Tommaso Bianchi IN DIALOGO CON L’ANNO A ED ALTRE RIFLESSIONI LibertàEdizioni www..libertaedizioni.net Beati quelli che sono puri di cuore: essi vedranno Dio Matteo 5, 8 In dialogo con l’anno A Tempo di Avvento - 1a domenica Letture: Isaia 2, 1-5; Romani 13, 11-14a; Matteo 24, 37-44. Le letture di oggi sono accomunate dal fatto, come logico in tempo di Avvento, che ci dicono tutte e tre qualcosa sui tempi messianici: ci preparano alla venuta del Signore. Non quella storica, la nascita di Gesù nell’anno zero della nostra era, ma la seconda venuta alla fine dei tempi. Isaia ci dice che vi sarà la pace, intesa come assenza di guerra tra le nazioni; Paolo ci dice come dobbiamo comportarci per l’occasione; Gesù ci esorta a tenerci pronti. Paolo ci dà delle informazioni preziose quando ci dice che dobbiamo uscire dal sonno e gettare via le opere delle tenebre, ma Gesù insegna che anche quest’ultima azione non basta: «Due donne macineranno alla mola: una verrà portata via e l’altra lasciata». Abbandonare orge e ubriachezze, lussuria e impurità, litigi e gelosie sembra che per Gesù non basti. Il giudizio pare riguardare non solo le azioni che faremo: «Due donne macineranno alla mola: una verrà portata via e l’altra lasciata». Ma allora che altro? Paolo ci dice che dobbiamo essere svegli, Gesù che dobbiamo tenerci pronti. Dobbiamo essere svegli e pronti a ricevere gratuitamente in dono una salvezza che in altre religioni spesso non si acquisisce, con le sole proprie forze, nemmeno in innumerevoli vite. Ma paradossalmente è proprio da altre religioni che può venirci un aiuto a comprendere meglio: nel karma yoga della tradizione indù l’azione richiesta alla nostra condizione (macinare alla mola), se condotta con lo spirito e l’intento adatti, può portarci alla moksa, la liberazione dal ciclo della sofferenza; nel buddhismo lo sviluppo di bodhicitta, lo spirito del risveglio, che richiede un costante impegno, ci porterà alla 7 In dialogo con l’anno A bodhi, l’illuminazione, liberandoci dal samsara. E se vengono dei dubbi sull’opportunità di simili accostamenti interreligiosi, possiamo ricordare che la dottrina cattolica esorta a ricercare nelle altre tradizioni religiose i semina verbi e che Gesù, in Giovanni 10, 16, dice: «Ho anche altre pecore, che non sono in questo recinto. Anche di quelle devo diventare pastore. Udranno la mia voce, e diventeranno un unico gregge con un solo pastore». E dunque perché non i buddhisti, perché non gli indù, perché non noi, figli a volte esausti di una società dei consumi, liquida, residuale, minimale? 8 In dialogo con l’anno A Tempo di Avvento – 2a domenica Letture: Isaia 2, 1-10; Romani 15, 4-19; Matteo 3, 1-12. La prima lettura di questa domenica tratta temi importanti. «Spirito di sapienza e di intelligenza, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di conoscenza e timore del Signore»: questi sono i contenuti, le caratteristiche dello Spirito del Signore che egli dona a colui che si è scelto. L’insegnamento cristiano identifica quest’ultimo con Cristo e, grazie all’azione sacramentale, il dono si trasmette a tutti i credenti. O meglio, a tutti quelli che non contristano lo Spirito o l’ostacolano. «Non ostacolate l’azione dello Spirito Santo» dice 1 Tessalonicesi 5, 19, «Non rendete triste lo Spirito Santo che Dio ha messo in voi come un sigillo, come garanzia per il giorno della completa liberazione» dice Efesini 4, 30. Ma che cos’è che può rendere triste lo Spirito? Nel versetto precedente San Paolo precisa: «Nessuna parola cattiva deve mai uscire dalla vostra bocca; piuttosto, quando è necessario, dite parole buone, che facciano bene a chi le ascolta» (Efesini 4, 29). Ma – Cristo! – quando ci troviamo di fronte al male dobbiamo pur nominarlo in qualche modo, fosse anche solo per stigmatizzarlo e prenderne le distanze! E poi Gesù (Matteo 23) non è certo tenero quando enumera le mancanze di scribi e farisei: ipocriti, guide cieche, sepolcri imbiancati, serpenti, razza di vipere – dice. Certo che da Gesù non possiamo aspettarci che dica parole cattive che rendono triste lo Spirito Santo. E allora, come dobbiamo regolarci? La tradizione ebraica ci insegna che il termine “sapienza” indica la conoscenza di Dio, mentre “intelligenza” è la capacità di penetrare la struttura del mondo. 9 In dialogo con l’anno A “Sapienza” in latino deriva da sapere, gustare, ed ha a che vedere con “sapore” e con “sapido”, che è il contrario di “insipido”. «Siete voi il sale del mondo. Ma se il sale perde il suo sapore, come si potrà ridarglielo? Ormai non serve più a nulla; non resta che buttarlo via, e la gente lo calpesta» (Matteo 5, 13). Sapienza dunque indica un gustare, un gustare Dio nel suo essere salato, sapido, caratteristica di cui fa partecipi i suoi figli adottivi in Cristo Gesù; la frase di Matteo 5, 13 potrebbe essere così parafrasata: «Siete voi Dio nel mondo, ma se Dio si ritirasse da voi chi potrebbe renderlo nuovamente presente? Se voi non mantenete Dio dentro di voi, verrete gettati via e la gente vi calpesterà». E questo sintetizza la storia della salvezza: l’uomo non ha mantenuto il sapore di Dio dentro di sé e per questo è caduto; Cristo è venuto a riportare il sale di Dio, il sapore di Dio, il sentire Dio in quelli che si è scelto: sta a loro ora mantenerlo dentro di sé ed evitare dunque che il sale di Dio nel mondo perda il suo sapore e vengano gettati via. “Intelligenza” deriva dal latino intus legere, leggere dentro. Ora, quando ci troviamo di fronte al mondo, noi operiamo sostanzialmente una duplice lettura: da un lato, se siamo contemplativi, osserviamo e studiamo il creato ammirando la bellezza, oltre che la complessità, dell’opera del creatore; dall’altro, se siamo accorti come Cristiani, vi intuiamo la presenza del maligno e ne analizziamo le sue trame. In questa duplice attività è come se fossimo chiamati a svolgere l’opera degli angeli alla fine del mondo che separeranno il grano dalla zizzania (Matteo 13, 36-43). Ma forse è meglio aspettare la fine del mondo. 10 In dialogo con l’anno A Tempo di Avvento – 3a domenica Letture: Isaia 35, 1-6a.8a.10; Giacomo 5, 7-10; Matteo 11, 2-11. La prima e la terza lettura di oggi accennano a un argomento tipico della predicazione di Gesù: il vedere e l’udire. «Essi vedranno la gloria del Signore» e «Allora si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno gli orecchi dei sordi» dice Isaia; «I ciechi riacquistano la vista… i sordi odono» dice Gesù in Matteo. Forse Gesù qui tratta di un vedere e di un sentire puramente materiali, parla dei sensi cui siamo normalmente abituati; ma già in Isaia siamo di fronte ad un vedere di altra natura. “Sensi spirituali” – li hanno chiamati alcuni Padri della Chiesa –, che danno la possibilità di vedere ed udire il cosiddetto mondo sovrasensibile, per l’appunto. Che poi Gesù abbia in altri passi spesso usato il vedere e il sentire come una metafora per indicare il vedere e il sentire la voce del Padre è abbastanza evidente: «Un cieco può forse pretendere di fare da guida ad un altro cieco?» (Luca 6, 39); «Se foste ciechi, non avreste colpa; invece dite: “Noi vediamo”. Così il vostro peccato rimane» (Giovanni 9, 41). Che i nostri sensi abbiano dei limiti, che non siano capaci di abbracciare la totalità, oggi ce lo dice anche la fisica: radiazioni infrarosse ed ultraviolette, infra- ed ultrasuoni noi non li percepiamo, la vibrazione dell’universo è negata ai nostri sensi coscienti. Ancora Gesù: «Il regno di Dio non viene in modo spettacolare. Nessuno potrà dire: “Eccolo là”, perché il regno di Dio è già in mezzo a voi» (Luca 17, 20-21). Dunque il regno di Dio è qualcosa di già presente in mezzo a noi ma, pare, noi non siamo in grado di percepirlo. D’altra parte in molti altri passi Gesù insiste sulla necessità 11 In dialogo con l’anno A di avere la luce per vedere. «Io sono la luce del mondo» dice Gesù in Giovanni 8, 12 e non è azzardato dire che le sue molte guarigioni di persone che non avevano la vista sono metafore dell’opera che lui è venuto a compiere nel mondo: donare a chi ha fede la vista necessaria alla visione del regno di Dio presente in mezzo a noi. Quello che risulta difficile da comprendere è se egli intenda un aumento del nostro spettro visivo che ci permetterebbe di vedere cose già presenti nel mondo fisico ma escluse alla nostra vista oppure un salto di qualità dai sensi al lume dell’intelletto che ci permetterebbe di accedere alle verità spirituali. Una puntata alla tradizione indù può aiutarci forse a comprendere meglio. Qui sembra che i due aspetti non siano in antitesi. Lo yogi (praticante dello yoga, che significa “unione”) e naturalmente la yogini nel loro percorso verso l’estasi devono preoccuparsi di curare e potenziare l’attività dei chakra (definibili come centri di energia che mettono in comunicazione il corpo fisico con il corpo sottile). Tale potenziamento conduce ad alcune acquisizioni. In particolare l’attivazione e lo sviluppo di ajna, il sesto chakra partendo dal basso, sono accompagnati dal comparire di capacità di chiaroveggenza e chiaroudienza, mentre l’apertura di sahasrara, settimo ed ultimo chakra collocato sulla cima del capo, consente la comunicazione con i mondi superiori. Ancora: il canto del monosillabo sacro Om, ripreso anche dalla tradizione buddhista, consente al fedele di collegarsi alla sacra trimurti, che tramite quella sillaba crea, conserva e dissolve tutta la realtà. Le analogie con la tradizione cristiana non si contano. Basta pensare al prologo del Vangelo di Giovanni: «In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era, in principio, presso Dio: tutto è 12 In dialogo con l’anno A stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste». 13 In dialogo con l’anno A Tempo di Avvento – 4a domenica Letture: Isaia 7, 10-14; Romani 1, 1-7; Matteo 1, 18-24. Immanu (= con noi)-El (= Dio) è il personaggio di cui ci parlano la prima e la terza lettura di oggi. Il Vangelo di Matteo identifica questo personaggio con Gesù (= Dio salva), con il Gesù storico nato da Maria Vergine per opera dello Spirito Santo. «Egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati». La tradizione ebraica, come molte altre tradizioni che abbiano mantenuto un legame con il sacro, ritiene inderogabilmente necessaria la presenza di una figura che sia un tramite tra la terra e il popolo da una parte e Dio dall’altra. «Il re senza una spada, la terra senza un re» recita angosciato Lancillotto nel film “Excalibur”, ispirato all’opera “Le morte d’Arthur” di Sir Thomas Malory. L’imperatore della Cina portava l’appellativo di Figlio del Cielo. In molte tradizioni tale figura di raccordo tra la terra e il cielo è rappresentata dal re, in altre dallo sciamano, dallo stregone o dal sacerdote. La tradizione ebraica affidava tale ufficio, su mandato di Dio stesso, al Sommo Sacerdote che, tra gli altri compiti, celebrava il Giorno dell’Espiazione (lo Yom Kippur). Entrava infatti nel Santo dei Santi (in ebraico Qodesh ha-Qodashim), il luogo più interno del tempio dove si trovava l’Arca dell’Alleanza, una volta all’anno e qui offriva l’incenso e pronunciava il nome di Dio per chiedere perdono dei peccati del popolo. I suoi piedi, nel caso Dio non lo trovasse degno e lo fulminasse sul colpo, venivano legati ad una corda che avrebbe consentito di trascinarlo fuori dal Santo dei Santi senza bisogno di entrarvi. Un compito gravoso, quindi, quello del Sommo Sacerdote ed a cui bisognava essere ben preparati. Il Salmo di oggi (23/24) infatti recita: «Chi potrà salire il 14 In dialogo con l’anno A monte del Signore? / Chi potrà stare nel suo luogo santo? / Chi ha mani innocenti e cuore puro, / chi non si rivolge agli idoli. / Egli otterrà benedizione dal Signore, giustizia da Dio sua salvezza». Sembra che al tempo della venuta di Gesù tale ufficio non fosse ben condotto. Anzi, proprio l’assenza di un tramite degno di questo ruolo sembra aver richiesto a Dio un’altra modalità d’intervento a favore del suo popolo. Come ai tempi di Noè, nell’anno zero della nostra era Dio non era contento dell’uomo e, nel suo imperscrutabile disegno di salvezza, ha fatto salire il Figlio sul monte – questa volta non il monte santo di Sion ma quello infamante del Golgota. Sì, perché secondo Levitico 16 il Sommo Sacerdote aveva anche il compito di “ripulire” il popolo dai suoi peccati scaricandoli su un capro che veniva poi inviato ad Azazel. «[Aronne] mette le due mani sulla testa dell’animale ed enumera tutti i peccati, le disubbidienze e le colpe degli Israeliti per scaricarli sull’animale. Poi lo lascia andare verso il deserto, sotto la guida di un uomo designato per questo compito. Il capro porta così tutti i peccati d’Israele in un luogo arido e deserto» (Levitico 16, 21-22). Gesù, nella sua profonda umiltà, svolgerà anche questo ufficio per ristabilire l’alleanza tra uomo e Dio. 15 In dialogo con l’anno A Tempo di Natale – Messa vespertina della vigilia Letture: Isaia 62, 1-5; Atti 13, 16-17. 22-25; Matteo 1, 125. Nella tradizione ebraica Dio si manifesta in diversi aspetti. La Cabala chiama questi aspetti sephiroth (singolare sephirah = enumerare) e ne enumera dieci. Nelle tempo di Natale assume grande importanza la sephirah Hesed (= Amore). «Per amore di Sion non tacerò, per amore di Gerusalemme non mi concederò riposo, finché non sorga come aurora la sua giustizia e la sua salvezza non risplenda come una lampada», inizia la lettura di Isaia. Accanto a Hesed viene nominata la giustizia, atto di Gebourah (= il giudizio, ma anche il rigore, il terrore, il potere) che nella rappresentazione grafica dell’albero sefirotico si trova alla sinistra di Hesed, al suo stesso livello. Le sephirot si influenzano tra loro ed è per questo che l’Amore di Dio per Gerusalemme farà sorgere la sua Giustizia. Il profeta sembra dire anche che quando uno degli aspetti di Dio sia scarsamente presente nel mondo creato (Gerusalemme), un altro aspetto può intervenire e ristabilirne la presenza. È il caso del tempo di Gesù in cui i giusti – nell’accezione latina del termine di iuxtus = unito (a Dio) – non sono più presenti. Scribi e farisei portano avanti un’alleanza basata più sulla lettera morta che sullo spirito vivificante e sulla presenza reale di Dio; hanno infatti dimenticato che Gebourah, unita a Hesed, genera Tipheret, la Misericordia, e mettono sulle spalle dei miseri pesi che loro stessi non solleverebbero neanche con un dito (Matteo 23, 4) e chiudono il regno dei cieli davanti agli uomini e né vi entrano, né lasciano entrare chi sta per entrarvi (Matteo 23, 13). C’è quindi bisogno di un intervento di Dio il quale, 16 In dialogo con l’anno A visto che il suo popolo non è più giusto, lo salva con un atto d’amore, l’incarnazione del Figlio ad opera dello Spirito Santo in Maria di Nazareth, ristabilendo l’alleanza contratta con Abramo (che era un uomo giusto). E che questo amore assuma anche gli aspetti dell’amore fisico tra gli sposi è confermato dall’alta considerazione in cui l’evangelista Matteo tiene la genealogia di Gesù: 14 generazioni da Abramo al re Davide, 14 generazioni dal re Davide alla deportazione in Babilonia, 14 generazioni dalla deportazione in Babilonia a Gesù. Ma l’intervento è radicale: Dio, tramite lo Spirito Santo, entra nell’utero di una donna con una sostanza nuova e vi stabilisce la sua nuova dimora portandovi la luce del suo Amore. «Dio è Amore» dice il Papa, «L’amore compassionevole è la religione dell’umanità» dice Lama Sherab, e queste considerazioni sembrano condividere la stessa linea. Non dobbiamo dimenticare però che la sephirah Gebourah non scompare: Dio manda il Figlio nel mondo per reintegrare l’uomo degradato nella sua giustizia, nell’unione con lui stesso. Dio scende sulla terra per rendere nuovamente giusto l’uomo e riportarlo in cielo. 17 In dialogo con l’anno A Tempo di Natale – Messa della notte Letture: Isaia 9, 1-6; Tito 2, 11-14; Luca 2, 1-14. Dio è un grande alchimista. In questa notte realizza pienamente il suo opus magnum. «Il popolo che camminava nelle tenebre» della nigredo «ha visto una grande luce», la luce dell’albedo. Per svolgere queste due prime fasi dell’opera, Dio ha costruito il suo mirabile atanor, corazzandolo di diversi involucri che, come una matrioska, hanno ospitato la generazione di una sostanza nuova. All’interno dell’umanità c’è un popolo, gli Ebrei; all’interno degli Ebrei c’è una tribù, quella di Giuda; all’interno della tribù di Giuda c’è una coppia di sposi, Giuseppe e Maria; all’interno della coppia di sposi c’è un utero; all’interno dell’utero, locus absconditus, Dio pone la sostanza luminosa di una nuova creazione. Di nuovo dice «Sia fatta luce» e l’albedo fu. E questa sostanza nuova, una volta uscita dal buio dell’utero, viene deposta in un nuovo atanor con diversi involucri, necessari a contenere la smisurata energia prodotta. Un atanor fatto di povere cose, in linea con gli insegnamenti dell’alchimia che prende i suoi strumenti dalla vile materia: una mangiatoia contenuta in una stalla (o in una grotta), contenuta a sua volta nella piccola cittadina di Betlehem, la casa del pane. Ma la luce dell’albedo trabocca dai suoi contenitori e sarà vista dai pastori e dai Magi (e purtroppo anche da re Erode). Però l’opera non è finita. Per quanto l’albedo sia mirabile, questa luce è appunto albeggiante. Dovrà affrontare le alterne vicende di una mutevole citrinitas, colorandosi appunto dell’oro del giorno, e rituffarsi nuovamente nelle tenebre della notte/morte per risorgere – questa volta finalmente fissa nel rosso glorioso della rubedo – ed illuminare il 18 In dialogo con l’anno A mondo da qui all’eternità (ed oltre). Il rebis è compiuto: «Dopo la risurrezione, gli uomini e le donne non si sposeranno più, ma saranno come gli angeli del cielo» (Matteo 22, 30). Eh sì, Dio è un grande alchimista. Oppure è l’alchimista a voler essere un piccolo Dio? 19 In dialogo con l’anno A Tempo di Natale – Messa dell’aurora Letture: Isaia 62, 11-12; Tito 3, 4-7; Luca 2, 15-20. Tra i mirabili avvenimenti che contornano la nascita di Gesù, l’adorazione dei pastori – seppure semplice e concisa nella narrazione – desta qualche stupore. Nel Vangelo della Messa dell’aurora, che segue quello della notte, si dice: «Appena gli angeli si furono allontanati da loro, verso il cielo, i pastori dicevano l’un l’altro: “Andiamo dunque fino a Betlemme, vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere”». I pastori da un lato non sono né profeti né sacerdoti, ma parlano, o meglio ascoltano, quello che Dio, tramite i suoi messaggeri, ha da dire loro. Hanno un rapporto diretto con lui, senza intermediazione. Dall’altro lato non subiscono le tenaglie del dubbio che tanta parte hanno nella vita di noi moderni: non conoscono quanto la filosofia e la psicologia cercano di insegnare sui fenomeni percettivi, non sanno che gran parte della realtà dipende dal funzionamento dei nostri sensi e dall’immagine che tramite essi il pensiero si fa della realtà stessa; non hanno studiato le patologie psichiatriche né i fenomeni allucinatori che spesso le accompagnano; non hanno esperienza della fantascienza, non hanno visto “Xfiles” alla televisione e non si fanno pertanto domande sulla natura e la provenienza di quegli esseri che hanno detto loro «Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo»; non conoscono neppure la prassi che la Chiesa segue per provare l’autenticità delle apparizioni sovrannaturali. Loro vedono e odono gli angeli, eseguono quanto hanno loro indicato e vanno alla Casa del Pane, trovano il bambino, lo adorano e poi si allontanano lodando Dio e raccontando la loro esperienza a quanti incontrano sul 20 In dialogo con l’anno A loro cammino. E di cose da raccontare su quel bambino ce ne sono parecchie: le hanno preannunciate i profeti e le spiegheranno apostoli e discepoli, come testimoniano Isaia e San Paolo: il primo insistendo sulla dimensione salvifica del bambino sul popolo di Sion nel suo insieme, il secondo sulla dimensione salvifica del bambino sull’individuo e sull’umanità cui sarà rivolta la sua opera di redenzione. 21 In dialogo con l’anno A Tempo di Natale – Messa del giorno Letture: Isaia 52, 7-10; Ebrei 1, 1-6; Giovanni 1, 1-18. Una parola che può riassumere le letture di oggi è “pienezza”. Isaia parla della pienezza della gioia di Israele, «perché il Signore ha consolato il suo popolo, ha riscattato Gerusalemme», e della salvezza del Signore, che riempie tutta la terra. Il Salmo (97/98) celebra, accanto alla salvezza, la pienezza del Suo amore, della Sua giustizia, della Sua fedeltà e la pienezza del giubilo del Suo popolo che Lo celebra con il canto e con la musica. San Paolo annuncia la pienezza dei tempi, la pienezza della purificazione dei peccati, la pienezza della gloria realizzatesi con la meteorica venuta del Figlio di Dio sulla terra, nato, vissuto, morto, risorto ed asceso alla destra del Padre, nel posto vuoto a lui riservato dall’inizio dei tempi. La venuta del Figlio è anche dunque pienezza, completamento, della creazione, detta dal Padre in Genesi. Giovanni, ripreso da Paolo, ci parla nei medesimi termini ed aggiunge che con Gesù Cristo si realizza la pienezza della vittoria della luce sulle tenebre e la pienezza della verità intesa come progressiva rivelazione del logos dal tempo – se così si può dire – antecedente alla creazione. Aggiunge anche che con Gesù si realizza la pienezza della grazia che in lui si è manifestata e la pienezza della profezia che, avendo come evento ultimo su cui esercitarsi la venuta del Salvatore del mondo, d’ora innanzi non sarà più la stessa. Facendo riferimento ad un altro passo di Giovanni (10, 10), potremmo aggiungere che nell’evento del Natale si inizia anche la pienezza della vita: «Io invece sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza». Queste considerazioni, se prese in modo superficiale, 22 In dialogo con l’anno A appaiono in contrasto con uno degli insegnamenti del buddhismo mahayana. In tale religione il monaco viene costantemente invitato, soprattutto all’inizio del suo praticantato, a realizzare dentro di sé shunyata, il vuoto. Il contrasto è solo apparente: anche la speculazione teologica cristiana usufruisce del concetto di kenosis, svuotamento, per invitare a fare spazio dentro di sé all’Emmanuele, al Dio che viene. Ed è questo che effettivamente si realizza nel Natale a diversi livelli: le tenebre si ritraggono di fronte alla luce, l’antica profezia tace di fronte all’evento che rappresenta il suo compimento, Giuseppe si fa da parte di fronte all’azione dello Spirito Santo, la mangiatoia vuota accoglie il Divino Bambino. 23 In dialogo con l’anno A Tempo di Natale - Santa Famiglia Letture: Siracide 3, 2-6.12-14; Colossesi 3, 12-21; Matteo 2, 13-15.19-23. Le letture di oggi vertono sul tema della Santa Famiglia, oggetto della festa. Il Siracide espone quelli che devono essere i rapporti tra genitori e figli, mentre San Paolo, accanto ai doveri delle nuove comunità unite nel nome di Cristo, affronta la relazione tra il marito e la moglie cristiani. Il Vangelo racconta i primi passi della Santa Famiglia ora completa dopo la nascita di Gesù e racconta la fuga in Egitto e il ritorno nella terra d’Israele. Ma proprio il Vangelo contiene delle notazioni che ci dicono qualcosa di più sulla figura di Gesù. Con «I Magi erano appena partiti» inizia la narrazione: fiumi di inchiostro sono stati versati per parlare della figura dei Magi – da dove venivano, chi erano, cosa rappresentavano, quali erano i loro nomi – e su questo ritorneremo. Ora è sufficiente sapere che venivano dall’Oriente e che collegano pertanto la figura del Gesù che sono venuti ad adorare con quella di Abramo, padre riconosciuto delle tre religioni monoteiste (ebraismo, cristianesimo, islamismo) proprio per questo definite a volte come “abramitiche”, anche lui giunto nella terra d’Israele dall’Oriente. Guidato dalla voce di Dio lui, dalle stelle i Magi, stelle che in certi casi rappresentano la voce di Dio stesso. Un secondo collegamento del neonato Gesù con la tradizione ci viene dalla fuga in Egitto. L’espressione «Dall’Egitto ho chiamato mio figlio» riprende un passo del profeta Osea (11, 1) in cui Dio ricorda al suo popolo, come è spesso costretto a fare, di quando, ai tempi di Mosè, lo ha 24 In dialogo con l’anno A liberato dalla schiavitù in Egitto. Questo passo collega il bambino con la figura di Mosè, portando ad identificarne la sua funzione di liberatore del popolo. La dottrina cristiana insegna infatti a questo proposito che Mosè è stato liberatore del popolo dalla schiavitù dei corpi, mentre Gesù è stato liberatore del popolo dalla schiavitù morale del peccato. «Egli sarà chiamato nazareno» è la terza espressione, ripresa anch’essa dai profeti, che ci guida all’approfondimento della figura di Gesù. Secondo Luca (2, 4.39), Nazaret era la città di provenienza di Giuseppe e Maria che, dopo la nascita del bambino, vi hanno fatto ritorno. Matteo, pur inserendo nella narrazione la strage degli innocenti che Luca omette, a questo proposito è meno preciso. Non dà infatti informazioni sull’origine di Giuseppe e Maria, ma riferisce soltanto che dopo la fuga in Egitto ritornano in terra di Israele e si stabiliscono a Nazaret con Gesù. In molti hanno sollevato obiezioni sul significato dell’espressione «Egli sarà chiamato nazareno»: Matteo non ha dubbi sul fatto che indichi la residenza di Gesù e dei suoi genitori, ma la parola nazareno può anche essere derivata dal termine nezer che in ebraico significa “germoglio” e che lo collocherebbe in relazione al passo di Isaia (11, 1) che dice «Spunterà un nuovo germoglio: nascerà nella famiglia di Iesse, dalle sue radici, germoglierà dal suo tronco», ad indicare chi erano i progenitori di Gesù. Un’altra interpretazione mette in collegamento la parola nazareno con il termine “nazireo” che indica una persona consacrata a Dio. Le particolarità di questo tipo di consacrazione, che differisce da quella dei Leviti, sono narrate in Numeri 6, 1-21. Giudici 13, 5 ci riferisce che nazireo era Sansone, noto per la forza con cui combatteva 25 In dialogo con l’anno A per liberare gli Ebrei dal giogo del popolo dei Filistei loro nemico. La sua forza risiedeva nei capelli, perché la lunghezza dei suoi capelli era segno del suo voto di consacrazione a Dio; dunque, in ultima analisi, l’origine della sua forza risiedeva in Dio. Su un altro livello anche Gesù (per inciso, forse è dal suo essere nazireo che deriva la tradizione di riprodurlo con i capelli lunghi) è un essere dotato di una particolare forza che gli viene dalla sua unione con il Padre; è una forza spirituale, lo sappiamo da Matteo 26, 41(«Lo spirito è forte…»), che gli permetterà di assumere il ruolo di agnello sacrificale per liberare, come Sansone, il suo popolo e i suoi seguaci dai peccati, dal Maligno e – come la storia ha poi evidenziato – anche dai suoi oppressori. 26 In dialogo con l’anno A Tempo di Natale – Maria SS. Madre di Dio Letture: Numeri 6, 22-27; Galati 4, 4-7; Luca 2, 16-21. «Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore» (Luca 2, 19). Mater Creatoris, Mater Salvatoris, Virgo Prudentissima, Virgo Veneranda, Virgo Praedicanda, Virgo Potens, Virgo Clemens, Virgo Fidelis, Speculum Justitiae, Sedes Sapientiae, Causa Nostrae Letitiae, Vas Spirituale, Vas Honorabile, Vas Insigne Devotionis, Rosa Mystica, Turris Davidica, Turris Eburnea, Domus Aurea, Foederis Arca, Ianua Coeli, Stella Matutina, Salus Infirmorum, Refugium Peccatorum, Consolatrix Afflictorum, Auxilium Christianorum, Regina Angelorum, Regina Patriarcharum, Regina Prophetarum, Regina Apostolorum, Regina Martyrum: questi sono gli epiteti mariani ripresi dalle Litanie Lauretane. La riflessione teologica e la pietà popolare cattoliche hanno voluto in questo modo celebrare nel corso dei secoli la figura di Maria. Certamente ogni epiteto richiederebbe una trattazione approfondita per sviscerarne i riferimenti scritturistici ed i molteplici significati. Nella festa di oggi merita qualche parola “Foederis Arca”, Arca dell’Alleanza, che sancisce nella visione cattolica il definitivo passaggio dall’Antico al Nuovo Testamento. L’Arca nella tradizione ebraica, situata nel Santo dei Santi del Tempio, era il luogo della Shekhinah, la presenza divina, e rappresentava, ed era, l’Alleanza con Dio, il luogo in cui Lui si faceva realmente presente. Per la tradizione cattolica questo luogo importantissimo della relazione tra Dio e l’uomo-mondo è (temporaneamente?) il grembo di Maria in cui ha preso dimora Gesù, l’Emmanuele, il Dio-con-noi, attraverso l’azione misteriosa dello Spirito Santo, la cui nascita si è 27 In dialogo con l’anno A appena celebrata. Senza fare valutazioni di merito, è senz’altro interessante esplorare le altre nascite miracolose avvenute nel mondo per vedere se esistono delle analogie (e differenze) con la tradizione cristiana. Ad esempio la narrazione della nascita del Buddha Sakyamuni riportata dal “Buddhacarita” (“Le gesta del Buddha”, poema epico scritto da Aśvaghoşa in sanscrito nel II secolo d.C.) ci fa sapere come sua madre Mahāmāyā abbia sognato un elefante bianco che le penetrò nel corpo senza alcun dolore ed abbia ricevuto nel grembo, “senza alcuna impurità”, Siddharta; questi sarebbe stato partorito nel bosco di Lumbinī dove le nacque da un fianco senza alcun dolore. Dopo la nascita Siddharta fu visitato, come di consuetudine, da sacerdoti e asceti che profetarono che sarebbe diventato o un chakravartin, cioè un monarca universale, oppure un Buddha, cioè un essere che avrebbe scoperto la Via che conduce al di là della morte. Krishna, ottavo avatar (= lett. “discesa sulla terra della divinità”) del dio indù Vishnu secondo la tradizione vaishnava e dio egli stesso secondo la tradizione krishnaita pare anch’egli nato da una vergine. O meglio, una tradizione diffusasi soprattutto in Occidente, non suffragata da testi indù antichi, lo vuole così. Analogamente al piccolo Gesù, anche Krishna fu perseguitato subito dopo la nascita tanto che fu fatto fuggire per nasconderlo dalla volontà omicida del re Kamsa. I vaishnava credono che il Dio si incarni ogni qualvolta avviene un declino della giustizia, unitamente all'insorgere delle forze demoniache che operano in senso opposto al dharma, la legge cosmica. A tal proposito si ricorda la frase pronunciata da Krishna durante la battaglia di Kurukshetra: «Per la protezione dei 28 In dialogo con l’anno A giusti, per la distruzione dei malvagi e per ristabilire i princìpi della Giustizia Divina, Io mi incarno di era in era». Similmente a Krishna, anche per il dio egizio Horus è stata elaborata in area teosofica un’analogia con Gesù, non sostenuta però da prove scientifiche degli egittologi. Secondo i sostenitori di questa operazione di pensiero la nascita del dio fu annunciata alla madre Iside dall’angelo Thot, Horus nacque in una grotta il 25 dicembre dalla vergine Iside annunciato da una stella d’Oriente e venne adorato da pastori e da tre saggi che gli portarono in dono oro, incenso e mirra. Infine la mitologia greca, ricchissima di nascite miracolose quando parla di dei ed eroi, ci racconta tra le tante cose la miracolosa ingravidazione di Danae da parte di Zeus trasformatosi in pioggia dorata, “operazione” che avrà come esito la nascita dell’eroe Perseo. Fortunatamente oggi abbiamo a disposizione gli strumenti della storiografia critica, della filologia, dello studio dei miti e delle lingue antiche, della psichiatria che ci permettono di vedere un po’ più a fondo e distinguere tra mito e storia, tra fantasia e realtà, anche grazie alla considerazione che, come succede nel caso del campanilismo dei santi, a volte ci troviamo di fronte ad una sorta di competizione teologica che può aver fatto dire «Il tuo dio è così? Bene, ma il mio è più grande perché è così e così!». Di fronte a tale cornucopia poi di eventi meravigliosi narrati dalle diverse tradizioni religiose, nell’attesa che ne sia svelato il senso profondo resta comunque condivisibile, da parte dell’umile fedele della strada, l’atteggiamento di Maria che «da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore». 