Tommaso Bianchi
IN DIALOGO CON L’ANNO A
ED ALTRE RIFLESSIONI
LibertàEdizioni
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Beati quelli che sono puri di cuore:
essi vedranno Dio
Matteo 5, 8
In dialogo con l’anno A
Tempo di Avvento - 1a domenica
Letture: Isaia 2, 1-5; Romani 13, 11-14a; Matteo 24, 37-44.
Le letture di oggi sono accomunate dal fatto, come logico
in tempo di Avvento, che ci dicono tutte e tre qualcosa sui
tempi messianici: ci preparano alla venuta del Signore. Non
quella storica, la nascita di Gesù nell’anno zero della nostra
era, ma la seconda venuta alla fine dei tempi. Isaia ci dice
che vi sarà la pace, intesa come assenza di guerra tra le
nazioni; Paolo ci dice come dobbiamo comportarci per
l’occasione; Gesù ci esorta a tenerci pronti.
Paolo ci dà delle informazioni preziose quando ci dice che
dobbiamo uscire dal sonno e gettare via le opere delle
tenebre, ma Gesù insegna che anche quest’ultima azione
non basta: «Due donne macineranno alla mola: una verrà
portata via e l’altra lasciata». Abbandonare orge e
ubriachezze, lussuria e impurità, litigi e gelosie sembra che
per Gesù non basti. Il giudizio pare riguardare non solo le
azioni che faremo: «Due donne macineranno alla mola: una
verrà portata via e l’altra lasciata». Ma allora che altro?
Paolo ci dice che dobbiamo essere svegli, Gesù che
dobbiamo tenerci pronti. Dobbiamo essere svegli e pronti a
ricevere gratuitamente in dono una salvezza che in altre
religioni spesso non si acquisisce, con le sole proprie forze,
nemmeno in innumerevoli vite. Ma paradossalmente è
proprio da altre religioni che può venirci un aiuto a
comprendere meglio: nel karma yoga della tradizione indù
l’azione richiesta alla nostra condizione (macinare alla
mola), se condotta con lo spirito e l’intento adatti, può
portarci alla moksa, la liberazione dal ciclo della sofferenza;
nel buddhismo lo sviluppo di bodhicitta, lo spirito del
risveglio, che richiede un costante impegno, ci porterà alla
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In dialogo con l’anno A
bodhi, l’illuminazione, liberandoci dal samsara.
E se vengono dei dubbi sull’opportunità di simili
accostamenti interreligiosi, possiamo ricordare che la
dottrina cattolica esorta a ricercare nelle altre tradizioni
religiose i semina verbi e che Gesù, in Giovanni 10, 16,
dice: «Ho anche altre pecore, che non sono in questo
recinto. Anche di quelle devo diventare pastore. Udranno la
mia voce, e diventeranno un unico gregge con un solo
pastore».
E dunque perché non i buddhisti, perché non gli indù,
perché non noi, figli a volte esausti di una società dei
consumi, liquida, residuale, minimale?
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In dialogo con l’anno A
Tempo di Avvento – 2a domenica
Letture: Isaia 2, 1-10; Romani 15, 4-19; Matteo 3, 1-12.
La prima lettura di questa domenica tratta temi importanti.
«Spirito di sapienza e di intelligenza, spirito di consiglio e
di fortezza, spirito di conoscenza e timore del Signore»:
questi sono i contenuti, le caratteristiche dello Spirito del
Signore che egli dona a colui che si è scelto.
L’insegnamento cristiano identifica quest’ultimo con Cristo
e, grazie all’azione sacramentale, il dono si trasmette a tutti
i credenti. O meglio, a tutti quelli che non contristano lo
Spirito o l’ostacolano. «Non ostacolate l’azione dello
Spirito Santo» dice 1 Tessalonicesi 5, 19, «Non rendete
triste lo Spirito Santo che Dio ha messo in voi come un
sigillo, come garanzia per il giorno della completa
liberazione» dice Efesini 4, 30. Ma che cos’è che può
rendere triste lo Spirito? Nel versetto precedente San Paolo
precisa: «Nessuna parola cattiva deve mai uscire dalla
vostra bocca; piuttosto, quando è necessario, dite parole
buone, che facciano bene a chi le ascolta» (Efesini 4, 29).
Ma – Cristo! – quando ci troviamo di fronte al male
dobbiamo pur nominarlo in qualche modo, fosse anche solo
per stigmatizzarlo e prenderne le distanze! E poi Gesù
(Matteo 23) non è certo tenero quando enumera le
mancanze di scribi e farisei: ipocriti, guide cieche, sepolcri
imbiancati, serpenti, razza di vipere – dice. Certo che da
Gesù non possiamo aspettarci che dica parole cattive che
rendono triste lo Spirito Santo. E allora, come dobbiamo
regolarci?
La tradizione ebraica ci insegna che il termine “sapienza”
indica la conoscenza di Dio, mentre “intelligenza” è la
capacità di penetrare la struttura del mondo.
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In dialogo con l’anno A
“Sapienza” in latino deriva da sapere, gustare, ed ha a che
vedere con “sapore” e con “sapido”, che è il contrario di
“insipido”. «Siete voi il sale del mondo. Ma se il sale perde
il suo sapore, come si potrà ridarglielo? Ormai non serve
più a nulla; non resta che buttarlo via, e la gente lo
calpesta» (Matteo 5, 13). Sapienza dunque indica un
gustare, un gustare Dio nel suo essere salato, sapido,
caratteristica di cui fa partecipi i suoi figli adottivi in Cristo
Gesù; la frase di Matteo 5, 13 potrebbe essere così
parafrasata: «Siete voi Dio nel mondo, ma se Dio si
ritirasse da voi chi potrebbe renderlo nuovamente presente?
Se voi non mantenete Dio dentro di voi, verrete gettati via e
la gente vi calpesterà». E questo sintetizza la storia della
salvezza: l’uomo non ha mantenuto il sapore di Dio dentro
di sé e per questo è caduto; Cristo è venuto a riportare il
sale di Dio, il sapore di Dio, il sentire Dio in quelli che si è
scelto: sta a loro ora mantenerlo dentro di sé ed evitare
dunque che il sale di Dio nel mondo perda il suo sapore e
vengano gettati via.
“Intelligenza” deriva dal latino intus legere, leggere dentro.
Ora, quando ci troviamo di fronte al mondo, noi operiamo
sostanzialmente una duplice lettura: da un lato, se siamo
contemplativi, osserviamo e studiamo il creato ammirando
la bellezza, oltre che la complessità, dell’opera del creatore;
dall’altro, se siamo accorti come Cristiani, vi intuiamo la
presenza del maligno e ne analizziamo le sue trame. In
questa duplice attività è come se fossimo chiamati a
svolgere l’opera degli angeli alla fine del mondo che
separeranno il grano dalla zizzania (Matteo 13, 36-43). Ma
forse è meglio aspettare la fine del mondo.
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In dialogo con l’anno A
Tempo di Avvento – 3a domenica
Letture: Isaia 35, 1-6a.8a.10; Giacomo 5, 7-10; Matteo 11,
2-11.
La prima e la terza lettura di oggi accennano a un
argomento tipico della predicazione di Gesù: il vedere e
l’udire. «Essi vedranno la gloria del Signore» e «Allora si
apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno gli orecchi
dei sordi» dice Isaia; «I ciechi riacquistano la vista… i sordi
odono» dice Gesù in Matteo. Forse Gesù qui tratta di un
vedere e di un sentire puramente materiali, parla dei sensi
cui siamo normalmente abituati; ma già in Isaia siamo di
fronte ad un vedere di altra natura. “Sensi spirituali” – li
hanno chiamati alcuni Padri della Chiesa –, che danno la
possibilità di vedere ed udire il cosiddetto mondo
sovrasensibile, per l’appunto. Che poi Gesù abbia in altri
passi spesso usato il vedere e il sentire come una metafora
per indicare il vedere e il sentire la voce del Padre è
abbastanza evidente: «Un cieco può forse pretendere di fare
da guida ad un altro cieco?» (Luca 6, 39); «Se foste ciechi,
non avreste colpa; invece dite: “Noi vediamo”. Così il
vostro peccato rimane» (Giovanni 9, 41).
Che i nostri sensi abbiano dei limiti, che non siano capaci di
abbracciare la totalità, oggi ce lo dice anche la fisica:
radiazioni infrarosse ed ultraviolette, infra- ed ultrasuoni
noi non li percepiamo, la vibrazione dell’universo è negata
ai nostri sensi coscienti. Ancora Gesù: «Il regno di Dio non
viene in modo spettacolare. Nessuno potrà dire: “Eccolo
là”, perché il regno di Dio è già in mezzo a voi» (Luca 17,
20-21). Dunque il regno di Dio è qualcosa di già presente in
mezzo a noi ma, pare, noi non siamo in grado di percepirlo.
D’altra parte in molti altri passi Gesù insiste sulla necessità
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In dialogo con l’anno A
di avere la luce per vedere. «Io sono la luce del mondo»
dice Gesù in Giovanni 8, 12 e non è azzardato dire che le
sue molte guarigioni di persone che non avevano la vista
sono metafore dell’opera che lui è venuto a compiere nel
mondo: donare a chi ha fede la vista necessaria alla visione
del regno di Dio presente in mezzo a noi. Quello che risulta
difficile da comprendere è se egli intenda un aumento del
nostro spettro visivo che ci permetterebbe di vedere cose
già presenti nel mondo fisico ma escluse alla nostra vista
oppure un salto di qualità dai sensi al lume dell’intelletto
che ci permetterebbe di accedere alle verità spirituali.
Una puntata alla tradizione indù può aiutarci forse a
comprendere meglio. Qui sembra che i due aspetti non
siano in antitesi. Lo yogi (praticante dello yoga, che
significa “unione”) e naturalmente la yogini nel loro
percorso verso l’estasi devono preoccuparsi di curare e
potenziare l’attività dei chakra (definibili come centri di
energia che mettono in comunicazione il corpo fisico con il
corpo sottile). Tale potenziamento conduce ad alcune
acquisizioni. In particolare l’attivazione e lo sviluppo di
ajna, il sesto chakra partendo dal basso, sono accompagnati
dal comparire di capacità di chiaroveggenza e
chiaroudienza, mentre l’apertura di sahasrara, settimo ed
ultimo chakra collocato sulla cima del capo, consente la
comunicazione con i mondi superiori. Ancora: il canto del
monosillabo sacro Om, ripreso anche dalla tradizione
buddhista, consente al fedele di collegarsi alla sacra
trimurti, che tramite quella sillaba crea, conserva e dissolve
tutta la realtà. Le analogie con la tradizione cristiana non si
contano. Basta pensare al prologo del Vangelo di Giovanni:
«In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il
Verbo era Dio. Egli era, in principio, presso Dio: tutto è
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In dialogo con l’anno A
stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto
di ciò che esiste».
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In dialogo con l’anno A
Tempo di Avvento – 4a domenica
Letture: Isaia 7, 10-14; Romani 1, 1-7; Matteo 1, 18-24.
Immanu (= con noi)-El (= Dio) è il personaggio di cui ci
parlano la prima e la terza lettura di oggi. Il Vangelo di
Matteo identifica questo personaggio con Gesù (= Dio
salva), con il Gesù storico nato da Maria Vergine per opera
dello Spirito Santo. «Egli infatti salverà il suo popolo dai
suoi peccati». La tradizione ebraica, come molte altre
tradizioni che abbiano mantenuto un legame con il sacro,
ritiene inderogabilmente necessaria la presenza di una
figura che sia un tramite tra la terra e il popolo da una parte
e Dio dall’altra. «Il re senza una spada, la terra senza un re»
recita angosciato Lancillotto nel film “Excalibur”, ispirato
all’opera “Le morte d’Arthur” di Sir Thomas Malory.
L’imperatore della Cina portava l’appellativo di Figlio del
Cielo. In molte tradizioni tale figura di raccordo tra la terra
e il cielo è rappresentata dal re, in altre dallo sciamano,
dallo stregone o dal sacerdote. La tradizione ebraica
affidava tale ufficio, su mandato di Dio stesso, al Sommo
Sacerdote che, tra gli altri compiti, celebrava il Giorno
dell’Espiazione (lo Yom Kippur). Entrava infatti nel Santo
dei Santi (in ebraico Qodesh ha-Qodashim), il luogo più
interno del tempio dove si trovava l’Arca dell’Alleanza, una
volta all’anno e qui offriva l’incenso e pronunciava il nome
di Dio per chiedere perdono dei peccati del popolo. I suoi
piedi, nel caso Dio non lo trovasse degno e lo fulminasse
sul colpo, venivano legati ad una corda che avrebbe
consentito di trascinarlo fuori dal Santo dei Santi senza
bisogno di entrarvi. Un compito gravoso, quindi, quello del
Sommo Sacerdote ed a cui bisognava essere ben preparati.
Il Salmo di oggi (23/24) infatti recita: «Chi potrà salire il
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In dialogo con l’anno A
monte del Signore? / Chi potrà stare nel suo luogo santo? /
Chi ha mani innocenti e cuore puro, / chi non si rivolge agli
idoli. / Egli otterrà benedizione dal Signore, giustizia da
Dio sua salvezza». Sembra che al tempo della venuta di
Gesù tale ufficio non fosse ben condotto. Anzi, proprio
l’assenza di un tramite degno di questo ruolo sembra aver
richiesto a Dio un’altra modalità d’intervento a favore del
suo popolo. Come ai tempi di Noè, nell’anno zero della
nostra era Dio non era contento dell’uomo e, nel suo
imperscrutabile disegno di salvezza, ha fatto salire il Figlio
sul monte – questa volta non il monte santo di Sion ma
quello infamante del Golgota. Sì, perché secondo Levitico
16 il Sommo Sacerdote aveva anche il compito di “ripulire”
il popolo dai suoi peccati scaricandoli su un capro che
veniva poi inviato ad Azazel. «[Aronne] mette le due mani
sulla testa dell’animale ed enumera tutti i peccati, le
disubbidienze e le colpe degli Israeliti per scaricarli
sull’animale. Poi lo lascia andare verso il deserto, sotto la
guida di un uomo designato per questo compito. Il capro
porta così tutti i peccati d’Israele in un luogo arido e
deserto» (Levitico 16, 21-22). Gesù, nella sua profonda
umiltà, svolgerà anche questo ufficio per ristabilire
l’alleanza tra uomo e Dio.
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In dialogo con l’anno A
Tempo di Natale – Messa vespertina della vigilia
Letture: Isaia 62, 1-5; Atti 13, 16-17. 22-25; Matteo 1, 125.
Nella tradizione ebraica Dio si manifesta in diversi aspetti.
La Cabala chiama questi aspetti sephiroth (singolare
sephirah = enumerare) e ne enumera dieci. Nelle tempo di
Natale assume grande importanza la sephirah Hesed (=
Amore). «Per amore di Sion non tacerò, per amore di
Gerusalemme non mi concederò riposo, finché non sorga
come aurora la sua giustizia e la sua salvezza non risplenda
come una lampada», inizia la lettura di Isaia. Accanto a
Hesed viene nominata la giustizia, atto di Gebourah (= il
giudizio, ma anche il rigore, il terrore, il potere) che nella
rappresentazione grafica dell’albero sefirotico si trova alla
sinistra di Hesed, al suo stesso livello. Le sephirot si
influenzano tra loro ed è per questo che l’Amore di Dio per
Gerusalemme farà sorgere la sua Giustizia. Il profeta
sembra dire anche che quando uno degli aspetti di Dio sia
scarsamente presente nel mondo creato (Gerusalemme), un
altro aspetto può intervenire e ristabilirne la presenza. È il
caso del tempo di Gesù in cui i giusti – nell’accezione
latina del termine di iuxtus = unito (a Dio) – non sono più
presenti. Scribi e farisei portano avanti un’alleanza basata
più sulla lettera morta che sullo spirito vivificante e sulla
presenza reale di Dio; hanno infatti dimenticato che
Gebourah, unita a Hesed, genera Tipheret, la Misericordia,
e mettono sulle spalle dei miseri pesi che loro stessi non
solleverebbero neanche con un dito (Matteo 23, 4) e
chiudono il regno dei cieli davanti agli uomini e né vi
entrano, né lasciano entrare chi sta per entrarvi (Matteo 23,
13). C’è quindi bisogno di un intervento di Dio il quale,
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In dialogo con l’anno A
visto che il suo popolo non è più giusto, lo salva con un atto
d’amore, l’incarnazione del Figlio ad opera dello Spirito
Santo in Maria di Nazareth, ristabilendo l’alleanza contratta
con Abramo (che era un uomo giusto). E che questo amore
assuma anche gli aspetti dell’amore fisico tra gli sposi è
confermato dall’alta considerazione in cui l’evangelista
Matteo tiene la genealogia di Gesù: 14 generazioni da
Abramo al re Davide, 14 generazioni dal re Davide alla
deportazione in Babilonia, 14 generazioni dalla
deportazione in Babilonia a Gesù. Ma l’intervento è
radicale: Dio, tramite lo Spirito Santo, entra nell’utero di
una donna con una sostanza nuova e vi stabilisce la sua
nuova dimora portandovi la luce del suo Amore. «Dio è
Amore» dice il Papa, «L’amore compassionevole è la
religione dell’umanità» dice Lama Sherab, e queste
considerazioni sembrano condividere la stessa linea. Non
dobbiamo dimenticare però che la sephirah Gebourah non
scompare: Dio manda il Figlio nel mondo per reintegrare
l’uomo degradato nella sua giustizia, nell’unione con lui
stesso. Dio scende sulla terra per rendere nuovamente
giusto l’uomo e riportarlo in cielo.
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In dialogo con l’anno A
Tempo di Natale – Messa della notte
Letture: Isaia 9, 1-6; Tito 2, 11-14; Luca 2, 1-14.
Dio è un grande alchimista. In questa notte realizza
pienamente il suo opus magnum. «Il popolo che camminava
nelle tenebre» della nigredo «ha visto una grande luce», la
luce dell’albedo. Per svolgere queste due prime fasi
dell’opera, Dio ha costruito il suo mirabile atanor,
corazzandolo di diversi involucri che, come una matrioska,
hanno ospitato la generazione di una sostanza nuova.
All’interno dell’umanità c’è un popolo, gli Ebrei;
all’interno degli Ebrei c’è una tribù, quella di Giuda;
all’interno della tribù di Giuda c’è una coppia di sposi,
Giuseppe e Maria; all’interno della coppia di sposi c’è un
utero; all’interno dell’utero, locus absconditus, Dio pone la
sostanza luminosa di una nuova creazione. Di nuovo dice
«Sia fatta luce» e l’albedo fu. E questa sostanza nuova, una
volta uscita dal buio dell’utero, viene deposta in un nuovo
atanor con diversi involucri, necessari a contenere la
smisurata energia prodotta. Un atanor fatto di povere cose,
in linea con gli insegnamenti dell’alchimia che prende i
suoi strumenti dalla vile materia: una mangiatoia contenuta
in una stalla (o in una grotta), contenuta a sua volta nella
piccola cittadina di Betlehem, la casa del pane. Ma la luce
dell’albedo trabocca dai suoi contenitori e sarà vista dai
pastori e dai Magi (e purtroppo anche da re Erode). Però
l’opera non è finita. Per quanto l’albedo sia mirabile, questa
luce è appunto albeggiante. Dovrà affrontare le alterne
vicende di una mutevole citrinitas, colorandosi appunto
dell’oro del giorno, e rituffarsi nuovamente nelle tenebre
della notte/morte per risorgere – questa volta finalmente
fissa nel rosso glorioso della rubedo – ed illuminare il
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In dialogo con l’anno A
mondo da qui all’eternità (ed oltre). Il rebis è compiuto:
«Dopo la risurrezione, gli uomini e le donne non si
sposeranno più, ma saranno come gli angeli del cielo»
(Matteo 22, 30).
Eh sì, Dio è un grande alchimista. Oppure è l’alchimista a
voler essere un piccolo Dio?
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In dialogo con l’anno A
Tempo di Natale – Messa dell’aurora
Letture: Isaia 62, 11-12; Tito 3, 4-7; Luca 2, 15-20.
Tra i mirabili avvenimenti che contornano la nascita di
Gesù, l’adorazione dei pastori – seppure semplice e concisa
nella narrazione – desta qualche stupore. Nel Vangelo della
Messa dell’aurora, che segue quello della notte, si dice:
«Appena gli angeli si furono allontanati da loro, verso il
cielo, i pastori dicevano l’un l’altro: “Andiamo dunque fino
a Betlemme, vediamo questo avvenimento che il Signore ci
ha fatto conoscere”».
I pastori da un lato non sono né profeti né sacerdoti, ma
parlano, o meglio ascoltano, quello che Dio, tramite i suoi
messaggeri, ha da dire loro. Hanno un rapporto diretto con
lui, senza intermediazione. Dall’altro lato non subiscono le
tenaglie del dubbio che tanta parte hanno nella vita di noi
moderni: non conoscono quanto la filosofia e la psicologia
cercano di insegnare sui fenomeni percettivi, non sanno che
gran parte della realtà dipende dal funzionamento dei nostri
sensi e dall’immagine che tramite essi il pensiero si fa della
realtà stessa; non hanno studiato le patologie psichiatriche
né i fenomeni allucinatori che spesso le accompagnano; non
hanno esperienza della fantascienza, non hanno visto “Xfiles” alla televisione e non si fanno pertanto domande sulla
natura e la provenienza di quegli esseri che hanno detto loro
«Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà
di tutto il popolo»; non conoscono neppure la prassi che la
Chiesa segue per provare l’autenticità delle apparizioni
sovrannaturali. Loro vedono e odono gli angeli, eseguono
quanto hanno loro indicato e vanno alla Casa del Pane,
trovano il bambino, lo adorano e poi si allontanano lodando
Dio e raccontando la loro esperienza a quanti incontrano sul
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In dialogo con l’anno A
loro cammino.
E di cose da raccontare su quel bambino ce ne sono
parecchie: le hanno preannunciate i profeti e le
spiegheranno apostoli e discepoli, come testimoniano Isaia
e San Paolo: il primo insistendo sulla dimensione salvifica
del bambino sul popolo di Sion nel suo insieme, il secondo
sulla dimensione salvifica del bambino sull’individuo e
sull’umanità cui sarà rivolta la sua opera di redenzione.
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In dialogo con l’anno A
Tempo di Natale – Messa del giorno
Letture: Isaia 52, 7-10; Ebrei 1, 1-6; Giovanni 1, 1-18.
Una parola che può riassumere le letture di oggi è
“pienezza”. Isaia parla della pienezza della gioia di Israele,
«perché il Signore ha consolato il suo popolo, ha riscattato
Gerusalemme», e della salvezza del Signore, che riempie
tutta la terra. Il Salmo (97/98) celebra, accanto alla
salvezza, la pienezza del Suo amore, della Sua giustizia,
della Sua fedeltà e la pienezza del giubilo del Suo popolo
che Lo celebra con il canto e con la musica.
San Paolo annuncia la pienezza dei tempi, la pienezza della
purificazione dei peccati, la pienezza della gloria
realizzatesi con la meteorica venuta del Figlio di Dio sulla
terra, nato, vissuto, morto, risorto ed asceso alla destra del
Padre, nel posto vuoto a lui riservato dall’inizio dei tempi.
La venuta del Figlio è anche dunque pienezza,
completamento, della creazione, detta dal Padre in Genesi.
Giovanni, ripreso da Paolo, ci parla nei medesimi termini
ed aggiunge che con Gesù Cristo si realizza la pienezza
della vittoria della luce sulle tenebre e la pienezza della
verità intesa come progressiva rivelazione del logos dal
tempo – se così si può dire – antecedente alla creazione.
Aggiunge anche che con Gesù si realizza la pienezza della
grazia che in lui si è manifestata e la pienezza della profezia
che, avendo come evento ultimo su cui esercitarsi la venuta
del Salvatore del mondo, d’ora innanzi non sarà più la
stessa. Facendo riferimento ad un altro passo di Giovanni
(10, 10), potremmo aggiungere che nell’evento del Natale
si inizia anche la pienezza della vita: «Io invece sono
venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza».
Queste considerazioni, se prese in modo superficiale,
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In dialogo con l’anno A
appaiono in contrasto con uno degli insegnamenti del
buddhismo mahayana. In tale religione il monaco viene
costantemente invitato, soprattutto all’inizio del suo
praticantato, a realizzare dentro di sé shunyata, il vuoto. Il
contrasto è solo apparente: anche la speculazione teologica
cristiana usufruisce del concetto di kenosis, svuotamento,
per invitare a fare spazio dentro di sé all’Emmanuele, al
Dio che viene. Ed è questo che effettivamente si realizza
nel Natale a diversi livelli: le tenebre si ritraggono di fronte
alla luce, l’antica profezia tace di fronte all’evento che
rappresenta il suo compimento, Giuseppe si fa da parte di
fronte all’azione dello Spirito Santo, la mangiatoia vuota
accoglie il Divino Bambino.
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In dialogo con l’anno A
Tempo di Natale - Santa Famiglia
Letture: Siracide 3, 2-6.12-14; Colossesi 3, 12-21; Matteo
2, 13-15.19-23.
Le letture di oggi vertono sul tema della Santa Famiglia,
oggetto della festa. Il Siracide espone quelli che devono
essere i rapporti tra genitori e figli, mentre San Paolo,
accanto ai doveri delle nuove comunità unite nel nome di
Cristo, affronta la relazione tra il marito e la moglie
cristiani. Il Vangelo racconta i primi passi della Santa
Famiglia ora completa dopo la nascita di Gesù e racconta la
fuga in Egitto e il ritorno nella terra d’Israele. Ma proprio il
Vangelo contiene delle notazioni che ci dicono qualcosa di
più sulla figura di Gesù.
Con «I Magi erano appena partiti» inizia la narrazione:
fiumi di inchiostro sono stati versati per parlare della figura
dei Magi – da dove venivano, chi erano, cosa
rappresentavano, quali erano i loro nomi – e su questo
ritorneremo. Ora è sufficiente sapere che venivano
dall’Oriente e che collegano pertanto la figura del Gesù che
sono venuti ad adorare con quella di Abramo, padre
riconosciuto delle tre religioni monoteiste (ebraismo,
cristianesimo, islamismo) proprio per questo definite a
volte come “abramitiche”, anche lui giunto nella terra
d’Israele dall’Oriente. Guidato dalla voce di Dio lui, dalle
stelle i Magi, stelle che in certi casi rappresentano la voce
di Dio stesso.
Un secondo collegamento del neonato Gesù con la
tradizione ci viene dalla fuga in Egitto. L’espressione
«Dall’Egitto ho chiamato mio figlio» riprende un passo del
profeta Osea (11, 1) in cui Dio ricorda al suo popolo, come
è spesso costretto a fare, di quando, ai tempi di Mosè, lo ha
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In dialogo con l’anno A
liberato dalla schiavitù in Egitto. Questo passo collega il
bambino con la figura di Mosè, portando ad identificarne la
sua funzione di liberatore del popolo. La dottrina cristiana
insegna infatti a questo proposito che Mosè è stato
liberatore del popolo dalla schiavitù dei corpi, mentre Gesù
è stato liberatore del popolo dalla schiavitù morale del
peccato.
«Egli sarà chiamato nazareno» è la terza espressione,
ripresa anch’essa dai
profeti, che ci
guida
all’approfondimento della figura di Gesù. Secondo Luca (2,
4.39), Nazaret era la città di provenienza di Giuseppe e
Maria che, dopo la nascita del bambino, vi hanno fatto
ritorno. Matteo, pur inserendo nella narrazione la strage
degli innocenti che Luca omette, a questo proposito è meno
preciso. Non dà infatti informazioni sull’origine di
Giuseppe e Maria, ma riferisce soltanto che dopo la fuga in
Egitto ritornano in terra di Israele e si stabiliscono a
Nazaret con Gesù. In molti hanno sollevato obiezioni sul
significato dell’espressione «Egli sarà chiamato nazareno»:
Matteo non ha dubbi sul fatto che indichi la residenza di
Gesù e dei suoi genitori, ma la parola nazareno può anche
essere derivata dal termine nezer che in ebraico significa
“germoglio” e che lo collocherebbe in relazione al passo di
Isaia (11, 1) che dice «Spunterà un nuovo germoglio:
nascerà nella famiglia di Iesse, dalle sue radici, germoglierà
dal suo tronco», ad indicare chi erano i progenitori di Gesù.
Un’altra interpretazione mette in collegamento la parola
nazareno con il termine “nazireo” che indica una persona
consacrata a Dio. Le particolarità di questo tipo di
consacrazione, che differisce da quella dei Leviti, sono
narrate in Numeri 6, 1-21. Giudici 13, 5 ci riferisce che
nazireo era Sansone, noto per la forza con cui combatteva
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In dialogo con l’anno A
per liberare gli Ebrei dal giogo del popolo dei Filistei loro
nemico. La sua forza risiedeva nei capelli, perché la
lunghezza dei suoi capelli era segno del suo voto di
consacrazione a Dio; dunque, in ultima analisi, l’origine
della sua forza risiedeva in Dio. Su un altro livello anche
Gesù (per inciso, forse è dal suo essere nazireo che deriva
la tradizione di riprodurlo con i capelli lunghi) è un essere
dotato di una particolare forza che gli viene dalla sua
unione con il Padre; è una forza spirituale, lo sappiamo da
Matteo 26, 41(«Lo spirito è forte…»), che gli permetterà di
assumere il ruolo di agnello sacrificale per liberare, come
Sansone, il suo popolo e i suoi seguaci dai peccati, dal
Maligno e – come la storia ha poi evidenziato – anche dai
suoi oppressori.
26
In dialogo con l’anno A
Tempo di Natale – Maria SS. Madre di Dio
Letture: Numeri 6, 22-27; Galati 4, 4-7; Luca 2, 16-21.
«Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose,
meditandole nel suo cuore» (Luca 2, 19). Mater Creatoris,
Mater Salvatoris, Virgo Prudentissima, Virgo Veneranda,
Virgo Praedicanda, Virgo Potens, Virgo Clemens, Virgo
Fidelis, Speculum Justitiae, Sedes Sapientiae, Causa
Nostrae Letitiae, Vas Spirituale, Vas Honorabile, Vas
Insigne Devotionis, Rosa Mystica, Turris Davidica, Turris
Eburnea, Domus Aurea, Foederis Arca, Ianua Coeli, Stella
Matutina, Salus Infirmorum, Refugium Peccatorum,
Consolatrix Afflictorum, Auxilium Christianorum, Regina
Angelorum, Regina Patriarcharum, Regina Prophetarum,
Regina Apostolorum, Regina Martyrum: questi sono gli
epiteti mariani ripresi dalle Litanie Lauretane. La
riflessione teologica e la pietà popolare cattoliche hanno
voluto in questo modo celebrare nel corso dei secoli la
figura di Maria. Certamente ogni epiteto richiederebbe una
trattazione approfondita per sviscerarne i riferimenti
scritturistici ed i molteplici significati. Nella festa di oggi
merita qualche parola “Foederis Arca”, Arca dell’Alleanza,
che sancisce nella visione cattolica il definitivo passaggio
dall’Antico al Nuovo Testamento. L’Arca nella tradizione
ebraica, situata nel Santo dei Santi del Tempio, era il luogo
della Shekhinah, la presenza divina, e rappresentava, ed era,
l’Alleanza con Dio, il luogo in cui Lui si faceva realmente
presente. Per la tradizione cattolica questo luogo
importantissimo della relazione tra Dio e l’uomo-mondo è
(temporaneamente?) il grembo di Maria in cui ha preso
dimora Gesù, l’Emmanuele, il Dio-con-noi, attraverso
l’azione misteriosa dello Spirito Santo, la cui nascita si è
27
In dialogo con l’anno A
appena celebrata.
Senza fare valutazioni di merito, è senz’altro interessante
esplorare le altre nascite miracolose avvenute nel mondo
per vedere se esistono delle analogie (e differenze) con la
tradizione cristiana.
Ad esempio la narrazione della nascita del Buddha
Sakyamuni riportata dal “Buddhacarita” (“Le gesta del
Buddha”, poema epico scritto da Aśvaghoşa in sanscrito nel
II secolo d.C.) ci fa sapere come sua madre Mahāmāyā
abbia sognato un elefante bianco che le penetrò nel corpo
senza alcun dolore ed abbia ricevuto nel grembo, “senza
alcuna impurità”, Siddharta; questi sarebbe stato partorito
nel bosco di Lumbinī dove le nacque da un fianco senza
alcun dolore. Dopo la nascita Siddharta fu visitato, come di
consuetudine, da sacerdoti e asceti che profetarono che
sarebbe diventato o un chakravartin, cioè un monarca
universale, oppure un Buddha, cioè un essere che avrebbe
scoperto la Via che conduce al di là della morte.
Krishna, ottavo avatar (= lett. “discesa sulla terra della
divinità”) del dio indù Vishnu secondo la tradizione
vaishnava e dio egli stesso secondo la tradizione krishnaita
pare anch’egli nato da una vergine. O meglio, una
tradizione diffusasi soprattutto in Occidente, non suffragata
da testi indù antichi, lo vuole così. Analogamente al piccolo
Gesù, anche Krishna fu perseguitato subito dopo la nascita
tanto che fu fatto fuggire per nasconderlo dalla volontà
omicida del re Kamsa. I vaishnava credono che il Dio si
incarni ogni qualvolta avviene un declino della giustizia,
unitamente all'insorgere delle forze demoniache che
operano in senso opposto al dharma, la legge cosmica. A
tal proposito si ricorda la frase pronunciata da Krishna
durante la battaglia di Kurukshetra: «Per la protezione dei
28
In dialogo con l’anno A
giusti, per la distruzione dei malvagi e per ristabilire i
princìpi della Giustizia Divina, Io mi incarno di era in era».
Similmente a Krishna, anche per il dio egizio Horus è stata
elaborata in area teosofica un’analogia con Gesù, non
sostenuta però da prove scientifiche degli egittologi.
Secondo i sostenitori di questa operazione di pensiero la
nascita del dio fu annunciata alla madre Iside dall’angelo
Thot, Horus nacque in una grotta il 25 dicembre dalla
vergine Iside annunciato da una stella d’Oriente e venne
adorato da pastori e da tre saggi che gli portarono in dono
oro, incenso e mirra.
Infine la mitologia greca, ricchissima di nascite miracolose
quando parla di dei ed eroi, ci racconta tra le tante cose la
miracolosa ingravidazione di Danae da parte di Zeus
trasformatosi in pioggia dorata, “operazione” che avrà
come esito la nascita dell’eroe Perseo.
Fortunatamente oggi abbiamo a disposizione gli strumenti
della storiografia critica, della filologia, dello studio dei
miti e delle lingue antiche, della psichiatria che ci
permettono di vedere un po’ più a fondo e distinguere tra
mito e storia, tra fantasia e realtà, anche grazie alla
considerazione che, come succede nel caso del
campanilismo dei santi, a volte ci troviamo di fronte ad una
sorta di competizione teologica che può aver fatto dire «Il
tuo dio è così? Bene, ma il mio è più grande perché è così e
così!». Di fronte a tale cornucopia poi di eventi
meravigliosi narrati dalle diverse tradizioni religiose,
nell’attesa che ne sia svelato il senso profondo resta
comunque condivisibile, da parte dell’umile fedele della
strada, l’atteggiamento di Maria che «da parte sua,
custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore».
