gli autori che abbiamo esaminato a partire da Anassimandro. Parmenide: ____________________________________________ il ____________________ reale ma ____________________________ simbolo ____________________________ per Eraclito _____________________ B - ________________________________ _________________________________ testimoniata _____________________ complementarietà dei _________________ data da: a - ________________________________ b - _______________________________ c - ________________________________ il conflitto _________________________ _________________________________ La razionalità ____________________ Il pensiero _______________________ PARMENIDE Parmenide = ______________________ Centralità problemi : 11 Parmenide visse a Elea, città da cui prese il nome la scuola da lui fondata detta appunto eleatica, e che era situata sulla costa dell’attuale Campania. Nacque attorno al 515 a. C. in una famiglia aristocratica e ricoprì ruoli politici all’interno della città. All’interno della riflessione di Parmenide diventa centrale il problema della conoscenza che, come abbiamo visto, è strettamente connesso con quello della concezione della realtà e che in modo embrionale era già presente in Eraclito che aveva identificato con il termine logos sia la ragione umana e il discorso che essa produce, sia la legge che governa l’universo. In Parmenide vengono messi in primo piano i problemi del rapporto tra pensiero, linguaggio e realtà e della “via”, cioè del metodo, che occorre percorrere per giungere alla conoscenza vera. Secondo Parmenide la conoscenza umana può seguire due distinte vie, due metodi A - ________________ + B - concezione ________________ già in ____________________ (vedi _______________) A + B = rapporti _____________________ __________________________________ __________________________________ 11 Parmenide, di famiglia aristocratica, nacque ad Elea, nella Magna Grecia, attorno al 515 a. C. Delle vicende della sua vita sappiamo soltanto che svolse opera di legislatore nella sua città e che nel 450 circa compì un viaggio ad Atene. La sua formazione culturale si compì all'inizio certamente sotto la prevalente influenza del pitagorismo. Scrisse un'opera filosofica in esametri, alla quale fu in seguito dato il titolo Sulla natura, divisa in due parti (Verità e Opinione). 28 diversi: la via della ragione che conduce alla verità e la via dei sensi che conduce non alla verità ma all’opinione. Le due vie sono per Parmenide nettamente divise. Il suo poema, di cui ci sono rimasti ampi frammenti, si apre con il resoconto di un viaggio in cui Parmenide stesso, prescelto per una rivelazione sovraumana, guidato dalle dee giunge alla Porta della verità (in cui si può riconoscere la Porta Rosa di Elea che in effetti separava la città bassa, portuale e commerciale, dall’acropoli con il suo tempio) la quale separa per sempre e da sempre la luce dalle tenebre, la verità dall’errore. Le due vie sono divise e inconciliabili poiché l’unica che rende possibile il sapere e comprensibile il reale è la via del pensiero, della ragione. Accettando i dati dell’esperienza, di ciò che appare all’immediatezza dei sensi occorre, osserva Parmenide, ammettere che la realtà e la nostra esperienza sono descrivibili in termini di opposizioni, scissioni. Così ad esempio possiamo con Pitagora contrapporre anima e corpo, con Eraclito ammettere che la fatica rende piacevole il riposo o la fame la sazietà e fare della lotta tra gli opposti la stessa legge dell’universo o, come Anassimandro, parlare della reciproca sopraffazione delle cose. Passando al piano della ragione, del discorso razionale occorre innanzitutto secondo Parmenide, poiché la ragione generalizza, che l’oggetto del discorso non siano le cose particolari, gli esseri di cui ci testimoniano i sensi bensì l’essere in generale ovvero la condizione comune di tutte le cose che sono che è appunto il loro esistere, il loro essere (di ciascuna cosa, di ciascun ente di cui ammettiamo l’esistenza infatti possiamo innanzitutto dire che essa è). Volendo poi conservare anche sul piano della ragione l’opposizione, la scissione testimoniata dai sensi all’essere così inteso occorrerebbe opporre il non–essere che Parmenide intende come il nulla. Però, osserva Parmenide, pensare implica sempre pensare a qualcosa dal momento che pensare il nulla significa non pensare, e, allo stesso modo, parlare implica sempre dire qualcosa perché dire il nulla equivale a non dire, allora possiamo pensare e parlare solo dell’essere e non del non-essere. 1 - _____________ _______________ 2 - ______________ ______________ Il ______________ di Parmenide la _____________________ (___________ _____________) Per _________________ solo per _______ realtà = ____________________________ come per _________________________ 1 - La via __________________________ ____ I rapporti ______________________ __________________________________ IL PRINCIPIO DI PARMENIDE Sensi ragione ____________________ Cose particolari essere ______________________ = ___________________________________ Opposizione ______________ allora essere vs _________________________ = _______________ ma pensare il __________ = _________________ dire il ____________ = __________________ quindi ______________________________________________________ per cui applicando _____________________________ A = A _________ A = non A _______ allora ____________________________________________________________ ____________________________________________________________ Presupposti: _____________________ = ________________________ = _______________________________ pensare = _______________________________ dire = ______________________________ allora pensiero e linguaggio hanno _____________________________________________ 29 Parmenide conclude quindi che solo l’essere esiste e il non-essere non esiste. Trasferito sul piano del pensiero, del linguaggio il problema della comprensione della realtà, Parmenide applica le leggi della ragione alla realtà per cui utilizzando il principio logico della non contraddizione, secondo cui se è vera l’eguaglianza A=A non può essere vero A= non A, egli può affermare il principio che solo l’essere esiste e non può non esistere mentre il non-essere non esiste e non può esistere. Tale è appunto secondo il poema di Parmenide il contenuto della rivelazione della dea. Il principio ha come suo presupposto la corrispondenza totale tra la realtà, il pensiero che la conosce e il linguaggio che esprime il pensiero. Pensiero e linguaggio si corrispondono pienamente poiché, secondo Parmenide, pensiero e linguaggio richiedono necessariamente un oggetto fuori di sé dal momento che, come abbiamo detto, il pensare implica sempre pensare a qualcosa, perché pensare il nulla è non pensare e, allo stesso modo, il parlare implica sempre dire qualcosa perché dire il nulla è non dire. Parmenide conclude così che “Lo stesso è pensare ed essere”. Con il suo principio, dal quale, come vedremo adesso, Parmenide trae per via logica, tutte le conseguenze possibile determinando così le caratteristiche dell’essere, egli inaugura una forma di conoscenza puramente razionale che utilizza un metodo logico-deduttivo. Partendo dal presupposto che occorra rifiutare tutto ciò che comporta il nonessere che non può essere né pensato né detto, Parmenide ne deduce che l’essere deve necessariamente essere unico, perché se fosse molteplice implicherebbe il non-essere in quanto tra due o tre cose vi sarebbe un vuoto, ovvero il non-essere. Allo stesso modo l’essere è necessariamente ingenerato e imperituro, altrimenti nascendo verrebbe dal nulla e morendo sparirebbe nel nulla. L’essere inoltre è: eterno, cioè al di fuori del tempo, perché se fosse nel tempo implicherebbe il non-essere in quanto il tempo è costituito dal presente che non è più il passato e non è ancora il futuro; è immutabile ed immobile perché il mutamento e il moto implicano l’esistenza di stati in cui l’essere non è più o non è ancora; finito ed ha forma sferica in quanto per i greci la sfera è la figura perfetta e la finitezza sinonimo di compiutezza e quindi ancora di perfezione. L’unicità, l’eternità e l’immutabilità dell’essere garantisce l’assolutezza e la certezza della conoscenza che la ragione acquisisce di quest’oggetto, dell’essere in quanto esclude che la realtà vera, al di là dell’apparenza sia soggetta al Se solo l’essere è e il non essere non è allora: l’essere è unico se fosse ____________________ _____________________ se __________________________ _____________________ se __________________________ l’essere è eterno se __________________________ _____________________ se ___________________________ ___________________ = compiutezza l’essere è sferico i vuoto tra 2 o più cose m p ________________________________________ l i _________________________________________ c h ________________________________________ e r _________________________________________ e b __________________________________________ b e = ___________ Essere = ________________,_________________,__________________ conoscenza __________________________ (no ___________________) (universale e ____________________) 30 divenire, al mutamento come la realtà quale ci viene testimoniata dai sensi. È da sottolineare anche il fatto che Parmenide attribuisce all’essere le stesse caratteristiche che la tradizione religiosa di altre culture contemporanee attribuivano alla divinità, così, ad esempio, nella tradizione ebraica di Dio si dice che “è colui che è”. Parmenide però nel suo sforzo di giustificare la sua concezione si allontana dalla tradizione puramente religiosa e questo fa di lui il fondatore della logica, intesa come ragionamento deduttivo che da un principio evidente trae una serie di conclusioni. Inoltre, l'essere di cui parla Parmenide è, esiste, necessariamente (non è possibile che non sia). Questo comporta di conseguenza che le cose mutevoli (che ora sono, ora non sono) non appartengono all'essere (assoluto) e come tali non esistono. Con l'impostazione data da Parmenide al problema dell'essere, si determina così un insanabile contrasto la verità dichiarata dalla ragione — che afferma l'esistenza di un essere unico immutabile — e l'evidenza sensibile che, attestando la molteplicità e il divenire delle cose, appare come una costante smentita del l'unità e dell'immobilità dell'essere. Tra la ragione, che afferma sicura la radicale differenza tra essere non essere, e quindi l'impossibilità di una loro identificazione, e l'esperienza, che invece li mescola, li identifica, li pone nello stesso tempo come identici e non identici, Parmenide sceglie di stare dalla parte della prima, perché a ciò lo costringe il rigore del pensiero. Le cose molteplici che sotto i nostri occhi nascono, si trasformano e muoiono, le cose che appaiono nell'esperienza, sono pura illusione. Ora, la storia della filosofia e della scienza sono ricche di esempi in cui questo metodo è stato usato con successo, cioè di casi in cui l'applicazione di certi principi razionali ha permesso di appurare che la vera realtà delle cose non può coincidere semplicemente con quella che appare. Si pensi, ad esempio, alle scoperte astronomiche di Copernico o di Galileo, i quali, in fondo a precisi ragionamenti dimostrativi, sono giunti a provare contro tutte le apparenze che nella vera realtà delle cose la Terra si muove mentre il Sole sta fermo, e non viceversa. Con Parmenide, insomma, si fa strada, nel modo un po' intemperante tipico di chi apre per la prima volta una via, l'idea che una corretta comprensione della realtà sia resa possibile più da un uso corretto della ragione che da una raccolta acritica di apparenze. La via dei sensi si differenzia dalla via del pensiero in quanto accetta una concezione della realtà, dell’essere come molteplice e in continuo mutamento. Per Parmenide questa via non conduce alla verità ma solo all’opinione. La nostra conoscenza del mondo sensibile dovrà partire da un esame delle diverse opinioni degli uomini per scartare quelle meno convincenti giungendo così a possederne una conoscenza più credibile. Su queste basi non sarà però possibile fondare una conoscenza vera ma solo verosimile cioè apparentemente vera e quindi più credibile. Nella seconda parte del suo poema applicando questo metodo Parmenide espone la sua visione del mondo sensibile come il risultato della mescolanza di due elementi che identica nella luce e nel buio, dalla loro unione si sono formate terra, sole, volta celeste, tutte le cose e l’uomo stesso. La maggior vero somiglianza di questa concezione risiederebbe nel fatto che luce e tenebre rappresenterebbero una sorta di traduzione visiva dell’essere e del nonessere che verrebbero in questo modo trasformati in elementi dell’esperienza sensibile. L’essere di Parmenide e _____________ _________________________________ l’inesistenza delle __________________ _______________________________ _________________________________ vs _______________________________ __________________________________ vs ___________________________________ 2 - La via __________________________ non _________________ ma ___________ __________________________________ metodo = _________________________ __________________________________ Opinione sulla formazione del mondo: _________________________________ dove luce = _________________________ tenebre = ___________________________ 31 ZENONE Zenone: ____________________________________________ Più giovane del maestro di circa quarant'anni, Zenone12 scrisse un libro in prosa, dal titolo Sulla natura, in cui diede prova di una notevole abilità dialettica. Di questo libro sono giunti fino a noi pochissimi frammenti e un certo numero di testimonianze, alcune di non facile interpretazione. L'obiettivo principale, se non unico, di Zenone fu quello di difendere le posizioni di Parmenide contro i suoi detrattori. Interessante e originale fu il metodo da lui adottato, a cui deve gran parte della sua fama. Zenone non argomentò in maniera diretta in difesa delle tesi di Parmenide, ma assunse come premesse le asserzioni dei suoi avversari, per evidenziarne le conseguenze contraddittorie: in questo modo i principi parmenidei venivano dunque confermati in maniera indiretta. Il fatto di aver adottato una simile procedura ha fatto di Zenone lo scopritore di quello che in matematica si chiama "ragionamento per assurdo": per dimostrare la verità della proposizione x si prova a vedere che cosa succede se la si nega; e se le conseguenze che ne derivano sono contraddittorie o assurde, allora si può ritenere di aver dimostrato la verità di quella proposizione. L'adozione di questo metodo spiega perché gli argomenti di Zenone siano comunemente chiamati "paradossi" (dal greco parà + dòxa, ossia contrario all’opinione), appunto perché egli si propose di mettere in luce le conseguenze paradossali che derivano da assunzioni antiparmenidee. Ora, tra tutte le caratteristiche che Parmenide aveva attribuito all'essere, le più paradossali e contrarie al senso comune (e, per questo, oggetto di critiche e scherno) erano probabilmente quelle secondo cui l'essere è immobile e uno. Chi non vede, infatti, che la realtà si muove ed è molteplice? Perciò Zenone si concentrò soprattutto su questi due attributi, e compilò una duplice serie di paradossi, volti a mostrare le conseguenze assurde che derivano, rispettivamente, dalle affermazioni "l'essere è mobile" e "l'essere è molteplice". Tra i paradossi "contro il movimento" è rimasto celebre il cosiddetto “Achille e la tartaruga”. Zenone immagina una gara di corsa tra Achille (in Omero frequentemente definito "piè veloce") e una tartaruga (animale paradigmatico per la sua lentezza), e si propone di dimostrare che Achille, se concede alla tartaruga un margine iniziale di vantaggio, non potrà mai raggiungerla. Dato il segnale di partenza Achille impiegherà un certo tempo per arrivare nella posizione dove si trovava all'inizio la tartaruga; la quale però, durante lo stesso tempo, avrà compiuto un tratto di strada, per quanto breve. Ciò significa che alla fine di questo primo lasso di tempo (in un istante che potremmo chiamare T1) Achille avrà sì accorciato il distacco, ma sarà comunque ancora in svantaggio. Achille, dunque, avrà bisogno di altro tempo per raggiungere la posizione in cui la tartaruga si La _________________ delle tesi di ____________________________ I __________________________ = ragionamento __________________ le conseguenze ________________ del __________________ una verità A –Paradossi contro il ________________ Per Parmenide l’essere è ______________ infatti ad ammettere __________________ paradosso di ________________________ 12 Zenone nacque ad Elea attorno al 490 a.C. Fu il principale scolaro di Parmenide, con il quale compì un viaggio ad Atene nel 450. Avendo un tiranno (forse di parte democratica) assunto il governo di Elea, partecipò a una congiura per abbatterlo, ma fu scoperto e ucciso. Scrisse un'opera in prosa, il cui intento era quello di difendere la dottrina del maestro dalle critiche che le erano state mosse; essa consta di numerosi argomenti, miranti tutti a falsificare le tesi contrarie a quelle parmenidee. 32 trova adesso (nell'istante T1), e perciò potrà essere lì solo nell'istante T2. Ma nel frattempo la tartaruga non ha smesso di muoversi, per cui nel tempo intercorso tra T1 e T2 avrà coperto un certo spazio, per quanto minimo. Dunque Achille nell'istante T2 è ancora in ritardo nei suoi confronti, e potrà raggiungere l'animale solo nell'istante T3, quando però la tartaruga sarà già oltre, e così all'infinito. Se ne deduce che Achille non potrà mai raggiungere la tartaruga. I paradossi relativi al molteplice sono piuttosto complessi. Ne menzioneremo pertanto solo uno, che è a un tempo il più chiaro e il più significativo. Se gli enti sono molti, devono essere tanti quanti sono, dunque di numero finito. Però si può anche dimostrare che sono di numero infinito. Infatti, "in mezzo agli enti ve ne sono altri, e in mezzo a questi di nuovo degli altri". Possiamo capire che cosa vuole dire Zenone con un esempio. Prendiamo uno scaffale pieno di libri. Indubbiamente siamo di fronte a un insieme di cose che sono "molte", ma non infinite. Ma, precisamente, quante sono? Per saperlo potremmo semplicemente contare i libri. Ma i libri sono fatti di pagine, che sono anch'esse delle cose; dunque dovremmo aggiungere al numero dei libri il numero complessivo delle pagine. Ma i capitoli, i paragrafi, le frasi, le parole, le singole lettere, giù giù fino alle macchioline di inchiostro di cui sono composte e alle loro parti (e così all'infinito), non sono forse anch'esse delle "cose", identificate e distinte da un proprio nome? Quante saranno, dunque, le "cose" che si trovano sullo scaffale? Non è forse vero che il loro numero rischia di diventare infinito? Se si ammette che i molti "sono", esistono dunque buoni argomenti sia per dire che sono finiti, sia per dire che sono infiniti. E questo dimostra appunto la "paradossalità" del concetto di molteplice. La maggioranza dei paradossi di Zenone, e in particolare i due qui riportati, si fondano sullo stesso motivo, cioè sulla differenza tra estensione in senso fisico ed estensione in senso matematico. La matematica moderna afferma che in un segmento matematico/geometrico esistono infiniti punti, ma tali punti non hanno dimensione. Ove invece di un segmento si prenda una linea concretamente tracciata su un piano, questa linea è fisicamente divisibile in molti punti, anche piccolissimi, ma ciascuno di essi ha una dimensione; dunque non sono infiniti. Di conseguenza Achille, che corre su un piano concreto e non lungo una linea matematica, raggiungerà facilmente la tartaruga, perché i punti che attraversa non sono infiniti come quelli di cui è formata la linea. Lo stesso discorso vale per il paradosso sul molteplice. Tra un oggetto e l'altro ce ne sono sempre ancora degli altri solo nel mondo teorico della geometria e della matematica (dove, rispettivamente, tra due punti in un segmento e tra due numeri in una serie ve ne sono sempre infiniti altri), mentre nel mondo reale la divisione, prima o poi trova un termine. Si potrebbe perciò avanzare riguardo agli argomenti di Zenone lo stesso sospetto suggerito da quelli di Parmenide: che essi cioè esemplifichino semplicemente le ingenuità in cui incorre un pensiero non ancora maturo. Ma in proposito valgono osservazioni analoghe a quelle che abbiamo fatto per lo stesso Parmenide; anche il pensiero di Zenone ha lo scopo e l'effetto di mostrare che le esigenze teoriche promosse dalla ragione potrebbero entrare in conflitto con ciò che percepiamo nell'esperienza. È possibile che Zenone, così come Parmenide, ne abbia ricavato l'idea che la realtà sensibile non è comprensibile razionalmente. Ma non si tratta di una conseguenza obbligata. Per altri filosofi, infatti, il conflitto tra razionale e reale messo a fuoco dagli eleati costituirà uno stimolo decisivo per sviluppare le istanze della ragione in modo più comprensivo e approfondito. B –Paradossi contro __________________ Per Parmenide essere è ________________ infatti ad ammettere __________________ possiamo sostenere sia che gli enti sono ____________ sia che sono ___________ Divisibilità ________________________ e divisibilità _________________________ Achille non corre __________________ _________________________________ gli oggetti non sono __________________ __________________________________ Sensi vs ____________________ Razionale vs ______________________ 33 Linguaggio, pensiero e realtà in Protagora e Gorgia PROTAGORA E GORGIA Lo scontro, nella filosofia, tra naturalismo ionico e sapere del tempio così come quello, nella città, fra demos e aristocrazia, non si esaurì in una contrapposizione statica e frontale. Durante il V sec. a.C. dal dibattito filosofico provocato da tale scontro, innanzitutto, si delinearono meglio i diversi piani della riflessione filosofica, spesso ancora confusi nel periodo precedente. Infatti, soprattutto ad Atene , che stava diventando il principale centro del dibattito, assunsero un’importanza sempre maggiore le tematiche antropologiche e politiche con al centro i problemi relativi all’uomo e al costituirsi dei rapporti sociali, soprattutto ad opera dei sofisti e di Socrate. D’altra parte per i filosofi della città, dopo Parmenide, si rendeva necessario mostrare come i fenomeni naturali e quindi la nostra stessa esperienza possano venir spiegati con schemi razionali non contraddittori e logicamente più consistenti di quelli sperimentati dagli Ionici. Il nuovo modello di spiegazione venne elaborato soprattutto da Democrito a cui, come abbiamo detto, è legata la definitiva sistemazione della visione della realtà materialista e di cui diremo in seguito. Allo stesso modo per chi, come Parmenide, accettava la superiorità della ragione occorreva illustrare adeguatamente i rapporti tra la realtà colta dalla ragione e il mondo dell'esperienza. Sarà, come vedremo, Platone a rispondere a questi problemi elaborando la concezione idealista. Ora ci occuperemo invece del primo aspetto e soprattutto del contributi dei sofisti al dibattito, inaugurato da Parmenide, sui rapporti tra linguaggio, pensiero e realtà. Il __________________________ tra la tradizione __________________________ e i ______________________________: 1 - emergere nuove tematiche: _________________________________________________________________________________________ 2 –elaborazione concezioni Filosofi della città: spiegare ____________________ con nuovi schemi razionali _________________ dopo Parmenide Tradizione aristocratico- sacerdotale: spiegare ______________________________________ __________ Il modo con cui i sofisti affrontano il problema dei rapporti tra linguaggio, pensiero e realtà, e, sostanzialmente, anche le differenza tra la loro impostazione e quella di Parmenide dipende profondamente dai nuovi orizzonti che la vita politica della città andava assumendo. All'interno della città la preparazione di un gruppo dirigente capace di guidare l'esperienza politica della città costituì uno dei principali problemi della società ateniese nel V secolo. La provenienza sociale di questo gruppo non era nuova: come si è già visto, il potere resta in Atene, almeno per quasi tutto il V secolo, nelle mani delle vecchie famiglie aristocratiche. Si trattava però di capacità nuove, richieste dal passaggio dal vecchio sistema di dominio alla pratica della mediazione politica, dell'ampliamento del consenso, dell'immissione di ceti nuovi nel dibattito sulle decisioni politiche. Principale fra queste capacità era quella consistente nel saper usare il linguaggio in modo persuasivo: nel sapere cioè convincere un'assemblea popolare, un consiglio, un tribunale, della giustezza di una proposta, della bontà di una causa, della validità di una candidatura. L’aristocrazia doveva dunque impadronirsi di questo uso persuasivo, oratorio del linguaggio e della relativa tecnica, la retorica. Rapporti pensiero, _________________, _______________ e ________________ nella città Le nuove ________________ richieste alla classe ____________________ (aristocrazia) L’uso ___________________________ del linguaggio 34 In relazione a questo bisogno comparve in Atene, a partire dalla metà del V secolo, un gruppo di intellettuali, di formazione filosofica molto diversa fra loro, che si dedicarono professionalmente alla preparazione del ceto dirigente, e in particolare all'insegnamento della retorica. Si tratta dei sofisti (cioè «sapientissimi»), tutti di origine straniera perché nessun cittadino ateniese di buona condizione sociale avrebbe consentito a prestare un servizio professionale a pagamento. Esclusi dall'attività politica per la loro condizione di stranieri, sostanzialmente considerati con un certo