La funzione d`onda della realtà (LDS)

i libri di WUZ
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Fausto Intilla
La Funzione d’onda della realtà
L’eterno collasso di aspettative e convinzioni
nel processo sintropico
Lampi di stampa
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ISBN-10: 88-488-0533-7
ISBN-13: 978-88-488-0533-9
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www. lampidistampa. it
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Indice
Prefazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 9
PARTE I - TESTO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 13
Aspettative e convinzioni. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 15
Costruzioni mentali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 21
Le regole della percezione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 35
Il pensiero «magico» . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 45
Nascita della Suggestologia. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 55
L’approccio quantistico. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 63
I quanti e la PSI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 79
Mente, causalità e psicocinesi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 91
Guarigione intenzionale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 105
Simmetrie e sincronie. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 115
Psiche e Caos . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 119
Frattali e terapia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 127
Omeostasi e Caos. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 133
Il Caos… Patologico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 141
Memi e psicotecnologia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 157
Retrocausalità e terapia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 173
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PARTE II - ANALISI DEL TESTO. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
NOTE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
1) Talamo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
2) Superconduttività . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
3) Teorema di Bell. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
4)Principio di Indeterminazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
5) Funzione d’onda . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
6) Spin. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
7) Teoria del Caos. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
8) Attrattore . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
9) Sintropia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
10) Meme . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 201
Sitografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 205
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«Tu ne quaesieris, scire nefas, quem mihi, quem tibi
finem di dederint, Leuconoe, nec Babylonios
temptaris numeros. Ut melius, quidquid erit, pati,
seu plures hiemes, seu tribuit Iuppiter ultimam,
quae nunc oppositis debilitat pumicibus mare
Tyrrhenum: sapias, vina liques, et spatio brevi
spem longam reseces. Dum loquimur, fugerit invida
aetas: carpe diem, quam minimum credula postero».
Non domandarti – non è giusto saperlo – a me, a te
quale sorte abbian dato gli dèi, e non chiederlo agli astri,
o Leuconoe; al meglio sopporta quel che sarà:
se molti inverni Giove ancor ti conceda
o ultimo questo che contro gli scogli fiacca le onde
del mare Tirreno. Sii saggia, mesci il vino
– breve è la vita – rinuncia a speranze lontane. Parliamo
e fugge il tempo geloso: cogli l’attimo, non pensare a domani.
ORAZIO, «CARPE DIEM»
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Prefazione
Cari lettori,
questo volume, da considerarsi come una semplice digressione,in
rapporto ad alcuni argomenti trattati nel mio precedente libro
(Dio=mc2),vuol essere essenzialmente un tributo,un omaggio,a dei
grandi personaggi del mondo della scienza , le cui idee, rivestono una
notevole importanza nella comprensione di ciò che l’uomo chiama
comunemente: “Realtà”. Tali personaggi, vengono qui presentati,
in una raccolta di brevi articoli (esposti fedelmente in questo libro),
scritti dai più noti esponenti del panorama scientifico italiano,che
rispondono ai nomi di:
Ignazio Licata:
Licata è un fisico teorico. I suoi principali interessi riguardano
i fondamenti della meccanica quantistica, le teorie di campo,
le dinamiche non-lineari e l’approccio sistemico nello studio
della complessità. Recentemente le sue ricerche sono centrate
sui processi non-locali in teoria dei campi, sullo sviluppo di una
teoria della computazione dei sistemi formali continui in grado di
esibire comportamenti sub e super Turing, e sulla teoria semantica
dell’informazione (sistemi logicamente aperti).
Piergiorgio Odifreddi :
Laureato in matematica a Torino nel 1973,dal 1983 al 2002 ha
insegnato in Italia, alla Cornell University (USA) e in Russia.
Attualmente, è professore ordinario di logica matematica presso
l’Università di Torino.
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Renato Nobili:
Professore di fisica generale all’Università di Padova dal 1970 al
1984. Membro dell’ Acoustical Society of America.
Le sue ricerche andarono dalla fisica delle particelle elementari,alla
biofisica e alla biologia teorica ,fino al 1984.
Marco Mazzone:
Ricercatore all’Università di Catania. Docente di Filosofia del
Linguaggio e semiotica presso la Facoltà di Lingue e Letterature
Straniere.Membro del Dottorato in Scienze Cognitive all’Università
di Messina.Membro della Società Italiana di Filosofia Analitica
(SIFA) e di Filosofia del Linguaggio (SIFL).