29
In dialogo con l’anno A
Tempo di Natale – 2a domenica dopo Natale
Letture: Siracide 24, 1-2.8-12, neo-volg. 24, 1-4.12-16;
Efesini 1, 3-6.15-18; Giovanni 1, 1-18.
Le letture di questa domenica si possono definire come
letture teoriche, filosofiche o teologiche. Non vi vengono
infatti raccontati degli eventi storici né vi sono contenute
delle applicazioni pratiche di legge, ma vi vengono
delineate delle prospettive di fede. La prima è tratta dal
Siracide, che fa parte di quegli scritti (insieme a Ester
greco, Giuditta, Tobia, Primo e Secondo libro dei Maccabei,
Sapienza, Baruc, Lettera di Geremia, Supplementi al libro
di Daniele) riuniti sotto il nome di Deuterocanonici presenti
nella Bibbia greca detta dei Settanta. Questi scritti non
fanno parte del canone ebraico; il loro valore è stato
riconosciuto dalla Chiesa romana nel IV secolo ed appena
nel 1546 sono stati dichiarati canonici nel Concilio di
Trento. Da qui l’appellativo di Deuterocanonici,
appartenenti cioè al secondo canone o elenco. Il Siracide è
un libro sapienziale, in quanto approfondisce i contenuti
della fede e la conoscenza di Dio, con particolare riguardo
alla sua Sapienza. Tale Sapienza si identifica a volte con
Gesù, il Figlio di Dio, presente al suo fianco sin da prima
della creazione del mondo. Nell’insegnamento della
Qabbalah ebraica la Sapienza è la sephiroth Khokhmah ed
indica la conoscenza stessa dei misteri di Dio, Aor Ein
Soph, “Luce Senza Limiti”. Tale concetto è espresso anche
dalle parole di Paolo: «Continuamente rendo grazie per voi
ricordandovi nelle mie preghiere, affinché il Dio del
Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno
spirito di sapienza e di rivelazione per una profonda
conoscenza di lui» (Efesini 1, 16-17).
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In dialogo con l’anno A
Tempo di Natale – Epifania del Signore
Letture: Isaia 60, 1-6; Efesini 3, 2-3a.5-6; Matteo 2, 1-12.
«Alzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce, la gloria
del Signore brilla sopra di te. Poiché, ecco, la tenebra
ricopre la terra, nebbia fitta avvolge i popoli; ma su di te
risplende il Signore, la sua gloria appare su di te.
Cammineranno le genti alla tua luce, i re allo splendore del
tuo sorgere» (Isaia 60, 1 e seguenti).
«Ehi, dico a te!» «A me? Che cosa?» «Queste parole di
Isaia oggi le rivolgo a te!» «Ma chi sei?» «Io-sono è il mio
nome, quello della Bibbia? » «Ah…» «E ho deciso di
nominarti re del mio popolo» «Ma Signore, siamo in
democrazia!» «E a noi che importa? E poi i re ci sono
ancora oggi» «Beh, vedo che scherzi. Quelle parole erano
per Davide, per Salomone o perfino per Gesù…» «E oggi
sono per te!» «Ma chi sono io?» «Tu sei chi io voglio che tu
sia: il re, o meglio l’imperatore, visto che i re
cammineranno allo splendore del tuo sorgere» «Ma
Signore, ci sono tante persone migliori di me per questo
ufficio, tanti sapienti, tanti potenti, tante persone rette con
tanto di splendidi curricula; prendi uno di quelli!» «No, io
voglio te! Io guardo il cuore e non il curriculum. E poi io di
sapienti e potenti ne faccio quanti ne voglio. Avrai ben letto
in Isaia 11, 2 quali sono i doni dello Spirito?» «Sì, ma Isaia
prefigurava Gesù!» «Se ribatti così, allora non hai letto
Giovanni 1, 12. Dice: “Alcuni però hanno creduto in lui: a
questi Dio ha fatto un dono: di diventare figli di Dio”» «Ma
se vado a dire una cosa del genere mi prendono per matto»
«E a te cosa importa?»
«… alcuni Magi vennero da oriente…»: in questa frase è
riassunto il significato profondo contenuto nel Vangelo di
31
In dialogo con l’anno A
oggi. Episodio narrato soltanto da Matteo, l’Adorazione dei
Magi ha ispirato artisti di tutte le epoche ed è ricordata ogni
anno nel presepe. Un evento importante, letto come il
riconoscimento – da parte della sapienza, della potenza e
della ricchezza (quelle vere, non quelle di Erode) – del
ruolo insostituibile di Gesù, del suo essere axis mundi et
temporis, Signore dello spazio e del tempo. Ruolo che
comportava la riapertura della porta chiusa tra terra e cielo,
cosa che nessuna sapienza, potenza o ricchezza di questo
mondo avrebbe potuto fare. «Al vedere la stella provarono
una gioia grandissima»: questa frase apparentemente
marginale contenuta nell’episodio narrato ci svela un dato
molto importante. I segni del cielo, al di là di quello che
significano – anche se in questo caso significavano l’evento
più importante della storia dell’umanità tutta – , sono fonte
di gioia. Sembrerebbe quasi che essi solo siano latori di
gioia, che la gioia vera cioè sia sempre di origine celeste e
che quando la incontriamo dovremmo inchinarci come di
fronte ad un’epifania del divino. A questo proposito risulta
senz’altro interessante il discorso di Gesù sulla vite e i tralci
(Giovanni 15, 1-11) che si conclude con la frase: «Vi ho
detto questo, perché la mia gioia sia anche vostra, e la
vostra gioia sia perfetta». Gesù, in quanto Figlio di Dio,
essere celeste e manifestazione del divino è fonte di gioia in
sé compiuta.
32
In dialogo con l’anno A
Tempo di Natale – Battesimo del Signore
Letture: Isaia 42, 1-4.6-7; Atti 10, 34-38; Matteo 3, 13-17.
La prima lettura di oggi è nuovamente tratta dal Libro del
Profeta Isaia. Il nome Isaia in ebraico significa “il Signore
salva”, proprio come Gesù. Il libro è tradizionalmente
diviso in tre parti per complessivi 66 capitoli e tratta fatti
dei periodi 740-700 a. C. e 587-538 a. C.. Se non
ipotizziamo che Isaia abbia vissuto centinaia d’anni come
gli antichi patriarchi, dobbiamo supporre che il testo sia
stato composto da mani umane diverse. Tale supposizione
secondo i nostri canoni potrebbe inficiare la validità della
testimonianza riportata (siamo infatti portati a dire che il
nome dell’autore è falso), ma se guardiamo la questione
con l’occhio di Dio possiamo dire che persone diverse
hanno svolto un medesimo ufficio, rappresentato dalla
condivisione del nome nella sua funzione di titolo,
riportando la voce di Dio stesso relativamente ai diversi
periodi storici che il libro comprende.
Oltre che nel nome del suo compositore (o dei suoi
compositori), la tradizione cristiana vi ha letto dei
collegamenti molto significativi con la persona di Gesù.
Proprio il passo riportato oggi, che è compreso nella
seconda parte del libro (capp. 40-55), è il primo dei quattro
canti conosciuti come canti del Servo del Signore. Se da un
punto di vista storico questa figura è stata identificata con il
re Ciro dei Persiani che ha liberato il popolo ebreo
deportato in Babilonia concedendogli di tornare a
Gerusalemme, da un punto di vista teologico il Servo del
Signore prefigura la persona di Gesù. «Così dice il Signore:
“Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto di cui mi
compiaccio. Ho posto il mio spirito su di lui; egli porterà il
33
In dialogo con l’anno A
diritto alle nazioni”» sono parole che non si possono non
collegare con le seguenti riportate da Matteo: «Appena
battezzato, Gesù uscì dall’acqua: ed ecco, si aprirono per lui
i cieli ed egli vide lo Spirito di Dio discendere come una
colomba e venire sopra di lui». Le analogie sono anche ben
più numerose se raffrontiamo la totalità dei quattro canti del
Servo del Signore con la totalità dei quattro (di nuovo)
Vangeli. Un rapido raffronto delle letture di oggi, in
particolare tra Isaia ed il discorso di Pietro riportato in Atti,
ci consente di affermare che anche il resto del Nuovo
Testamento riecheggia le parole dell’antico profeta. Certo,
si osserverà, appare strano come un testo del VI secolo a. C.
possa dire delle cose che accadranno seicento anni dopo,
ma si possono fare due considerazioni: da un lato è
piuttosto normale che chi si sia apprestato a scrivere la vita
di Gesù abbia fatto riferimento alla tradizione scritturistica
del popolo ebreo, dall’altro nell’ottica di Dio che vive
nell’eternità il tempo, spesso tanto inclemente con noi
umani, significa ben poco, in quanto tutti gli eventi storici
sono già presenti alla sua onniscienza. Ed è proprio da
questa onniscienza che scaturisce il dono della profezia,
inteso come previsione degli eventi che debbono accadere.
Dice infatti Gesù a Giovanni, quando si presenta da lui per
farsi battezzare: «Lascia fare per ora, perché conviene che
adempiamo ogni giustizia»: e quale giustizia, se non quella
riportata nella Legge e nei Profeti ispirati da Dio? Questo
tema poi è ribadito da Matteo 5, 18 quando Gesù dice:
«Perché vi assicuro che fino a quando ci sarà il cielo e la
terra, nemmeno la più piccola parola, anzi nemmeno una
virgola, sarà cancellata dalla legge di Dio; e così fino a
quando tutto non sarà compiuto»: un invito a fare, almeno
di tanto in tanto, come suggerisce il salmista quando dice:
34
In dialogo con l’anno A
«Felice l’uomo giusto… sua gioia è la parola del Signore,
la studia giorno e notte» (Salmi 1, 1-2). Un invito che,
fortunatamente, da quanto dicono le statistiche sulle letture
del genere umano oggi, per adesso non risulta disatteso.
Rimane però una domanda: quanti di noi si trovano nella
condizione dell’eunuco, funzionario di Candace, regina
dell’Etiopia quando risponde a Filippo che gli chiede
«Capisci quello che leggi?», «Come posso capire se
nessuno me lo spiega?» (Atti 8, 30-31). E che coincidenza
(ma noi sappiamo che in Dio le coincidenze non sono
fortuite)! L’eunuco di Candace stava leggendo proprio il
quarto canto del Servo del Signore…
35
In dialogo con l’anno A
Tempo di Quaresima – 1a domenica
Letture: Genesi 2, 7-9; 3, 1-7; Romani 5, 12-19; Matteo 4,
1-11.
La prima domenica di Quaresima i brani proposti alla
lettura sintetizzano la storia della salvezza. In particolare
San Paolo ci propone una specie di equazione: la
disobbedienza di un solo uomo a Dio ha portato la morte
nel mondo, l’obbedienza di un solo uomo ha portato nel
mondo la giustificazione e conseguentemente la vita. Per
colpa di uno tutti siamo stati nel peccato, per merito di uno
tutti siamo stati giustificati. La colpa è la disobbedienza, il
merito l’obbedienza. Le altre letture presentano una
situazione più complessa. A fare disobbedire i primi due
esseri umani è un altro essere, il serpente, che motiva in
modo accattivante e subdolo la sua proposta. «Non morirete
affatto [mangiando del frutto dell’albero della conoscenza]!
Anzi, Dio sa che il giorno in cui voi ne mangiaste si
aprirebbero i vostri occhi e sareste come Dio, conoscendo il
bene e il male». Nel Vangelo di Matteo il tentatore viene
nominato come diavolo. La dottrina insegna che è lo stesso
essere incontrato da Adamo ed Eva nell’eden. Egli tenta
Gesù, sempre in modo accattivante (cita persino le
Scritture), ma Gesù non cede, sa come rispondere, svela il
suo inganno. Nuovamente il tentatore cerca di far leva sul
desiderio di potere dell’uomo – «Tutte queste cose [i regni
del mondo e la loro gloria] io ti darò se, gettandoti ai miei
piedi, mi adorerai» – ma Gesù, che non è soltanto uomo, gli
tiene testa. Sempre con il potere tenta, della conoscenza
nell’eden («sareste come Dio, conoscendo il bene e il
male»), della ricchezza e della gloria nel deserto. Viene da
chiedersi perché non sia bastato il rifiuto del tentatore da
36
In dialogo con l’anno A
parte di Gesù per liberare l’uomo dalla sua condizione
decaduta, ma egli abbia dovuto sottoporsi all’evento
scandaloso della crocefissione per compiere quel mysterium
magnum che è il disegno di salvezza di Dio per l’uomo.
Possiamo dire che non c’era soltanto il tentatore da
sconfiggere per liberare l’uomo, ma anche –
omeopaticamente – la morte: «L’ultimo nemico a essere
distrutto sarà la morte» (1 Corinzi 15, 26); «Dio asciugherà
ogni lacrima dai loro occhi. La morte non ci sarà più. Non
ci sarà più né lutto, né pianto né dolore. Il mondo di prima è
scomparso per sempre» (Apocalisse 21, 4). Per quanto
riguarda il potere poi c’è un altro elemento da tenere in
considerazione: a quello fallace del tentatore, Gesù ne
contrappone un altro offrendolo all’uomo e cioè il potere
ben più desiderabile di «diventare figli di Dio» (Giovanni 1,
12), portando a compimento la sua opera di redenzione.
Tale opera ha un risultato migliorativo rispetto alla
creazione in quanto, dopo di lui, l’uomo assurge alla dignità
di figlio, dignità ben superiore a quella di creatura. Gesù fa
ciò condividendo con l’uomo la sua sostanza divina come
ha fatto con gli apostoli nell’ultima cena.
37
In dialogo con l’anno A
Tempo di Quaresima – 2a domenica
Letture: Genesi 12, 1-4a; Timoteo 1, 8b-10; Matteo 17, 1-9.
La prima e la terza lettura di oggi hanno come punto forte
la voce di Dio. «La mia parola è come il fuoco, e come un
martello che frantuma la roccia! Lo dice il Signore»
(Geremia 23, 29). E Abramo ne ha fatto esperienza, e
Pietro, Giacomo e Giovanni ne hanno fatto esperienza. La
parola del Signore rivolta ad Abramo – alcune ipotesi lo
vogliono vissuto nel XX-XIX secolo avanti Cristo – è una
parola la cui validità dura ancora oggi nell’ebraismo, nel
cristianesimo e nell’islamismo, le tre religioni definite
abramitiche. È una parola che ha scosso e scuote miliardi di
persone che cercano di conformarvisi e che si è mantenuta
fedele a se stessa per lunghissimi secoli. È una parola che
ha operato prodigi (e piaghe) in tutta la storia di Israele
narrata dalla Bibbia e continua ad operarne nell’oggi. È una
parola che, per i cristiani, si è incarnata in un uomo che ha
liberato chi crede in lui dal potere del diavolo, del peccato e
della morte. È una parola presente sin da prima della
creazione del mondo e che sussisterà dopo la sua fine. È
una parola eterna. A volte è una parola dura – «un martello
che frantuma la roccia» –, una parola che spaventa –
«Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti
malediranno maledirò» (Genesi 12, 3) – una parola che ha
parlato per mezzo di profeti potenti avvertendo che cosa si
deve fare e non fare. Una parola che è stata anche
variamente interpretata, a volte persino fraintesa. Ma è una
parola chiara e i fraintendimenti sono più da imputare
all’imperfezione di chi l’ha ascoltata. No, Abramo non l’ha
fraintesa – «Allora Abram partì, come gli aveva ordinato il
Signore» (Genesi 12, 4) –, no, Pietro, Giacomo e Giovanni
38
In dialogo con l’anno A
non l’hanno fraintesa – «All’udire ciò, i discepoli caddero
con la faccia a terra e furono presi da grande timore»
(Matteo 17, 6). Certo, noi forse oggi saremmo più vicini
alla reazione dei discepoli se sentissimo quella voce, quella
parola; è difficile avere la tempra di Abram che abbandona
tutto e parte e per di più i discepoli erano confortati dalla
presenza tranquillizzante di Gesù – «Ma Gesù si avvicinò,
li toccò e disse: “Alzatevi e non temete”» (Matteo 17, 7).
Anche i cristiani oggi sono confortati dalla presenza
tranquillizzante di Gesù e quando odono la potente voce del
Padre se non capiscono, se hanno paura possono sempre
contare su di lui.
«Il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero
candide come la luce» (Matteo 17, 2): queste parole ci
dicono qualcosa di più sulle teofanie. Accanto alla voce, al
suono, a volte al frastuono come accade a Mosè, le
apparizioni di Dio sono accompagnate da fenomeni
luminosi. Niente di straordinario, se conosciamo
l’insegnamento della Cabala che definisce Dio come Aor
Ein Soph (Luce Senza Limiti) o se semplicemente
recitiamo il passo del Credo cristiano che dice: «Dio da
Dio, Luce da Luce». Mentre però la parola di Dio può
generare reverenziale timore, quello che la dottrina indica
come il “timor di Dio”, la luce è più spesso un’esperienza
pacificante – «Signore, è bello per noi essere qui!» (Matteo
17, 4). Nel passo in questione a rendere ancor più
pacificante l’esperienza vi è poi la presenza di Mosè ed
Elia, uomini noti ai discepoli, evento che può suggerirci
qualcosa su una delle funzioni, seppur marginale, di quelli
che nel corso della storia umana si sono fatti tramite tra la
luce senza limiti e noi.
39
In dialogo con l’anno A
Tempo di Quaresima – 3a domenica
Letture: Esodo 17, 3-7; Romani 5, 1-2.5-8; Giovanni 4, 542.
Esodo e Giovanni oggi ci parlano dell’acqua. Innanzitutto
l’acqua da bere, quell’elemento fisico di cui tutti abbiamo
bisogno per vivere. Mosè parlava con Dio, anzi gridava al
Signore. Quando c’era qualcosa che non andava, quando
non sapeva che pesci pigliare, quando gli Israeliti erano in
pericolo di vita Mosè si rivolgeva al Signore. Oggi è tutto
più facile: sono poche le cose che non possiamo risolvere
con una telefonata, con una mail. Se abbiamo bisogno di
cure chiamiamo il dottore, o l’ospedale, se abbiamo sete
andiamo in un bar o al rubinetto di casa, se siamo tristi
invitiamo a casa un amico, un parente, guardiamo un
programma comico, conversiamo con il coniuge. Sembra
facile. Ma anche oggi possiamo aver bisogno di gridare al
Signore – in qualche momento, in qualche fase della nostra
esistenza. Ci sono problemi che l’uomo da solo non è in
grado di risolvere, oppure siamo preda di una tristezza che
non passa. E allora ci ricordiamo di lui. Sì, tutto quello di
cui disponiamo può essere considerato come un segno della
sua grazia, della sua benevolenza, ma ci sono momenti in
cui, anche oggi, si fa prepotente la nostalgia di Lui. E allora
vorremmo avere bisogno di qualcosa che non abbiamo a
disposizione, così, per avere una scusa per chiamarlo. E
anche noi ci interroghiamo come gli Israeliti dicendo: «Il
Signore è in mezzo a noi sì o no?» (Esodo 17, 7); forse non
per metterlo alla prova come fecero loro, ma soltanto per
sentirlo vicino.
«Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice:
“Dammi da bere!”, tu avresti chiesto a lui ed egli ti avrebbe
40
In dialogo con l’anno A
dato acqua viva» (Giovanni 4, 10). Come sempre
quest’affermazione di Gesù ci aiuta a capire. Lui, in quanto
Figlio di Dio, ha qualcosa di cui anche noi, oggi e in questa
porzione di mondo, non disponiamo. È una cosa misteriosa,
l’acqua viva, e Gesù non ne dice altro che chi ne berrà non
avrà più sete, anzi, essa «diventerà in lui una sorgente
d’acqua che zampilla per la vita eterna» (Giovanni 4, 14).
Un dono generoso quello di Gesù: non solo ci disseta ma ci
mette nella condizione di essere latori di questo mirabile
rimedio. Forse è la stessa acqua di cui sempre Giovanni
parla in Apocalisse: «A chi ha sete io darò gratuitamente
l’acqua della vita» (21, 6) e «Chi ha sete venga: chi vuole
l’acqua che dà la vita ne beva gratuitamente» (22, 17).
Forse è lo stesso elemento, l’amore, di cui parla San Paolo
quando dice: «Perché l’amore di Dio è stato riversato nei
nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato
dato» (Romani 5, 5).
La samaritana è una donna importante, una donna a cui
Gesù svela il suo essere il Messia, il Cristo mandato da Dio
ed altre cose fondamentali sul Regno di Dio. «Ma viene
l’ora – ed è questa – in cui i veri adoratori adoreranno il
Padre in spirito e verità» (Giovanni 4, 23) è l’annuncio
dell’apertura del Tempio, del Santo dei Santi, l’inizio della
Nuova Alleanza che si attuerà non in un tempo e in un
luogo determinati, bensì nel qui ed ora della dimensione
eterna ed onnipervasiva dello spirito e cui prenderanno
parte tutti coloro che l’accetteranno.
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In dialogo con l’anno A
Tempo di Quaresima – 4a domenica
Letture: Samuele 16, 1b.4.6-7.10-13; Efesini 5, 8-14;
Giovanni 9, 1-41.
L’episodio tratto dal Libro di Samuele in lettura oggi ci
offre un bellissimo episodio della storia sacra di Israele:
l’unzione a re di Davide. Il passo contiene alcuni particolari
simbolici che vale la pena notare. Davide è il più piccolo di
otto fratelli. Samuele prima di procedere a compiere l’opera
che il Signore gli ha ordinato, passa in rassegna i sette
fratelli di Davide. Come sappiamo nella Bibbia le
coincidenze sono poche volte casuali. Sette è il numero dei
giorni della creazione e per questo motivo è un numero che
rappresenta la completezza. Sul sette poi diverse tradizioni
hanno discettato, ma per noi è sufficiente ricordare che è
composto da tre, la Trinità, e da quattro, i quattro elementi
del creato. In Apocalisse – sette chiese, sette sigilli, sette
trombe – è ulteriormente testimoniata l’importanza
simbolica del numero sette. Davide è l’ottavo fratello. Se il
settimo è il giorno del riposo di Dio dopo che ha creato
tutto, ottavo è il giorno in cui l’uomo entra nel creato
ricreato dal sacrificio espiatorio di Cristo che lo monda dal
peccato originale. Ottavo è il giorno del riposo dell’uomo
nel creato rinnovato. Battesimo, eucaristia, cresima,
riconciliazione, matrimonio, sacerdozio, estrema unzione
sono nella tradizione cattolica i sette sacramenti. Viene da
chiedersi se alla luce della simbologia numerica presentata
in questo passo non si possa interpretare l’unzione regale
come ottavo sacramento e comunque viene da chiedersi che
cosa sia rimasto oggi di questo importante atto fondativo
della tradizione ebraica.
Come la scorsa domenica tema importante delle letture era
42
In dialogo con l’anno A
l’acqua, quest’oggi le letture mettono in luce la luce
(scusate il bisticcio) e la facoltà umana – la vista – ad essa
collegata. In Giovanni, come spesso accade quando il
protagonista della narrazione è Gesù, si comincia a narrare
qualcosa relativamente al fenomeno fisico della vista – la
guarigione del cieco nato – per trarne poi un insegnamento
spirituale – la vista di ciò che è giusto e di ciò che non lo è.
Questo passaggio si fa chiaro nel momento in cui Gesù
smette di parlare con il cieco che ha beneficato guarendogli
gli occhi e scambia alcune battute con i farisei: «Alcuni
farisei che erano con lui udirono queste parole e gli dissero:
“Siamo ciechi anche noi?” Gesù rispose loro: “Se foste
ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: “Noi
vediamo”, il vostro peccato rimane”» (Giovanni 9, 40-41).
Un giudizio duro quello di Gesù, che scagiona gli ignoranti
di cose spirituali e condanna chi dice di sapere. Ma sapere
che cosa? «Cercate di capire ciò che è gradito al Signore»
dice San Paolo (Efesini 5, 10) e ancora «Comportatevi
perciò come figli della luce» (Efesini 5, 8), riprendendo la
metafora del vedere, e ci dice anche quali saranno i frutti
del nostro agire a questo modo: «Bontà giustizia e verità
sono i suoi frutti» (Efesini 5, 9). Ma forse il processo non è
metaforico, bensì analogico. Di questi tempi molti fra noi
hanno dimenticato che, accanto alla vista fisica che ci
permette di vedere le meraviglie del creato, noi siamo dotati
di una vista spirituale (metafisica) che ci permette di vedere
le meraviglie del creatore.
43
In dialogo con l’anno A
Tempo di Quaresima – 5a domenica
Letture: Ezechiele 37, 12-14; Romani 8, 8-11; Giovanni 11,
1-45.
Le tre letture di oggi hanno perfetta concordanza di tema: la
resurrezione dai morti. All’uomo della strada, ma anche a
quello dotato di beni d’ogni genere, questo tema risulta
essere di difficile digeribilità. La morte è ancora oggi un
fatto ineluttabile e necessariamente connesso con la vita
umana di cui rappresenta la fine. Di resurrezione dai morti
oggi non se ne parla proprio: non si sa bene perché, cioè se
sia un evento che non si verifica affatto oppure se sia di
scarso interesse per i media e la conversazione. Ci sono
stati e ci sono alcuni pionieri in questo campo che
raccontano di esperienze di premorte e di ritorno dall’aldilà,
ma perlopiù sono esperienze che la medicina ha bollato
come fenomeni allucinatori di pazienti in coma. Della
morte oggi si parla molto – nei giornali, alla televisione, sui
libri – ma della resurrezione poco: soltanto in chiesa, la
domenica, si fa memoria di un uomo che – si dice – abbia
sconfitto la morte con l’aiuto di Dio Padre e sia resuscitato.
Certo è strano che un tema così importante per il genere
umano non sia oggetto di ulteriori approfondimenti. Ma
vediamo cosa dicono le Scritture. In Ezechiele il Signore è
esplicito: «Ecco, io apro i vostri sepolcri, vi faccio uscire
dalle vostre tombe… Farò entrare in voi il mio spirito e
rivivrete» (Ezechiele 37, 12.14). Ora però dal testo non
risulta chiaro se il Signore parli per metafore in cui fa
riferimento ad una condizione di morte del suo popolo in
quanto conduce un’esistenza priva di fede o se parli
davvero della morte fisica. Se prendiamo però la parte
precedente del capitolo non ci sono dubbi: «… Il soffio
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In dialogo con l’anno A
della vita entrò in quei corpi ed essi ripresero vita. Si
alzarono in piedi…» (Ezechiele 37, 1-10). Più chiaro
rispetto al passo di Ezechiele in lettura è anche il testo di
Giovanni, in cui si parla della resurrezione di Lazzaro: qui
Gesù Cristo resuscita, grazie all’intervento del Padre cui si
rivolge in preghiera, l’amico Lazzaro morto e sepolto da tre
giorni. In questo passo del Vangelo Gesù compie il suo
miracolo più straordinario: un evento che, se accadesse
oggi, c’è da aspettarsi che farebbe il giro del mondo. Ma
oggi niente. Certo – insegnano ai piccoli al catechismo –
Lazzaro è resuscitato ma non è diventato immortale.
Quando sarà il suo momento scenderà nello sheol o salirà al
Padre. Ma è pur sempre resuscitato. Quello che farà dopo
Gesù è un miracolo ben più grande, come ci riferisce San
Paolo: resusciterà grazie allo Spirito di Dio e «darà la vita
anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito»
(Romani 8, 11). Certo, moriremo, ma al peccato, «ma lo
Spirito è vita per la giustizia» (Romani 8, 9), o in altra
traduzione «Se invece Cristo agisce in voi, voi morite, sì, a
causa del peccato, ma Dio vi accoglie e il suo Spirito vi dà
vita». Dunque un miracolo grande quello di Gesù, che oltre
a resuscitare lui stesso, darà la vita eterna a chi avrà accolto
il suo Spirito. Questa è la buona notizia che forse anche
oggi, di tanto in tanto, meriterebbe un po’ di spazio sui
media.
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In dialogo con l’anno A
Settimana Santa – Giovedì Santo – Messa del crisma
Letture: Isaia 61, 1-3a.6a.8b-9; Apocalisse 1, 5-8; Luca 4,
16-21.
Al mattino del Giovedì Santo il vescovo, insieme al suo
presbiterio, celebra in cattedrale la Messa crismale, nella
quale si benedicono gli oli che saranno usati anche nella
veglia pasquale. Le letture di questa Messa sono incentrate
su due temi importanti: lo spirito di Dio e la grazia. La
grazia, come già sappiamo, corrisponde nella Cabala alla
sephiroth Tipheret, tradotta anche come misericordia. È una
particolare attitudine di Aor Ein Soph, Dio, che nasce
dall’incontro di Hesed, l’amore e Gebourah, il giudizio. Si
applica agli afflitti, ai cuori spezzati e rappresenta per essi
la consolazione del Signore. Collegata direttamente con
Kether, la corona, che è la sephiroth più prossima a Dio, fa
dire ad Isaia: «… [Dio] mi ha mandato… a promulgare
l’anno di grazia del Signore… per dare agli afflitti di Sion
una corona invece della cenere». Anno di grazia che
potrebbe corrispondere all’Anno Santo della tradizione
cattolica. Il segno con cui si trasmette lo spirito di Dio che
ci rende portatori e amministratori della grazia è l’olio
santo. In questo giorno viene proprio consacrato l’olio che
nella tradizione ebraica serviva a segnare i re. Davide, come
abbiamo visto qualche tempo fa nel libro di Samuele,
quando viene unto con l’olio dal profeta diviene pieno dello
spirito di Dio (Samuele 16, 13) che d’ora innanzi lo guida.
Gesù, che anche questa volta adempie come di consueto
ogni giustizia, cioè segue quanto previsto dalla Legge e dai
Profeti, afferma di essere consacrato con l’unzione regale e
che lo spirito di Dio è con lui: «Oggi si è compiuta questa
Scrittura che voi avete ascoltato» (Luca 4, 21). Tale
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In dialogo con l’anno A
investitura farà poi rispondere a Gesù, quando Pilato gli
chiede «Sei tu il re dei Giudei?», «Tu lo dici!» (Luca 23, 3).
Ma per Gesù non c’è Samuele ad ungerlo; sì, ha ricevuto il
Battesimo di Giovanni, ma l’unzione regale pare che gli
venga amministrata direttamente da Dio. Da diversi passi
del Nuovo Testamento apprendiamo che Gesù, oltre ad
essere re, è anche profeta e sacerdote: incarna cioè le tre
figure più importanti che nella tradizione ebraica fungono
da tramite tra Dio e il popolo. E il Battesimo cattolico, in
quanto incorpora il catecumeno in Gesù, lo rende partecipe
di questa triplice funzione. Coloro che si dicono cristiani
sarebbe opportuno che si rendessero conto a quale dignità
vengono chiamati quando si uniscono a Gesù e che si
comportassero di conseguenza. D’altra parte che i veri
discepoli di Gesù siano premiati anche con il sacerdozio, e
di sacerdozio regale si parla, è testimoniato anche dal passo
di Apocalisse (1, 5-6) in lettura oggi: «A Colui che ci ama e
ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha
fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre, a lui
la gloria e la potenza nei secoli dei secoli».
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In dialogo con l’anno A
Settimana Santa – Giovedì Santo – Cena del Signore
Letture: Esodo 12, 1-8.11-14; Corinzi 11, 23-26; Giovanni
13, 1-15.
Nella liturgia di oggi si fa memoria della Cena del Signore.
Particolare attenzione viene dedicata ad un episodio
avvenuto durante la Cena: la lavanda dei piedi dei discepoli
da parte di Gesù. «Se non ti laverò, non avrai parte con me»
(Giovanni 13, 8), dice Gesù a Pietro, che pare non ritenere
degno del Maestro un atto così umile nei suoi confronti, a
sottolineare l’importanza non solo materiale del gesto.
L’atto di lavare dall’Antico al Nuovo Testamento è molto
importante. Le norme di purità contenute in Levitico lo
raccomandano in svariate situazioni, per riacquisire la
purezza necessaria a stare di fronte al Signore. Nel Nuovo
Testamento lavare con l’acqua è l’atto con cui Giovanni
Battista amministra il Battesimo, che monda dai peccati. Il
Battesimo cristiano cancella il peccato originale, la colpa
adamitica (ma non le sue conseguenze). Sembra che dal
Levitico al Nuovo Testamento ci sia una passaggio di
livello: dal lavaggio del corpo si passa a parlare della
“pulizia” dell’anima. Anche le vesti sono considerate
importanti in questa pratica igienica. Il racconto della
Trasfigurazione nella narrazione di Marco riferisce: «Là, di
fronte a loro, Gesù cambiò d’aspetto: i suoi abiti divennero
splendenti e bianchissimi. Nessuno a questo mondo avrebbe
mai potuto farli diventare così bianchi a forza di lavarli» (9,
2-3); Giovanni in Apocalisse afferma: «Beati quelli che
lavano i loro abiti nel sangue dell’Agnello: essi potranno
cogliere i frutti dell’albero che dà la vita e potranno entrare
nella città di Dio attraverso le sue porte» (22, 14). Certo, il
passo di Apocalisse, tradotto nel linguaggio della tradizione
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In dialogo con l’anno A
cattolica, può significare che solo chi beve il sangue di
Cristo amministrato nel sacramento della riconciliazione
può accedere all’eucaristia, ma che cosa rappresentano le
vesti di cui si parla nell’episodio della Trasfigurazione?
«Beato chi è sveglio e ha i suoi vestiti a portata di mano
(oppure chi conserva le sue vesti, in altra traduzione)! Non
gli toccherà andare in giro nudo e vergognarsi davanti alla
gente», dice Giovanni in un altro passo di Apocalisse (16,
15). Tale versetto posto verso la fine della Bibbia, ne
risuona un altro, altrettanto noto e riportato all’inizio del
libro: «Ho udito i tuoi passi nel giardino. Ho avuto paura
perché sono nudo e mi sono nascosto» (Genesi 3, 10),
quando Adamo si nasconde da Dio dopo che lui ed Eva
hanno mangiato il frutto dell’albero della conoscenza del
bene e del male. Dunque cosa rappresentano le vesti? Per
comprendere ciò ci può venire in aiuto la filosofia yoga.