29 In dialogo con l’anno A Tempo di Natale – 2a domenica dopo Natale Letture: Siracide 24, 1-2.8-12, neo-volg. 24, 1-4.12-16; Efesini 1, 3-6.15-18; Giovanni 1, 1-18. Le letture di questa domenica si possono definire come letture teoriche, filosofiche o teologiche. Non vi vengono infatti raccontati degli eventi storici né vi sono contenute delle applicazioni pratiche di legge, ma vi vengono delineate delle prospettive di fede. La prima è tratta dal Siracide, che fa parte di quegli scritti (insieme a Ester greco, Giuditta, Tobia, Primo e Secondo libro dei Maccabei, Sapienza, Baruc, Lettera di Geremia, Supplementi al libro di Daniele) riuniti sotto il nome di Deuterocanonici presenti nella Bibbia greca detta dei Settanta. Questi scritti non fanno parte del canone ebraico; il loro valore è stato riconosciuto dalla Chiesa romana nel IV secolo ed appena nel 1546 sono stati dichiarati canonici nel Concilio di Trento. Da qui l’appellativo di Deuterocanonici, appartenenti cioè al secondo canone o elenco. Il Siracide è un libro sapienziale, in quanto approfondisce i contenuti della fede e la conoscenza di Dio, con particolare riguardo alla sua Sapienza. Tale Sapienza si identifica a volte con Gesù, il Figlio di Dio, presente al suo fianco sin da prima della creazione del mondo. Nell’insegnamento della Qabbalah ebraica la Sapienza è la sephiroth Khokhmah ed indica la conoscenza stessa dei misteri di Dio, Aor Ein Soph, “Luce Senza Limiti”. Tale concetto è espresso anche dalle parole di Paolo: «Continuamente rendo grazie per voi ricordandovi nelle mie preghiere, affinché il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una profonda conoscenza di lui» (Efesini 1, 16-17). 30 In dialogo con l’anno A Tempo di Natale – Epifania del Signore Letture: Isaia 60, 1-6; Efesini 3, 2-3a.5-6; Matteo 2, 1-12. «Alzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce, la gloria del Signore brilla sopra di te. Poiché, ecco, la tenebra ricopre la terra, nebbia fitta avvolge i popoli; ma su di te risplende il Signore, la sua gloria appare su di te. Cammineranno le genti alla tua luce, i re allo splendore del tuo sorgere» (Isaia 60, 1 e seguenti). «Ehi, dico a te!» «A me? Che cosa?» «Queste parole di Isaia oggi le rivolgo a te!» «Ma chi sei?» «Io-sono è il mio nome, quello della Bibbia? » «Ah…» «E ho deciso di nominarti re del mio popolo» «Ma Signore, siamo in democrazia!» «E a noi che importa? E poi i re ci sono ancora oggi» «Beh, vedo che scherzi. Quelle parole erano per Davide, per Salomone o perfino per Gesù…» «E oggi sono per te!» «Ma chi sono io?» «Tu sei chi io voglio che tu sia: il re, o meglio l’imperatore, visto che i re cammineranno allo splendore del tuo sorgere» «Ma Signore, ci sono tante persone migliori di me per questo ufficio, tanti sapienti, tanti potenti, tante persone rette con tanto di splendidi curricula; prendi uno di quelli!» «No, io voglio te! Io guardo il cuore e non il curriculum. E poi io di sapienti e potenti ne faccio quanti ne voglio. Avrai ben letto in Isaia 11, 2 quali sono i doni dello Spirito?» «Sì, ma Isaia prefigurava Gesù!» «Se ribatti così, allora non hai letto Giovanni 1, 12. Dice: “Alcuni però hanno creduto in lui: a questi Dio ha fatto un dono: di diventare figli di Dio”» «Ma se vado a dire una cosa del genere mi prendono per matto» «E a te cosa importa?» «… alcuni Magi vennero da oriente…»: in questa frase è riassunto il significato profondo contenuto nel Vangelo di 31 In dialogo con l’anno A oggi. Episodio narrato soltanto da Matteo, l’Adorazione dei Magi ha ispirato artisti di tutte le epoche ed è ricordata ogni anno nel presepe. Un evento importante, letto come il riconoscimento – da parte della sapienza, della potenza e della ricchezza (quelle vere, non quelle di Erode) – del ruolo insostituibile di Gesù, del suo essere axis mundi et temporis, Signore dello spazio e del tempo. Ruolo che comportava la riapertura della porta chiusa tra terra e cielo, cosa che nessuna sapienza, potenza o ricchezza di questo mondo avrebbe potuto fare. «Al vedere la stella provarono una gioia grandissima»: questa frase apparentemente marginale contenuta nell’episodio narrato ci svela un dato molto importante. I segni del cielo, al di là di quello che significano – anche se in questo caso significavano l’evento più importante della storia dell’umanità tutta – , sono fonte di gioia. Sembrerebbe quasi che essi solo siano latori di gioia, che la gioia vera cioè sia sempre di origine celeste e che quando la incontriamo dovremmo inchinarci come di fronte ad un’epifania del divino. A questo proposito risulta senz’altro interessante il discorso di Gesù sulla vite e i tralci (Giovanni 15, 1-11) che si conclude con la frase: «Vi ho detto questo, perché la mia gioia sia anche vostra, e la vostra gioia sia perfetta». Gesù, in quanto Figlio di Dio, essere celeste e manifestazione del divino è fonte di gioia in sé compiuta. 32 In dialogo con l’anno A Tempo di Natale – Battesimo del Signore Letture: Isaia 42, 1-4.6-7; Atti 10, 34-38; Matteo 3, 13-17. La prima lettura di oggi è nuovamente tratta dal Libro del Profeta Isaia. Il nome Isaia in ebraico significa “il Signore salva”, proprio come Gesù. Il libro è tradizionalmente diviso in tre parti per complessivi 66 capitoli e tratta fatti dei periodi 740-700 a. C. e 587-538 a. C.. Se non ipotizziamo che Isaia abbia vissuto centinaia d’anni come gli antichi patriarchi, dobbiamo supporre che il testo sia stato composto da mani umane diverse. Tale supposizione secondo i nostri canoni potrebbe inficiare la validità della testimonianza riportata (siamo infatti portati a dire che il nome dell’autore è falso), ma se guardiamo la questione con l’occhio di Dio possiamo dire che persone diverse hanno svolto un medesimo ufficio, rappresentato dalla condivisione del nome nella sua funzione di titolo, riportando la voce di Dio stesso relativamente ai diversi periodi storici che il libro comprende. Oltre che nel nome del suo compositore (o dei suoi compositori), la tradizione cristiana vi ha letto dei collegamenti molto significativi con la persona di Gesù. Proprio il passo riportato oggi, che è compreso nella seconda parte del libro (capp. 40-55), è il primo dei quattro canti conosciuti come canti del Servo del Signore. Se da un punto di vista storico questa figura è stata identificata con il re Ciro dei Persiani che ha liberato il popolo ebreo deportato in Babilonia concedendogli di tornare a Gerusalemme, da un punto di vista teologico il Servo del Signore prefigura la persona di Gesù. «Così dice il Signore: “Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto di cui mi compiaccio. Ho posto il mio spirito su di lui; egli porterà il 33 In dialogo con l’anno A diritto alle nazioni”» sono parole che non si possono non collegare con le seguenti riportate da Matteo: «Appena battezzato, Gesù uscì dall’acqua: ed ecco, si aprirono per lui i cieli ed egli vide lo Spirito di Dio discendere come una colomba e venire sopra di lui». Le analogie sono anche ben più numerose se raffrontiamo la totalità dei quattro canti del Servo del Signore con la totalità dei quattro (di nuovo) Vangeli. Un rapido raffronto delle letture di oggi, in particolare tra Isaia ed il discorso di Pietro riportato in Atti, ci consente di affermare che anche il resto del Nuovo Testamento riecheggia le parole dell’antico profeta. Certo, si osserverà, appare strano come un testo del VI secolo a. C. possa dire delle cose che accadranno seicento anni dopo, ma si possono fare due considerazioni: da un lato è piuttosto normale che chi si sia apprestato a scrivere la vita di Gesù abbia fatto riferimento alla tradizione scritturistica del popolo ebreo, dall’altro nell’ottica di Dio che vive nell’eternità il tempo, spesso tanto inclemente con noi umani, significa ben poco, in quanto tutti gli eventi storici sono già presenti alla sua onniscienza. Ed è proprio da questa onniscienza che scaturisce il dono della profezia, inteso come previsione degli eventi che debbono accadere. Dice infatti Gesù a Giovanni, quando si presenta da lui per farsi battezzare: «Lascia fare per ora, perché conviene che adempiamo ogni giustizia»: e quale giustizia, se non quella riportata nella Legge e nei Profeti ispirati da Dio? Questo tema poi è ribadito da Matteo 5, 18 quando Gesù dice: «Perché vi assicuro che fino a quando ci sarà il cielo e la terra, nemmeno la più piccola parola, anzi nemmeno una virgola, sarà cancellata dalla legge di Dio; e così fino a quando tutto non sarà compiuto»: un invito a fare, almeno di tanto in tanto, come suggerisce il salmista quando dice: 34 In dialogo con l’anno A «Felice l’uomo giusto… sua gioia è la parola del Signore, la studia giorno e notte» (Salmi 1, 1-2). Un invito che, fortunatamente, da quanto dicono le statistiche sulle letture del genere umano oggi, per adesso non risulta disatteso. Rimane però una domanda: quanti di noi si trovano nella condizione dell’eunuco, funzionario di Candace, regina dell’Etiopia quando risponde a Filippo che gli chiede «Capisci quello che leggi?», «Come posso capire se nessuno me lo spiega?» (Atti 8, 30-31). E che coincidenza (ma noi sappiamo che in Dio le coincidenze non sono fortuite)! L’eunuco di Candace stava leggendo proprio il quarto canto del Servo del Signore… 35 In dialogo con l’anno A Tempo di Quaresima – 1a domenica Letture: Genesi 2, 7-9; 3, 1-7; Romani 5, 12-19; Matteo 4, 1-11. La prima domenica di Quaresima i brani proposti alla lettura sintetizzano la storia della salvezza. In particolare San Paolo ci propone una specie di equazione: la disobbedienza di un solo uomo a Dio ha portato la morte nel mondo, l’obbedienza di un solo uomo ha portato nel mondo la giustificazione e conseguentemente la vita. Per colpa di uno tutti siamo stati nel peccato, per merito di uno tutti siamo stati giustificati. La colpa è la disobbedienza, il merito l’obbedienza. Le altre letture presentano una situazione più complessa. A fare disobbedire i primi due esseri umani è un altro essere, il serpente, che motiva in modo accattivante e subdolo la sua proposta. «Non morirete affatto [mangiando del frutto dell’albero della conoscenza]! Anzi, Dio sa che il giorno in cui voi ne mangiaste si aprirebbero i vostri occhi e sareste come Dio, conoscendo il bene e il male». Nel Vangelo di Matteo il tentatore viene nominato come diavolo. La dottrina insegna che è lo stesso essere incontrato da Adamo ed Eva nell’eden. Egli tenta Gesù, sempre in modo accattivante (cita persino le Scritture), ma Gesù non cede, sa come rispondere, svela il suo inganno. Nuovamente il tentatore cerca di far leva sul desiderio di potere dell’uomo – «Tutte queste cose [i regni del mondo e la loro gloria] io ti darò se, gettandoti ai miei piedi, mi adorerai» – ma Gesù, che non è soltanto uomo, gli tiene testa. Sempre con il potere tenta, della conoscenza nell’eden («sareste come Dio, conoscendo il bene e il male»), della ricchezza e della gloria nel deserto. Viene da chiedersi perché non sia bastato il rifiuto del tentatore da 36 In dialogo con l’anno A parte di Gesù per liberare l’uomo dalla sua condizione decaduta, ma egli abbia dovuto sottoporsi all’evento scandaloso della crocefissione per compiere quel mysterium magnum che è il disegno di salvezza di Dio per l’uomo. Possiamo dire che non c’era soltanto il tentatore da sconfiggere per liberare l’uomo, ma anche – omeopaticamente – la morte: «L’ultimo nemico a essere distrutto sarà la morte» (1 Corinzi 15, 26); «Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi. La morte non ci sarà più. Non ci sarà più né lutto, né pianto né dolore. Il mondo di prima è scomparso per sempre» (Apocalisse 21, 4). Per quanto riguarda il potere poi c’è un altro elemento da tenere in considerazione: a quello fallace del tentatore, Gesù ne contrappone un altro offrendolo all’uomo e cioè il potere ben più desiderabile di «diventare figli di Dio» (Giovanni 1, 12), portando a compimento la sua opera di redenzione. Tale opera ha un risultato migliorativo rispetto alla creazione in quanto, dopo di lui, l’uomo assurge alla dignità di figlio, dignità ben superiore a quella di creatura. Gesù fa ciò condividendo con l’uomo la sua sostanza divina come ha fatto con gli apostoli nell’ultima cena. 37 In dialogo con l’anno A Tempo di Quaresima – 2a domenica Letture: Genesi 12, 1-4a; Timoteo 1, 8b-10; Matteo 17, 1-9. La prima e la terza lettura di oggi hanno come punto forte la voce di Dio. «La mia parola è come il fuoco, e come un martello che frantuma la roccia! Lo dice il Signore» (Geremia 23, 29). E Abramo ne ha fatto esperienza, e Pietro, Giacomo e Giovanni ne hanno fatto esperienza. La parola del Signore rivolta ad Abramo – alcune ipotesi lo vogliono vissuto nel XX-XIX secolo avanti Cristo – è una parola la cui validità dura ancora oggi nell’ebraismo, nel cristianesimo e nell’islamismo, le tre religioni definite abramitiche. È una parola che ha scosso e scuote miliardi di persone che cercano di conformarvisi e che si è mantenuta fedele a se stessa per lunghissimi secoli. È una parola che ha operato prodigi (e piaghe) in tutta la storia di Israele narrata dalla Bibbia e continua ad operarne nell’oggi. È una parola che, per i cristiani, si è incarnata in un uomo che ha liberato chi crede in lui dal potere del diavolo, del peccato e della morte. È una parola presente sin da prima della creazione del mondo e che sussisterà dopo la sua fine. È una parola eterna. A volte è una parola dura – «un martello che frantuma la roccia» –, una parola che spaventa – «Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò» (Genesi 12, 3) – una parola che ha parlato per mezzo di profeti potenti avvertendo che cosa si deve fare e non fare. Una parola che è stata anche variamente interpretata, a volte persino fraintesa. Ma è una parola chiara e i fraintendimenti sono più da imputare all’imperfezione di chi l’ha ascoltata. No, Abramo non l’ha fraintesa – «Allora Abram partì, come gli aveva ordinato il Signore» (Genesi 12, 4) –, no, Pietro, Giacomo e Giovanni 38 In dialogo con l’anno A non l’hanno fraintesa – «All’udire ciò, i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore» (Matteo 17, 6). Certo, noi forse oggi saremmo più vicini alla reazione dei discepoli se sentissimo quella voce, quella parola; è difficile avere la tempra di Abram che abbandona tutto e parte e per di più i discepoli erano confortati dalla presenza tranquillizzante di Gesù – «Ma Gesù si avvicinò, li toccò e disse: “Alzatevi e non temete”» (Matteo 17, 7). Anche i cristiani oggi sono confortati dalla presenza tranquillizzante di Gesù e quando odono la potente voce del Padre se non capiscono, se hanno paura possono sempre contare su di lui. «Il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce» (Matteo 17, 2): queste parole ci dicono qualcosa di più sulle teofanie. Accanto alla voce, al suono, a volte al frastuono come accade a Mosè, le apparizioni di Dio sono accompagnate da fenomeni luminosi. Niente di straordinario, se conosciamo l’insegnamento della Cabala che definisce Dio come Aor Ein Soph (Luce Senza Limiti) o se semplicemente recitiamo il passo del Credo cristiano che dice: «Dio da Dio, Luce da Luce». Mentre però la parola di Dio può generare reverenziale timore, quello che la dottrina indica come il “timor di Dio”, la luce è più spesso un’esperienza pacificante – «Signore, è bello per noi essere qui!» (Matteo 17, 4). Nel passo in questione a rendere ancor più pacificante l’esperienza vi è poi la presenza di Mosè ed Elia, uomini noti ai discepoli, evento che può suggerirci qualcosa su una delle funzioni, seppur marginale, di quelli che nel corso della storia umana si sono fatti tramite tra la luce senza limiti e noi. 39 In dialogo con l’anno A Tempo di Quaresima – 3a domenica Letture: Esodo 17, 3-7; Romani 5, 1-2.5-8; Giovanni 4, 542. Esodo e Giovanni oggi ci parlano dell’acqua. Innanzitutto l’acqua da bere, quell’elemento fisico di cui tutti abbiamo bisogno per vivere. Mosè parlava con Dio, anzi gridava al Signore. Quando c’era qualcosa che non andava, quando non sapeva che pesci pigliare, quando gli Israeliti erano in pericolo di vita Mosè si rivolgeva al Signore. Oggi è tutto più facile: sono poche le cose che non possiamo risolvere con una telefonata, con una mail. Se abbiamo bisogno di cure chiamiamo il dottore, o l’ospedale, se abbiamo sete andiamo in un bar o al rubinetto di casa, se siamo tristi invitiamo a casa un amico, un parente, guardiamo un programma comico, conversiamo con il coniuge. Sembra facile. Ma anche oggi possiamo aver bisogno di gridare al Signore – in qualche momento, in qualche fase della nostra esistenza. Ci sono problemi che l’uomo da solo non è in grado di risolvere, oppure siamo preda di una tristezza che non passa. E allora ci ricordiamo di lui. Sì, tutto quello di cui disponiamo può essere considerato come un segno della sua grazia, della sua benevolenza, ma ci sono momenti in cui, anche oggi, si fa prepotente la nostalgia di Lui. E allora vorremmo avere bisogno di qualcosa che non abbiamo a disposizione, così, per avere una scusa per chiamarlo. E anche noi ci interroghiamo come gli Israeliti dicendo: «Il Signore è in mezzo a noi sì o no?» (Esodo 17, 7); forse non per metterlo alla prova come fecero loro, ma soltanto per sentirlo vicino. «Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: “Dammi da bere!”, tu avresti chiesto a lui ed egli ti avrebbe 40 In dialogo con l’anno A dato acqua viva» (Giovanni 4, 10). Come sempre quest’affermazione di Gesù ci aiuta a capire. Lui, in quanto Figlio di Dio, ha qualcosa di cui anche noi, oggi e in questa porzione di mondo, non disponiamo. È una cosa misteriosa, l’acqua viva, e Gesù non ne dice altro che chi ne berrà non avrà più sete, anzi, essa «diventerà in lui una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna» (Giovanni 4, 14). Un dono generoso quello di Gesù: non solo ci disseta ma ci mette nella condizione di essere latori di questo mirabile rimedio. Forse è la stessa acqua di cui sempre Giovanni parla in Apocalisse: «A chi ha sete io darò gratuitamente l’acqua della vita» (21, 6) e «Chi ha sete venga: chi vuole l’acqua che dà la vita ne beva gratuitamente» (22, 17). Forse è lo stesso elemento, l’amore, di cui parla San Paolo quando dice: «Perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Romani 5, 5). La samaritana è una donna importante, una donna a cui Gesù svela il suo essere il Messia, il Cristo mandato da Dio ed altre cose fondamentali sul Regno di Dio. «Ma viene l’ora – ed è questa – in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità» (Giovanni 4, 23) è l’annuncio dell’apertura del Tempio, del Santo dei Santi, l’inizio della Nuova Alleanza che si attuerà non in un tempo e in un luogo determinati, bensì nel qui ed ora della dimensione eterna ed onnipervasiva dello spirito e cui prenderanno parte tutti coloro che l’accetteranno. 41 In dialogo con l’anno A Tempo di Quaresima – 4a domenica Letture: Samuele 16, 1b.4.6-7.10-13; Efesini 5, 8-14; Giovanni 9, 1-41. L’episodio tratto dal Libro di Samuele in lettura oggi ci offre un bellissimo episodio della storia sacra di Israele: l’unzione a re di Davide. Il passo contiene alcuni particolari simbolici che vale la pena notare. Davide è il più piccolo di otto fratelli. Samuele prima di procedere a compiere l’opera che il Signore gli ha ordinato, passa in rassegna i sette fratelli di Davide. Come sappiamo nella Bibbia le coincidenze sono poche volte casuali. Sette è il numero dei giorni della creazione e per questo motivo è un numero che rappresenta la completezza. Sul sette poi diverse tradizioni hanno discettato, ma per noi è sufficiente ricordare che è composto da tre, la Trinità, e da quattro, i quattro elementi del creato. In Apocalisse – sette chiese, sette sigilli, sette trombe – è ulteriormente testimoniata l’importanza simbolica del numero sette. Davide è l’ottavo fratello. Se il settimo è il giorno del riposo di Dio dopo che ha creato tutto, ottavo è il giorno in cui l’uomo entra nel creato ricreato dal sacrificio espiatorio di Cristo che lo monda dal peccato originale. Ottavo è il giorno del riposo dell’uomo nel creato rinnovato. Battesimo, eucaristia, cresima, riconciliazione, matrimonio, sacerdozio, estrema unzione sono nella tradizione cattolica i sette sacramenti. Viene da chiedersi se alla luce della simbologia numerica presentata in questo passo non si possa interpretare l’unzione regale come ottavo sacramento e comunque viene da chiedersi che cosa sia rimasto oggi di questo importante atto fondativo della tradizione ebraica. Come la scorsa domenica tema importante delle letture era 42 In dialogo con l’anno A l’acqua, quest’oggi le letture mettono in luce la luce (scusate il bisticcio) e la facoltà umana – la vista – ad essa collegata. In Giovanni, come spesso accade quando il protagonista della narrazione è Gesù, si comincia a narrare qualcosa relativamente al fenomeno fisico della vista – la guarigione del cieco nato – per trarne poi un insegnamento spirituale – la vista di ciò che è giusto e di ciò che non lo è. Questo passaggio si fa chiaro nel momento in cui Gesù smette di parlare con il cieco che ha beneficato guarendogli gli occhi e scambia alcune battute con i farisei: «Alcuni farisei che erano con lui udirono queste parole e gli dissero: “Siamo ciechi anche noi?” Gesù rispose loro: “Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: “Noi vediamo”, il vostro peccato rimane”» (Giovanni 9, 40-41). Un giudizio duro quello di Gesù, che scagiona gli ignoranti di cose spirituali e condanna chi dice di sapere. Ma sapere che cosa? «Cercate di capire ciò che è gradito al Signore» dice San Paolo (Efesini 5, 10) e ancora «Comportatevi perciò come figli della luce» (Efesini 5, 8), riprendendo la metafora del vedere, e ci dice anche quali saranno i frutti del nostro agire a questo modo: «Bontà giustizia e verità sono i suoi frutti» (Efesini 5, 9). Ma forse il processo non è metaforico, bensì analogico. Di questi tempi molti fra noi hanno dimenticato che, accanto alla vista fisica che ci permette di vedere le meraviglie del creato, noi siamo dotati di una vista spirituale (metafisica) che ci permette di vedere le meraviglie del creatore. 43 In dialogo con l’anno A Tempo di Quaresima – 5a domenica Letture: Ezechiele 37, 12-14; Romani 8, 8-11; Giovanni 11, 1-45. Le tre letture di oggi hanno perfetta concordanza di tema: la resurrezione dai morti. All’uomo della strada, ma anche a quello dotato di beni d’ogni genere, questo tema risulta essere di difficile digeribilità. La morte è ancora oggi un fatto ineluttabile e necessariamente connesso con la vita umana di cui rappresenta la fine. Di resurrezione dai morti oggi non se ne parla proprio: non si sa bene perché, cioè se sia un evento che non si verifica affatto oppure se sia di scarso interesse per i media e la conversazione. Ci sono stati e ci sono alcuni pionieri in questo campo che raccontano di esperienze di premorte e di ritorno dall’aldilà, ma perlopiù sono esperienze che la medicina ha bollato come fenomeni allucinatori di pazienti in coma. Della morte oggi si parla molto – nei giornali, alla televisione, sui libri – ma della resurrezione poco: soltanto in chiesa, la domenica, si fa memoria di un uomo che – si dice – abbia sconfitto la morte con l’aiuto di Dio Padre e sia resuscitato. Certo è strano che un tema così importante per il genere umano non sia oggetto di ulteriori approfondimenti. Ma vediamo cosa dicono le Scritture. In Ezechiele il Signore è esplicito: «Ecco, io apro i vostri sepolcri, vi faccio uscire dalle vostre tombe… Farò entrare in voi il mio spirito e rivivrete» (Ezechiele 37, 12.14). Ora però dal testo non risulta chiaro se il Signore parli per metafore in cui fa riferimento ad una condizione di morte del suo popolo in quanto conduce un’esistenza priva di fede o se parli davvero della morte fisica. Se prendiamo però la parte precedente del capitolo non ci sono dubbi: «… Il soffio 44 In dialogo con l’anno A della vita entrò in quei corpi ed essi ripresero vita. Si alzarono in piedi…» (Ezechiele 37, 1-10). Più chiaro rispetto al passo di Ezechiele in lettura è anche il testo di Giovanni, in cui si parla della resurrezione di Lazzaro: qui Gesù Cristo resuscita, grazie all’intervento del Padre cui si rivolge in preghiera, l’amico Lazzaro morto e sepolto da tre giorni. In questo passo del Vangelo Gesù compie il suo miracolo più straordinario: un evento che, se accadesse oggi, c’è da aspettarsi che farebbe il giro del mondo. Ma oggi niente. Certo – insegnano ai piccoli al catechismo – Lazzaro è resuscitato ma non è diventato immortale. Quando sarà il suo momento scenderà nello sheol o salirà al Padre. Ma è pur sempre resuscitato. Quello che farà dopo Gesù è un miracolo ben più grande, come ci riferisce San Paolo: resusciterà grazie allo Spirito di Dio e «darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito» (Romani 8, 11). Certo, moriremo, ma al peccato, «ma lo Spirito è vita per la giustizia» (Romani 8, 9), o in altra traduzione «Se invece Cristo agisce in voi, voi morite, sì, a causa del peccato, ma Dio vi accoglie e il suo Spirito vi dà vita». Dunque un miracolo grande quello di Gesù, che oltre a resuscitare lui stesso, darà la vita eterna a chi avrà accolto il suo Spirito. Questa è la buona notizia che forse anche oggi, di tanto in tanto, meriterebbe un po’ di spazio sui media. 45 In dialogo con l’anno A Settimana Santa – Giovedì Santo – Messa del crisma Letture: Isaia 61, 1-3a.6a.8b-9; Apocalisse 1, 5-8; Luca 4, 16-21. Al mattino del Giovedì Santo il vescovo, insieme al suo presbiterio, celebra in cattedrale la Messa crismale, nella quale si benedicono gli oli che saranno usati anche nella veglia pasquale. Le letture di questa Messa sono incentrate su due temi importanti: lo spirito di Dio e la grazia. La grazia, come già sappiamo, corrisponde nella Cabala alla sephiroth Tipheret, tradotta anche come misericordia. È una particolare attitudine di Aor Ein Soph, Dio, che nasce dall’incontro di Hesed, l’amore e Gebourah, il giudizio. Si applica agli afflitti, ai cuori spezzati e rappresenta per essi la consolazione del Signore. Collegata direttamente con Kether, la corona, che è la sephiroth più prossima a Dio, fa dire ad Isaia: «… [Dio] mi ha mandato… a promulgare l’anno di grazia del Signore… per dare agli afflitti di Sion una corona invece della cenere». Anno di grazia che potrebbe corrispondere all’Anno Santo della tradizione cattolica. Il segno con cui si trasmette lo spirito di Dio che ci rende portatori e amministratori della grazia è l’olio santo. In questo giorno viene proprio consacrato l’olio che nella tradizione ebraica serviva a segnare i re. Davide, come abbiamo visto qualche tempo fa nel libro di Samuele, quando viene unto con l’olio dal profeta diviene pieno dello spirito di Dio (Samuele 16, 13) che d’ora innanzi lo guida. Gesù, che anche questa volta adempie come di consueto ogni giustizia, cioè segue quanto previsto dalla Legge e dai Profeti, afferma di essere consacrato con l’unzione regale e che lo spirito di Dio è con lui: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato» (Luca 4, 21). Tale 46 In dialogo con l’anno A investitura farà poi rispondere a Gesù, quando Pilato gli chiede «Sei tu il re dei Giudei?», «Tu lo dici!» (Luca 23, 3). Ma per Gesù non c’è Samuele ad ungerlo; sì, ha ricevuto il Battesimo di Giovanni, ma l’unzione regale pare che gli venga amministrata direttamente da Dio. Da diversi passi del Nuovo Testamento apprendiamo che Gesù, oltre ad essere re, è anche profeta e sacerdote: incarna cioè le tre figure più importanti che nella tradizione ebraica fungono da tramite tra Dio e il popolo. E il Battesimo cattolico, in quanto incorpora il catecumeno in Gesù, lo rende partecipe di questa triplice funzione. Coloro che si dicono cristiani sarebbe opportuno che si rendessero conto a quale dignità vengono chiamati quando si uniscono a Gesù e che si comportassero di conseguenza. D’altra parte che i veri discepoli di Gesù siano premiati anche con il sacerdozio, e di sacerdozio regale si parla, è testimoniato anche dal passo di Apocalisse (1, 5-6) in lettura oggi: «A Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre, a lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli». 47 In dialogo con l’anno A Settimana Santa – Giovedì Santo – Cena del Signore Letture: Esodo 12, 1-8.11-14; Corinzi 11, 23-26; Giovanni 13, 1-15. Nella liturgia di oggi si fa memoria della Cena del Signore. Particolare attenzione viene dedicata ad un episodio avvenuto durante la Cena: la lavanda dei piedi dei discepoli da parte di Gesù. «Se non ti laverò, non avrai parte con me» (Giovanni 13, 8), dice Gesù a Pietro, che pare non ritenere degno del Maestro un atto così umile nei suoi confronti, a sottolineare l’importanza non solo materiale del gesto. L’atto di lavare dall’Antico al Nuovo Testamento è molto importante. Le norme di purità contenute in Levitico lo raccomandano in svariate situazioni, per riacquisire la purezza necessaria a stare di fronte al Signore. Nel Nuovo Testamento lavare con l’acqua è l’atto con cui Giovanni Battista amministra il Battesimo, che monda dai peccati. Il Battesimo cristiano cancella il peccato originale, la colpa adamitica (ma non le sue conseguenze). Sembra che dal Levitico al Nuovo Testamento ci sia una passaggio di livello: dal lavaggio del corpo si passa a parlare della “pulizia” dell’anima. Anche le vesti sono considerate importanti in questa pratica igienica. Il racconto della Trasfigurazione nella narrazione di Marco riferisce: «Là, di fronte a loro, Gesù cambiò d’aspetto: i suoi abiti divennero splendenti e bianchissimi. Nessuno a questo mondo avrebbe mai potuto farli diventare così bianchi a forza di lavarli» (9, 2-3); Giovanni in Apocalisse afferma: «Beati quelli che lavano i loro abiti nel sangue dell’Agnello: essi potranno cogliere i frutti dell’albero che dà la vita e potranno entrare nella città di Dio attraverso le sue porte» (22, 14). Certo, il passo di Apocalisse, tradotto nel linguaggio della tradizione 48 In dialogo con l’anno A cattolica, può significare che solo chi beve il sangue di Cristo amministrato nel sacramento della riconciliazione può accedere all’eucaristia, ma che cosa rappresentano le vesti di cui si parla nell’episodio della Trasfigurazione? «Beato chi è sveglio e ha i suoi vestiti a portata di mano (oppure chi conserva le sue vesti, in altra traduzione)! Non gli toccherà andare in giro nudo e vergognarsi davanti alla gente», dice Giovanni in un altro passo di Apocalisse (16, 15). Tale versetto posto verso la fine della Bibbia, ne risuona un altro, altrettanto noto e riportato all’inizio del libro: «Ho udito i tuoi passi nel giardino. Ho avuto paura perché sono nudo e mi sono nascosto» (Genesi 3, 10), quando Adamo si nasconde da Dio dopo che lui ed Eva hanno mangiato il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male. Dunque cosa rappresentano le vesti? Per comprendere ciò ci può venire in aiuto la filosofia yoga. Nella filosofia yoga viene insegnata la dottrina dei kosha (in inglese sheath, in italiano guaina). Secondo tale insegnamento l’uomo è costituito da cinque kosha, cinque guaine, delle quali il corpo fisico, annamaya kosha, è solamente la più grossolana. I successivi kosha vibrano ad altre frequenze, come insegna la fisica moderna, e non sono visibili alla vista quale comunemente la intendiamo. I kosha sono disposti uno dentro l’altro, come una cipolla, e racchiudono l’essere presente in ogni uomo che si possa considerare tale. L’assenza dei kosha lascerebbe l’uomo nudo. Se i kosha fossero sette, la loro assenza potrebbe avere un collegamento con la danza della figlia di Erodiade narrata in Marco 6, 22 e nota come “la danza dei sette veli”; ma tale verità trova espressione anche nella comune allocuzione “la nuda verità”, tutt’ora presente nella nostra tradizione occidentale benché abbia ormai fatto 49 In dialogo con l’anno A dell’anatomia fisica e della mercificazione medica del corpo materiale il suo unico scopo. Non lamentiamoci troppo, però: tale processo di mercificazione sta raggiungendo pericolosamente anche le cose spirituali, come fa notare il cantante Franco Battiato quando dice «Una signora vende corpi astrali». Forse faremmo meglio ad accorrere a procurarcene uno, così che non ci tocchi di andare in giro nudi e vergognarci davanti alla gente. 