Antonio Damasio:
Nato a Lisbona e laureato in medicina, Antonio Damasio opera
negli USA. Rappresenta una delle figure di maggior spicco a livello
mondiale nel campo delle neuroscienze. E’ autore di importanti
pubblicazioni sulla memoria, sulla fisiologia delle emozioni e sulla
malattia di Alzheimer nervosi che sono alla base dei processi cognitivi.
Membro di prestigiose associazioni, come l’European Academy of
Science and Arts e l’American Neurological Association.
Piero Scaruffi:
Poeta,storico e libero pensatore.Laureato in matematica nel 1980.
Risiede in California dal 1983.
Umberto Di Grazia:
Ricercatore psichico noto a livello internazionale,presidente
dell’Istituto di ricerca della Coscienza e promotore di un nuovo
modo di intendere le potenzialità umane.
Paolo Manzelli:
Ricercatore del Laboratorio di Ricerca Educativa della Universita’
di Firenze (in sigla LRE), per il progetto di innovazione
educativa denominato “Progettare il Futuro della Comunicazione
Interattiva”.
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Marco Zanasi:
Vive a Modena,e si è laureato in Scienze della formazione primaria
presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di
Bologna.
Stefano Monti:
Ricercatore sull’Intelligenza artificiale.Il suo sito web è:
http://www.cs.cmu.edu/~smonti
E per ultimi, ma non per questo meno importanti, i ricercatori/
trici Pier Luigi Aiazzi , Mario Pigazzini ,Stefano Siccardi e
Antonella Vannini. Mi scuso sin d’ora, se in tale elenco,ho omesso
involontariamente qualche personaggio noto o meno noto,i cui
articoli sono esposti,seppur in minima parte,nel presente volume.
FAUSTO INTILLA,
CADENAZZO, 11 OTTOBRE 2006.
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PARTE I - TESTO
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Aspettative e convinzioni
«Le convinzioni limitano,
le conoscenze rafforzano».
WAYNE W. DYER
«Il problema con il mondo è che gli stupidi
hanno assolute certezze e le persone
intelligenti sono piene di dubbi.»
BERTRAND RUSSELL
Convinzione, ecco una bella parolina per iniziare ad esplorare
alcuni aspetti del nostro subconscio, e i suoi legami con la realtà che
ci circonda. Se andassimo a cercare il significato di questo termine
sul vocabolario etimologico della lingua italiana, questo è ciò che
leggeremmo: «lat. CONVINCTIÒNEM da CONVICTUS, p. p. di
CONVINCERE sopraffare con argomenti (v. Convincere). – L’atto o
l’effetto del convincere; ma più specialmente lo Stato della mente resa
certa, da prove di fatto o da ragioni, dal vero di checchessia».
Ciò che a noi principalmente interessa comunque, per iniziare a
capire le varie connessioni e interdipendenze tra convinzioni (intese
come strutture mentali ben definite e dinamiche per certi aspetti) e
realtà fisica a noi circostante, non è tanto il significato etimologico dei
termini usati in tale contesto, bensì quello legato alla fenomenologia
dei cicli di cambiamento delle convinzioni, in rapporto ovviamente
alla realtà a noi circostante. In genere, ogni cambiamento di
convinzione, viene generalmente considerato da qualsiasi individuo,
un processo difficile e faticoso. Nell’arco di un’intera vita, è risaputo
che le persone cambiano in modo spontaneo e naturale, decine e
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decine se non addirittura centinaia di convinzioni; dalla meno
importante, e quindi poco determinante per la vita «decisionale»
della persona in questione, sino a quella più importante e quindi
assai influente su ogni aspetto della sfera «psichica-decisionale» di
tale persona.