Nella filosofia yoga viene insegnata la dottrina dei kosha
(in inglese sheath, in italiano guaina). Secondo tale
insegnamento l’uomo è costituito da cinque kosha, cinque
guaine, delle quali il corpo fisico, annamaya kosha, è
solamente la più grossolana. I successivi kosha vibrano ad
altre frequenze, come insegna la fisica moderna, e non sono
visibili alla vista quale comunemente la intendiamo. I kosha
sono disposti uno dentro l’altro, come una cipolla, e
racchiudono l’essere presente in ogni uomo che si possa
considerare tale. L’assenza dei kosha lascerebbe l’uomo
nudo. Se i kosha fossero sette, la loro assenza potrebbe
avere un collegamento con la danza della figlia di Erodiade
narrata in Marco 6, 22 e nota come “la danza dei sette veli”;
ma tale verità trova espressione anche nella comune
allocuzione “la nuda verità”, tutt’ora presente nella nostra
tradizione occidentale benché abbia ormai fatto
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In dialogo con l’anno A
dell’anatomia fisica e della mercificazione medica del
corpo materiale il suo unico scopo. Non lamentiamoci
troppo, però: tale processo di mercificazione sta
raggiungendo pericolosamente anche le cose spirituali,
come fa notare il cantante Franco Battiato quando dice
«Una signora vende corpi astrali». Forse faremmo meglio
ad accorrere a procurarcene uno, così che non ci tocchi di
andare in giro nudi e vergognarci davanti alla gente.
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In dialogo con l’anno A
Triduo pasquale – Venerdì Santo – Passione del Signore
Letture: Isaia 52, 13-53, 12; Ebrei 4, 14-16; 5, 7-9;
Giovanni 18, 1-19, 42.
L’atteggiamento più corretto da tenere nel momento in cui
si fa memoria della morte di Gesù leggendone la Passione è
il silenzio. Con lui possiamo chinare il capo e, se Dio
accetta anche il nostro, consegnare lo spirito. Noi però
abbiamo la fortuna di sapere che cosa è avvenuto dopo. A
dire la verità anche Gesù lo sapeva, ma ciò non gli ha
impedito di soffrire. I discepoli non sapevano. Benché fosse
stato loro predetto, l’avevano dimenticato forse perché
troppo duramente colpiti dall’evento straziante a cui
assistevano. Evento straziante che comportava, accanto alle
sofferenze fisiche di Gesù, una profonda sofferenza morale,
spirituale. Era stato messo a morte il re dei Giudei: «Quel
che ho scritto ho scritto» dice Pilato a proposito della
motivazione della pena comminata riportata sulla croce
(Giovanni 19, 22). Già così era una sconfitta per il popolo
eletto, quindi una sconfitta di Dio. Se poi andiamo a vedere
la motivazione della condanna addotta dai farisei il colpo è
ancora più profondo: «Noi abbiamo una Legge e secondo
Legge deve morire, perché si è fatto Figlio di Dio»
(Giovanni 19, 7). Non però così grave: se non crediamo, è
stato semplicemente ucciso un uomo che, secondo la legge
ebraica interpretata da quei farisei, ha bestemmiato. Oggi al
massimo prenderebbe una multa. Ma se crediamo è grave.
Si è tentato di eliminare la presenza di Dio dal mondo e
questo tentativo ha avuto successo; un successo apparente e
temporaneo secondo l’ottica dell’eternità, ma ben reale
secondo l’ottica storica di chi l’ha vissuto (e di chi ne fa
memoria annualmente). Dio, per qualche ora, si è ritirato
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In dialogo con l’anno A
dal mondo, non fa sentire la sua voce: «Eloì, Eloì, lemà
sabactàni?» (Marco 15, 34); la presenza di Gesù suo Figlio,
per qualche ora, è annullata da questo mondo. Per chi crede,
è la tragedia più grande che si possa immaginare: si è
voluta eliminare la sostanza di Dio dal mondo con il rischio
di gettarlo per sempre nelle tenebre più nere. Sì, ora
«abbiamo un sommo sacerdote grande, che è passato
attraverso i cieli» (Romani 4, 14); sì, ora grazie al suo
sacrificio di riparazione molti sono giustificati, come dice
Isaia. Ma allora…
Nella narrazione dell’episodio della Passione trovano la
loro radice metafisica pratiche ascetiche di diverse
tradizioni: la mimesi della kenosis di Gesù, come descritta
da Filippesi 2, 6-8, insegnata ai propri discepoli dai Padri
della Chiesa perché si spogliassero del loro io a volte
ipertrofico che li faceva vagare nel mondo in cerca di
soddisfazioni effimere, la ricerca di shunyata, il vuoto,
consigliata ai monaci buddhisti per fare astrazione dal
mondo imbrigliato nella rete di maya, la pratica di
pratyahara, uno degli otto pilastri dello yoga, che richiede
il ritiro in sé dalla normale attività sensoriale che ci mette sì
in comunicazione con il mondo, ma spesso ce ne rende
schiavi. Grazie a una di queste pratiche saremo forse in
grado di assumere il migliore atteggiamento di fronte alle
sofferenze di Gesù e rispondere ad esse con quel silenzio di
cui dicevamo sopra. Un silenzio pleromatico, carico di
significati, che ci consenta di rimeditare quel passo in cui
Gesù dice: «Questa gente malvagia e infedele a Dio vuole
vedere un segno miracoloso! Ma non riceverà nessun
segno, eccetto il segno del profeta Giona» (Matteo 12, 39).
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In dialogo con l’anno A
Triduo pasquale – Veglia pasquale – Risurrezione del
Signore
Letture: Genesi 1, 1-2, 2; Genesi 22, 1-18; Esodo 14, 1515, 1;Isaia 54, 5-14; Isaia 55, 1-11; Baruc 3, 9-15.32-4, 4;
Ezechiele 36, 16-17a.18-28; Romani 6, 3-11; Matteo 28, 110.
Che Dio sia un grande alchimista l’abbiamo già detto. E
come tutti gli alchimisti si riserva di mantenere qualche
segreto. Noi ugualmente possiamo andare ad indagare
quanto opera ed ha operato ed interpretarne i segni.
Dell’opera alchemica, se non siamo alchimisti come lui,
sappiamo poco. Simboli e linguaggio allusivo si
confondono con la realtà dell’opera. Sappiamo che le fasi
sono quattro e si chiamano nigredo, albedo, citrinitas e
rubedo; sappiamo che gli animali che le simboleggiano
sono il corvo, il cigno, il pavone e la fenice; sappiamo che
l’alchimista voleva trasformare il piombo in oro, che
lavorava con sostanze quali lo zolfo, il sale, l’antimonio e il
mercurio; sappiamo che voleva creare il rebis, l’androgino
originario, un essere immortale. Quello che non sappiamo è
come si combinano questi elementi, perché ogni alchimista
è più un artista che uno scienziato e come tale ciascuno
segue il suo poco sistematico sistema ed aborre la verifica
di laboratorio. La grande opera è un processo anche
simbolico e come tale si realizza sia su vasta scala – come
ad esempio una vita – sia su scala più piccola – come ad
esempio una fase, un episodio di essa. Pare essere questo il
caso di Gesù: Dio, nel tenebroso mondo della nigredo
privato del contatto con il cielo, ha posto un seme, un
elemento vitale, una nuova sostanza; dopo varie fasi tale
sostanza è morta, è stata soppressa, per poi risorgere con le
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In dialogo con l’anno A
caratteristiche dell’immortalità ed una potestà rigenerativa.
Il processo dunque si può applicare all’intera vita di Gesù,
magari facendo a gara nell’individuare l’inizio e la fine di
ogni fase, la sua corrispondenza con gli animali simbolici,
la corrispondenza con i metalli o altro. In una scala più
condensata nel tempo si può individuare la grande opera nel
Triduo pasquale: Gesù corvo della nigredo che urla ad un
cielo che non risponde «Eloì, Eloì, lemà sbactàni?» (Marco
15, 34); Gesù cigno dell’albedo avvolto in un bianco
lenzuolo con profumi e deposto nella purezza di una tomba
nuova scavata nella roccia; Gesù che risorge, pavone della
citrinitas, animale di cui si credeva che le carni mangiate
rendessero immortali; Gesù fenice della rubedo risorta dalle
proprie ceneri che si presenta ai suoi e trasmette loro il suo
spirito immortale. E la potestà rigenerativa è testimoniata
dalle parole di San Paolo che in Romani 6 ci spiega come
nel battesimo in Cristo Gesù noi moriamo al peccato con lui
per risorgere sempre con lui a vita nuova. Parole che
richiamano la promessa di Dio contenuta in Ezechiele: «Vi
darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito
nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore
di carne» (36, 26).
54
In dialogo con l’anno A
Triduo pasquale – Domenica di Pasqua
Letture: Atti 10, 34a.37-43; Colossesi 3, 1-4; Corinzi 5, 68; Giovanni 20, 1-9.
«Cioè come Dio consacrò in Spirito Santo e potenza Gesù
di Nàzaret, il quale passò beneficando e risanando tutti
coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio
era con lui» (Atti 10, 38). Con queste brevi parole Pietro
riassume la vicenda terrena di Gesù. «Essi lo uccisero
appendendolo a una croce, ma Dio lo ha resuscitato al terzo
giorno e volle che si manifestasse, non a tutto il popolo, ma
a testimoni prescelti da Dio, a noi che abbiamo mangiato e
bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti» (Atto 10,
40-41). Con queste brevi parole Pietro riassume le vicende
relative alla morte e alla risurrezione di Gesù. Da un punto
di vista letterario, Pietro riassume la narrazione evangelica,
da un punto di vista storico Pietro riassume l’evento
dell’esistenza di un personaggio importante, da un punto di
vista teologico Pietro riassume l’intervento di Dio a favore
dell’uomo. Ma qual è la condizione di chi resta, di chi
mangia e beve «con lui dopo la sua risurrezione dai morti»?
Ce lo dice San Paolo: «Voi infatti siete morti e la vostra vita
è nascosta con Cristo in Dio! Quando Cristo, vostra vita,
sarà manifestato, allora anche voi apparirete con lui nella
gloria» (Colossési 3, 3-4). Questa è propriamente la
condizione degli apostoli nel periodo immediatamente
successivo alla sua risurrezione. C’è da chiedersi se tale
condizione sia da intendersi condivisa da quanti accedono
al sacramento della comunione. Perché Pietro non dice «a
noi che abbiamo mangiato e bevuto con lui» nell’ultima
cena, quando si dice il sacramento sia stato istituito, bensì
«a noi che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua
55
In dialogo con l’anno A
risurrezione dai morti». Ora la precisazione forse non ha
alcun senso: è piuttosto opportuno intendere che mangiare e
bere con lui dopo la sua risurrezione dai morti non sia altro
che una prosecuzione in altro momento del mistero della
comunione istituito il Giovedì Santo e che noi tutti, quando
ci accostiamo alla comunione, non facciamo altro che
mangiare e bere con lui dopo la sua risurrezione dai morti.
A questo punto anche noi siamo morti «e la nostra vita è
nascosta con Cristo in Dio». Ma questo cosa vuol dire?
Forse un altro passo evangelico fa luce sulla nostra
condizione dopo la venuta di Gesù e dopo aver mangiato e
bevuto con lui risorto. Il passo, tratto dal Vangelo di
Giovanni (17, 6-26), riporta la preghiera che Gesù eleva al
Padre a favore dei suoi discepoli, a favore di quelli che
hanno creduto e crederanno in lui, a favore di coloro che
mangiando e bevendo con lui risorto sono uniti a lui: «Io
non ti prego di toglierli dal mondo, ma di proteggerli dal
maligno» (Giovanni 17, 15) dice Gesù; se poi confrontiamo
questi due passi (Colossési 3, 3-4 e Giovanni 17, 15) con
Romani 6, 2-3, la nostra condizione ci si chiarisce
ulteriormente. San Paolo dice: «Noi che siamo morti al
peccato, come potremo ancora vivere in esso? Vi siete
dimenticati che il nostro battesimo unendoci a Cristo ci ha
uniti alla sua morte?». Ora, un sofista potrebbe dire: ma è il
battesimo o l’aver mangiato e bevuto con lui risorto che ci
rende morti al peccato? A noi questo può interessare poco,
ma c’è un’altra questione che ci pare più importante
chiarire: a noi, che ci accostiamo al sacramento della
comunione e mangiamo e beviamo pertanto con lui risorto,
è dato anche di vederlo?
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In dialogo con l’anno A
Tempo di Pasqua – 2a domenica (o della divina
Misericordia)
Letture: Atti 2, 42-47;I Pietro 1, 3-9; Giovanni 20, 19-31.
La riflessione precedente si è conclusa con una domanda. Il
Vangelo di oggi, in un modo del tutto particolare come è
tipico nella narrazione evangelica, ce ne dà la risposta.
Chiedevamo: «A noi, che ci accostiamo al sacramento della
comunione e mangiamo e beviamo pertanto con lui risorto,
è dato anche di vederlo?» La risposta ci viene dall’episodio
di Giovanni in lettura oggi. Il passo narra dell’apparizione
di Gesù ai discepoli dopo che è resuscitato. Gesù porta loro
i doni della pace, dello Spirito Santo e con esso della
facoltà di perdonare i peccati. L’evangelista non dice come
Gesù se ne vada o, meglio, come i discepoli lo lascino
andare, ma parla subito dell’assenza di Tommaso e della
sua incredulità nell’apprendere dagli altri discepoli che il
Signore è apparso loro. Tommaso è uno che vuole le prove,
che vuole toccare con mano: «Se non vedo nelle sue mani il
segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei
chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non
credo» (Giovanni 20, 25). Non è un atteggiamento che
possiamo biasimare. Quanti di noi, nell’epoca della
verificabilità scientifica, avrebbero fatto come lui? Quanti
di noi attendono secoli per confermare un miracolo? Quanti
di noi sottopongono a complicatissimi esami un telo che si
dice sia stata la veste mortuaria di Gesù e poi dicono «Non
mi convince, facciamo altri esami»? D’altra parte ci sono
passati sulle spalle millenni di imbrogli, di false
testimonianze, di falsi profeti, di simonie, di false reliquie,
di verità scientifiche fasulle. No, noi certo non possiamo
biasimare Tommaso; lo possiamo capire e condividere il
57
In dialogo con l’anno A
suo stato d’animo. Possiamo però anche ascoltare con lui
quanto gli dice Gesù quando lo rimprovera: «Perché mi hai
veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e
hanno creduto» (Giovanni 20, 29). Ma come, Signore, io
volevo vedere te e tu mi rimproveri? – avrà pensato
Tommaso – E poi con tutti gli imbrogli che ci sono in giro
dici che sono beati quelli che credono senza le prove? La
reazione di Tommaso Giovanni non la racconta, ma –
povero Cristo – visto che non era presente, non ha neanche
ricevuto il dono della pace, dello Spirito Santo e della
facoltà di perdonare i peccati? Un gramo destino il suo,
tanto che la tradizione lo vuole partito per l’India (magari
ad aprirsi il terzo occhio, per vederci chiaro). E quanti di
noi se ne sono andati in India perché hanno ricevuto una
risposta che hanno reputato sbagliata, perché non hanno
trovato le prove, perché non hanno avuto il regalo? Ma,
niente paura, la tradizione vuole Tommaso in India ad
annunciare Cristo risorto. Fino a lì! Allora forse ha capito
cosa intendeva Gesù e non se ne è partito deluso, ma
gioioso. E poi i doni li avrà ricevuti anche lui, no? Giovanni
infatti continua: «Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece
molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro»
(20, 30), e forse, alcuni di essi, hanno riguardato, stavolta
sì, anche Tommaso. E forse, alcuni di essi, riguardano
anche noi oggi, così da metterci nella condizione descritta
da San Pietro quando dice: «Perciò siete ricolmi di gioia,
anche se ora dovete essere, per un po’ di tempo, afflitti da
varie prove, affinché la vostra fede, messa alla prova, molto
più preziosa dell’oro – destinato a perire e tuttavia
purificato con fuoco –, torni a vostra lode, gloria e onore
quando Gesù Cristo si manifesterà» (I Pietro 1, 6-7).
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In dialogo con l’anno A
Tempo di Pasqua – 3a domenica
Letture: Atti 2, 14.22-33;I Pietro 1, 17-21;Luca 24, 13-35.
Gli episodi del Nuovo Testamento – abbiamo visto – fanno
spesso riferimento a quanto scritto nell’Antico. A volte tale
riferimento è implicito, a volte viene esplicitato. Nelle
letture di oggi il riferimento è chiaro, esplicito, calzante.
Luca negli Atti, nello spiegare la vicenda umana e
sovrumana di Gesù, si serve del Salmo 15/16 mostrando
come la figura del Maestro abbia collimato perfettamente
con quanto qui detto da Davide. Sempre Luca, nell’episodio
dei discepoli di Emmaus contenuto nel suo Vangelo, riporta
le seguenti parole di Gesù in risposta allo stato di
confusione in cui i due si trovavano dopo la sua condanna a
morte ed esecuzione: «Stolti e lenti di cuore a credere in
tutto ciò che hanno detto i profeti! Non bisognava che il
Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua
gloria?» (Luca 24, 25-26). E poi Luca aggiunge: «E,
cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte
le Scritture ciò che si riferiva a lui» (Luca 24, 27). Dunque
troviamo un esplicito riferimento ai due pilastri della fede
ebraica, la Legge e i Profeti, di cui si afferma il
compimento nella vicenda terrena di Gesù. D’altra parte lui
stesso l’aveva detto chiaramente: «Non dovete pensare che
io sia venuto ad abolire la legge di Mosè e l’insegnamento
dei profeti. Io non sono venuto per abolirla ma per
compierla in modo perfetto» (Matteo 5, 17). E in aggiunta
ammonisce: «Perché vi assicuro che fino a quando ci sarà il
cielo e la terra, nemmeno la più piccola parola, anzi
nemmeno una virgola, sarà cancellata dalla legge di Dio; e
così fino a quando tutto non sarà compiuto» (Matteo 5, 18).
Tale concetto poi è espresso anche chiaramente dallo stesso
59
In dialogo con l’anno A
Luca, dove Gesù dice: «È più facile che finiscano il cielo e
la terra, piuttosto che cada anche la più piccola parola della
legge di Dio» (Luca 16, 17). E nuovamente in Matteo c’è
un ammonimento ulteriore: «Perciò, chi disobbedisce al più
piccolo dei comandamenti e insegna agli altri a fare come
lui, sarà il più piccolo nel regno di Dio. Chi invece mette in
pratica tutti i comandamenti e li insegna agli altri, sarà
grande nel regno di Dio. Una cosa è certa: se non fate la
volontà di Dio più seriamente di come fanno i farisei e i
maestri della legge, voi non entrerete nel regno di Dio»
(Matteo 5, 19-20). Risulta chiaro da queste parole che la
sequela di Gesù è un compito molto impegnativo. Quanta
fatica mettiamo oggi a seguire “semplicemente” i dieci
comandamenti. Quanti sedicenti maestri ci hanno insegnato
che questo non occorre, che quello va interpretato, che
quell’altro va rivisto alla luce della moderna scienza storica.
Forse in questi insegnamenti c’è qualcosa di vero, forse lo
Spirito ci guida verso un affrancamento da leggi a volte
troppo difficili da seguire. E poi per fortuna Gesù ci ha
fornito anche una guida sulla maggiore o minore
importanza di un comandamento sull’altro, sul loro
radicamento reciproco aiutandoci a orientarci (Matteo 22,
36-40). Alla domanda «Maestro, qual è il più grande
comandamento della legge?» infatti egli risponde: «Ama il
Signore, tuo Dio, con tutto il tuo cuore, con tutta la tua
anima e con tutta la tua mente»; e prosegue: «Il secondo è
ugualmente importante: Ama il tuo prossimo come te
stesso». E infine suggella quanto detto affermando: «Tutta
la legge di Mosè e tutto l’insegnamento dei profeti
dipendono da questi due comandamenti». Dunque niente
paura: anche se non siamo rabbini e non conosciamo tutta
la legge e i profeti, anche se siamo uomini d’oggi figli di
60
In dialogo con l’anno A
una scienza che tutto dubita e tutto verifica, anche se non
siamo sacerdoti con una via preferenziale a tutto ciò che
concerne Dio e il sacro, anche se non cogliamo le
sottigliezze della retorica giuridica, possiamo mettere in
pratica questi due comandamenti; e – ci assicura Gesù –
siamo già sulla buona strada.
61
In dialogo con l’anno A
Tempo di Pasqua – 4a domenica
Letture: Atti 2, 14a.36-41;I Pietro 1, 20b-25;Giovanni 10,
1-10.
Le parabole di Gesù, insieme con la loro spiegazione,
spesso presentano delle apparenti aporìe, delle
incongruenze. Nella narrazione di oggi (Giovanni 10, 1-5) –
la parabola del pastore – egli paragona il gruppo dei fedeli
ad un gregge di pecore, chiuse in un recinto, che seguono il
pastore di cui riconoscono la voce. Nella spiegazione che
segue (Giovanni 10, 7-10) Gesù dichiara di essere la porta
delle pecore e che chi non è entrato nel recinto attraverso di
lui era un bandito. Fino a qui – apparentemente – tutto
chiaro. Se però proseguiamo nella lettura troviamo
l’affermazione: «Io sono il buon pastore» (Giovanni 10,
11). E allora? Come può essere Gesù la porta del recinto e
al contempo il buon pastore? Cosa significa questa doppia
identificazione? E chi erano i pastori nella prima
spiegazione?
«E le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce»
(Giovanni 10, 4). Come abbiamo già visto nella narrazione
evangelica il senso della vista ha un significato molto
rilevante. Gesù guarisce i ciechi, Gesù afferma di essere
venuto a donare la vista (spirituale) a chi non ce l’ha, Gesù
ammonisce i farisei che dicono di vedere. Anche l’udito
però è importante. Quando Giovanni Battista manda i suoi
discepoli ad interrogarlo per sapere se è lui il Messia, Gesù
risponde: «Andate a raccontargli quel che udite e vedete: i
ciechi vedono, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono
risanati, i sordi odono, i morti risorgono e la salvezza viene
annunziata ai poveri» (Matteo 11, 4-5). Di nuovo, assieme
ad altre cose, l’udito. E, come accade per la vista, a volte si
62
In dialogo con l’anno A
tratta del senso dell’udito come tutti lo intendiamo, a volte
si tratta di un udito più affinato, più spirituale. In Marco 7
(31-37) viene narrata la guarigione di un uomo che era
sordomuto: «Allora Gesù lo prese da parte, lontano dalla
folla, gli mise le dita negli orecchi, sputò e gli toccò la
lingua con la saliva. Poi alzò gli occhi al cielo e disse a
quell’uomo: “Effatà!”, che significa: “Apriti!” Subito le sue
orecchie si aprirono, la sua lingua si sciolse ed egli si mise
a parlare molto bene». Questo uomo sordo esemplifica
molto bene la condizione delle pecore nel recinto di cui si
parla nella parabola riportata da Giovanni: le pecore sono
sorde alla voce di chi non è il vero pastore, di chi non ne
difende la vita a costo della propria, ma – come quelle del
sordomuto – sono ben aperte all’“Effatà” di Gesù. Ed è ciò
di cui parla anche Pietro nella sua lettera quando dice «A
questo siete stati chiamati» (I Pietro 2, 21). Gesù ci chiama
– per nome, come le pecore – e a noi è dato di guarire come
il sordomuto, aprire le nostre orecchie al suo richiamo e
seguirne le orme: «Egli non commise peccato e non si trovò
inganno sulla sua bocca; insultato, non rispondeva con
insulti, maltrattato, non minacciava vendetta, ma si affidava
a colui che giudica con giustizia» (I Pietro 2, 21-23).
Possiamo quindi dirci fortunati: anche se in qualche
occasione il nostro udito, o forse qualcun altro, ci inganna,
grazie alle Scritture abbiamo le indicazioni precise di come
comportarci; e in più siamo protetti da una porta che è
garanzia della bontà di chi l’attraversa; e in più abbiamo un
pastore disposto anche a morire pur di proteggerci. Non è
abbastanza? Dice infatti ancora Pietro: «Eravate erranti
come pecore disperse, ma ora siete stati ricondotti al
pastore e custode delle vostre anime» (I Pietro 2, 25).
63
In dialogo con l’anno A
Tempo di Pasqua – 5a domenica
Letture: Atti 6, 1-7;I Pietro 2, 4-9;Giovanni 14, 1-12.
«In verità, in verità io vi dico: chi crede in me, anch’egli
compirà le opere che io compio e ne compirà di più grandi
di queste, perché io vado al Padre» (Giovanni 14, 12). Le
parole di Gesù sono chiare, precise. Poi prosegue: «E tutto
quello che domanderete nel mio nome, io lo farò, perché la
gloria del Padre sia manifestata nel Figlio. Se mi chiederete
qualcosa nel mio nome, io lo farò» (Giovanni 14, 13). Una
promessa importante, quella di Gesù, senza mezzi termini.
Tali parole, come spesso accade con l’eloquente parola di
Gesù, ci lasciano a bocca aperta. Poi vengono le domande,
anche sciocche, anche infantili. Ma proprio tutto? Potrò
anch’io fare miracoli, guarire malattie, scacciare i demoni,
risuscitare i morti? Ma se io domando nel suo nome di
vincere la lotteria, lui esaudirà anche questo? Ma se chiedo
nel suo nome di fare del male al mio nemico, lui esaudirà
anche questo? Sorge allora la domanda delle domande: che
cosa è giusto domandare? che cosa è giusto fare? E come
rispondere a queste questioni di capitale importanza? Forse
facendo atto di umiltà e considerando che tali parole erano
rivolte agli apostoli – e noi cosa c’entriamo? Forse facendo
riferimento alla nostra esperienza personale dell’amicizia
che ci indica cosa chiedere e cosa non chiedere a un amico.
O cosa ci fa piacere e cosa non ci fa piacere che un amico ci
chieda. Forse seguendo le dolci ispirazioni che lo Spirito,
così largamente effuso da lui e dal Padre, ci manda. Forse
indagando ulteriormente le Scritture, il Vangelo stesso per
cercare di capire qual è la linea di comportamento di Gesù,
che cosa ci indica con le sue azioni miracolose, che cos’è la
giustizia che lui insegna. Se riflettiamo su frasi come
64
In dialogo con l’anno A
«Lascia fare per ora, perché così ci conviene adempiere
ogni giustizia» (Matteo 3, 15) e «Non rendete triste lo
Spirito Santo che Dio ha messo in voi come un sigillo»
(Efesini 4, 30) forse possiamo trovare la strada giusta.
Ma il Vangelo di oggi non ci dice solo questo. Gesù affronta
direttamente la questione della sua comunione con il Padre.
«Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me?»
(Giovanni 14, 10), domanda a Filippo che gli chiede di
mostrare il Padre. La questione è fondamentale: la sua
figliolanza con il Padre gli costerà la vita – «Noi abbiamo
la nostra legge: secondo la legge dev’essere condannato a
morte, perché ha detto di essere il Figlio di Dio» (Giovanni
19, 7) –, ma è al contempo la garanzia della sua
risurrezione. E di questa unità con il Padre Gesù non ne fa
un tesoro custodito gelosamente, bensì lo vuole condividere
con i suoi discepoli e con chi crede in lui. Più avanti infatti
afferma: «In quel giorno conoscerete che io vivo unito al
Padre, e voi siete uniti a me e io a voi» (Giovanni 14, 20).
Una promessa che, come se non bastasse, va ben oltre a
quella di esaudire le nostre domande che faremo nel suo
nome. E se non bastasse ancora, anche se di più non è
possibile, possiamo ancora riflettere su cosa vuole
significare Pietro quando dice a coloro che hanno creduto in
Gesù: «Voi invece siete stirpe eletta, sacerdozio regale,
nazione santa, popolo che Dio si è acquistato perché
proclami le opere ammirevoli di lui, vi ha chiamato dalle
tenebre alla luce meravigliosa» (I Pietro 2, 9).
65
In dialogo con l’anno A
Tempo di Pasqua – 6a domenica
Letture: Atti 8, 5-8.14-17;I Pietro 3, 15-18;Giovanni 14,
15-21.
Il Vangelo di questa domenica è la prosecuzione della
settimana precedente. Gesù continua a rivelare il suo
rapporto di identità con il Padre ed a spiegare che cosa
questo comporti. «E io pregherò il Padre ed egli vi darà un
altro Paràclito (lett. “volto appresso” dal greco, per
estensione “consolatore”) perché rimanga con voi per
sempre, lo Spirito della verità, che il mondo non può
ricevere perché non lo vede e non lo conosce» (Giovanni
14, 16-17). La terza persona della Trinità, di cui si occupa
la branca della teologia che si chiama pneumatologia, viene
qui introdotta da Gesù. Chi è addentro al dialogo
ecumenico tra le chiese cristiane sa che la dottrina cattolica
e quella ortodossa differiscono su un punto che qui viene
trattato da Gesù. Per gli ortodossi lo Spirito procede solo
dal Padre, per i cattolici lo Spirito procede dal Padre e dal
Figlio. Nel passo di Giovanni citato Gesù sembra dare
ragione agli ortodossi (dice infatti che sarà il Padre a dare lo
Spirito). Secondo la tradizione cristiana lo Spirito Santo è
septiforme: sapienza, intelletto, consiglio, fortezza, scienza,
pietà, timore di Dio sono i suoi sette doni o le sue sette
manifestazioni. La tradizione ebraica, da cui sicuramente
Gesù ne trae il significato, lo chiama ruach haQodesh e lo
identifica con la potenza divina che riempie i profeti. C’è da
chiedersi anche se non sia lo stesso spirito di cui si parla nel
Libro della Sapienza. Questo libro della Bibbia, che come
abbiamo ricordato precedentemente fa parte del gruppo di
testi definiti “Deuterocanonici”, informa che il suo autore è
il re Salomone, che regnò su Israele dal 972 al 933 a. C.; la
66
In dialogo con l’anno A
critica storica invece ci informa che è stato scritto in Egitto
in lingua greca tra il 50 e il 30 a. C. e che tenta un non
facile connubio tra religione ebraica e cultura greca.
L’autore comunque lo propone come un approfondimento
del passo di I Re 5, 15 in cui si narra il sogno in cui il re
Salomone ha chiesto e ricevuto in dono da Dio la sapienza:
«Dammi la saggezza necessaria per amministrare la
giustizia tra il popolo e per distinguere il bene dal male»,
chiede Salomone (I Re 2, 9); e il Signore, compiaciuto della
saggezza della richiesta di Salomone, risponde: «Farò come
hai detto, anzi ti darò tanta sapienza e intelligenza, come
nessuno ne ha mai avute e mai potrà averne» (I Re 2, 1112). La trattazione del Libro della Sapienza, noto anche
come Sapienza di Salomone per l’appunto, contiene delle
descrizioni molto poetiche di questo straordinario dono:
«La sapienza è uno spirito intelligente e santo, unico nel
suo genere e interiormente ricco, sottile, agile e penetrante,
limpido e senza macchia; benevolo, amante del bene e
pronto ad agire, spontaneo, generoso e amico dell’uomo,
sicuro, stabile e tranquillo, onnipotente e capace di
controllare tutto, di arrivare al cuore di ogni persona
intelligente, è puro e fine» (Sapienza 7, 22-23). Se ancora
osserviamo l’insegnamento della Cabala troviamo che
alcune caratteristiche sono presenti nelle sephiroth, le
potenze, gli aspetti di Dio, Aor Ein Soph, nel suo
manifestarsi: lì ci sono la sapienza, Hochmah, definita
come conoscenza di Dio, l’intelligenza, Binah, definita
come conoscenza del mondo, il giudizio, Gebourah,
definita come discrimine tra ciò che è giusto e ciò che non
lo è. Tracciare un quadro sinottico di ciò che le diverse
tradizioni – cristiana, greca, ebraica veterotestamentaria,
ebraica cabalistica – hanno detto di questo dono è
67
In dialogo con l’anno A
un’impresa che esula dalle possibilità di questa riflessione,
come circoscrivere in un sistema logico l’inesauribile dono
dello Spirito. Quello che forse è dato di fare è ammirarne il
suo manifestarsi nelle Scritture, nella storia e nella vita
quotidiana, senza dimenticare come proprio la sua
manifestazione abbia suscitato nei non credenti delle
perplessità: «Altri invece ridevano e dicevano: “Sono
completamente ubriachi”» (Atti 2, 13) ci racconta Luca,
descrivendo le reazioni di alcuni fra quelli che erano
presenti dopo la discesa dello Spirito Santo sugli apostoli.
Noi possiamo dire: «Ben venga questa salutare ebbrezza
che nella storia sacra ha ispirato santi, profeti e re».
68
In dialogo con l’anno A
Tempo di Pasqua – 7a domenica – Ascensione del
Signore
Letture: Atti 1, 1-11;Efesini 1, 17-23;Matteo 28, 16-20.
Il racconto del commiato di Gesù dai discepoli dopo che è
risorto e si è fatto vedere da loro è leggermente differente
nei quattro Vangeli. Marco e Luca concordano sul fatto che
Gesù ad un certo punto ascende al cielo. Matteo non
menziona il fatto e Giovanni sottintende una generica
dipartita di Gesù. Riferendosi a Giovanni, dice infatti a
Pietro: «Se voglio che lui viva fino al mio ritorno, che
t’importa?» (Giovanni 21, 22). Il precedente dialogo con
Pietro, durante il quale lo esorta a prendersi cura delle sue
pecore, sembra anche sottintendere che Gesù se ne andrà.
Rimane ancora misterioso il significato delle parole che
Gesù rivolge a Pietro dopo quelle già citate: «Se voglio che
lui viva fino al mio ritorno, che t’importa? Tu, seguimi!»
(Giovanni 21, 22). Sorge una domanda: come può Pietro
contemporaneamente prendersi cura delle pecore che Gesù
gli affida e contemporaneamente seguire Gesù? O si tratta
di un “seguimi” teorico, simbolico nel senso che Gesù lo
esorta a seguire il suo insegnamento?
Il racconto dell’Ascensione di Gesù per fortuna è
conservato e raccontato per esteso dal passo di Atti in
lettura oggi. Luca non si dilunga in particolari nel narrare
questo evento, particolari che senz’altro appagherebbero
una certa curiosità dei credenti che lo leggono. «Detto
questo, mentre lo guardavano fu elevato in alto e una nube
lo sottrasse ai loro occhi» (Atti 1, 9), dice lapidariamente.