50 In dialogo con l’anno A Triduo pasquale – Venerdì Santo – Passione del Signore Letture: Isaia 52, 13-53, 12; Ebrei 4, 14-16; 5, 7-9; Giovanni 18, 1-19, 42. L’atteggiamento più corretto da tenere nel momento in cui si fa memoria della morte di Gesù leggendone la Passione è il silenzio. Con lui possiamo chinare il capo e, se Dio accetta anche il nostro, consegnare lo spirito. Noi però abbiamo la fortuna di sapere che cosa è avvenuto dopo. A dire la verità anche Gesù lo sapeva, ma ciò non gli ha impedito di soffrire. I discepoli non sapevano. Benché fosse stato loro predetto, l’avevano dimenticato forse perché troppo duramente colpiti dall’evento straziante a cui assistevano. Evento straziante che comportava, accanto alle sofferenze fisiche di Gesù, una profonda sofferenza morale, spirituale. Era stato messo a morte il re dei Giudei: «Quel che ho scritto ho scritto» dice Pilato a proposito della motivazione della pena comminata riportata sulla croce (Giovanni 19, 22). Già così era una sconfitta per il popolo eletto, quindi una sconfitta di Dio. Se poi andiamo a vedere la motivazione della condanna addotta dai farisei il colpo è ancora più profondo: «Noi abbiamo una Legge e secondo Legge deve morire, perché si è fatto Figlio di Dio» (Giovanni 19, 7). Non però così grave: se non crediamo, è stato semplicemente ucciso un uomo che, secondo la legge ebraica interpretata da quei farisei, ha bestemmiato. Oggi al massimo prenderebbe una multa. Ma se crediamo è grave. Si è tentato di eliminare la presenza di Dio dal mondo e questo tentativo ha avuto successo; un successo apparente e temporaneo secondo l’ottica dell’eternità, ma ben reale secondo l’ottica storica di chi l’ha vissuto (e di chi ne fa memoria annualmente). Dio, per qualche ora, si è ritirato 51 In dialogo con l’anno A dal mondo, non fa sentire la sua voce: «Eloì, Eloì, lemà sabactàni?» (Marco 15, 34); la presenza di Gesù suo Figlio, per qualche ora, è annullata da questo mondo. Per chi crede, è la tragedia più grande che si possa immaginare: si è voluta eliminare la sostanza di Dio dal mondo con il rischio di gettarlo per sempre nelle tenebre più nere. Sì, ora «abbiamo un sommo sacerdote grande, che è passato attraverso i cieli» (Romani 4, 14); sì, ora grazie al suo sacrificio di riparazione molti sono giustificati, come dice Isaia. Ma allora… Nella narrazione dell’episodio della Passione trovano la loro radice metafisica pratiche ascetiche di diverse tradizioni: la mimesi della kenosis di Gesù, come descritta da Filippesi 2, 6-8, insegnata ai propri discepoli dai Padri della Chiesa perché si spogliassero del loro io a volte ipertrofico che li faceva vagare nel mondo in cerca di soddisfazioni effimere, la ricerca di shunyata, il vuoto, consigliata ai monaci buddhisti per fare astrazione dal mondo imbrigliato nella rete di maya, la pratica di pratyahara, uno degli otto pilastri dello yoga, che richiede il ritiro in sé dalla normale attività sensoriale che ci mette sì in comunicazione con il mondo, ma spesso ce ne rende schiavi. Grazie a una di queste pratiche saremo forse in grado di assumere il migliore atteggiamento di fronte alle sofferenze di Gesù e rispondere ad esse con quel silenzio di cui dicevamo sopra. Un silenzio pleromatico, carico di significati, che ci consenta di rimeditare quel passo in cui Gesù dice: «Questa gente malvagia e infedele a Dio vuole vedere un segno miracoloso! Ma non riceverà nessun segno, eccetto il segno del profeta Giona» (Matteo 12, 39). 52 In dialogo con l’anno A Triduo pasquale – Veglia pasquale – Risurrezione del Signore Letture: Genesi 1, 1-2, 2; Genesi 22, 1-18; Esodo 14, 1515, 1;Isaia 54, 5-14; Isaia 55, 1-11; Baruc 3, 9-15.32-4, 4; Ezechiele 36, 16-17a.18-28; Romani 6, 3-11; Matteo 28, 110. Che Dio sia un grande alchimista l’abbiamo già detto. E come tutti gli alchimisti si riserva di mantenere qualche segreto. Noi ugualmente possiamo andare ad indagare quanto opera ed ha operato ed interpretarne i segni. Dell’opera alchemica, se non siamo alchimisti come lui, sappiamo poco. Simboli e linguaggio allusivo si confondono con la realtà dell’opera. Sappiamo che le fasi sono quattro e si chiamano nigredo, albedo, citrinitas e rubedo; sappiamo che gli animali che le simboleggiano sono il corvo, il cigno, il pavone e la fenice; sappiamo che l’alchimista voleva trasformare il piombo in oro, che lavorava con sostanze quali lo zolfo, il sale, l’antimonio e il mercurio; sappiamo che voleva creare il rebis, l’androgino originario, un essere immortale. Quello che non sappiamo è come si combinano questi elementi, perché ogni alchimista è più un artista che uno scienziato e come tale ciascuno segue il suo poco sistematico sistema ed aborre la verifica di laboratorio. La grande opera è un processo anche simbolico e come tale si realizza sia su vasta scala – come ad esempio una vita – sia su scala più piccola – come ad esempio una fase, un episodio di essa. Pare essere questo il caso di Gesù: Dio, nel tenebroso mondo della nigredo privato del contatto con il cielo, ha posto un seme, un elemento vitale, una nuova sostanza; dopo varie fasi tale sostanza è morta, è stata soppressa, per poi risorgere con le 53 In dialogo con l’anno A caratteristiche dell’immortalità ed una potestà rigenerativa. Il processo dunque si può applicare all’intera vita di Gesù, magari facendo a gara nell’individuare l’inizio e la fine di ogni fase, la sua corrispondenza con gli animali simbolici, la corrispondenza con i metalli o altro. In una scala più condensata nel tempo si può individuare la grande opera nel Triduo pasquale: Gesù corvo della nigredo che urla ad un cielo che non risponde «Eloì, Eloì, lemà sbactàni?» (Marco 15, 34); Gesù cigno dell’albedo avvolto in un bianco lenzuolo con profumi e deposto nella purezza di una tomba nuova scavata nella roccia; Gesù che risorge, pavone della citrinitas, animale di cui si credeva che le carni mangiate rendessero immortali; Gesù fenice della rubedo risorta dalle proprie ceneri che si presenta ai suoi e trasmette loro il suo spirito immortale. E la potestà rigenerativa è testimoniata dalle parole di San Paolo che in Romani 6 ci spiega come nel battesimo in Cristo Gesù noi moriamo al peccato con lui per risorgere sempre con lui a vita nuova. Parole che richiamano la promessa di Dio contenuta in Ezechiele: «Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne» (36, 26). 54 In dialogo con l’anno A Triduo pasquale – Domenica di Pasqua Letture: Atti 10, 34a.37-43; Colossesi 3, 1-4; Corinzi 5, 68; Giovanni 20, 1-9. «Cioè come Dio consacrò in Spirito Santo e potenza Gesù di Nàzaret, il quale passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui» (Atti 10, 38). Con queste brevi parole Pietro riassume la vicenda terrena di Gesù. «Essi lo uccisero appendendolo a una croce, ma Dio lo ha resuscitato al terzo giorno e volle che si manifestasse, non a tutto il popolo, ma a testimoni prescelti da Dio, a noi che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti» (Atto 10, 40-41). Con queste brevi parole Pietro riassume le vicende relative alla morte e alla risurrezione di Gesù. Da un punto di vista letterario, Pietro riassume la narrazione evangelica, da un punto di vista storico Pietro riassume l’evento dell’esistenza di un personaggio importante, da un punto di vista teologico Pietro riassume l’intervento di Dio a favore dell’uomo. Ma qual è la condizione di chi resta, di chi mangia e beve «con lui dopo la sua risurrezione dai morti»? Ce lo dice San Paolo: «Voi infatti siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio! Quando Cristo, vostra vita, sarà manifestato, allora anche voi apparirete con lui nella gloria» (Colossési 3, 3-4). Questa è propriamente la condizione degli apostoli nel periodo immediatamente successivo alla sua risurrezione. C’è da chiedersi se tale condizione sia da intendersi condivisa da quanti accedono al sacramento della comunione. Perché Pietro non dice «a noi che abbiamo mangiato e bevuto con lui» nell’ultima cena, quando si dice il sacramento sia stato istituito, bensì «a noi che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua 55 In dialogo con l’anno A risurrezione dai morti». Ora la precisazione forse non ha alcun senso: è piuttosto opportuno intendere che mangiare e bere con lui dopo la sua risurrezione dai morti non sia altro che una prosecuzione in altro momento del mistero della comunione istituito il Giovedì Santo e che noi tutti, quando ci accostiamo alla comunione, non facciamo altro che mangiare e bere con lui dopo la sua risurrezione dai morti. A questo punto anche noi siamo morti «e la nostra vita è nascosta con Cristo in Dio». Ma questo cosa vuol dire? Forse un altro passo evangelico fa luce sulla nostra condizione dopo la venuta di Gesù e dopo aver mangiato e bevuto con lui risorto. Il passo, tratto dal Vangelo di Giovanni (17, 6-26), riporta la preghiera che Gesù eleva al Padre a favore dei suoi discepoli, a favore di quelli che hanno creduto e crederanno in lui, a favore di coloro che mangiando e bevendo con lui risorto sono uniti a lui: «Io non ti prego di toglierli dal mondo, ma di proteggerli dal maligno» (Giovanni 17, 15) dice Gesù; se poi confrontiamo questi due passi (Colossési 3, 3-4 e Giovanni 17, 15) con Romani 6, 2-3, la nostra condizione ci si chiarisce ulteriormente. San Paolo dice: «Noi che siamo morti al peccato, come potremo ancora vivere in esso? Vi siete dimenticati che il nostro battesimo unendoci a Cristo ci ha uniti alla sua morte?». Ora, un sofista potrebbe dire: ma è il battesimo o l’aver mangiato e bevuto con lui risorto che ci rende morti al peccato? A noi questo può interessare poco, ma c’è un’altra questione che ci pare più importante chiarire: a noi, che ci accostiamo al sacramento della comunione e mangiamo e beviamo pertanto con lui risorto, è dato anche di vederlo? 56 In dialogo con l’anno A Tempo di Pasqua – 2a domenica (o della divina Misericordia) Letture: Atti 2, 42-47;I Pietro 1, 3-9; Giovanni 20, 19-31. La riflessione precedente si è conclusa con una domanda. Il Vangelo di oggi, in un modo del tutto particolare come è tipico nella narrazione evangelica, ce ne dà la risposta. Chiedevamo: «A noi, che ci accostiamo al sacramento della comunione e mangiamo e beviamo pertanto con lui risorto, è dato anche di vederlo?» La risposta ci viene dall’episodio di Giovanni in lettura oggi. Il passo narra dell’apparizione di Gesù ai discepoli dopo che è resuscitato. Gesù porta loro i doni della pace, dello Spirito Santo e con esso della facoltà di perdonare i peccati. L’evangelista non dice come Gesù se ne vada o, meglio, come i discepoli lo lascino andare, ma parla subito dell’assenza di Tommaso e della sua incredulità nell’apprendere dagli altri discepoli che il Signore è apparso loro. Tommaso è uno che vuole le prove, che vuole toccare con mano: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo» (Giovanni 20, 25). Non è un atteggiamento che possiamo biasimare. Quanti di noi, nell’epoca della verificabilità scientifica, avrebbero fatto come lui? Quanti di noi attendono secoli per confermare un miracolo? Quanti di noi sottopongono a complicatissimi esami un telo che si dice sia stata la veste mortuaria di Gesù e poi dicono «Non mi convince, facciamo altri esami»? D’altra parte ci sono passati sulle spalle millenni di imbrogli, di false testimonianze, di falsi profeti, di simonie, di false reliquie, di verità scientifiche fasulle. No, noi certo non possiamo biasimare Tommaso; lo possiamo capire e condividere il 57 In dialogo con l’anno A suo stato d’animo. Possiamo però anche ascoltare con lui quanto gli dice Gesù quando lo rimprovera: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto» (Giovanni 20, 29). Ma come, Signore, io volevo vedere te e tu mi rimproveri? – avrà pensato Tommaso – E poi con tutti gli imbrogli che ci sono in giro dici che sono beati quelli che credono senza le prove? La reazione di Tommaso Giovanni non la racconta, ma – povero Cristo – visto che non era presente, non ha neanche ricevuto il dono della pace, dello Spirito Santo e della facoltà di perdonare i peccati? Un gramo destino il suo, tanto che la tradizione lo vuole partito per l’India (magari ad aprirsi il terzo occhio, per vederci chiaro). E quanti di noi se ne sono andati in India perché hanno ricevuto una risposta che hanno reputato sbagliata, perché non hanno trovato le prove, perché non hanno avuto il regalo? Ma, niente paura, la tradizione vuole Tommaso in India ad annunciare Cristo risorto. Fino a lì! Allora forse ha capito cosa intendeva Gesù e non se ne è partito deluso, ma gioioso. E poi i doni li avrà ricevuti anche lui, no? Giovanni infatti continua: «Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro» (20, 30), e forse, alcuni di essi, hanno riguardato, stavolta sì, anche Tommaso. E forse, alcuni di essi, riguardano anche noi oggi, così da metterci nella condizione descritta da San Pietro quando dice: «Perciò siete ricolmi di gioia, anche se ora dovete essere, per un po’ di tempo, afflitti da varie prove, affinché la vostra fede, messa alla prova, molto più preziosa dell’oro – destinato a perire e tuttavia purificato con fuoco –, torni a vostra lode, gloria e onore quando Gesù Cristo si manifesterà» (I Pietro 1, 6-7). 58 In dialogo con l’anno A Tempo di Pasqua – 3a domenica Letture: Atti 2, 14.22-33;I Pietro 1, 17-21;Luca 24, 13-35. Gli episodi del Nuovo Testamento – abbiamo visto – fanno spesso riferimento a quanto scritto nell’Antico. A volte tale riferimento è implicito, a volte viene esplicitato. Nelle letture di oggi il riferimento è chiaro, esplicito, calzante. Luca negli Atti, nello spiegare la vicenda umana e sovrumana di Gesù, si serve del Salmo 15/16 mostrando come la figura del Maestro abbia collimato perfettamente con quanto qui detto da Davide. Sempre Luca, nell’episodio dei discepoli di Emmaus contenuto nel suo Vangelo, riporta le seguenti parole di Gesù in risposta allo stato di confusione in cui i due si trovavano dopo la sua condanna a morte ed esecuzione: «Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti! Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?» (Luca 24, 25-26). E poi Luca aggiunge: «E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui» (Luca 24, 27). Dunque troviamo un esplicito riferimento ai due pilastri della fede ebraica, la Legge e i Profeti, di cui si afferma il compimento nella vicenda terrena di Gesù. D’altra parte lui stesso l’aveva detto chiaramente: «Non dovete pensare che io sia venuto ad abolire la legge di Mosè e l’insegnamento dei profeti. Io non sono venuto per abolirla ma per compierla in modo perfetto» (Matteo 5, 17). E in aggiunta ammonisce: «Perché vi assicuro che fino a quando ci sarà il cielo e la terra, nemmeno la più piccola parola, anzi nemmeno una virgola, sarà cancellata dalla legge di Dio; e così fino a quando tutto non sarà compiuto» (Matteo 5, 18). Tale concetto poi è espresso anche chiaramente dallo stesso 59 In dialogo con l’anno A Luca, dove Gesù dice: «È più facile che finiscano il cielo e la terra, piuttosto che cada anche la più piccola parola della legge di Dio» (Luca 16, 17). E nuovamente in Matteo c’è un ammonimento ulteriore: «Perciò, chi disobbedisce al più piccolo dei comandamenti e insegna agli altri a fare come lui, sarà il più piccolo nel regno di Dio. Chi invece mette in pratica tutti i comandamenti e li insegna agli altri, sarà grande nel regno di Dio. Una cosa è certa: se non fate la volontà di Dio più seriamente di come fanno i farisei e i maestri della legge, voi non entrerete nel regno di Dio» (Matteo 5, 19-20). Risulta chiaro da queste parole che la sequela di Gesù è un compito molto impegnativo. Quanta fatica mettiamo oggi a seguire “semplicemente” i dieci comandamenti. Quanti sedicenti maestri ci hanno insegnato che questo non occorre, che quello va interpretato, che quell’altro va rivisto alla luce della moderna scienza storica. Forse in questi insegnamenti c’è qualcosa di vero, forse lo Spirito ci guida verso un affrancamento da leggi a volte troppo difficili da seguire. E poi per fortuna Gesù ci ha fornito anche una guida sulla maggiore o minore importanza di un comandamento sull’altro, sul loro radicamento reciproco aiutandoci a orientarci (Matteo 22, 36-40). Alla domanda «Maestro, qual è il più grande comandamento della legge?» infatti egli risponde: «Ama il Signore, tuo Dio, con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente»; e prosegue: «Il secondo è ugualmente importante: Ama il tuo prossimo come te stesso». E infine suggella quanto detto affermando: «Tutta la legge di Mosè e tutto l’insegnamento dei profeti dipendono da questi due comandamenti». Dunque niente paura: anche se non siamo rabbini e non conosciamo tutta la legge e i profeti, anche se siamo uomini d’oggi figli di 60 In dialogo con l’anno A una scienza che tutto dubita e tutto verifica, anche se non siamo sacerdoti con una via preferenziale a tutto ciò che concerne Dio e il sacro, anche se non cogliamo le sottigliezze della retorica giuridica, possiamo mettere in pratica questi due comandamenti; e – ci assicura Gesù – siamo già sulla buona strada. 61 In dialogo con l’anno A Tempo di Pasqua – 4a domenica Letture: Atti 2, 14a.36-41;I Pietro 1, 20b-25;Giovanni 10, 1-10. Le parabole di Gesù, insieme con la loro spiegazione, spesso presentano delle apparenti aporìe, delle incongruenze. Nella narrazione di oggi (Giovanni 10, 1-5) – la parabola del pastore – egli paragona il gruppo dei fedeli ad un gregge di pecore, chiuse in un recinto, che seguono il pastore di cui riconoscono la voce. Nella spiegazione che segue (Giovanni 10, 7-10) Gesù dichiara di essere la porta delle pecore e che chi non è entrato nel recinto attraverso di lui era un bandito. Fino a qui – apparentemente – tutto chiaro. Se però proseguiamo nella lettura troviamo l’affermazione: «Io sono il buon pastore» (Giovanni 10, 11). E allora? Come può essere Gesù la porta del recinto e al contempo il buon pastore? Cosa significa questa doppia identificazione? E chi erano i pastori nella prima spiegazione? «E le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce» (Giovanni 10, 4). Come abbiamo già visto nella narrazione evangelica il senso della vista ha un significato molto rilevante. Gesù guarisce i ciechi, Gesù afferma di essere venuto a donare la vista (spirituale) a chi non ce l’ha, Gesù ammonisce i farisei che dicono di vedere. Anche l’udito però è importante. Quando Giovanni Battista manda i suoi discepoli ad interrogarlo per sapere se è lui il Messia, Gesù risponde: «Andate a raccontargli quel che udite e vedete: i ciechi vedono, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono risanati, i sordi odono, i morti risorgono e la salvezza viene annunziata ai poveri» (Matteo 11, 4-5). Di nuovo, assieme ad altre cose, l’udito. E, come accade per la vista, a volte si 62 In dialogo con l’anno A tratta del senso dell’udito come tutti lo intendiamo, a volte si tratta di un udito più affinato, più spirituale. In Marco 7 (31-37) viene narrata la guarigione di un uomo che era sordomuto: «Allora Gesù lo prese da parte, lontano dalla folla, gli mise le dita negli orecchi, sputò e gli toccò la lingua con la saliva. Poi alzò gli occhi al cielo e disse a quell’uomo: “Effatà!”, che significa: “Apriti!” Subito le sue orecchie si aprirono, la sua lingua si sciolse ed egli si mise a parlare molto bene». Questo uomo sordo esemplifica molto bene la condizione delle pecore nel recinto di cui si parla nella parabola riportata da Giovanni: le pecore sono sorde alla voce di chi non è il vero pastore, di chi non ne difende la vita a costo della propria, ma – come quelle del sordomuto – sono ben aperte all’“Effatà” di Gesù. Ed è ciò di cui parla anche Pietro nella sua lettera quando dice «A questo siete stati chiamati» (I Pietro 2, 21). Gesù ci chiama – per nome, come le pecore – e a noi è dato di guarire come il sordomuto, aprire le nostre orecchie al suo richiamo e seguirne le orme: «Egli non commise peccato e non si trovò inganno sulla sua bocca; insultato, non rispondeva con insulti, maltrattato, non minacciava vendetta, ma si affidava a colui che giudica con giustizia» (I Pietro 2, 21-23). Possiamo quindi dirci fortunati: anche se in qualche occasione il nostro udito, o forse qualcun altro, ci inganna, grazie alle Scritture abbiamo le indicazioni precise di come comportarci; e in più siamo protetti da una porta che è garanzia della bontà di chi l’attraversa; e in più abbiamo un pastore disposto anche a morire pur di proteggerci. Non è abbastanza? Dice infatti ancora Pietro: «Eravate erranti come pecore disperse, ma ora siete stati ricondotti al pastore e custode delle vostre anime» (I Pietro 2, 25). 63 In dialogo con l’anno A Tempo di Pasqua – 5a domenica Letture: Atti 6, 1-7;I Pietro 2, 4-9;Giovanni 14, 1-12. «In verità, in verità io vi dico: chi crede in me, anch’egli compirà le opere che io compio e ne compirà di più grandi di queste, perché io vado al Padre» (Giovanni 14, 12). Le parole di Gesù sono chiare, precise. Poi prosegue: «E tutto quello che domanderete nel mio nome, io lo farò, perché la gloria del Padre sia manifestata nel Figlio. Se mi chiederete qualcosa nel mio nome, io lo farò» (Giovanni 14, 13). Una promessa importante, quella di Gesù, senza mezzi termini. Tali parole, come spesso accade con l’eloquente parola di Gesù, ci lasciano a bocca aperta. Poi vengono le domande, anche sciocche, anche infantili. Ma proprio tutto? Potrò anch’io fare miracoli, guarire malattie, scacciare i demoni, risuscitare i morti? Ma se io domando nel suo nome di vincere la lotteria, lui esaudirà anche questo? Ma se chiedo nel suo nome di fare del male al mio nemico, lui esaudirà anche questo? Sorge allora la domanda delle domande: che cosa è giusto domandare? che cosa è giusto fare? E come rispondere a queste questioni di capitale importanza? Forse facendo atto di umiltà e considerando che tali parole erano rivolte agli apostoli – e noi cosa c’entriamo? Forse facendo riferimento alla nostra esperienza personale dell’amicizia che ci indica cosa chiedere e cosa non chiedere a un amico. O cosa ci fa piacere e cosa non ci fa piacere che un amico ci chieda. Forse seguendo le dolci ispirazioni che lo Spirito, così largamente effuso da lui e dal Padre, ci manda. Forse indagando ulteriormente le Scritture, il Vangelo stesso per cercare di capire qual è la linea di comportamento di Gesù, che cosa ci indica con le sue azioni miracolose, che cos’è la giustizia che lui insegna. Se riflettiamo su frasi come 64 In dialogo con l’anno A «Lascia fare per ora, perché così ci conviene adempiere ogni giustizia» (Matteo 3, 15) e «Non rendete triste lo Spirito Santo che Dio ha messo in voi come un sigillo» (Efesini 4, 30) forse possiamo trovare la strada giusta. Ma il Vangelo di oggi non ci dice solo questo. Gesù affronta direttamente la questione della sua comunione con il Padre. «Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me?» (Giovanni 14, 10), domanda a Filippo che gli chiede di mostrare il Padre. La questione è fondamentale: la sua figliolanza con il Padre gli costerà la vita – «Noi abbiamo la nostra legge: secondo la legge dev’essere condannato a morte, perché ha detto di essere il Figlio di Dio» (Giovanni 19, 7) –, ma è al contempo la garanzia della sua risurrezione. E di questa unità con il Padre Gesù non ne fa un tesoro custodito gelosamente, bensì lo vuole condividere con i suoi discepoli e con chi crede in lui. Più avanti infatti afferma: «In quel giorno conoscerete che io vivo unito al Padre, e voi siete uniti a me e io a voi» (Giovanni 14, 20). Una promessa che, come se non bastasse, va ben oltre a quella di esaudire le nostre domande che faremo nel suo nome. E se non bastasse ancora, anche se di più non è possibile, possiamo ancora riflettere su cosa vuole significare Pietro quando dice a coloro che hanno creduto in Gesù: «Voi invece siete stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere ammirevoli di lui, vi ha chiamato dalle tenebre alla luce meravigliosa» (I Pietro 2, 9). 65 In dialogo con l’anno A Tempo di Pasqua – 6a domenica Letture: Atti 8, 5-8.14-17;I Pietro 3, 15-18;Giovanni 14, 15-21. Il Vangelo di questa domenica è la prosecuzione della settimana precedente. Gesù continua a rivelare il suo rapporto di identità con il Padre ed a spiegare che cosa questo comporti. «E io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito (lett. “volto appresso” dal greco, per estensione “consolatore”) perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito della verità, che il mondo non può ricevere perché non lo vede e non lo conosce» (Giovanni 14, 16-17). La terza persona della Trinità, di cui si occupa la branca della teologia che si chiama pneumatologia, viene qui introdotta da Gesù. Chi è addentro al dialogo ecumenico tra le chiese cristiane sa che la dottrina cattolica e quella ortodossa differiscono su un punto che qui viene trattato da Gesù. Per gli ortodossi lo Spirito procede solo dal Padre, per i cattolici lo Spirito procede dal Padre e dal Figlio. Nel passo di Giovanni citato Gesù sembra dare ragione agli ortodossi (dice infatti che sarà il Padre a dare lo Spirito). Secondo la tradizione cristiana lo Spirito Santo è septiforme: sapienza, intelletto, consiglio, fortezza, scienza, pietà, timore di Dio sono i suoi sette doni o le sue sette manifestazioni. La tradizione ebraica, da cui sicuramente Gesù ne trae il significato, lo chiama ruach haQodesh e lo identifica con la potenza divina che riempie i profeti. C’è da chiedersi anche se non sia lo stesso spirito di cui si parla nel Libro della Sapienza. Questo libro della Bibbia, che come abbiamo ricordato precedentemente fa parte del gruppo di testi definiti “Deuterocanonici”, informa che il suo autore è il re Salomone, che regnò su Israele dal 972 al 933 a. C.; la 66 In dialogo con l’anno A critica storica invece ci informa che è stato scritto in Egitto in lingua greca tra il 50 e il 30 a. C. e che tenta un non facile connubio tra religione ebraica e cultura greca. L’autore comunque lo propone come un approfondimento del passo di I Re 5, 15 in cui si narra il sogno in cui il re Salomone ha chiesto e ricevuto in dono da Dio la sapienza: «Dammi la saggezza necessaria per amministrare la giustizia tra il popolo e per distinguere il bene dal male», chiede Salomone (I Re 2, 9); e il Signore, compiaciuto della saggezza della richiesta di Salomone, risponde: «Farò come hai detto, anzi ti darò tanta sapienza e intelligenza, come nessuno ne ha mai avute e mai potrà averne» (I Re 2, 1112). La trattazione del Libro della Sapienza, noto anche come Sapienza di Salomone per l’appunto, contiene delle descrizioni molto poetiche di questo straordinario dono: «La sapienza è uno spirito intelligente e santo, unico nel suo genere e interiormente ricco, sottile, agile e penetrante, limpido e senza macchia; benevolo, amante del bene e pronto ad agire, spontaneo, generoso e amico dell’uomo, sicuro, stabile e tranquillo, onnipotente e capace di controllare tutto, di arrivare al cuore di ogni persona intelligente, è puro e fine» (Sapienza 7, 22-23). Se ancora osserviamo l’insegnamento della Cabala troviamo che alcune caratteristiche sono presenti nelle sephiroth, le potenze, gli aspetti di Dio, Aor Ein Soph, nel suo manifestarsi: lì ci sono la sapienza, Hochmah, definita come conoscenza di Dio, l’intelligenza, Binah, definita come conoscenza del mondo, il giudizio, Gebourah, definita come discrimine tra ciò che è giusto e ciò che non lo è. Tracciare un quadro sinottico di ciò che le diverse tradizioni – cristiana, greca, ebraica veterotestamentaria, ebraica cabalistica – hanno detto di questo dono è 67 In dialogo con l’anno A un’impresa che esula dalle possibilità di questa riflessione, come circoscrivere in un sistema logico l’inesauribile dono dello Spirito. Quello che forse è dato di fare è ammirarne il suo manifestarsi nelle Scritture, nella storia e nella vita quotidiana, senza dimenticare come proprio la sua manifestazione abbia suscitato nei non credenti delle perplessità: «Altri invece ridevano e dicevano: “Sono completamente ubriachi”» (Atti 2, 13) ci racconta Luca, descrivendo le reazioni di alcuni fra quelli che erano presenti dopo la discesa dello Spirito Santo sugli apostoli. Noi possiamo dire: «Ben venga questa salutare ebbrezza che nella storia sacra ha ispirato santi, profeti e re». 68 In dialogo con l’anno A Tempo di Pasqua – 7a domenica – Ascensione del Signore Letture: Atti 1, 1-11;Efesini 1, 17-23;Matteo 28, 16-20. Il racconto del commiato di Gesù dai discepoli dopo che è risorto e si è fatto vedere da loro è leggermente differente nei quattro Vangeli. Marco e Luca concordano sul fatto che Gesù ad un certo punto ascende al cielo. Matteo non menziona il fatto e Giovanni sottintende una generica dipartita di Gesù. Riferendosi a Giovanni, dice infatti a Pietro: «Se voglio che lui viva fino al mio ritorno, che t’importa?» (Giovanni 21, 22). Il precedente dialogo con Pietro, durante il quale lo esorta a prendersi cura delle sue pecore, sembra anche sottintendere che Gesù se ne andrà. Rimane ancora misterioso il significato delle parole che Gesù rivolge a Pietro dopo quelle già citate: «Se voglio che lui viva fino al mio ritorno, che t’importa? Tu, seguimi!» (Giovanni 21, 22). Sorge una domanda: come può Pietro contemporaneamente prendersi cura delle pecore che Gesù gli affida e contemporaneamente seguire Gesù? O si tratta di un “seguimi” teorico, simbolico nel senso che Gesù lo esorta a seguire il suo insegnamento? Il racconto dell’Ascensione di Gesù per fortuna è conservato e raccontato per esteso dal passo di Atti in lettura oggi. Luca non si dilunga in particolari nel narrare questo evento, particolari che senz’altro appagherebbero una certa curiosità dei credenti che lo leggono. «Detto questo, mentre lo guardavano fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi» (Atti 1, 9), dice lapidariamente. Poi c’è l’apparizione di due uomini in bianche vesti che rassicurano gli apostoli: «Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete 69 In dialogo con l’anno A visto andare in cielo» (Atti 1, 11). Dall’esperienza successiva dei santi, ma anche da quella precedente di alcuni tra i profeti, noi apprendiamo che è possibile andare in estasi, cioè elevare la propria anima – e la propria mente – ad altezze, usando la metafora spaziale, che ci consentono di collegarci con esseri spirituali a noi superiori – di poco, dice infatti il salmista «L’hai fatto di poco inferiore agli angeli» (Salmi 8) –, oppure a Gesù, oppure ancora a Dio stesso. Quest’elevazione, per quanto concerne i mistici della tradizione cristiana, è un particolare stato dell’anima che si trova coinvolta in dolci conversazioni ed in un oceano di luce e di quiete. Sì, esso può essere accompagnato da segni fisici, ma sempre di stato dell’anima si tratta. Il corpo rimane dov’è, non si stacca da terra per ascendere al cielo. L’estasi mistica quindi può avere nell’Ascensione un riferimento simbolico, ma non può identificarsi con essa, a parte quando è accompagnata da fenomeni di levitazione. Tali fenomeni, qualora se ne avessero prove certe, si limitano comunque ad un temporaneo distacco del corpo da terra e non sono quindi Ascensioni vere e proprie quale quella di Gesù, morto, risorto e, per l’appunto, asceso al cielo. Che cosa l’Ascensione di Gesù comporti ed abbia di diverso ad esempio da quella di Elia ce lo dice San Paolo: «Egli la manifestò [la sua potenza] in Cristo, quando lo resuscitò dai morti e lo fece sedere alla sua destra nei cieli, al di sopra di ogni Principato e Potenza, al di sopra di ogni Forza e Dominazione e di ogni nome che viene nominato non solo nel tempo presente ma anche in quello futuro» (Efesini 1, 20-21). Certo questo passo, anche in considerazione dell’accento sull’importanza del nome che Paolo da buon ebreo sottolinea, andrebbe ulteriormente interpretato, ma 70 In dialogo con l’anno A nella festività di oggi è già importante che ci dica che cosa ne è stato di Gesù dopo che «una nube lo sottrasse ai loro occhi». 