In genere, quando cerchiamo di cambiare in modo prevalentemente
conscio le nostre convinzioni, lo facciamo al di fuori degli schemi
del ciclo naturale di cambiamento di tali convinzioni. Tentiamo
di cambiare le nostre convinzioni «reprimendole» o combattendo
contro di esse. In accordo con la teoria dell’auto-organizzazione,
le convinzioni cambierebbero attraverso un ciclo naturale nel quale
le parti del sistema di una persona che mantengono la convinzione
esistente diventano instabili. Una convinzione può essere considerata
come una specie di polo d’attrazione attorno a cui il sistema si
organizza. Quando il sistema è destabilizzato, la nuova convinzione
può essere assunta senza conflitto o violenza. Il sistema può essere
autorizzato a ristabilizzarsi attorno ad un nuovo punto di equilibrio
o di omeostasi. I sistemi organici cambiano spesso attraverso processi
che prendono la forma di cicli. Anche se il contenuto di questi cicli si
trasforma e cambia, la struttura profonda del ciclo rimane costante.
Dal punto di vista della teoria dei sistemi, i metodi terapeutici
coinvolgono una struttura nella quale un modello che esiste nel
«panorama» viene riaperto e quindi «destabilizzato» introducendo
nuove intuizioni e prospettive. Quando nuovi «poli d’attrazione»
vengono introdotti in questo stato instabile, sotto forma di nuova
comprensione e nuove risorse, il sistema naturalmente si riorganizza
attraverso «correzioni associative» in un nuovo modello stabile.
Questo ciclo naturale di cambiamento potrebbe essere assimilato
al cambiamento delle stagioni. Una nuova convinzione è come un
seme che viene piantato in primavera. Il seme cresce durante l’estate
e matura, diventa forte e mette radici. In autunno la convinzione
inizia a diventare superata ed appassita, l’obiettivo per cui è nata
è assolto. Comunque, i frutti della convinzione (le intenzioni
positive e le motivazioni che le stanno dietro) vengono conservate o
«mietute», e separate dalle parti che non sono più necessarie. Infine,
in inverno, le parti della convinzione che non servono più vengono
lasciate e scompaiono, permettendo al ciclo di ricominciare. Per
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esempio, mentre ci prepariamo per nuovi stadi nelle nostre vite o
carriere, noi «vogliamo credere» che saremo capaci di gestirle con
successo ed intraprendenza. Nel momento in cui entriamo in questo
stadio della vita ed impariamo le lezioni di cui abbiamo bisogno
per gestirlo, diventiamo «aperti a credere» che possiamo, nei fatti,
avere le capacità per avere successo. Quando le nostre capacità
vengono confermate, diventiamo certi della «convinzione» circa il
nostro successo e la nostra intraprendenza, e circa il fatto che ciò
che stiamo facendo è giusto per noi ora. Nel momento in cui questo
stadio nella nostra vita o del nostro lavoro inizia a passare, iniziamo
ad «aprirci al dubbio» che il successo e le attività associate a questo
stadio siano veramente le più importanti, prioritarie o ancora «vere»
per noi. Quando abbiamo passato questo stadio, possiamo ritrovarci
a guardare indietro e vedere che ciò che era importante e vero per
noi, ora non lo è più. Potremmo riconoscere che eravamo «abituati
a credere» di essere fatti in un certo modo e che certe cose erano
importanti, e potremmo conservare le convinzioni e le capacità che ci
aiuteranno in questa fase, ma realizziamo che i nostri valori, priorità
e convinzioni sono, ora, differenti.
Tutto ciò che si deve fare è guardare attraverso i cicli di
cambiamento che ognuno ha attraversato fin dalla fanciullezza e
dall’adolescenza, e gli stadi della vita adulta, per trovare esempi
di questo ciclo. Quando entriamo e passiamo attraverso relazioni,
lavori, amicizie, partnerships, eccetera, noi sviluppiamo convinzioni
e valori che ci sono funzionali, e li abbandoniamo nella transizione
verso nuove parti del nostro percorso di vita. Nei termini della teoria
dell’auto-organizzazione, possiamo riassumere questo ciclo come un
«panorama» che somiglia al diagramma seguente:
«Panorama» del Ciclo Naturale di Cambiamento delle Convinzioni
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Ciò che «vogliamo credere», ciò che «crediamo ora» e ciò che «eravamo
abituati a credere», sono come tre «bacini» nel panorama. Le esperienze e
le idee, entrambe percepite ed immaginate, che costruiscono la nostra vita
possono farci uscire o farci restare nel bacino. Se una persona visualizza
una particolare esperienza o idea come una palla o un ciottolo che può
passare attraverso il paesaggio, e quindi vuole muoversi dal voler credere
qualcosa al crederlo effettivamente, deve prima passare attraverso la parte
di paesaggio nella quale essere «aperto a credere». La parte di paesaggio
nella quale un individuo è «aperto a credere» qualcosa di nuovo è meno
stabile di quelle al fondo dei bacini su entrambi i lati, e qualche volta
richiede un investimento di energia per raggiungere questa parte del
paesaggio. Il bacino delle «convinzioni attuali» è più profondo degli altri
perché le idee cui attualmente crediamo sono generalmente più radicate
e più stabili rispetto a ciò che «vogliamo credere» o ciò a cui «eravamo
abituati a credere».