Poi c’è l’apparizione di due uomini in bianche vesti che
rassicurano gli apostoli: «Questo Gesù, che di mezzo a voi
è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete
69
In dialogo con l’anno A
visto andare in cielo» (Atti 1, 11). Dall’esperienza
successiva dei santi, ma anche da quella precedente di
alcuni tra i profeti, noi apprendiamo che è possibile andare
in estasi, cioè elevare la propria anima – e la propria mente
– ad altezze, usando la metafora spaziale, che ci consentono
di collegarci con esseri spirituali a noi superiori – di poco,
dice infatti il salmista «L’hai fatto di poco inferiore agli
angeli» (Salmi 8) –, oppure a Gesù, oppure ancora a Dio
stesso. Quest’elevazione, per quanto concerne i mistici
della tradizione cristiana, è un particolare stato dell’anima
che si trova coinvolta in dolci conversazioni ed in un
oceano di luce e di quiete. Sì, esso può essere
accompagnato da segni fisici, ma sempre di stato
dell’anima si tratta. Il corpo rimane dov’è, non si stacca da
terra per ascendere al cielo. L’estasi mistica quindi può
avere nell’Ascensione un riferimento simbolico, ma non
può identificarsi con essa, a parte quando è accompagnata
da fenomeni di levitazione. Tali fenomeni, qualora se ne
avessero prove certe, si limitano comunque ad un
temporaneo distacco del corpo da terra e non sono quindi
Ascensioni vere e proprie quale quella di Gesù, morto,
risorto e, per l’appunto, asceso al cielo. Che cosa
l’Ascensione di Gesù comporti ed abbia di diverso ad
esempio da quella di Elia ce lo dice San Paolo: «Egli la
manifestò [la sua potenza] in Cristo, quando lo resuscitò dai
morti e lo fece sedere alla sua destra nei cieli, al di sopra di
ogni Principato e Potenza, al di sopra di ogni Forza e
Dominazione e di ogni nome che viene nominato non solo
nel tempo presente ma anche in quello futuro» (Efesini 1,
20-21). Certo questo passo, anche in considerazione
dell’accento sull’importanza del nome che Paolo da buon
ebreo sottolinea, andrebbe ulteriormente interpretato, ma
70
In dialogo con l’anno A
nella festività di oggi è già importante che ci dica che cosa
ne è stato di Gesù dopo che «una nube lo sottrasse ai loro
occhi».
71
In dialogo con l’anno A
Tempo di Pasqua – 7a domenica
Letture: Atti 1, 12-14;I Pietro 4, 13-16;Giovanni 17, 1-11a.
La prima lettura di oggi ci dà delle informazioni preziose
sulla vita dei discepoli di Gesù dopo l’Ascensione. La
prima comunità è formata dagli undici apostoli rimasti dopo
la morte di Giuda, da Maria e dai fratelli di Gesù e da
alcune altre donne. Sono rimasti relativamente pochi i
discepoli, a fronte dell’acclamazione di popolo avvenuta
nel giorno delle palme, ma significativamente la comunità
ha resistito alla disgrazia che ne ha colpito il capo e
maestro. Ha resistito ed è stata premiata con la sua
risurrezione, l’evento più straordinario che potesse
aspettarsi. Il testo dice che i discepoli di Gesù «erano
perseveranti e concordi nella preghiera» (Atti 1, 14). Chi
ancora oggi si ispira al modello delle prime comunità può
fare riferimento a queste parole per improntare il suo
operato, mantenendosi costante in una preghiera concorde.
Il testo ci fornisce anche un’altra notazione interessante.
Dice infatti: «Gli apostoli ritornarono a Gerusalemme dal
monte detto degli Ulivi, che è vicino a Gerusalemme
quanto il cammino permesso in giorno di sabato» (Atti 1,
12). Una maggiore attenzione a queste parole, che ci
forniscono un’osservazione apparentemente secondaria, fa
sollevare delle domande. I versetti precedenti del capitolo
di Atti ci informano che Gesù è rimasto con i discepoli per
quaranta giorni dopo la sua risurrezione e poi è asceso al
cielo. L’Ascensione è avvenuta in giorno di sabato? I
discepoli continuano ad essere rispettosi delle norme
previste dalla legge ebraica e non percorrono una strada più
lunga di quanto è permesso fare in giorno di sabato?
Oppure Luca ci dà semplicemente un’informazione sulla
72
In dialogo con l’anno A
distanza percorsa dai discepoli? Il testo, nella traduzione
utilizzata dalla liturgia cattolica, lascia spazio ad entrambe
le interpretazioni. Se vi fosse una risposta affermativa alle
prime due domande formulate, sarebbe interessante notare
come l’evento dell’Ascensione assuma un’importanza che
lo avvicina all’evento della risurrezione, anch’essa
avvenuta in giorno di sabato. Sarebbe poi interessante
considerare come i discepoli siano radicati nella legge tanto
da continuare ad osservarla anche dopo che i suoi
rappresentanti ufficiali li hanno così duramente colpiti
mettendo a morte il loro maestro. Ma la gioia per la
risurrezione di Gesù è grande e ciò può forse aver fatto
superare qualunque insulto subito precedentemente e
rimettere in pace il cuore con una tradizione che nell’evento
della Passione e morte di Gesù sembrava morta anch’essa.
Scrive infatti Pietro: «Carissimi, nella misura in cui
partecipate alle sofferenze di Cristo, rallegratevi perché
anche nella rivelazione della sua gloria possiate rallegrarvi
ed esultare» (I Pietro 4, 13).
Il passo di Atti ci fornisce un’ulteriore informazione: «Tutti
questi [gli apostoli] erano perseveranti e concordi nella
preghiera, insieme ad alcune donne e a Maria, la madre di
Gesù, e ai fratelli di lui» (Atti 1, 14). L’informazione però
non è approfondita. Per secoli ci si è chiesti chi erano questi
fratelli. Maria ha forse dato alla luce altri figli dopo Gesù?
Giuseppe ha avuto altre mogli con cui ha generato? O forse
si tratta di cugini, figli di fratelli o sorelle di Maria o di
Giuseppe, definiti genericamente fratelli? O forse ancora
sono suoi conterranei, amici di infanzia, compagni di studi
con cui Gesù ha mantenuto un rapporto di fratellanza
spirituale? Sulla croce prima di morire Gesù dice a Maria
riferendosi all’apostolo Giovanni «Donna, ecco tuo figlio»
73
In dialogo con l’anno A
(Giovanni 19, 26) e a Giovanni «Ecco tua madre»
(Giovanni 19, 27). Forse anche qui si tratta di una parentela
spirituale acquisita di questo tipo? Il testo di Atti a queste
domande non fornisce una risposta.
74
In dialogo con l’anno A
Tempo di Pasqua – Pentecoste – Messa vespertina della
vigilia
Letture: Genesi 11, 1-9;Esodo 19, 3-8a.16-20b;Ezechiele
37, 1-14; Gioele 3, 1-5; Romani 8, 22-27; Giovanni 7, 3739.
La Messa vespertina della vigilia è una liturgia di
preparazione alla solennità di Pentecoste. I passi in lettura
riguardano tutti la promessa dello Spirito o la sua
manifestazione nella legge e nei profeti. La liturgia propone
come prima lettura i testi di Genesi, Esodo, Ezechiele, o
Gioele. I primi due narrano rispettivamente dell’intervento
di Dio contro l’uomo a Babele e della parola di Dio rivolta
a Mosè sul monte Sinai; Ezechiele e Gioele sono più
specificamente
pneumatologici
e
raccontano
rispettivamente l’operato dello Spirito su delle ossa morte e
la promessa e gli esiti dell’effusione dello Spirito sul
popolo eletto. Il testo di Genesi può apparire fuori tema, ma
in realtà è collegato strettamente al racconto della
Pentecoste cristiana contenuto in Atti 2, 1-11 che si legge
domenica. Qui si narra di come Dio ha confuso le lingue
degli uomini per impedire loro di acquisire un potere tale da
poter fare a meno di lui, là si riporta come il primo effetto
della discesa dello Spirito Santo sugli apostoli sia stata la
loro capacità di esprimersi in lingue sconosciute e rendere
perciò accessibile a tutti il messaggio del Vangelo. Anche il
testo di Esodo può apparire fuori tema. In realtà il
collegamento è più sottile: come sul Sinai Dio ha contratto
la sua alleanza con il popolo eletto comunicandola a Mosè,
così nel giorno di Pentecoste Dio, tramite lo Spirito Santo,
contrae una nuova alleanza con quanti seguono
l’insegnamento di Gesù e credono in lui. In Ezechiele è
75
In dialogo con l’anno A
testimoniata la potenza dell’opera dello Spirito di Dio che
fa risuscitare i morti dopo averne riunito i resti sparsi.
Anche questo testo si collega idealmente alla festività della
Pentecoste cristiana: lo Spirito Santo infatti esercita anche
la funzione di unificatore delle pecore del gregge dapprima
disperse, donando loro nuova vita. In Gioele è contenuta la
promessa dell’effusione dello Spirito sul popolo che, per i
cristiani, trova attuazione proprio nel giorno di Pentecoste.
Ne sono elencati alcuni effetti: «… diventeranno profeti…
faranno sogni… avranno visioni» (Gioele 3, 1). Il passo,
assieme a quanto riferito nella seconda lettura e nel
Vangelo, contribuisce ad offrire un quadro delle
manifestazioni dello Spirito. In Romani si legge infatti: «…
lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza… lo Spirito
stesso intercede con gemiti inesprimibili … intercede per i
santi secondo i disegni di Dio» (Romani 8, 26-27); in
Giovanni Gesù dice dello Spirito: «Se qualcuno ha sete,
venga a me, e beva chi crede in me. Come dice la Scrittura:
dal suo grembo sgorgheranno fiumi d’acqua viva»
(Giovanni 7, 37-38).
Ce ne sono di cose da dire dello Spirito e senz’altro vi sono
anche altri passi nelle Scritture che ne descrivono
estesamente caratteristiche ed operato. La dottrina
successiva elaborata in ambito cristiano ne ha ulteriormente
definito la fisionomia. Ma le letture di oggi ne hanno già
dato una descrizione esauriente: lo Spirito provoca sogni e
visioni, forma i profeti, ci assiste quando siamo deboli nella
fede, intercede per noi, ricompone la deflagrazione delle
lingue, ristabilisce la nostra alleanza con Dio, fa sgorgare
dal nostro grembo fiumi d’acqua viva, risuscita i morti. Per
oggi, pensiamo sia abbastanza.
76
In dialogo con l’anno A
Tempo di Pasqua – Domenica di Pentecoste – Messa del
giorno
Letture: Atti 2, 1-11;I Corinzi12, 3b-7.12-13, 22-27;
Giovanni 20, 19-23.
Il racconto della Pentecoste giovannea differisce da quella
di Atti. L’evento qui ha luogo nello stesso giorno della
risurrezione di Cristo, la sera. Nella polemica tra ortodossi
e cattolici sulla processione dello Spirito Santo di cui
abbiamo già parlato, il racconto di Giovanni sembra dare
ragione ai cattolici. Qui infatti è Gesù a soffiare lo Spirito
Santo sugli apostoli.
Le letture di oggi nel loro complesso approfondiscono,
rispetto a quanto abbiamo visto per la Messa della vigilia,
la conoscenza delle caratteristiche e dell’operare dello
Spirito Santo. Dalle parole di Gesù apprendiamo che gli
apostoli, dopo aver ricevuto lo Spirito, possono perdonare i
peccati. Ma c’è di più: nel caso essi non perdonino, i
peccati non saranno perdonati. Gli apostoli diventano
amministratori della grazia santificante e quindi cooperatori
del Figlio. Paolo dice che «Nessuno può dire: “Gesù è
Signore!” Se non sotto l’azione dello Spirito Santo» (I
Corinzi 12, 3b). Ci testimonia anche l’unità dello Spirito
che opera donando diversi carismi e riportando all’unità in
Cristo e in Dio. Nei versetti omessi dalla liturgia Paolo
approfondisce ulteriormente e specifica quali sono questi
diversi carismi: «Uno riceve dallo Spirito la capacità di
esprimersi con saggezza, un altro quella di parlare con
sapienza. Lo stesso Spirito a uno dà la fede, a un altro il
potere di guarire i malati. Lo Spirito concede a uno la
possibilità di fare miracoli, e a un altro il dono di essere
profeta. A questi dà la capacità di distinguere i falsi spiriti
77
In dialogo con l’anno A
dal vero Spirito, a quello il dono di esprimersi in lingue
sconosciute, e a quell’altro ancora il dono di spiegare tali
lingue» (I Corinzi 12, 8-10). È un elenco molto interessante
come è interessante notare che cosa manca e quindi non è
da considerarsi un dono desiderabile: non c’è la capacità
retorica di dimostrare di aver ragione quando si ha torto,
non c’è la possibilità di dominare sugli altri uomini senza
averne l’autorità, non c’è la capacità di far ammalare i sani,
non c’è la possibilità di vivere etsi deus non daretur, e così
via. Per quanto riguarda il testo di Atti ne abbiamo già
accennato nel commento alla Messa della Vigilia: appare
opportuno rimarcare che lì è testimoniata la ricomposizione
della rottura dell’alleanza tra l’uomo e Dio avvenuta ai
tempi di Babele: come nell’allora dei tempi antichi Dio è
intervenuto a confondere le lingue («Andiamo a confondere
la loro lingua: così non potranno più capirsi tra loro» dice
Dio in Genesi 11, 7), nell’oggi della Pentecoste cristiana
Dio interviene a risanare la deflagrazione linguistica dando
agli apostoli il dono di annunciare Gesù a ciascuna gente
nella sua lingua. Il dono di parlare in lingue assume qui il
significato del ristabilimento dell’amicizia tra l’uomo, o
meglio gli apostoli che hanno creduto nel Figlio, e Dio
stesso.
Accanto alla manifestazione dello Spirito nei credenti cui
elargisce i suoi doni, possiamo ammirare nel testo di Atti
come lo Spirito si manifesta “fisicamente”: «Venne
all’improvviso un fragore, quasi un vento che si abbatte
impetuoso» (Atti 2, 2). E ancora: «Apparvero loro lingue
come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno
di loro» (Atti 2, 3). Una presenza misteriosa e miracolosa
quella dello Spirito, unitaria e multiforme, palpabile e
impalpabile. Gesù crediamo di conoscerlo, e poi si è fatto
78
In dialogo con l’anno A
vedere in forma umana, a Dio, anche se nessuno lo può
vedere senza morire, abbiamo imparato a conoscerlo per lo
meno dalle parole di coloro cui lui ha parlato; ma lo Spirito
appare più imprendibile dal nostro comune modo di vedere
le cose, «soffia dove vuole» (Giovanni 3, 8). Ed è anche
fonte di reverenziale timore, quando leggiamo il monito di
Gesù: «Chi avrà bestemmiato lo Spirito Santo, non sarà mai
perdonato» (Marco 3, 29).
79
In dialogo con l’anno A
Tempo ordinario – 2a domenica
Letture: Isaia 49, 3.5-6; I Corinzi 1, 1-3; Giovanni 1, 2934.
La liturgia della parola di oggi torna sui canti del Servo di
Javhè. Come già detto i canti sono quattro (Isaia 42, 1-4;
49, 1-6; 40, 4-9; 52, 13-53, 12). Come gli altri, quello in
lettura oggi può essere riferito sia a Ciro, re dei Persiani,
che nel 538 a. C. autorizza i deportati ebrei a ritornare in
patria e a costruire il tempio, sia, nell’interpretazione
cristiana dei Profeti, a Gesù. Dice infatti Dio: «È troppo
poco che tu sia mio servo per restaurare le tribù di
Giacobbe e ricondurre i superstiti d’Israele. Io ti renderò
luce delle nazioni, perché porti la mia salvezza all’estremità
della terra» (Isaia 49, 6). Certo, Ciro ha anche costruito un
grande impero in cui pare fossero rispettate religione e
istituzioni dei popoli assoggettati, ma l’epiteto “luce delle
nazioni” è perfetto per definire Gesù. È vero che Gesù ha
detto: «Non andate fra gente straniera e non entrate nelle
città della Samaria. Andate invece fra la gente smarrita del
popolo d’Israele» (Matteo 10, 5-6), ma nella conclusione
del Vangelo di Marco (16, 20) sta anche scritto: «Allora i
discepoli partirono per andare a portare dappertutto il
messaggio del Vangelo»; e in Matteo (28, 18-19): «Gesù si
avvicinò e disse: “A me è stato dato ogni potere in cielo e in
terra. Perciò andate, fate diventare miei discepoli tutti gli
uomini del mondo”» .
La seconda lettura è tratta dalla prima lettera di san Paolo
apostolo ai Corinzi. I primi versetti della lettera sono un
semplice saluto alla comunità di Corinto, ma già in esso vi
sono degli elementi degni di nota. La chiamata di Paolo cui
fa riferimento quando dice «Paolo, chiamato a essere
80
In dialogo con l’anno A
apostolo di Cristo Gesù per volontà di Dio» (I Corinzi 1, 1)
la conosciamo da Atti 9. Lì Gesù, forse con un intento
punitivo, fa un miracolo al contrario, rendendo Saulo-Paolo
cieco per un determinato lasso di tempo. Qui cattura
l’attenzione la definizione che viene data dei membri della
comunità cui viene indirizzato il saluto. Dice infatti Paolo:
«… a coloro che sono stati santificati in Cristo Gesù, santi
per chiamata, insieme a tutti quelli che in ogni luogo
invocano il nome del Signore nostro Gesù Cristo» (I
Corinzi 1, 2). La definizione, che potrebbe essere estesa a
tutti i fedeli, ci dice cose importanti sullo status dei
cristiani. “Santi per chiamata” indica una condizione di
privilegio spirituale acquisita non per meriti propri ma per
grazia divina, per elezione. Dalla lettura dei Profeti
apprendiamo le modalità con cui opera il Signore. Sceglie
un uomo e lo prende al suo servizio. Gli elementi che
concorrono alla scelta sono, il più delle volte, a noi
misteriosi. «Quel che vede l’uomo non conta: l’uomo
guarda l’apparenza, ma il Signore guarda il cuore» (I
Samuele 16, 7) dice Dio a Samuele quando lo manda a
ungere re Davide. Certo, tali affermazioni sono alla base
delle polemiche, che hanno diviso cattolici e riformati, sulla
salvezza per grazia o per meriti e una definizione come
“Santi per chiamata” pare dare ragione ai riformati. Ma c’è
anche un altro elemento importante nel definire i cristiani
del saluto di Paolo. Dice: «… quelli che in ogni luogo
invocano il nome del Signore nostro Gesù Cristo» (I
Corinzi 1, 2). Non più solo il nome di Dio Padre, che il
sommo sacerdote pronunciava una volta all’anno a rischio
della vita, ma quello di Dio Figlio, Gesù, di cui sappiamo
che significa “Dio salva”. Non per meriti dunque, ma per la
misericordia infinita del Padre che manda il Figlio a
81
In dialogo con l’anno A
risollevare l’uomo. E allora dove li mettiamo i meriti?
Certamente un tema che merita (scusate il bisticcio) un
ulteriore approfondimento.
82
In dialogo con l’anno A
Tempo ordinario – 3a domenica
Letture: Isaia 8, 23.b-9, 3; I Corinzi 1, 10-13.17; Matteo 4,
12-23.
Il Vangelo di oggi richiama esplicitamente il passo di Isaia.
La profezia contenuta nel passo del profeta viene ripresa di
peso dal Vangelo e riferita a Gesù. Ad una prima lettura tale
accostamento può apparire arbitrario. Se non si ha
familiarità con le profezie, risulta difficile credere che un
testo dell’VIII-VI secolo a. C. possa aver parlato di fatti che
sarebbero avvenuti nel I secolo d. C.. Una spiegazione a
tale fenomeno può venire dalla considerazione che il tempo
di allora era meno denso del nostro. Gli eventi importanti
cioè, tali da meritare la difficile operazione della loro
stesura sulla pergamena, erano allora meno numerosi. Oggi
siamo abituati ad avere tantissimi giornali che ci riferiscono
di avvenimenti sempre importantissimi, siamo abituati ad
avere milioni di libri a disposizione (a proposito, quanti
sono?), siamo letteralmente bombardati da notizie riportate
dalle radio, dalle televisioni, da internet. Allora tutto questo
non c’era. I testi, soprattutto quelli sacri, erano conservati
con cura e non erano accessibili a tutti. Venivano letti,
studiati, meditati approfonditamente e non erano
considerati come i quotidiani di oggi che la mattina si
leggono e la sera si buttano via. Il valore di quanto
contenevano era riconosciuto per centinaia, migliaia di
anni. Per la Bibbia questo è vero ancora oggi, tanto che è il
libro più letto al mondo. Certo non sempre con buone
intenzioni, certo in innumerevoli traduzioni e con infinite
interpretazioni, tuttavia continua ad essere un esempio di
carta stampata che viene letta sia al mattino che alla sera.
Ma torniamo ad allora. La scarsa densità di testi che
83
In dialogo con l’anno A
contenessero notizie rilevanti avvicinava padri e figli,
antenati e discendenti, profeti antichi e moderni. La parola
scritta risuonava attuale per migliaia di anni e un evento
prefigurato nel passato poteva avere facilmente risonanza
nel presente. Questo per dire che forse riferire dei fatti del
presente ad una profezia di otto secoli prima non era poi un
fatto così strano. L’altra considerazione è più teologica.
Biblicamente il tempo è nato con la creazione. Dio crea il
mondo in sei giorni, o ere, e si riposa il settimo. Dopo il
sesto giorno il tempo ha di nuovo conosciuto una battuta
d’arresto. Inizia infatti il non meglio definito giorno del
riposo del Signore. Poi viene il peccato originale. In
conseguenza di questo evento l’uomo ha cominciato a fare
esperienza del dolore, a faticare e ad usurarsi, a invecchiare
e morire; ha cominciato quindi a fare l’esperienza del
tempo. Dio però non ha peccato ed è rimasto nella
dimensione del riposo eterno. Sì, diverse volte è intervenuto
nella storia umana, non ultima con l’evento decisivo
dell’incarnazione del figlio, ma lui si è mantenuto in tale
prospettiva dalla quale ha invitato a più riprese l’uomo a
rientrare in sé. Nella dimensione dell’eterno presente di Dio
otto, nove, dieci secoli non contano niente. Una cosa detta o
scritta dalla dimensione dell’eternità è una cosa valida
nell’eternità e può entrare e realizzarsi nella storia umana
quando e come vuole. Che poi la dimensione dell’eternità si
raccordi con il tempo lineare della storia umana e lo pieghi
ad una circolarità transitoria con l’unico scopo di riportarlo
nel proprio seno ad un punto di origine caratterizzato dalla
perfezione è un ulteriore argomento che sarebbe utile
approfondire.
84
In dialogo con l’anno A
Tempo ordinario – 4a domenica
Letture: Sofonia 2, 3; 3, 12-13; I Corinzi 1, 26-31; Matteo
5, 1-12a.
Il Vangelo di oggi riporta il famoso Discorso della
Montagna noto anche come Le Beatitudini. Il passo è
riportato anche in Luca 6, 20-23 con alcune significative
varianti. Matteo contiene nove beatitudini, nove
benedizioni potremmo dire, mentre Luca ne contiene
soltanto quattro. In Luca però il discorso si fa più duro
perché le quattro beatitudini, le quattro benedizioni, sono
accompagnate da altrettante maledizioni. Le Beatitudini
possono essere lette in varie maniere: come prefigurazione
dei tempi messianici, come guida per l’esame di coscienza,
come esortazione pedagogica per diventare perfetti nella
fede, come nuova legge del regno. Vi è presente anche
l’aspetto profetico. Quando infatti Gesù dice «Beati voi
quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo,
diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia»
(Matteo 5, 11) non fa altro che profetare su ciò che saranno
le persecuzioni romane contro i primi cristiani. Dobbiamo
forse concludere che tale ultima beatitudine essendosi già
realizzata non sia più attuale? Forse no. Anche nell’oggi
infatti in varie parti del mondo la persecuzione di chi crede
è in atto.
«Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio» (Matteo 5, 8)
è un’affermazione che già da sola ha la sua pregnanza. Ci
dice che se togliamo dal nostro cuore ogni sorta di
malignità il nostro sguardo si purificherà e ci consentirà di
accedere alla visione beatifica di Dio. Dio è sì invisibile,
ma invisibile a quegli occhi offuscati da scaglie di male che
Gesù in diverse occasioni ha indicato che si devono
85
In dialogo con l’anno A
eliminare. Già da sola dunque l’affermazione ha la sua
pregnanza, ma se la contestualizziamo nella tradizione
ebraica da cui nasce ne possiamo trarre un di più di
significato. Dall’Antico Testamento sappiamo che nessuno
può vedere Dio senza morirne. In Esodo (20, 19) troviamo
persino questa affermazione: «[Gli israeliti] Dissero a
Mosè: “Se sei tu a parlarci, potremo ascoltare; ma se Dio
stesso ci parla, noi moriamo!”». Il Sommo Sacerdote
quando entrava nel Qodesh ha-Qodashim, il Santo dei Santi
una volta all’anno durante la festa di Yom kippur per offrire
l’incenso rituale d’espiazione e pronunciare il nome di
YHWH poteva svenire per l’emozione o addirittura morire,
nel caso non fosse degno per questo ufficio; tanto che si
faceva legare i piedi ad una corda per essere trascinato fuori
senza che nessun altro non degno fosse costretto ad entrare
per portarlo via. Dunque una cosa pericolosa vedere Dio (o
udirne le parole, o persino pronunciarne il nome), tanto che
per farlo bisogna essere degni, puri di cuore. Ma come si fa
ad essere degni o puri di cuore? La tradizione ebraica dà al
Sommo Sacerdote ed ai leviti numerose prescrizioni da
seguire. Diverso è l’insegnamento di Gesù. Dice infatti:
«Chi è già lavato non ha bisogno di lavarsi altro che i piedi.
È completamente puro. Anche voi siete puri, ma non tutti»
(Giovanni 13, 10). Gesù sembra suggerirci che la lavanda
dei piedi, prefigurazione nell’insegnamento cattolico del
sacramento della riconciliazione, ci rende degni, puri, o
meglio ci fa riacquistare la purezza raggiunta con il
battesimo, durante il quale ci siamo mondati
completamente e ci fa tornare ad essere veramente uniti a
lui, condizione senza la quale è impossibile vedere il Padre.
«Chi ha visto me ha visto il Padre» dice in un altro passo
del Vangelo di Giovanni (14, 9). Per essere puri (di cuore) è
86
In dialogo con l’anno A
necessario quindi purificarsi rinnovando il lavacro
battesimale nella lavanda dei piedi; tali atti ci renderanno
degni di vedere Dio. Possono sorgere a questo punto
diverse domande, ma qui ce ne interessa una in particolare:
come ci si deve comportare una volta purificati in un
mondo, in un’umanità che non sempre ha raggiunto questo
traguardo? Dice infatti ancora Gesù quando manda i
discepoli in missione: «Ascoltate: io vi mando come pecore
in mezzo ai lupi» (Matteo 10, 16). La risposta è nelle parole
che seguono dello stesso versetto: «Siate candidi come le
colombe e prudenti come i serpenti». Al di là di queste
semplici parole, il Vangelo è ricchissimo di indicazioni sul
comportamento che sarebbe preferibile il credente
purificato assuma. A volte basta aprire il libro e leggere
lasciandosi guidare dallo Spirito di verità.
87
In dialogo con l’anno A
Tempo ordinario – 5a domenica
Letture: Isaia 58, 7-10; I Corinzi 2, 1-5; Matteo 5, 13-16.
Che Dio Padre sia – anche – un grande alchimista lo
abbiamo già detto. Ma oggi scopriamo che anche Gesù il
Figlio non è da meno. D’altra parte, considerata l’identità
del Padre e del Figlio ciò non stupisce. Paracelso (14931541) – medico, mago, alchimista e, come si dice oggi,
quant’altro – infatti a questo proposito nell’opera
“Philosophia de generationibus et fructibus quatuor
elementorum” scrive: «Dio ha formato il mondo in questo
modo. In principio ha creato un corpo, dal quale derivano i
quattro elementi. Egli ha posto questo corpo in tre parti,
Mercurio, Sale, Zolfo, che sono tre cose ma formano un
solo corpo. Queste tre parti producono tutto, così che in
esse vi sono i quattro elementi. Queste tre cose hanno in sé
ogni virtù e ogni volontà delle cose in divenire. Perciò in
esse sono posti il giorno e la notte, il caldo e il freddo,
pietre e frutti e altro, ma non ancora formati. Come un
pezzo di legno non è altro che legno (ma ha in sé tutte le
forme degli animali, tutte le forme del mutamento, tutte le
forme degli strumenti ...), così questo primo corpo è posto
in un blocco, nel quale riposano tutti i miscugli, tutte le
acque, le gemme, i minerali, le pietre e il caos. Quest'ultimo
è stato suddiviso dal Grande Creatore e posto come sottile,
così che appena è stato suddiviso è stato posto come un
altro essere. All'inizio Dio ha separato la luce e da ciò che
era rimasto ha separato altre tre sostanze, il fuoco, la terra e
l'acqua, da questi ha separato il fuoco, in modo che ne
restassero due e così via sino alla fine». Viene da chiedersi
– celiando – se Gesù non abbia fatto riferimento al grande
Paracelso quando disse: «Voi siete il sale della terra; ma se
88
In dialogo con l’anno A
il sale perde il suo sapore, con che cosa lo si renderà salato?
A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato
dalla gente» (Matteo 5, 13). Approfondire ed addentrarsi
nel linguaggio alchemico – come si sa – è sempre molto
difficile. In altre parti dei suoi scritti Paracelso definisce il
sal come costituente la tangibilità, la cenere residua del
processo di combustione in cui la fiamma prende origine
dal sulphur ed il mercurius trapassa in evaporazione. Da qui
la doppia identificazione del sal come materiale di scarto e
come importante elemento tangibile del processo
alchemico. Ciò richiama le parole del salmista quando dice:
«La pietra scartata dai costruttori è diventata testata
d’angolo. Questo è opera [e sottolineiamo la parola opera]
del Signore ed è una meraviglia ai nostri occhi» (Salmi 118,
22, citata in Marco 12, 10). Da qui la doppia identificazione
del discepolo di Cristo come povero in spirito (in ebraico
anawim) e come elemento essenziale della discesa del
regno dei cieli sulla terra. Ma nel processo di formazione
del discepolo pare dobbiamo stare attenti a che non perda il
suo sapore.
«Voi siete la luce del mondo» (Matteo 5, 14) dice Gesù ai
discepoli. Ma non si diceva da un’altra parte di Gesù: «Egli
era vita e la vita era luce per gli uomini. Quella luce
risplende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta»
(Giovanni 1, 4-5)? C’è da supporre che Gesù, oltre che
condividere la sua figliolanza con Dio Padre, abbia voluto
estendere la sua luce a chi lo segue per farne una lampada
che faccia «luce a tutti quelli che sono nella casa» (Matteo
5, 15).
89
In dialogo con l’anno A
Tempo ordinario – 6a domenica
Letture: Siracide 15, 15-20; I Corinzi 2, 6-10; Matteo 5,
17-37.
Nel Vangelo di oggi, dopo una lunga esortazione al pieno
rispetto del senso profondo della Legge che vada oltre la
sua interpretazione letterale, Gesù conclude il suo discorso
con un’espressione lapidaria: «Sia invece il vostro parlare:
sì, sì, no, no; il di più viene dal Maligno» (Matteo 5, 37). A
questo punto ci sentiamo invitati a concludere anche la
presente riflessione, in quanto la parola scritta è una forma
più incisiva del parlare. E allora che fare? Certamente,
come spesso accade, l’interpretazione letterale delle parole
di Gesù ci mette in difficoltà, ci interroga e ci fa
interrogare. Viene da dire infantilmente: «Ma allora anche
tutto quello che ha detto lui prima viene dal Maligno!»;
viene
da
dire:
«Che
cosa
ne
facciamo
dell’interpretazione?»; viene da chiedersi: «Ma bisogna
forse intendere quel sì e quel no nel modo più ampio
dell’affermare e del negare, dell’evitare nel discorso le zone
grigie, dell’essere assertivi, del distinguere nettamente il
bene dal male? O che altro?». Forse l’atteggiamento giusto
sarebbe il silenzio – Gesù mette spesso a tacere i farisei con
frasi lapidarie, Gesù lascia spesso i suoi interlocutori in
subbuglio. Gli Ebrei ci insegnano che la Legge e i Profeti
vanno interpretati, contestualizzati, che Dio nelle Scritture
ha detto tutto ma che noi, nella nostra limitata capacità di
comprendere, abbiamo la necessità di approfondire. A
questo proposito è utile ricordare che anche il diavolo
interpreta la Bibbia; quando Gesù va nel deserto il diavolo
gli dice: «Se tu sei il Figlio di Dio, buttati giù; perché nella
Bibbia è scritto: “Dio comanderà ai suoi angeli. Essi ti
90
In dialogo con l’anno A
sorreggeranno con le loro mani e così tu non inciamperai
contro alcuna pietra”» (Matteo 4, 6). Ma anche Gesù sa
interpretare la Bibbia e infatti gli risponde: «Ma nella
Bibbia c’è scritto anche: “Non sfidare il Signore tuo Dio”»
(Matteo 4, 7), respingendo il tentatore ed offrendo a noi un
prezioso insegnamento. Ci pare che l’insegnamento
consista in questo: esistono un’interpretazione delle
Scritture
giusta
ed
un’interpretazione
ingiusta,
manipolatoria, ingannevole; esiste un’interpretazione delle
Scritture a cui possiamo dire sì ed un’interpretazione delle
Scritture a cui dobbiamo dire no. Nel passo delle tentazioni
nel deserto, Gesù per primo mette in pratica l’insegnamento
contenuto nel Vangelo di oggi: dice sì in ultima istanza a
Dio e dice no al tentatore che vuole piegare il senso delle
Scritture a proprio esclusivo vantaggio, inserirvi dei fini
che non sono loro propri. Può essere utile a questo
proposito ricordare che in alcune rappresentazioni
dell’ascesa mistica l’anima è raffigurata come intenta a
salire una scala intorno alla quale si affaccendano angeli e
demoni: gli angeli la aiutano a salire, mentre i demoni
fanno di tutto per farla precipitare in basso. Leggere ed
interpretare le Scritture, quando non vi si cerchi una
conferma al proprio ego smisurato, ad ideologie peregrine o
a dottrine dell’ultima ora, è un esercizio mistico, che non è
esente dal pericolo di cadute e ricadute. Ben venga allora il
supporto amorevole ed affettuoso dei nostri protettori
angelici che spesso ci aprono, quando vi sono, i significati
nascosti del libro di Dio. E se ancora non bastasse, per
cercare di capire cosa intende Gesù o per rassicurarci sul
fatto che la nostra debolezza non possa venire intaccata
dalle insidie del tentatore, possiamo fare affidamento
sempre alle sue parole: «Ma il Padre vi manderà in mio
91
In dialogo con l’anno A
nome un difensore: lo Spirito Santo. Egli vi insegnerà ogni
cosa e vi ricorderà tutto quel che ho detto» (Giovanni 14,
26).
92
In dialogo con l’anno A
Tempo ordinario – 7a domenica
Letture: Levitico 19, 1-2.17-18; I Corinzi 3, 16-23; Matteo
5, 38-48.
