Il bisogno di un Commonwealth europeo

Il bisogno di un
Commonwealth europeo
di Adrian Pabst
Docente di Politica
all’Università del Kent e
visiting professor presso
l’Institut d’Etudes
Politiques di Lille,
Francia
L’attuale crisi europea è stata correttamente definita una crisi esistenziale. Si può
affermare che il dissesto dell’Eurozona sia sintomatico di un malanno più profondo,
che va oltre il fallimento di un accordo politico-economico. Di certo non è una
coincidenza che il declino demografico e culturale del continente si verifichi in parallelo alla sua crescente de-cristianizzazione: anche se la rinascita intellettuale
delle Chiese episcopali lascia sperare in una ripresa numerica.1
Vale la pena di ricordare che, nella seconda metà del Novecento, l’Europa è arrivata
per due volte sull’orlo del collasso e dell’autodistruzione. Dapprima, la Dichiarazione Schuman del 1950 e il Trattato di Roma del 1957 hanno messo fine alla
Guerra civile europea del 1914-1945. In seguito, il Trattato di Maastricht del 1992
ha posto le basi per l’unione di quelli che Papa Giovanni Paolo II chiamava i «due
polmoni» d’Europa, l’Est e l’Ovest: che erano legati da una comune storia cristiana
ma erano stati arbitrariamente separati nell’era secolare della Guerra fredda, come
ci ha ricordato Papa Benedetto XVI nel 2007.2
Tuttavia, il «patto fiscale» siglato nel marzo 2012 non è una di queste tappe storiche. Al contrario, questo «grande balzo in avanti» imprigiona i membri dell’Eurozona in una camicia di forza fiscale che condanna la periferia a una recessione
permanente e il resto dell’unione monetaria a una miscela tossica di crescita stentata e alta disoccupazione.
Tutto ciò non farà che erodere ulteriormente i modelli sociali dell’Unione e la cultura
civile dell’Europa. Entrambe poggiano su un amalgama di fede e ragione, e in ultima
analisi soggiaciono alla peculiare tradizione del continente, basata sulle istituzioni
mediatrici della società civile, in cui sono integrati mercati e Stati. Se l’Europa continua ad autodistruggersi, allora il mondo sarà dominato da varie forme di capitalismo
predatorio e clientelare, più o meno orientate dai mercati o dettate dagli Stati.
L’accordo europeo: logica funzionalista e ordoliberalismo
Negli ultimi cinquant’anni circa, l’integrazione economica europea ha stimolato
l’unificazione politica e la convergenza sociale tra Paesi divisi e strutturalmente diversi; e ha promosso la ricerca di un impianto istituzionale in grado di bilanciare gli
interessi dei suoi ventisette membri, e al contempo di sostenere le aspirazioni
dell’UE a diventare un attore globale sulla ribalta del mondo.
Tuttavia, il Trattato di Roma affermava una logica funzionalista che stabiliva il pri-
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mato degli scambi economici e dell’armonizzazione giuridica a scapito della condivisione di ideali politici e pratiche culturali comuni. Con il tempo, ciò ha rafforzato
la moderna «dis-integrazione» della sfera economica dall’ordine sociale e una reintegrazione del sociale nell’economico.3
Nel caso dell’Europa, questo fenomeno si concretizza nella creazione di un singolo
mercato burocraticamente regolamentato, che ha assunto la precedenza sulla solidarietà sociale e la sostenibilità ecologica. Legata alla priorità dell’economico sul
sociale è la tendenza a subordinare la dignità della persona umana e delle relazioni
interpersonali allo Stato centrale e al «libero» mercato, che convergono a spese
delle istituzioni mediatrici della società civile.
Questo aspetto, unito al declino demografico e a una crescente disconnessione delle
élites dalla cittadinanza, ha minato l’identità culturale condivisa degli europei, che il
cristianesimo aveva contribuito a forgiare. Ciò, a sua volta, ha svuotato di senso i valori universali, derivati dalla sintesi cristiana di virtù antiche e bibliche, da cui dipendono le democrazie dinamiche e le economie di mercato. L’Europa sembra somigliare
sempre di più a uno «Stato-mercato» autoritario che fonde elementi di post-democrazia e oligopolio e il dominio di una classe parzialmente criminale. «Senza giustizia,
cos’è lo Stato se non una grande banda di ladri?» scriveva sant’Agostino.