71 In dialogo con l’anno A Tempo di Pasqua – 7a domenica Letture: Atti 1, 12-14;I Pietro 4, 13-16;Giovanni 17, 1-11a. La prima lettura di oggi ci dà delle informazioni preziose sulla vita dei discepoli di Gesù dopo l’Ascensione. La prima comunità è formata dagli undici apostoli rimasti dopo la morte di Giuda, da Maria e dai fratelli di Gesù e da alcune altre donne. Sono rimasti relativamente pochi i discepoli, a fronte dell’acclamazione di popolo avvenuta nel giorno delle palme, ma significativamente la comunità ha resistito alla disgrazia che ne ha colpito il capo e maestro. Ha resistito ed è stata premiata con la sua risurrezione, l’evento più straordinario che potesse aspettarsi. Il testo dice che i discepoli di Gesù «erano perseveranti e concordi nella preghiera» (Atti 1, 14). Chi ancora oggi si ispira al modello delle prime comunità può fare riferimento a queste parole per improntare il suo operato, mantenendosi costante in una preghiera concorde. Il testo ci fornisce anche un’altra notazione interessante. Dice infatti: «Gli apostoli ritornarono a Gerusalemme dal monte detto degli Ulivi, che è vicino a Gerusalemme quanto il cammino permesso in giorno di sabato» (Atti 1, 12). Una maggiore attenzione a queste parole, che ci forniscono un’osservazione apparentemente secondaria, fa sollevare delle domande. I versetti precedenti del capitolo di Atti ci informano che Gesù è rimasto con i discepoli per quaranta giorni dopo la sua risurrezione e poi è asceso al cielo. L’Ascensione è avvenuta in giorno di sabato? I discepoli continuano ad essere rispettosi delle norme previste dalla legge ebraica e non percorrono una strada più lunga di quanto è permesso fare in giorno di sabato? Oppure Luca ci dà semplicemente un’informazione sulla 72 In dialogo con l’anno A distanza percorsa dai discepoli? Il testo, nella traduzione utilizzata dalla liturgia cattolica, lascia spazio ad entrambe le interpretazioni. Se vi fosse una risposta affermativa alle prime due domande formulate, sarebbe interessante notare come l’evento dell’Ascensione assuma un’importanza che lo avvicina all’evento della risurrezione, anch’essa avvenuta in giorno di sabato. Sarebbe poi interessante considerare come i discepoli siano radicati nella legge tanto da continuare ad osservarla anche dopo che i suoi rappresentanti ufficiali li hanno così duramente colpiti mettendo a morte il loro maestro. Ma la gioia per la risurrezione di Gesù è grande e ciò può forse aver fatto superare qualunque insulto subito precedentemente e rimettere in pace il cuore con una tradizione che nell’evento della Passione e morte di Gesù sembrava morta anch’essa. Scrive infatti Pietro: «Carissimi, nella misura in cui partecipate alle sofferenze di Cristo, rallegratevi perché anche nella rivelazione della sua gloria possiate rallegrarvi ed esultare» (I Pietro 4, 13). Il passo di Atti ci fornisce un’ulteriore informazione: «Tutti questi [gli apostoli] erano perseveranti e concordi nella preghiera, insieme ad alcune donne e a Maria, la madre di Gesù, e ai fratelli di lui» (Atti 1, 14). L’informazione però non è approfondita. Per secoli ci si è chiesti chi erano questi fratelli. Maria ha forse dato alla luce altri figli dopo Gesù? Giuseppe ha avuto altre mogli con cui ha generato? O forse si tratta di cugini, figli di fratelli o sorelle di Maria o di Giuseppe, definiti genericamente fratelli? O forse ancora sono suoi conterranei, amici di infanzia, compagni di studi con cui Gesù ha mantenuto un rapporto di fratellanza spirituale? Sulla croce prima di morire Gesù dice a Maria riferendosi all’apostolo Giovanni «Donna, ecco tuo figlio» 73 In dialogo con l’anno A (Giovanni 19, 26) e a Giovanni «Ecco tua madre» (Giovanni 19, 27). Forse anche qui si tratta di una parentela spirituale acquisita di questo tipo? Il testo di Atti a queste domande non fornisce una risposta. 74 In dialogo con l’anno A Tempo di Pasqua – Pentecoste – Messa vespertina della vigilia Letture: Genesi 11, 1-9;Esodo 19, 3-8a.16-20b;Ezechiele 37, 1-14; Gioele 3, 1-5; Romani 8, 22-27; Giovanni 7, 3739. La Messa vespertina della vigilia è una liturgia di preparazione alla solennità di Pentecoste. I passi in lettura riguardano tutti la promessa dello Spirito o la sua manifestazione nella legge e nei profeti. La liturgia propone come prima lettura i testi di Genesi, Esodo, Ezechiele, o Gioele. I primi due narrano rispettivamente dell’intervento di Dio contro l’uomo a Babele e della parola di Dio rivolta a Mosè sul monte Sinai; Ezechiele e Gioele sono più specificamente pneumatologici e raccontano rispettivamente l’operato dello Spirito su delle ossa morte e la promessa e gli esiti dell’effusione dello Spirito sul popolo eletto. Il testo di Genesi può apparire fuori tema, ma in realtà è collegato strettamente al racconto della Pentecoste cristiana contenuto in Atti 2, 1-11 che si legge domenica. Qui si narra di come Dio ha confuso le lingue degli uomini per impedire loro di acquisire un potere tale da poter fare a meno di lui, là si riporta come il primo effetto della discesa dello Spirito Santo sugli apostoli sia stata la loro capacità di esprimersi in lingue sconosciute e rendere perciò accessibile a tutti il messaggio del Vangelo. Anche il testo di Esodo può apparire fuori tema. In realtà il collegamento è più sottile: come sul Sinai Dio ha contratto la sua alleanza con il popolo eletto comunicandola a Mosè, così nel giorno di Pentecoste Dio, tramite lo Spirito Santo, contrae una nuova alleanza con quanti seguono l’insegnamento di Gesù e credono in lui. In Ezechiele è 75 In dialogo con l’anno A testimoniata la potenza dell’opera dello Spirito di Dio che fa risuscitare i morti dopo averne riunito i resti sparsi. Anche questo testo si collega idealmente alla festività della Pentecoste cristiana: lo Spirito Santo infatti esercita anche la funzione di unificatore delle pecore del gregge dapprima disperse, donando loro nuova vita. In Gioele è contenuta la promessa dell’effusione dello Spirito sul popolo che, per i cristiani, trova attuazione proprio nel giorno di Pentecoste. Ne sono elencati alcuni effetti: «… diventeranno profeti… faranno sogni… avranno visioni» (Gioele 3, 1). Il passo, assieme a quanto riferito nella seconda lettura e nel Vangelo, contribuisce ad offrire un quadro delle manifestazioni dello Spirito. In Romani si legge infatti: «… lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza… lo Spirito stesso intercede con gemiti inesprimibili … intercede per i santi secondo i disegni di Dio» (Romani 8, 26-27); in Giovanni Gesù dice dello Spirito: «Se qualcuno ha sete, venga a me, e beva chi crede in me. Come dice la Scrittura: dal suo grembo sgorgheranno fiumi d’acqua viva» (Giovanni 7, 37-38). Ce ne sono di cose da dire dello Spirito e senz’altro vi sono anche altri passi nelle Scritture che ne descrivono estesamente caratteristiche ed operato. La dottrina successiva elaborata in ambito cristiano ne ha ulteriormente definito la fisionomia. Ma le letture di oggi ne hanno già dato una descrizione esauriente: lo Spirito provoca sogni e visioni, forma i profeti, ci assiste quando siamo deboli nella fede, intercede per noi, ricompone la deflagrazione delle lingue, ristabilisce la nostra alleanza con Dio, fa sgorgare dal nostro grembo fiumi d’acqua viva, risuscita i morti. Per oggi, pensiamo sia abbastanza. 76 In dialogo con l’anno A Tempo di Pasqua – Domenica di Pentecoste – Messa del giorno Letture: Atti 2, 1-11;I Corinzi12, 3b-7.12-13, 22-27; Giovanni 20, 19-23. Il racconto della Pentecoste giovannea differisce da quella di Atti. L’evento qui ha luogo nello stesso giorno della risurrezione di Cristo, la sera. Nella polemica tra ortodossi e cattolici sulla processione dello Spirito Santo di cui abbiamo già parlato, il racconto di Giovanni sembra dare ragione ai cattolici. Qui infatti è Gesù a soffiare lo Spirito Santo sugli apostoli. Le letture di oggi nel loro complesso approfondiscono, rispetto a quanto abbiamo visto per la Messa della vigilia, la conoscenza delle caratteristiche e dell’operare dello Spirito Santo. Dalle parole di Gesù apprendiamo che gli apostoli, dopo aver ricevuto lo Spirito, possono perdonare i peccati. Ma c’è di più: nel caso essi non perdonino, i peccati non saranno perdonati. Gli apostoli diventano amministratori della grazia santificante e quindi cooperatori del Figlio. Paolo dice che «Nessuno può dire: “Gesù è Signore!” Se non sotto l’azione dello Spirito Santo» (I Corinzi 12, 3b). Ci testimonia anche l’unità dello Spirito che opera donando diversi carismi e riportando all’unità in Cristo e in Dio. Nei versetti omessi dalla liturgia Paolo approfondisce ulteriormente e specifica quali sono questi diversi carismi: «Uno riceve dallo Spirito la capacità di esprimersi con saggezza, un altro quella di parlare con sapienza. Lo stesso Spirito a uno dà la fede, a un altro il potere di guarire i malati. Lo Spirito concede a uno la possibilità di fare miracoli, e a un altro il dono di essere profeta. A questi dà la capacità di distinguere i falsi spiriti 77 In dialogo con l’anno A dal vero Spirito, a quello il dono di esprimersi in lingue sconosciute, e a quell’altro ancora il dono di spiegare tali lingue» (I Corinzi 12, 8-10). È un elenco molto interessante come è interessante notare che cosa manca e quindi non è da considerarsi un dono desiderabile: non c’è la capacità retorica di dimostrare di aver ragione quando si ha torto, non c’è la possibilità di dominare sugli altri uomini senza averne l’autorità, non c’è la capacità di far ammalare i sani, non c’è la possibilità di vivere etsi deus non daretur, e così via. Per quanto riguarda il testo di Atti ne abbiamo già accennato nel commento alla Messa della Vigilia: appare opportuno rimarcare che lì è testimoniata la ricomposizione della rottura dell’alleanza tra l’uomo e Dio avvenuta ai tempi di Babele: come nell’allora dei tempi antichi Dio è intervenuto a confondere le lingue («Andiamo a confondere la loro lingua: così non potranno più capirsi tra loro» dice Dio in Genesi 11, 7), nell’oggi della Pentecoste cristiana Dio interviene a risanare la deflagrazione linguistica dando agli apostoli il dono di annunciare Gesù a ciascuna gente nella sua lingua. Il dono di parlare in lingue assume qui il significato del ristabilimento dell’amicizia tra l’uomo, o meglio gli apostoli che hanno creduto nel Figlio, e Dio stesso. Accanto alla manifestazione dello Spirito nei credenti cui elargisce i suoi doni, possiamo ammirare nel testo di Atti come lo Spirito si manifesta “fisicamente”: «Venne all’improvviso un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso» (Atti 2, 2). E ancora: «Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro» (Atti 2, 3). Una presenza misteriosa e miracolosa quella dello Spirito, unitaria e multiforme, palpabile e impalpabile. Gesù crediamo di conoscerlo, e poi si è fatto 78 In dialogo con l’anno A vedere in forma umana, a Dio, anche se nessuno lo può vedere senza morire, abbiamo imparato a conoscerlo per lo meno dalle parole di coloro cui lui ha parlato; ma lo Spirito appare più imprendibile dal nostro comune modo di vedere le cose, «soffia dove vuole» (Giovanni 3, 8). Ed è anche fonte di reverenziale timore, quando leggiamo il monito di Gesù: «Chi avrà bestemmiato lo Spirito Santo, non sarà mai perdonato» (Marco 3, 29). 79 In dialogo con l’anno A Tempo ordinario – 2a domenica Letture: Isaia 49, 3.5-6; I Corinzi 1, 1-3; Giovanni 1, 2934. La liturgia della parola di oggi torna sui canti del Servo di Javhè. Come già detto i canti sono quattro (Isaia 42, 1-4; 49, 1-6; 40, 4-9; 52, 13-53, 12). Come gli altri, quello in lettura oggi può essere riferito sia a Ciro, re dei Persiani, che nel 538 a. C. autorizza i deportati ebrei a ritornare in patria e a costruire il tempio, sia, nell’interpretazione cristiana dei Profeti, a Gesù. Dice infatti Dio: «È troppo poco che tu sia mio servo per restaurare le tribù di Giacobbe e ricondurre i superstiti d’Israele. Io ti renderò luce delle nazioni, perché porti la mia salvezza all’estremità della terra» (Isaia 49, 6). Certo, Ciro ha anche costruito un grande impero in cui pare fossero rispettate religione e istituzioni dei popoli assoggettati, ma l’epiteto “luce delle nazioni” è perfetto per definire Gesù. È vero che Gesù ha detto: «Non andate fra gente straniera e non entrate nelle città della Samaria. Andate invece fra la gente smarrita del popolo d’Israele» (Matteo 10, 5-6), ma nella conclusione del Vangelo di Marco (16, 20) sta anche scritto: «Allora i discepoli partirono per andare a portare dappertutto il messaggio del Vangelo»; e in Matteo (28, 18-19): «Gesù si avvicinò e disse: “A me è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Perciò andate, fate diventare miei discepoli tutti gli uomini del mondo”» . La seconda lettura è tratta dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi. I primi versetti della lettera sono un semplice saluto alla comunità di Corinto, ma già in esso vi sono degli elementi degni di nota. La chiamata di Paolo cui fa riferimento quando dice «Paolo, chiamato a essere 80 In dialogo con l’anno A apostolo di Cristo Gesù per volontà di Dio» (I Corinzi 1, 1) la conosciamo da Atti 9. Lì Gesù, forse con un intento punitivo, fa un miracolo al contrario, rendendo Saulo-Paolo cieco per un determinato lasso di tempo. Qui cattura l’attenzione la definizione che viene data dei membri della comunità cui viene indirizzato il saluto. Dice infatti Paolo: «… a coloro che sono stati santificati in Cristo Gesù, santi per chiamata, insieme a tutti quelli che in ogni luogo invocano il nome del Signore nostro Gesù Cristo» (I Corinzi 1, 2). La definizione, che potrebbe essere estesa a tutti i fedeli, ci dice cose importanti sullo status dei cristiani. “Santi per chiamata” indica una condizione di privilegio spirituale acquisita non per meriti propri ma per grazia divina, per elezione. Dalla lettura dei Profeti apprendiamo le modalità con cui opera il Signore. Sceglie un uomo e lo prende al suo servizio. Gli elementi che concorrono alla scelta sono, il più delle volte, a noi misteriosi. «Quel che vede l’uomo non conta: l’uomo guarda l’apparenza, ma il Signore guarda il cuore» (I Samuele 16, 7) dice Dio a Samuele quando lo manda a ungere re Davide. Certo, tali affermazioni sono alla base delle polemiche, che hanno diviso cattolici e riformati, sulla salvezza per grazia o per meriti e una definizione come “Santi per chiamata” pare dare ragione ai riformati. Ma c’è anche un altro elemento importante nel definire i cristiani del saluto di Paolo. Dice: «… quelli che in ogni luogo invocano il nome del Signore nostro Gesù Cristo» (I Corinzi 1, 2). Non più solo il nome di Dio Padre, che il sommo sacerdote pronunciava una volta all’anno a rischio della vita, ma quello di Dio Figlio, Gesù, di cui sappiamo che significa “Dio salva”. Non per meriti dunque, ma per la misericordia infinita del Padre che manda il Figlio a 81 In dialogo con l’anno A risollevare l’uomo. E allora dove li mettiamo i meriti? Certamente un tema che merita (scusate il bisticcio) un ulteriore approfondimento. 82 In dialogo con l’anno A Tempo ordinario – 3a domenica Letture: Isaia 8, 23.b-9, 3; I Corinzi 1, 10-13.17; Matteo 4, 12-23. Il Vangelo di oggi richiama esplicitamente il passo di Isaia. La profezia contenuta nel passo del profeta viene ripresa di peso dal Vangelo e riferita a Gesù. Ad una prima lettura tale accostamento può apparire arbitrario. Se non si ha familiarità con le profezie, risulta difficile credere che un testo dell’VIII-VI secolo a. C. possa aver parlato di fatti che sarebbero avvenuti nel I secolo d. C.. Una spiegazione a tale fenomeno può venire dalla considerazione che il tempo di allora era meno denso del nostro. Gli eventi importanti cioè, tali da meritare la difficile operazione della loro stesura sulla pergamena, erano allora meno numerosi. Oggi siamo abituati ad avere tantissimi giornali che ci riferiscono di avvenimenti sempre importantissimi, siamo abituati ad avere milioni di libri a disposizione (a proposito, quanti sono?), siamo letteralmente bombardati da notizie riportate dalle radio, dalle televisioni, da internet. Allora tutto questo non c’era. I testi, soprattutto quelli sacri, erano conservati con cura e non erano accessibili a tutti. Venivano letti, studiati, meditati approfonditamente e non erano considerati come i quotidiani di oggi che la mattina si leggono e la sera si buttano via. Il valore di quanto contenevano era riconosciuto per centinaia, migliaia di anni. Per la Bibbia questo è vero ancora oggi, tanto che è il libro più letto al mondo. Certo non sempre con buone intenzioni, certo in innumerevoli traduzioni e con infinite interpretazioni, tuttavia continua ad essere un esempio di carta stampata che viene letta sia al mattino che alla sera. Ma torniamo ad allora. La scarsa densità di testi che 83 In dialogo con l’anno A contenessero notizie rilevanti avvicinava padri e figli, antenati e discendenti, profeti antichi e moderni. La parola scritta risuonava attuale per migliaia di anni e un evento prefigurato nel passato poteva avere facilmente risonanza nel presente. Questo per dire che forse riferire dei fatti del presente ad una profezia di otto secoli prima non era poi un fatto così strano. L’altra considerazione è più teologica. Biblicamente il tempo è nato con la creazione. Dio crea il mondo in sei giorni, o ere, e si riposa il settimo. Dopo il sesto giorno il tempo ha di nuovo conosciuto una battuta d’arresto. Inizia infatti il non meglio definito giorno del riposo del Signore. Poi viene il peccato originale. In conseguenza di questo evento l’uomo ha cominciato a fare esperienza del dolore, a faticare e ad usurarsi, a invecchiare e morire; ha cominciato quindi a fare l’esperienza del tempo. Dio però non ha peccato ed è rimasto nella dimensione del riposo eterno. Sì, diverse volte è intervenuto nella storia umana, non ultima con l’evento decisivo dell’incarnazione del figlio, ma lui si è mantenuto in tale prospettiva dalla quale ha invitato a più riprese l’uomo a rientrare in sé. Nella dimensione dell’eterno presente di Dio otto, nove, dieci secoli non contano niente. Una cosa detta o scritta dalla dimensione dell’eternità è una cosa valida nell’eternità e può entrare e realizzarsi nella storia umana quando e come vuole. Che poi la dimensione dell’eternità si raccordi con il tempo lineare della storia umana e lo pieghi ad una circolarità transitoria con l’unico scopo di riportarlo nel proprio seno ad un punto di origine caratterizzato dalla perfezione è un ulteriore argomento che sarebbe utile approfondire. 84 In dialogo con l’anno A Tempo ordinario – 4a domenica Letture: Sofonia 2, 3; 3, 12-13; I Corinzi 1, 26-31; Matteo 5, 1-12a. Il Vangelo di oggi riporta il famoso Discorso della Montagna noto anche come Le Beatitudini. Il passo è riportato anche in Luca 6, 20-23 con alcune significative varianti. Matteo contiene nove beatitudini, nove benedizioni potremmo dire, mentre Luca ne contiene soltanto quattro. In Luca però il discorso si fa più duro perché le quattro beatitudini, le quattro benedizioni, sono accompagnate da altrettante maledizioni. Le Beatitudini possono essere lette in varie maniere: come prefigurazione dei tempi messianici, come guida per l’esame di coscienza, come esortazione pedagogica per diventare perfetti nella fede, come nuova legge del regno. Vi è presente anche l’aspetto profetico. Quando infatti Gesù dice «Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia» (Matteo 5, 11) non fa altro che profetare su ciò che saranno le persecuzioni romane contro i primi cristiani. Dobbiamo forse concludere che tale ultima beatitudine essendosi già realizzata non sia più attuale? Forse no. Anche nell’oggi infatti in varie parti del mondo la persecuzione di chi crede è in atto. «Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio» (Matteo 5, 8) è un’affermazione che già da sola ha la sua pregnanza. Ci dice che se togliamo dal nostro cuore ogni sorta di malignità il nostro sguardo si purificherà e ci consentirà di accedere alla visione beatifica di Dio. Dio è sì invisibile, ma invisibile a quegli occhi offuscati da scaglie di male che Gesù in diverse occasioni ha indicato che si devono 85 In dialogo con l’anno A eliminare. Già da sola dunque l’affermazione ha la sua pregnanza, ma se la contestualizziamo nella tradizione ebraica da cui nasce ne possiamo trarre un di più di significato. Dall’Antico Testamento sappiamo che nessuno può vedere Dio senza morirne. In Esodo (20, 19) troviamo persino questa affermazione: «[Gli israeliti] Dissero a Mosè: “Se sei tu a parlarci, potremo ascoltare; ma se Dio stesso ci parla, noi moriamo!”». Il Sommo Sacerdote quando entrava nel Qodesh ha-Qodashim, il Santo dei Santi una volta all’anno durante la festa di Yom kippur per offrire l’incenso rituale d’espiazione e pronunciare il nome di YHWH poteva svenire per l’emozione o addirittura morire, nel caso non fosse degno per questo ufficio; tanto che si faceva legare i piedi ad una corda per essere trascinato fuori senza che nessun altro non degno fosse costretto ad entrare per portarlo via. Dunque una cosa pericolosa vedere Dio (o udirne le parole, o persino pronunciarne il nome), tanto che per farlo bisogna essere degni, puri di cuore. Ma come si fa ad essere degni o puri di cuore? La tradizione ebraica dà al Sommo Sacerdote ed ai leviti numerose prescrizioni da seguire. Diverso è l’insegnamento di Gesù. Dice infatti: «Chi è già lavato non ha bisogno di lavarsi altro che i piedi. È completamente puro. Anche voi siete puri, ma non tutti» (Giovanni 13, 10). Gesù sembra suggerirci che la lavanda dei piedi, prefigurazione nell’insegnamento cattolico del sacramento della riconciliazione, ci rende degni, puri, o meglio ci fa riacquistare la purezza raggiunta con il battesimo, durante il quale ci siamo mondati completamente e ci fa tornare ad essere veramente uniti a lui, condizione senza la quale è impossibile vedere il Padre. «Chi ha visto me ha visto il Padre» dice in un altro passo del Vangelo di Giovanni (14, 9). Per essere puri (di cuore) è 86 In dialogo con l’anno A necessario quindi purificarsi rinnovando il lavacro battesimale nella lavanda dei piedi; tali atti ci renderanno degni di vedere Dio. Possono sorgere a questo punto diverse domande, ma qui ce ne interessa una in particolare: come ci si deve comportare una volta purificati in un mondo, in un’umanità che non sempre ha raggiunto questo traguardo? Dice infatti ancora Gesù quando manda i discepoli in missione: «Ascoltate: io vi mando come pecore in mezzo ai lupi» (Matteo 10, 16). La risposta è nelle parole che seguono dello stesso versetto: «Siate candidi come le colombe e prudenti come i serpenti». Al di là di queste semplici parole, il Vangelo è ricchissimo di indicazioni sul comportamento che sarebbe preferibile il credente purificato assuma. A volte basta aprire il libro e leggere lasciandosi guidare dallo Spirito di verità. 87 In dialogo con l’anno A Tempo ordinario – 5a domenica Letture: Isaia 58, 7-10; I Corinzi 2, 1-5; Matteo 5, 13-16. Che Dio Padre sia – anche – un grande alchimista lo abbiamo già detto. Ma oggi scopriamo che anche Gesù il Figlio non è da meno. D’altra parte, considerata l’identità del Padre e del Figlio ciò non stupisce. Paracelso (14931541) – medico, mago, alchimista e, come si dice oggi, quant’altro – infatti a questo proposito nell’opera “Philosophia de generationibus et fructibus quatuor elementorum” scrive: «Dio ha formato il mondo in questo modo. In principio ha creato un corpo, dal quale derivano i quattro elementi. Egli ha posto questo corpo in tre parti, Mercurio, Sale, Zolfo, che sono tre cose ma formano un solo corpo. Queste tre parti producono tutto, così che in esse vi sono i quattro elementi. Queste tre cose hanno in sé ogni virtù e ogni volontà delle cose in divenire. Perciò in esse sono posti il giorno e la notte, il caldo e il freddo, pietre e frutti e altro, ma non ancora formati. Come un pezzo di legno non è altro che legno (ma ha in sé tutte le forme degli animali, tutte le forme del mutamento, tutte le forme degli strumenti ...), così questo primo corpo è posto in un blocco, nel quale riposano tutti i miscugli, tutte le acque, le gemme, i minerali, le pietre e il caos. Quest'ultimo è stato suddiviso dal Grande Creatore e posto come sottile, così che appena è stato suddiviso è stato posto come un altro essere. All'inizio Dio ha separato la luce e da ciò che era rimasto ha separato altre tre sostanze, il fuoco, la terra e l'acqua, da questi ha separato il fuoco, in modo che ne restassero due e così via sino alla fine». Viene da chiedersi – celiando – se Gesù non abbia fatto riferimento al grande Paracelso quando disse: «Voi siete il sale della terra; ma se 88 In dialogo con l’anno A il sale perde il suo sapore, con che cosa lo si renderà salato? A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dalla gente» (Matteo 5, 13). Approfondire ed addentrarsi nel linguaggio alchemico – come si sa – è sempre molto difficile. In altre parti dei suoi scritti Paracelso definisce il sal come costituente la tangibilità, la cenere residua del processo di combustione in cui la fiamma prende origine dal sulphur ed il mercurius trapassa in evaporazione. Da qui la doppia identificazione del sal come materiale di scarto e come importante elemento tangibile del processo alchemico. Ciò richiama le parole del salmista quando dice: «La pietra scartata dai costruttori è diventata testata d’angolo. Questo è opera [e sottolineiamo la parola opera] del Signore ed è una meraviglia ai nostri occhi» (Salmi 118, 22, citata in Marco 12, 10). Da qui la doppia identificazione del discepolo di Cristo come povero in spirito (in ebraico anawim) e come elemento essenziale della discesa del regno dei cieli sulla terra. Ma nel processo di formazione del discepolo pare dobbiamo stare attenti a che non perda il suo sapore. «Voi siete la luce del mondo» (Matteo 5, 14) dice Gesù ai discepoli. Ma non si diceva da un’altra parte di Gesù: «Egli era vita e la vita era luce per gli uomini. Quella luce risplende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta» (Giovanni 1, 4-5)? C’è da supporre che Gesù, oltre che condividere la sua figliolanza con Dio Padre, abbia voluto estendere la sua luce a chi lo segue per farne una lampada che faccia «luce a tutti quelli che sono nella casa» (Matteo 5, 15). 89 In dialogo con l’anno A Tempo ordinario – 6a domenica Letture: Siracide 15, 15-20; I Corinzi 2, 6-10; Matteo 5, 17-37. Nel Vangelo di oggi, dopo una lunga esortazione al pieno rispetto del senso profondo della Legge che vada oltre la sua interpretazione letterale, Gesù conclude il suo discorso con un’espressione lapidaria: «Sia invece il vostro parlare: sì, sì, no, no; il di più viene dal Maligno» (Matteo 5, 37). A questo punto ci sentiamo invitati a concludere anche la presente riflessione, in quanto la parola scritta è una forma più incisiva del parlare. E allora che fare? Certamente, come spesso accade, l’interpretazione letterale delle parole di Gesù ci mette in difficoltà, ci interroga e ci fa interrogare. Viene da dire infantilmente: «Ma allora anche tutto quello che ha detto lui prima viene dal Maligno!»; viene da dire: «Che cosa ne facciamo dell’interpretazione?»; viene da chiedersi: «Ma bisogna forse intendere quel sì e quel no nel modo più ampio dell’affermare e del negare, dell’evitare nel discorso le zone grigie, dell’essere assertivi, del distinguere nettamente il bene dal male? O che altro?». Forse l’atteggiamento giusto sarebbe il silenzio – Gesù mette spesso a tacere i farisei con frasi lapidarie, Gesù lascia spesso i suoi interlocutori in subbuglio. Gli Ebrei ci insegnano che la Legge e i Profeti vanno interpretati, contestualizzati, che Dio nelle Scritture ha detto tutto ma che noi, nella nostra limitata capacità di comprendere, abbiamo la necessità di approfondire. A questo proposito è utile ricordare che anche il diavolo interpreta la Bibbia; quando Gesù va nel deserto il diavolo gli dice: «Se tu sei il Figlio di Dio, buttati giù; perché nella Bibbia è scritto: “Dio comanderà ai suoi angeli. Essi ti 90 In dialogo con l’anno A sorreggeranno con le loro mani e così tu non inciamperai contro alcuna pietra”» (Matteo 4, 6). Ma anche Gesù sa interpretare la Bibbia e infatti gli risponde: «Ma nella Bibbia c’è scritto anche: “Non sfidare il Signore tuo Dio”» (Matteo 4, 7), respingendo il tentatore ed offrendo a noi un prezioso insegnamento. Ci pare che l’insegnamento consista in questo: esistono un’interpretazione delle Scritture giusta ed un’interpretazione ingiusta, manipolatoria, ingannevole; esiste un’interpretazione delle Scritture a cui possiamo dire sì ed un’interpretazione delle Scritture a cui dobbiamo dire no. Nel passo delle tentazioni nel deserto, Gesù per primo mette in pratica l’insegnamento contenuto nel Vangelo di oggi: dice sì in ultima istanza a Dio e dice no al tentatore che vuole piegare il senso delle Scritture a proprio esclusivo vantaggio, inserirvi dei fini che non sono loro propri. Può essere utile a questo proposito ricordare che in alcune rappresentazioni dell’ascesa mistica l’anima è raffigurata come intenta a salire una scala intorno alla quale si affaccendano angeli e demoni: gli angeli la aiutano a salire, mentre i demoni fanno di tutto per farla precipitare in basso. Leggere ed interpretare le Scritture, quando non vi si cerchi una conferma al proprio ego smisurato, ad ideologie peregrine o a dottrine dell’ultima ora, è un esercizio mistico, che non è esente dal pericolo di cadute e ricadute. Ben venga allora il supporto amorevole ed affettuoso dei nostri protettori angelici che spesso ci aprono, quando vi sono, i significati nascosti del libro di Dio. E se ancora non bastasse, per cercare di capire cosa intende Gesù o per rassicurarci sul fatto che la nostra debolezza non possa venire intaccata dalle insidie del tentatore, possiamo fare affidamento sempre alle sue parole: «Ma il Padre vi manderà in mio 91 In dialogo con l’anno A nome un difensore: lo Spirito Santo. Egli vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto quel che ho detto» (Giovanni 14, 26). 