A volte richiede uno sforzo anche maggiore muovere una delle nostre attuali
convinzioni verso la parte meno stabile del panorama, nella quale possiamo
essere «aperti al dubbio». Una volta operata questa transizione, certi
aspetti della convinzione potrebbero ricadere nel bacino delle nostre attuali
convinzioni, mentre altre finire nella parte di paesaggio che comprende
quelle convinzioni che siamo consapevoli che «eravamo abituati a credere
vere», ma che non crediamo più vere. Quando qualcosa sta cambiando
o diventando instabile ad un certo livello, è utile introdurre stabilità al
livello appena superiore della «struttura profonda». Se, anziché cambiare
convinzioni, le persone stanno imparando una nuova abilità mentale o una
nuova capacità, per esempio, è utile per loro avere convinzioni e valori
stabili in relazione a quella particolare capacità. In altre parole, anche se
le persone sono incerte circa la nuova abilità, possono essere certe delle
convinzioni che col tempo riusciranno ad apprendere questa abilità e che
questa abilità è utile. Allo stesso modo, se una persona è in una situazione
in cui sta cambiando una convinzione o ha bisogno di installare una nuova
convinzione, sarà più semplice farlo se questa persona ha uno stabile senso
di identità.
Così, anche se la persona non sa più che cosa credere, continua comunque
a sapere chi lei è. In maniera simile, se l’identità di una persona sta
cambiando ed è divenuta instabile, potrebbe essere importante per questa
persona trovare un punto di stabilità ad un livello «spirituale» nei termini
del suo posizionamento all’interno del sistema più largo di cui lui o lei
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rappresenta una parte. L’esperienza del «credere» in qualcosa che va al
di là delle convinzioni di ognuno, o di credere in un sistema più esteso
rispetto a se stessi, può aiutare a rendere il processo di cambiamento
delle convinzioni più dolce, comodo ed ecologico. Nel guidare le persone
attraverso il processo di cambiamento delle loro convinzioni è importante
aver creato per loro uno spazio o un luogo per l’esperienza del «credere» in
qualcosa che va al di là delle loro convinzioni, che serve come una sorta di
«meta-posizione» per il resto del processo.
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Costruzioni mentali
«La verità è simile a Dio: non si rivela direttamente;
dobbiamo indovinarla dalle sue manifestazioni».
JOHANN WOLFGANG GÖTHE
«Il linguaggio e la mente hanno i loro limiti.
La verità è inesauribile»
VAUVENARGUES
Come si evince dal Sutra del loto (Sutra del loto - un invito alla
lettura; a cura di Maria Immacolata Macioti), l’inesprimibilità
della verità ultima, definitiva, fa spazio all’ascolto delle verità
molteplici che ad essa tendono, senza poterla dire. Si dà così
riconoscimento e diritto alla parzialità delle opinioni, intese non
come falsa e fuorviante molteplicità che conduca allo smarrimento
o alla confusione indistinta, ma come elemento per la costruzione
di un edificio più ampio, infinito, irraggiungibile. Ciò è possibile
grazie alla ‘partecipazione’ - termine plurale di per sé, da intendersi
nella sua valenza etica, epistemologica (conoscitiva) e, perché no,
mistica. Ogni cammino, ogni ‘via’ di conoscenza è anche percorso
didattico, punto di arrivo (raggiungimento) e gradino di partenza
per il passo successivo: ogni volta con una conoscenza in più, con
un allargamento dell’orizzonte che consente di vedere come in realtà
la verità enunciata sia parziale e non ultimativa, ma, appunto, meta
relativa, risultato parziale, e come tale sempre verificabile, provvisorio
e ridefinibile. Il percorso indicato dal Sutra del loto prevede che si
lascino da parte il dogmatismo e la pretesa di possesso della verità
- solo in questo modo, quando si sia accettata la propria identità
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come ‘transpersonale’ (ovvero espressione della natura di Buddha),
liberati dalla cecità della convinzione e dal disprezzo dell’opinione
altrui, all’abbattimento delle barriere, si può cominciare a pensare
«all’unione di tutti i popoli in armonia e pace, e a tutte le nazioni
come a una sola nazione: «Allora i mondi nelle dieci direzioni
comunicarono tra loro senza ostacoli, come fossero [divenuti] una sola
Terra-di-Buddha» (cap. XXI). Dalla convinzione della limitatezza e
della provvisorietà, insegna il Sutra del loto, si può partire dunque
alla volta della conoscenza autentica, in cui risiede trova la profonda
radice dell’insegnamento del buddhismo, definito «religione della
pace e del dialogo per eccellenza».