disprezzo (al pari cioè di attori o musicisti) dai loro nobili clienti perché vendevano un servizio in cambio di denaro, i sofisti esercitarono tuttavia un ruolo importante nell'Atene del V secolo, in rapporto all'educazione e all'elaborazione di un'ideologia della città. I più celebri fra essi furono Protagora, Gorgia, Prodico, Antifonte, Ippia 13. Nasce con loro una cultura diversa. Nasce, anzi, «la cultura», intesa come insieme di conoscenze e di capacità La polemica innescata dalla professionalizzazione della filosofia inaugurata dai distinte dalla sapienza del sacerdote, dalla Sofisti (che concedevano il proprio inseproduzione teorica dello scienziato, dalle gnamento solo a pagamento) è abilità del tecnico specialista; intesa, testimoniata dalle numerose dunque, come la formazione giuridica, caricature sui dipinti vascolari. I retorico-linguistica, storica dell'uomo “`sapientissimi” appaiono con il politico in quanto tale, dell'uomo che cranio rigonfio su ogni lato, quasi sul nella città è alternativamente soggetto e punto di scoppiare per i tanti e profondi oggetto di decisioni e pratiche politiche. pensieri che vi albergano. Tipico di questo atteggiamento è il nuovo mito del progresso, che il sofista Protagora14 contrapponeva a quelli, di natura tecnico-scientifica, elaborati dai primi pensatori ionici . Secondo Protagora, l'uomo si differenzia dagli animali e supera le sue naturali debolezze grazie alle tecniche, proprio come avevano detto i naturalisti ionici. Ma le tecniche da sole non bastano a garantire le costituzione della città, delle società politiche in cui l'uomo si realizza propriamente come tale. Occorre la virtù politica, di cui Zeus fa dono indistintamente a tutti gli uomini (a differenza delle tecniche che sono sempre specialistiche). Il mito di Protagora fa dunque delle tecniche politiche, in primo luogo la retorica, quelle che nella città regnano su tutte le altre; così viene anche sancita la supremazia dei politici e dei loro educatori-consiglieri, i Sofisti, su tutti coloro che detengono un sapere o una capacità professionale diversa. I ______________________ e l’insegnamento della _________________ a ________________________ I principali sofisti: ___________________ __________________________________ La formazione di un nuovo tipo di cultura: __________________________________ né ______________________________ nè ________________________________ ma _______________________________ ___________________________________ - Protagora: _______________________ __________________________________ uomo = ____________________ + _____________________ __________________ _______________ 13 Ippia nacque ad Elide e fu attivo come oratore e ambasciatore della sua città in molte città greche nella seconda metà del V secolo a. C. Scrisse numerosi discorsi e opere di carattere storico e antiquario, delle quali ci restano pochi e brevi frammenti. Affermò come ideale di vita l'autosufficienza individuale: si vantava di saper praticare tutte le tecniche utili al soddisfacimento dei bisogni dell'uomo. Vantava anche un sapere enciclopedico: sappiamo che trattò questioni di geometria, astronomia, musica, pittura e scultura. 14 Protagora di Abdera nacque verso il 485 a.C. e visse circa 70 anni. Svolse attività di oratore e maestro di retorica in molte città greche, ma soprattutto ad Atene, dove fece parte della cerchia di Pericle. Nel 444 redasse la costituzione di Turii. Scrisse due opere in prosa, delle quali ci restano pochi brevi frammenti: la Verità, o Discorsi demolitori, e le Antilogie. Sostenne, tra il resto, che gli uomini non sono in grado di decidere se gli dèi esistono; per questa sua tesi fu forse accusato di ateismo e abbandonò Atene. 35 Nello stesso senso si muove Gorgia15. Gli scienziati e gli specialisti, egli dice, o falliscono nel tentativo di far prevalere le proprie posizioni, o, se vi riescono, è perché in realtà fanno uso del discorso persuasivo, cioè del discorso retorico. La capacità di persuadere è perciò decisiva ad ogni livello della vita della città. La retorica, dunque, è la forma di sapere più indispensabile a chiunque voglia vivere ed agire nel suo contesto; il retore e il politico, non lo scienziato ed il tecnico, sono in possesso delle chiavi che aprono tutte le porte nella città. Questo tema è ancora ripreso, nel IV secolo, da Isocrate16. Secondo questo grande maestro di oratoria, un'educazione scientifica è utile, in giovane età, ai fini di una sorta di ginnastica mentale; ma le nozioni veramente utili all'uomo, cioè al cittadino nella pienezza delle sue funzioni, sono quelle linguistiche, retoriche e giuridiche, sono quella preparazione alla politica che è costituita dalla storiografia (nel senso appunto in cui la intendevano Tucidide e Senofonte17). È facile vedere come si sviluppi, ad opera di questi autori, un'idea della cultura destinata a una lunga fortuna: di una cultura «umanistica», cioè, contrapposta a quella scientifica e destinata a formare l’ideologia, le capacità, la generica informazione necessaria alle attività tipiche della città, quelle politiche e giuridiche. Anche quando queste ultime saranno passate in mano di esperti professionisti, si continuerà a pensare che questo sia l'unico tipo di formazione del cittadino libero e di buona estrazione sociale, cioè dell'uomo nel pieno senso della parola. Abbiamo già visto come l'attenzione dei Sofisti si concentrasse sul linguaggio, concepito come strumento essenziale della comunicazione politica, soprattutto nel suo aspetto persuasivo, retorico. Questo atteggiamento implica però due tesi di ordine più direttamente filosofico, che qui è necessario considerare. La prima di queste tesi afferma la neutralità del linguaggio rispetto ai fini e ai valori; la seconda comporta uno sganciamento del linguaggio stesso dalla questione della verità e della conoscenza e una relativizzazione del valore del sapere. Entrambe le tesi sono opera soprattutto di Protagora e Gorgia. Quanto alla prima, Gorgia insiste sulla potenza del linguaggio come strumento di persuasione, capace di indurre un individuo o una folla ai comportamenti voluti dall'oratore, di sostenere o di confutare qualsiasi tesi, e così via. Ma, al pari di ogni strumento, il linguaggio può essere usato per fini buoni o cattivi; essi dipendono dall'utente (il politico, l'avvocato), non dallo strumento in sé, che resta indifferente e neutrale rispetto alle questioni morali. In questo quadro va interpretata anche la posizione di Protagora, che si diceva capace (come del resto tutti i Sofisti) di «rendere forte il discorso debole». Questa affermazione fu interpretata, dagli uomini legati alla morale tradizionale, nel senso di «far prevalere la tesi cattiva». Essa significa invece la capacità del sofista — tecnico degli strumenti di comunicazione politica — di rendere efficienti questi strumenti, lasciando a chi se ne serve la decisione sulla loro destinazione - __________________: l’importanza _______________________ - ___________________________: _________________ ______ ___________ __________ __________________ ___________ cultura __________________________ vs ___________________________________ LINGUAGGIO, PENSIERO E REALTÀ Le tesi dei __________________: 1 - ________________________________ ________________________________ - Gorgia: linguaggio = _________________ di persuasione _________________________________ - ______________________: rendere forte ________________________ _________________________________ 15 Gorgia nacque a Leontini, in Sicilia, circa il 485 a.C. Fu discepolo di Empedocle. Fu famosissimo come oratore in tutta la Grecia, specie ad Atene. Morì in Tessaglia, pare all'età di 109 anni. Scrisse numerosi discorsi, due dei quali (l'Encomio di Elena e l'Apologia di Palamede) si sono, conservati per intero. Compose uno scritto di argomento filosofico che si intitolava La natura, o del non-essere. 16 Isocrate nacque ad Atene nel 436 a.C. da Teodoro, mercante di flauti. Frequentò in gioventù le lezioni di Prodico e Gorgia. Visse quasi sempre ad Arene, dove morì nel 338, a 98 anni. Attorno al 390 fondò una scuola di che ebbe un grande successo. 17 Tucidide (460 - circa 390) e Senofonte (430 –355) concepirono e scrissero nella città e per la città (entrambi gli storici ebbero un importante ruolo politico-militare nelle vicende di Atene) le loro opere storiche. Le storie di Tucidide e di Senofonte operano una rigorosa selezione ed organizzazione del materiale utilizzato. Viene escluso ogni riferimento ai costumi civili e religiosi dei popoli, agli aspetti tecnico-economici della storia, ai problemi geografici e scientifici. Il punto di vista centrale, attorno a cui tutto il racconto si organizza, è costituito dai problemi politici della città di Atene; i protagonisti della storia sono i suoi capi politici e militari, e i loro avversari. Questo tipo di storiografia, che d'allora in poi sarebbe stato considerato «classico», poteva in realtà essere concepito soltanto in un ambiente in cui il momento politico prevaleva di gran lunga sugli altri aspetti della vita sociale, e tendeva a riassorbirli al proprio interno. 36 morale. Ancora più importante è la tesi sulla neutralità del linguaggio rispetto alla verità e della relativizzazione di quest’ultima. Come è noto, il linguaggio possedeva, per pensatori come Parmenide ed Eraclito, una sua diretta capacità di rivelazione della verità; questa investitura del linguaggio in termini di verità derivava dal richiamo al suo uso profetico ed oracolare, all'uso cioè proprio del sacerdote nel tempio. Dislocato nello spazio politico della città, il linguaggio appare invece ai Sofisti del tutto neutro in termini di vero e falso, come lo era in termini di bene e di male. La tesi viene motivata in forme diverse da Gorgia e Protagora. Quanto a Protagora, egli poneva in dubbio la possibilità di una conoscenza assoluta e oggettiva della realtà. «L'uomo», egli diceva, «è la misura di tutte le cose, di quelle che sono in quanto sono, di quelle che non sono in quanto non sono». La tesi fondamentale di Protagora è dunque che la nostra conoscenza è relativa alla realtà così come essa ci appare e non come essa è veramente. Infatti, se intendiamo per uomo l’individuo singolo e per cose gli oggetti percepiti con i sensi, la tesi di Protagora sosterebbe che le cose appaiono diversamente a seconda degli individui e dei loro diversi stati fisici o psichici (ad esempio, una certa cosa può piacere o non piacere a seconda delle persone e delle circostanze in cui si trovano). Se, invece, intendiamo con uomo l’umanità o la natura dell’uomo e con cose la realtà in generale, allora la tesi di Protagora afferma che gli individui giudicano la realtà tramite i parametri tipici della loro specie, cioè dell’uomo (ad esempio la visione binoculare impone una certa strutturazione dello spazio, o gli ultrasuoni non possono essere percepiti, e quindi esistere per l’uomo, senza l’utilizzo di particolari apparecchiature). Infine, se per uomo intendiamo la civiltà, la cultura a cui appartiene l’individuo e per cose i valori, i modelli che essa propone, allora l’affermazione di Protagora indica che ognuno valuta le cose 2 - _______________________________ __________________________________ Parmenide, ___________________: linguaggio =_____________________ __________________________________ Sofisti: ________________________ = ________________________________ PROTAGORA PROTAGORA la nostra conoscenza è ______________________________________________________: "L'uomo misura di tutte le cose" La nosta conoscenza è condizionata da: uomo = ____________________ _____________ _____________________________________________________________ - Se cose = _____________________ uomo = ____________________ _____________ _____________________________________________________________ - Se cose = _____________________ uomo = ____________________ _____________ _____________________________________________________________ - Se cose = _____________________ L’uomo conosce non _______________________________ ma ___________________________________________ Verità ___________________: la verità non è _____________ ma il frutto di _____________________________________ Valore _______________________ delle nostre conoscenze (es. origine _________________ della religione per ________) Metodo _______________: _________________________________________________ non esiste _______________ ________________________ secondo la mentalità del gruppo sociale a cui appartiene. Poiché, dunque, l’uomo giudica delle cose a seconda della specie a cui appartiene, 37 della società in cui vive e della particolare situazione in cui si trova, allora ciò che egli giudica non è la realtà in se stessa, oggettivamente data quanto invece la realtà come essa gli appare. In questo modo veniva rifiutata l’idea che esistesse una verità assoluta, unica o un sistema di valori valido