L’Unione monetaria europea e il patto fiscale hanno esacerbato questa tendenza,
instaurando un regime punitivo nei confronti degli Stati membri più indebitati
senza però risolvere le cause fondamentali del loro indebitamento: non lo sperpero
fiscale (tranne nel caso della Grecia), ma piuttosto gli squilibri nella bilancia dei
pagamenti e i differenziali di produttività fra centro e periferia. Questo regime normativo riflette le preferenze della Germania e si fonda sull’ordoliberalismo, una tradizione intellettuale sviluppata da economisti come Walter Eucken, Franz Böhm,
Leonhard Miksch e Hans Großmann-Doerth in risposta sia allo sfrenato liberalismo
del lasseiz-faire capitalista, sia all’interventismo statalista fatto di centralismo fiscale e attivismo monetario.
Al cuore dell’ordoliberalismo c’è l’idea che l’obiettivo principale del governo sia assicurare la competizione sui mercati e l’efficienza dell’economia tramite interventi
regolatori e distribuzione delle risorse. Se quest’ultimo obiettivo è simile alla tradizione cattolica del distributismo, e ha realmente un potenziale trasformativo, la
prima invece rafforza il centralismo statale e fonde il libero mercato con la forza
dello Stato. Ciò contribuisce a spiegare come mai sia il governo tedesco sia quello
francese abbiano abbracciato l’ordoliberalismo.
Il problema è che la logica ordoliberale non è ristretta alla moneta unica, ma si
propaga nel resto dell’Unione attraverso il mercato unico. Il Trattato di Lisbona, siglato nel 2007 e infine ratificato nel 2009, inserisce nel proprio quadro concettuale
la nozione di «economia sociale di mercato», ma finora non ha fatto nulla per opporsi all’egemonia della Commissione e alla sua ossessione di armonizzare dall’alto
produzione e commercio.
Nel frattempo, sono emersi monopoli e cartelli in un’ampia gamma di settori, come
le banche, la finanza, le assicurazioni, l’edilizia, il commercio e i supermercati. Questo ha rinforzato la centralizzazione del potere e la concentrazione della ricchezza.
Lo svuotamento della sussidiarietà
Unendo elementi
del collettivismo
pubblico ad aspetti
dell’individualismo
privato, lo «Statomercato» ha
emarginato il ruolo
mediatore dei
gruppi e delle
istituzioni civili.
Il problema di fondo è che entro l’Unione l’idea di sussidiarietà è stata separata da
una concezione sostanziale della giustizia e ridotta al senso formalistico di una distribuzione di poteri e competenze tra livelli rivali del processo decisionale. Nella pratica,
la sussidiarietà è stata usata o per trasferire poteri all’UE o per rinazionalizzarli, trascurando i livelli inferiori come le regioni, le amministrazioni locali e di quartiere. Invece di piazzare al centro della politica la persona, la famiglia e i gruppi intermedi,
l’Unione e i suoi membri strumentalizzano la sussidiarietà per promuovere gli interessi del centro sovranazionale o degli Stati nazionali; o di entrambi al contempo. Paradossalmente, se la minaccia della centralizzazione è così endemica è proprio perché
l’UE non è una vera federazione sussidiaria con poteri chiari e definiti. Questo a sua
volta ha allontanato ulteriormente il sistema politico ed economico europeo dalla
cultura e dalla società in cui dovrebbe essere integrato.
Così, la razionalità economica che soggiace alla logica funzionalista del metodo comunitario di Monnet favorisce una maggiore concentrazione di ricchezza e una crescente centralizzazione del potere. Privilegiando standard astratti e regole formali,
depotenzia inoltre i concreti legami interpersonali e gli schemi di comportamento informali e virtuosi come la fiducia o la condotta etica, senza cui non possono funzionare né i diritti costituzionali-giuridici né i legami economico-contrattuali. Dunque,
la «razionalità economica» deve essere radicalmente allargata e reintegrata in una
cultura politica che veda le istituzioni mediatrici della società civile come prioritarie rispetto allo Stato centrale e al «libero» mercato.
Il primato dell’integrazione economica su un progetto politico comune, che è implicito nella razionalità economica del funzionalismo, caratterizza i due modelli dominanti dell’integrazione europea e dell’allargamento: lo statalismo franco-tedesco e
il fondamentalismo del mercato di matrice anglosassone. Questi modelli hanno
proposto visioni apparentemente alternative dell’Europa, ma entrambi sposano varianti del liberalismo economico e sociale con l’effetto di minare i valori sostanziali
condivisi e le pratiche virtuose.