92 In dialogo con l’anno A Tempo ordinario – 7a domenica Letture: Levitico 19, 1-2.17-18; I Corinzi 3, 16-23; Matteo 5, 38-48. Quando si parla del Levitico siamo abituati a pensare ad una serie di norme, spesso igieniche, destinate ai sacerdoti appartenenti alla tribù di Levi. Tali norme, giustificate nel tempo e nel luogo in cui sono state emanate, non avrebbero più, nella nuova alleanza, alcun senso. Disposizioni superate di una tradizione sacerdotale ebraica che si è profondamente modificata, anche a seguito della distruzione del tempio. In tal senso verrebbe anche interpretato il passo evangelico in cui Gesù parla del lavaggio delle mani dei suoi discepoli. Gli chiedono infatti i farisei: «Prima di mangiare, i tuoi discepoli non fanno il rito di lavarsi le mani. Perché non rispettano la tradizione religiosa dei nostri padri?» (Matteo 15, 2). Dopo aver variamente argomentato Gesù risponde: «Così, per mezzo della vostra tradizione, voi fate diventare inutile la parola di Dio» (Matteo 15, 6). In questo passo sembra superato l’apparente igienismo formale espresso dal Levitico, a favore di un’igiene del cuore, che assume un significato di particolare importanza nel rispetto del senso delle norme stabilite da Dio. A tale proposito è però utile ricordare alcune cose e in particolare: che la tradizione ebraica continua a rispettare una serie di precetti, da noi interpretati come esclusivamente formali, dando loro un valore nel percorso di avvicinamento a Dio; la nostra società continua a diffondere un comportamento ricchissimo di regole di tipo igienico, che a volte sfiora la maniacalità e sfocia in forme di consumismo sanitario quasi intollerabile, motivandole con la conservazione della salute fisica; il testo 93 In dialogo con l’anno A del Levitico in lettura non dà assolutamente norme di tipo fisico-igienico, ma entra nel cuore di quello che sarà secoli e secoli dopo l’insegnamento di Gesù. Dice infatti il testo: «Il Signore parlò a Mosè e disse: “Parla a tutta la comunità degli Israeliti dicendo loro: ‘Siate santi, perché io, il Signore, vostro Dio, sono santo’”» (Levitico 19, 1-2). Ora, il termine santo traduce l’ebraico qadosh, ma è nell’etimologia latina che ne scopriamo il profondo significato. Santo deriva da secare che vuol dire tagliare, separare. L’invito di Dio è quello di vivere separati dalle cose del mondo, dai suoi usi e costumi spesso improntati all’edonismo e all’idolatria del potere, lontani dalle mode potremmo dire oggi, lontani dal peccato in un’ottica teologica. È un invito a improntare la propria vita al servizio del Signore, alla vicinanza con lui, al rispetto della sua volontà intesa come unica dottrina che possa condurre alla gioia piena. Un invito a non lasciarsi deviare dagli innumerevoli stimoli che ci distolgono dalla strada che conduce a lui. Un invito a seguire l’esortazione del salmista che apre il libro con queste parole: «Felice l’uomo giusto: non segue i consigli dei malvagi, non va insieme ai peccatori, non sta con chi bestemmia Dio; ma la sua gioia è la parola del Signore, la studia notte e giorno. Come albero piantato lungo il fiume egli darà frutto a suo tempo, le sue foglie non appassiranno: riuscirà in tutti i suoi progetti» (Salmi 1, 1-3). Un invito quindi ad essere separati dalle logiche spesso perverse del mondo ed essere uniti – lo iuxtus latino deriva da iungere che significa unire – a Dio. La separazione non ci toglie dal mondo, ma ci mette nelle condizioni di abitarlo nel modo più corretto («Riuscirà in tutti i suoi progetti»). Tale invito ci pare in perfetta sintonia con quanto Gesù dice in un altro passo del Vangelo, questa 94 In dialogo con l’anno A volta di Giovanni, rivolgendosi al Padre riguardo al destino dei suoi discepoli dopo la sua dipartita: «Io ho dato loro la tua parola. Perciò essi non appartengono più al mondo, come io non appartengo al mondo. E il mondo li odia. Io non ti prego di toglierli dal mondo, ma di proteggerli dal Maligno» (17, 14-15). Qui il tono ha tinte più fosche ed apocalittiche ma, se analizziamo quanto storicamente è accaduto ai primi veri cristiani, non gli può essere negato un valore profetico. 95 In dialogo con l’anno A Tempo ordinario – 8a domenica Letture: Isaia 49, 14-15; I Corinzi 4, 1-5; Matteo 6, 24-34. Le letture di oggi sono accomunate dal tema della fiducia in Dio Padre. Isaia conferma il patto del Signore con Sion, quando dice: «Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai» (Isaia 49, 15). È nella natura stessa del patto. Questa affermazione di Dio rivela una precisa caratteristica della natura del patto: l’alleanza contratta con il popolo ebraico, prima tramite Abramo poi tramite Mosè, è un’alleanza tra un essere perfetto e costante, Dio, ed un essere, l’uomo ebreo, che per quanto sia dal punto di vista di Dio il migliore, è pur sempre imperfetto e incostante. Quest’uomo potrà dimenticare, potrà recedere, potrà perdersi, ma il patto rimane perché l’altro contraente è fedele ad esso. Dice a questo proposito il salmista: «Signore, voglio cantare per sempre il tuo amore, annunzierò la tua fedeltà per tutte le generazioni. Ne sono certo: il tuo amore dura in eterno, la tua fedeltà è stabile come i cieli» (Salmi 89, 2-3). Il rapporto che lega i due contraenti può essere paragonato al rapporto tra la terra e il cielo, tra l’esistenza mortale e l’immortalità, tra la mutevolezza e l’immutabilità. Tra lo yin e lo yang potremmo dire prendendo a prestito la nota terminologia taoista. Dio Padre, per bocca di Isaia, fa anche un altro paragone per illuminarci sulla natura del patto: «Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere?» (Isaia 49, 15). Il legame del patto è un legame viscerale. Dio lo paragona a quanto di più stabile vi sia sulla terra, il legame della madre con il suo bambino. Dio Padre si fa Madre per il suo popolo. Il patto non è frutto di un trattato, di norme aride 96 In dialogo con l’anno A condivise da due contraenti, ma è un rapporto di figliolanza materna. In Cristo Dio darà la sua vita per i discepoli, i nuovi contraenti del patto, come una madre che muore nel dare alla luce il suo bambino. Rispetto alla visceralità del rapporto con Dio descritta da Isaia, Paolo sembra fare un passo indietro. Dice: «Fratelli, ognuno ci consideri come servi di Cristo e amministratori dei misteri di Dio. Ora, ciò che si richiede agli amministratori è che ognuno risulti fedele» (I Corinzi 4, 12). Non dunque figli, bensì servi, amministratori. Che Paolo non peccasse di superbia è testimoniato anche da un altro passo della Lettera. Dice infatti: «Dopo essere apparso a tutti, alla fine [Gesù] è apparso anche a me, benché io, tra gli apostoli, sia come un aborto. Infatti, io sono l’ultimo degli apostoli; non sono neanche degno di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa di Dio» (I Corinzi 15, 8-9). Ma forse l’invito di Paolo a considerarsi servi e amministratori è un invito a non prendere sottogamba la “qualifica” di figli di Dio e co-eredi del Regno. La fratellanza con Cristo cui può ambire chi si fa suo discepolo è fonte di una corresponsabilità delle cose sante che ci richiede di diventare anche servi e amministratori delle stesse. Non siamo i figli prodighi che prendono la loro parte e se ne vanno, ma gli eredi di un regno che dobbiamo ad ogni costo anche amministrare. Sì, potremo momentaneamente dimenticarcene facendo affidamento sul sommamente affidabile Padre e Re, ma poi siamo chiamati a tornare perché, oltre a tutto, c’è un anello al dito che ci aspetta. 97 In dialogo con l’anno A Tempo ordinario – 9a domenica Letture: Deuteronomio 11, 18.26-28.32; Romani 3, 2125a.28; Matteo 7, 21-27. Deuteronomio e Matteo sembrano oggi concordare, mentre Romani apparentemente dissente. Dice Dio al popolo per bocca di Mosè: «Vedete, io pongo oggi davanti a voi benedizione e maledizione: la benedizione, se obbedirete ai comandi del Signore, vostro Dio, che oggi vi do; la maledizione, se non obbedirete ai comandi del Signore, vostro Dio, e se vi allontanerete dalla via che oggi vi prescrivo per seguire dèi stranieri, che voi non avete conosciuto. Avrete cura di mettere in pratica tutte le leggi e le norme che oggi io pongo dinanzi a voi» (Deuteronomio 11, 26-28.32). Dice Gesù ai suoi discepoli: «Non chiunque mi dice: “Signore, Signore”, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli”» (Matteo 7, 21). Dice invece Paolo: «Noi riteniamo infatti che l’uomo è giustificato per la fede, indipendentemente dalle opere della Legge» (Romani 3, 28). Dal confronto con questi testi sorge la domanda: «Quello che permette di essere salvati sono le opere previste dalla Legge di Dio o la fede in Dio (e in Gesù Cristo)?». La questione non è assolutamente peregrina, tant’è che è stata riattualizzata dalla Riforma. Solo recentemente, con la “Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione” il 31 ottobre 1999, si è addivenuti ad una concordia tra cattolici e riformati riguardo questo tema nodale della nostra fede. Essa enuncia «una comprensione comune della nostra giustificazione operata dalla grazia di Dio per mezzo della fede in Cristo» (5) e vede le buone opere come i frutti imprescindibili dell’avvenuta giustificazione. Allora 98 In dialogo con l’anno A avrebbe vinto San Paolo? Chissà… Ma ci sono alcuni elementi da considerare nella contesa apparentemente innescata dalle letture di oggi. Una prima osservazione riguarda il fatto che Mosè e Gesù hanno parlato prima della morte e risurrezione di Gesù stesso, evento che avrebbe riaperto la porta alla grazia di Dio nel mondo. Una seconda osservazione riguarda il fatto che Mosè e Gesù si rivolgevano ad Ebrei, mentre Paolo si rivolge ai Romani, cui non poteva richiedere l’osservanza di una Legge che per loro era straniera. Una terza osservazione riguarda il fatto che per gli Ebrei la fede in Dio era qualcosa di indiscusso e pertanto non si era forse ritenuto necessario insistere su di essa: si discuteva infatti su cosa fare e cosa non fare, non se credere in Dio e nella sua potenza salvifica che erano dati incontrovertibili. Dice infatti il salmista: «Sul tuo servo fa’ risplendere il tuo volto, salvami per la tua misericordia. Siate forti, rendete saldo il vostro cuore, voi tutti che sperate nel Signore» (Salmi 31, 17.25). Anche l’Ebreo crede nella misericordia del Signore, nella sua grazia salvifica, che lo salva quando, per dolo o negligenza, scende dal solido tappeto dei suoi precetti. E la “Dichiarazione congiunta” non afferma che si salva chi dice: «Signore, Signore» e dopo non fa la volontà del Padre che è nei cieli, bensì afferma che è Dio che salva chi crede in lui (e in Gesù Cristo), all’uomo poi conformarsi al suo nuovo status di salvato, perché «chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica, sarà simile a un uomo saggio, che ha costruito la sua casa sulla roccia» (Matteo 7, 24). 99 In dialogo con l’anno A Tempo ordinario – 10a domenica Letture: Osea 6, 3-6; Romani 4, 18-25; Matteo 9, 9-13. «Misericordia io voglio e non sacrifici» (Osea 6, 6, ripreso da Matteo 9, 13). Questa frase, dettata da Dio al profeta Osea e ripresa da Gesù a spiegazione del suo comportamento, è la chiave di volta delle letture di oggi. Anche in Romani, benché qui non sia esplicitamente ricordata, ha la sua importanza. Paolo infatti richiama la fede di Abramo come esempio della fede di tutti i credenti. Una fede che va oltre a quanto la ragione ragionevolmente può prevedere – Abramo crede alla promessa di Dio di far generare lui e Sara all’età di cent’anni. Una fede che ha la possibilità di reintegrare l’uomo nella giustizia di Dio: «Ecco perché gli fu accreditato come giustizia» o, in altra traduzione: «Ecco perché Dio lo considerò giusto» (Romani 4, 22). La menzione di Abramo, considerato padre dalle religioni ebraica, cristiana e islamica, richiama alla memoria l’episodio del sacrificio del figlio unigenito Isacco. In quell’episodio (Genesi 22, 1-19) ancora Dio chiede un atto di fede ad Abramo che gli guadagna una benedizione speciale: «Perché ti sei comportato così, perché non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio, giuro su me stesso: io ti benedirò in modo straordinario e renderò i tuoi discendenti numerosi come le stelle del cielo, come i granelli di sabbia sulla spiaggia del mare» (Genesi 22, 1617). Anche in questo caso, Dio non desidera un tanto orribile sacrificio – i figli venivano offerti in sacrificio dai seguaci di altre religioni del tempo e del luogo che a più riprese Dio stesso nella Bibbia condanna – ma mette alla prova la fede di Abramo, stabilendo per noi un misterioso collegamento tra fede e misericordia. Certo, se Abramo 100 In dialogo con l’anno A fosse nostro contemporaneo, sarebbe in carcere per tentato omicidio, ma allora erano altri tempi. Gesù commenta la frase citata all’inizio aggiungendo: «Io non sono venuto infatti a chiamare i giusti, ma i peccatori» (Matteo 9, 13). In altra traduzione tale frase è resa nel modo seguente: «Perché io non sono venuto a chiamare quelli che si credono giusti, ma quelli che si sentono peccatori». Questa seconda traduzione è più in consonanza con quanto Gesù dice ai farisei dopo aver guarito l’uomo cieco dalla nascita. Ai farisei che chiedono: «Per caso, siamo ciechi anche noi?» Gesù infatti risponde: «Se foste ciechi non avreste colpa; invece dite: “Noi vediamo”. Così il vostro peccato rimane» (Giovanni 9, 40-41). Essere giusti – o vedenti – è una condizione stabilita da Dio; credersi giusti – o vedenti – è invece una condizione che dipende dalla nostra superbia, che ci fa credere che il giudizio su di noi possa essere formulato solamente da noi stessi. Nella Cabala, ricordiamo, il Giudizio, Gebourah, è una delle sephiroth, una delle manifestazioni di Dio. Nel passo della chiamata di Levi, c’è un altro particolare che mette in luce la distanza culturale che ci separa dai tempi biblici. Oggi siamo indotti a pensare che pagare le tasse sia un sacrosanto dovere di ogni cittadino per bene. Allora non era così: le tasse venivano richieste dall’impero romano, conquistatore ed usurpatore, ed erano vissute come un atto di brigantaggio non in consonanza con il volere del Signore, cui erano dovute le decime. È vero che Gesù invita a pagare le tasse – «Date all’imperatore quel che è dell’imperatore, ma quel che è di Dio datelo a Dio» (Marco 12, 17) –, ma è anche vero che gli esattori come Levi sono considerati dei peccatori perché impoveriscono ingiustamente il popolo di Dio, oltre che, diremmo noi, fare 101 In dialogo con l’anno A la cresta su quanto raccolto. A proposito di questo tema, sarebbe utile comunque inserire nella riflessione anche il passo evangelico di Matteo 17, 24-27 in cui Gesù e Pietro pagano la tassa al tempio. In quell’occasione Gesù domanda: «Simone, dimmi il tuo parere: chi deve pagare le tasse ai re di questo mondo: gli estranei o i figli dei re?»; Pietro risponde: «Gli estranei»; Gesù riprende: «Dunque i figli non sono obbligati a pagare le tasse. Ma non dobbiamo dare scandalo: vai perciò in riva al lago, getta l’amo per pescare, e il primo pesce che abbocca tiralo fuori; aprigli la bocca e ci troverai una grossa moneta d’argento. Prendi allora la moneta e paga la tassa per te e per me». Proprio altri tempi quelli biblici ed evangelici, quando per pagare le tasse era sufficiente pescare un pesce! 102 In dialogo con l’anno A Tempo ordinario – 11a domenica Letture: Esodo19, 2-6a; Romani 5, 6-11; Matteo 9, 36-10.8. Le letture di oggi sono accomunate dal tema della provvidenza di Dio, anche se non viene espressamente esplicitata. Nella prima Dio rammenta al popolo, tramite Mosè, di come l’ha visto in schiavitù in Egitto e di come è intervenuto per liberarlo. Nella seconda Paolo spiega ai Romani come Dio è intervenuto a favore dell’uomo avendolo visto prigioniero del peccato, mandando Gesù a liberarlo giustificandolo nel suo sangue. Nella terza Gesù vede le folle stanche e constata che «La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai» (Matteo 9, 37); chiama pertanto i dodici e li invia, con il viatico di un profondo discorso, a raccogliere la messe. Sono tre esempi di come Dio sia intervenuto, a diversi livelli, a favore di chi crede in lui e dell’uomo in stato di bisogno in generale. Ma c’è un altro aspetto nel passo di Esodo in lettura oggi di particolare rilevanza e cioè quello dell’alleanza. Dio dice agli Israeliti: «Voi sarete per me un regno di sacerdoti, una nazione santa». Nelle domeniche scorse abbiamo visto come Dio, quando si tratta di patti, testamenti abbia una parola sola, costante, eterna. Ci si chiede allora da parte cristiana che fine abbia fatto l’alleanza con gli Ebrei dopo la venuta di Cristo. Le risposte sono molteplici: da chi dice che gli Ebrei hanno continuato ad essere una nazione santa, un regno di sacerdoti; a chi dice che Gesù ha instaurato una nuova alleanza che ha reso obsoleta e superata quella antica, ma che mantiene una posizione di privilegio agli Ebrei; a chi ancora dice che gli Ebrei sono stati deicidi e che la storia ha provveduto a fare loro scontare il loro crimine. La posizione ufficiale della Chiesa pare sia la 103 In dialogo con l’anno A seconda, ma in ambito cristiano fanno spesso capolino le altre due, soprattutto la terza. È interessante poi notare come Dio sancisca una suddivisione delle nazioni nelle tanto vituperate caste: individua infatti un popolo cui dà il mandato di svolgere le funzioni di sacerdoti dell’umanità. Non guerrieri, non mercanti, non contadini, non fuori casta, come in India; bensì sacerdoti. Una terza considerazione sulle letture di oggi riguarda la profondità del peccato e l’abissale distanza costitutiva che ci separava da Dio. Tanto che Dio ha dovuto: individuare tra le nazioni un popolo e purificarlo affinché appartenesse esclusivamente a lui; individuare tra le dodici tribù che componevano questo popolo una tribù, quella di Levi, che svolgesse il servizio sacerdotale offrendo i sacrifici e purificando il resto del popolo; individuare tra i sacerdoti della tribù di Levi un uomo, il sommo sacerdote, che purificasse gli altri sacerdoti e il popolo offrendo il sacrificio espiatorio una volta all’anno e pronunciando il suo nome. Sappiamo poi dalle Scritture che tutto questo non è bastato e che Dio ha dovuto prima scegliersi dei profeti che richiamassero il popolo santo alla fedeltà dell’alleanza e poi, per i cristiani, mandare il suo unigenito a purificare il suo popolo e le nazioni con il suo sangue per offrire loro ancora una possibilità di riscatto. Considerata come è andata la storia in seguito pare che ciò non sia ancora stato sufficiente, tanto che i credenti sono in attesa della seconda e definitiva venuta di Cristo. 104 In dialogo con l’anno A Tempo ordinario – 12a domenica Letture: Geremia 20, 10-13; Romani 5, 12-15; Matteo 10, 26-33. La missione del profeta non è esente da difficoltà e pericoli. Quando Dio ha chiamato Geremia a tale compito, gli ha detto: «Io metto le mie parole sulle tue labbra. Ecco, oggi ti do autorità sulle nazioni e sui regni per sradicare e demolire, per distruggere e abbattere, per edificare e piantare» (Geremia 1, 10). È naturale che un’opera così radicale, che richiede di rimproverare e minacciare i potenti della terra, abbia procurato a Geremia dei nemici, ma dalla lettura di oggi emerge che anche i suoi amici si sono rivoltati contro di lui. «Tutti i miei amici aspettano la mia caduta» (Geremia 20, 10), dice lamentandosi con Dio. Il profeta si trova spesso da solo nello svolgimento della sua missione, nel senso che non trova altri uomini con cui condividerla. Solo perché unico portatore di un messaggio nuovo, a volte molto critico, per i tempi in cui opera. Ma non è mai solo del tutto, perché Dio non lo abbandona. Proprio quando i nemici che si è procurato con le parole del messaggio del Signore sembrano prevalere, il Signore interviene in suo favore a sostenerlo, a confortarlo, a volte anche liberandolo in vario modo dalle minacce che gli gravano sul capo, addirittura vendicandolo. Dice Geremia: «Signore degli eserciti, che provi il giusto, che vedi il cuore e la mente, possa io vedere la tua vendetta su di loro, perché a te ho affidato la mia causa» (Geremia 20, 12). Paolo in poche righe condensa la storia della salvezza. Nel passo di Romani in lettura oggi riassume in poche magistrali righe la caduta dell’umanità nel peccato con Adamo e la sua redenzione in grazia di Gesù Cristo, 105 In dialogo con l’anno A evidenziando anche il ruolo della Legge nell’identificare la presenza del peccato stesso. Ma il Vangelo ci dice che la grazia non opera indistintamente, qualunque sia il comportamento dell’uomo; c’è bisogno di una risposta, di un assenso, di un riconoscimento. Dice infatti Gesù: «Perciò chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli» (Matteo 10, 32-33). Gesù oggi ci dice anche qualcosa di fondamentale sul nostro destino post mortem sul quale l’uomo si interroga da sempre. Dalla lettura di Genesi 2, 7 – «Allora Dio, il Signore, prese dal suolo un po’ di terra e, con quella, plasmò l’uomo. Gli soffiò nelle narici un alito vitale e l’uomo diventò una creatura [o anima] vivente» –, sappiamo che l’uomo è costituito per lo meno da due elementi: il corpo materiale e lo spirito o anima. Nella speculazione ebraica che evidenzia diversi elementi costitutivi dell’anima la questione è più complessa, ma quello che ci importa sottolineare nel Vangelo di oggi è l’osservazione che Dio ha «il potere di far perire nella Geènna e l’anima e il corpo» e che il credente non deve temere «quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima» (Matteo 10, 28). Viene qui delineata una potestà assoluta di Dio sulla sua creatura. Certo si potrebbe riflettere sul fatto che tanto più importante del corpo è l’anima, tanto più profonda e costitutiva rispetto alla paura degli omicidi è la paura di Dio. Dall’Antico Testamento abbiamo imparato che il Signore può terrorizzare, ma la paura di cui qui si parla ci sembra piuttosto da identificare con il dono dello Spirito Santo del reverenziale timor di Dio. 106 In dialogo con l’anno A Tempo ordinario – 13a domenica Letture: Re 4, 8-11.14-16a; Romani 6, 3-4.8-11; Matteo 10, 37-42. Alla giustizia di Dio, contrariamente a quella umana, sembra non sfugga niente. Gesù ci rassicura, niente di quanto avremo fatto di meritorio in questa vita sarà dimenticato. Giorno per giorno scriviamo il nostro futuro in questa vita e nell’altra. Gesù è buono e senza giri di parole o necessità di difficili interpretazioni ci indica piano piano nel Vangelo che cosa dobbiamo fare per meritarci il paradiso o meglio quali sono i comportamenti, le disposizioni, le azioni giuste del credente. Con estrema chiarezza. Se la prima parte del Vangelo di oggi lascia delle perplessità – «Chi ama padre e madre più di me non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me non è degno di me» (Matteo 10, 37) – o meglio richiede una riflessione, le successive raccomandazioni hanno il carattere dell’evidenza immediata. «Chi accoglie un profeta perché è un profeta, avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie un giusto perché è un giusto, avrà la ricompensa del giusto» (Matteo 10, 41). Certamente per noi oggi, figli dell’epoca del dubbio sistematico, non è subito chiaro che cosa sia, come si riconosca un profeta, o un giusto. Ma per l’uditorio del tempo l’indicazione era chiara. Forse era chiara anche la citazione del profeta Michea che viene proprio prima del passo in lettura oggi. Nei versetti 34-36 dello stesso capitolo del Vangelo di Matteo Gesù dice: «Non pensate che io sia venuto a portare la pace nel mondo: io sono venuto a portare non la pace, ma la discordia. Infatti sono venuto a separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera. E ognuno avrà nemici anche nella 107 In dialogo con l’anno A propria famiglia». Il passo di Michea che Gesù cita (7, 6) fa riferimento a una lunga lamentazione in cui il profeta si dispera perché «In questa regione non c’è più una persona fedele a Dio, nessuno è onesto. Tutti aspettano l’occasione per commettere omicidi, si danno la caccia tra di loro» (Michea 7, 2). È chiaro che in una situazione come quella descritta l’intervento di Dio rappresenti la pietra di paragone che separa i figli dai padri, le figlie dalle madri, ecc. distinguendo gli agnelli (pochi) dai capri (molti). Anche Gesù, come è testimoniato dalla predicazione di Giovanni Battista, viene in un tempo in cui scarseggiano le persone fedeli a Dio e pertanto il suo messaggio avrà l’effetto di prendere l’uno e lasciare l’altro. Il padre ascolterà le sue parole e si convertirà, il figlio no; la figlia ascolterà le sue parole e si convertirà, la madre no. E così via (certo, il problema non sussiste se si converte tutta la famiglia). La predicazione di Gesù, tra l’altro, è una prefigurazione della fine dei tempi come lui stesso la descrive in un altro passo evangelico: «Quella notte quando tornerà il Figlio dell’uomo, se due persone si troveranno nello stesso letto, una sarà presa e l’altra lasciata. Se due donne si troveranno insieme a macinare il grano, una sarà presa e l’altra lasciata» (Luca 17, 34-35). Ben vengano dunque le semplici e chiare indicazioni contenute nel Vangelo di oggi che, se le mettiamo in pratica, ci mettono nella condizione giusta per essere presi ed avere la ricompensa di un giusto. 108 In dialogo con l’anno A Tempo ordinario – 14a domenica Letture: Zaccaria 9, 9-10; Romani 8, 9.11-13; Matteo 11, 25-30. La prima lettura di oggi è tratta dal libro del profeta Zaccaria. Il libro di Zaccaria riporta, nei primi otto capitoli, otto visioni del profeta e una promessa di pace e benessere; si colloca intorno al 520-518 a. C.. I successivi sei capitoli, che alcuni studiosi datano successivamente ai precedenti, trattano dei rapporti tra Israele e le altre nazioni, l’assedio e la successiva liberazione di Gerusalemme. Come abbiamo già visto per altre profezie, anche in questo passo è contenuta una predizione di eventi che fanno riferimento alla situazione contemporanea del profeta o immediatamente successiva. La predizione però si adatta anche perfettamente alla vita di Gesù come è raccontata dai Vangeli. Zaccaria parla di un re che deve venire e lo descrive nel modo seguente: «Così dice il Signore: “Esulta grandemente figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina”» (9, 9). Tale descrizione si adatta perfettamente all’episodio dell’entrata di Gesù in Gerusalemme alla domenica delle Palme, come è raccontata in Giovanni 12, 12-15: «Il giorno seguente, la gran folla che era venuta per la festa, udito che Gesù veniva a Gerusalemme, prese dei rami di palme e uscì incontro a lui gridando: “Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re d’Israele!” Gesù, trovato un asinello, vi montò sopra, come sta scritto: “Ecco, il tuo re viene, seduto sopra un puledro d’asina”». Il passo di Giovanni, nel commentare l’episodio, cita esplicitamente quello di Zaccaria in lettura oggi. Nel libro del profeta Zaccaria vi è 109 In dialogo con l’anno A anche un altro passo che prefigura chiaramente un episodio della predicazione di Gesù. Alla fine del libro, al versetto 21 del capitolo 14, Zaccaria, riferendosi al tempo in cui tutti i popoli celebreranno la festa delle Capanne ed in cui «anche sui sonagli dei cavalli ci sarà l’iscrizione: “consacrato al Signore”» (21, 16-20), dice: «Quando arriverà quel tempo, non ci sarà più nessun mercante nel tempio del Signore dell’universo». A tale passo sembra riferirsi l’episodio della cacciata dei mercanti dal tempio descritto da tutti e quattro gli evangelisti e che riportiamo nella versione di Giovanni: «Si avvicinava la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete. Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: “Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!”» (2, 13-16). È interessante notare come nella narrazione di Matteo i due episodi, l’entrata in Gerusalemme e la cacciata dei mercanti dal tempio, siano posti l’uno di seguito all’altro (21, 1-11 e 12-13). Le ragioni di queste corrispondenze tra le parole dei profeti e la vita di Gesù le abbiamo già precedentemente accennate, ma se indaghiamo attorno al Vangelo di oggi troviamo un’altra notazione che ci pare abbia attinenza con l’argomento del compimento delle profezie da parte di Gesù. Matteo riporta il noto discorso di ringraziamento di Gesù al Padre, «…Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli…» e la promessa di riposo a chi lo segue «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro…». Nella narrazione di Luca 110 In dialogo con l’anno A (10-21-22) lo stesso discorso è seguito da ulteriori parole di Gesù e precisamente le seguenti: «Beati voi che potete vedere queste cose. Perché vi assicuro che molti profeti e molti re avrebbero voluto vedere quel che voi vedete ma non l’hanno visto. Molti avrebbero voluto udire quel che voi udite ma non l’hanno udito» (Luca 10, 23-24). Al di là di tutte le nostre osservazioni sulla corrispondenza tra le antiche profezie e la narrazione evangelica, c’è da dire che Gesù appare ben consapevole di quanto sta compiendo. 111 In dialogo con l’anno A Tempo ordinario – 15a domenica Letture: Isaia 55, 10-11; Romani 8, 18-23; Matteo 13, 1-23. Verba volant, scripta manent: siamo soliti citare il proverbio latino quando parliamo di parole. Ma Isaia sembra dirci qualcosa di diverso sulla parola. Tutta la storia sacra è centrata sulla parola, detta e scritta: c’è la parola che crea, la parola che ammonisce, la parola che insegna, la parola che consola, ecc., ma il passo di Isaia in lettura pare istituire una fondamentale distinzione: la parola sacra, la parola di Dio risuona nell’eternità, mentre, sembra dire, la parola umana è destinata a perdersi nelle pieghe del tempo. «Così dice il Signore: “Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza aver irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme a chi semina e il pane a chi mangia, così sarà della mia parola uscita dalla mia bocca. Non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata”» (Isaia 55, 10-11). Se guardiamo l’oggi, notiamo che nella maggior parte delle occasioni la parola riveste le caratteristiche della chiacchiera che, come spazzatura, è gettata via poco dopo essere stata prodotta; ma ancora nell’oggi, in alcune occasioni, e nella storia, ci sono degli esempi di come l’uomo abbia cercato di emettere una parola che avesse le stesse caratteristiche di quella di Dio. A ben guardare, anche il nostro mondo si regge sulla parola: non si fa niente senza un progetto pensato, detto o scritto. Certo, si possono anche fare delle cose senza pensare, ma – a parte il caso dei geni – esse non hanno un grande futuro. A ben guardare, dunque, il nostro mondo si regge sulla parola. Ma che cos’è allora che ci contraddistingue da Dio nel parlare, cos’è che per 112 In dialogo con l’anno A secoli maghi e imbroglioni hanno cercato in formule, incantesimi, ecc. che sembra non essere semplicemente dato all’uomo quando materialmente impara a formulare parole? La parola di Dio sembra operare senza tramite materiale, è una parola miracolosa, creatrice, non richiede il tramite di un’azione corporea o, meglio, la determina. A questo proposito possiamo dire che anche l’uomo ha questo potere, o perché l’ha ricevuto da Dio o perché se l’è arrogato luciferinamente. Nei sistemi di potere gerarchico, quando un superiore dà un ordine ad un sottoposto si aspetta che sia questi ad eseguirlo. Questa situazione è magistralmente descritta da quell’ufficiale dell’esercito romano che si rivolge a Gesù perché guarisca il suo servitore paralizzato. Gesù lo rassicura e gli promette che sarebbe andato a casa sua e avrebbe guarito il servitore. E l’ufficiale ribatte: «No, Signore, io non sono degno che tu entri in casa mia. Basta che tu dica soltanto una parola e il mio servo sarà guarito. Perché anch’io ho i miei superiori e ho dei soldati ai miei ordini. Se dico a uno: “Va’”, egli va; se dico a un altro: “Vieni”, quello viene; se dico al mio servitore: “Fa’ questo!”, egli lo fa» (Marco 8, 8-9). Gesù loda l’ufficiale per la sua fede ed opera quanto lui gli chiede. Sembra che la parola di Dio, contrariamente alla limitata sfera di azione della nostra, possa operare tutto quello che vuole nel creato per vie spesso a noi oscure. Nella logica della Bibbia, in cui è la parola (di Dio) ad aver creato il mondo e non il mondo ad aver evocato induttivamente le parole necessarie a nominarlo, ciò risulta del tutto naturale. Se poi consideriamo che Dio, come spesso dice, scrive la sua parola nei cuori dell’uomo e delle cose, comprendiamo un pezzettino di più il noto proverbio 113 In dialogo con l’anno A latino Verba volant, scripta manent, o meglio il noto incipit del Vangelo di Giovanni. 