Quando si parla del Levitico siamo abituati a pensare ad
una serie di norme, spesso igieniche, destinate ai sacerdoti
appartenenti alla tribù di Levi. Tali norme, giustificate nel
tempo e nel luogo in cui sono state emanate, non avrebbero
più, nella nuova alleanza, alcun senso. Disposizioni
superate di una tradizione sacerdotale ebraica che si è
profondamente modificata, anche a seguito della
distruzione del tempio. In tal senso verrebbe anche
interpretato il passo evangelico in cui Gesù parla del
lavaggio delle mani dei suoi discepoli. Gli chiedono infatti i
farisei: «Prima di mangiare, i tuoi discepoli non fanno il
rito di lavarsi le mani. Perché non rispettano la tradizione
religiosa dei nostri padri?» (Matteo 15, 2). Dopo aver
variamente argomentato Gesù risponde: «Così, per mezzo
della vostra tradizione, voi fate diventare inutile la parola di
Dio» (Matteo 15, 6). In questo passo sembra superato
l’apparente igienismo formale espresso dal Levitico, a
favore di un’igiene del cuore, che assume un significato di
particolare importanza nel rispetto del senso delle norme
stabilite da Dio. A tale proposito è però utile ricordare
alcune cose e in particolare: che la tradizione ebraica
continua a rispettare una serie di precetti, da noi interpretati
come esclusivamente formali, dando loro un valore nel
percorso di avvicinamento a Dio; la nostra società continua
a diffondere un comportamento ricchissimo di regole di
tipo igienico, che a volte sfiora la maniacalità e sfocia in
forme di consumismo sanitario quasi intollerabile,
motivandole con la conservazione della salute fisica; il testo
93
In dialogo con l’anno A
del Levitico in lettura non dà assolutamente norme di tipo
fisico-igienico, ma entra nel cuore di quello che sarà secoli
e secoli dopo l’insegnamento di Gesù. Dice infatti il testo:
«Il Signore parlò a Mosè e disse: “Parla a tutta la comunità
degli Israeliti dicendo loro: ‘Siate santi, perché io, il
Signore, vostro Dio, sono santo’”» (Levitico 19, 1-2). Ora,
il termine santo traduce l’ebraico qadosh, ma è
nell’etimologia latina che ne scopriamo il profondo
significato. Santo deriva da secare che vuol dire tagliare,
separare. L’invito di Dio è quello di vivere separati dalle
cose del mondo, dai suoi usi e costumi spesso improntati
all’edonismo e all’idolatria del potere, lontani dalle mode
potremmo dire oggi, lontani dal peccato in un’ottica
teologica. È un invito a improntare la propria vita al
servizio del Signore, alla vicinanza con lui, al rispetto della
sua volontà intesa come unica dottrina che possa condurre
alla gioia piena. Un invito a non lasciarsi deviare dagli
innumerevoli stimoli che ci distolgono dalla strada che
conduce a lui. Un invito a seguire l’esortazione del salmista
che apre il libro con queste parole: «Felice l’uomo giusto:
non segue i consigli dei malvagi, non va insieme ai
peccatori, non sta con chi bestemmia Dio; ma la sua gioia è
la parola del Signore, la studia notte e giorno. Come albero
piantato lungo il fiume egli darà frutto a suo tempo, le sue
foglie non appassiranno: riuscirà in tutti i suoi progetti»
(Salmi 1, 1-3). Un invito quindi ad essere separati dalle
logiche spesso perverse del mondo ed essere uniti – lo
iuxtus latino deriva da iungere che significa unire – a Dio.
La separazione non ci toglie dal mondo, ma ci mette nelle
condizioni di abitarlo nel modo più corretto («Riuscirà in
tutti i suoi progetti»). Tale invito ci pare in perfetta sintonia
con quanto Gesù dice in un altro passo del Vangelo, questa
94
In dialogo con l’anno A
volta di Giovanni, rivolgendosi al Padre riguardo al destino
dei suoi discepoli dopo la sua dipartita: «Io ho dato loro la
tua parola. Perciò essi non appartengono più al mondo,
come io non appartengo al mondo. E il mondo li odia. Io
non ti prego di toglierli dal mondo, ma di proteggerli dal
Maligno» (17, 14-15). Qui il tono ha tinte più fosche ed
apocalittiche ma, se analizziamo quanto storicamente è
accaduto ai primi veri cristiani, non gli può essere negato
un valore profetico.
95
In dialogo con l’anno A
Tempo ordinario – 8a domenica
Letture: Isaia 49, 14-15; I Corinzi 4, 1-5; Matteo 6, 24-34.
Le letture di oggi sono accomunate dal tema della fiducia in
Dio Padre. Isaia conferma il patto del Signore con Sion,
quando dice: «Anche se costoro si dimenticassero, io
invece non ti dimenticherò mai» (Isaia 49, 15). È nella
natura stessa del patto. Questa affermazione di Dio rivela
una precisa caratteristica della natura del patto: l’alleanza
contratta con il popolo ebraico, prima tramite Abramo poi
tramite Mosè, è un’alleanza tra un essere perfetto e
costante, Dio, ed un essere, l’uomo ebreo, che per quanto
sia dal punto di vista di Dio il migliore, è pur sempre
imperfetto e incostante. Quest’uomo potrà dimenticare,
potrà recedere, potrà perdersi, ma il patto rimane perché
l’altro contraente è fedele ad esso. Dice a questo proposito
il salmista: «Signore, voglio cantare per sempre il tuo
amore, annunzierò la tua fedeltà per tutte le generazioni. Ne
sono certo: il tuo amore dura in eterno, la tua fedeltà è
stabile come i cieli» (Salmi 89, 2-3). Il rapporto che lega i
due contraenti può essere paragonato al rapporto tra la terra
e il cielo, tra l’esistenza mortale e l’immortalità, tra la
mutevolezza e l’immutabilità. Tra lo yin e lo yang
potremmo dire prendendo a prestito la nota terminologia
taoista. Dio Padre, per bocca di Isaia, fa anche un altro
paragone per illuminarci sulla natura del patto: «Si
dimentica forse una donna del suo bambino, così da non
commuoversi per il figlio delle sue viscere?» (Isaia 49, 15).
Il legame del patto è un legame viscerale. Dio lo paragona a
quanto di più stabile vi sia sulla terra, il legame della madre
con il suo bambino. Dio Padre si fa Madre per il suo
popolo. Il patto non è frutto di un trattato, di norme aride
96
In dialogo con l’anno A
condivise da due contraenti, ma è un rapporto di figliolanza
materna. In Cristo Dio darà la sua vita per i discepoli, i
nuovi contraenti del patto, come una madre che muore nel
dare alla luce il suo bambino.
Rispetto alla visceralità del rapporto con Dio descritta da
Isaia, Paolo sembra fare un passo indietro. Dice: «Fratelli,
ognuno ci consideri come servi di Cristo e amministratori
dei misteri di Dio. Ora, ciò che si richiede agli
amministratori è che ognuno risulti fedele» (I Corinzi 4, 12). Non dunque figli, bensì servi, amministratori. Che Paolo
non peccasse di superbia è testimoniato anche da un altro
passo della Lettera. Dice infatti: «Dopo essere apparso a
tutti, alla fine [Gesù] è apparso anche a me, benché io, tra
gli apostoli, sia come un aborto. Infatti, io sono l’ultimo
degli apostoli; non sono neanche degno di essere chiamato
apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa di Dio» (I
Corinzi 15, 8-9). Ma forse l’invito di Paolo a considerarsi
servi e amministratori è un invito a non prendere
sottogamba la “qualifica” di figli di Dio e co-eredi del
Regno. La fratellanza con Cristo cui può ambire chi si fa
suo discepolo è fonte di una corresponsabilità delle cose
sante che ci richiede di diventare anche servi e
amministratori delle stesse. Non siamo i figli prodighi che
prendono la loro parte e se ne vanno, ma gli eredi di un
regno che dobbiamo ad ogni costo anche amministrare. Sì,
potremo momentaneamente dimenticarcene facendo
affidamento sul sommamente affidabile Padre e Re, ma poi
siamo chiamati a tornare perché, oltre a tutto, c’è un anello
al dito che ci aspetta.
97
In dialogo con l’anno A
Tempo ordinario – 9a domenica
Letture: Deuteronomio 11, 18.26-28.32; Romani 3, 2125a.28; Matteo 7, 21-27.
Deuteronomio e Matteo sembrano oggi concordare, mentre
Romani apparentemente dissente. Dice Dio al popolo per
bocca di Mosè: «Vedete, io pongo oggi davanti a voi
benedizione e maledizione: la benedizione, se obbedirete ai
comandi del Signore, vostro Dio, che oggi vi do; la
maledizione, se non obbedirete ai comandi del Signore,
vostro Dio, e se vi allontanerete dalla via che oggi vi
prescrivo per seguire dèi stranieri, che voi non avete
conosciuto. Avrete cura di mettere in pratica tutte le leggi e
le norme che oggi io pongo dinanzi a voi» (Deuteronomio
11, 26-28.32). Dice Gesù ai suoi discepoli: «Non chiunque
mi dice: “Signore, Signore”, entrerà nel regno dei cieli, ma
colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli”»
(Matteo 7, 21). Dice invece Paolo: «Noi riteniamo infatti
che l’uomo è giustificato per la fede, indipendentemente
dalle opere della Legge» (Romani 3, 28). Dal confronto con
questi testi sorge la domanda: «Quello che permette di
essere salvati sono le opere previste dalla Legge di Dio o la
fede in Dio (e in Gesù Cristo)?». La questione non è
assolutamente peregrina, tant’è che è stata riattualizzata
dalla Riforma. Solo recentemente, con la “Dichiarazione
congiunta sulla dottrina della giustificazione” il 31 ottobre
1999, si è addivenuti ad una concordia tra cattolici e
riformati riguardo questo tema nodale della nostra fede.
Essa enuncia «una comprensione comune della nostra
giustificazione operata dalla grazia di Dio per mezzo della
fede in Cristo» (5) e vede le buone opere come i frutti
imprescindibili dell’avvenuta giustificazione. Allora
98
In dialogo con l’anno A
avrebbe vinto San Paolo? Chissà… Ma ci sono alcuni
elementi da considerare nella contesa apparentemente
innescata dalle letture di oggi. Una prima osservazione
riguarda il fatto che Mosè e Gesù hanno parlato prima della
morte e risurrezione di Gesù stesso, evento che avrebbe
riaperto la porta alla grazia di Dio nel mondo. Una seconda
osservazione riguarda il fatto che Mosè e Gesù si
rivolgevano ad Ebrei, mentre Paolo si rivolge ai Romani,
cui non poteva richiedere l’osservanza di una Legge che per
loro era straniera. Una terza osservazione riguarda il fatto
che per gli Ebrei la fede in Dio era qualcosa di indiscusso e
pertanto non si era forse ritenuto necessario insistere su di
essa: si discuteva infatti su cosa fare e cosa non fare, non se
credere in Dio e nella sua potenza salvifica che erano dati
incontrovertibili. Dice infatti il salmista: «Sul tuo servo fa’
risplendere il tuo volto, salvami per la tua misericordia.
Siate forti, rendete saldo il vostro cuore, voi tutti che
sperate nel Signore» (Salmi 31, 17.25). Anche l’Ebreo
crede nella misericordia del Signore, nella sua grazia
salvifica, che lo salva quando, per dolo o negligenza,
scende dal solido tappeto dei suoi precetti. E la
“Dichiarazione congiunta” non afferma che si salva chi
dice: «Signore, Signore» e dopo non fa la volontà del Padre
che è nei cieli, bensì afferma che è Dio che salva chi crede
in lui (e in Gesù Cristo), all’uomo poi conformarsi al suo
nuovo status di salvato, perché «chiunque ascolta queste
mie parole e le mette in pratica, sarà simile a un uomo
saggio, che ha costruito la sua casa sulla roccia» (Matteo 7,
24).
99
In dialogo con l’anno A
Tempo ordinario – 10a domenica
Letture: Osea 6, 3-6; Romani 4, 18-25; Matteo 9, 9-13.
«Misericordia io voglio e non sacrifici» (Osea 6, 6, ripreso
da Matteo 9, 13). Questa frase, dettata da Dio al profeta
Osea e ripresa da Gesù a spiegazione del suo
comportamento, è la chiave di volta delle letture di oggi.
Anche in Romani, benché qui non sia esplicitamente
ricordata, ha la sua importanza. Paolo infatti richiama la
fede di Abramo come esempio della fede di tutti i credenti.
Una fede che va oltre a quanto la ragione ragionevolmente
può prevedere – Abramo crede alla promessa di Dio di far
generare lui e Sara all’età di cent’anni. Una fede che ha la
possibilità di reintegrare l’uomo nella giustizia di Dio:
«Ecco perché gli fu accreditato come giustizia» o, in altra
traduzione: «Ecco perché Dio lo considerò giusto» (Romani
4, 22). La menzione di Abramo, considerato padre dalle
religioni ebraica, cristiana e islamica, richiama alla
memoria l’episodio del sacrificio del figlio unigenito
Isacco. In quell’episodio (Genesi 22, 1-19) ancora Dio
chiede un atto di fede ad Abramo che gli guadagna una
benedizione speciale: «Perché ti sei comportato così, perché
non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio, giuro su
me stesso: io ti benedirò in modo straordinario e renderò i
tuoi discendenti numerosi come le stelle del cielo, come i
granelli di sabbia sulla spiaggia del mare» (Genesi 22, 1617). Anche in questo caso, Dio non desidera un tanto
orribile sacrificio – i figli venivano offerti in sacrificio dai
seguaci di altre religioni del tempo e del luogo che a più
riprese Dio stesso nella Bibbia condanna – ma mette alla
prova la fede di Abramo, stabilendo per noi un misterioso
collegamento tra fede e misericordia. Certo, se Abramo
100
In dialogo con l’anno A
fosse nostro contemporaneo, sarebbe in carcere per tentato
omicidio, ma allora erano altri tempi.
Gesù commenta la frase citata all’inizio aggiungendo: «Io
non sono venuto infatti a chiamare i giusti, ma i peccatori»
(Matteo 9, 13). In altra traduzione tale frase è resa nel modo
seguente: «Perché io non sono venuto a chiamare quelli che
si credono giusti, ma quelli che si sentono peccatori».
Questa seconda traduzione è più in consonanza con quanto
Gesù dice ai farisei dopo aver guarito l’uomo cieco dalla
nascita. Ai farisei che chiedono: «Per caso, siamo ciechi
anche noi?» Gesù infatti risponde: «Se foste ciechi non
avreste colpa; invece dite: “Noi vediamo”. Così il vostro
peccato rimane» (Giovanni 9, 40-41). Essere giusti – o
vedenti – è una condizione stabilita da Dio; credersi giusti –
o vedenti – è invece una condizione che dipende dalla
nostra superbia, che ci fa credere che il giudizio su di noi
possa essere formulato solamente da noi stessi. Nella
Cabala, ricordiamo, il Giudizio, Gebourah, è una delle
sephiroth, una delle manifestazioni di Dio.
Nel passo della chiamata di Levi, c’è un altro particolare
che mette in luce la distanza culturale che ci separa dai
tempi biblici. Oggi siamo indotti a pensare che pagare le
tasse sia un sacrosanto dovere di ogni cittadino per bene.
Allora non era così: le tasse venivano richieste dall’impero
romano, conquistatore ed usurpatore, ed erano vissute come
un atto di brigantaggio non in consonanza con il volere del
Signore, cui erano dovute le decime. È vero che Gesù invita
a pagare le tasse – «Date all’imperatore quel che è
dell’imperatore, ma quel che è di Dio datelo a Dio» (Marco
12, 17) –, ma è anche vero che gli esattori come Levi sono
considerati
dei
peccatori
perché
impoveriscono
ingiustamente il popolo di Dio, oltre che, diremmo noi, fare
101
In dialogo con l’anno A
la cresta su quanto raccolto. A proposito di questo tema,
sarebbe utile comunque inserire nella riflessione anche il
passo evangelico di Matteo 17, 24-27 in cui Gesù e Pietro
pagano la tassa al tempio. In quell’occasione Gesù
domanda: «Simone, dimmi il tuo parere: chi deve pagare le
tasse ai re di questo mondo: gli estranei o i figli dei re?»;
Pietro risponde: «Gli estranei»; Gesù riprende: «Dunque i
figli non sono obbligati a pagare le tasse. Ma non dobbiamo
dare scandalo: vai perciò in riva al lago, getta l’amo per
pescare, e il primo pesce che abbocca tiralo fuori; aprigli la
bocca e ci troverai una grossa moneta d’argento. Prendi
allora la moneta e paga la tassa per te e per me».
Proprio altri tempi quelli biblici ed evangelici, quando per
pagare le tasse era sufficiente pescare un pesce!
102
In dialogo con l’anno A
Tempo ordinario – 11a domenica
Letture: Esodo19, 2-6a; Romani 5, 6-11; Matteo 9, 36-10.8.
Le letture di oggi sono accomunate dal tema della
provvidenza di Dio, anche se non viene espressamente
esplicitata. Nella prima Dio rammenta al popolo, tramite
Mosè, di come l’ha visto in schiavitù in Egitto e di come è
intervenuto per liberarlo. Nella seconda Paolo spiega ai
Romani come Dio è intervenuto a favore dell’uomo
avendolo visto prigioniero del peccato, mandando Gesù a
liberarlo giustificandolo nel suo sangue. Nella terza Gesù
vede le folle stanche e constata che «La messe è
abbondante, ma sono pochi gli operai» (Matteo 9, 37);
chiama pertanto i dodici e li invia, con il viatico di un
profondo discorso, a raccogliere la messe. Sono tre esempi
di come Dio sia intervenuto, a diversi livelli, a favore di chi
crede in lui e dell’uomo in stato di bisogno in generale.
Ma c’è un altro aspetto nel passo di Esodo in lettura oggi di
particolare rilevanza e cioè quello dell’alleanza. Dio dice
agli Israeliti: «Voi sarete per me un regno di sacerdoti, una
nazione santa». Nelle domeniche scorse abbiamo visto
come Dio, quando si tratta di patti, testamenti abbia una
parola sola, costante, eterna. Ci si chiede allora da parte
cristiana che fine abbia fatto l’alleanza con gli Ebrei dopo
la venuta di Cristo. Le risposte sono molteplici: da chi dice
che gli Ebrei hanno continuato ad essere una nazione santa,
un regno di sacerdoti; a chi dice che Gesù ha instaurato una
nuova alleanza che ha reso obsoleta e superata quella
antica, ma che mantiene una posizione di privilegio agli
Ebrei; a chi ancora dice che gli Ebrei sono stati deicidi e
che la storia ha provveduto a fare loro scontare il loro
crimine. La posizione ufficiale della Chiesa pare sia la
103
In dialogo con l’anno A
seconda, ma in ambito cristiano fanno spesso capolino le
altre due, soprattutto la terza. È interessante poi notare
come Dio sancisca una suddivisione delle nazioni nelle
tanto vituperate caste: individua infatti un popolo cui dà il
mandato di svolgere le funzioni di sacerdoti dell’umanità.
Non guerrieri, non mercanti, non contadini, non fuori casta,
come in India; bensì sacerdoti.
Una terza considerazione sulle letture di oggi riguarda la
profondità del peccato e l’abissale distanza costitutiva che
ci separava da Dio. Tanto che Dio ha dovuto: individuare
tra le nazioni un popolo e purificarlo affinché appartenesse
esclusivamente a lui; individuare tra le dodici tribù che
componevano questo popolo una tribù, quella di Levi, che
svolgesse il servizio sacerdotale offrendo i sacrifici e
purificando il resto del popolo; individuare tra i sacerdoti
della tribù di Levi un uomo, il sommo sacerdote, che
purificasse gli altri sacerdoti e il popolo offrendo il
sacrificio espiatorio una volta all’anno e pronunciando il
suo nome. Sappiamo poi dalle Scritture che tutto questo
non è bastato e che Dio ha dovuto prima scegliersi dei
profeti che richiamassero il popolo santo alla fedeltà
dell’alleanza e poi, per i cristiani, mandare il suo unigenito
a purificare il suo popolo e le nazioni con il suo sangue per
offrire loro ancora una possibilità di riscatto. Considerata
come è andata la storia in seguito pare che ciò non sia
ancora stato sufficiente, tanto che i credenti sono in attesa
della seconda e definitiva venuta di Cristo.
104
In dialogo con l’anno A
Tempo ordinario – 12a domenica
Letture: Geremia 20, 10-13; Romani 5, 12-15; Matteo 10,
26-33.
La missione del profeta non è esente da difficoltà e pericoli.
Quando Dio ha chiamato Geremia a tale compito, gli ha
detto: «Io metto le mie parole sulle tue labbra. Ecco, oggi ti
do autorità sulle nazioni e sui regni per sradicare e
demolire, per distruggere e abbattere, per edificare e
piantare» (Geremia 1, 10). È naturale che un’opera così
radicale, che richiede di rimproverare e minacciare i potenti
della terra, abbia procurato a Geremia dei nemici, ma dalla
lettura di oggi emerge che anche i suoi amici si sono
rivoltati contro di lui. «Tutti i miei amici aspettano la mia
caduta» (Geremia 20, 10), dice lamentandosi con Dio. Il
profeta si trova spesso da solo nello svolgimento della sua
missione, nel senso che non trova altri uomini con cui
condividerla. Solo perché unico portatore di un messaggio
nuovo, a volte molto critico, per i tempi in cui opera. Ma
non è mai solo del tutto, perché Dio non lo abbandona.
Proprio quando i nemici che si è procurato con le parole del
messaggio del Signore sembrano prevalere, il Signore
interviene in suo favore a sostenerlo, a confortarlo, a volte
anche liberandolo in vario modo dalle minacce che gli
gravano sul capo, addirittura vendicandolo. Dice Geremia:
«Signore degli eserciti, che provi il giusto, che vedi il cuore
e la mente, possa io vedere la tua vendetta su di loro, perché
a te ho affidato la mia causa» (Geremia 20, 12).
Paolo in poche righe condensa la storia della salvezza. Nel
passo di Romani in lettura oggi riassume in poche
magistrali righe la caduta dell’umanità nel peccato con
Adamo e la sua redenzione in grazia di Gesù Cristo,
105
In dialogo con l’anno A
evidenziando anche il ruolo della Legge nell’identificare la
presenza del peccato stesso. Ma il Vangelo ci dice che la
grazia non opera indistintamente, qualunque sia il
comportamento dell’uomo; c’è bisogno di una risposta, di
un assenso, di un riconoscimento. Dice infatti Gesù:
«Perciò chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini,
anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli;
chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo
rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli» (Matteo 10,
32-33). Gesù oggi ci dice anche qualcosa di fondamentale
sul nostro destino post mortem sul quale l’uomo si interroga
da sempre. Dalla lettura di Genesi 2, 7 – «Allora Dio, il
Signore, prese dal suolo un po’ di terra e, con quella,
plasmò l’uomo. Gli soffiò nelle narici un alito vitale e
l’uomo diventò una creatura [o anima] vivente» –,
sappiamo che l’uomo è costituito per lo meno da due
elementi: il corpo materiale e lo spirito o anima. Nella
speculazione ebraica che evidenzia diversi elementi
costitutivi dell’anima la questione è più complessa, ma
quello che ci importa sottolineare nel Vangelo di oggi è
l’osservazione che Dio ha «il potere di far perire nella
Geènna e l’anima e il corpo» e che il credente non deve
temere «quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere
di uccidere l’anima» (Matteo 10, 28). Viene qui delineata
una potestà assoluta di Dio sulla sua creatura. Certo si
potrebbe riflettere sul fatto che tanto più importante del
corpo è l’anima, tanto più profonda e costitutiva rispetto
alla paura degli omicidi è la paura di Dio. Dall’Antico
Testamento abbiamo imparato che il Signore può
terrorizzare, ma la paura di cui qui si parla ci sembra
piuttosto da identificare con il dono dello Spirito Santo del
reverenziale timor di Dio.
106
In dialogo con l’anno A
Tempo ordinario – 13a domenica
Letture: Re 4, 8-11.14-16a; Romani 6, 3-4.8-11; Matteo 10,
37-42.
Alla giustizia di Dio, contrariamente a quella umana,
sembra non sfugga niente. Gesù ci rassicura, niente di
quanto avremo fatto di meritorio in questa vita sarà
dimenticato. Giorno per giorno scriviamo il nostro futuro in
questa vita e nell’altra. Gesù è buono e senza giri di parole
o necessità di difficili interpretazioni ci indica piano piano
nel Vangelo che cosa dobbiamo fare per meritarci il
paradiso o meglio quali sono i comportamenti, le
disposizioni, le azioni giuste del credente. Con estrema
chiarezza. Se la prima parte del Vangelo di oggi lascia delle
perplessità – «Chi ama padre e madre più di me non è
degno di me; chi ama figlio o figlia più di me non è degno
di me» (Matteo 10, 37) – o meglio richiede una riflessione,
le successive raccomandazioni hanno il carattere
dell’evidenza immediata. «Chi accoglie un profeta perché è
un profeta, avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie un
giusto perché è un giusto, avrà la ricompensa del giusto»
(Matteo 10, 41). Certamente per noi oggi, figli dell’epoca
del dubbio sistematico, non è subito chiaro che cosa sia,
come si riconosca un profeta, o un giusto. Ma per l’uditorio
del tempo l’indicazione era chiara. Forse era chiara anche la
citazione del profeta Michea che viene proprio prima del
passo in lettura oggi. Nei versetti 34-36 dello stesso
capitolo del Vangelo di Matteo Gesù dice: «Non pensate
che io sia venuto a portare la pace nel mondo: io sono
venuto a portare non la pace, ma la discordia. Infatti sono
venuto a separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la
nuora dalla suocera. E ognuno avrà nemici anche nella
107
In dialogo con l’anno A
propria famiglia». Il passo di Michea che Gesù cita (7, 6) fa
riferimento a una lunga lamentazione in cui il profeta si
dispera perché «In questa regione non c’è più una persona
fedele a Dio, nessuno è onesto. Tutti aspettano l’occasione
per commettere omicidi, si danno la caccia tra di loro»
(Michea 7, 2). È chiaro che in una situazione come quella
descritta l’intervento di Dio rappresenti la pietra di
paragone che separa i figli dai padri, le figlie dalle madri,
ecc. distinguendo gli agnelli (pochi) dai capri (molti).
Anche Gesù, come è testimoniato dalla predicazione di
Giovanni Battista, viene in un tempo in cui scarseggiano le
persone fedeli a Dio e pertanto il suo messaggio avrà
l’effetto di prendere l’uno e lasciare l’altro. Il padre
ascolterà le sue parole e si convertirà, il figlio no; la figlia
ascolterà le sue parole e si convertirà, la madre no. E così
via (certo, il problema non sussiste se si converte tutta la
famiglia). La predicazione di Gesù, tra l’altro, è una
prefigurazione della fine dei tempi come lui stesso la
descrive in un altro passo evangelico: «Quella notte quando
tornerà il Figlio dell’uomo, se due persone si troveranno
nello stesso letto, una sarà presa e l’altra lasciata. Se due
donne si troveranno insieme a macinare il grano, una sarà
presa e l’altra lasciata» (Luca 17, 34-35). Ben vengano
dunque le semplici e chiare indicazioni contenute nel
Vangelo di oggi che, se le mettiamo in pratica, ci mettono
nella condizione giusta per essere presi ed avere la
ricompensa di un giusto.
108
In dialogo con l’anno A
Tempo ordinario – 14a domenica
Letture: Zaccaria 9, 9-10; Romani 8, 9.11-13; Matteo 11,
25-30.
La prima lettura di oggi è tratta dal libro del profeta
Zaccaria. Il libro di Zaccaria riporta, nei primi otto capitoli,
otto visioni del profeta e una promessa di pace e benessere;
si colloca intorno al 520-518 a. C.. I successivi sei capitoli,
che alcuni studiosi datano successivamente ai precedenti,
trattano dei rapporti tra Israele e le altre nazioni, l’assedio e
la successiva liberazione di Gerusalemme. Come abbiamo
già visto per altre profezie, anche in questo passo è
contenuta una predizione di eventi che fanno riferimento
alla
situazione
contemporanea
del
profeta
o
immediatamente successiva. La predizione però si adatta
anche perfettamente alla vita di Gesù come è raccontata dai
Vangeli. Zaccaria parla di un re che deve venire e lo
descrive nel modo seguente: «Così dice il Signore: “Esulta
grandemente figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme!
Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile,
cavalca un asino, un puledro figlio d’asina”» (9, 9). Tale
descrizione si adatta perfettamente all’episodio dell’entrata
di Gesù in Gerusalemme alla domenica delle Palme, come è
raccontata in Giovanni 12, 12-15: «Il giorno seguente, la
gran folla che era venuta per la festa, udito che Gesù veniva
a Gerusalemme, prese dei rami di palme e uscì incontro a
lui gridando: “Osanna! Benedetto colui che viene nel nome
del Signore, il re d’Israele!” Gesù, trovato un asinello, vi
montò sopra, come sta scritto: “Ecco, il tuo re viene, seduto
sopra un puledro d’asina”». Il passo di Giovanni, nel
commentare l’episodio, cita esplicitamente quello di
Zaccaria in lettura oggi. Nel libro del profeta Zaccaria vi è
109
In dialogo con l’anno A
anche un altro passo che prefigura chiaramente un episodio
della predicazione di Gesù. Alla fine del libro, al versetto
21 del capitolo 14, Zaccaria, riferendosi al tempo in cui tutti
i popoli celebreranno la festa delle Capanne ed in cui
«anche sui sonagli dei cavalli ci sarà l’iscrizione:
“consacrato al Signore”» (21, 16-20), dice: «Quando
arriverà quel tempo, non ci sarà più nessun mercante nel
tempio del Signore dell’universo». A tale passo sembra
riferirsi l’episodio della cacciata dei mercanti dal tempio
descritto da tutti e quattro gli evangelisti e che riportiamo
nella versione di Giovanni: «Si avvicinava la Pasqua dei
Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. Trovò nel tempio gente
che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i
cambiamonete. Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò
tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il
denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai
venditori di colombe disse: “Portate via di qui queste cose e
non fate della casa del Padre mio un mercato!”» (2, 13-16).
È interessante notare come nella narrazione di Matteo i due
episodi, l’entrata in Gerusalemme e la cacciata dei mercanti
dal tempio, siano posti l’uno di seguito all’altro (21, 1-11 e
12-13). Le ragioni di queste corrispondenze tra le parole dei
profeti e la vita di Gesù le abbiamo già precedentemente
accennate, ma se indaghiamo attorno al Vangelo di oggi
troviamo un’altra notazione che ci pare abbia attinenza con
l’argomento del compimento delle profezie da parte di
Gesù. Matteo riporta il noto discorso di ringraziamento di
Gesù al Padre, «…Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e
della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai
dotti e le hai rivelate ai piccoli…» e la promessa di riposo a
chi lo segue «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e
oppressi, e io vi darò ristoro…». Nella narrazione di Luca
110
In dialogo con l’anno A
(10-21-22) lo stesso discorso è seguito da ulteriori parole di
Gesù e precisamente le seguenti: «Beati voi che potete
vedere queste cose. Perché vi assicuro che molti profeti e
molti re avrebbero voluto vedere quel che voi vedete ma
non l’hanno visto. Molti avrebbero voluto udire quel che
voi udite ma non l’hanno udito» (Luca 10, 23-24). Al di là
di tutte le nostre osservazioni sulla corrispondenza tra le
antiche profezie e la narrazione evangelica, c’è da dire che
Gesù appare ben consapevole di quanto sta compiendo.
111
In dialogo con l’anno A
Tempo ordinario – 15a domenica
Letture: Isaia 55, 10-11; Romani 8, 18-23; Matteo 13, 1-23.
Verba volant, scripta manent: siamo soliti citare il
proverbio latino quando parliamo di parole. Ma Isaia
sembra dirci qualcosa di diverso sulla parola. Tutta la storia
sacra è centrata sulla parola, detta e scritta: c’è la parola che
crea, la parola che ammonisce, la parola che insegna, la
parola che consola, ecc., ma il passo di Isaia in lettura pare
istituire una fondamentale distinzione: la parola sacra, la
parola di Dio risuona nell’eternità, mentre, sembra dire, la
parola umana è destinata a perdersi nelle pieghe del tempo.
«Così dice il Signore: “Come la pioggia e la neve scendono
dal cielo e non vi ritornano senza aver irrigato la terra,
senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il
seme a chi semina e il pane a chi mangia, così sarà della
mia parola uscita dalla mia bocca. Non ritornerà a me senza
effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver
compiuto ciò per cui l’ho mandata”» (Isaia 55, 10-11). Se
guardiamo l’oggi, notiamo che nella maggior parte delle
occasioni la parola riveste le caratteristiche della
chiacchiera che, come spazzatura, è gettata via poco dopo
essere stata prodotta; ma ancora nell’oggi, in alcune
occasioni, e nella storia, ci sono degli esempi di come
l’uomo abbia cercato di emettere una parola che avesse le
stesse caratteristiche di quella di Dio. A ben guardare, anche
il nostro mondo si regge sulla parola: non si fa niente senza
un progetto pensato, detto o scritto. Certo, si possono anche
fare delle cose senza pensare, ma – a parte il caso dei geni –
esse non hanno un grande futuro. A ben guardare, dunque,
il nostro mondo si regge sulla parola. Ma che cos’è allora
che ci contraddistingue da Dio nel parlare, cos’è che per
112
In dialogo con l’anno A
secoli maghi e imbroglioni hanno cercato in formule,
incantesimi, ecc. che sembra non essere semplicemente
dato all’uomo quando materialmente impara a formulare
parole? La parola di Dio sembra operare senza tramite
materiale, è una parola miracolosa, creatrice, non richiede il
tramite di un’azione corporea o, meglio, la determina. A
questo proposito possiamo dire che anche l’uomo ha questo
potere, o perché l’ha ricevuto da Dio o perché se l’è
arrogato luciferinamente. Nei sistemi di potere gerarchico,
quando un superiore dà un ordine ad un sottoposto si
aspetta che sia questi ad eseguirlo. Questa situazione è
magistralmente descritta da quell’ufficiale dell’esercito
romano che si rivolge a Gesù perché guarisca il suo
servitore paralizzato. Gesù lo rassicura e gli promette che
sarebbe andato a casa sua e avrebbe guarito il servitore. E
l’ufficiale ribatte: «No, Signore, io non sono degno che tu
entri in casa mia. Basta che tu dica soltanto una parola e il
mio servo sarà guarito. Perché anch’io ho i miei superiori e
ho dei soldati ai miei ordini. Se dico a uno: “Va’”, egli va;
se dico a un altro: “Vieni”, quello viene; se dico al mio
servitore: “Fa’ questo!”, egli lo fa» (Marco 8, 8-9). Gesù
loda l’ufficiale per la sua fede ed opera quanto lui gli
chiede. Sembra che la parola di Dio, contrariamente alla
limitata sfera di azione della nostra, possa operare tutto
quello che vuole nel creato per vie spesso a noi oscure.
Nella logica della Bibbia, in cui è la parola (di Dio) ad aver
creato il mondo e non il mondo ad aver evocato
induttivamente le parole necessarie a nominarlo, ciò risulta
del tutto naturale. Se poi consideriamo che Dio, come
spesso dice, scrive la sua parola nei cuori dell’uomo e delle
cose, comprendiamo un pezzettino di più il noto proverbio
113
In dialogo con l’anno A
latino Verba volant, scripta manent, o meglio il noto incipit
del Vangelo di Giovanni.