per tutti, come voleva la tradizione aristocraticosacerdotale, diventando la verità e i valori il frutto di una scelta tra punti di vista relativi. In quest’ottica per molti versi modernissime, dal momento che è stata ripresa da molti pensatori dell’Ottocento e del Novecento, i sofisti hanno sottolineato il valore convenzionale delle nostre conoscenze. Così, ad esempio, in Crizia18 ritroviamo la tesi per cui gli dei sono un’invenzione dei governanti che, non potendo controllare direttamente i governati, li hanno indotti a credere nell’esistenza di una divinità invisibile che conosce e punisce i comportamenti proibiti dalle leggi imposte da chi governa. Prodico19 sosteneva, invece, che l'origine della religione era dovuta al fatto che gli antichi avevano posto come dei le cose che giovavano loro (p.es. il pane, l'acqua, ecc.) e quegli uomini che avevano fatto scoperte utili. Allo stesso modo i sofisti misero in luce la natura convenzionale delle leggi sostenendo, ad esempio, con Antifonte20 che le leggi positive e le convenzioni sociali dei diversi popoli sono in genere distorsioni dell'ordinamento della natura, nel quale gli uomini sono legati dalla reciproca uguaglianza e da una spontanea solidarietà, oppure con Trasimaco21 che riteneva che per natura ciascuno mira a sopraffare gli altri, e che le leggi e l'apparato giudiziario non sono altro che la mascheratura di sopraffazioni avvenute. A questa concezione relativista va riportato anche il metodo dell’antilogia o del discorso doppio, cioè la tecnica di costruire su ogni questione due discorsi contrastanti. Anticamente si pensava che per ogni discorso esistesse un unico punto di vista vero ed un unico discorso capace di esprimerlo. Protagora ritiene, invece, che non esista una situazione che non possa esere considerata anche da un’altra ottica e quindi dia origine a un discorso diverso. Il metodo antilogico dimostra che non esiste un’unica interpretazione della realtà, bensì una complessità di angoli prospettici. La posizione di Gorgia è ancora più radicale e le sue tesi possono essere considerate come la prima formulazione dello scetticismo (atteggiamento di che nega ogni possibilità di conoscere il vero). Le tesi enunciate da Gorgia sono le seguenti: 1- Nulla c’è. 2- Se anche qualcosa c’è, non è conoscibile dall’uomo. 3- Se anche è conoscibile, è incomunicabile agli altri. Origine _____________________ Crizia: __________________________ ______________: dei = _____________________________ __________________________________ Origini __________________________ ____________________: distorsioni ________________________ _______________________: __________________________________ Protagora: il metodo __________________ GORGIA + radicale: ________________________ Tesi: 1 - __________________________ = non ______________________________ __________________________________ 18 Crizia, cugino primo della madre di Platone, nacque ad Atene attorno al 460 a.C. e fu il principale esponente dell'ala estremista del partito aristocratico. Dopo la sconfitta di Atene nella guerra del Peloponneso (404) fu a capo dei governo, appoggiato da Sparta, detto dei Trenta Tiranni, e tentò di ripristinare le antiche strutture della polis aristocratica, servendosi di metodi molto violenti: durante il suo breve governo furono uccisi non meno di millecinquecento suoi avversari politici. Fu ucciso in uno scontro armato contro i democratici nel 403. Scrisse composizioni poetiche, opere drammatiche e opere in prosa, tra cui le Costituzioni, gli Aforismi e le Conversazioni. 19 Prodico nacque a Ceo attorno al 465 a. C. Fu più volte ambasciatore ad Atene, dove tenne ripetutamente lezioni. Scrisse un'opera, intitolata Le ore, della quale ci sono rimasti pochi e brevi frammenti. Attribuiva grande importanza alla delimitazione dei significati delle parole affini, allo scopo di rafforzare l'efficacia della tecnica retorica. 20 Antifonte nacque ad Atene, dove fu attivo nella seconda metà del V secolo a.C. Scrisse quattro opere: la Verità, Della concordia, il Politico e Dell'interpretazione dei sogni, delle quali ci restano numerosi frammenti, alcuni abbastanza estesi. Si occupò di astronomia, meteorologia e geometria. 21 Trasimaco nacque a Calcedone attorno al 460 a.C. e fu attivo ad Atene negli ultimi decenni del V secolo. Fu noto soprattutto come oratore; scrisse un Trattato oratorio e numerosi discorsi, dei quali ci restano pochi frammenti, tutti brevi tranne uno, dal discorso Sulla costituzione, nel quale propugnava il ripristino della «costituzione dei padri». 38 Con la sua prima tesi, «nulla c’è», Gorgia non intende negare la realtà testimoniata dai nostri sensi, ma la possibilità di individuare una qualsiasi struttura razionale, arché, numeri, essere, che possa essere utilizzata per spiegare la realtà. In particolare, contro la tesi di Parmenide per cui solo l’essere esiste Gorgia argomenta che per negare l’esistenza del non essere occorre comunque pensarlo e dirlo sia pure per escluderlo. La seconda tesi afferma che “se anche esistesse, noi non la potremmo conoscere”, in quanto, per conoscerla, dovremmo presupporre che la nostra mente sia una fotografia esatta della realtà. Ma ciò non accade. Infatti, se pensiamo spesso l'inesistente, vuol dire che il pensiero non rispecchia necessariamente la realtà o che la realtà non si rispecchia necessariamente nel pensiero. In tal modo, Gorgia colpisce al cuore l'equazione eleatica pensiero-essere, introducendo un divorzio o una frattura radicale fra la mente e le cose. Inoltre, argomenta Gorgia, se ha ragione Parmenide quando dice che è impossibile pensare ciò che non è, allora tutte le rappresentazioni mentali possiedono ugual valore poiché non è più possibile distinguere il vero dal falso , infatti per fare ciò occorre poter pensare il falso, ovvero ciò che non è. La terza tesi , infine, sostiene che se anche la realtà fosse conoscibile non sarebbe spiegabile con parole, poiché il linguaggio è altra cosa dalla realtà e non possiede un'adeguata capacità rivelativa nei suoi confronti. Infatti, secondo Gorgia, linguaggio e realtà non coincidono appartenendo a due livelli eterogenei. In questo modo Gorgia riconosce il rapporto convenzionale, e quindi dovuto a un accordo tra gli uomini, tra parola e realtà esterna superando la convinzione ingenua che tra parola e realtà vi sia un rapporto naturale, cioè indipendente dalla volontà umana. Sulla base della natura convenzionale del linguaggio Gorgia conclude che il linguaggio è un semplice strumento adatto alla comunicazione tra gli uomini, ma non esprime l’essenza, la struttura della realtà che, poiché non è fatta di parole, non sarà mai riconducibile a esse. Gorgia con le sue tesi supera la presunta identità fra realtà, linguaggio e verità che costituiva il motivo centrale del pensiero di Parmenide e, in particolare, demolisce la concezione realistica del linguaggio, presente in Parmenide, per cui parole e cose si identificano a tal punto che nominare una cosa significa affermarne immediatamente l’esistenza (“non si può dire né pensare ciò che non è”). Allo stesso tempo per Gorgia la parola non serve neppure a identificare la cosa, ossia a descriverla per ciò che essa è veramente. Il linguaggio vive in una dimensione autonoma e svincolata dalle cose, in quanto non è legato ad esse da alcun sistema stabile di riferimento. Oggetto della riflessione dei sofisti non è dunque l’individuazione di ciò che è essenziale per concettualizzare, pensare la realtà, quanto invece l’analisi critica del processo conoscitivo umano che porta all’individuazione dei suoi limiti. Tali limiti sono, per Protagora, costituiti dai condizionamenti soggettivi, sociali e biologici e , per Gorgia, dai limiti degli strumenti, pensiero e linguaggio, a nostra disposizione per conoscere la realtà. Dall’esistenza di questi limiti traggono due conclusioni alquanto diverse, infatti per Protagora “non è possibile dire il falso”, mentre per Gorgia “tutto è falso”. Per Protagora non è possibile dire il falso nel senso che ciascuna opinione esprime un punto di vista che può essere riportato alle condizioni soggettive o sociali che l’hanno prodotta. Esiste comunque, secondo Protagora, un criterio, l’utilità, che ci consente, non di determinare il valore assoluto delle nostre conoscenze, ma di scegliere tra le diverse opinioni. Per Gorgia, invece, tutto è falso nel senso che i discorsi dello scienziato/naturalista e del sapiente/sacerdote, che pretendono di rivelare una verità assoluta, non sono altro che espressioni linguistiche più o meno convincenti Contro Parmenide: per negare l’esistenza __________________________________ 2 - ________________________________ ___________________________________ Pensiero = _________________ NO perché _________________________ __________________________________ Contro Parmenide: ___________________ __________________________________ __________________________________ 3 - ________________________________ ___________________________________ No linguaggio = __________________ perché legame _____________________ _______________ e ________________ eterogenei (la realtà non è fatta __________________) superamento concezione _____________ del linguaggio _____________________ Dalla ricerca dei __________________ all’individuazione ________________ ____________________________ 39 ma sempre diverse e irriducibili alla realtà. CONSEGUENZE ______________CONOSCENZA UMANA - Protagora: __________________________________ perché ________________________________________________ ______________________________________________________ Criterio di ________________ = _____________________ - ____________________: tutto è falso perché _____________________________________________________________ Criterio di ________________ = _____________________ - ____________________________: Le concezioni di Protagora e di Gorgia ponevano le basi per una prima ricerca sistematica sulla lingua, per il primo, e per l’identificazione tra retorica e __________________________________ persuasione in Gorgia. Protagora, infatti, intendendo la lingua come un sistema autonomo, dotato di regole sue proprie del tutto indipendenti dagli usi che se ne fanno e dalle cose che si vogliono significare, elabora una embrionale grammatica studiando generi, concordanze, tempi verbali, ecc … , per mettere ordine nelle forme del linguaggio. Necessità questa sollevata anche dal passaggio da un uso esclusivamente orale del linguaggio ad una fase caratterizzata dall’uso scritto. Gorgia, invece, finisce per teorizzare un uso spregiudicato della retorica intesa Il desiderio di stupire l'uditorio con tesi eccentriche, tipico dei Sofisti, spinse Gorgia a scrivere l'Encomio di Elena, un breve saggio in cui sosteneva la non colpevolezza della donna che con il suo adulterio aveva provocato la guerra di Troia (il disegno riprende da una ceramica la scena in cui Paride, il giovane principe spartano, conduce con sé la donna). L'Elogio di Elena comincia così: se tutto deriva dagli dei, Elena poveretta che colpa ne ha? Cioè gli dei hanno detto loro quello che vogliono, gli dei hanno in mano il tutto e quindi tutto è dovuto agli dei. Ammettiamo che invece degli dei ci sia la necessità, la ragion d'essere del tutto, un ordine dove tutto è scandito necessariamente. Se fosse vero che tutta la struttura della realtà è impacchettata in modo che ogni momento sia in risposta all'altro, necessariamente come in un grande teorema di matematica, in un tutt'uno ordinato allora dovremmo dire: "Povera Elena è nata in quel punto lì, nell'ordine del tutto, e rispecchia la necessità del tutto". Quindi Elena, anche in questo caso non avrebbe nessuna colpa. Terzo punto: ammettiamo –dice Gorgia - che invece Elena sia stata sedotta da Paride. Mediante che cosa? Mediante la parola. Allora neanche in questo caso Elena può essere considerata colpevole perché le parole hanno il potere di trascinare chi le ascolta, affascinandolo sino a fargli perdere il controllo di se stesso. L'arte della parola condivide con la magia la capacità di sedurre e manipolare le menti, privandole della volontà. Scrive Giorgia:"Se invece fu la parola a persuadere e ingannare la mente, neppure sotto questo rispetto è difficile scusarla e scioglierla dall'accusa. Nel modo seguente: la parola è un potente signore che, pur dotato di corpo piccolissimo e invisibile, compie le opere più divine . Essa può far cessare il timore, togliere il dolore, dare una gioia, accrescere la compassione." come arte della persuasione, della suggestione. La persuasione di cui parla non è il frutto di una mediazione razionale, come poteva essere l’accordo sull’utile di Protagora, bensì l’occasionale prevalere di un punto di vista che riesce a imporsi sugli altri e risulta vincente solo grazie alla potenza del discorso che lo sostiene. Accanto a questo uso a fini persuasivi Gorgia ne ammette un altro più