Marginalizzando le economie locali e regionali, oltre alla società civile transnazionale, entrambi i modelli hanno alimentato una crescente polarizzazione socioeconomica e un sempre maggiore scollamento delle élites dominanti dalla cittadinanza
europea. Attraverso il controllo burocratico o gli scambi commerciali (o entrambe
le cose), le visioni franco-tedesca e anglosassone dell’Europa hanno esteso la mercificazione della forza lavoro, delle relazioni interpersonali e della natura.
Tutto ciò, unito alla sempre più marcata finanziarizzazione dell’economia, ha subordinato la santità della vita e della terra allo «Stato-mercato». Unendo elementi
del collettivismo pubblico ad aspetti dell’individualismo privato, lo «Stato-mercato»
ha emarginato il ruolo mediatore dei gruppi e delle istituzioni civili. All’estremo, ha
rimpiazzato i riferimenti al sacro con la sacralità laica del potere e della ricchezza.
L’economia civile e il Commonwealth europeo
Ma, allo stesso tempo, l’UE non è né un super-Stato federale franco-tedesco né la
pura area di «libero scambio» glorificata dagli anglosassoni. Piuttosto, e malgrado
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le sue tante imperfezioni, l’Unione si potrebbe definire un ordinamento neomedievale con un sistema politico sui generis. Questo ordinamento si estende oltre i confini dell’UE e ricomprende la pan-Europa, di cui fanno parte anche potenze europee
come Russia, Turchia e Ucraina. Con le strutture dell’UE e del Consiglio d’Europa,
l’ordinamento pan-europeo è caratterizzato da istituzioni ibride, giurisdizioni parzialmente sovrapposte, autorità policentrica e governance a più livelli, entro e tra le
località, le regioni e le nazioni.4 Così, l’Europa è già più simile a un Commonwealth.
In questo senso, l’ordinamento europeo è davvero neomedievale: perché unisce giurisdizioni parzialmente sovrapposte e appartenenza multipla a una focalizzazione contemporanea sulle reti transnazionali e sulle istituzioni e gli attori della «società civile
globale». Di fatto, modalità di associazione e corporazione si applicano a realtà locali,
comunità, città, regioni e Stati. Legata a ciò è l’idea che la «società internazionale»
sia l’intersezione di vari livelli associativi, «annidati» uno dentro l’altro, che cerca di
inserire la politica e l’economia nelle relazioni sociali e nei legami civili: un vero Commonwealth di nazioni in cui il livello nazionale sappia mediare le giuste rivendicazioni delle regioni con le giuste rivendicazioni dell’Europa intera.
Ciò suggerisce che anche le nazioni possano affermare e promuovere relazioni di
aiuto e assistenza reciproca. In tal modo, l’Europa offre una visione di democrazia
associativa e di economia civile che va oltre lo Stato centrale autoritario e i suoi
tentativi di regolamentare l’anarchico «libero mercato» transnazionale.5 Questa visione si ispira ai principi gemelli del cattolicesimo – sussidiarietà e reciprocità fraterna – che hanno plasmato l’intero progetto dell’integrazione e dell’allargamento
europeo, prima di essere messe da parte negli anni Settanta e Ottanta.6
Come ha osservato il cardinale Angelo Scola, le origini di questo ordinamento politico autenticamente europeo rimontano a una lunga tradizione, che vede nell’Europa non il fondamento ma piuttosto il continuo dispiegarsi della fusione
ellenistica tra Gerusalemme e Atene.7 Sulla base della distinzione giudeo-cristiana
tra l’autorità politica e quella religiosa, è progressivamente emerso uno «spazio libero» tra l’ambito politico e la società, in cui la politica non è monopolizzata dallo
Stato, ma è di pertinenza della sfera pubblica a cui partecipano individui e gruppi.