114 In dialogo con l’anno A Tempo ordinario – 16a domenica Letture: Sapienza 12, 13.16-19; Romani 8, 26-27; Matteo 13, 24-43. Il Libro della Sapienza viene tradizionalmente attribuito al re Salomone. Tale attribuzione deriva da quanto contenuto nei capitoli 7-9 in cui l’autore stesso si presenta come il famoso re e collocherebbe la sua composizione o stesura tra il 972 e il 933 a. C.. Molti studiosi tuttavia lo datano molto più tardi, quasi mille anni, tra il 50 e il 30 a. C.. Il testo è scritto in greco e tale seconda datazione troverebbe il suo fondamento nei contenuti che farebbero riferimento alla cultura di quest’epoca. Fa parte dei libri definiti Deuterocanonici, non appartenenti cioè alla Legge, o Pentateuco, e ai Profeti. Questi libri (Ester greco, Giuditta, Tobia, Primo e Secondo Maccabei, Sapienza, Siracide, Baruc, Lettera di Geremia) non fanno parte del primo canone, fissato nella città di Iamnia dai rabbini ebrei alla fine del I secolo d. C., ma della traduzione greca dell’Antico Testamento detta la Settanta largamente usata dai primi cristiani. Il loro valore venne riconosciuto dalla Chiesa romana nel IV secolo d. C., ma sono stati dichiarati canonici dalla Chiesa cattolica solo con il Concilio di Trento (1546). Da tale data divenne comune il nome di Libri Deuterocanonici. I Protestanti non li riconoscono come canonici – li definiscono Apocrifi – ma li includono nelle loro Bibbie perché li ritengono utili per l’edificazione personale; le Chiese ortodosse li includono pure nelle loro Bibbie. Per quanto riguarda il Libro della Sapienza, molto si è scritto sui suoi rapporti con la filosofia greca di cui riporterebbe alcune acquisizioni, ma c’è da chiedersi se i numerosi riferimenti più o meno espliciti alla dottrina delle 115 In dialogo con l’anno A sephiroth in esso contenuti non ne facciano anche un testo basilare degli studi cabalistici, o persino – ipotizzando una Cabala senza tempo – un’emanazione degli stessi. Il titolo stesso è la traduzione del termine Hochmach, la Sapienza, la seconda sephirah dopo Kether, la Corona, ed indica la conoscenza dei misteri di Dio. Nel libro poi, ed anche nel passo in lettura oggi, vi sono numerosi riferimenti al Giudizio, alla Misericordia, alla Forza, all’Amore, ecc. che lo mettono in collegamento con il pensiero cabalistico. Nell’epoca del pensiero debole, che non azzarda alcun giudizio categorico sulle cose e sui comportamenti, il Vangelo di oggi può risultare molto inattuale, ma il suo riferimento agli eterni cicli naturali lo colloca senz’altro nell’ambito delle verità senza tempo. Nella parabola della zizzania e nella sua successiva spiegazione Gesù è esplicito: nel campo del mondo vi sono i figli del Regno e i figli del Maligno, il seminatore è Gesù stesso, il nemico è il diavolo. All’epoca della fine del mondo gli angeli separeranno i giusti dai figli del Maligno e per questi ultimi «sarà pianto e stridore di denti» (Matteo 13, 42). Che la sua sia una sapienza (di nuovo Hochmach?) senza tempo trova una sua conferma interna nelle stesse parole che Gesù usa citando le Scritture: «Aprirò la mia bocca con parabole, proclamerò cose nascoste fin dalla fondazione del mondo» (Matteo 13, 35). Una sapienza che fa riferimento all’inizio e alla fine dei tempi. Le parabole poi, e la loro spiegazione, si prestano a differenti piani di lettura. In particolare la parabola di oggi può essere riferita anche al piano individuale. In questo caso grano e zizzania andrebbero interpretati come le buone e le cattive azioni (o pensieri, disposizioni, intenzioni) che noi compiamo in questa esistenza. Al fine di essa, dopo la morte, al momento del 116 In dialogo con l’anno A giudizio individuale, gli angeli separeranno quanto di bene e quanto di male abbiamo compiuto nel nostro transito terreno. Rimane la domanda su che cosa ne sarà di noi dopo quest’operazione. Molte tradizioni religiose affermano che le azioni saranno soppesate e che il nostro destino dipenderà dal prevalere delle une sulle altre. L’arte ha variamente interpretato questo momento illustrandolo come una vera e propria pesatura del cuore o dell’anima. 117 In dialogo con l’anno A Tempo ordinario – 17a domenica Letture: I Re 3, 5.7-12; Romani 8, 28-30; Matteo 13, 44-52. I due libri dei Re raccontano eventi che vanno dalla morte di re Davide, la cui vita e il cui regno sono narrati nei precedenti due libri di Samuele, fino alla deportazione in Babilonia. Coprono pertanto un arco di tempo molto ampio che va dal 970 al 587 a. C.. Il rapporto di Dio con i re che si è scelto è personale. Parla loro, li guida, li assiste nell’amministrazione del regno, li rimprovera e li castiga quando operano in modo iniquo. Il passo di oggi racconta dell’apparizione in sogno di Dio a Salomone. Dio dice a Salomone di chiedere che cosa vuole che gli conceda e Salomone, con la saggezza che la tradizione gli conosce, risponde: «… io sono solo un ragazzo; non so come regolarmi. Il tuo servo è in mezzo al tuo popolo che hai scelto, popolo numeroso che per la quantità non si può calcolare né contare. Concedi al tuo servo un cuore docile, perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male; infatti chi può governare questo tuo popolo così numeroso?» (I Re 3, 7-9). Gli attuali sistemi di governo ci hanno abituato alla distinzione dei poteri. In Italia essi si distinguono in legislativo, esecutivo e giudiziario e fanno capo rispettivamente al parlamento, al governo e alla magistratura. Ai tempi dei re di Giuda e di Israele non era così, ma neppure nelle poche attuali monarchie assolute rimaste. Nelle monarchie assolute tutti i poteri sono nelle mani del re, dove Dio – per quelle teocratiche – lo ha posto. Il re poi si circonda di ministri, consiglieri ed aiutanti di ogni tipo per amministrare quanto lui non riesce direttamente. Facendo tutti i poteri capo al re, egli li amministra a sua discrezione. Può decidere quindi 118 In dialogo con l’anno A cosa considerare e cosa trascurare, ha facoltà di scelta sulle questioni cui dare importanza; essendo titolare del potere di giudicare ha facoltà di amministrare la giustizia – giudicando in prima persona in questioni non previste dalla legge. È per questo che la richiesta di Salomone è piaciuta a Dio. Salomone avrebbe potuto chiedere gloria, potenza e ricchezza, ma ha preferito richiedere la facoltà di discernere il bene dal male, il vero dal falso, il giusto dall’ingiusto. Ha capito che per ben governare un popolo bisogna dargli risposte chiare su cosa è giusto (nel senso latino di iuxtus) fare, su come ci si rapporta l’uno all’altro, perché in assenza di norme precise e giudizi ad hoc prende piede la sopraffazione dell’uno sull’altro rendendo il popolo ingovernabile. Se i piccoli conflitti tra i singoli non vengono affrontati e risolti in modo equo si creano situazioni in cui regna il malcontento che sfociano in divisioni insanabili tra le varie parti del popolo, dando spazio ad istanze inaccettabili. Di certo il tipo di governo di una monarchia assoluta come quella di Salomone è piuttosto demodè, ma forse può ancora insegnarci qualcosa anche per l’oggi. Se non altro per lo meno che, anche in presenza di una legislazione che spesso contempla tutti i possibili risvolti dell’agire umano, può ancora essere utile avere la facoltà di discernere il bene dal male nell’amministrazione della giustizia. Dio loda la richiesta di Salomone tanto da dichiarargli: «Ti concedo un cuore saggio e intelligente: uno come te non ci fu prima di te né sorgerà dopo di te» (I Re 3, 12), ed aggiunge: «Inoltre, anche se non me l’hai chiesto, ti darò tanta ricchezza e tanta gloria da superare quella degli altri re. Se mi sarai fedele, se osserverai le mie leggi e i miei comandamenti come ha fatto tuo padre, io ti darò anche una lunga vita» (I Re 3, 13- 119 In dialogo con l’anno A 14). E stiamo pur tranquilli: nel riprendere l’antico insegnamento di Salomone contenuto nel libro dei Re, non facciamo altro che comportarci come quello scriba di cui dice Gesù che «divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche» (Matteo 13, 52). 120 In dialogo con l’anno A Tempo ordinario – 18a domenica Letture: Isaia 55, 1-3; Romani 8, 35.37-39; Matteo 14, 1321. Dice Paolo nella prima lettera ai Corinzi: «Uno riceve dallo Spirito la capacità di esprimersi con saggezza, un altro quella di parlare con sapienza. Lo stesso Spirito ad uno dà la fede, a un altro il potere di guarire i malati. Lo Spirito concede a uno la possibilità di fare miracoli, e a un altro il dono di essere profeta. A questi dà la capacità di distinguere i falsi spiriti dal vero Spirito, a quello il dono di esprimersi in lingue sconosciute, e a quell’altro il dono di spiegare tali lingue. Tutti questi doni vengono dall’unico e medesimo Spirito. Egli li distribuisce a ognuno, come vuole» (12, 811). Dice Gesù ai discepoli: «Ve lo assicuro: chi ha fede in me farà anche lui le opere che faccio io, e ne farà di più grandi, perché io ritorno al Padre. E tutto quel che domanderete nel mio nome, io lo farò, perché la gloria del Padre sia manifestata nel Figlio. Se mi chiederete qualcosa nel mio nome, io lo farò» (Giovanni 14, 12-14). Nel Vangelo di oggi ci troviamo di fronte ad un vero miracolo di Gesù. Nella moltiplicazione dei pani e dei pesci Gesù non opera una guarigione, non scaccia spiriti impuri, non profetizza (almeno direttamente), non esprime verbalmente una verità in modo saggio e chiaro, non si esprime in lingue sconosciute (a meno che non si voglia ritenere tale la lingua dei gesti) e non le interpreta. Nella moltiplicazione dei pani e dei pesci Gesù opera un vero e proprio miracolo, un’azione cui stentiamo a credere. Possiamo forse, per fede, essere disposti a credere che lui, il Figlio di Dio, l’abbia compiuta in quella determinata occasione, ma ci è molto difficile immaginare che un’azione di tale genere possa 121 In dialogo con l’anno A venire ripetuta da uno di quelli che hanno creduto in lui. Eppure Gesù è chiaro come sempre: «Chi ha fede in me farà anche lui le opere che faccio io» dice. Certo, lui si rivolgeva ai discepoli; e poi chi siamo noi per pretendere che lui pieghi le leggi del creato per esaudire una nostra preghiera? Ma lui dice: «Chi ha fede in me…». Spesso nelle Scritture la metafora del mangiare, del cibarsi viene utilizzata per spiegare il valore della Parola di Dio. Ascoltare quello che lui dice viene paragonato all’atto del mangiare, che ci nutre e ci fortifica, ci sazia e ci rallegra. Quando allora per bocca di Isaia Dio dice: «Perché spendete denaro per ciò che non è pane, il vostro guadagno per ciò che non sazia?» (Isaia 55, 2) dobbiamo forse chiederci quante volte abbiamo impegnato il nostro cuore e la nostra mente per andare dietro ad un insegnamento che non proveniva da Dio ma dagli uomini, quante volte abbiamo cercato il nostro nutrimento spirituale ed abbiamo coltivato le nostre convinzioni al di fuori dell’ombra del grande albero della vita. «Porgete l’orecchio e venite a me, ascoltate e vivrete» (Isaia 55, 3), ci esorta ancora Dio identificando la sua parola con la fonte della vita. Una metafora, quella della Parola come cibo, ed un’esortazione, quella dell’ascoltare per vivere, che gettano una luce ulteriore anche sul miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci. L’uomo di Dio spesso prende l’unica parola proveniente dal creatore e la moltiplica, la adatta e la distribuisce alle pecore del gregge per nutrirle e fortificarle, saziarle e rallegrarle. Nella tradizione buddhista il bodhisattva è un illuminato che dicendo solamente “vuoto” risponde alle domande di innumerevoli esseri; rientrando in seno al cristianesimo, troviamo Pietro che dice a Gesù la famosa frase: «Signore, da chi andremo? Tu solo hai parole 122 In dialogo con l’anno A che danno la vita eterna» (Giovanni 6, 68). Un tanto per riflettere ancora sul significato del miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci. 123 In dialogo con l’anno A Tempo ordinario – 19a domenica Letture: I Re 19, 9-a.11-13a; Romani 9, 1-5; Matteo 14, 2233. Nella Bibbia, come è logico, sono numerose le teofanie, le apparizioni di Dio. Il Vangelo per i cristiani è tutto una teofania in quanto vivificato dalla presenza del Figlio consustanziale al Padre. Ma per essere precisi il termine di teofania si usa per indicare le apparizioni, visive o sonore, del Padre. Nei Vangeli ricordiamo pertanto la voce di Dio al momento del Battesimo di Gesù che dice: «Tu sei il Figlio mio, che io amo. Io ti ho mandato» (Luca 3, 22); oppure l’episodio della Trasfigurazione in cui sempre Dio afferma: «Questi è il Figlio mio, che io amo. Ascoltatelo!» (Marco 9, 7). Dio Padre si manifesta sempre in occasioni speciali. Il Battesimo e la Trasfigurazione nei Vangeli sono due di queste occasioni. Anche l’Antico Testamento è ricco di manifestazioni di Dio. Le forme e le modalità possono variare ma l’evento si realizza spesso in situazioni di pericolo dei suoi inviati, dei suoi consacrati o del popolo ebraico tutto. Nel passo in lettura oggi del primo libro dei Re il Signore appare ad Elia. Elia ha appena usufruito dell’azione del Signore in occasione di una specie di gara che l’ha messo di fronte ai 450 profeti del dio Baal protetti dal re Abdia e da sua moglie Gezabele. Il Signore è intervenuto dando fuoco al suo toro sacrificale, subito dopo che l’invocazione a Baal da parte dei suoi profeti è rimasta inascoltata, dimostrando a tutto il popolo che lui, il Signore, è l’unico vero Dio e che i sacerdoti di Baal ingannavano il popolo predicando un dio inetto o inesistente. A seguito di questo episodio Elia sgozza i 450 profeti di Baal – quella volta non si andava tanto per il sottile – ma poi deve fuggire 124 In dialogo con l’anno A perché con il suo atto incorre nelle ire della moglie del re Abdia, Gezabele. Gezabele infatti gli invia un messaggero per dirgli: «Mi puniscano gli dèi, se entro domani a quest’ora non ti avrò fatto fare la stessa fine dei profeti!» (I Re 19, 2). Elia a questo punto si lamenta con il Signore tanto da dirgli: «Signore – disse – non ne posso più! Toglimi la vita, perché non valgo più dei miei padri» (I Re 19, 4). A questo punto il Signore dapprima gli invia un angelo per guidarlo e rincuorarlo, poi interviene egli stesso apparendo prima in sogno ad Elia e poi con le modalità descritte nell’episodio di oggi in un escalation poetica che merita di essere letta. Dice il testo: «Ed ecco che il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento, un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto, un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco, il sussurro di una brezza leggera. Come l’udì, Elia si coprì il volto con il mantello, uscì e si fermò all’ingresso della caverna» (I Re 19, 11-13). L’apparizione di Dio fa sì che l’azione si condensi, si faccia incalzante. Elia presenta al Signore la sua situazione di pericolo ed il Signore in tre soli versetti gli dice cosa fare per uscirne. Anzi, dando ascolto al suo «non ne posso più» gli ordina anche di ungere profeta al suo posto Eliseo, creando le condizioni per la definitiva quiescenza di Elia. Quiescenza che sappiamo dal secondo libro dei Re (2, 11) essere stata di una particolare natura. Dopo che Elia aveva eseguito tutti gli ordini datigli dal Signore infatti, mentre lui ed Eliseo camminavano insieme «Un carro di fuoco passò in mezzo a loro. Elia fu rapito in cielo in un turbine di vento». Si conclude così, con un 125 In dialogo con l’anno A episodio che l’iconografia ortodossa ha ampiamente raffigurato, la vicenda terrena del profeta Elia. 126 In dialogo con l’anno A Tempo ordinario – 20a domenica Letture: Isaia 56, 1.6-7; Romani 11, 13-15.29-32; Matteo 15, 21-28. Le letture di oggi sono accomunate dal tema del confronto tra il popolo ebraico e gli altri popoli. Il popolo ebraico aveva stabilito con Dio un rapporto esclusivo, cioè che escludeva gli altri popoli. Gli Ebrei erano i fedeli di Jahvè ed egli era il loro Dio, il loro unico Dio. Spesso nella Bibbia troviamo episodi in cui si narrano degli scontri di Israele con altre nazioni, vuoi perché fosse liberato dalla schiavitù come in Egitto, vuoi per farsi spazio nella terra promessa. Dio stesso non era tenero con i popoli che contrastavano il suo popolo eletto e ne ordinava di sovente lo sterminio. A volte se ne serviva per punire le infedeltà dei suoi. Non mancano però le esortazioni ad accogliere bene lo straniero, accompagnate o meno dalla raccomandazione di ciò che a Dio stava più a cuore: gli Israeliti non dovevano assolutamente rendere culto a dei stranieri ed assumerne gli usi, ma dovevano mantenersi costanti nell’osservanza del patto con Jahvè e delle norme di vita che ne conseguivano. La religione ebraica ancora oggi è una religione che non fa proseliti ma si trasmette principalmente per vincolo di sangue. Come oggi anche nei tempi antichi però poteva darsi il caso di qualche straniero che abbracciasse il culto del vero Dio e allora Dio non lo respingeva e non dovevano farlo neppure gli Ebrei. Dice a questo proposito Dio per bocca di Isaia (siamo alla fine del VI secolo a. C.): «Gli stranieri che hanno aderito al Signore per servirlo e per amare il nome del Signore, e per essere suoi servi, quanti si guardino dal profanare il sabato e restano fermi nella mia alleanza, li condurrò sul mio monte 127 In dialogo con l’anno A santo e li colmerò di gioia nella mia casa di preghiera» (Isaia 56, 6-7); ed aggiunge: «I loro olocausti e i loro sacrifici saranno graditi sul mio altare, perché la mia casa si chiamerà casa di preghiera per tutti i popoli» (Isaia 56, 7). Troviamo qui l’apertura di un Dio che esce dal rapporto esclusivo con il popolo ebraico ed allarga la sua alleanza con tutti quelli che sono disposti ad accettarla. Nel Vangelo di oggi non troviamo in Gesù un atteggiamento così cosmopolita. La donna cananea che lo implora di guarire la figlia indemoniata riesce a strappargli il miracolo con delle parole che rappresentano un atto di fede e di sottomissione. A Gesù che le dice: «Non è bene prender il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini» (Matteo 15, 26), lei infatti risponde: «È vero, Signore, eppure i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni» (Matteo 15, 27). Poco prima, riguardo ai destinatari delle sue parole e dei suoi atti, del suo messaggio e dei suoi miracoli, Gesù è stato categorico: «Non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa d’Israele» (Matteo 15, 24). Parole dure, che però vengono apparentemente sconfessate da quanto riportato alla fine dello stesso Vangelo di Matteo. In quell’occasione, dopo la passione, morte e risurrezione, Gesù dirà: «A me è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Perciò andate, fate diventare miei discepoli tutti gli uomini del mondo; battezzateli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo; insegnate loro a ubbidire a tutto ciò che io vi ho comandato» (Matteo 28, 18-20). Paolo è più criptico ma più cosmopolita del Gesù con la cananea. Anzi, il suo è un cosmopolitismo radicale. Giocando con le sephiroth Gebourah, il Giudizio, e Tipheret, la Misericordia, fa un complicato ragionamento la 128 In dialogo con l’anno A cui conclusione è che tutti, Ebrei e gentili (o meglio i Romani cui è rivolta la lettera), vengono salvati grazie alla misericordia divina. La conclusione di Paolo è la seguente: «Dio infatti ha rinchiuso tutti nella disubbidienza, per essere misericordioso verso tutti» (Romani 11, 32). 129 In dialogo con l’anno A Tempo ordinario – 21a domenica Letture: Isaia 22, 19-23; Romani 11, 33-36; Matteo 16, 1320. La prima lettura e il Vangelo di oggi ci ricordano il tema delle chiavi. In Isaia il Signore è impegnato in uno dei tanti avvicendamenti al potere che lo vedono attivo nello srotolarsi della storia sacra. Questa volta deve sostituire Sebna, maggiordomo del palazzo, con Eliakìm, figlio di Chelkìa. Il testo dice poco di questi due personaggi. Sebna, straniero, sembra sia stato ritenuto responsabile di una disobbedienza del popolo di Gerusalemme agli ordini del Signore e per questo il Signore lo abbia destituito dalla sua carica. Il suo posto lo occuperà Eliakìm. Di lui il Signore dice: «Lo conficcherò come un piolo in luogo solido e sarà un trono di gloria per la casa di suo padre» (Isaia 22, 23). Sebna ed Eliakìm sono due personaggi di cui si parla anche in II Re 18, 26-37, dove fronteggiano il luogotenente del re di Assiria Sennacherib che aveva invaso il regno di Giuda, in qualità di membri della corte del re di Giuda Ezechia. Questi eventi e questi personaggi sono nuovamente citati in Isaia 36, senza che vi si faccia menzione dell’avvicendamento di cui si parla nel capitolo 22. In questo capitolo, parlando di Eliakìm, il Signore ancora dice: «Gli porrò sulla spalla la chiave della casa di Davide: se egli apre, nessuno chiuderà; se egli chiude, nessuno potrà aprire» (Isaia 22, 22). Ora le chiavi cui accenna il Signore per bocca di Isaia paiono essere le chiavi materiali del palazzo di Davide da cui regnava il re di Giuda Ezechia, però non si può negare che quanto qui detto non richiami le parole che Gesù dice a Pietro: «A te darò le chiavi del regno dei cieli; tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei 130 In dialogo con l’anno A cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli» (Matteo 16, 19). Queste parole, come quelle del precedente versetto «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa», sono state prese dalla Chiesa cattolica a fondamento del ministero petrino e del conseguente potere spirituale dei Papi considerati eredi di Pietro, ma rimane in qualche modo misterioso il collegamento con il passo di Isaia. L’analogia si potrebbe spiegare con il fatto che, come abbiamo già visto, spesso nello spiegare le cose di lassù Gesù si serve, per avvicinarsi agli ascoltatori e fare loro meglio comprendere, di metafore tratte dalla realtà materiale. Il regno di Davide ed il suo palazzo che lo rappresenta e di cui ad Eliakìm vengono affidate le chiavi diventano simbolo del regno dei cieli le chiavi delle cui porte sono affidate a Pietro. Questa potrebbe essere una spiegazione. Ma potrebbe anche essere che l’imperfezione del nostro intelletto non sia capace di sondare ulteriormente il messaggio del Signore ed allora risultano perfettamente calzanti le parole di Paolo che nella lettera ai Romani in lettura oggi afferma: «O profondità della ricchezza, della sapienza e della conoscenza di Dio! Quanto insondabili sono i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie! Infatti, chi mai ha conosciuto il pensiero del Signore?» (Romani 11, 33). 131 In dialogo con l’anno A Tempo ordinario – 22a domenica Letture: Geremia 20, 7-9; Romani 12, 1-2; Matteo 16, 2127. La parola e la volontà di Dio rappresentano spesso una cesura con le cose del mondo. Oggi le tre letture ci dicono questo. Geremia lamenta che da quando ha dato ascolto al Signore e ha dato voce alla sua parola è diventato oggetto di derisione, la parola del Signore è diventata «causa di vergogna e di scherno tutto il giorno» (Geremia 20, 8). Geremia ci dice anche che l’annunzio della parola del Signore è però anche un compito a cui non è possibile sottrarsi: «Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre; mi hai fatto violenza e hai prevalso» (Geremia 20, 7); e ancora: «Mi dicevo: “Non penserò più a lui, non parlerò più nel suo nome!” Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, trattenuto nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo» (Geremia 20, 9). Geremia è preda di un vero e proprio entusiasmo incontenibile nel senso dell’etimologia greca della parola. Un Dio, o meglio Dio gli canta dentro. O meglio, più che cantare, lo sconquassa come un fuoco ardente. Geremia ha svolto la sua missione di profeta tra il 626 e il 587 a. C.. Il libro tratta soprattutto del ventennio 609-587 a. C., a ridosso della conquista e distruzione di Gerusalemme da parte dei Babilonesi. Anche Paolo esorta a non conformarsi a questo mondo. Essere fedeli a Dio e credenti in Cristo significa operare una cesura con le cose di questo mondo rinnovando il modo di pensare. La conversione è una metànoia, un cambiamento radicale di pensiero. Questa metànoia ci 132 In dialogo con l’anno A consentirà di capire che cosa è gradito a Dio e ci metterà nella condizione di attuare il nostro culto spirituale, offrendo i nostri corpi «come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio» (Romani 12, 1). Sovente i commentatori interpretano la parola “corpi” usata da Paolo in questo passo come significante “tutti voi stessi”, “tutta la vostra persona”. Che nell’espressione però sia ricompresa anche la nostra materialità fisica sembra essere suggerito anche dal passo di I Corinzi in cui Paolo dice: «Fuggite l’immoralità! Qualsiasi altro peccato che l’uomo commette resta esterno al suo corpo; ma chi si dà all’immoralità pecca contro se stesso. Dovete sapere che voi stessi siete [i vostri corpi sono] il tempio dello Spirito Santo» (6, 18-19). Questo collegamento con la prima lettera ai Corinzi non sembra casuale: Paolo, quando nella primavera dell’anno 57 d. C. scrive la lettera ai Romani, si trova probabilmente proprio a Corinto. Nella cesura con le cose di questo mondo Gesù, se vogliamo, è ancora più radicale. Vedendo le cose da Dio forse è più chiaro nell’esprimerle. A Pietro che lo rimprovera per aver svelato ai discepoli che «doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risorgere il terzo giorno» (Matteo 16, 21), Gesù ribatte con forza: «Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!» (Matteo 16, 23). La cesura tra il pensiero di Dio e quello degli uomini è netta. Nel momento immediatamente precedente il suo sacrificio espiatorio, Gesù ci rivela che esso è necessario per liberare l’umanità dalle grinfie dell’accusatore in cui è irrimediabilmente caduta. La sua affermazione rappresenta anche un monito per l’umanità dei secoli futuri e un invito a 133 In dialogo con l’anno A chiedersi costantemente, a livello individuale e collettivo, quanto delle nostre azioni è ispirato a Dio e quanto alla mentalità degli uomini di allora che Gesù ha deprecato. 134 In dialogo con l’anno A Tempo ordinario – 23a domenica Letture: Ezechiele 33, 1.7-9; Romani 13, 8-10; Matteo 18, 15-20. Un compito difficile quello del profeta, non esente da rischi. Un compito a cui non ci si può sottrarre, la parola del Signore è perentoria: «O figlio dell’uomo, io ti ho posto come sentinella per la casa d’Israele. Quando sentirai dalla mia bocca una parola, tu dovrai avvertirli da parte mia» (Ezechiele 33, 7) dice il Signore. Ezechiele svolge la sua missione di profeta tra il 597 e il 571 a. C.. Gerusalemme è stata conquistata, nel 597, e poi distrutta, nel 587, dal re Nabucodonosor. Il Signore, per bocca di Ezechiele, informa gli Israeliti che tali eventi rappresentano la punizione per i peccati di cui si sono macchiati. Se il popolo però accetterà di essere rinnovato, lo attenderanno tempi migliori. Il capitolo 33 in lettura oggi ripete quanto già espresso nel capitolo 3 del libro. Il Signore pone Ezechiele come sentinella del popolo d’Israele. Tale compito si struttura nel modo seguente: «Se io dico che un uomo malvagio per il suo comportamento deve morire, tu hai il compito di avvertirlo perché cambi vita e si salvi. Altrimenti quest’uomo morirà per le sue colpe, ma per me tu sarai responsabile della sua morte. Invece se tu l’avverti ed egli non rinunzia ai suoi errori e al suo comportamento, morirà per le sue colpe, ma tu avrai salvato la tua vita» (Ezechiele 3, 18-19). Il profeta è responsabile personalmente del suo operato. Se non esegue i compiti che Dio gli dà ne paga personalmente le conseguenze. Ma c’è di più. Nel capitolo 4 del libro il Signore impone ad Ezechiele un lungo periodo di penitenza per purificare il popolo dalle sue colpe: «Sdraiati sul fianco sinistro. Per tutto il tempo che rimarrai 135 In dialogo con l’anno A in questa posizione, prenderai su di te le colpe del regno d’Israele e porterai le sue iniquità. Rimarrai sdraiato in quella posizione tanti giorni quanti sono gli anni durante i quali il regno d’Israele si è macchiato di colpe. Per trecentonovanta giorni sopporterai il peso delle sue colpe» (Ezechiele 4, 4-5). E non è finita qui. Nei versetti successivi il Signore impone ad Ezechiele un periodo di penitenza anche per il regno di Giuda. Il mistero del valore espiatorio del sacrificio il popolo ebraico lo conosce da tempo. In Levitico 16 sono descritte le modalità da seguire nello Yom Kippur, il grande giorno del perdono dei peccati. Lì, accanto al toro da offrire al Signore per i peccati suoi e della sua famiglia, Aronne deve prendere due capri, uno per il Signore ed uno per Azazel. Quello per il Signore lo offrirà in sacrificio per il perdono dei peccati, mentre per quanto riguarda quello per Azazel il testo dice: «Mette le due mani sulla testa dell’animale ed enumera tutti i peccati, le disubbidienze e le colpe degli Israeliti per scaricarli sull’animale. Poi lo lascia andare verso il deserto, sotto la guida di un uomo designato per questo compito. Il capro porta così tutti i peccati d’Israele in un luogo arido e deserto» (Levitico 16, 21-22). La novità qui è rappresentata dal fatto che i peccati non vengono più trasferiti su di un capro, ma su di un essere umano. Pare che questa misura debba essere presa in considerazione della gravità dei peccati di cui deve operare l’espiazione. Qui al capro espiatorio umano non viene ancora richiesto di morire come quando, alla maturazione dei tempi, sarà richiesto a Gesù. Quale gravità di colpa, allora, da richiedere l’estremo sacrificio? Ma noi sappiamo che Gesù non ha caricato su di sé soltanto le colpe del suo tempo, bensì tutte quelle passate, a cominciare dal peccato di Adamo, ed ha aperto la 136 In dialogo con l’anno A strada per la remissione di quelle future, riassumendo su di sé il significato profondo dei due capri, quello per Azazel e quello per il Signore. 