significativo ed è quello di tipo critico dialettico. Egli come gli altri sofisti intende la dialettica come la tecnica della discussione di qualsiasi tesi. Gorgia trasforma - ________________________: a –l’esaltazione ___________________ __________________________________ b –dialettica come __________________ ________________________________ 40 così il metodo della dimostrazione indiretta, che fa apparire la verità di una tesi mediante la confutazione della tesi opposta, impiegata da Zenone in una tecnica per demolire le pretese di verità di qualsiasi tesi. Le riflessioni di Protagora e Gorgia sui rapporti tra linguaggio e realtà, linguaggio e verità seguono la transizione da una fase acritica della problematica filosofica, fondata sul postulato dell’identità tra i due termini, ad una fase critica in cui prevale la consapevolezza della problematicità del loro rapporto. Nell’antichità il problema di ristabilire un legame tra linguaggio, pensiero e realtà e cioè tra parole, significati prodotti dal pensiero e oggetti esterni sarà l’oggetto del dibattito successivo. Socrate, e soprattutto Platone, cercheranno di ripristinare questo legame per poter tornare a distinguere tra vero e falso e proporre la filosofia come ricerca della verità assoluta. Dall’atteggiamento ________________ all’atteggiamento ____________________ Socrate e ____________________: il ristabilimento _______________________ __________________________________ 41 4 - W. J. ONG22 - ORALITÀ E SCRITTURA 1 –La scoperta delle differenze tra cultura ______________ e cultura _________________ 2 –Dalla parola ____________ alla parola ______________ 3 –Le caratteristiche del pensiero in ____________________________ 4 –Retaggi della cultura orale 1 –La scoperta delle differenze tra cultura ______________ e cultura _________________ Differenze di fondo sono state scoperte in anni recenti tra i modi della conoscenza e dell'espressione verbale nelle culture ad oralità primaria - vale a dire culture senza la scrittura - e quelli delle culture profondamente influenzate dall'uso della stessa. Con sorprendenti implicazioni: molti dei tratti per noi noti del pensiero e dell'espressione letteraria, filosofica e scientifica, nonché della comunicazione orale tra alfabetizzati, non sono dell'uomo in quanto tale, ma derivano dalle risorse che la tecnologia della scrittura mette a disposizione della coscienza umana. Abbiamo, dunque, dovuto rivedere il nostro modo stesso di intendere l'identità umana. … È utile accostarsi all'oralità e alla scrittura in modo sincronico, mettendo a confronto le culture orali e quelle chirografiche (basate sulla scrittura) coesistenti in un certo periodo di tempo. Ma è ugualmente essenziale l'approccio diacronico o storico, vale a dire il confronto tra periodi successivi. La società umana si formò dapprima con l'aiuto del discorso orale, e conobbe la scrittura solo più tardi, e all'inizio, limitatamente a certi gruppi. L'homo sapiens esiste sulla terra da un numero di anni che va dai 30.000 ai 50.000, mentre il più antico sistema di scrittura risale solo a 6.000 anni fa. Uno studio diacronico dell'oralità, della scrittura e delle varie tappe nell’'evoluzione dall'una all'altra crea strumenti mediante i quali è possibile capire meglio non solo la cultura orale originaria e quella scritta successiva, ma anche la cultura della stampa, che sviluppa ulteriormente la scrittura, e quella elettronica, che si costruisce a partire dalla scrittura e dalla stampa. In questo quadro diacronico, il passato e il presente, Omero e la televisione, possono illuminarsi vicendevolmente. … L'interesse più vivo nei confronti della differenza tra strutture mentali ed espressione verbale dell'oralità e del la scrittura scaturì dal campo degli studi letterari, soprattutto dal lavoro di Milman Parry23 sui testi dell'Iliade e dell'Odissea, e ampliato successivamente da Eric A. Havelock24 e da altri. … Solo ora, nell'era elettronica, ci rendiamo conto delle differenze esistenti fra oralità e scrittura; sono state infatti le diversità fra i mezzi elettronici e la stampa che ci hanno reso consapevoli di quelle precedenti fra scrittura e comunicazione orale. 22 W. J. Ong (1912-2003), storico delle culture e delle religioni statunitense. In Oralità e scrittura, da cui è tratto il brano, Ong dimostra come l’introduzione di una nuova tecnologia (la scrittura) abbia profondamente mutato le capacità del pensiero. Ha compiuto studi significativi su alcuni gruppi etnici di scarsa alfabetizzazione , sulla funzione della retorica e analisi di carattere letterario su William Shakespeare, la Bibbia, la Riforma e Controriforma, e gli aspetti della cultura odierna di carattere popolare. 23 Milman Parry 23 (1902-35) rivoluzionò il panorama degli studi omerici, sostenendo che le strutture formulari dei poemi omerici fossero spiegabili ipotizzando una composizione puramente orale, recitativa. 24 Eric A. Havelock (1903-1988) ha approfondito gli studi di Parry sul passaggio tra la cultura orale e quella scritta nella Grecia antica, in particolare mostrando come gli inizi della filosofia greca siano legati alla ristrutturazione del pensiero operata dalla scrittura. 42 L'era elettronica è anche un'era di «oralità di ritorno», quella del telefono, della radio, della televisione, la cui esistenza dipende dalla scrittura e dalla stampa. Il passaggio dall'oralità alla scrittura e da questa all'elaborazione elettronica comporta un mutamento nelle strutture sociali, economiche, politiche, religiose, ecc., ma di questo ci occuperemo solo indirettamente, qui ci interessano piuttosto le differenze tra la «mentalità» delle culture orali e quella della cultura alfabetizzata. … 2 –Dalla parola ____________ alla parola ______________ .. è possibile azzardare qualche generalizzazione sulla psicodinamica delle culture orali primarie, vale a dire di quelle culture che non conoscono la scrittura. Per ragioni di brevità, quando il contesto non dà adito ad incertezze di significato, chiamerò le culture orali primarie semplicemente culture orali. Gli alfabetizzati riescono ad immaginare solo con grande sforzo come sia una cultura orale primaria, che non conosce affatto la scrittura, né la pensa possibile. Provate a immaginare una cultura in cui nessuno ha mai «cercato» una parola in un dizionario. In una cultura orale primaria, l'espressione «cercare una parola in un dizionario» è priva di senso. Senza la scrittura, le parole come tali non hanno una presenza visiva, anche quando gli oggetti che rappresentano sono visibili; esse sono soltanto suoni che si possono «richiamare», ricordare, ma non c'è luogo alcuno dove «cercarli». Non li si possono mettere a fuoco né rintracciare (metafore visive, che dimostrano la dipendenza dalla scrittura), e non hanno nemmeno una direzione. Sono suoni, occorrenze, eventi. Il fatto che i popoli a tradizione orale spesso - forse sempre - ritengano che le parole abbiano un potere magico è chiaramente collegato, almeno a livello inconscio, al loro senso della parola come necessariamente parlata, e dunque potente. Chi sia del tutto immerso nella mentalità tipografica non pensa alle parole come suono, cioè come eventi, e dunque come dotate di potere; per loro, le parole tendono piuttosto ad essere assimilate alle cose, che esistono «là fuori» su una superficie piatta. In secondo luogo, l'uomo chirografico e tipografico tende a pensare ai nomi come ad etichette mentalmente affisse all'oggetto denominato. I popoli di tradizione orale non hanno questo senso del nome come etichetta, poiché per loro il nome non è cosa che si possa vedere. Se la rappresentazione scritta o stampata delle parole può essere simile a un'etichetta, le parole vere, parlate, no. … In una cultura orale, la restrizione della parola a suono determina non solo la maniera di esprimersi, ma anche i processi intellettivi. Noi sappiamo ciò che ricordiamo. Quando affermiamo di conoscere la geometria euclidea, non intendiamo dire che in quel preciso momento ricordiamo tutti i suoi teoremi e le sue dimostrazioni, ma che siamo in grado di ricordarli prontamente. Il teorema «sappiamo ciò che ricordiamo» si applica anche a una cultura orale. Ma come fanno le persone a richiamare qualcosa alla mente in una cultura orale? La conoscenza organizzata, che oggi gli studiosi apprendono in modo da «saperla», cioè da potersela rammentare, è stata con pochissime eccezioni riunita e resa disponibile per iscritto. È il caso questo non solo della geometria euclidea, ma della storia della rivoluzione americana, del numero di goal nei campionati di calcio o delle norme stradali. Se una cultura orale non ha testi, come può raccogliere materiale e organizzarlo per poterlo ricordare? E come chiedersi che cosa sa o può sapere in modo organizzato. Supponiamo che un individuo appartenente a una cultura orale si metta a pensare ad un problema particolarmente complicato, e che riesca finalmente ad articolare una soluzione in sé relativamente complessa, consistente, diciamo, di qualche 43 centinaio di parole. Come può egli tenere a mente tutte quelle parole, in modo da essere poi in grado di ricordarle? Dove non esiste scrittura, non vi è nulla al di fuori del pensatore stesso, nessun testo che lo aiuti a riprodurre il medesimo sviluppo di pensiero, o anche a verificare se lo ha fatto. Gli aides-mémoire, ad esempio, i bastoncini intagliati, o gli oggetti ordinati in un certo modo, non bastano di per sé a richiamare alla mente una complicata sequenza di asserzioni. Innanzitutto, una soluzione lunga e analitica è difficile da strutturarsi, ci vuole un interlocutore: è difficile parlare a se stessi per ore di seguito. Un pensiero protratto in una cultura orale è legato alla comunicazione. … Le formule aiutano a dare ritmo al discorso e agiscono di per sé come aiuti mnemonici, frasi fatte in bocca a tutti. «Rosso di sera, bel tempo si spera». «Divide et impera». «Sbagliare è umano, perdonare è divino». «Vino generoso». «Forte come una quercia». «Il lupo perde il pelo ma non il vizio». Frasi fatte di questo o di altri tipi, spesso a equilibrio ritmico, si possono occasionalmente trovare stampate, le si può anche andare a cercare nei libri di proverbi, ma nelle culture orali esse non sono occasionali, formano la sostanza stessa del pensiero. Senza di loro è impossibile un pensiero che abbia una qualche durata, poiché esse lo costituiscono. Quanto più sofisticato è il pensiero che si organizza oralmente, tanto più aumentano le probabilità che esso sia caratterizzato dall'uso di frasi fatte. Questo vale per tutte le culture orali dalla Grecia omerica a oggi, e in tutto il mondo. … In una cultura orale, pensare in termini non formulaici, non mnemonici, se anche fosse possibile, sarebbe una perdita di tempo, poiché il pensiero, una volta formulato, non potrebbe più essere ricordato se non con l'aiuto della scrittura. Per quanto raffinata non sarebbe perciò conoscenza duratura, ma pensiero fuggevole. I modelli e le formule fisse nelle culture orali svolgono alcune delle funzioni della scrittura in quelle chirografiche, ma nel fare ciò determinano, naturalmente, il tipo di pensiero che può essere formulato, e il modo in cui l'esperienza viene intellettualmente organizzata. In una cultura orale, tale organizzazione è di tipo mnemonico. È questa una delle ragioni per cui, in S. Agostino (354-430 d.C.) e in altri sapienti che vivevano in una cultura che conosceva la scrittura ma manteneva anche forti residui di oralità, la memoria occupa un posto così importante tra i poteri della mente. … 3 –Le caratteristiche del pensiero in ____________________________ La consapevolezza dell'esistenza di una base mnemonica nel pensiero e nell'espressione delle culture a oralità primaria, permette di comprendere alcune altre loro caratteristiche, oltre allo stile formulaico. Le caratteristiche trattate qui di seguito sono fra quelle che differenziano il pensiero e l'espressione basati sull'oralità da quelli basati sulla scrittura e sulla stampa, sono cioè le caratteristiche che con maggiore probabilità sorprendono chi è cresciuto in culture permeate dalla scrittura e dalla stampa. Questo elenco non è esclusivo né definitivo; vuole solo fornire qualche suggerimento, poiché è necessario che si lavori e si rifletta ancora molto per approfondire la comprensione del pensiero orale (e di conseguenza giungere a una migliore comprensione di quello basato sulla scrittura, sulla stampa e sull'elettronica). Esamineremo, dunque, alcune di queste caratteristiche. Innanzitutto, il pensiero e l’espressione in una cultura orale tendono a essere aggregativi piuttosto che analitici. Questa caratteristica si connette strettamente con l'uso di formule come ausili mnemonici. Il pensiero e l'espressione a base orale tendono a comporsi non tanto di unità discrete, quanto di gruppi di elementi come gli epiteti, i termini paralleli od opposti e le frasi