Ma chiudiamo ora questa breve parentesi «trascendentale» ed
apriamone un’altra, posizionata su un piano un po’ più concreto.
Secondo una delle teorie tradizionali, la verità sarebbe una relazione
di corrispondenza tra enunciati linguistici (o proposizioni, pensieri,
rappresentazioni) da una parte e mondo dall’altra: ossia, un
isomorfismo, una relazione iconica tra quei due termini. Una delle
tesi caratteristiche della semantica cognitiva è quella secondo cui
le espressioni linguistiche sono interpretate mediante costruzioni
mentali, che non hanno bisogno a loro volta di essere interpretate.
Ossia, il riferimento ad un mondo oggettivo, esterno a ciò che i
soggetti si rappresentano, viene reputato superfluo per una teoria
semantica. Questa tesi si presta a due distinte letture, la prima
meramente metodologica, e la seconda che comporta invece una
assunzione impegnativa circa la natura della conoscenza. Secondo
la lettura metodologica, la tesi si limita a sottolineare che una
teoria semantica ha per oggetto le strutture ed i processi psicologici
coinvolti nella comprensione di enunciati. Non ci si pronuncia affatto
sull’esistenza o meno di un mondo esterno ai soggetti, e sull’idea che
esso costituisca o meno la garanzia della verità delle rappresentazioni:
tali questioni sarebbero semplicemente rinviate ad altre discipline. La
verità, cioè, sarebbe fuori degli scopi di una semantica cognitiva.
Secondo la lettura più impegnativa, d’altra parte, la tesi che il
riferimento ad un mondo esterno sia irrilevante per la semantica
è saldamente congiunta con la convinzione che noi non possiamo
accedere al mondo come è in sé, cioè indipendentemente dalle nostre
rappresentazioni. Dunque la verità, almeno se vogliamo conservare
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a questa nozione un valore cognitivo, non può essere corrispondenza
con il mondo. Ray Jackendoff, richiamandosi esplicitamente alla
distinzione kantiana tra noumeno e fenomeno, ha proposto le
espressioni «mondo reale» e «mondo proiettato» per distinguere tra
il mondo così come è in sé, ed il modo in cui noi ce lo rappresentiamo.
Data questa distinzione, egli respinge «la posizione ingenua che
l’informazione trasmessa dal linguaggio sia sul mondo reale: ciò
non è possibile in quanto la nostra coscienza ha accesso soltanto
al mondo proiettato, ossia al mondo inconsciamente organizzato
dalla mente; noi possiamo quindi parlare di cose di cui abbiamo una
rappresentazione mentale» (Jackendoff, 1983: 53). Jackendoff non
intende tuttavia espungere dalla semantica le nozioni di riferimento
e verità. Egli propone piuttosto di ridefinirle in modo che scompaia
da esse ogni rinvio al mondo reale. Il riferimento è riformulato
quindi come relazione tra le espressioni linguistiche e gli oggetti
del mondo proiettato (idem: 63). Quanto alla verità, la posizione
di Jackendoff in proposito è meno perspicua. Egli accosta questa
nozione a quella di grammaticalità (Jackendoff, 1987: 200), e sembra
pensare che si tratti di una caratteristica dell’organizzazione interna
delle rappresentazioni, di una sorta di coerenza interna.