114
In dialogo con l’anno A
Tempo ordinario – 16a domenica
Letture: Sapienza 12, 13.16-19; Romani 8, 26-27; Matteo
13, 24-43.
Il Libro della Sapienza viene tradizionalmente attribuito al
re Salomone. Tale attribuzione deriva da quanto contenuto
nei capitoli 7-9 in cui l’autore stesso si presenta come il
famoso re e collocherebbe la sua composizione o stesura tra
il 972 e il 933 a. C.. Molti studiosi tuttavia lo datano molto
più tardi, quasi mille anni, tra il 50 e il 30 a. C.. Il testo è
scritto in greco e tale seconda datazione troverebbe il suo
fondamento nei contenuti che farebbero riferimento alla
cultura di quest’epoca. Fa parte dei libri definiti
Deuterocanonici, non appartenenti cioè alla Legge, o
Pentateuco, e ai Profeti. Questi libri (Ester greco, Giuditta,
Tobia, Primo e Secondo Maccabei, Sapienza, Siracide,
Baruc, Lettera di Geremia) non fanno parte del primo
canone, fissato nella città di Iamnia dai rabbini ebrei alla
fine del I secolo d. C., ma della traduzione greca
dell’Antico Testamento detta la Settanta largamente usata
dai primi cristiani. Il loro valore venne riconosciuto dalla
Chiesa romana nel IV secolo d. C., ma sono stati dichiarati
canonici dalla Chiesa cattolica solo con il Concilio di
Trento (1546). Da tale data divenne comune il nome di
Libri Deuterocanonici. I Protestanti non li riconoscono
come canonici – li definiscono Apocrifi – ma li includono
nelle loro Bibbie perché li ritengono utili per l’edificazione
personale; le Chiese ortodosse li includono pure nelle loro
Bibbie. Per quanto riguarda il Libro della Sapienza, molto
si è scritto sui suoi rapporti con la filosofia greca di cui
riporterebbe alcune acquisizioni, ma c’è da chiedersi se i
numerosi riferimenti più o meno espliciti alla dottrina delle
115
In dialogo con l’anno A
sephiroth in esso contenuti non ne facciano anche un testo
basilare degli studi cabalistici, o persino – ipotizzando una
Cabala senza tempo – un’emanazione degli stessi. Il titolo
stesso è la traduzione del termine Hochmach, la Sapienza,
la seconda sephirah dopo Kether, la Corona, ed indica la
conoscenza dei misteri di Dio. Nel libro poi, ed anche nel
passo in lettura oggi, vi sono numerosi riferimenti al
Giudizio, alla Misericordia, alla Forza, all’Amore, ecc. che
lo mettono in collegamento con il pensiero cabalistico.
Nell’epoca del pensiero debole, che non azzarda alcun
giudizio categorico sulle cose e sui comportamenti, il
Vangelo di oggi può risultare molto inattuale, ma il suo
riferimento agli eterni cicli naturali lo colloca senz’altro
nell’ambito delle verità senza tempo. Nella parabola della
zizzania e nella sua successiva spiegazione Gesù è
esplicito: nel campo del mondo vi sono i figli del Regno e i
figli del Maligno, il seminatore è Gesù stesso, il nemico è il
diavolo. All’epoca della fine del mondo gli angeli
separeranno i giusti dai figli del Maligno e per questi ultimi
«sarà pianto e stridore di denti» (Matteo 13, 42). Che la sua
sia una sapienza (di nuovo Hochmach?) senza tempo trova
una sua conferma interna nelle stesse parole che Gesù usa
citando le Scritture: «Aprirò la mia bocca con parabole,
proclamerò cose nascoste fin dalla fondazione del mondo»
(Matteo 13, 35). Una sapienza che fa riferimento all’inizio e
alla fine dei tempi. Le parabole poi, e la loro spiegazione, si
prestano a differenti piani di lettura. In particolare la
parabola di oggi può essere riferita anche al piano
individuale. In questo caso grano e zizzania andrebbero
interpretati come le buone e le cattive azioni (o pensieri,
disposizioni, intenzioni) che noi compiamo in questa
esistenza. Al fine di essa, dopo la morte, al momento del
116
In dialogo con l’anno A
giudizio individuale, gli angeli separeranno quanto di bene
e quanto di male abbiamo compiuto nel nostro transito
terreno. Rimane la domanda su che cosa ne sarà di noi dopo
quest’operazione. Molte tradizioni religiose affermano che
le azioni saranno soppesate e che il nostro destino
dipenderà dal prevalere delle une sulle altre. L’arte ha
variamente interpretato questo momento illustrandolo come
una vera e propria pesatura del cuore o dell’anima.
117
In dialogo con l’anno A
Tempo ordinario – 17a domenica
Letture: I Re 3, 5.7-12; Romani 8, 28-30; Matteo 13, 44-52.
I due libri dei Re raccontano eventi che vanno dalla morte
di re Davide, la cui vita e il cui regno sono narrati nei
precedenti due libri di Samuele, fino alla deportazione in
Babilonia. Coprono pertanto un arco di tempo molto ampio
che va dal 970 al 587 a. C.. Il rapporto di Dio con i re che si
è scelto è personale. Parla loro, li guida, li assiste
nell’amministrazione del regno, li rimprovera e li castiga
quando operano in modo iniquo. Il passo di oggi racconta
dell’apparizione in sogno di Dio a Salomone. Dio dice a
Salomone di chiedere che cosa vuole che gli conceda e
Salomone, con la saggezza che la tradizione gli conosce,
risponde: «… io sono solo un ragazzo; non so come
regolarmi. Il tuo servo è in mezzo al tuo popolo che hai
scelto, popolo numeroso che per la quantità non si può
calcolare né contare. Concedi al tuo servo un cuore docile,
perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia
distinguere il bene dal male; infatti chi può governare
questo tuo popolo così numeroso?» (I Re 3, 7-9). Gli attuali
sistemi di governo ci hanno abituato alla distinzione dei
poteri. In Italia essi si distinguono in legislativo, esecutivo e
giudiziario e fanno capo rispettivamente al parlamento, al
governo e alla magistratura. Ai tempi dei re di Giuda e di
Israele non era così, ma neppure nelle poche attuali
monarchie assolute rimaste. Nelle monarchie assolute tutti i
poteri sono nelle mani del re, dove Dio – per quelle
teocratiche – lo ha posto. Il re poi si circonda di ministri,
consiglieri ed aiutanti di ogni tipo per amministrare quanto
lui non riesce direttamente. Facendo tutti i poteri capo al re,
egli li amministra a sua discrezione. Può decidere quindi
118
In dialogo con l’anno A
cosa considerare e cosa trascurare, ha facoltà di scelta sulle
questioni cui dare importanza; essendo titolare del potere di
giudicare ha facoltà di amministrare la giustizia –
giudicando in prima persona in questioni non previste dalla
legge. È per questo che la richiesta di Salomone è piaciuta a
Dio. Salomone avrebbe potuto chiedere gloria, potenza e
ricchezza, ma ha preferito richiedere la facoltà di discernere
il bene dal male, il vero dal falso, il giusto dall’ingiusto. Ha
capito che per ben governare un popolo bisogna dargli
risposte chiare su cosa è giusto (nel senso latino di iuxtus)
fare, su come ci si rapporta l’uno all’altro, perché in
assenza di norme precise e giudizi ad hoc prende piede la
sopraffazione dell’uno sull’altro rendendo il popolo
ingovernabile. Se i piccoli conflitti tra i singoli non
vengono affrontati e risolti in modo equo si creano
situazioni in cui regna il malcontento che sfociano in
divisioni insanabili tra le varie parti del popolo, dando
spazio ad istanze inaccettabili. Di certo il tipo di governo di
una monarchia assoluta come quella di Salomone è
piuttosto demodè, ma forse può ancora insegnarci qualcosa
anche per l’oggi. Se non altro per lo meno che, anche in
presenza di una legislazione che spesso contempla tutti i
possibili risvolti dell’agire umano, può ancora essere utile
avere la facoltà di discernere il bene dal male
nell’amministrazione della giustizia. Dio loda la richiesta di
Salomone tanto da dichiarargli: «Ti concedo un cuore
saggio e intelligente: uno come te non ci fu prima di te né
sorgerà dopo di te» (I Re 3, 12), ed aggiunge: «Inoltre,
anche se non me l’hai chiesto, ti darò tanta ricchezza e tanta
gloria da superare quella degli altri re. Se mi sarai fedele, se
osserverai le mie leggi e i miei comandamenti come ha
fatto tuo padre, io ti darò anche una lunga vita» (I Re 3, 13-
119
In dialogo con l’anno A
14). E stiamo pur tranquilli: nel riprendere l’antico
insegnamento di Salomone contenuto nel libro dei Re, non
facciamo altro che comportarci come quello scriba di cui
dice Gesù che «divenuto discepolo del regno dei cieli, è
simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose
nuove e cose antiche» (Matteo 13, 52).
120
In dialogo con l’anno A
Tempo ordinario – 18a domenica
Letture: Isaia 55, 1-3; Romani 8, 35.37-39; Matteo 14, 1321.
Dice Paolo nella prima lettera ai Corinzi: «Uno riceve dallo
Spirito la capacità di esprimersi con saggezza, un altro
quella di parlare con sapienza. Lo stesso Spirito ad uno dà
la fede, a un altro il potere di guarire i malati. Lo Spirito
concede a uno la possibilità di fare miracoli, e a un altro il
dono di essere profeta. A questi dà la capacità di distinguere
i falsi spiriti dal vero Spirito, a quello il dono di esprimersi
in lingue sconosciute, e a quell’altro il dono di spiegare tali
lingue. Tutti questi doni vengono dall’unico e medesimo
Spirito. Egli li distribuisce a ognuno, come vuole» (12, 811). Dice Gesù ai discepoli: «Ve lo assicuro: chi ha fede in
me farà anche lui le opere che faccio io, e ne farà di più
grandi, perché io ritorno al Padre. E tutto quel che
domanderete nel mio nome, io lo farò, perché la gloria del
Padre sia manifestata nel Figlio. Se mi chiederete qualcosa
nel mio nome, io lo farò» (Giovanni 14, 12-14). Nel
Vangelo di oggi ci troviamo di fronte ad un vero miracolo
di Gesù. Nella moltiplicazione dei pani e dei pesci Gesù
non opera una guarigione, non scaccia spiriti impuri, non
profetizza (almeno direttamente), non esprime verbalmente
una verità in modo saggio e chiaro, non si esprime in lingue
sconosciute (a meno che non si voglia ritenere tale la lingua
dei gesti) e non le interpreta. Nella moltiplicazione dei pani
e dei pesci Gesù opera un vero e proprio miracolo,
un’azione cui stentiamo a credere. Possiamo forse, per fede,
essere disposti a credere che lui, il Figlio di Dio, l’abbia
compiuta in quella determinata occasione, ma ci è molto
difficile immaginare che un’azione di tale genere possa
121
In dialogo con l’anno A
venire ripetuta da uno di quelli che hanno creduto in lui.
Eppure Gesù è chiaro come sempre: «Chi ha fede in me
farà anche lui le opere che faccio io» dice. Certo, lui si
rivolgeva ai discepoli; e poi chi siamo noi per pretendere
che lui pieghi le leggi del creato per esaudire una nostra
preghiera? Ma lui dice: «Chi ha fede in me…».
Spesso nelle Scritture la metafora del mangiare, del cibarsi
viene utilizzata per spiegare il valore della Parola di Dio.
Ascoltare quello che lui dice viene paragonato all’atto del
mangiare, che ci nutre e ci fortifica, ci sazia e ci rallegra.
Quando allora per bocca di Isaia Dio dice: «Perché
spendete denaro per ciò che non è pane, il vostro guadagno
per ciò che non sazia?» (Isaia 55, 2) dobbiamo forse
chiederci quante volte abbiamo impegnato il nostro cuore e
la nostra mente per andare dietro ad un insegnamento che
non proveniva da Dio ma dagli uomini, quante volte
abbiamo cercato il nostro nutrimento spirituale ed abbiamo
coltivato le nostre convinzioni al di fuori dell’ombra del
grande albero della vita. «Porgete l’orecchio e venite a me,
ascoltate e vivrete» (Isaia 55, 3), ci esorta ancora Dio
identificando la sua parola con la fonte della vita. Una
metafora, quella della Parola come cibo, ed un’esortazione,
quella dell’ascoltare per vivere, che gettano una luce
ulteriore anche sul miracolo della moltiplicazione dei pani e
dei pesci. L’uomo di Dio spesso prende l’unica parola
proveniente dal creatore e la moltiplica, la adatta e la
distribuisce alle pecore del gregge per nutrirle e fortificarle,
saziarle e rallegrarle. Nella tradizione buddhista il
bodhisattva è un illuminato che dicendo solamente “vuoto”
risponde alle domande di innumerevoli esseri; rientrando in
seno al cristianesimo, troviamo Pietro che dice a Gesù la
famosa frase: «Signore, da chi andremo? Tu solo hai parole
122
In dialogo con l’anno A
che danno la vita eterna» (Giovanni 6, 68). Un tanto per
riflettere ancora sul significato del miracolo della
moltiplicazione dei pani e dei pesci.
123
In dialogo con l’anno A
Tempo ordinario – 19a domenica
Letture: I Re 19, 9-a.11-13a; Romani 9, 1-5; Matteo 14, 2233.
Nella Bibbia, come è logico, sono numerose le teofanie, le
apparizioni di Dio. Il Vangelo per i cristiani è tutto una
teofania in quanto vivificato dalla presenza del Figlio
consustanziale al Padre. Ma per essere precisi il termine di
teofania si usa per indicare le apparizioni, visive o sonore,
del Padre. Nei Vangeli ricordiamo pertanto la voce di Dio al
momento del Battesimo di Gesù che dice: «Tu sei il Figlio
mio, che io amo. Io ti ho mandato» (Luca 3, 22); oppure
l’episodio della Trasfigurazione in cui sempre Dio afferma:
«Questi è il Figlio mio, che io amo. Ascoltatelo!» (Marco 9,
7). Dio Padre si manifesta sempre in occasioni speciali. Il
Battesimo e la Trasfigurazione nei Vangeli sono due di
queste occasioni. Anche l’Antico Testamento è ricco di
manifestazioni di Dio. Le forme e le modalità possono
variare ma l’evento si realizza spesso in situazioni di
pericolo dei suoi inviati, dei suoi consacrati o del popolo
ebraico tutto. Nel passo in lettura oggi del primo libro dei
Re il Signore appare ad Elia. Elia ha appena usufruito
dell’azione del Signore in occasione di una specie di gara
che l’ha messo di fronte ai 450 profeti del dio Baal protetti
dal re Abdia e da sua moglie Gezabele. Il Signore è
intervenuto dando fuoco al suo toro sacrificale, subito dopo
che l’invocazione a Baal da parte dei suoi profeti è rimasta
inascoltata, dimostrando a tutto il popolo che lui, il Signore,
è l’unico vero Dio e che i sacerdoti di Baal ingannavano il
popolo predicando un dio inetto o inesistente. A seguito di
questo episodio Elia sgozza i 450 profeti di Baal – quella
volta non si andava tanto per il sottile – ma poi deve fuggire
124
In dialogo con l’anno A
perché con il suo atto incorre nelle ire della moglie del re
Abdia, Gezabele. Gezabele infatti gli invia un messaggero
per dirgli: «Mi puniscano gli dèi, se entro domani a
quest’ora non ti avrò fatto fare la stessa fine dei profeti!» (I
Re 19, 2). Elia a questo punto si lamenta con il Signore
tanto da dirgli: «Signore – disse – non ne posso più!
Toglimi la vita, perché non valgo più dei miei padri» (I Re
19, 4). A questo punto il Signore dapprima gli invia un
angelo per guidarlo e rincuorarlo, poi interviene egli stesso
apparendo prima in sogno ad Elia e poi con le modalità
descritte nell’episodio di oggi in un escalation poetica che
merita di essere letta. Dice il testo: «Ed ecco che il Signore
passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i
monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore
non era nel vento. Dopo il vento, un terremoto, ma il
Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto, un fuoco,
ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco, il sussurro
di una brezza leggera. Come l’udì, Elia si coprì il volto con
il mantello, uscì e si fermò all’ingresso della caverna» (I Re
19, 11-13). L’apparizione di Dio fa sì che l’azione si
condensi, si faccia incalzante. Elia presenta al Signore la
sua situazione di pericolo ed il Signore in tre soli versetti
gli dice cosa fare per uscirne. Anzi, dando ascolto al suo
«non ne posso più» gli ordina anche di ungere profeta al
suo posto Eliseo, creando le condizioni per la definitiva
quiescenza di Elia. Quiescenza che sappiamo dal secondo
libro dei Re (2, 11) essere stata di una particolare natura.
Dopo che Elia aveva eseguito tutti gli ordini datigli dal
Signore infatti, mentre lui ed Eliseo camminavano insieme
«Un carro di fuoco passò in mezzo a loro. Elia fu rapito in
cielo in un turbine di vento». Si conclude così, con un
125
In dialogo con l’anno A
episodio che l’iconografia ortodossa ha ampiamente
raffigurato, la vicenda terrena del profeta Elia.
126
In dialogo con l’anno A
Tempo ordinario – 20a domenica
Letture: Isaia 56, 1.6-7; Romani 11, 13-15.29-32; Matteo
15, 21-28.
Le letture di oggi sono accomunate dal tema del confronto
tra il popolo ebraico e gli altri popoli. Il popolo ebraico
aveva stabilito con Dio un rapporto esclusivo, cioè che
escludeva gli altri popoli. Gli Ebrei erano i fedeli di Jahvè
ed egli era il loro Dio, il loro unico Dio. Spesso nella
Bibbia troviamo episodi in cui si narrano degli scontri di
Israele con altre nazioni, vuoi perché fosse liberato dalla
schiavitù come in Egitto, vuoi per farsi spazio nella terra
promessa. Dio stesso non era tenero con i popoli che
contrastavano il suo popolo eletto e ne ordinava di sovente
lo sterminio. A volte se ne serviva per punire le infedeltà
dei suoi. Non mancano però le esortazioni ad accogliere
bene lo straniero, accompagnate o meno dalla
raccomandazione di ciò che a Dio stava più a cuore: gli
Israeliti non dovevano assolutamente rendere culto a dei
stranieri ed assumerne gli usi, ma dovevano mantenersi
costanti nell’osservanza del patto con Jahvè e delle norme
di vita che ne conseguivano. La religione ebraica ancora
oggi è una religione che non fa proseliti ma si trasmette
principalmente per vincolo di sangue. Come oggi anche nei
tempi antichi però poteva darsi il caso di qualche straniero
che abbracciasse il culto del vero Dio e allora Dio non lo
respingeva e non dovevano farlo neppure gli Ebrei. Dice a
questo proposito Dio per bocca di Isaia (siamo alla fine del
VI secolo a. C.): «Gli stranieri che hanno aderito al Signore
per servirlo e per amare il nome del Signore, e per essere
suoi servi, quanti si guardino dal profanare il sabato e
restano fermi nella mia alleanza, li condurrò sul mio monte
127
In dialogo con l’anno A
santo e li colmerò di gioia nella mia casa di preghiera»
(Isaia 56, 6-7); ed aggiunge: «I loro olocausti e i loro
sacrifici saranno graditi sul mio altare, perché la mia casa si
chiamerà casa di preghiera per tutti i popoli» (Isaia 56, 7).
Troviamo qui l’apertura di un Dio che esce dal rapporto
esclusivo con il popolo ebraico ed allarga la sua alleanza
con tutti quelli che sono disposti ad accettarla.
Nel Vangelo di oggi non troviamo in Gesù un
atteggiamento così cosmopolita. La donna cananea che lo
implora di guarire la figlia indemoniata riesce a strappargli
il miracolo con delle parole che rappresentano un atto di
fede e di sottomissione. A Gesù che le dice: «Non è bene
prender il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini» (Matteo 15,
26), lei infatti risponde: «È vero, Signore, eppure i
cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei
loro padroni» (Matteo 15, 27). Poco prima, riguardo ai
destinatari delle sue parole e dei suoi atti, del suo
messaggio e dei suoi miracoli, Gesù è stato categorico:
«Non sono stato mandato se non alle pecore perdute della
casa d’Israele» (Matteo 15, 24). Parole dure, che però
vengono apparentemente sconfessate da quanto riportato
alla fine dello stesso Vangelo di Matteo. In quell’occasione,
dopo la passione, morte e risurrezione, Gesù dirà: «A me è
stato dato ogni potere in cielo e in terra. Perciò andate, fate
diventare miei discepoli tutti gli uomini del mondo;
battezzateli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito
Santo; insegnate loro a ubbidire a tutto ciò che io vi ho
comandato» (Matteo 28, 18-20).
Paolo è più criptico ma più cosmopolita del Gesù con la
cananea. Anzi, il suo è un cosmopolitismo radicale.
Giocando con le sephiroth Gebourah, il Giudizio, e
Tipheret, la Misericordia, fa un complicato ragionamento la
128
In dialogo con l’anno A
cui conclusione è che tutti, Ebrei e gentili (o meglio i
Romani cui è rivolta la lettera), vengono salvati grazie alla
misericordia divina. La conclusione di Paolo è la seguente:
«Dio infatti ha rinchiuso tutti nella disubbidienza, per
essere misericordioso verso tutti» (Romani 11, 32).
129
In dialogo con l’anno A
Tempo ordinario – 21a domenica
Letture: Isaia 22, 19-23; Romani 11, 33-36; Matteo 16, 1320.
La prima lettura e il Vangelo di oggi ci ricordano il tema
delle chiavi. In Isaia il Signore è impegnato in uno dei tanti
avvicendamenti al potere che lo vedono attivo nello
srotolarsi della storia sacra. Questa volta deve sostituire
Sebna, maggiordomo del palazzo, con Eliakìm, figlio di
Chelkìa. Il testo dice poco di questi due personaggi. Sebna,
straniero, sembra sia stato ritenuto responsabile di una
disobbedienza del popolo di Gerusalemme agli ordini del
Signore e per questo il Signore lo abbia destituito dalla sua
carica. Il suo posto lo occuperà Eliakìm. Di lui il Signore
dice: «Lo conficcherò come un piolo in luogo solido e sarà
un trono di gloria per la casa di suo padre» (Isaia 22, 23).
Sebna ed Eliakìm sono due personaggi di cui si parla anche
in II Re 18, 26-37, dove fronteggiano il luogotenente del re
di Assiria Sennacherib che aveva invaso il regno di Giuda,
in qualità di membri della corte del re di Giuda Ezechia.
Questi eventi e questi personaggi sono nuovamente citati in
Isaia 36, senza che vi si faccia menzione
dell’avvicendamento di cui si parla nel capitolo 22. In
questo capitolo, parlando di Eliakìm, il Signore ancora dice:
«Gli porrò sulla spalla la chiave della casa di Davide: se
egli apre, nessuno chiuderà; se egli chiude, nessuno potrà
aprire» (Isaia 22, 22). Ora le chiavi cui accenna il Signore
per bocca di Isaia paiono essere le chiavi materiali del
palazzo di Davide da cui regnava il re di Giuda Ezechia,
però non si può negare che quanto qui detto non richiami le
parole che Gesù dice a Pietro: «A te darò le chiavi del regno
dei cieli; tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei
130
In dialogo con l’anno A
cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei
cieli» (Matteo 16, 19). Queste parole, come quelle del
precedente versetto «Tu sei Pietro e su questa pietra
edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non
prevarranno su di essa», sono state prese dalla Chiesa
cattolica a fondamento del ministero petrino e del
conseguente potere spirituale dei Papi considerati eredi di
Pietro, ma rimane in qualche modo misterioso il
collegamento con il passo di Isaia. L’analogia si potrebbe
spiegare con il fatto che, come abbiamo già visto, spesso
nello spiegare le cose di lassù Gesù si serve, per avvicinarsi
agli ascoltatori e fare loro meglio comprendere, di metafore
tratte dalla realtà materiale. Il regno di Davide ed il suo
palazzo che lo rappresenta e di cui ad Eliakìm vengono
affidate le chiavi diventano simbolo del regno dei cieli le
chiavi delle cui porte sono affidate a Pietro. Questa
potrebbe essere una spiegazione. Ma potrebbe anche essere
che l’imperfezione del nostro intelletto non sia capace di
sondare ulteriormente il messaggio del Signore ed allora
risultano perfettamente calzanti le parole di Paolo che nella
lettera ai Romani in lettura oggi afferma: «O profondità
della ricchezza, della sapienza e della conoscenza di Dio!
Quanto insondabili sono i suoi giudizi e inaccessibili le sue
vie! Infatti, chi mai ha conosciuto il pensiero del Signore?»
(Romani 11, 33).
131
In dialogo con l’anno A
Tempo ordinario – 22a domenica
Letture: Geremia 20, 7-9; Romani 12, 1-2; Matteo 16, 2127.
La parola e la volontà di Dio rappresentano spesso una
cesura con le cose del mondo. Oggi le tre letture ci dicono
questo.
Geremia lamenta che da quando ha dato ascolto al Signore
e ha dato voce alla sua parola è diventato oggetto di
derisione, la parola del Signore è diventata «causa di
vergogna e di scherno tutto il giorno» (Geremia 20, 8).
Geremia ci dice anche che l’annunzio della parola del
Signore è però anche un compito a cui non è possibile
sottrarsi: «Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato
sedurre; mi hai fatto violenza e hai prevalso» (Geremia 20,
7); e ancora: «Mi dicevo: “Non penserò più a lui, non
parlerò più nel suo nome!” Ma nel mio cuore c’era come un
fuoco ardente, trattenuto nelle mie ossa; mi sforzavo di
contenerlo, ma non potevo» (Geremia 20, 9). Geremia è
preda di un vero e proprio entusiasmo incontenibile nel
senso dell’etimologia greca della parola. Un Dio, o meglio
Dio gli canta dentro. O meglio, più che cantare, lo
sconquassa come un fuoco ardente. Geremia ha svolto la
sua missione di profeta tra il 626 e il 587 a. C.. Il libro tratta
soprattutto del ventennio 609-587 a. C., a ridosso della
conquista e distruzione di Gerusalemme da parte dei
Babilonesi.
Anche Paolo esorta a non conformarsi a questo mondo.
Essere fedeli a Dio e credenti in Cristo significa operare
una cesura con le cose di questo mondo rinnovando il modo
di pensare. La conversione è una metànoia, un
cambiamento radicale di pensiero. Questa metànoia ci
132
In dialogo con l’anno A
consentirà di capire che cosa è gradito a Dio e ci metterà
nella condizione di attuare il nostro culto spirituale,
offrendo i nostri corpi «come sacrificio vivente, santo e
gradito a Dio» (Romani 12, 1). Sovente i commentatori
interpretano la parola “corpi” usata da Paolo in questo
passo come significante “tutti voi stessi”, “tutta la vostra
persona”. Che nell’espressione però sia ricompresa anche la
nostra materialità fisica sembra essere suggerito anche dal
passo di I Corinzi in cui Paolo dice: «Fuggite l’immoralità!
Qualsiasi altro peccato che l’uomo commette resta esterno
al suo corpo; ma chi si dà all’immoralità pecca contro se
stesso. Dovete sapere che voi stessi siete [i vostri corpi
sono] il tempio dello Spirito Santo» (6, 18-19). Questo
collegamento con la prima lettera ai Corinzi non sembra
casuale: Paolo, quando nella primavera dell’anno 57 d. C.
scrive la lettera ai Romani, si trova probabilmente proprio a
Corinto.
Nella cesura con le cose di questo mondo Gesù, se
vogliamo, è ancora più radicale. Vedendo le cose da Dio
forse è più chiaro nell’esprimerle. A Pietro che lo
rimprovera per aver svelato ai discepoli che «doveva andare
a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei
capi dei sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risorgere
il terzo giorno» (Matteo 16, 21), Gesù ribatte con forza:
«Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non
pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!» (Matteo 16,
23). La cesura tra il pensiero di Dio e quello degli uomini è
netta. Nel momento immediatamente precedente il suo
sacrificio espiatorio, Gesù ci rivela che esso è necessario
per liberare l’umanità dalle grinfie dell’accusatore in cui è
irrimediabilmente caduta. La sua affermazione rappresenta
anche un monito per l’umanità dei secoli futuri e un invito a
133
In dialogo con l’anno A
chiedersi costantemente, a livello individuale e collettivo,
quanto delle nostre azioni è ispirato a Dio e quanto alla
mentalità degli uomini di allora che Gesù ha deprecato.
134
In dialogo con l’anno A
Tempo ordinario – 23a domenica
Letture: Ezechiele 33, 1.7-9; Romani 13, 8-10; Matteo 18,
15-20.
Un compito difficile quello del profeta, non esente da
rischi. Un compito a cui non ci si può sottrarre, la parola del
Signore è perentoria: «O figlio dell’uomo, io ti ho posto
come sentinella per la casa d’Israele. Quando sentirai dalla
mia bocca una parola, tu dovrai avvertirli da parte mia»
(Ezechiele 33, 7) dice il Signore. Ezechiele svolge la sua
missione di profeta tra il 597 e il 571 a. C.. Gerusalemme è
stata conquistata, nel 597, e poi distrutta, nel 587, dal re
Nabucodonosor. Il Signore, per bocca di Ezechiele, informa
gli Israeliti che tali eventi rappresentano la punizione per i
peccati di cui si sono macchiati. Se il popolo però accetterà
di essere rinnovato, lo attenderanno tempi migliori. Il
capitolo 33 in lettura oggi ripete quanto già espresso nel
capitolo 3 del libro. Il Signore pone Ezechiele come
sentinella del popolo d’Israele. Tale compito si struttura nel
modo seguente: «Se io dico che un uomo malvagio per il
suo comportamento deve morire, tu hai il compito di
avvertirlo perché cambi vita e si salvi. Altrimenti
quest’uomo morirà per le sue colpe, ma per me tu sarai
responsabile della sua morte. Invece se tu l’avverti ed egli
non rinunzia ai suoi errori e al suo comportamento, morirà
per le sue colpe, ma tu avrai salvato la tua vita» (Ezechiele
3, 18-19). Il profeta è responsabile personalmente del suo
operato. Se non esegue i compiti che Dio gli dà ne paga
personalmente le conseguenze. Ma c’è di più. Nel capitolo
4 del libro il Signore impone ad Ezechiele un lungo periodo
di penitenza per purificare il popolo dalle sue colpe:
«Sdraiati sul fianco sinistro. Per tutto il tempo che rimarrai
135
In dialogo con l’anno A
in questa posizione, prenderai su di te le colpe del regno
d’Israele e porterai le sue iniquità. Rimarrai sdraiato in
quella posizione tanti giorni quanti sono gli anni durante i
quali il regno d’Israele si è macchiato di colpe. Per
trecentonovanta giorni sopporterai il peso delle sue colpe»
(Ezechiele 4, 4-5). E non è finita qui. Nei versetti successivi
il Signore impone ad Ezechiele un periodo di penitenza
anche per il regno di Giuda. Il mistero del valore espiatorio
del sacrificio il popolo ebraico lo conosce da tempo. In
Levitico 16 sono descritte le modalità da seguire nello Yom
Kippur, il grande giorno del perdono dei peccati. Lì,
accanto al toro da offrire al Signore per i peccati suoi e
della sua famiglia, Aronne deve prendere due capri, uno per
il Signore ed uno per Azazel. Quello per il Signore lo
offrirà in sacrificio per il perdono dei peccati, mentre per
quanto riguarda quello per Azazel il testo dice: «Mette le
due mani sulla testa dell’animale ed enumera tutti i peccati,
le disubbidienze e le colpe degli Israeliti per scaricarli
sull’animale. Poi lo lascia andare verso il deserto, sotto la
guida di un uomo designato per questo compito. Il capro
porta così tutti i peccati d’Israele in un luogo arido e
deserto» (Levitico 16, 21-22). La novità qui è rappresentata
dal fatto che i peccati non vengono più trasferiti su di un
capro, ma su di un essere umano. Pare che questa misura
debba essere presa in considerazione della gravità dei
peccati di cui deve operare l’espiazione. Qui al capro
espiatorio umano non viene ancora richiesto di morire come
quando, alla maturazione dei tempi, sarà richiesto a Gesù.
Quale gravità di colpa, allora, da richiedere l’estremo
sacrificio? Ma noi sappiamo che Gesù non ha caricato su di
sé soltanto le colpe del suo tempo, bensì tutte quelle
passate, a cominciare dal peccato di Adamo, ed ha aperto la
136
In dialogo con l’anno A
strada per la remissione di quelle future, riassumendo su di
sé il significato profondo dei due capri, quello per Azazel e
quello per il Signore.
137
In dialogo con l’anno A
Tempo ordinario – 24a domenica
Letture: Siracide 27, 30-28, 7; Romani 14, 7-9; Matteo 18,
21-35.
«In quel tempo, Pietro si avvicinò a Gesù e gli disse:
“Signore, se mio fratello commette colpe contro di me,
quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?” E Gesù
gli rispose: “Non ti dico fino a sette volte, ma fino a
settanta volte sette”» (Matteo 18, 21-22). Come spesso
accade, anche sul tema del perdono Gesù getta una luce
nuova. Dalla prima lettura tratta da libro del Siracide
sappiamo che Dio non ama la vendetta, la collera e il
rancore verso il prossimo. L’autore del libro ci dice che se
noi cediamo alla logica illogica della faida, anche soltanto
come disposizione interiore, Dio interverrà per correggerci,
oppure, quando ci rivolgeremo a lui impetrando guarigione,
misericordia nei nostri confronti, oppure perdono per le
nostre colpe, porrà come condizione per la concessione di
quanto chiediamo l’aver mantenuto un atteggiamento
magnanimo nei confronti delle colpe del nostro prossimo.
Quello che l’autore del Siracide ci dice con il tono di
un’esortazione, Gesù lo ribadisce raccontando la parabola
del servo crudele e con l’osservazione finale: «Così anche il
Padre mio celeste farà con voi [darvi agli aguzzini finché
non abbiate restituito tutto il dovuto] se non perdonerete di
cuore, ciascuno al proprio fratello» (Matteo 18, 35). Dio, in
tutta la storia sacra, ha dimostrato di essere una persona che
perdona. Ha perfino istituito una festività, lo Yom Kippur
cui abbiamo accennato la scorsa domenica, per il perdono
annuale delle colpe. L’economia del sacrificio, così
importante nella tradizione ebraica, è costruita sulla
necessità del perdono delle colpe che esso opera. Numerosi
138
In dialogo con l’anno A
sono i rituali di purificazione descritti dal Pentateuco aventi
lo stesso scopo. Nella tradizione cabalistica si è individuata
una sephirah, Tipheret, cioè una modalità del manifestarsi
di Dio, che è preposta al perdono, alla Misericordia,
temperando il Giudizio con l’Amore. Sembra quindi che
non possiamo cogliere appieno l’invito di Gesù «Siate
dunque perfetti, così come è perfetto il Padre vostro che è
in cielo» (Matteo 5, 48), omettendo di imparare ed
applicare il perdono del fratello che sbaglia.