parallele od opposte. Chi è immerso in una cultura orale 44 preferisce, specialmente in un discorso non quotidiano, sentir parlare non del soldato, ma del soldato coraggioso; non della principessa, ma della bella principessa; non della quercia, ma della quercia forte. In questo modo, l'espressione orale porta con sé un bagaglio di epiteti e di altri elementi formulaici che l'alfabetizzazione avanzata invece rigetta come pesi morti dalla ridondanza fastidiosa. I cliché usati per le denunce politiche in molte culture in via di sviluppo e a basso livello tecnologico: «nemico del popolo», «guerrafondaio capitalista», che sembrano stupide ad una mentalità altamente alfabetizzata, sono residuati formulari essenziali al pensiero orale. Uno dei molti indizi della presenza di un alto residuo di oralità, anche se una oralità in diminuzione, è, nella cultura dell’'Unione Sovietica (o almeno lo era alcuni anni fa, quando ho potuto riscontrare il fatto), l'insistenza a parlare sempre della «Gloriosa Rivoluzione del 26 Ottobre». Qui la formula con epiteto è un fattore stabilizzante obbligatorio, come lo erano in Omero «il saggio Nestore» o «l'astuto Ulisse», o come «il glorioso 4 luglio» negli Stati Uniti ancora all'inizio del XX secolo. … Le espressioni tradizionali nelle culture orali non possono essere disgregate: è costata fatica per metterle insieme nel corso di generazioni e non vi sono altri luoghi per immagazzinarle se non la mente. Così i soldati saranno sempre coraggiosi, le principesse belle e le querce forti. Questo non significa che non vi possano essere altri aggettivi per i soldati, per le principesse e le querce, anzi, vi sono anche quelli opposti, ma anch'essi sono standard: il soldato spaccone, la principessa infelice, possono far parte anch'essi del formulario. Ciò che vale per gli epiteti, vale anche per le altre formule. Una volta che un'espressione formulaica si è cristallizzata, è bene mantenerla intatta. Senza un sistema di scrittura, la scomposizione del pensiero, cioè l'analisi, è un procedimento molto rischioso. Il pensiero richiede una certa continuità. La scrittura stabilisce nel testo una linea di continuità al di fuori della mente; se mi distraggo, o dimentico il contesto da cui emerge il materiale che sto ora leggendo, esso può essere recuperato tornando indietro nel testo. Questa operazione è del tutto occasionale, puramente ad hoc: la mente concentra le proprie energie nell'andare avanti, poiché ciò cui si riaggancia sta inerte fuori di sé, sempre disponibile sulla pagina scritta. Nel discorso orale la situazione è diversa: non c'è niente cui riagganciarsi al di fuori della mente, poiché l'espressione orale svanisce appena pronunciata. Di conseguenza il pensiero deve procedere più lentamente, mantenendo al centro dell'attenzione gran parte dei contenuti già trattati; di qui un’altra caratteristica del pensiero orale: la sua ridondanza, la ripetizione del già detto, mezzi per mantenere saldamente sul tracciato sia l'oratore, sia l'ascoltatore. Dal momento che la ridondanza caratterizza il pensiero e il discorso orali, essa è, in senso profondo, più naturale al pensiero e al linguaggio di quanto non lo sia la linearità. Un pensiero e un discorso lineari e non ripetitivi, o analitici sono creazioni artificiali, strutturate dalla tecnologia della scrittura. Eliminare in maniera rilevante la ridondanza richiede una tecnologia che superi il problema del tempo, e questa è la scrittura, che richiede alla psiche uno sforzo per impedire all'espressione di ricadere nei moduli ad essa più naturali. La psiche può affrontare questo sforzo anche grazie al fatto che la scrittura manuale è un processo fisicamente molto lento, in genere circa un decimo della velocità del discorso orale. Con la scrittura, la mente viene frenata e le è così permesso di interrompere e riorganizzare il suo procedere più naturale e ridondante. … Poiché in una cultura ad oralità primaria una conoscenza concettualizzata che non venga ripetuta ad alta voce svanisce presto, le società che su di essa si basano devono investire molta energia nel ripetere più volte ciò che è stato faticosamente imparato nel corso dei secoli. Questa esigenza crea una mentalità altamente tradizionalista e conservatrice che, a ragion veduta, inibisce la sperimentazione intellettuale. La conoscenza è preziosa ed è arduo raggiungerla, per cui la società 45 tiene in gran considerazione i vecchi saggi che si specializzano nel conservarla, che conoscono e possono raccontare le storie dei giorni che furono. La scrittura, e ancor più la stampa, immagazzinando la conoscenza al di fuori della mente, degradano invece l'immagine dei vecchi saggi, semplici ripetitori del passato, in favore di più giovani scopritori di cose nuove. … Tutto il pensiero concettuale è, fino a un certo punto, astratto. Un termine «concreto» come «albero» non si riferisce semplicemente a un singolo albero «concreto», ma è un'astrazione del tutto slegata dalla realtà sensibile: si riferisce a un concetto che non è né quest'albero né quello, ma che si può applicare a ogni albero. Ogni singolo oggetto che noi definiamo albero è «concreto» e niente affatto «astratto», è solo se stesso, ma il termine che noi gli applichiamo è di per sé un'astrazione. Ciononostante, se tutto il pensiero concettuale è in qualche misura astratto, alcune utilizzazioni di un concetto sono più astratte di altre. Le culture orali tendono ad usare i concetti in ambiti di riferimento situazionali e operativi. Su questo fenomeno è stato scritto. Havelock ha mostrato che il concetto greco pre-socratico di giustizia ha carattere operativo piuttosto che formalmente concettualizzato, e giunse alla stessa conclusione per quanto riguarda l'epiteto amymón applicato da Omero ad Egisto: esso non significa «irreprensibile», una linda astrazione con la quale i letterati hanno solitamente tradotto il termine, ma «bello come lo è un guerriero pronto alla battaglia». Nulla di più esauriente è stato scritto sul pensiero operativo del libro di A.R. Lurija “Storia sociale dei processi cognitivi". Dietro suggerimento del famoso psicologo russo Lev Vygotsky25, Lurija eseguì un'ampia ricerca su illetterati e su persone a bassa alfabetizzazione nelle aree più remote dell'Uzbekistan e della Kirghizia in Unione Sovietica negli anni 1931 e 1932. Il suo libro fu pubblicato nell'edizione russa originale soltanto nel 1974, quarantadue anni dopo la conclusione delle sue ricerche, ed apparve in traduzione inglese due anni dopo. … Egli identifica le persone che interroga in base ad una gamma che va dall'analfabetismo totale a livelli diversi di alfabetizzazione, e i suoi dati chiaramente rientrano nella classificazione basata sulla differenza tra i processi cognitivi dell'oralità e quelli della scrittura. L'evidenziazione di tali differenze mostra che una moderata conoscenza della scrittura è sufficiente a creare grandissime differenze nei processi mentali. I dati furono raccolti da Lurija e dai suoi colleghi nel corso di lunghe conversazioni nell'atmosfera tranquilla di una casa da tè, dove le domande relative alla loro ricerca erano formulate in modo informale, quasi come gli indovinelli con cui i soggetti avevano familiarità. Veniva insomma fatto ogni sforzo per adattare le domande ai soggetti nel loro proprio ambiente. Questi non avevano ruoli di rilievo nella società, ma vi sono buone ragioni per credere che possedessero un'intelligenza normale, e fossero quindi rappresentativi della loro cultura. Fra le scoperte di Lurija, ne segnaliamo alcune che rivestono particolare interesse nell'ambito del nostro discorso. Gli illetterati (orali) identificavano le figure geometriche dando loro nomi di oggetti e non di entità astratte come cerchi, quadrati, ecc. Un cerchio veniva chiamato piatto, setaccio, secchio, orologio, luna; un quadrato era uno specchio, una porta, una casa, un asse per far seccare le albicocche. I soggetti presi in esame da Lurija identificavano i disegni come rappresentazioni delle cose reali che essi conoscevano; non ritenevano di avere a che fare con cerchi o quadrati astratti, ma con oggetti concreti. Gli studenti invece, anche quelli ad un livello moderato di alfabetizzazione, davano alle figure geometriche nomi di categorie appunto geometriche: cerchi, quadrati, triangoli, e così via, davano cioè risposte insegnate loro a scuola e non legate all'esperienza concreta. 25 Lev Vygotsky (1896-1934), le sue ricerche sui processi cognitivi, condannata durante lo stalinismo, sono state importanti poiché hanno messo l’attenzione sui rapporti tra linguaggio e pensiero. 46 In un’altra situazione ai soggetti interrogati venivano mostrati i disegni di quattro oggetti, tre dei quali appartenenti a una categoria, e il quarto ad un'altra, e veniva loro chiesto di raggruppare quelli che erano simili fra loro, o che potevano essere riuniti assieme, o definiti con una stessa parola. Una serie consisteva di disegni raffiguranti gli oggetti martello, sega, ceppo, accetta. I soggetti illetterati pensavano a raggrupparli non in termini di categorie (tre strumenti e il ceppo che non è uno strumento) ma di situazioni pratiche - «pensiero situazionale» -, senza utilizzare per la classificazione il concetto di «strumento» che si poteva riferire a tutti gli oggetti tranne che al ceppo. Nell'ottica di un lavoratore, il ceppo può essere agevolmente accomunato agli attrezzi, poiché tali attrezzi sono stati fatti apposta per lavorare con esso, non per esserne tenuti lontani in un misterioso gioco intellettuale. La risposta di un contadino illetterato di 25 anni fu: «sono tutti simili, la sega segherà il ceppo, e l'accetta lo romperà in piccole parti. Se bisogna buttar via qualcosa, butto l'accetta che serve meno della sega». Dettogli che martello, sega e accetta sono tutti attrezzi, egli respinse la classificazione categoriale persistendo nel pensiero situazionale: «si, ma anche se abbiamo gli strumenti ci vuole il legno, senza di esso non si costruisce niente». D'altro canto, un giovane di diciotto anni, che per due soli anni aveva studiato presso la scuola del villaggio, non solo classificò una serie simile in termini di categorie, ma insistette sulla correttezza della propria classificazione . Un lavoratore di 56 anni a bassa alfabetizzazione mescolò i due criteri di classificazione, benché prevalente fosse quello categoriale. Presentatagli la serie ascia, accetta e falce, che doveva completare con un oggetto preso dalla serie sega, spiga, ceppo, egli completò la prima serie con sega, dicendo: «Sono tutti utensili agricoli»; ma poi ci ripensò e aggiunse: «ma il grano si può mietere con la falce». Evidentemente, una classificazione astratta non lo convinceva del tutto. … Sappiamo che la logica formale è un'invenzione della cultura greca successiva all'interiorizzazione della tecnologia della scrittura alfabetica, per cui essa possiede fra le sue risorse conoscitive permanenti quel tipo di pensiero che la scrittura alfabetica ha reso possibile. Alla luce di questa conoscenza, gli esperimenti di Lurija sulle reazioni degli illetterati nei confronti di un ragionamento formalmente sillogistico e deduttivo sono particolarmente illuminanti. In breve, i soggetti sembravano non operare affatto mediante processi formali di deduzione; il che non significa che non fossero in grado di pensare, o che il loro pensiero non fosse retto dalla logica, ma soltanto che essi non lo adattavano a schemi puramente logici, i quali sembravano loro privi di interesse. Perché privi di interesse? Perché i sillogismi hanno a che vedere con il pensiero, ma nella pratica nessuno opera mediante tali schemi formali. … «All'estremo nord, dove c'è la neve, tutti gli orsi sono bianchi. La Terranova sta all'estremo nord e li c'è sempre la neve. Di che colore sono gli orsi?». Una risposta tipica è la seguente: «Non so, io ho visto un orso nero, altri non ne ho visti... ogni località ha i suoi animali». Si può sapere di che colore sono gli orsi solo osservandoli. Chi ha mai pensato di discutere nella vita pratica sul colore degli orsi polari? Inoltre, come si fa a essere sicuri che in un paese nevoso tutti gli orsi siano bianchi? Sottopostogli questo sillogismo una seconda volta, il direttore di una cooperativa agricola, quarantacinquenne e appena alfabetizzato, rispose: «Stando alle vostre parole, tutti gli orsi debbono essere bianchi». «Stando alle vostre parole» sembra indicare una certa conoscenza delle strutture intellettive formali. Un livello minimo di alfabetizzazione comporta già una notevole differenza ma, d'altra parte, la bassa alfabetizzazione fa sì che l'individuo si senta più a suo agio nei rapporti interpersonali quotidiani che non in un mondo di pure astrazioni. «Stando alle vostre parole» è come dire: è vostra responsabilità, non mia, se la risposta viene fuori così. .. il sillogismo è autoconsistente: le sue conclusioni derivano