137 In dialogo con l’anno A Tempo ordinario – 24a domenica Letture: Siracide 27, 30-28, 7; Romani 14, 7-9; Matteo 18, 21-35. «In quel tempo, Pietro si avvicinò a Gesù e gli disse: “Signore, se mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?” E Gesù gli rispose: “Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette”» (Matteo 18, 21-22). Come spesso accade, anche sul tema del perdono Gesù getta una luce nuova. Dalla prima lettura tratta da libro del Siracide sappiamo che Dio non ama la vendetta, la collera e il rancore verso il prossimo. L’autore del libro ci dice che se noi cediamo alla logica illogica della faida, anche soltanto come disposizione interiore, Dio interverrà per correggerci, oppure, quando ci rivolgeremo a lui impetrando guarigione, misericordia nei nostri confronti, oppure perdono per le nostre colpe, porrà come condizione per la concessione di quanto chiediamo l’aver mantenuto un atteggiamento magnanimo nei confronti delle colpe del nostro prossimo. Quello che l’autore del Siracide ci dice con il tono di un’esortazione, Gesù lo ribadisce raccontando la parabola del servo crudele e con l’osservazione finale: «Così anche il Padre mio celeste farà con voi [darvi agli aguzzini finché non abbiate restituito tutto il dovuto] se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello» (Matteo 18, 35). Dio, in tutta la storia sacra, ha dimostrato di essere una persona che perdona. Ha perfino istituito una festività, lo Yom Kippur cui abbiamo accennato la scorsa domenica, per il perdono annuale delle colpe. L’economia del sacrificio, così importante nella tradizione ebraica, è costruita sulla necessità del perdono delle colpe che esso opera. Numerosi 138 In dialogo con l’anno A sono i rituali di purificazione descritti dal Pentateuco aventi lo stesso scopo. Nella tradizione cabalistica si è individuata una sephirah, Tipheret, cioè una modalità del manifestarsi di Dio, che è preposta al perdono, alla Misericordia, temperando il Giudizio con l’Amore. Sembra quindi che non possiamo cogliere appieno l’invito di Gesù «Siate dunque perfetti, così come è perfetto il Padre vostro che è in cielo» (Matteo 5, 48), omettendo di imparare ed applicare il perdono del fratello che sbaglia. I due testi di Siracide e Matteo dicono molto e molto chiaramente in materia di perdono, ma lasciano anche aperte alcune questioni. Posto che la vita e le nostre disposizioni ci mettono più spesso nella posizione di chi dev’essere perdonato, quando ci viene richiesto di perdonare chi dobbiamo considerare come fratello e a chi dobbiamo dunque riservare il perdono? In secondo luogo, quali sono le condizioni del perdono, considerato che quello di Dio viene elargito dopo il pentimento e l’ammenda? Dobbiamo forse fare come Gesù sulla croce quando dice: «Padre, perdona loro perché non sanno quel che fanno» (Luca 23, 34) e non richiedere nemmeno l’ammissione di colpa? A queste parole, cavillando, potremmo obiettare che Gesù ha chiesto sì al Padre di perdonare, ma il Padre in quel momento non stava ascoltando come testimoniano le parole riportate da Marco: «Eloì, Eloì, lemà sabactàni?» Che significa: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (15, 34). Come, in una determinata situazione di continui soprusi, potremmo obiettare alle parole di Gesù citate all’inizio di questa riflessione che settanta volte sette fa soltanto quattrocentonovanta. Ma ci conviene? Non è preferibile rimanere a cuor leggero certi che del Signore è la vendetta e 139 In dialogo con l’anno A lasciare che ad operare sia la sua Giustizia, senz’altro più incisiva della nostra? 140 In dialogo con l’anno A Tempo ordinario – 25a domenica Letture: Isaia 55, 6-9; Filippesi 1, 20c-24.27a; Matteo 20, 1-16. La prima lettura di oggi fa parte della seconda parte (capitoli 40-55) del libro del profeta Isaia. In questa parte del libro, Dio parla per bocca del profeta agli Israeliti deportati a Babilonia dopo la conquista di Gerusalemme avvenuta nel 587 a. C.. Il Signore invia messaggi di speranza e di consolazione al suo popolo, promettendo la venuta di un liberatore, identificato con Ciro, re dei Persiani, che nel 538 decreterà la fine della cattività babilonese del popolo ebraico. Sparsi nel libro (capp. 42, 14; 49, 1-6; 50, 4-9; 52, 13-53, 12) sono i quattro canti del Servo del Signore di cui già si è detto in precedenza. Il passo di oggi riporta un “Oracolo del Signore” che potrebbe essere messo sia a suggello dell’accenno sulla giustizia divina della domenica scorsa, sia potrebbe ancora oggi essere citato nel tentativo di spiegare/non spiegare tanti eventi anche storici di cui non siamo capaci di capire il senso. Esso dice: «Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie. Oracolo del Signore. Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri» (Isaia 55, 8-9). La seconda lettura è tratta da una lettera che Paolo scrive alla comunità cristiana di Filippi nel 53 d. C.. In quell’anno egli si trova in carcere, probabilmente a Efeso. La città di Filippi si trova nell’odierna Grecia nordorientale e la sua è la prima comunità cristiana fondata sul suolo europeo. Paolo mantiene un rapporto molto stretto con i cristiani di Filippi ai quali lo lega una forte amicizia. Il passo di oggi 141 In dialogo con l’anno A esprime in estrema sintesi il contenuto di tutta la lettera. Paolo preferirebbe essere morto per essere con Cristo, ma il legame d’amore con le comunità cristiane da lui fondate in generale e quella di Filippi in particolare accanto all’impegno missionario che ancora gli viene richiesto lo “costringono” a rimanere in vita. Nei versetti successivi esorterà la comunità a continuare a lottare perseverando nella fede e comportandosi «in modo degno del Vangelo di Cristo» (Filippesi 1, 27), sull’esempio di Paolo stesso, per mettere a tacere gli avversari. Diverse volte Gesù si serve della metafora del lavoro nei campi in generale e nella vigna in particolare per parlare delle cose di lassù. Solo in Matteo troviamo la parabola del seminatore (13, 3-9), la parabola dell’erba cattiva (13, 2430), la parabola del granello di senape (13, 31-32), la parabola dei due figli (21, 28-30), la parabola della vigna e dei contadini omicidi (21, 33-44). Quella di oggi, nota come parabola degli operai della vigna, tratta dell’estrema discrezionalità di Dio nell’elargire i suoi beni. A sentire che il padrone della vigna ricompensa allo stesso modo gli operai che hanno lavorato tutto il giorno e quelli arrivati solamente sul far della sera ci coglie un senso di rancore. Tutti ci identifichiamo più facilmente con gli operai della prima ora e siamo più o meno convinti di aver lavorato di più e meglio di quelli che sono arrivati dopo di noi e dunque di meritarci una ricompensa maggiore. Siamo subito pronti a sentire ferito il nostro ben radicato principio di equità. Faremmo volentieri le pulci al Padre chiedendogli di temperare un po’ rispetto al nostro lo splendore del corpo glorioso donato al convertito dell’ultima ora. Forse abbiamo un po’ di ragione, ma Gesù è tassativo. Dice: «Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato 142 In dialogo con l’anno A con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te: non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?» (Matteo 20, 13-15). E conclude: «Così gli ultimi saranno i primi e i primi, ultimi» (Matteo 20, 16). Che cosa vorrà dire? 143 In dialogo con l’anno A Tempo ordinario – 26a domenica Letture: Ezechiele 18, 25-28; Filippesi 2, 1-11; Matteo 21, 28-32. Ezechiele ha svolto la sua missione di profeta tra il 593 e il 571 a. C., cioè a cavallo del 587, anno della distruzione di Gerusalemme e della deportazione degli Ebrei a Babilonia. Ezechiele informa il popolo che il Signore è entrato (pre)potentemente nella storia ed ha punito con l’esilio i suoi peccati e le sue infedeltà. Se il popolo accetterà di correggersi e di rinnovarsi potrà di nuovo gustare la salvezza del Signore. Oggi noi siamo abituati alle analisi dei politologi e degli storici e uno schema esplicativo degli eventi così semplice e preciso ci pare da un lato ingenuo ed infantile dall’altro fondamentalista. Anche il passo in lettura oggi ci presenta quest’intervento correttivo di Dio, questa volta applicandolo alla storia personale. «Se il giusto si allontana dalla giustizia e commette il male e a causa di questo muore, egli muore appunto per il male che ha commesso» (Ezechiele 18, 26), dice il Signore. Noi oggi usiamo dire che il morire è causato dalla vecchiaia, dalla malattia, da un incidente, da una mano assassina. Ma morire per aver commesso il male questo no! C’è comunque da notare che il Signore non dice che tutti quelli che muoiono muoiono perché hanno commesso il male; dice semplicemente che anche aver commesso il male può essere una causa di morte. C’è in questo passo una forte analogia con quanto accadde ad Adamo: allora la morte, la fatica e la sofferenza entrarono nel mondo dopo che egli ed Eva ebbero mangiato il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male che era stato loro vietato. Fu Dio a comminare questa condanna, come nel 587 a. C. punisce il 144 In dialogo con l’anno A suo popolo con l’esilio. Certo oggi facciamo fatica ad immaginare un intervento di Dio nella storia e nelle nostre vicende quotidiane; stentiamo a credere ai miracoli, figuriamoci alle punizioni divine. Qui il discorso è molto delicato, perché un qualunque assassino potrebbe giustificare il proprio nefando operato affermando di aver fatto la volontà di Dio e dicendo: «Come Dio allora ha inviato i Babilonesi a punire gli Ebrei, così oggi manda me a punire il tal dei tali». Se poi applicassimo questo ragionamento distorto alla storia potremmo giustificare qualunque massacro. La domanda giusta da porsi forse è: «Come facciamo a distinguere un preciso intervento di Dio da una sua manipolazione?». Potremmo tranquillizzarci dicendo che Dio non lascia impunita una manipolazione della sua persona ad altri fini che non sono i suoi, ma questo ci esime dall’intervenire in situazioni di grave ingiustizia come possono essere ad esempio gli eccidi? Seppure ingenuo, seppure infantile, seppure fondamentalista sembra che Ezechiele dica qualcosa di sicuro interesse anche per l’oggi. Con Gesù le cose si fanno più facili e chiare – o almeno così sembra. Nella parabola dei due figli insegna che è giusto chi fa la volontà del padre celeste, indifferentemente da quanto dichiari. Nella giustizia contano i fatti, non le parole. Nella spiegazione che segue Gesù dice chiaramente ai farisei che al loro tempo non ne esistevano più di giusti tanto che Dio inviò Giovanni Battista per un battesimo di conversione. Chi credeva a Giovanni, accettava il suo battesimo e cambiava seriamente vita diventava giusto, avesse fatto prima il pubblicano, la prostituta o il sacerdote. Solo che a credere a Giovanni erano stati solo pubblicani e prostitute. Gesù conclude: «Giovanni venne a voi sulla via 145 In dialogo con l’anno A della giustizia, e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, avete visto queste cose, ma poi non vi siete nemmeno pentiti così da credergli» (Matteo 21, 32). Un tema interessante quello della giustizia, declinato in differenti modi lungo tutta la storia sacra contenuta nelle Scritture. 146 In dialogo con l’anno A Tempo ordinario – 27a domenica Letture: Isaia 5, 1-7; Filippesi 4, 6-9; Matteo 21, 33-43. Questa domenica il Vangelo ci presenta nuovamente la metafora della vigna. Nella parabola della vigna e dei contadini omicidi Gesù presenta nuovamente uno scenario consueto alla gente del suo tempo, la vigna per l’appunto, e se ne serve per costruirvi una storia dal contenuto didascalico. Gesù era un rabbi, un maestro, un insegnante e come tale, servendosi del libro per antonomasia, la Bibbia, o meglio la Legge e i Profeti, spiegava ai suoi discepoli, ma anche ai suoi detrattori, le cose che riguardavano il regno di Dio. In questa parabola Gesù riprende il passo di Isaia 5, 17 e lo fa capire meglio. «La vigna del Signore degli eserciti è la casa d’Israele; gli abitanti di Giuda sono la sua piantagione preferita» (Isaia 5, 7); «Perciò io vi dico: “a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti”» (Matteo 21, 43). Chi ha tendenze antisemitiche può senz’altro trovare in queste parole una conferma autorevole alle sue posizioni, ma quello che pare importante sottolineare qui, al di là delle possibili manipolazioni ideologiche, sono i motivi per cui il regno può essere tolto a chi ritiene di averne uno e cercare di capire cosa trasmettono i due testi a noi oggi. Il passo di Isaia prosegue elencando tutta una serie di cose sgradite al Signore che sono il motivo per cui vuole distruggere la vigna: «Guai a voi che comprate palazzi e terreni. Voi che non lasciate un pezzo di terra a nessuno e diventate così gli unici padroni del paese» (Isaia 5, 8); «Guai a chi comincia a bere di prima mattina e si ubriaca fino a tarda notte» (Isaia 5, 11); «Gli uomini orgogliosi saranno piegati e umiliati» (Isaia 5, 15); «Guai a quelli che si trascinano nei loro 147 In dialogo con l’anno A peccati»» (Isaia 5, 18); «Guai a coloro che chiamano male il bene e bene il male, cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre, rendono dolce l’amaro e amaro il dolce. Guai a quelli che si illudono di essere saggi e intelligenti. Guai a quelli che bevono vino senza misura e continuano a mescolare bevande forti. Guai a quelli che si lasciano corrompere per assolvere un colpevole e per far condannare un innocente» (Isaia 5, 20-23). Ce n’è per tutti, anche nell’oggi. Se poi aggiungiamo ciò che dice Gesù il quadro è ancora più completo, se così si può dire. Gesù racconta la parabola, certamente non a caso, ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo. Loro sono i contadini a cui viene data in affitto la vigna, il popolo di Dio, e loro si rifiutano di riconoscere gli emissari e il figlio del padrone della vigna che sono stati mandati a raccogliere i frutti. Il figlio del padrone addirittura lo uccidono: «Costui è l’erede. Su, uccidiamolo e avremo noi la sua eredità» (Matteo 21, 38). Conclude Gesù: «Perciò io vi dico: “a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti”» (Matteo 21, 43). Un’altra traduzione che dice «sarà dato a gente che farà crescere i suoi frutti» è forse più corretta perché non confonde il popolo con i suoi capi dei sacerdoti e i suoi anziani che in questo caso sono i destinatari della minaccia. Sì, ce n’è proprio per tutti, anche nell’oggi. 148 In dialogo con l’anno A Tempo ordinario – 28a domenica Letture: Isaia 25, 6-10a; Filippesi 4, 12-14.19-20; Matteo 22, 1-14. Un’altra metafora ricorrente nelle Scritture, accanto a quella della vigna, è la metafora del banchetto. Il regno di Dio è spesso associato ad un grande e fastoso banchetto a cui chi vi è ammesso può sfamarsi a sazietà. Anche Paolo in Filippesi 4, 19 parla di un Dio che provvede generosamente ai bisogni dei suoi fedeli. Dice infatti: «Il Dio che servo vi darà generosamente tutto quello che vi occorre». Ma oggi sono soprattutto Isaia e Matteo ad illustrarci la pienezza del banchetto celeste. «Preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli, su questo monte, un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati» (Isaia 25, 6). Il banchetto però, per essere veramente celeste, divino e rappresentare la gioia del regno è accompagnato da altri atti che il Signore compie: «Eliminerà la morte per sempre» (Isaia 25, 8) e «La mano del Signore si poserà su questo monte» (Isaia 25, 10a). In Isaia questa scena del banchetto è contenuta nella cosiddetta “apocalisse maggiore di Isaia” (capp. 24-27) ed è preceduta dal terribile giudizio del Signore ed è seguita da ulteriori promesse di salvezza e da preghiere e lodi al Signore. Al banchetto partecipano, tratti da tutti i popoli, quelli che nel giudizio sono stati giudicati degni. Gesù in Matteo ci racconta, o meglio racconta a quelli che lo ascoltavano la cosiddetta parabola del banchetto di nozze. In questa parabola un re appronta una festa di nozze per suo figlio. Manda a chiamare gli invitati ma questi si rifiutano di venire accampando varie scuse. Alcuni persino 149 In dialogo con l’anno A uccidono i servi inviati a chiamarli. «Allora il re si indignò: mandò le sue truppe, fece uccidere quegli assassini e diede alle fiamme la loro città» (Matteo 22, 7). Poi manda i servi a raccogliere invitati dalle strade. Il testo dice: «Usciti per le strade, quei servi radunarono tutti quelli che trovarono, cattivi e buoni, e la sala si riempì di commensali» (Matteo 22, 10). Nell’espressione “cattivi e buoni” vi è la spiegazione di quello che accade dopo. Il re entra nella sala per vedere i commensali e ne scorge uno senza l’abito nuziale. Dice allora ai servi: «Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti» (Matteo 22, 13). Il banchetto di Dio è un banchetto esclusivo, vi si accede soltanto se si ha l’abito di nozze. Ma non è un banchetto cui si accede per censo, che esclude chi non ha i beni per acquistare un vestito nuovo. L’espressione del versetto 10 “cattivi e buoni” ci illumina sul senso da dare all’abito di nozze. Per la tradizione cristiana l’abito di nozze rappresenta la veste nuova che il catecumeno riceve all’atto del Battesimo e che rappresenta l’avvenuta purificazione della sua anima dal peccato originale e quindi l’uscita definitiva dal gruppo dei “cattivi” e l’entrata nel gruppo dei “buoni”. Ancora in questa fase il re deve separare gli agnelli dai capri e quale buon pastore vigilare sulla purezza, o meglio la bontà del gregge. Anche qui, come in Isaia, la consumazione finale del banchetto viene preceduta da un giudizio. Facile è anche l’identificazione di quelli che inizialmente erano invitati al banchetto. La parabola infatti si inserisce in un lungo discorso che Gesù fa rivolgendosi ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo e la stoccata, se così si può dire, è manifestatamente diretta a loro che non hanno accettato prima il ministero di 150 In dialogo con l’anno A conversione di Giovanni Battista e poi l’insegnamento dello stesso Gesù. 151 In dialogo con l’anno A Tempo ordinario – 29a domenica Letture: Isaia 45, 1.4-6; I Tessalonicesi 1, 1-5b; Matteo 22, 15-21. Il Vangelo di oggi racconta un altro episodio del dibattito tra Gesù e i farisei. Precedentemente ha discusso con i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo sulla sua autorità e ha raccontato loro la parabola dei due figli. Poi è venuta la parabola della vigna e dei contadini omicidi e «I capi dei sacerdoti e i farisei che ascoltavano queste parabole capivano che Gesù le raccontava per loro» (Matteo 21, 45). Nei quattordici versetti prima di quelli in lettura oggi Gesù ha raccontato la parabola del banchetto di nozze. Ora sopraggiunge la fatidica domanda da parte dei discepoli inviati dai farisei e di alcuni del partito di Erode: «È lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?» (Matteo 22, 17). Il Vangelo dice solamente che «Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: “Ipocriti, perché volete mettermi alla prova?”» (Matteo 22, 18): se infatti avesse risposto semplicemente di sì, si sarebbe alienato le simpatie del popolo che lo seguiva che viveva con malcontento il dominio romano; avrebbe anche implicitamente riconosciuto che gli Ebrei dovevano sottostare ad un’autorità al di fuori di quella di Dio, riconoscimento che aveva il sapore di una bestemmia. Se rispondeva di no, sarebbe incorso nel pericolo di venire arrestato e condannato dai Romani per sedizione o per, diremmo noi, obiezione fiscale. Con la famosa risposta che dà a chi lo sta interrogando, «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» (Matteo 22, 21), Gesù riesce ad evitare entrambi questi Scilla e Cariddi logicodottrinali. Gesù non ha concluso le sue diatribe 152 In dialogo con l’anno A pedagogiche: nei versetti che seguono sarà ancora interrogato dai sadducei a proposito della risurrezione dei morti e poi dai farisei sul comandamento più importante; infine mette tutti a tacere interrogando lui stesso i suoi interlocutori sulla discendenza del Messia da re Davide. Dopo questo darà un importante insegnamento alla folla e ai discepoli in cui metterà tutti in guardia dall’insegnamento impartito dai farisei e dai maestri della legge, accusandoli di cavillosità, incoerenza e ipocrisia. Scritta qualche tempo più tardi della sua permanenza in quella città (50 o 51 d. C.), la Prima Lettera di Paolo ai Cristiani di Tessalonica è il più antico scritto di tutto il Nuovo Testamento. Paolo, con la maestria che gli è propria, nel semplice indirizzo di saluto in lettura oggi riesce ad introdurre dei contenuti teologici di alto livello. Nel versetto 3 fa riferimento a quelle che saranno codificate dalla chiesa cattolica come le tre virtù teologali – la fede, la speranza e la carità – e nei versetti 4 e 5 ricorda come l’evangelizzazione sia un processo sinergico tra l’annuncio missionario, l’azione dello Spirito Santo e l’elezione di Dio Padre. Il tema portante della lettera è il destino di coloro che saranno già morti al momento del secondo avvento di Cristo. Paolo rincuora i fedeli della città affermando che grazie alla risurrezione della carne anche chi era morto potrà gustare, rivivendo, la gioia del regno. La Prima Lettera ai Tessalonicesi è seguita da una seconda che ragguaglia i fedeli della città sui tempi del giorno del Signore. 153 In dialogo con l’anno A Tempo ordinario – 30a domenica Letture: Esodo 22, 20-26; I Tessalonicesi 1, 5c-10; Matteo 22, 34-40. I capitoli 19-24 del libro dell’Esodo contengono l’alleanza di Dio con il popolo d’Israele. Dio ha condotto tutto il popolo ai piedi del monte Sinai. Ha poi chiamato Mosè sul monte, insieme con Aronne, per comunicargli i termini dell’alleanza. La presenza di Dio è ben visibile a tutto il popolo: «Il Sinai era tutto fumante, perché su di esso era sceso il Signore come un fuoco. Il fumo saliva come quello di una fornace, e tutto il monte era scosso come da un terremoto. Il suono della tromba divenne sempre più forte. Quando Mosè gli parlava, Dio rispondeva con il tuono» (Esodo 19, 18-19). Il popolo però deve mantenersi a debita distanza. «Chiunque si avvicinerà sarà messo a morte. Sia uomo o animale, non potrà sopravvivere. Ma non potrà essere toccato: dovrà essere ucciso a colpi di pietra o con frecce» (Esodo 19, 12-13), dice il Signore. E ancora: «Scendi di nuovo all’accampamento; poi ritornerai insieme con Aronne. Ma i sacerdoti e il popolo non devono precipitarsi per cerare di salire verso di me, altrimenti io li farò morire» (Esodo 19, 24). In questo scenario di magnificenza tremenda il Signore trasmette a tutti gli Israeliti, tramite Mosè, i dieci comandamenti, o meglio le dieci parole (Esodo 20, 2-17), riportate anche da Deuteronomio 5, 6-21. Qui, in un discorso in cui ricorda agli Israeliti l’alleanza stipulata con il Signore, Mosè aggiunge la seguente notazione: «Il Signore pronunziò queste parole con voce potente davanti a tutta la vostra assemblea, sul monte, dal fuoco, dalla nube e dall’oscurità, e non aggiunse altro. Poi scrisse queste parole su due tavole 154 In dialogo con l’anno A di pietra e le consegnò a me» (Deuteronomio 5, 22). In realtà Dio ha trasmesso a Mosè altre disposizioni necessarie alla buona conduzione della vita di ogni giorno. Ha dato una legge per la costruzione e l’uso degli altari (Esodo 20, 22-26), ha indicato come trattare gli schiavi (Esodo 21, 111), ha indicato quali sono i delitti che meritano la pena di morte (Esodo 21, 12-17), ha dato disposizioni per il risarcimento delle ferite (Esodo 21, 18-27), ha parlato delle responsabilità dei proprietari (Esodo 21, 28-36), ha fornito le leggi che regolano il furto e il risarcimento dei danni (Esodo 21, 37-22, 5), ha dato disposizioni sui prestiti (Esodo 22, 6-13), ha fornito ulteriori prescrizioni morali e religiose (Esodo 22, 15-19), e finalmente ha esposto le leggi in difesa dei deboli riportate dalla lettura di oggi (Esodo 22, 20-26). Successivamente ha comunicato a Mosè gli ulteriori fondamenti della religione ebraica (Esodo 22, 27-31, 18). Nel testo di oggi sono contenute quattro disposizioni – non molestare i forestieri, non maltrattare la vedova e l’orfano, non prestare denaro ad usura, non tenere in pegno il mantello del prossimo – che se volessimo applicarle all’oggi, con tutte le altre comunicate dal Signore, creerebbero non pochi problemi. Siamo soliti svicolarci da questi impegni richiesti allora dal Signore accampando come scusante il fatto che Gesù ha portato una nuova alleanza fondata sull’amore che ha abrogato quella antica. Ma sarà veramente così? A questo proposito, la frase di Gesù «In verità vi dico: “finché non siano passati il cielo e la terra, neppure un iota o un apice della legge passerà”» (Matteo 5, 18) dovrebbe farci riflettere. 155 In dialogo con l’anno A Tempo ordinario – 31a domenica Letture: Malachia 1, 14b-2, 2b.8-10; I Tessalonicesi 2, 7b9.13; Matteo 23, 1-12. Il profeta Malachia opera alcuni decenni dopo la ricostruzione del tempio, avvenuta nel 520-515 a. C.. Il suo libro è molto breve – consta di tre capitoli soltanto – ed ha una struttura semplice. Nei primi versetti (1, 1-5) il Signore ricorda agli Israeliti che essi sono il suo popolo – «Il Signore dice al suo popolo: “Io vi ho amati”» (1, 2); nei versetti da 1, 6 a 2, 16 rimprovera i sacerdoti accusandoli di non onorarlo come dovuto – «Se non mi ascolterete e non vi darete premura di dare gloria al mio nome, dice il Signore degli eserciti, manderò su voi la maledizione» (2, 2b); nella parte finale (2, 17-3, 24) promette e allo stesso tempo minaccia che manderà un messaggero a preparare la strada per la sua venuta – «Io mando il mio messaggero a preparare la strada davanti a me. Il Signore che voi desiderate entrerà subito nel suo tempio. Voi attendete il messaggero che proclamerà la mia alleanza con voi. Eccolo, sta per arrivare» (3, 1). La sua sarà una venuta per il giudizio, che separerà i giusti dai malvagi e premierà gli uni e punirà gli altri. Ma, il Signore avverte «Prima che arrivi quel giorno, giorno grande e terribile del Signore, io vi invierò il profeta Elia. Egli riconcilierà i padri con i figli e i figli con i padri. Così io non dovrò più venire a distruggere la terra» (3, 23-24). I Cristiani leggono in queste parole un chiaro riferimento a Giovanni Battista e a Gesù. A queste parole fa infatti riferimento l’angelo che parla con Zaccaria di suo figlio Giovanni Battista, come narrato da Luca 1, 16-17: «Questo tuo figlio riporterà molti Israeliti al Signore loro Dio: forte e potente come il profeta 156 In dialogo con l’anno A Elia, precederà la venuta del Signore, per riconciliare i padri con il figlio, per ricondurre i ribelli a pensare come i giusti. Così egli preparerà al Signore un popolo ben disposto». E sempre a queste parole fanno riferimento i sacerdoti e gli addetti al culto del tempio quando, interrogando il Battista sulla sua identità, gli chiedono: «Chi sei, allora? Sei forse Elia? Ma Giovanni rispose: “No, non sono Elia”» (Giovanni 1, 21). Più avanti Giovanni cambierà profeta di riferimento e affermerà: «Io sono la voce di uno che grida nel deserto: spianate la strada per il Signore» (Giovanni 1, 23), riprendendo le parole di Isaia 40, 3. Nel testo in lettura oggi, il Signore rimprovera aspramente i sacerdoti dicendo: «Voi invece avete deviato dalla retta via e siete stati d’inciampo a molti con il vostro insegnamento; avete distrutto l’alleanza di Levi, dice il Signore degli eserciti. Perciò io vi ho reso spregevoli e abietti davanti a tutto il popolo, perché non avete seguito le mie vie e avete usato parzialità nel vostro insegnamento» (Malachia 2, 8-9). Parole che riecheggiano anche in quanto Gesù rimprovera agli scribi e ai farisei del suo tempo nel discorso alla folla e ai discepoli riportato da Matteo 23, 1-7: «Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. Praticate e osservate tutto ciò che vi dicono, ma non agite secondo le loro opere, perché essi dicono e non fanno. Legano infatti fardelli pesanti e difficili da portare e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito. Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dalla gente: allargano i loro filattèri e allungano le frange; si compiacciono dei posti d’onore nei banchetti, dei primi seggi nelle sinagoghe, dei saluti nelle piazze, come anche di essere chiamati “rabbì” dalla gente». Anche qui Gesù, in collegamento con la tradizione dei 157 In dialogo con l’anno A profeti, ci elargisce un insegnamento per l’oggi, individuando per noi, nel caso ci trovassimo in una posizione simile, che cosa sarebbe bene non fare: «Ma voi non fatevi chiamare “rabbì”… E non chiamate padre nessuno di voi sulla terra… E non fatevi chiamare guide…» (Matteo 23, 8-9). O farlo perlomeno con una certa parsimonia. 158 In dialogo con l’anno A Tempo ordinario – 32a domenica Letture: Sapienza 6, 12-16; I Tessalonicesi 4, 13-18; Matteo 25, 1-13. Le tre letture di oggi sono caratterizzate da un tema comune: il Signore previene, il Signore agisce, il Signore sorprende. La Sapienza, Hochmah nel linguaggio cabalistico, è la conoscenza dei misteri di Kether, la Corona di Dio-Aor Ein Soph, Luce senza Fine. «Nel farsi conoscere previene coloro che la desiderano» (Sapienza 6, 13). Il nostro termine sapienza deriva dal latino sapere, cioè sapere nel senso di aver sapore o essere sapido. Nella sephirah Hochmah infatti Aor Ein Soph comincia la sua discesa nel mondo e la inizia assumendo un particolare sapore tramite il quale può essere gustato dal mistico. Il mistico, ovvero l’iniziato ai misteri di Aor Ein Soph, dopo essersi adeguatamente preparato, ma senza per questo aver acquisito dei particolari meriti, viene colto da Hochmah, come Saulo sulla via di Damasco. Dai Cristiani la Sapienza è identificata con Gesù; sapienza del Padre. La Sapienza è anche simboleggiata dal sale, di cui Gesù dice: «Ma se il sale perde il suo sapore, come si potrà ridarglielo?» (Matteo 5, 13) in un passo in cui i discepoli stessi, in quanto figli adottivi di Dio e pertanto fratelli di Gesù, vengono identificati con il sale e sono quindi riconosciuti come partecipi della Sapienza divina, di cui avrebbero il medesimo sapore. La Sapienza, come Gesù sulle strade della Palestina al suo tempo e sulle nostre strade oggi, «si lascia trovare da quelli che la cercano» (Sapienza 6, 12), «poiché lei stessa va in cerca di quelli che sono degni di lei, appare loro benevola per le strade e in ogni progetto va loro incontro» (Sapienza 6, 16). Anche Paolo ci presenta una 159 In dialogo con l’anno A situazione in cui il Signore previene, agisce, e sorprende: è il giorno della seconda venuta, il giorno del giudizio in cui saranno presi prima i morti in Cristo e poi chi tra i suoi fedeli sarà ancora in vita per essere «rapiti insieme con loro nelle nubi, per andare incontro al Signore in alto» (I Tessalonicesi 4, 17). A noi non resta che aspettare perseverando nella fede e nelle buone opere da essa ispirate «Perché il Signore stesso, a un ordine, alla voce dell’arcangelo e al suono della tromba di Dio, discenderà dal cielo» (I Tessalonicesi 4, 16). E del giorno del giudizio parla anche Gesù nella parabola delle dieci ragazze riportata da Matteo. Tutto il senso della parabola, che identifica il Signore con lo sposo, è contenuto nell’esortazione finale di Gesù: «Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora» (Matteo 25, 13). Poco più avanti, abbandonando il linguaggio delle parabole, Gesù sarà più diretto e descriverà il giorno del giudizio in termini espliciti: «Quando il Figlio dell’uomo verrà nel suo splendore, insieme con gli angeli, si sederà sul suo trono glorioso. Tutti i popoli della terra saranno riuniti di fronte a lui ed egli li separerà in due gruppi, come fa il pastore quando separa le pecore dalle capre: metterà i giusti da una parte e i malvagi dall’altra» (Matteo 25, 31-33). Una scena apocalittica – il tema sarà infatti ripreso e declinato in vario modo dall’Apocalisse di Giovanni – che ha ispirato artisti di tutte le discipline e di tutti i tempi. Anche qui un Signore che previene, agisce, sorprende. 