I due testi di Siracide e Matteo dicono molto e molto
chiaramente in materia di perdono, ma lasciano anche
aperte alcune questioni. Posto che la vita e le nostre
disposizioni ci mettono più spesso nella posizione di chi
dev’essere perdonato, quando ci viene richiesto di
perdonare chi dobbiamo considerare come fratello e a chi
dobbiamo dunque riservare il perdono? In secondo luogo,
quali sono le condizioni del perdono, considerato che
quello di Dio viene elargito dopo il pentimento e
l’ammenda? Dobbiamo forse fare come Gesù sulla croce
quando dice: «Padre, perdona loro perché non sanno quel
che fanno» (Luca 23, 34) e non richiedere nemmeno
l’ammissione di colpa? A queste parole, cavillando,
potremmo obiettare che Gesù ha chiesto sì al Padre di
perdonare, ma il Padre in quel momento non stava
ascoltando come testimoniano le parole riportate da Marco:
«Eloì, Eloì, lemà sabactàni?» Che significa: «Dio mio, Dio
mio, perché mi hai abbandonato?» (15, 34). Come, in una
determinata situazione di continui soprusi, potremmo
obiettare alle parole di Gesù citate all’inizio di questa
riflessione che settanta volte sette fa soltanto
quattrocentonovanta. Ma ci conviene? Non è preferibile
rimanere a cuor leggero certi che del Signore è la vendetta e
139
In dialogo con l’anno A
lasciare che ad operare sia la sua Giustizia, senz’altro più
incisiva della nostra?
140
In dialogo con l’anno A
Tempo ordinario – 25a domenica
Letture: Isaia 55, 6-9; Filippesi 1, 20c-24.27a; Matteo 20,
1-16.
La prima lettura di oggi fa parte della seconda parte
(capitoli 40-55) del libro del profeta Isaia. In questa parte
del libro, Dio parla per bocca del profeta agli Israeliti
deportati a Babilonia dopo la conquista di Gerusalemme
avvenuta nel 587 a. C.. Il Signore invia messaggi di
speranza e di consolazione al suo popolo, promettendo la
venuta di un liberatore, identificato con Ciro, re dei
Persiani, che nel 538 decreterà la fine della cattività
babilonese del popolo ebraico. Sparsi nel libro (capp. 42, 14; 49, 1-6; 50, 4-9; 52, 13-53, 12) sono i quattro canti del
Servo del Signore di cui già si è detto in precedenza. Il
passo di oggi riporta un “Oracolo del Signore” che potrebbe
essere messo sia a suggello dell’accenno sulla giustizia
divina della domenica scorsa, sia potrebbe ancora oggi
essere citato nel tentativo di spiegare/non spiegare tanti
eventi anche storici di cui non siamo capaci di capire il
senso. Esso dice: «Perché i miei pensieri non sono i vostri
pensieri, le vostre vie non sono le mie vie. Oracolo del
Signore. Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie
sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri
pensieri» (Isaia 55, 8-9).
La seconda lettura è tratta da una lettera che Paolo scrive
alla comunità cristiana di Filippi nel 53 d. C.. In quell’anno
egli si trova in carcere, probabilmente a Efeso. La città di
Filippi si trova nell’odierna Grecia nordorientale e la sua è
la prima comunità cristiana fondata sul suolo europeo.
Paolo mantiene un rapporto molto stretto con i cristiani di
Filippi ai quali lo lega una forte amicizia. Il passo di oggi
141
In dialogo con l’anno A
esprime in estrema sintesi il contenuto di tutta la lettera.
Paolo preferirebbe essere morto per essere con Cristo, ma il
legame d’amore con le comunità cristiane da lui fondate in
generale e quella di Filippi in particolare accanto
all’impegno missionario che ancora gli viene richiesto lo
“costringono” a rimanere in vita. Nei versetti successivi
esorterà la comunità a continuare a lottare perseverando
nella fede e comportandosi «in modo degno del Vangelo di
Cristo» (Filippesi 1, 27), sull’esempio di Paolo stesso, per
mettere a tacere gli avversari.
Diverse volte Gesù si serve della metafora del lavoro nei
campi in generale e nella vigna in particolare per parlare
delle cose di lassù. Solo in Matteo troviamo la parabola del
seminatore (13, 3-9), la parabola dell’erba cattiva (13, 2430), la parabola del granello di senape (13, 31-32), la
parabola dei due figli (21, 28-30), la parabola della vigna e
dei contadini omicidi (21, 33-44). Quella di oggi, nota
come parabola degli operai della vigna, tratta dell’estrema
discrezionalità di Dio nell’elargire i suoi beni. A sentire che
il padrone della vigna ricompensa allo stesso modo gli
operai che hanno lavorato tutto il giorno e quelli arrivati
solamente sul far della sera ci coglie un senso di rancore.
Tutti ci identifichiamo più facilmente con gli operai della
prima ora e siamo più o meno convinti di aver lavorato di
più e meglio di quelli che sono arrivati dopo di noi e
dunque di meritarci una ricompensa maggiore. Siamo
subito pronti a sentire ferito il nostro ben radicato principio
di equità. Faremmo volentieri le pulci al Padre chiedendogli
di temperare un po’ rispetto al nostro lo splendore del corpo
glorioso donato al convertito dell’ultima ora. Forse
abbiamo un po’ di ragione, ma Gesù è tassativo. Dice:
«Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato
142
In dialogo con l’anno A
con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio
dare anche a quest’ultimo quanto a te: non posso fare delle
mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché
io sono buono?» (Matteo 20, 13-15). E conclude: «Così gli
ultimi saranno i primi e i primi, ultimi» (Matteo 20, 16).
Che cosa vorrà dire?
143
In dialogo con l’anno A
Tempo ordinario – 26a domenica
Letture: Ezechiele 18, 25-28; Filippesi 2, 1-11; Matteo 21,
28-32.
Ezechiele ha svolto la sua missione di profeta tra il 593 e il
571 a. C., cioè a cavallo del 587, anno della distruzione di
Gerusalemme e della deportazione degli Ebrei a Babilonia.
Ezechiele informa il popolo che il Signore è entrato
(pre)potentemente nella storia ed ha punito con l’esilio i
suoi peccati e le sue infedeltà. Se il popolo accetterà di
correggersi e di rinnovarsi potrà di nuovo gustare la
salvezza del Signore. Oggi noi siamo abituati alle analisi
dei politologi e degli storici e uno schema esplicativo degli
eventi così semplice e preciso ci pare da un lato ingenuo ed
infantile dall’altro fondamentalista. Anche il passo in lettura
oggi ci presenta quest’intervento correttivo di Dio, questa
volta applicandolo alla storia personale. «Se il giusto si
allontana dalla giustizia e commette il male e a causa di
questo muore, egli muore appunto per il male che ha
commesso» (Ezechiele 18, 26), dice il Signore. Noi oggi
usiamo dire che il morire è causato dalla vecchiaia, dalla
malattia, da un incidente, da una mano assassina. Ma
morire per aver commesso il male questo no! C’è
comunque da notare che il Signore non dice che tutti quelli
che muoiono muoiono perché hanno commesso il male;
dice semplicemente che anche aver commesso il male può
essere una causa di morte. C’è in questo passo una forte
analogia con quanto accadde ad Adamo: allora la morte, la
fatica e la sofferenza entrarono nel mondo dopo che egli ed
Eva ebbero mangiato il frutto dell’albero della conoscenza
del bene e del male che era stato loro vietato. Fu Dio a
comminare questa condanna, come nel 587 a. C. punisce il
144
In dialogo con l’anno A
suo popolo con l’esilio. Certo oggi facciamo fatica ad
immaginare un intervento di Dio nella storia e nelle nostre
vicende quotidiane; stentiamo a credere ai miracoli,
figuriamoci alle punizioni divine. Qui il discorso è molto
delicato, perché un qualunque assassino potrebbe
giustificare il proprio nefando operato affermando di aver
fatto la volontà di Dio e dicendo: «Come Dio allora ha
inviato i Babilonesi a punire gli Ebrei, così oggi manda me
a punire il tal dei tali». Se poi applicassimo questo
ragionamento distorto alla storia potremmo giustificare
qualunque massacro. La domanda giusta da porsi forse è:
«Come facciamo a distinguere un preciso intervento di Dio
da una sua manipolazione?». Potremmo tranquillizzarci
dicendo che Dio non lascia impunita una manipolazione
della sua persona ad altri fini che non sono i suoi, ma
questo ci esime dall’intervenire in situazioni di grave
ingiustizia come possono essere ad esempio gli eccidi?
Seppure
ingenuo,
seppure
infantile,
seppure
fondamentalista sembra che Ezechiele dica qualcosa di
sicuro interesse anche per l’oggi.
Con Gesù le cose si fanno più facili e chiare – o almeno
così sembra. Nella parabola dei due figli insegna che è
giusto chi fa la volontà del padre celeste, indifferentemente
da quanto dichiari. Nella giustizia contano i fatti, non le
parole. Nella spiegazione che segue Gesù dice chiaramente
ai farisei che al loro tempo non ne esistevano più di giusti
tanto che Dio inviò Giovanni Battista per un battesimo di
conversione. Chi credeva a Giovanni, accettava il suo
battesimo e cambiava seriamente vita diventava giusto,
avesse fatto prima il pubblicano, la prostituta o il sacerdote.
Solo che a credere a Giovanni erano stati solo pubblicani e
prostitute. Gesù conclude: «Giovanni venne a voi sulla via
145
In dialogo con l’anno A
della giustizia, e non gli avete creduto; i pubblicani e le
prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, avete
visto queste cose, ma poi non vi siete nemmeno pentiti così
da credergli» (Matteo 21, 32). Un tema interessante quello
della giustizia, declinato in differenti modi lungo tutta la
storia sacra contenuta nelle Scritture.
146
In dialogo con l’anno A
Tempo ordinario – 27a domenica
Letture: Isaia 5, 1-7; Filippesi 4, 6-9; Matteo 21, 33-43.
Questa domenica il Vangelo ci presenta nuovamente la
metafora della vigna. Nella parabola della vigna e dei
contadini omicidi Gesù presenta nuovamente uno scenario
consueto alla gente del suo tempo, la vigna per l’appunto, e
se ne serve per costruirvi una storia dal contenuto
didascalico. Gesù era un rabbi, un maestro, un insegnante e
come tale, servendosi del libro per antonomasia, la Bibbia,
o meglio la Legge e i Profeti, spiegava ai suoi discepoli, ma
anche ai suoi detrattori, le cose che riguardavano il regno di
Dio. In questa parabola Gesù riprende il passo di Isaia 5, 17 e lo fa capire meglio. «La vigna del Signore degli eserciti
è la casa d’Israele; gli abitanti di Giuda sono la sua
piantagione preferita» (Isaia 5, 7); «Perciò io vi dico: “a voi
sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne
produca i frutti”» (Matteo 21, 43). Chi ha tendenze
antisemitiche può senz’altro trovare in queste parole una
conferma autorevole alle sue posizioni, ma quello che pare
importante sottolineare qui, al di là delle possibili
manipolazioni ideologiche, sono i motivi per cui il regno
può essere tolto a chi ritiene di averne uno e cercare di
capire cosa trasmettono i due testi a noi oggi. Il passo di
Isaia prosegue elencando tutta una serie di cose sgradite al
Signore che sono il motivo per cui vuole distruggere la
vigna: «Guai a voi che comprate palazzi e terreni. Voi che
non lasciate un pezzo di terra a nessuno e diventate così gli
unici padroni del paese» (Isaia 5, 8); «Guai a chi comincia a
bere di prima mattina e si ubriaca fino a tarda notte» (Isaia
5, 11); «Gli uomini orgogliosi saranno piegati e umiliati»
(Isaia 5, 15); «Guai a quelli che si trascinano nei loro
147
In dialogo con l’anno A
peccati»» (Isaia 5, 18); «Guai a coloro che chiamano male
il bene e bene il male, cambiano le tenebre in luce e la luce
in tenebre, rendono dolce l’amaro e amaro il dolce. Guai a
quelli che si illudono di essere saggi e intelligenti. Guai a
quelli che bevono vino senza misura e continuano a
mescolare bevande forti. Guai a quelli che si lasciano
corrompere per assolvere un colpevole e per far condannare
un innocente» (Isaia 5, 20-23). Ce n’è per tutti, anche
nell’oggi. Se poi aggiungiamo ciò che dice Gesù il quadro è
ancora più completo, se così si può dire. Gesù racconta la
parabola, certamente non a caso, ai capi dei sacerdoti e agli
anziani del popolo. Loro sono i contadini a cui viene data in
affitto la vigna, il popolo di Dio, e loro si rifiutano di
riconoscere gli emissari e il figlio del padrone della vigna
che sono stati mandati a raccogliere i frutti. Il figlio del
padrone addirittura lo uccidono: «Costui è l’erede. Su,
uccidiamolo e avremo noi la sua eredità» (Matteo 21, 38).
Conclude Gesù: «Perciò io vi dico: “a voi sarà tolto il regno
di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti”»
(Matteo 21, 43). Un’altra traduzione che dice «sarà dato a
gente che farà crescere i suoi frutti» è forse più corretta
perché non confonde il popolo con i suoi capi dei sacerdoti
e i suoi anziani che in questo caso sono i destinatari della
minaccia. Sì, ce n’è proprio per tutti, anche nell’oggi.
148
In dialogo con l’anno A
Tempo ordinario – 28a domenica
Letture: Isaia 25, 6-10a; Filippesi 4, 12-14.19-20; Matteo
22, 1-14.
Un’altra metafora ricorrente nelle Scritture, accanto a
quella della vigna, è la metafora del banchetto. Il regno di
Dio è spesso associato ad un grande e fastoso banchetto a
cui chi vi è ammesso può sfamarsi a sazietà. Anche Paolo in
Filippesi 4, 19 parla di un Dio che provvede generosamente
ai bisogni dei suoi fedeli. Dice infatti: «Il Dio che servo vi
darà generosamente tutto quello che vi occorre». Ma oggi
sono soprattutto Isaia e Matteo ad illustrarci la pienezza del
banchetto celeste.
«Preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli, su
questo monte, un banchetto di grasse vivande, un banchetto
di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati» (Isaia
25, 6). Il banchetto però, per essere veramente celeste,
divino e rappresentare la gioia del regno è accompagnato da
altri atti che il Signore compie: «Eliminerà la morte per
sempre» (Isaia 25, 8) e «La mano del Signore si poserà su
questo monte» (Isaia 25, 10a). In Isaia questa scena del
banchetto è contenuta nella cosiddetta “apocalisse maggiore
di Isaia” (capp. 24-27) ed è preceduta dal terribile giudizio
del Signore ed è seguita da ulteriori promesse di salvezza e
da preghiere e lodi al Signore. Al banchetto partecipano,
tratti da tutti i popoli, quelli che nel giudizio sono stati
giudicati degni.
Gesù in Matteo ci racconta, o meglio racconta a quelli che
lo ascoltavano la cosiddetta parabola del banchetto di
nozze. In questa parabola un re appronta una festa di nozze
per suo figlio. Manda a chiamare gli invitati ma questi si
rifiutano di venire accampando varie scuse. Alcuni persino
149
In dialogo con l’anno A
uccidono i servi inviati a chiamarli. «Allora il re si indignò:
mandò le sue truppe, fece uccidere quegli assassini e diede
alle fiamme la loro città» (Matteo 22, 7). Poi manda i servi
a raccogliere invitati dalle strade. Il testo dice: «Usciti per
le strade, quei servi radunarono tutti quelli che trovarono,
cattivi e buoni, e la sala si riempì di commensali» (Matteo
22, 10). Nell’espressione “cattivi e buoni” vi è la
spiegazione di quello che accade dopo. Il re entra nella sala
per vedere i commensali e ne scorge uno senza l’abito
nuziale. Dice allora ai servi: «Legatelo mani e piedi e
gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di
denti» (Matteo 22, 13). Il banchetto di Dio è un banchetto
esclusivo, vi si accede soltanto se si ha l’abito di nozze. Ma
non è un banchetto cui si accede per censo, che esclude chi
non ha i beni per acquistare un vestito nuovo. L’espressione
del versetto 10 “cattivi e buoni” ci illumina sul senso da
dare all’abito di nozze. Per la tradizione cristiana l’abito di
nozze rappresenta la veste nuova che il catecumeno riceve
all’atto del Battesimo e che rappresenta l’avvenuta
purificazione della sua anima dal peccato originale e quindi
l’uscita definitiva dal gruppo dei “cattivi” e l’entrata nel
gruppo dei “buoni”. Ancora in questa fase il re deve
separare gli agnelli dai capri e quale buon pastore vigilare
sulla purezza, o meglio la bontà del gregge. Anche qui,
come in Isaia, la consumazione finale del banchetto viene
preceduta da un giudizio. Facile è anche l’identificazione di
quelli che inizialmente erano invitati al banchetto. La
parabola infatti si inserisce in un lungo discorso che Gesù
fa rivolgendosi ai capi dei sacerdoti e agli anziani del
popolo e la stoccata, se così si può dire, è manifestatamente
diretta a loro che non hanno accettato prima il ministero di
150
In dialogo con l’anno A
conversione di Giovanni Battista e poi l’insegnamento dello
stesso Gesù.
151
In dialogo con l’anno A
Tempo ordinario – 29a domenica
Letture: Isaia 45, 1.4-6; I Tessalonicesi 1, 1-5b; Matteo 22,
15-21.
Il Vangelo di oggi racconta un altro episodio del dibattito
tra Gesù e i farisei. Precedentemente ha discusso con i capi
dei sacerdoti e gli anziani del popolo sulla sua autorità e ha
raccontato loro la parabola dei due figli. Poi è venuta la
parabola della vigna e dei contadini omicidi e «I capi dei
sacerdoti e i farisei che ascoltavano queste parabole
capivano che Gesù le raccontava per loro» (Matteo 21, 45).
Nei quattordici versetti prima di quelli in lettura oggi Gesù
ha raccontato la parabola del banchetto di nozze. Ora
sopraggiunge la fatidica domanda da parte dei discepoli
inviati dai farisei e di alcuni del partito di Erode: «È lecito,
o no, pagare il tributo a Cesare?» (Matteo 22, 17). Il
Vangelo dice solamente che «Gesù, conoscendo la loro
malizia, rispose: “Ipocriti, perché volete mettermi alla
prova?”» (Matteo 22, 18): se infatti avesse risposto
semplicemente di sì, si sarebbe alienato le simpatie del
popolo che lo seguiva che viveva con malcontento il
dominio romano; avrebbe anche implicitamente
riconosciuto che gli Ebrei dovevano sottostare ad
un’autorità al di fuori di quella di Dio, riconoscimento che
aveva il sapore di una bestemmia. Se rispondeva di no,
sarebbe incorso nel pericolo di venire arrestato e
condannato dai Romani per sedizione o per, diremmo noi,
obiezione fiscale. Con la famosa risposta che dà a chi lo sta
interrogando, «Rendete dunque a Cesare quello che è di
Cesare e a Dio quello che è di Dio» (Matteo 22, 21), Gesù
riesce ad evitare entrambi questi Scilla e Cariddi logicodottrinali. Gesù non ha concluso le sue diatribe
152
In dialogo con l’anno A
pedagogiche: nei versetti che seguono sarà ancora
interrogato dai sadducei a proposito della risurrezione dei
morti e poi dai farisei sul comandamento più importante;
infine mette tutti a tacere interrogando lui stesso i suoi
interlocutori sulla discendenza del Messia da re Davide.
Dopo questo darà un importante insegnamento alla folla e
ai discepoli in cui metterà tutti in guardia
dall’insegnamento impartito dai farisei e dai maestri della
legge, accusandoli di cavillosità, incoerenza e ipocrisia.
Scritta qualche tempo più tardi della sua permanenza in
quella città (50 o 51 d. C.), la Prima Lettera di Paolo ai
Cristiani di Tessalonica è il più antico scritto di tutto il
Nuovo Testamento. Paolo, con la maestria che gli è propria,
nel semplice indirizzo di saluto in lettura oggi riesce ad
introdurre dei contenuti teologici di alto livello. Nel
versetto 3 fa riferimento a quelle che saranno codificate
dalla chiesa cattolica come le tre virtù teologali – la fede, la
speranza e la carità – e nei versetti 4 e 5 ricorda come
l’evangelizzazione sia un processo sinergico tra l’annuncio
missionario, l’azione dello Spirito Santo e l’elezione di Dio
Padre. Il tema portante della lettera è il destino di coloro
che saranno già morti al momento del secondo avvento di
Cristo. Paolo rincuora i fedeli della città affermando che
grazie alla risurrezione della carne anche chi era morto
potrà gustare, rivivendo, la gioia del regno. La Prima
Lettera ai Tessalonicesi è seguita da una seconda che
ragguaglia i fedeli della città sui tempi del giorno del
Signore.
153
In dialogo con l’anno A
Tempo ordinario – 30a domenica
Letture: Esodo 22, 20-26; I Tessalonicesi 1, 5c-10; Matteo
22, 34-40.
I capitoli 19-24 del libro dell’Esodo contengono l’alleanza
di Dio con il popolo d’Israele. Dio ha condotto tutto il
popolo ai piedi del monte Sinai. Ha poi chiamato Mosè sul
monte, insieme con Aronne, per comunicargli i termini
dell’alleanza. La presenza di Dio è ben visibile a tutto il
popolo: «Il Sinai era tutto fumante, perché su di esso era
sceso il Signore come un fuoco. Il fumo saliva come quello
di una fornace, e tutto il monte era scosso come da un
terremoto. Il suono della tromba divenne sempre più forte.
Quando Mosè gli parlava, Dio rispondeva con il tuono»
(Esodo 19, 18-19). Il popolo però deve mantenersi a debita
distanza. «Chiunque si avvicinerà sarà messo a morte. Sia
uomo o animale, non potrà sopravvivere. Ma non potrà
essere toccato: dovrà essere ucciso a colpi di pietra o con
frecce» (Esodo 19, 12-13), dice il Signore. E ancora:
«Scendi di nuovo all’accampamento; poi ritornerai insieme
con Aronne. Ma i sacerdoti e il popolo non devono
precipitarsi per cerare di salire verso di me, altrimenti io li
farò morire» (Esodo 19, 24). In questo scenario di
magnificenza tremenda il Signore trasmette a tutti gli
Israeliti, tramite Mosè, i dieci comandamenti, o meglio le
dieci parole (Esodo 20, 2-17), riportate anche da
Deuteronomio 5, 6-21. Qui, in un discorso in cui ricorda
agli Israeliti l’alleanza stipulata con il Signore, Mosè
aggiunge la seguente notazione: «Il Signore pronunziò
queste parole con voce potente davanti a tutta la vostra
assemblea, sul monte, dal fuoco, dalla nube e dall’oscurità,
e non aggiunse altro. Poi scrisse queste parole su due tavole
154
In dialogo con l’anno A
di pietra e le consegnò a me» (Deuteronomio 5, 22). In
realtà Dio ha trasmesso a Mosè altre disposizioni necessarie
alla buona conduzione della vita di ogni giorno. Ha dato
una legge per la costruzione e l’uso degli altari (Esodo 20,
22-26), ha indicato come trattare gli schiavi (Esodo 21, 111), ha indicato quali sono i delitti che meritano la pena di
morte (Esodo 21, 12-17), ha dato disposizioni per il
risarcimento delle ferite (Esodo 21, 18-27), ha parlato delle
responsabilità dei proprietari (Esodo 21, 28-36), ha fornito
le leggi che regolano il furto e il risarcimento dei danni
(Esodo 21, 37-22, 5), ha dato disposizioni sui prestiti
(Esodo 22, 6-13), ha fornito ulteriori prescrizioni morali e
religiose (Esodo 22, 15-19), e finalmente ha esposto le
leggi in difesa dei deboli riportate dalla lettura di oggi
(Esodo 22, 20-26). Successivamente ha comunicato a Mosè
gli ulteriori fondamenti della religione ebraica (Esodo 22,
27-31, 18). Nel testo di oggi sono contenute quattro
disposizioni – non molestare i forestieri, non maltrattare la
vedova e l’orfano, non prestare denaro ad usura, non tenere
in pegno il mantello del prossimo – che se volessimo
applicarle all’oggi, con tutte le altre comunicate dal
Signore, creerebbero non pochi problemi. Siamo soliti
svicolarci da questi impegni richiesti allora dal Signore
accampando come scusante il fatto che Gesù ha portato una
nuova alleanza fondata sull’amore che ha abrogato quella
antica. Ma sarà veramente così? A questo proposito, la frase
di Gesù «In verità vi dico: “finché non siano passati il cielo
e la terra, neppure un iota o un apice della legge passerà”»
(Matteo 5, 18) dovrebbe farci riflettere.
155
In dialogo con l’anno A
Tempo ordinario – 31a domenica
Letture: Malachia 1, 14b-2, 2b.8-10; I Tessalonicesi 2, 7b9.13; Matteo 23, 1-12.
Il profeta Malachia opera alcuni decenni dopo la
ricostruzione del tempio, avvenuta nel 520-515 a. C.. Il suo
libro è molto breve – consta di tre capitoli soltanto – ed ha
una struttura semplice. Nei primi versetti (1, 1-5) il Signore
ricorda agli Israeliti che essi sono il suo popolo – «Il
Signore dice al suo popolo: “Io vi ho amati”» (1, 2); nei
versetti da 1, 6 a 2, 16 rimprovera i sacerdoti accusandoli di
non onorarlo come dovuto – «Se non mi ascolterete e non
vi darete premura di dare gloria al mio nome, dice il
Signore degli eserciti, manderò su voi la maledizione» (2,
2b); nella parte finale (2, 17-3, 24) promette e allo stesso
tempo minaccia che manderà un messaggero a preparare la
strada per la sua venuta – «Io mando il mio messaggero a
preparare la strada davanti a me. Il Signore che voi
desiderate entrerà subito nel suo tempio. Voi attendete il
messaggero che proclamerà la mia alleanza con voi.
Eccolo, sta per arrivare» (3, 1). La sua sarà una venuta per
il giudizio, che separerà i giusti dai malvagi e premierà gli
uni e punirà gli altri. Ma, il Signore avverte «Prima che
arrivi quel giorno, giorno grande e terribile del Signore, io
vi invierò il profeta Elia. Egli riconcilierà i padri con i figli
e i figli con i padri. Così io non dovrò più venire a
distruggere la terra» (3, 23-24). I Cristiani leggono in
queste parole un chiaro riferimento a Giovanni Battista e a
Gesù. A queste parole fa infatti riferimento l’angelo che
parla con Zaccaria di suo figlio Giovanni Battista, come
narrato da Luca 1, 16-17: «Questo tuo figlio riporterà molti
Israeliti al Signore loro Dio: forte e potente come il profeta
156
In dialogo con l’anno A
Elia, precederà la venuta del Signore, per riconciliare i
padri con il figlio, per ricondurre i ribelli a pensare come i
giusti. Così egli preparerà al Signore un popolo ben
disposto». E sempre a queste parole fanno riferimento i
sacerdoti e gli addetti al culto del tempio quando,
interrogando il Battista sulla sua identità, gli chiedono:
«Chi sei, allora? Sei forse Elia? Ma Giovanni rispose: “No,
non sono Elia”» (Giovanni 1, 21). Più avanti Giovanni
cambierà profeta di riferimento e affermerà: «Io sono la
voce di uno che grida nel deserto: spianate la strada per il
Signore» (Giovanni 1, 23), riprendendo le parole di Isaia
40, 3. Nel testo in lettura oggi, il Signore rimprovera
aspramente i sacerdoti dicendo: «Voi invece avete deviato
dalla retta via e siete stati d’inciampo a molti con il vostro
insegnamento; avete distrutto l’alleanza di Levi, dice il
Signore degli eserciti. Perciò io vi ho reso spregevoli e
abietti davanti a tutto il popolo, perché non avete seguito le
mie vie e avete usato parzialità nel vostro insegnamento»
(Malachia 2, 8-9). Parole che riecheggiano anche in quanto
Gesù rimprovera agli scribi e ai farisei del suo tempo nel
discorso alla folla e ai discepoli riportato da Matteo 23, 1-7:
«Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei.
Praticate e osservate tutto ciò che vi dicono, ma non agite
secondo le loro opere, perché essi dicono e non fanno.
Legano infatti fardelli pesanti e difficili da portare e li
pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono
muoverli neppure con un dito. Tutte le loro opere le fanno
per essere ammirati dalla gente: allargano i loro filattèri e
allungano le frange; si compiacciono dei posti d’onore nei
banchetti, dei primi seggi nelle sinagoghe, dei saluti nelle
piazze, come anche di essere chiamati “rabbì” dalla gente».
Anche qui Gesù, in collegamento con la tradizione dei
157
In dialogo con l’anno A
profeti, ci elargisce un insegnamento per l’oggi,
individuando per noi, nel caso ci trovassimo in una
posizione simile, che cosa sarebbe bene non fare: «Ma voi
non fatevi chiamare “rabbì”… E non chiamate padre
nessuno di voi sulla terra… E non fatevi chiamare guide…»
(Matteo 23, 8-9). O farlo perlomeno con una certa
parsimonia.
158
In dialogo con l’anno A
Tempo ordinario – 32a domenica
Letture: Sapienza 6, 12-16; I Tessalonicesi 4, 13-18; Matteo
25, 1-13.
Le tre letture di oggi sono caratterizzate da un tema
comune: il Signore previene, il Signore agisce, il Signore
sorprende. La Sapienza, Hochmah nel linguaggio
cabalistico, è la conoscenza dei misteri di Kether, la Corona
di Dio-Aor Ein Soph, Luce senza Fine. «Nel farsi
conoscere previene coloro che la desiderano» (Sapienza 6,
13). Il nostro termine sapienza deriva dal latino sapere, cioè
sapere nel senso di aver sapore o essere sapido. Nella
sephirah Hochmah infatti Aor Ein Soph comincia la sua
discesa nel mondo e la inizia assumendo un particolare
sapore tramite il quale può essere gustato dal mistico. Il
mistico, ovvero l’iniziato ai misteri di Aor Ein Soph, dopo
essersi adeguatamente preparato, ma senza per questo aver
acquisito dei particolari meriti, viene colto da Hochmah,
come Saulo sulla via di Damasco. Dai Cristiani la Sapienza
è identificata con Gesù; sapienza del Padre. La Sapienza è
anche simboleggiata dal sale, di cui Gesù dice: «Ma se il
sale perde il suo sapore, come si potrà ridarglielo?» (Matteo
5, 13) in un passo in cui i discepoli stessi, in quanto figli
adottivi di Dio e pertanto fratelli di Gesù, vengono
identificati con il sale e sono quindi riconosciuti come
partecipi della Sapienza divina, di cui avrebbero il
medesimo sapore. La Sapienza, come Gesù sulle strade
della Palestina al suo tempo e sulle nostre strade oggi, «si
lascia trovare da quelli che la cercano» (Sapienza 6, 12),
«poiché lei stessa va in cerca di quelli che sono degni di lei,
appare loro benevola per le strade e in ogni progetto va loro
incontro» (Sapienza 6, 16). Anche Paolo ci presenta una
159
In dialogo con l’anno A
situazione in cui il Signore previene, agisce, e sorprende: è
il giorno della seconda venuta, il giorno del giudizio in cui
saranno presi prima i morti in Cristo e poi chi tra i suoi
fedeli sarà ancora in vita per essere «rapiti insieme con loro
nelle nubi, per andare incontro al Signore in alto» (I
Tessalonicesi 4, 17). A noi non resta che aspettare
perseverando nella fede e nelle buone opere da essa ispirate
«Perché il Signore stesso, a un ordine, alla voce
dell’arcangelo e al suono della tromba di Dio, discenderà
dal cielo» (I Tessalonicesi 4, 16). E del giorno del giudizio
parla anche Gesù nella parabola delle dieci ragazze
riportata da Matteo. Tutto il senso della parabola, che
identifica il Signore con lo sposo, è contenuto
nell’esortazione finale di Gesù: «Vegliate dunque, perché
non sapete né il giorno né l’ora» (Matteo 25, 13). Poco più
avanti, abbandonando il linguaggio delle parabole, Gesù
sarà più diretto e descriverà il giorno del giudizio in termini
espliciti: «Quando il Figlio dell’uomo verrà nel suo
splendore, insieme con gli angeli, si sederà sul suo trono
glorioso. Tutti i popoli della terra saranno riuniti di fronte a
lui ed egli li separerà in due gruppi, come fa il pastore
quando separa le pecore dalle capre: metterà i giusti da una
parte e i malvagi dall’altra» (Matteo 25, 31-33). Una scena
apocalittica – il tema sarà infatti ripreso e declinato in vario
modo dall’Apocalisse di Giovanni – che ha ispirato artisti
di tutte le discipline e di tutti i tempi. Anche qui un Signore
che previene, agisce, sorprende.
160
In dialogo con l’anno A
Tempo ordinario – 33a domenica
Letture: Proverbi 31, 10-13.19-20.30-31; I Tessalonicesi 5,
1-6; Matteo 25, 14-30.
Nel 90 d. C. i rabbini ebrei, riuniti nella città di Iamnia in
Palestina, compilarono la lista completa dei libri sacri degli
Ebrei. La lista comprendeva i testi che formano il Canone,
costituito intorno al 400 a. C. dalla Legge e dai Profeti cui
si aggiunsero in seguito i Salmi, ed altri scritti. Prese corpo
così pertanto l’attuale suddivisione della Bibbia ebraica,
scritta in ebraico e con alcuni testi in aramaico:
la Legge (5 testi), composta da Genesi, Esodo, Levitico,
Numeri e Deuteronomio;
i Profeti (21 testi), composti da Giosuè, Giudici, Primo
libro di Samuele, Secondo libro di Samuele, Primo libro dei
Re, Secondo libro dei Re, Isaia, Geremia, Ezechiele, Osea,
Gioele, Amos, Abdia, Giona, Michea, Naum, Abcuc,
Sofonia, Aggeo, Zaccaria e Malachia;
gli Scritti (13 testi), composti da Salmi, Giobbe, Proverbi,
Rut, Cantico dei Cantici, Qoelet, Lamentazioni, Ester,
Daniele, Esdra, Neemia, Primo libro delle Cronache,
Secondo libro delle Cronache.
Alcuni Ebrei però vivevano all’estero da diversi secoli e
quelli residenti ad Alessandria vollero tradurre la Bibbia
nella lingua da loro usata, il greco. Ebbe così origine la
Bibbia Greca detta dei Settanta che conteneva libri che non
furono ritenuti canonici nella riunione di Iamnia e che sono
noti con il nome di Deuterocanonici (10 testi). Essi sono:
Ester (greco), Giuditta, Tobia, Primo libro dei Maccabei,
Secondo libro dei Maccabei, Sapienza, Siracide, Baruc,
Lettera di Geremia, Supplementi deuterocanonici a Daniele.