soltanto dalle premesse. Coloro che non hanno ricevuto un'educazione accademica non 47 conoscono bene questa pratica, ma tendono piuttosto, nell'interpretazione degli assunti, sillogismi o meno, ad andare al di là delle frasi stesse, come si fa generalmente nelle situazioni reali della vita o negli indovinelli (comuni a tutte le culture orali). Direi anche che il sillogismo assomiglia così a un testo, fisso e isolato. Questo fatto mette in risalto la base chirografica della logica, mentre l'indovinello appartiene al mondo orale. Occorre essere astuti per risolvere un indovinello; si attinge ad una conoscenza spesso inconscia che va al di là dell'esplicito. Nella ricerca condotta da Lurija, anche le richieste di definire gli oggetti più concreti incontravano resistenza. «Spiegate che cos'è un albero». «Perché dovrei, tutti sanno che cos'è un albero, non c'è bisogno che glielo dica io», rispose un contadino analfabeta di ventidue anni. Perché definire, quando una situazione reale è di gran lunga più soddisfacente di qualsiasi definizione? Il contadino aveva ragione, non c'è modo di confutare il mondo dell'oralità primaria, lo si può solo abbandonare imparando a leggere e a scrivere. … Infine, gli illetterati interrogati da Lurija avevano difficoltà a produrre un'autoanalisi articolata. Questa richiede, infatti, una parziale demolizione del pensiero situazionale, ha bisogno di isolare l'io, intorno al quale ruota l'intero mondo delle esperienze vissute dall'individuo, e di spostare il centro di ogni situazione quel tanto che basta per permettere di porvi l'io per esaminarlo e descriverlo. Lurija poneva le sue domande solo dopo prolungate conversazioni sulle caratteristiche e sulle differenze individuali delle persone . A un illetterato di 38 anni, proveniente da una zona montana, fu chiesto: «E voi che uomo siete, come è il vostro carattere, che qualità e che difetti avete? Come vi descrivereste?». Ed egli rispose: «Sono venuto qui dal1'UchKurgan, ero molto povero, adesso mi sono sposato e ho dei bambini». «Siete contento di voi o vorreste essere diverso?». «Sarebbe bello se avessi più terra e potessi seminare più grano ... ». Le condizioni esterne della vita governavano la sua attenzione. … 4 –Retaggi della cultura orale Le reazioni dei soggetti interrogati suggeriscono che è forse è impossibile che un test scritto, o addirittura un test orale elaborato all'interno di una cultura alfabetizzata, sia in grado di determinare con esattezza le capacità intellettuali di individui appartenenti ad una cultura completamente orale. Gli abitanti dell'isola Pulawat nel Pacifico meridionale rispettano i loro navigatori, che devono essere molto intelligenti a causa dell'abilità richiesta dal loro lavoro, non perché li considerino «intelligenti», ma perché sono bravi navigatori. Un abitante dell’'Africa centrale a cui era stato chiesto che cosa pensasse del nuovo preside della scuola del villaggio rispose: «Stiamo un po' a vedere come balla». Chi appartiene a una cultura orale calcola l'intelligenza di un individuo non in base a complicati quiz testuali, ma a partire da un contesto concreto. Le domande di tipo analitico compaiono in uno stadio di alfabetizzazione molto avanzato, esse sono infatti assenti non solo nelle culture orali, ma anche in quelle scritte. Gli esami scritti divennero d'uso generale, nel mondo occidentale, solo migliaia di anni dopo l'invenzione della scrittura, quando essa aveva ormai prodotto i suoi effetti sulle strutture mentali. Il latino classico non aveva parole per indicare l'«esame» così come noi lo «sosteniamo» oggi e cerchiamo di «superarlo» nelle scuole. Nel mondo occidentale fino alle ultime generazioni, e ancor oggi altrove, la pratica accademica richiede che gli studenti ripetano in classe ad alta voce quel che l'insegnante ha detto (ecco le formule, il retaggio orale) e che imparino a memoria dai libri di testo o dalle istruzioni ricevute in classe. W. J. Ong, Oralità e scrittura”, Il Mulino, 1986 (Estratti pag. 19-24, 59-87) 48 5 - J.-P. VERNANT26 - LE ORIGINI DEL PENSIERO GRECO 1 - Le novità della _______________greca 2 - Il crollo del sistema _______________: il mondo ___________ 3 - Le novità della _____________ 4 - Religioni _______________ 5 - La filosofia tra ______________ e _____________________ 6 - Mito e _________________ 1 - Le novità della _______________greca Qual è, mi sono dunque chiesto, l'origine del pensiero razionale in occidente? Come è avvenuta la sua nascita nel mondo greco? Tre aspetti mi sono sembrati caratterizzare per l'essenziale il nuovo tipo di riflessione la cui apparizione segna, all'inizio del VI secolo, nella colonia greca di Mileto, in Asia Minore, l'inizio della filosofia e delle scienze elleniche. In primo luogo, si costituisce un ambito di pensiero esterno ed estraneo alla religione. I «fisici» della Ionia danno alla genesi del cosmo e dei fenomeni naturali spiegazioni di carattere profano e di tipo assolutamente positivo. Deliberatamente, essi ignorano le potenze divine riconosciute dal culto, le pratiche rituali stabilite e i racconti sacri tradizionalmente fissati dai canti di poeti «teologi» come Esiodo. In secondo luogo, delinea l'idea di un ordine cosmico che non poggia, come nelle teogonie tradizionali, sulla potenza di un dio sovrano, sulla sua monarchia, (basiléia), ma su una legge immanente all'universo, una regola di ripartizione, (nomos), che impone a tutti gli elementi costitutivi della natura un ordine egualitario, in modo che nessuno possa esercitare sugli altri il suo dominio (kratos). Infine questo pensiero ha un carattere profondamente geometrico. Si tratti di geografia, di astronomia o di cosmologia esso concepisce e proietta il mondo fisico entro un quadro spaziale che non è più definito dalle qualità religiose del fasto e del nefasto, del celeste o dell'infernale ma è fatto di relazioni reciproche, simmetriche, reversibili. Questi tre aspetti, il carattere profano e positivo, la nozione di un ordine della natura astrattamente concepito e fondato su rapporti di stretta uguaglianza, la visione geometrica di un universo situato in uno spazio omogeneo e simmetrico, sono strettamente collegati. Essi definiscono nell'insieme ciò che la razionalità greca, nella sua forma e nel suo contenuto, comporta di nuovo in rapporto al passato e di originale in confronto con le civiltà del Vicino Oriente che i Greci hanno potuto conoscere. A che cosa sono legate queste innovazioni, perché si sono prodotte nel mondo greco? Rispondere a questi interrogativi voleva dire ricercare l'insieme delle condizioni che hanno condotto la Grecia dalla civiltà dei palazzi micenei, vicinissima ai regni orientali contemporanei, all'universo sociale e spirituale della polis. L'avvento della città non si limita a segnare una serie di trasformazioni economiche e politiche, implica un cambiamento di mentalità, la scoperta di un altro orizzonte intellettuale, l'elaborazione di un nuovo spazio sociale centrato sull'agorà, la piazza pubblica … 26 Jean-Pierre Vernant (1914-2007), francese, studioso dell’antichità classica, di storia delle religione, resistente antifascista, maestro di cultura, d'impegno civile, di rigore morale e intellettuale. Profondo conoscitore dei miti della Grecia arcaica, Vernant è considerato il caposcuola di un nuovo utilizzo delle fonti mitologiche nella storia antica. Egli sostenne che lo studio comparato del mito, e del rito che lo accompagna, svela le tracce della tradizione e delle vicende storico-politiche sulle quali il mito si fonda e offre quindi nuova luce all’interpretazione della storia antica. 49 2 - Il crollo del sistema _______________: il mondo ___________ Abbattuta Micene, il mare cessa di essere una via di passaggio per diventare una barriera. Isolato, ripiegato su se stesso, il continente greco torna a una forma di economia puramente agricola. Il mondo omerico non conosce più una divisione del lavoro paragonabile a quella del mondo miceneo, né l'impiego su scala altrettanto vasta della manodopera servile. Esso ignora le molteplici corporazioni di «uomini dell'utensile» raggruppati nei dintorni del palazzo o residenti nei villaggi per eseguirvi le ordinazioni del re. Nella caduta dell'impero miceneo, il sistema palaziale crolla al completo; non si risolleverà mai più. Il termine anax27 scompare dal vocabolario propriamente politico. Nell'impiego tecnico, per designare la funzione regale, esso é sostituito dalla parola basileus, che, piuttosto che un'unica persona in cui si concentrano tutte le forme del potere, designa, impiegata al plurale, una categoria di Grandi che si pongono, gli uni come gli altri, alla sommità della gerarchia sociale. Abolito il regno dell'anax, non si trova più traccia di un controllo organizzato dal re, di un apparato amministrativo, di una classe di scribi. La stessa scrittura scompare, come inghiottita nella rovina dei palazzi. Quando i Greci la riscopriranno, verso la fine del IX secolo, questa volta prendendola a prestito dai Fenici, non sarà soltanto una scrittura di un tipo diverso, fonetico, ma un fatto di civiltà radicalmente differente: non più la specialità di una classe di scribi, ma l'elemento di una cultura comune. Il suo significato sociale e psicologico si sarà così trasformato, si potrebbe dire capovolto: la scrittura non avrà più lo scopo di costituire archivi, per uso del re, nel segreto di un palazzo; essa servirà ormai a una funzione di pubblicità; permetterà di divulgare, di porre sotto lo sguardo di tutti, i vari aspetti della vita sociale e politica. … 3 - Le novità della _____________ L'apparizione della polis costituisce, nella storia del pensiero greco, un avvenimento decisivo. Certo, sul piano intellettuale come nel campo delle istituzioni, esso produrrà solo per gradi tutte le sue conseguenze: la polis conoscerà fasi molteplici, forme variate. Tuttavia, fino dagli inizi, che si possono situare tra l'VIII e il VII secolo, essa segna un punto di partenza, una vera invenzione; grazie ad essa, la vita sociale e le relazioni tra gli uomini assumono una forma nuova, di cui i Greci sentono pienamente l'originalità. Il sistema della polis implica prima di tutto una straordinaria preminenza della parola su tutti gli altri strumenti del potere. Essa diventa lo strumento politico per eccellenza, la chiave di ogni autorità nello Stato, il mezzo di comando e di dominio su altri. Questa potenza del linguaggio ricorda l'efficacia delle parole e delle formule in certi rituali religiosi, o il valore attribuito ai «detti» del re; in realtà, tuttavia, si tratta di una cosa affatto diversa. II linguaggio non é più la parola rituale, la formula giusta, ma il dibattito contraddittorio, la discussione, l'argomentazione. Presuppone un pubblico al quale esso si rivolge come a un giudice che decide in ultima istanza, per alzata di mano, tra i due partiti che gli sono presentati: è questa scelta puramente umana che misura la forza di persuasione rispettiva dei due discorsi, assicurando la vittoria di uno degli oratori sul suo avversario. Tutte le questioni d'interesse generale che il sovrano aveva la funzione di regolare sono ora sottomesse all'arte oratoria e devono essere decise al termine di un dibattito; occorre dunque che possano essere fuse nella matrice di dimostrazioni 27 Termine con cui era indicato il sovrano in epoca micenea, sovrano a cui erano, come nelle monarchie orientali, attribuiti poteri politici e facoltà divine. 