160 In dialogo con l’anno A Tempo ordinario – 33a domenica Letture: Proverbi 31, 10-13.19-20.30-31; I Tessalonicesi 5, 1-6; Matteo 25, 14-30. Nel 90 d. C. i rabbini ebrei, riuniti nella città di Iamnia in Palestina, compilarono la lista completa dei libri sacri degli Ebrei. La lista comprendeva i testi che formano il Canone, costituito intorno al 400 a. C. dalla Legge e dai Profeti cui si aggiunsero in seguito i Salmi, ed altri scritti. Prese corpo così pertanto l’attuale suddivisione della Bibbia ebraica, scritta in ebraico e con alcuni testi in aramaico: la Legge (5 testi), composta da Genesi, Esodo, Levitico, Numeri e Deuteronomio; i Profeti (21 testi), composti da Giosuè, Giudici, Primo libro di Samuele, Secondo libro di Samuele, Primo libro dei Re, Secondo libro dei Re, Isaia, Geremia, Ezechiele, Osea, Gioele, Amos, Abdia, Giona, Michea, Naum, Abcuc, Sofonia, Aggeo, Zaccaria e Malachia; gli Scritti (13 testi), composti da Salmi, Giobbe, Proverbi, Rut, Cantico dei Cantici, Qoelet, Lamentazioni, Ester, Daniele, Esdra, Neemia, Primo libro delle Cronache, Secondo libro delle Cronache. Alcuni Ebrei però vivevano all’estero da diversi secoli e quelli residenti ad Alessandria vollero tradurre la Bibbia nella lingua da loro usata, il greco. Ebbe così origine la Bibbia Greca detta dei Settanta che conteneva libri che non furono ritenuti canonici nella riunione di Iamnia e che sono noti con il nome di Deuterocanonici (10 testi). Essi sono: Ester (greco), Giuditta, Tobia, Primo libro dei Maccabei, Secondo libro dei Maccabei, Sapienza, Siracide, Baruc, Lettera di Geremia, Supplementi deuterocanonici a Daniele. La forma dell’Antico Testamento usata dai Cristiani è 161 In dialogo con l’anno A quella della Bibbia greca. Dei libri Deuterocanonici si è già detto che sono stati riconosciuti dalla Chiesa romana nel IV secolo e dichiarati canonici dalla Chiesa cattolica nel Concilio di Trento nel 1546. I Protestanti li chiamano Apocrifi e non li riconoscono come canonici, bensì come utili per l’edificazione personale e pertanto si inseriscono in appendice alla Bibbia. Le Chiese ortodosse non sono addivenute ad alcuna decisione ufficiale, ma li includono nelle loro Bibbie. Il Nuovo Testamento (o Alleanza) comprende 27 scritti, circa un terzo dell’Antico, il cui elenco viene fissato intorno al 150-200 d. C. ed è definitivamente riconosciuto intorno al V secolo. In origine sono scritti in greco. Gli scritti sorti nell’ambito della Nuova Alleanza a seguito della predicazione di Gesù ma non inclusi nel Canone prendono il nome di Apocrifi. Il canone del Nuovo Testamento è pertanto composto dai quattro Vangeli (Matteo, Marco, Luca, e Giovanni) che narrano la vita e la predicazione di Gesù, dagli Atti degli Apostoli che raccontano la vita degli Apostoli in seguito alla morte e risurrezione di Gesù, dalle Lettere di Paolo (Romani, Prima Corinzi, Seconda Corinzi, Galati, Efesini, Filippesi, Colossesi, Prima Tessalonicesi, Seconda Tessalonicesi, Prima Timoteo, Seconda Timoteo, Tito, Filemone ed Ebrei), di Giacomo, di Pietro (Prima e Seconda), di Giovanni (Prima, Seconda e Terza), di Giuda e dall’Apocalisse di Giovanni. Le lettere sono esortazioni e approfondimenti attribuite ad alcuni apostoli e rivolte alle prime comunità cristiane. L’Apocalisse di Giovanni contiene una descrizione profetica dei fatti che devono avvenire prima e durante il tempo della seconda venuta di Cristo. 162 In dialogo con l’anno A Tempo ordinario – 34a domenica – Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’Universo Letture: Ezechiele 34, 11-12.15-17; I Corinzi 15, 20-26.28; Matteo 25, 31-46. Come già detto il profeta Ezechiele svolge la sua missione tra il 593 e il 571 a. C., a cavallo cioè della deportazione degli Ebrei a Babilonia (587 a. C.). Nel passo in lettura oggi il Signore promette per bocca di Ezechiele che si occuperà lui stesso delle sue pecore, cioè del suo popolo disperso: «Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e io le farò riposare» (Ezechiele 34, 15). Tale evento si realizzerà quando il Signore, servendosi di Ciro, re dei Persiani, farà tornare gli Israeliti a Gerusalemme nel 538 a. C.. Paolo oggi, nella prima lettera ai Corinzi, ci presenta nuovamente una descrizione degli eventi che accadranno alla fine dei tempi, rivelandone in parte anche il senso: «Perché, se per mezzo di un uomo venne la morte, per mezzo di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti. Come infatti in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita» (I Corinzi 15, 21-22). Le cose avverranno con ordine, assicura Paolo: «Prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo. Poi sarà la fine, quando egli consegnerà il regno a Dio Padre, dopo aver ridotto al nulla ogni Principato e ogni Potenza e Forza… L’ultimo nemico a essere annientato sarà la morte» (I Corinzi 15, 23-26). La prima lettera ai Corinzi ovviamente non contiene solamente queste annotazioni, pure molto importanti. Scritta probabilmente nel 54-55 d. C. e diretta ai Cristiani di Corinto – città in cui Paolo aveva soggiornato nel 49-50 d. C. – parla di processi e morale sessuale, di matrimonio e celibato, delle carni sacrificate 163 In dialogo con l’anno A agli idoli, della comunità, della cena del Signore, dei doni dello Spirito ed è pertanto un importantissimo tassello nella costruzione dell’edificio della religione cristiana quale noi oggi la conosciamo. Cristologia, pneumatologia e teologia del Padre sono senz’altro gli aspetti più importanti trattati dalla lettera. A questo proposito, tra le altre altrettanto importanti, si possono citare le parole seguenti: «Ma come si legge nella Bibbia (Isaia 52,15 e 64, 3): “Quel che nessuno ha mai visto e udito, quel che nessuno ha mai immaginato Dio lo ha preparato per quelli che lo amano”. Dio lo ha fatto conoscere a noi per mezzo dello Spirito. Lo Spirito infatti conosce tutto, anche i pensieri segreti di Dio. Nessuno può conoscere i pensieri segreti di un uomo: solo lo spirito, che è dentro di lui, può conoscerli. Allo stesso modo solo lo Spirito di Dio conosce i pensieri segreti di Dio. Ora, noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito che viene da Dio, perciò conosciamo quel che Dio ha fatto per noi. E ne parliamo con parole non insegnate dalla sapienza umana, ma suggerite dallo Spirito di Dio. Così spieghiamo le verità spirituali a quelli che hanno ricevuto lo Spirito» (I Corinzi 2, 9-13). Un lascito rilevante quello di Paolo che richiama i Cristiani ancora oggi ad una dignità che spesso, nelle vicende contrastanti della vita, si tende a dimenticare. Una dignità che richiama, scusate il bisticcio, ad esserne degni, facendo tesoro delle raccomandazioni a non gettare le perle ai porci e a non rendere triste lo Spirito Santo che Dio ha messo in noi come un sigillo, contenute rispettivamente in Matteo 7, 6 ed in Efesini 4, 30. 164 In dialogo con l’anno A Tempo ordinario – 1a domenica dopo Pentecoste – Santissima Trinità Letture: Esodo 34, 4b-6.8-9; II Corinzi 13, 11-13; Giovanni 3, 16-18. Le tavole della legge hanno avuto una genesi travagliata. Esse sono state scritte dalla mano di Dio e consegnate a Mosè al momento della prima alleanza: «Il Signore disse a Mosè: “Sali da me sul monte: quando sarai lassù, io ti darò le tavole di pietra su cui ho scritto gli insegnamenti e la legge per istruire gli Israeliti”» (Esodo 24, 12). Dopo l’episodio dell’adorazione del vitello d’oro da parte del popolo (Esodo 32, 1 e segg.), vengono distrutte dallo stesso Mosè: «Quando furono vicini all’accampamento, Mosè vide il vitello e la gente che danzava. Allora pieno di collera, buttò via le tavole e le spezzò ai piedi della montagna» (Esodo 34, 19). Poi Mosè chiede al Signore di perdonare il popolo per la sua infedeltà e di camminare nuovamente con loro. Il Signore accetta, ma con riserva: «Ma un giorno interverrò e punirò gli Israeliti per il loro peccato» (Esodo 32, 34) e ribadisce: «Io sono il Signore, il Dio misericordioso e clemente, sono paziente, sempre ben disposto e fedele. Conservo la mia benevolenza verso gli uomini per migliaia di generazioni, e tollero le disubbidienze, i delitti e i peccati; ma anche non lascio senza punizione chi pecca, e lo castigo sui suoi figli fino alla terza e alla quarta generazione» (Esodo 34, 6-7). Comunque risponde alla preghiera di Mosè dicendo: «Farò come tu hai detto: tu hai la mia piena fiducia perché ti conosco bene» (Esodo 33, 17) e lo chiama nuovamente sul monte: «Il Signore disse a Mosè: “Taglia due tavole di pietra come quelle che hai spezzato. Io scriverò su queste 165 In dialogo con l’anno A nuove tavole i comandamenti che avevo scritto sulle prime. Tieniti pronto per domani mattina: all’alba salirai sul monte Sinai e starai di fronte a me lassù, in cima al monte. Nessuno ti accompagni! Nessuno si faccia vedere sulla montagna e neppure il vostro bestiame venga a pascolare nei suoi dintorni”. Mosè tagliò due tavole di pietra come le prime. Il mattino dopo, molto presto, salì sul monte Sinai, secondo l’ordine del Signore. Portava con sé le due tavole di pietra» (Esodo 34, 1-4). Infine, dopo che il Signore gli ha comunicato altre importanti norme (il divieto di adorare altri dei e di fare statue, l’osservanza del riposo settimanale e di altre feste, norme sui sacrifici e i primogeniti) «Il Signore ordinò ancora a Mosè: “Scrivi questi comandamenti, perché essi stanno alla base dell’alleanza che concludo con te e con il popolo d’Israele”. Mosè rimase sul monte con il Signore quaranta giorni e quaranta notti, senza mangiare e senza bere. Il Signore scrisse sulle tavole di pietra le parole dell’alleanza, i dieci comandamenti, Mosè scese dal monte Sinai. Teneva in mano le due tavole su cui erano scritti gli insegnamenti del Signore; egli non sapeva che la pelle della sua faccia era diventata splendente poiché aveva parlato con il Signore» (Esodo 34, 27-29). Se l’Esodo oggi ci racconta di un episodio saliente della prima alleanza, il Vangelo di Giovanni riporta in estrema sintesi il fondamento di quella che i Cristiani definiscono l’alleanza nuova. Dice infatti Gesù a Nicodemo: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio, unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (Giovanni 3, 16). In termini cabalistici potremmo dire che Mosè ci ha comunicato uno dei volti di Dio, quello della Legge, di Gebourah, il Giudizio, mentre Gesù ce ne ha comunicato un altro, quello di Hesed, l’Amore. I due volti, 166 In dialogo con l’anno A le due sephiroth – ricordiamo – sono complementari e trovano la loro sintesi in Tipheret, la Misericordia o Grazia. Rimanendo sempre nel campo degli insegnamenti sintetici, non possiamo mancare di apprezzare oggi, festa della Santissima Trinità, le parole con cui Paolo a questo proposito conclude la seconda lettera ai Cristiani di Corinto: «La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi» (II Corinti 13, 13). 167 In dialogo con l’anno A Tempo ordinario – 2a domenica dopo Pentecoste – Santissimo Corpo e Sangue di Cristo Letture: Deuteronomio 8, 2-3.14b-16a; I Corinzi 10, 16-17; Giovanni 6, 51-58. La prima lettura di oggi fa parte del secondo discorso di Mosè agli Israeliti riportato dal libro del Deuteronomio (dal greco=seconda legge). Questo discorso va dal versetto 44 del capitolo 4 al versetto 68 del capitolo 28 e rappresenta un richiamo al popolo alla fedeltà e all’amore verso Dio, che per primo si è dimostrato fedele ed amorevole. L’amore per Dio si deve manifestare nell’osservanza della sua Legge. A questo scopo al capitolo 5, sono riportate nuovamente le dieci parole rivolte a Mosè sul monte Sinai, come raccontato da Esodo 20, 2-17. Ma oggi è la festa del Santissimo Corpo e Sangue di Cristo ed assume pertanto particolare rilevanza il versetto 3 del capitolo 8 in lettura oggi. Dice Mosè agli Israeliti: «Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore». A questo proposito è utile rileggere anche il passo in cui Gesù risponde al tentatore nel deserto citando questo passo di Deuteronomio. Dice il tentatore: «Se tu sei il Figlio di Dio, comanda a queste pietre di diventare pane! Ma Gesù rispose: “Nella Bibbia è scritto: ‘Non di solo pane vive l’uomo ma di ogni parola che viene da Dio’”» (Matteo 4, 3-4). Paolo in I Corinzi tratta del medesimo argomento: «E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo 168 In dialogo con l’anno A all’unico pane» (10-16-17). Ma è Giovanni ad offrirci le affermazioni più pregnanti su questo tema quando riporta le parole di Gesù che dice: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo» (6, 51). Certo noi possiamo chiederci come i Giudei di allora: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?» (Giovanni 6, 52), ma forse è più utile che cerchiamo di dipanare il filo sotteso a queste letture: pane, ciò che esce dalla bocca di Dio, parola, corpo, carne. Innanzitutto balzano all’occhio le differenze (che cosa ha a che vedere la parola con la carne?), poi ci viene da porre dei distinguo (non è detto che tutto ciò che esce dalla bocca di Dio sia parola). Possiamo poi fare delle dotte disquisizioni sulla traduzione: Giovanni fa riferimento a un originale aramaico che privilegia il termine “carne” rispetto a quello greco di “corpo”. Possiamo ancora disquisire sul fatto che Dio ha creato tutto con la parola, e dunque anche ogni forma di cibo per l’uomo e che pertanto con l’espressione «quanto esce dalla bocca del Signore» significa «tutta quella parte del creato creata per l’alimentazione umana»; oppure che la parola – quella sacra contenuta nella Bibbia, o meglio nella Legge e nei Profeti – rappresenti per noi un nutrimento spirituale per lo meno tanto necessario quanto quello corporeo. Possiamo infine ricordare il Vangelo di Matteo che riporta la preghiera che Gesù ha insegnato al cui interno c’è la frase «Dacci oggi il nostro pane quotidiano» e che l’espressione “quotidiano” è stata resa anche con “necessario”, “sufficiente”, “sovrasostanziale”. Tutte operazioni intellettuali più che legittime, che forse ci aiutano ad avvicinarci – in punta di piedi se vogliamo – al mistero celebrato oggi di un Dio che si fa tutto in tutti. 169 In dialogo con l’anno A Tempo ordinario – Venerdì dopo la 2a domenica dopo Pentecoste – Sacratissimo Cuore di Gesù Letture: Deuteronomio 7, 6-11; I Giovanni 4, 7-16; Matteo 11, 25-30. Nella tradizione cristiana, ma non solo, il cuore rappresenta l’intima essenza della persona, il suo sancta sanctorum e la sede della vita. Che cosa rappresenta quindi il cuore di Gesù? Potremmo dire che, essendo lui Figlio di Dio, il cuore di Gesù è il luogo per antonomasia della Shekhinah, la presenza di Dio nel mondo. Dice Giovanni: «Chiunque confessa che Gesù è il Figlio di Dio, Dio rimane in lui ed egli in Dio» (I Giovanni 4, 15). Da ciò possiamo dedurre che il cuore di chi confessa che Gesù è il Figlio di Dio può diventare luogo della Shekhinah. Che nella Nuova Alleanza il tempio perda piano piano la sua importanza lo sappiamo dal Vangelo di Giovanni quando Gesù dice alla Samaritana: «Viene un’ora, anzi è già venuta, in cui gli uomini adoreranno il Padre guidati dallo Spirito e dalla verità di Dio» (Giovanni 4, 23). E che sempre nella Nuova Alleanza il corpo, innanzitutto quello di Cristo, sostituisca il tempio stesso lo sappiamo sempre dal Vangelo di Giovanni quando Gesù risponde ad alcuni capi ebrei che gli chiedono conto del fatto che ha scacciato dal tempio i mercanti: «“Distruggete questo tempio! In tre giorni lo farò risorgere”. Quelli replicarono: “Ci sono voluti quarantasei anni per costruirlo, questo tempio, e tu in tre giorni lo farai risorgere?” Ma Gesù parlava del tempio del suo corpo» (Giovanni 2, 19-21). E ancora nel racconto della morte corporea di Gesù troviamo scritto: «Ma Gesù di nuovo gridò forte, e poi morì. Allora il grande velo appeso del tempio si squarciò in due, da cima a fondo» (Matteo 27, 170 In dialogo con l’anno A 51). Di quest’identità, o perlomeno analogia, tra tempio e corpo troviamo testimonianza anche nelle parole di Paolo che in I Corinzi 6, 19 dice: «Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo?» Sembra dunque lecito, accanto all’analogia tra tempio e corpo, azzardare un’identità simbolica tra Santo dei Santi e Cuore, perlomeno quello di Gesù, con tutte le deduzioni che se ne possono trarre, prima di tutte la manifestazione nel Cuore della Shekhinah. Da questo si può dedurre che se, come ci indica Giovanni nella sua prima lettera “Dio è amore” (4, 16), il Cuore diviene sede dell’amore. Come vuole la tradizione, anche popolare (e stranamente come vuole anche la tradizione indù che identifica anch’essa in Anahata, il chakra del cuore, la sede dell’amore). Nuova Alleanza e dunque nuovo tempio e dunque nuovo Santo dei Santi. E da qui riparte la nuova legge che Gesù ci invita a seguire con queste parole: «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero» (Matteo 11, 29-30). Un Gesù non nella mandorla (o mandala?), ma egli stesso mandorla (o mandala?): dura scorza con i mercanti nel tempio, con i farisei ipocriti e con i capi dei sacerdoti, ma con un cuore di dolce polpa che ristora per gli affaticati e gli oppressi. Tempio e Santo dei Santi, scorza e polpa della mandorla, corpo e Cuore di Gesù: tre simboli su cui vale la pena di meditare. Come vale la pena di meditare su cosa può significare oggi, in un’epoca di mercificazione del corpo, la cacciata dei mercanti dal tempio. 171 In dialogo con l’anno A ALTRE RIFLESSIONI Bibbia e alimentazione Il giorno dopo, mentre essi erano in cammino e stavano avvicinandosi alla città, Pietro salì sulla terrazza a pregare: era quasi mezzogiorno. Gli venne fame e voglia di mangiare. Mentre gli preparavano il pranzo, Pietro ebbe una visione. Vide il cielo aperto e qualcosa che scendeva: una specie di tovaglia grande, tenuta per i quattro angoli, che arrivava fino a terra. Dentro c’era ogni genere di animali, di rettili e di uccelli. Allora una voce gli disse: “Pietro, alzati! Uccidi e mangia!” Ma Pietro rispose: “Non lo farò mai, Signore, perché io non ho mai mangiato nulla di proibito o di impuro”. Quella voce per la seconda volta gli disse: “Non devi considerare impuro quel che Dio ha dichiarato puro”. Questo accadde per tre volte; poi, all’improvviso, tutto fu risollevato verso il cielo (Atti 10, 915). Questo passo degli Atti degli Apostoli è stato reiteratamente interpretato come risolutivo dell’empasse in cui si trovavano gli apostoli, Ebrei, quando cominciarono la loro missio ad gentes e vennero a contatto con popoli che non rispettavano le leggi di purità sancite dal Levitico. Si è voluto vedere nell’episodio narrato una totale abrogazione da parte di Dio delle norme che regolavano l’alimentazione degli Ebrei, ritenendo – si spera in buona fede – che tale abrogazione andava estesa a tutti i cibi di tutti i popoli e giungendo a dire che il discepolo di Cristo non era più sottoposto ad alcun obbligo particolare relativo 172 In dialogo con l’anno A all’alimentazione. Ciò allo scopo di facilitarne la sua opera di diffusione del messaggio di Gesù nel mondo. Ora, posto che il passaggio citato sembra non dire affatto questo – il Signore sta parlando di quel preciso cibo che presenta a Pietro e non di tutto il cibo (e inoltre il passo non dice che Pietro mangia) – e posto che un’abrogazione totale delle norme di purità in materia di alimentazione non è cosa applicabile da nessuna parte (sennò, perché noi occidentali non ci sfamiamo con la carne dei ratti, o dei cani, o persino umana?), ci sono nella Bibbia altri passi, senz’altro autorevoli quanto questo, in cui si parla di cibo in altri termini. In Genesi 2, 15-17 «Dio, il Signore, prese l’uomo e lo mise nel giardino di Eden per coltivare la terra e custodirla. E poi gli ordinò: “Puoi mangiare il frutto di qualsiasi albero del giardino, ma non quello dell’albero che infonde la conoscenza di tutto”»: questo passo, in assenza di altre precisazioni, pare dire che “In principio” l’alimentazione umana corretta consistesse in soli frutti degli alberi e della terra. Nello stato edenico, cui l’uomo dall’inizio è destinato, non si fa menzione da parte di Dio di alimentazione carnea. Tale forma di cibo fa la sua comparsa solo dopo il diluvio, quando Dio dice a Noè: «Tutti gli animali: il bestiame, gli uccelli, gli animali selvatici e i pesci, avranno timore e paura di voi. Di tutti potrete disporre: vi do per cibo tutto ciò che si muove e ha vita, come vi ho dato le piante» (Genesi 9, 2-3). Poi vengono le limitazioni – «Non dovrete però mangiare la carne con il sangue: perché nel sangue c’è la vita» (Genesi 9, 4) e quelle già menzionate del Levitico. Se poi arriviamo alla fine del testo cristiano della Bibbia, troviamo ad opera dell’apostolo Giovanni una descrizione dell’ambiente in cui prende dimora l’uomo prima decaduto e ora reintegrato 173 In dialogo con l’anno A nell’originario stato edenico grazie al sacrificio del Cristo. Tale ambiente – la Città di Dio – è così profetato: «Nulla di impuro vi potrà entrare, nessuno che pratichi la corruzione o commetta il falso. Entreranno soltanto quelli che sono scritti nel libro della vita che appartiene all’Agnello… In mezzo alla piazza della città, da una parte e dall’altra del fiume, cresceva l’albero che dà la vita. Esso dà i suoi frutti dodici volte all’anno, per ciascun mese il suo frutto… Beati quelli che lavano i loro abiti nel sangue dell’Agnello: essi potranno cogliere i frutti dell’albero che dà la vita» (Apocalisse 21, 27. 22, 2. 22, 14). Qui si fa menzione esclusivamente del frutto dell’albero della vita, ad indicare in esso la vera alimentazione del credente redento. 174 In dialogo con l’anno A «Tu che abiti al riparo dell’Altissimo e dimori all’ombra dell’Onnipotente, di’ al Signore: “Mio rifugio e mia fortezza, mio Dio, in cui confido”». I Salmi, nella loro totalità, rappresentano la più completa forma di preghiera presente nella Bibbia. Tessono, nella loro stesura, il rapporto del fedele con Dio offrendo al contempo una completa antropologia ed una completa teologia. Sono libro di preghiera e di poesia e come ogni opera poetica che si rispetti contengono delle parti che sono sintesi e cifra della loro totalità e, a volte, della totalità tout court. È questo il caso del passo sopracitato, incipit del Salmo 90; chiama in causa l’uomo e Dio e ne descrive il reciproco rapporto. L’uomo vi è nominato come uno che abita: l’abitare dell’uomo rappresenta la caratteristica costitutiva del suo essere nel mondo. Dio lo ha creato, a suo tempo, per abitare l’Eden ed ora si trova ad abitare il mondo e a dimorarvi. L’uomo è uno che abita e che dimora. Qual è l’elemento caratterizzante di questo abitare? Lo stare al riparo, all’ombra. L’immagine metaforizza un paesaggio desertico dove ci si rifugia dietro le rocce in caso di tempesta e ci si difende dal calore del sole sotto le tende. L’immagine richiama quindi l’idea di un abitare in un ambiente che può anche presentare segni di ostilità, di pericolo. Ma a questo c’è riparo, c’è rimedio. Come nel deserto ci si ripara all’ombra di una roccia, di una palma, di una tenda, così nell’esistere il fedele si ripara all’ombra di Dio, che qui viene presentato nei due Santi Nomi di “Altissimo” e “Onnipotente”. Se la condizione e la costituzione dell’uomo possono essere sintetizzati in 175 In dialogo con l’anno A quattro versi non così è per Dio di cui vengono richiamate soltanto due delle settantadue caratteristiche espresse dai suoi Nomi; ma sono caratteristiche importanti: è Altissimo rispetto all’uomo che, in quanto creatura, dimora più in “basso”, è Onnipotente rispetto a un uomo che “può” limitatamente. Il terzo verso si apre con l’esortazione rivolta all’uomo «Di’ al Signore». Dopo l’abitare altro elemento costitutivo dell’uomo è la parola. Già nell’Eden (Gn 2, 19) l’uomo veniva presentato come uno che parla, che dice. Ora viene esortato a rivolgersi al Signore esprimendo una lode/preghiera che ne approfondisce il rapporto di vicinanza e di “confidenza”. Dio, nella sua infinita perfezione e benevolenza, continua a rapportarsi con l’uomo tramite la parola; l’uomo nella sua creaturalità e “debolezza” si rapporta con Dio tramite la parola. 176 In dialogo con l’anno A I Cor 1, 22-25 «I Giudei infatti chiedono miracoli e i Greci cercano la sapienza, ma noi predichiamo Cristo crocifisso, che per i Giudei è scandalo, e per gli stranieri pazzia». Così scrive San Paolo nella I Lettera ai Corinzi. A questo riguardo una prima osservazione riguarda l’importanza del sacrificio nella tradizione ebraica. Consacrazione e sacrificio consegnano a Dio qualcosa o qualcuno che passa dalla sfera terrena a quella celeste e le mette in comunicazione. A dire la verità nella tradizione ebraica tutto è consacrato a Dio (il primo maschio, il tempio, la lingua, la Scrittura, la terra promessa, il popolo ebraico, il Sabato) ed è tramite con Lui. Gesù, consacrato al Padre, nella crocifissione viene “riconsegnato” a lui, riconsacrando e traendo con sé quella parte di mondo che «ha ascoltato e messo in pratica» la sua parola. Alcuni di noi talvolta si chiedono: «Ma quale necessità aveva Dio di sacrificare suo figlio?». Una prima risposta, forse non molto ispirata ma certo non priva di buon senso, prende le mosse dalla promessa di Dio dopo il diluvio: «Non maledirò mai più il mondo a causa dell’uomo. È vero che fin dalla sua giovinezza egli ha in cuore solo intenzioni malvagie. Tuttavia io non distruggerò mai più tutti gli esseri viventi come ho fatto questa volta» (Gn 8, 21). Aggiungiamo poi che la storia ha attestato un certo difetto d’udito nei confronti dei profeti ispirati. Consideriamo infine i numerosi mali che attanagliavano l’umanità ai tempi della venuta di Gesù: quella volta vi erano sopraffazione dell’uomo sull’uomo, schiavitù, idolatria, materialismo, spettacolarizzazione della morte violenta, guerre (quante guerre di liberazione aveva dovuto 177 In dialogo con l’anno A affrontare lo stesso popolo eletto?), pena di morte, infanticidi, pedofilia “orge e ubriachezza”’ in genere le chiama San Paolo, povertà, fame e, come si usa dire oggi, quant’altro. Quella volta! Certo il mysterium magnum del sacrificio di Gesù non pare cosa sondabile dalla ragione o dal senso comune, ma – viste le premesse fatte sopra –, risulta abbastanza comprensibile la necessità di un intervento dall’alto. E allora, grazie a questo, forse avremo anche la sapienza, forse anche i miracoli. Il testo di Paolo infatti continua: «ma per quelli che sono chiamati, tanto Giudei quanto Greci, predichiamo Cristo, potenza di Dio e sapienza di Dio; poiché la pazzia di Dio è più saggia degli uomini e la debolezza di Dio è più forte degli uomini». 178 In dialogo con l’anno A Matteo 13, 52 Allora disse loro: «Perciò ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un uomo, padrone di casa, che trae fuori dal suo tesoro cose nuove e cose antiche». Spesso ci troviamo di fronte a passi del nostro testo sacro che ci provocano una particolare risonanza interiore, che chiedono di essere approfonditi, che promettono di offrire una via d’uscita dai labirinti che spesso la vita quotidiana ci pone d’innanzi o, meglio, intorno. Una guida, una reminiscenza nel cammino a volte arduo verso la casa del Padre. A volte però sono misteriosi, riusciamo a coglierne stentatamente il senso, non tutto ci è chiaro e lampante, ne comprendiamo agevolmente una parte, ma un’altra ci pone delle difficoltà di interpretazione. Nel testo di Matteo 13,52 sopracitato appare chiaro che, quando ci mettiamo in ascolto della parola di Gesù, lo scriba siamo noi stessi, siamo il discepolo del regno dei cieli, siamo il padrone di casa; meno lampante è che cosa sia il tesoro e che cosa le cose vecchie e nuove che ne possiamo trarre. La principale ipotesi è che il tesoro rappresenti la Sacra Scrittura stessa; le cose antiche, gli episodi della storia della salvezza che vi vengono narrati, l’intervento di Dio a favore del suo popolo, la prefigurazione del Messia, ecc.; le cose nuove la predicazione stessa di Gesù, l’annuncio del Vangelo, le verità via via rivelate ai suoi discepoli dallo Spirito Santo dopo la Pentecoste («Ma il Consolatore, lo Spirito Santo, che il Padre manderà nel mio nome, vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto quello che vi ho detto» Giov 14, 26). Possiamo arrestarci un po’ su questa corrispondenza, ed ampliarla, approfondire la metafora: lo scrigno contiene, 179 In dialogo con l’anno A solitamente, ori e gemme; le gemme riflettono la luce, come i passi della Scrittura riflettono la luce della Sapienza divina; come l’oro è il più nobile fra i metalli, così quella sacra è la più nobile fra le scritture. Caccia al tesoro e nascondino sono giochi da bambini. Quando ci avviciniamo alla Scrittura torniamo in parte ad essere quei bambini che Gesù ci invita ad essere in un altro passo del Vangelo e giocando all’interpretazione infinita delle metafore contenutevi cerchiamo di scoprire gli infiniti significati che la Sua divina bontà vi ha nascosto. E nella vita quotidiana? Queste metafore hanno senso anche per noi oggi, o sono “solo” un gioco da esegeta? Anche oggi, forse, possiamo trovare dei tesori di bene da cui trarre ori e gemme, non così splendenti, non così preziosi, ma pur sempre da far ammirare; in un paesaggio, in una storia che ci viene raccontata, in un’opera d’arte, in un libro che leggiamo o scriviamo; a volte dentro di noi, a volte nelle persone che abbiamo accanto. 180 SOMMARIO In dialogo con l’Anno A Tempo di Avvento – 1a domenica Tempo di Avvento – 2a domenica Tempo di Avvento – 3a domenica Tempo di Avvento – 4a domenica Tempo di Natale – Messa vespertina della vigilia Tempo di Natale – Messa della notte Tempo di Natale – Messa dell’aurora Tempo di Natale – Messa del giorno Tempo di Natale – Santa Famiglia Tempo di Natale – Maria SS. Madre di Dio Tempo di Natale – 2a domenica dopo Natale Tempo di Natale – Epifania del Signore Tempo di Natale – Battesimo del Signore Tempo di Quaresima – 1a domenica Tempo di Quaresima – 2a domenica Tempo di Quaresima – 3a domenica Tempo di Quaresima – 4a domenica Tempo di Quaresima – 5a domenica Settimana Santa – Giovedì Santo – Messa del crisma Settimana Santa – Giovedì Santo – Cena del Signore Settimana Santa – Venerdì Santo – Passione del Signore Triduo pasquale – Veglia pasquale – Risurrezione del Signore Triduo pasquale – Domenica di Pasqua Tempo di Pasqua – 2a domenica Tempo di Pasqua – 3a domenica Tempo di Pasqua – 4a domenica Tempo di Pasqua – 5a domenica Tempo di Pasqua – 6a domenica Tempo di Pasqua – 7a domenica – Ascensione del Signore Tempo di Pasqua – 7a domenica Tempo di Pasqua – Pentecoste – Messa vespertina della vigilia Tempo di Pasqua – Domenica di Pentecoste – Messa del giorno Tempo ordinario – 2a domenica Tempo ordinario – 3a domenica Tempo ordinario – 4a domenica Tempo ordinario – 5a domenica Tempo ordinario – 6a domenica p. p. p. p. p. p. p. p. p. p. p. p. p. p. p. p. p. p. p. p. p. p. p. p. p. p. p. p. p. p. p. p. p. p. p. p. p. 7 9 11 14 16 18 20 22 24 27 30 31 33 36 38 40 42 44 46 48 51 53 55 57 59 62 64 66 69 72 75 77 80 83 85 88 90 Tempo ordinario – 7a domenica Tempo ordinario – 8a domenica Tempo ordinario – 9a domenica Tempo ordinario – 10a domenica Tempo ordinario – 11a domenica Tempo ordinario – 12a domenica Tempo ordinario – 13a domenica Tempo ordinario – 14a domenica Tempo ordinario – 15a domenica Tempo ordinario – 16a domenica Tempo ordinario – 17a domenica Tempo ordinario – 18a domenica Tempo ordinario – 19a domenica Tempo ordinario – 20a domenica Tempo ordinario – 21a domenica Tempo ordinario – 22a domenica Tempo ordinario – 23a domenica Tempo ordinario – 24a domenica Tempo ordinario – 25a domenica Tempo ordinario – 26a domenica Tempo ordinario – 27a domenica Tempo ordinario – 28a domenica Tempo ordinario – 29a domenica Tempo ordinario – 30a domenica Tempo ordinario – 31a domenica Tempo ordinario – 32a domenica Tempo ordinario – 33a domenica Tempo ordinario – 34a domenica Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’Universo Tempo ordinario – 1a domenica dopo Pentecoste Santissima Trinità Tempo ordinario – 2a domenica dopo Pentecoste Santissimo Corpo e Sangue di Cristo Tempo ordinario – Venerdì dopo la 2a domenica dopo Pentecoste Sacratissimo Cuore di Gesù Altre riflessioni Bibbia e alimentazione “Tu che abiti… I Cor 1, 22-25 Matteo 13, 52 p. 93 p. 96 p. 98 p. 100 p. 103 p. 105 p. 107 p. 109 p. 112 p. 115 p. 118 p. 121 p. 124 p. 127 p. 130 p. 132 p. 135 p. 138 p. 141 p. 144 p. 147 p. 149 p. 152 p. 154 p. 156 p. 159 p. 161 p. 163 p. 165 p. 168 p. 170 p. 172 p. 175 p. 177 p. 179 Prima Edizione Novembre 2013