La forma dell’Antico Testamento usata dai Cristiani è
161
In dialogo con l’anno A
quella della Bibbia greca. Dei libri Deuterocanonici si è già
detto che sono stati riconosciuti dalla Chiesa romana nel IV
secolo e dichiarati canonici dalla Chiesa cattolica nel
Concilio di Trento nel 1546. I Protestanti li chiamano
Apocrifi e non li riconoscono come canonici, bensì come
utili per l’edificazione personale e pertanto si inseriscono in
appendice alla Bibbia. Le Chiese ortodosse non sono
addivenute ad alcuna decisione ufficiale, ma li includono
nelle loro Bibbie.
Il Nuovo Testamento (o Alleanza) comprende 27 scritti,
circa un terzo dell’Antico, il cui elenco viene fissato intorno
al 150-200 d. C. ed è definitivamente riconosciuto intorno
al V secolo. In origine sono scritti in greco. Gli scritti sorti
nell’ambito della Nuova Alleanza a seguito della
predicazione di Gesù ma non inclusi nel Canone prendono
il nome di Apocrifi. Il canone del Nuovo Testamento è
pertanto composto dai quattro Vangeli (Matteo, Marco,
Luca, e Giovanni) che narrano la vita e la predicazione di
Gesù, dagli Atti degli Apostoli che raccontano la vita degli
Apostoli in seguito alla morte e risurrezione di Gesù, dalle
Lettere di Paolo (Romani, Prima Corinzi, Seconda Corinzi,
Galati, Efesini, Filippesi, Colossesi, Prima Tessalonicesi,
Seconda Tessalonicesi, Prima Timoteo, Seconda Timoteo,
Tito, Filemone ed Ebrei), di Giacomo, di Pietro (Prima e
Seconda), di Giovanni (Prima, Seconda e Terza), di Giuda e
dall’Apocalisse di Giovanni. Le lettere sono esortazioni e
approfondimenti attribuite ad alcuni apostoli e rivolte alle
prime comunità cristiane. L’Apocalisse di Giovanni
contiene una descrizione profetica dei fatti che devono
avvenire prima e durante il tempo della seconda venuta di
Cristo.
162
In dialogo con l’anno A
Tempo ordinario – 34a domenica – Nostro Signore Gesù
Cristo Re dell’Universo
Letture: Ezechiele 34, 11-12.15-17; I Corinzi 15, 20-26.28;
Matteo 25, 31-46.
Come già detto il profeta Ezechiele svolge la sua missione
tra il 593 e il 571 a. C., a cavallo cioè della deportazione
degli Ebrei a Babilonia (587 a. C.). Nel passo in lettura oggi
il Signore promette per bocca di Ezechiele che si occuperà
lui stesso delle sue pecore, cioè del suo popolo disperso:
«Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e io le farò
riposare» (Ezechiele 34, 15). Tale evento si realizzerà
quando il Signore, servendosi di Ciro, re dei Persiani, farà
tornare gli Israeliti a Gerusalemme nel 538 a. C..
Paolo oggi, nella prima lettera ai Corinzi, ci presenta
nuovamente una descrizione degli eventi che accadranno
alla fine dei tempi, rivelandone in parte anche il senso:
«Perché, se per mezzo di un uomo venne la morte, per
mezzo di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti.
Come infatti in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti
riceveranno la vita» (I Corinzi 15, 21-22). Le cose
avverranno con ordine, assicura Paolo: «Prima Cristo, che è
la primizia; poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo.
Poi sarà la fine, quando egli consegnerà il regno a Dio
Padre, dopo aver ridotto al nulla ogni Principato e ogni
Potenza e Forza… L’ultimo nemico a essere annientato sarà
la morte» (I Corinzi 15, 23-26). La prima lettera ai Corinzi
ovviamente non contiene solamente queste annotazioni,
pure molto importanti. Scritta probabilmente nel 54-55 d.
C. e diretta ai Cristiani di Corinto – città in cui Paolo aveva
soggiornato nel 49-50 d. C. – parla di processi e morale
sessuale, di matrimonio e celibato, delle carni sacrificate
163
In dialogo con l’anno A
agli idoli, della comunità, della cena del Signore, dei doni
dello Spirito ed è pertanto un importantissimo tassello nella
costruzione dell’edificio della religione cristiana quale noi
oggi la conosciamo. Cristologia, pneumatologia e teologia
del Padre sono senz’altro gli aspetti più importanti trattati
dalla lettera. A questo proposito, tra le altre altrettanto
importanti, si possono citare le parole seguenti: «Ma come
si legge nella Bibbia (Isaia 52,15 e 64, 3): “Quel che
nessuno ha mai visto e udito, quel che nessuno ha mai
immaginato Dio lo ha preparato per quelli che lo amano”.
Dio lo ha fatto conoscere a noi per mezzo dello Spirito. Lo
Spirito infatti conosce tutto, anche i pensieri segreti di Dio.
Nessuno può conoscere i pensieri segreti di un uomo: solo
lo spirito, che è dentro di lui, può conoscerli. Allo stesso
modo solo lo Spirito di Dio conosce i pensieri segreti di
Dio. Ora, noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo,
ma lo Spirito che viene da Dio, perciò conosciamo quel che
Dio ha fatto per noi. E ne parliamo con parole non
insegnate dalla sapienza umana, ma suggerite dallo Spirito
di Dio. Così spieghiamo le verità spirituali a quelli che
hanno ricevuto lo Spirito» (I Corinzi 2, 9-13). Un lascito
rilevante quello di Paolo che richiama i Cristiani ancora
oggi ad una dignità che spesso, nelle vicende contrastanti
della vita, si tende a dimenticare. Una dignità che richiama,
scusate il bisticcio, ad esserne degni, facendo tesoro delle
raccomandazioni a non gettare le perle ai porci e a non
rendere triste lo Spirito Santo che Dio ha messo in noi
come un sigillo, contenute rispettivamente in Matteo 7, 6 ed
in Efesini 4, 30.
164
In dialogo con l’anno A
Tempo ordinario – 1a domenica dopo Pentecoste –
Santissima Trinità
Letture: Esodo 34, 4b-6.8-9; II Corinzi 13, 11-13; Giovanni
3, 16-18.
Le tavole della legge hanno avuto una genesi travagliata.
Esse sono state scritte dalla mano di Dio e consegnate a
Mosè al momento della prima alleanza: «Il Signore disse a
Mosè: “Sali da me sul monte: quando sarai lassù, io ti darò
le tavole di pietra su cui ho scritto gli insegnamenti e la
legge per istruire gli Israeliti”» (Esodo 24, 12). Dopo
l’episodio dell’adorazione del vitello d’oro da parte del
popolo (Esodo 32, 1 e segg.), vengono distrutte dallo stesso
Mosè: «Quando furono vicini all’accampamento, Mosè
vide il vitello e la gente che danzava. Allora pieno di
collera, buttò via le tavole e le spezzò ai piedi della
montagna» (Esodo 34, 19). Poi Mosè chiede al Signore di
perdonare il popolo per la sua infedeltà e di camminare
nuovamente con loro. Il Signore accetta, ma con riserva:
«Ma un giorno interverrò e punirò gli Israeliti per il loro
peccato» (Esodo 32, 34) e ribadisce: «Io sono il Signore, il
Dio misericordioso e clemente, sono paziente, sempre ben
disposto e fedele. Conservo la mia benevolenza verso gli
uomini per migliaia di generazioni, e tollero le
disubbidienze, i delitti e i peccati; ma anche non lascio
senza punizione chi pecca, e lo castigo sui suoi figli fino
alla terza e alla quarta generazione» (Esodo 34, 6-7).
Comunque risponde alla preghiera di Mosè dicendo: «Farò
come tu hai detto: tu hai la mia piena fiducia perché ti
conosco bene» (Esodo 33, 17) e lo chiama nuovamente sul
monte: «Il Signore disse a Mosè: “Taglia due tavole di
pietra come quelle che hai spezzato. Io scriverò su queste
165
In dialogo con l’anno A
nuove tavole i comandamenti che avevo scritto sulle prime.
Tieniti pronto per domani mattina: all’alba salirai sul monte
Sinai e starai di fronte a me lassù, in cima al monte.
Nessuno ti accompagni! Nessuno si faccia vedere sulla
montagna e neppure il vostro bestiame venga a pascolare
nei suoi dintorni”. Mosè tagliò due tavole di pietra come le
prime. Il mattino dopo, molto presto, salì sul monte Sinai,
secondo l’ordine del Signore. Portava con sé le due tavole
di pietra» (Esodo 34, 1-4). Infine, dopo che il Signore gli ha
comunicato altre importanti norme (il divieto di adorare
altri dei e di fare statue, l’osservanza del riposo settimanale
e di altre feste, norme sui sacrifici e i primogeniti) «Il
Signore ordinò ancora a Mosè: “Scrivi questi
comandamenti, perché essi stanno alla base dell’alleanza
che concludo con te e con il popolo d’Israele”. Mosè rimase
sul monte con il Signore quaranta giorni e quaranta notti,
senza mangiare e senza bere. Il Signore scrisse sulle tavole
di pietra le parole dell’alleanza, i dieci comandamenti,
Mosè scese dal monte Sinai. Teneva in mano le due tavole
su cui erano scritti gli insegnamenti del Signore; egli non
sapeva che la pelle della sua faccia era diventata splendente
poiché aveva parlato con il Signore» (Esodo 34, 27-29).
Se l’Esodo oggi ci racconta di un episodio saliente della
prima alleanza, il Vangelo di Giovanni riporta in estrema
sintesi il fondamento di quella che i Cristiani definiscono
l’alleanza nuova. Dice infatti Gesù a Nicodemo: «Dio ha
tanto amato il mondo da dare il Figlio, unigenito, perché
chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita
eterna» (Giovanni 3, 16). In termini cabalistici potremmo
dire che Mosè ci ha comunicato uno dei volti di Dio, quello
della Legge, di Gebourah, il Giudizio, mentre Gesù ce ne ha
comunicato un altro, quello di Hesed, l’Amore. I due volti,
166
In dialogo con l’anno A
le due sephiroth – ricordiamo – sono complementari e
trovano la loro sintesi in Tipheret, la Misericordia o Grazia.
Rimanendo sempre nel campo degli insegnamenti sintetici,
non possiamo mancare di apprezzare oggi, festa della
Santissima Trinità, le parole con cui Paolo a questo
proposito conclude la seconda lettera ai Cristiani di
Corinto: «La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio
e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi» (II
Corinti 13, 13).
167
In dialogo con l’anno A
Tempo ordinario – 2a domenica dopo Pentecoste –
Santissimo Corpo e Sangue di Cristo
Letture: Deuteronomio 8, 2-3.14b-16a; I Corinzi 10, 16-17;
Giovanni 6, 51-58.
La prima lettura di oggi fa parte del secondo discorso di
Mosè agli Israeliti riportato dal libro del Deuteronomio (dal
greco=seconda legge). Questo discorso va dal versetto 44
del capitolo 4 al versetto 68 del capitolo 28 e rappresenta
un richiamo al popolo alla fedeltà e all’amore verso Dio,
che per primo si è dimostrato fedele ed amorevole. L’amore
per Dio si deve manifestare nell’osservanza della sua
Legge. A questo scopo al capitolo 5, sono riportate
nuovamente le dieci parole rivolte a Mosè sul monte Sinai,
come raccontato da Esodo 20, 2-17. Ma oggi è la festa del
Santissimo Corpo e Sangue di Cristo ed assume pertanto
particolare rilevanza il versetto 3 del capitolo 8 in lettura
oggi. Dice Mosè agli Israeliti: «Egli dunque ti ha umiliato,
ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu
non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai
conosciuto, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di
pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del
Signore». A questo proposito è utile rileggere anche il passo
in cui Gesù risponde al tentatore nel deserto citando questo
passo di Deuteronomio. Dice il tentatore: «Se tu sei il
Figlio di Dio, comanda a queste pietre di diventare pane!
Ma Gesù rispose: “Nella Bibbia è scritto: ‘Non di solo pane
vive l’uomo ma di ogni parola che viene da Dio’”» (Matteo
4, 3-4). Paolo in I Corinzi tratta del medesimo argomento:
«E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il
corpo di Cristo? Poiché vi è un solo pane, noi siamo,
benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo
168
In dialogo con l’anno A
all’unico pane» (10-16-17). Ma è Giovanni ad offrirci le
affermazioni più pregnanti su questo tema quando riporta le
parole di Gesù che dice: «Io sono il pane vivo, disceso dal
cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il
pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo» (6,
51). Certo noi possiamo chiederci come i Giudei di allora:
«Come può costui darci la sua carne da mangiare?»
(Giovanni 6, 52), ma forse è più utile che cerchiamo di
dipanare il filo sotteso a queste letture: pane, ciò che esce
dalla bocca di Dio, parola, corpo, carne. Innanzitutto
balzano all’occhio le differenze (che cosa ha a che vedere la
parola con la carne?), poi ci viene da porre dei distinguo
(non è detto che tutto ciò che esce dalla bocca di Dio sia
parola). Possiamo poi fare delle dotte disquisizioni sulla
traduzione: Giovanni fa riferimento a un originale aramaico
che privilegia il termine “carne” rispetto a quello greco di
“corpo”. Possiamo ancora disquisire sul fatto che Dio ha
creato tutto con la parola, e dunque anche ogni forma di
cibo per l’uomo e che pertanto con l’espressione «quanto
esce dalla bocca del Signore» significa «tutta quella parte
del creato creata per l’alimentazione umana»; oppure che la
parola – quella sacra contenuta nella Bibbia, o meglio nella
Legge e nei Profeti – rappresenti per noi un nutrimento
spirituale per lo meno tanto necessario quanto quello
corporeo. Possiamo infine ricordare il Vangelo di Matteo
che riporta la preghiera che Gesù ha insegnato al cui interno
c’è la frase «Dacci oggi il nostro pane quotidiano» e che
l’espressione “quotidiano” è stata resa anche con
“necessario”, “sufficiente”, “sovrasostanziale”. Tutte
operazioni intellettuali più che legittime, che forse ci
aiutano ad avvicinarci – in punta di piedi se vogliamo – al
mistero celebrato oggi di un Dio che si fa tutto in tutti.
169
In dialogo con l’anno A
Tempo ordinario – Venerdì dopo la 2a domenica dopo
Pentecoste – Sacratissimo Cuore di Gesù
Letture: Deuteronomio 7, 6-11; I Giovanni 4, 7-16; Matteo
11, 25-30.
Nella tradizione cristiana, ma non solo, il cuore rappresenta
l’intima essenza della persona, il suo sancta sanctorum e la
sede della vita. Che cosa rappresenta quindi il cuore di
Gesù? Potremmo dire che, essendo lui Figlio di Dio, il
cuore di Gesù è il luogo per antonomasia della Shekhinah,
la presenza di Dio nel mondo. Dice Giovanni: «Chiunque
confessa che Gesù è il Figlio di Dio, Dio rimane in lui ed
egli in Dio» (I Giovanni 4, 15). Da ciò possiamo dedurre
che il cuore di chi confessa che Gesù è il Figlio di Dio può
diventare luogo della Shekhinah. Che nella Nuova Alleanza
il tempio perda piano piano la sua importanza lo sappiamo
dal Vangelo di Giovanni quando Gesù dice alla Samaritana:
«Viene un’ora, anzi è già venuta, in cui gli uomini
adoreranno il Padre guidati dallo Spirito e dalla verità di
Dio» (Giovanni 4, 23). E che sempre nella Nuova Alleanza
il corpo, innanzitutto quello di Cristo, sostituisca il tempio
stesso lo sappiamo sempre dal Vangelo di Giovanni quando
Gesù risponde ad alcuni capi ebrei che gli chiedono conto
del fatto che ha scacciato dal tempio i mercanti:
«“Distruggete questo tempio! In tre giorni lo farò
risorgere”. Quelli replicarono: “Ci sono voluti quarantasei
anni per costruirlo, questo tempio, e tu in tre giorni lo farai
risorgere?” Ma Gesù parlava del tempio del suo corpo»
(Giovanni 2, 19-21). E ancora nel racconto della morte
corporea di Gesù troviamo scritto: «Ma Gesù di nuovo
gridò forte, e poi morì. Allora il grande velo appeso del
tempio si squarciò in due, da cima a fondo» (Matteo 27,
170
In dialogo con l’anno A
51). Di quest’identità, o perlomeno analogia, tra tempio e
corpo troviamo testimonianza anche nelle parole di Paolo
che in I Corinzi 6, 19 dice: «Non sapete che il vostro corpo
è tempio dello Spirito Santo?» Sembra dunque lecito,
accanto all’analogia tra tempio e corpo, azzardare
un’identità simbolica tra Santo dei Santi e Cuore,
perlomeno quello di Gesù, con tutte le deduzioni che se ne
possono trarre, prima di tutte la manifestazione nel Cuore
della Shekhinah. Da questo si può dedurre che se, come ci
indica Giovanni nella sua prima lettera “Dio è amore” (4,
16), il Cuore diviene sede dell’amore. Come vuole la
tradizione, anche popolare (e stranamente come vuole
anche la tradizione indù che identifica anch’essa in
Anahata, il chakra del cuore, la sede dell’amore). Nuova
Alleanza e dunque nuovo tempio e dunque nuovo Santo dei
Santi. E da qui riparte la nuova legge che Gesù ci invita a
seguire con queste parole: «Venite a me, voi tutti che siete
stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio
giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile
di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo
infatti è dolce e il mio peso leggero» (Matteo 11, 29-30).
Un Gesù non nella mandorla (o mandala?), ma egli stesso
mandorla (o mandala?): dura scorza con i mercanti nel
tempio, con i farisei ipocriti e con i capi dei sacerdoti, ma
con un cuore di dolce polpa che ristora per gli affaticati e
gli oppressi. Tempio e Santo dei Santi, scorza e polpa della
mandorla, corpo e Cuore di Gesù: tre simboli su cui vale la
pena di meditare. Come vale la pena di meditare su cosa
può significare oggi, in un’epoca di mercificazione del
corpo, la cacciata dei mercanti dal tempio.
171
In dialogo con l’anno A
ALTRE RIFLESSIONI
Bibbia e alimentazione
Il giorno dopo, mentre essi erano in cammino e stavano
avvicinandosi alla città, Pietro salì sulla terrazza a
pregare: era quasi mezzogiorno. Gli venne fame e voglia di
mangiare. Mentre gli preparavano il pranzo, Pietro ebbe
una visione. Vide il cielo aperto e qualcosa che scendeva:
una specie di tovaglia grande, tenuta per i quattro angoli,
che arrivava fino a terra. Dentro c’era ogni genere di
animali, di rettili e di uccelli. Allora una voce gli disse:
“Pietro, alzati! Uccidi e mangia!” Ma Pietro rispose: “Non
lo farò mai, Signore, perché io non ho mai mangiato nulla
di proibito o di impuro”. Quella voce per la seconda volta
gli disse: “Non devi considerare impuro quel che Dio ha
dichiarato puro”. Questo accadde per tre volte; poi,
all’improvviso, tutto fu risollevato verso il cielo (Atti 10, 915).
Questo passo degli Atti degli Apostoli è stato reiteratamente
interpretato come risolutivo dell’empasse in cui si
trovavano gli apostoli, Ebrei, quando cominciarono la loro
missio ad gentes e vennero a contatto con popoli che non
rispettavano le leggi di purità sancite dal Levitico. Si è
voluto vedere nell’episodio narrato una totale abrogazione
da parte di Dio delle norme che regolavano l’alimentazione
degli Ebrei, ritenendo – si spera in buona fede – che tale
abrogazione andava estesa a tutti i cibi di tutti i popoli e
giungendo a dire che il discepolo di Cristo non era più
sottoposto ad alcun obbligo particolare relativo
172
In dialogo con l’anno A
all’alimentazione. Ciò allo scopo di facilitarne la sua opera
di diffusione del messaggio di Gesù nel mondo. Ora, posto
che il passaggio citato sembra non dire affatto questo – il
Signore sta parlando di quel preciso cibo che presenta a
Pietro e non di tutto il cibo (e inoltre il passo non dice che
Pietro mangia) – e posto che un’abrogazione totale delle
norme di purità in materia di alimentazione non è cosa
applicabile da nessuna parte (sennò, perché noi occidentali
non ci sfamiamo con la carne dei ratti, o dei cani, o persino
umana?), ci sono nella Bibbia altri passi, senz’altro
autorevoli quanto questo, in cui si parla di cibo in altri
termini. In Genesi 2, 15-17 «Dio, il Signore, prese l’uomo e
lo mise nel giardino di Eden per coltivare la terra e
custodirla. E poi gli ordinò: “Puoi mangiare il frutto di
qualsiasi albero del giardino, ma non quello dell’albero che
infonde la conoscenza di tutto”»: questo passo, in assenza
di altre precisazioni, pare dire che “In principio”
l’alimentazione umana corretta consistesse in soli frutti
degli alberi e della terra. Nello stato edenico, cui l’uomo
dall’inizio è destinato, non si fa menzione da parte di Dio di
alimentazione carnea. Tale forma di cibo fa la sua comparsa
solo dopo il diluvio, quando Dio dice a Noè: «Tutti gli
animali: il bestiame, gli uccelli, gli animali selvatici e i
pesci, avranno timore e paura di voi. Di tutti potrete
disporre: vi do per cibo tutto ciò che si muove e ha vita,
come vi ho dato le piante» (Genesi 9, 2-3). Poi vengono le
limitazioni – «Non dovrete però mangiare la carne con il
sangue: perché nel sangue c’è la vita» (Genesi 9, 4) e quelle
già menzionate del Levitico. Se poi arriviamo alla fine del
testo cristiano della Bibbia, troviamo ad opera dell’apostolo
Giovanni una descrizione dell’ambiente in cui prende
dimora l’uomo prima decaduto e ora reintegrato
173
In dialogo con l’anno A
nell’originario stato edenico grazie al sacrificio del Cristo.
Tale ambiente – la Città di Dio – è così profetato: «Nulla di
impuro vi potrà entrare, nessuno che pratichi la corruzione
o commetta il falso. Entreranno soltanto quelli che sono
scritti nel libro della vita che appartiene all’Agnello… In
mezzo alla piazza della città, da una parte e dall’altra del
fiume, cresceva l’albero che dà la vita. Esso dà i suoi frutti
dodici volte all’anno, per ciascun mese il suo frutto… Beati
quelli che lavano i loro abiti nel sangue dell’Agnello: essi
potranno cogliere i frutti dell’albero che dà la vita»
(Apocalisse 21, 27. 22, 2. 22, 14). Qui si fa menzione
esclusivamente del frutto dell’albero della vita, ad indicare
in esso la vera alimentazione del credente redento.
174
In dialogo con l’anno A
«Tu che abiti al riparo dell’Altissimo
e dimori all’ombra dell’Onnipotente,
di’ al Signore: “Mio rifugio e mia fortezza,
mio Dio, in cui confido”».
I Salmi, nella loro totalità, rappresentano la più completa
forma di preghiera presente nella Bibbia. Tessono, nella
loro stesura, il rapporto del fedele con Dio offrendo al
contempo una completa antropologia ed una completa
teologia. Sono libro di preghiera e di poesia e come ogni
opera poetica che si rispetti contengono delle parti che sono
sintesi e cifra della loro totalità e, a volte, della totalità tout
court.
È questo il caso del passo sopracitato, incipit del Salmo 90;
chiama in causa l’uomo e Dio e ne descrive il reciproco
rapporto. L’uomo vi è nominato come uno che abita:
l’abitare dell’uomo rappresenta la caratteristica costitutiva
del suo essere nel mondo. Dio lo ha creato, a suo tempo,
per abitare l’Eden ed ora si trova ad abitare il mondo e a
dimorarvi. L’uomo è uno che abita e che dimora. Qual è
l’elemento caratterizzante di questo abitare? Lo stare al
riparo, all’ombra. L’immagine metaforizza un paesaggio
desertico dove ci si rifugia dietro le rocce in caso di
tempesta e ci si difende dal calore del sole sotto le tende.
L’immagine richiama quindi l’idea di un abitare in un
ambiente che può anche presentare segni di ostilità, di
pericolo. Ma a questo c’è riparo, c’è rimedio. Come nel
deserto ci si ripara all’ombra di una roccia, di una palma, di
una tenda, così nell’esistere il fedele si ripara all’ombra di
Dio, che qui viene presentato nei due Santi Nomi di
“Altissimo” e “Onnipotente”. Se la condizione e la
costituzione dell’uomo possono essere sintetizzati in
175
In dialogo con l’anno A
quattro versi non così è per Dio di cui vengono richiamate
soltanto due delle settantadue caratteristiche espresse dai
suoi Nomi; ma sono caratteristiche importanti: è Altissimo
rispetto all’uomo che, in quanto creatura, dimora più in
“basso”, è Onnipotente rispetto a un uomo che “può”
limitatamente.
Il terzo verso si apre con l’esortazione rivolta all’uomo «Di’
al Signore». Dopo l’abitare altro elemento costitutivo
dell’uomo è la parola. Già nell’Eden (Gn 2, 19) l’uomo
veniva presentato come uno che parla, che dice. Ora viene
esortato a rivolgersi al Signore esprimendo una
lode/preghiera che ne approfondisce il rapporto di vicinanza
e di “confidenza”. Dio, nella sua infinita perfezione e
benevolenza, continua a rapportarsi con l’uomo tramite la
parola; l’uomo nella sua creaturalità e “debolezza” si
rapporta con Dio tramite la parola.
176
In dialogo con l’anno A
I Cor 1, 22-25
«I Giudei infatti chiedono miracoli e i Greci cercano la
sapienza, ma noi predichiamo Cristo crocifisso, che per i
Giudei è scandalo, e per gli stranieri pazzia».
Così scrive San Paolo nella I Lettera ai Corinzi. A questo
riguardo una prima osservazione riguarda l’importanza del
sacrificio nella tradizione ebraica. Consacrazione e
sacrificio consegnano a Dio qualcosa o qualcuno che passa
dalla sfera terrena a quella celeste e le mette in
comunicazione. A dire la verità nella tradizione ebraica
tutto è consacrato a Dio (il primo maschio, il tempio, la
lingua, la Scrittura, la terra promessa, il popolo ebraico, il
Sabato) ed è tramite con Lui. Gesù, consacrato al Padre,
nella crocifissione viene “riconsegnato” a lui, riconsacrando
e traendo con sé quella parte di mondo che «ha ascoltato e
messo in pratica» la sua parola.
Alcuni di noi talvolta si chiedono: «Ma quale necessità
aveva Dio di sacrificare suo figlio?».
Una prima risposta, forse non molto ispirata ma certo non
priva di buon senso, prende le mosse dalla promessa di Dio
dopo il diluvio: «Non maledirò mai più il mondo a causa
dell’uomo. È vero che fin dalla sua giovinezza egli ha in
cuore solo intenzioni malvagie. Tuttavia io non distruggerò
mai più tutti gli esseri viventi come ho fatto questa volta»
(Gn 8, 21). Aggiungiamo poi che la storia ha attestato un
certo difetto d’udito nei confronti dei profeti ispirati.
Consideriamo infine i numerosi mali che attanagliavano
l’umanità ai tempi della venuta di Gesù: quella volta vi
erano sopraffazione dell’uomo sull’uomo, schiavitù,
idolatria, materialismo, spettacolarizzazione della morte
violenta, guerre (quante guerre di liberazione aveva dovuto
177
In dialogo con l’anno A
affrontare lo stesso popolo eletto?), pena di morte,
infanticidi, pedofilia “orge e ubriachezza”’ in genere le
chiama San Paolo, povertà, fame e, come si usa dire oggi,
quant’altro. Quella volta!
Certo il mysterium magnum del sacrificio di Gesù non pare
cosa sondabile dalla ragione o dal senso comune, ma – viste
le premesse fatte sopra –, risulta abbastanza comprensibile
la necessità di un intervento dall’alto.
E allora, grazie a questo, forse avremo anche la sapienza,
forse anche i miracoli. Il testo di Paolo infatti continua:
«ma per quelli che sono chiamati, tanto Giudei quanto
Greci, predichiamo Cristo, potenza di Dio e sapienza di
Dio; poiché la pazzia di Dio è più saggia degli uomini e la
debolezza di Dio è più forte degli uomini».
178
In dialogo con l’anno A
Matteo 13, 52
Allora disse loro: «Perciò ogni scriba, divenuto discepolo
del regno dei cieli, è simile a un uomo, padrone di casa, che
trae fuori dal suo tesoro cose nuove e cose antiche».
Spesso ci troviamo di fronte a passi del nostro testo sacro
che ci provocano una particolare risonanza interiore, che
chiedono di essere approfonditi, che promettono di offrire
una via d’uscita dai labirinti che spesso la vita quotidiana ci
pone d’innanzi o, meglio, intorno. Una guida, una
reminiscenza nel cammino a volte arduo verso la casa del
Padre. A volte però sono misteriosi, riusciamo a coglierne
stentatamente il senso, non tutto ci è chiaro e lampante, ne
comprendiamo agevolmente una parte, ma un’altra ci pone
delle difficoltà di interpretazione.
Nel testo di Matteo 13,52 sopracitato appare chiaro che,
quando ci mettiamo in ascolto della parola di Gesù, lo
scriba siamo noi stessi, siamo il discepolo del regno dei
cieli, siamo il padrone di casa; meno lampante è che cosa
sia il tesoro e che cosa le cose vecchie e nuove che ne
possiamo trarre. La principale ipotesi è che il tesoro
rappresenti la Sacra Scrittura stessa; le cose antiche, gli
episodi della storia della salvezza che vi vengono narrati,
l’intervento di Dio a favore del suo popolo, la
prefigurazione del Messia, ecc.; le cose nuove la
predicazione stessa di Gesù, l’annuncio del Vangelo, le
verità via via rivelate ai suoi discepoli dallo Spirito Santo
dopo la Pentecoste («Ma il Consolatore, lo Spirito Santo,
che il Padre manderà nel mio nome, vi insegnerà ogni cosa
e vi ricorderà tutto quello che vi ho detto» Giov 14, 26).
Possiamo arrestarci un po’ su questa corrispondenza, ed
ampliarla, approfondire la metafora: lo scrigno contiene,
179
In dialogo con l’anno A
solitamente, ori e gemme; le gemme riflettono la luce, come
i passi della Scrittura riflettono la luce della Sapienza
divina; come l’oro è il più nobile fra i metalli, così quella
sacra è la più nobile fra le scritture.
Caccia al tesoro e nascondino sono giochi da bambini.
Quando ci avviciniamo alla Scrittura torniamo in parte ad
essere quei bambini che Gesù ci invita ad essere in un altro
passo del Vangelo e giocando all’interpretazione infinita
delle metafore contenutevi cerchiamo di scoprire gli infiniti
significati che la Sua divina bontà vi ha nascosto.
E nella vita quotidiana? Queste metafore hanno senso anche
per noi oggi, o sono “solo” un gioco da esegeta? Anche
oggi, forse, possiamo trovare dei tesori di bene da cui trarre
ori e gemme, non così splendenti, non così preziosi, ma pur
sempre da far ammirare; in un paesaggio, in una storia che
ci viene raccontata, in un’opera d’arte, in un libro che
leggiamo o scriviamo; a volte dentro di noi, a volte nelle
persone che abbiamo accanto.
180
SOMMARIO
In dialogo con l’Anno A
Tempo di Avvento – 1a domenica
Tempo di Avvento – 2a domenica
Tempo di Avvento – 3a domenica
Tempo di Avvento – 4a domenica
Tempo di Natale – Messa vespertina della vigilia
Tempo di Natale – Messa della notte
Tempo di Natale – Messa dell’aurora
Tempo di Natale – Messa del giorno
Tempo di Natale – Santa Famiglia
Tempo di Natale – Maria SS. Madre di Dio
Tempo di Natale – 2a domenica dopo Natale
Tempo di Natale – Epifania del Signore
Tempo di Natale – Battesimo del Signore
Tempo di Quaresima – 1a domenica
Tempo di Quaresima – 2a domenica
Tempo di Quaresima – 3a domenica
Tempo di Quaresima – 4a domenica
Tempo di Quaresima – 5a domenica
Settimana Santa – Giovedì Santo – Messa del crisma
Settimana Santa – Giovedì Santo – Cena del Signore
Settimana Santa – Venerdì Santo – Passione del Signore
Triduo pasquale – Veglia pasquale – Risurrezione del Signore
Triduo pasquale – Domenica di Pasqua
Tempo di Pasqua – 2a domenica
Tempo di Pasqua – 3a domenica
Tempo di Pasqua – 4a domenica
Tempo di Pasqua – 5a domenica
Tempo di Pasqua – 6a domenica
Tempo di Pasqua – 7a domenica – Ascensione del Signore
Tempo di Pasqua – 7a domenica
Tempo di Pasqua – Pentecoste – Messa vespertina della vigilia
Tempo di Pasqua – Domenica di Pentecoste – Messa del giorno
Tempo ordinario – 2a domenica
Tempo ordinario – 3a domenica
Tempo ordinario – 4a domenica
Tempo ordinario – 5a domenica
Tempo ordinario – 6a domenica
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83
85
88
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Tempo ordinario – 7a domenica
Tempo ordinario – 8a domenica
Tempo ordinario – 9a domenica
Tempo ordinario – 10a domenica
Tempo ordinario – 11a domenica
Tempo ordinario – 12a domenica
Tempo ordinario – 13a domenica
Tempo ordinario – 14a domenica
Tempo ordinario – 15a domenica
Tempo ordinario – 16a domenica
Tempo ordinario – 17a domenica
Tempo ordinario – 18a domenica
Tempo ordinario – 19a domenica
Tempo ordinario – 20a domenica
Tempo ordinario – 21a domenica
Tempo ordinario – 22a domenica
Tempo ordinario – 23a domenica
Tempo ordinario – 24a domenica
Tempo ordinario – 25a domenica
Tempo ordinario – 26a domenica
Tempo ordinario – 27a domenica
Tempo ordinario – 28a domenica
Tempo ordinario – 29a domenica
Tempo ordinario – 30a domenica
Tempo ordinario – 31a domenica
Tempo ordinario – 32a domenica
Tempo ordinario – 33a domenica
Tempo ordinario – 34a domenica
Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’Universo
Tempo ordinario – 1a domenica dopo Pentecoste
Santissima Trinità
Tempo ordinario – 2a domenica dopo Pentecoste
Santissimo Corpo e Sangue di Cristo
Tempo ordinario – Venerdì dopo la 2a domenica dopo Pentecoste
Sacratissimo Cuore di Gesù
Altre riflessioni
Bibbia e alimentazione
“Tu che abiti…
I Cor 1, 22-25
Matteo 13, 52
p. 93
p. 96
p. 98
p. 100
p. 103
p. 105
p. 107
p. 109
p. 112
p. 115
p. 118
p. 121
p. 124
p. 127
p. 130
p. 132
p. 135
p. 138
p. 141
p. 144
p. 147
p. 149
p. 152
p. 154
p. 156
p. 159
p. 161
p. 163
p. 165
p. 168
p. 170
p. 172
p. 175
p. 177
p. 179
Prima Edizione
Novembre 2013