Chiamiamo, per brevità, realismo oggettivo l’idea che la verità sia
corrispondenza con il mondo reale. Jackendoff respinge il realismo
oggettivo, in base all’argomento che il mondo reale non è accessibile
in sé. Al tempo stesso, egli sembra inclinare verso il coerentismo
in virtù di uno schema argomentativo molto diffuso, che recita più
o meno così: se i livelli ontologici in gioco sono due, quello delle
rappresentazioni e quello del mondo reale, e se tuttavia sotto il
profilo cognitivo solo il primo ha rilievo, allora la verità non può
essere che una proprietà dell’organizzazione interna di quest’unico
livello. Ovvero, una volta ammesso che il mondo reale, con cui
le nostre rappresentazioni dovrebbero essere in corrispondenza,
non è cognitivamente accessibile, sembra inevitabile l’abbandono
dell’idea intuitiva che la verità sia corrispondenza con qualcosa di
indipendente dal soggetto. Le rappresentazioni, come si dice, possono
essere confrontate solo con altre rappresentazioni, e tale confronto
riguarda la loro coerenza nell’organizzare il mondo.
Johnson-Laird, dal canto suo, insiste sul fatto che la nozione
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di comprensione, piuttosto che quella di verità, è centrale per
una teoria semantica; e nondimeno, non rinuncia a fornire una
caratterizzazione della verità, che definisce come corrispondenza
tra modelli del discorso, che garantiscono la comprensione delle
espressioni linguistiche, e modelli del mondo reale (idem: 646).
Cosa bisogna intendere per «modelli del mondo reale»? JohnsonLaird sembra pensare sostanzialmente a modelli mentali costruiti
in base all’esperienza diretta. In alcuni casi, tale esperienza sarà
effettivamente alla portata del soggetto, cosicché questi è in grado
di «comparare il modello del discorso con la realtà» (idem: 649).
Più spesso, osserva Johnson-Laird, questo rapporto con la realtà è
indiretto: «Il linguaggio - dice - serve innanzitutto per comunicare
contenuti di modelli da individuo ad individuo» (ibidem). Ovvero:
tramite il linguaggio spesso noi apprendiamo qualcosa di cui non
facciamo esperienza direttamente, e che tuttavia contribuisce a
formare il nostro modello del mondo. L’idea è che ordinariamente,
noi assumiamo che quello che ci viene detto sia vero, cioè garantito
da esperienze dirette. Ossia, ci limitiamo ad assumere che, fino a
prova contraria, i modelli costruiti per interpretare i discorsi altrui
possano essere presi affidabilmente come modelli del mondo: ma che
siano effettivamente tali - piuttosto che semplici finzioni, menzogne,
ipotesi o errori - dipende pur sempre dall’evidenza percettiva.
Un simile rinvio all’evidenza percettiva, si potrebbe obiettare,
non configura un oggettivismo ingenuo? La risposta è: no, purché
consideriamo le percezioni come il primo stadio nella nostra
rappresentazione del mondo, invece che come l’ultimo avamposto
del mondo reale. Un esempio di questa concezione non oggettivista
della percezione è Lakoff (1987). Egli sostiene che gli uomini non
hanno accesso a come il mondo è in sé, e che la loro conoscenza,
a partire già dalle percezioni, è sempre «incorporata» (embodied),
ossia mediata dal corpo e dalle sue capacità cognitive. Quando perciò
Lakoff definisce la verità - analogamente a Johnson-Laird - come
corrispondenza tra il modello mentale dell’enunciato ed il modello
percettivo della situazione corrispondente (idem: 293), si può dire
- in un senso - che egli chiama in causa un confronto tra due tipi di
rappresentazioni soggettive.
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Al tempo stesso, vi è un senso in cui un modello percettivo è
indipendente dal soggetto. Ciò diventa evidente se confrontiamo
la percezione con la capacità di costruire modelli mentali per
combinazione concettuale. Il processo della combinazione concettuale
è uno dei motori della conoscenza e della vita mentale in genere.
Esso si estende dai più banali casi di immaginazione (un esempio di
Kosslyn è quello di immaginare George Washington su una tavola
da surf) alla costruzione di modelli per enunciati complessi a piacere,
ed ancora alle ipotesi scientifiche. I nostri modelli mentali costruiti
per combinazione concettuale non hanno in sé garanzia di verità,
anzi in alcuni casi (vedi i racconti di finzione) non sono neanche
interessati alla verità. Ora, il genere di libertà di cui disponiamo nel
costruire modelli mentali per combinazione concettuale non ha un
corrispettivo nel caso dei modelli percepiti: questi sono subìti dal
soggetto piuttosto che costruiti da lui. In generale, diremo quindi
che un modello costruito per combinazione è vero quando vi è un
modello percepito corrispondente (o una classe di modelli percepiti
corrispondenti).