In effetti, la Chiesa – intesa nel senso di una rete di parrocchie, monasteri, ordini
religiosi internazionali e patriarcati transnazionali di Roma, Costantinopoli e Canterbury – ha difeso la libertà della società dalla coercizione politica e dallo sfruttamento economico. In tal modo ha promosso lo sviluppo autonomo di autorità
cittadine, gilde, confraternite e camere di commercio, ospedali e conservatori, banchi dei pegni, municipalità e università. Sono queste le origini dell’economia civile
di mercato, che in Europa esisteva molto prima del capitalismo e promuoveva gli
scambi commerciali.8
Alla base di questo modello c’è l’idea che la «sfera» della società civile sia prioritaria rispetto allo Stato centrale e al «libero» mercato. In quanto «corporazione delle
corporazioni», il sistema politico europeo poggia su una cultura civile comune e su
legami sociali che sono più fondamentali dei diritti formali costituzionali-giuridici
e dei legami economico-contrattuali. Al contrario, il liberalismo moderno – basandosi sul calvinismo e sulla neoscolastica barocca – ha separato il contratto econo-
mico dal dono e ha scisso la sfera pubblica da quella privata. Via via che l’attività
economica si focalizzava sempre più sul profitto a scapito del bene comune a cui
tutti partecipano, l’economia civile di mercato si è gradualmente trasformata in un
ordine capitalista.
In questo processo, il mercato è diventato sinonimo di un perseguimento privato di
interessi individuali (massimizzare il profitto) mentre lo Stato veniva visto come difensore dell’interesse collettivo (obbligare alla solidarietà). Ben lungi dall’essere
diametralmente opposti, il politico e l’economico convergono a spese del sociale.
Così, il liberalismo ha privatizzato la sfera pubblica e al contempo ha espanso l’interferenza dello Stato nella sfera privata: un’alleanza pericolosa che si è incarnata
nello «Stato-mercato» autoritario.
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Conclusione
La crisi che oggi affligge l’UE offre un’occasione per tracciare una rotta che vada
oltre la nostra mappa concettuale contemporanea: un Commonwealth di nazioni e
un’economia civile di mercato. Paradossalmente, un’Europa che applichi i principi
universali di mutualità, reciprocità e fratellanza saprà rispondere alle esigenze locali e alla responsabilità globale: riuscendo a «svolgere la funzione di “lievito” per il
mondo intero», come ha affermato Papa Benedetto XVI nel cinquantesimo anniversario del Trattato di Roma.
1
A. Pabst, «The Western Paradox: Why the United States is more Religious but less Christian than Europe», in L. Leustean (a
ßcura di), Representing Religion in the European Union: Does God Matter?, Routledge, London 2012, pp. 220-235.
2
Benedetto XVI, Discorso ai partecipanti al congresso promosso dalla commissione degli episcopati della Comunità europea
(COMECE) nel cinquantesimo anniversario del Trattato di Roma, 24 marzo 2007, disponibile online su
http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/speeches/2007/march/documents/hf_ben-xvi_spe_20070324_comece_it.html
3
K. Polanyi, The Great Transformation. The Political and Economic Origins of Our Time, Beacon Press, Boston 1944 (trad. it. La
grande trasformazione, Einaudi, Torino 1974); K. Polanyi, The Livelihood of Man, Academic Press, New York 1977 (trad. it. La
sussistenza dell’uomo, Einaudi, Torino 1983).
4
J. Zielonka, Europe as Empire: The Nature of the Enlarged European Union, Oxford University Press, Oxford 2006.
5
L. Bruni e S. Zamagni, Civil Economy: Efficiency, Equity, Public Happiness, Peter Lang, Bern 2007 (trad. it. Economia civile: ef-
ficienza, equità, felicità pubblica, Il Mulino, Bologna 2004).
6
V.N. Zamagni, «The Political and Economic Impact of Catholic Social Teaching since 1891: Christian Democracy and Chri-
stian Labour Unions in Europe», in The True Wealth of Nations. Catholic Social Thought and Economic Life, ed. Daniel K. Finn,
Oxford University Press, Oxford 2010, pp. 95-115.
7
Card. A. Scola, Il contributo dei cristiani nel processo di integrazione europea, intervento tenuto a Cracovia il 10 settembre
2010, disponibile online su http://angeloscola.it/2010/09/15/“il-contributo-dei-cristiani-nel-processo-di-integrazione-europea”-il-testo-integrale-dellintervento-del-patriarca-alla-conferenza-internazionale/
8
S. Zamagni, «Catholic Social Teaching, Civil Economy, and the Spirit of Capitalism», in The True Wealth of Nations..., cit., pp.
63-93; M.C. Howell, Commerce before Capitalism in Europe, 1300-1600, Cambridge University Press, Cambridge 2010.