50 antitetiche, di argomentazioni opposte. Tra la politica e il logos c’è così un rapporto stretto, un legame reciproco. L'arte politica consiste essenzialmente nel maneggiare il linguaggio; e il logos, all'origine, prende coscienza di se stesso, delle sue regole, della sua efficacia, attraverso la sua funzione politica. Storicamente, sono la retorica e la sofistica che, mediante l'analisi da esse intrapresa delle forme del discorso quale strumento di vittoria nelle lotte dell'assemblea e del tribunale, aprono la strada alle ricerche di Aristotele, definendo le regole della dimostrazione, accanto a una tecnica della persuasione, e ponendo una logica del vero, propria del sapere teorico, di fronte alla logica del verosimile o del probabile che presiede ai dibattiti aleatori della pratica. Un secondo aspetto della polis è il carattere di piena pubblicità dato alle manifestazioni più importanti della vita sociale. Si può anche dire che la polis esiste soltanto nella misura in cui si è riservata un dominio pubblico, nei due sensi, diversi ma solidali, del termine un settore d'interesse comune, opposto agli affari privati; pratiche aperte, stabilite alla luce del sole, opposte alle procedure segrete. … Questo duplice movimento di democratizzazione e di divulgazione avrà conseguenze decisive sul piano intellettuale. La cultura greca si costituisce aprendo a una cerchia sempre più larga — e infine all'intero demos — l'accesso al mondo spirituale riservato in origine a un'aristocrazia di carattere guerriero e sacerdotale (l'epopea omerica è un primo esempio di questo processo: una poesia di corte, cantata dapprima nelle sale dei palazzi, evade da essi, si allarga, e si muta in poesia di festa). Ma questo allargamento comporta una profonda trasformazione. Divenendo elementi di una cultura comune, le conoscenze, i valori, le tecniche mentali sono a loro volta portati sulla piazza pubblica, sottomessi a critica e a controversia. Non sono più conservati, come garanzie di potenza, nel segreto di tradizioni familiari; la loro pubblicazione susciterà esegesi, interpretazioni diverse, opposizioni, dibattiti appassionati. Ormai la discussione, l'argomentazione, la polemica diventano le regole del gioco intellettuale come del gioco politico. Il controllo costante della comunità si esercita sulle creazioni dello spirito come sulle magistrature dello Stato. La legge della polis, in opposizione al potere assoluto del monarca, esige che le une e le altre siano ugualmente sottoposte a una «resa dei conti». Esse non s'impongono più mediante la forza di un prestigio personale o religioso: devono dimostrare la loro giustezza mediante processi di ordine dialettico. La parola forma, nel quadro della città, lo strumento della vita politica; e la scrittura fornirà, sul piano propriamente intellettuale, il mezzo di una cultura comune, e permetterà una divulgazione completa di conoscenze dapprima riservate o interdette. Presa a prestito dai Fenici e modificata per ottenere una trascrizione più precisa dei suoni greci, la scrittura potrà soddisfare questa funzione di pubblicità perché anch'essa è diventata, quasi allo stesso titolo della lingua parlata, un bene comune di tutti i cittadini. Le più antiche iscrizioni a noi note in alfabeto greco mostrano che fin dall'VIII secolo non si tratta più di una conoscenza specializzata, riservata agli scribi: la tecnica è largamente usata e liberamente diffusa tra il pubblico. … Si capisce così la portata di una rivendicazione che sorge col nascere della città: la redazione delle leggi. Scrivendo le leggi, non si fa altro che assicurarne la permanenza e la stabilità; le si sottrae all'autorità privata dei basileis, la cui funzione era di «dire» il diritto; esse diventano bene comune, regola generale, suscettibile di un'applicazione uguale per tutti. … Quando a loro volta alcuni individui decidono di rendere pubblico il loro sapere mediante la scrittura, sia sotto forma di libro come quelli che, per primi, avrebbero scritto Anassimene e Ferecide28, o come quello che Eraclito depositò nel tempio di 28 Ferecide di Syros , (VI sec. a. C.), considerato da alcuni uno dei Sette sapienti greci e il maestro di Pitagora, fu tra i primi a scrivere in prosa; anche nella sua opera si riscontrano i segni del passaggio dal discorso mitologico a quello razionale 51 Artemide a Efeso, sia sotto forma di parapegma, iscrizione monumentale su pietra, analoga a quelle che la città fa incidere a nome dei suoi magistrati o dei suoi sacerdoti (cittadini privati vi iscriveranno osservazioni astronomiche o tavole cronologiche), la loro ambizione non è di far conoscere ad altri una scoperta personale o una opinione personale: essi vogliono farne un bene comune della città, una norma suscettibile, come la legge, d'imporsi a tutti. Divulgata, la loro saggezza assume una consistenza e una oggettività nuove: si costituisce anch'essa come verità. Non si tratta più di un segreto religioso, riservato ad alcuni eletti, favoriti da una grazia divina. Certo, la verità del sapiente, come il segreto religioso, é rivelazione dell'essenziale, di una realtà superiore che trascende di molto la conoscenza comune degli uomini; ma consegnandola alla scrittura la si strappa alla cerchia chiusa delle sette per esporla in piena luce agli sguardi dell'intera città; ciò significa riconoscere che essa é per diritto accessibile a tutti, accettare di sottoporla, come il dibattito politico, al giudizio di tutti, con la speranza che in definitiva sarà accettata e riconosciuta da tutti. … 4 - Religioni _______________ Tuttavia questo passaggio della vita sociale alla pubblicità completa non avviene senza difficoltà né senza resistenze. Il processo di divulgazione si svolge a tappe, incontrando, in tutti i campi, ostacoli che ne limitano i progressi. .. Del resto, nel campo della religione, ai margini della città e a fianco del culto pubblico si sviluppano associazioni fondate sul segreto. Sette, confraternite e misteri sono gruppi chiusi, gerarchizzati, con piani e gradi diversi. Organizzati sul modello delle società iniziatiche, hanno la funzione di selezionare, attraverso una serie di prove, una minoranza di eletti che beneficeranno di privilegi inaccessibili alla gente comune. Ma, contrariamente alle antiche iniziazioni cui erano sottomessi i giovani guerrieri e che conferivano loro un'abilitazione al potere, i nuovi raggruppamenti segreti sono ormai confinati su un terreno puramente religioso. Nel quadro della città, l'iniziazione non può più procurare che una trasformazione «spirituale», senza incidenza politica. Gli eletti sono dei puri, dei santi. Vicini al divino, sono certo votati a un destino eccezionale, ma lo conosceranno nell'aldilà. La promozione di cui beneficiano appartiene a un altro mondo. A tutti coloro che desiderano conoscere l'iniziazione, il mistero offre, senza limitazione di nascita o di rango, la promessa di un'immortalità felice che all'origine era un privilegio esclusivamente regale; esso divulga nella cerchia più larga degli iniziati i segreti religiosi appartenenti in esclusiva a famiglie sacerdotali. Ma nonostante questa democratizzazione di un privilegio religioso, il mistero non si pone mai su una prospettiva di pubblicità. Al contrario, ciò che lo definisce come mistero é la pretesa di raggiungere una verità inaccessibile per vie normali, e che non potrebbe in nessun modo essere «esposta», di ottenere una rivelazione tanto eccezionale che apre l'accesso a una vita religiosa sconosciuta al culto di Stato e che riserva agli iniziati una sorte non paragonabile alla condizione ordinaria del cittadino. Il segreto acquista così, in contrasto con la pubblicità del culto ufficiale, un significato religioso particolare: definisce una religione della salvezza personale mirante a trasformare l'individuo indipendentemente dall'ordine sociale, a realizzare in lui come una nuova nascita che lo strappa alla condizione comune e lo fa accedere a un piano di vita diverso. … 52 5 - La filosofia tra ______________ e _____________________ La filosofia, al suo nascere, si trova dunque in una posizione ambigua: nei suoi procedimenti, nella sua ispirazione, si apparenta in pari tempo alle iniziazioni dei misteri e alle controversie dell'agorà; oscilla tra lo spirito di segretezza proprio delle sette e la pubblicità del dibattito contraddittorio che caratterizza l'attività politica. A seconda dell'ambiente, del momento, delle circostanze, la vediamo organizzarsi in confraternita chiusa o integrarsi del tutto nella vita pubblica, presentarsi come una preparazione all'esercizio del potere nella città e offrirsi liberamente ad ogni cittadino mediante lezioni pagate in denaro. Di questa ambiguità che segna la sua origine, la filosofia greca non si é forse mai liberata del tutto. Il filosofo non cessa di oscillare tra due atteggiamenti, di esitare tra due tentazioni contrarie. A volte afferma di essere il solo qualificato per dirigere lo Stato e, sostituendosi orgogliosamente al re divino, pretende, in nome del «sapere» che lo eleva al di sopra degli uomini, di riformare tutta la vita sociale e di ordinare sovranamente la città. A volte si ritira dal mondo per ripiegarsi in una sapienza puramente privata; raggruppando attorno a sé alcuni discepoli, vuole instaurare con essi nella città una città affatto diversa, al margine della prima, e, rinunciando alla vita pubblica, cerca la salvezza nella conoscenza e nella contemplazione. … 6 - Mito e _________________ Si potrebbe supporre che il destino del pensiero greco di cui ho cercato di tracciare il corso si sia giocato tra due termini, il mito e la ragione. In questa formula semplice e rigida l'interpretazione, a mio avviso, implicherebbe un controsenso. Mostravo già molto chiaramente che i Greci non hanno inventato la Ragione, come categoria unica e universale, ma una ragione, quella di cui il linguaggio é strumento e che consente di agire sugli uomini, non di trasformare la natura, una ragione politica nel senso in cui Aristotele definisce l'uomo animale politico. Ma abbiamo davvero il diritto di parlare di una ragione greca, al singolare? Quando non ci si fermi più, come ho fatto, alla filosofia milesia del VI secolo ma si prendano in considerazione gli sviluppi ulteriori della riflessione filosofica, il corpo dei trattati medici, la redazione di inchieste storiche con Erodoto e Tucidide, le ricerche matematiche, astronomiche, acustiche, ottiche, si é condotti a sfumare di molto il quadro e a far riferimento a tipi diversi di razionalità diversamente attenti all'osservazione del reale o alle esigenze formali della dimostrazione e per i quali il punto di partenza, le procedure intellettuali, i principi, gli scopi non sono gli stessi. Ciò che é vero della ragione lo è altrettanto del mito. I lavori recenti degli antropologi ci mettono in guardia dalla tentazione di configurare il mito come una specie di realtà mentale iscritta nella natura umana che ritroveremmo in opera ovunque e sempre, prima, a lato e dietro le operazioni propriamente razionali. Due motivi, nel caso greco, ci invitano alla prudenza e ci raccomandano di distinguere nel pensiero mitico forme e livelli diversi. Il termine mito ci viene dai Greci. Ma per coloro che lo usavano in epoca arcaica esso non aveva il senso che gli diamo attualmente. Mythos vuol dire «parola», «racconto». All'inizio non si oppone minimamente a logos il cui senso primo é «parola», «discorso», prima che designi l’intelligenza e la ragione. È soltanto nel quadro della trattazione filosofica o dell'inchiesta storica che, a partire dal V secolo, mythos, messo in opposizione a logos, potrà caricarsi di una sfumatura peggiorativa e designare una affermazione vana, destituita di fondamento in mancanza di una dimostrazione rigorosa o di una testimonianza affidabile su cui poggiare. Ma anche in questo caso mythos, squalificato dal punto di vista della verità nel suo contrasto con logos, non si 53 applica a una categoria precisa di narrazioni sacre riguardanti gli dei o gli eroi. Multiforme come Proteo, designa realtà assolutamente diverse: teogonie e cosmogonie, certamente, ma anche favole di ogni tipo, genealogie, storie fantastiche, proverbi, moralità, sentenze tradizionali; in breve tutto ciò che passa di bocca in bocca e si trasmette in qualche modo spontaneamente. Nel contesto greco dunque il mythos non si presenta come una forma particolare di pensiero ma come l'insieme di ciò che veicola e diffonde, in mezzo alla casualità dei contatti, degli incontri, delle conversazioni, la potenza senza volto, anonima e inafferrabile che Platone chiama phèmè, il Rumore. Ma é appunto questo rumore di cui é fatto il mythos greco ciò che noi non possiamo afferrare. E di qui viene un motivo supplementare di prudenza. Nelle civiltà tradizionali che hanno conservato il loro carattere orale, gli etnologi, quando conducono l'inchiesta sul campo, ascoltano i racconti di ogni tipo che formano, nella loro ripetizione, la trama dei saperi comuni ai membri del gruppo. Ma per la Grecia noi non possediamo e non possederemo mai altro che testi scritti. I nostri miti non ci giungono vivi attraverso le parole continuamente riprese e modificate dal Rumore; sono definitivamente fissati nelle opere dei poeti epici, lirici, tragici che li utilizzano in funzione delle loro specifiche esigenze estetiche conferendogli così, nella perfezione della forma, una dimensione letteraria. … Si tratta dunque, oggi, non di contrapporre il mito e la ragione come fossero due avversari ben distinti ognuno con le sue proprie armi, ma di confrontare, con un'analisi precisa dei testi, il modo diverso in cui «funziona» il discorso teologico di un poeta come Esiodo paragonato ai testi dei filosofi o degli storici, di individuare le divergenze nei modi di composizione, l'organizzazione e lo sviluppo del racconto, i giochi semantici, le logiche della narrazione. È appunto ciò che mi sono sforzato di fare insieme a molti altri, dopo il 1962, per meglio distinguere nella loro specificità le vie che nella Grecia antica hanno a poco a poco condotto a distinguere le figure di un mythos pensato come favola e opposte sempre più nettamente a quelle di un logos pensato come ragionamento valido e fondato. J.-P. Vernant, “Le origini del pensiero greco”, Editori Riuniti, 1993, (estratti pag. 4-9, 4756) 54