Questa proposta recupera l’idea della verità come corrispondenza
pur mantenendo la tesi che la realtà in sé non è accessibile. Infatti,
la corrispondenza si stabilisce tra rappresentazioni, rispettivamente,
dipendenti e non dipendenti dal soggetto. L’individuazione di queste
due classi distinte di rappresentazioni, cioè, consente di respingere lo
schema argomentativo enunciato sopra. Uno può infatti accogliere
le premesse che:
a) esistono da un lato le rappresentazioni, e dall’altro la realtà; e
b) la realtà in sé, indipendentemente dalle rappresentazioni, non è
accessibile;
e tuttavia non concludere per l’impossibilità di una teoria
corrispondentista della verità. Che quella appena delineata sia, in
un senso, una proposta corrispondentista, mi sembra evidente. Ma si
tratta anche di una proposta realista? Un realista oggettivo potrebbe
voler rispondere negativamente, obiettando che la realtà in sé non
svolge qui alcun ruolo esplicativo: essa è meramente postulata, come
causa non accessibile dei fenomeni cui abbiamo accesso. Credo che
questa obiezione sia in parte corretta, nel senso che la nozione di
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mondo in sé (o di oggetto in sé, o di realtà in sé) è in qualche modo
postulata; ma credo anche che, nel quadro proposto, tale nozione è
lungi dall’essere priva di potere esplicativo. Vediamo i due aspetti
separatamente. In primo luogo la realtà in sé è postulata nel seguente
senso: essa è, vorrei suggerire, posta per analogia con relazioni causali
più elementari delle quali abbiamo esperienza. Questo richiede una
piccola digressione. Studi recenti nel campo delle scienze cognitive
ci dicono che la nozione di causa potrebbe avere una base innata nei
moduli che si occupano dell’interpretazione del movimento. Sembra
infatti che i bambini mettano in opera una distinzione precocissima
tra movimenti auto-causati, propri degli esseri animati, e movimenti
etero-causati, propri degli oggetti inanimati (Mandler, 1992). Ora,
assumiamo - come sembra ragionevole fare - a) che gli esseri umani
abbiano sia rappresentazioni costruite per combinazione concettuale,
sia rappresentazioni percepite; e b) che essi distinguano in generale
tra le prime e le seconde su base fenomenologica.
Questo significa che essi riconoscono la natura rispettivamente
auto- ed etero-prodotta delle proprie rappresentazioni. Cioè,
proprio come nel caso del movimento, sembra che siamo in grado
di distinguere qui tra fenomeni la cui causa è interna ad un soggetto,
e fenomeni la cui causa è esterna a questo. Mentre però nel caso
del movimento etero-causato noi vediamo la causa in azione, in
quello delle rappresentazioni etero-causate la causa è per definizione
fuori portata. Essa viene dunque posta per analogia: ossia, come il
movimento che non dipende dall’ente in stato di moto è prodotto da
una causa esterna, così le rappresentazioni che il soggetto non produce
egli stesso devono essere generate in lui da una causa esterna. Ma se
l’origine della nozione di realtà in sé è questa, non potrebbe darsi che
ciò che il soggetto postula come causa delle proprie rappresentazioni
percettive non esista effettivamente? Questo è il genere di dubbio che
ha imposto all’attenzione dei filosofi il celebre esperimento mentale
del genio maligno di Cartesio. Tale esperimento avrebbe mostrato,
si ritiene, il seguente punto: sia che gli oggetti esterni esistano
realmente, sia che un genio maligno produca in noi l’illusione della
loro esistenza, le nostre rappresentazioni percettive rimarrebbero
identiche. Dunque, assumere che la realtà in sé esista davvero è
indifferente, se abbiamo accesso solo alle nostre rappresentazioni.
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I realisti oggettivi odierni, per quanto anticartesiani, accettano di
solito il presupposto del ragionamento di Cartesio secondo cui, se
ci limitiamo a considerare le nostre rappresentazioni, il mondo in
sé potrebbe esistere o meno. Essi pertanto si sentono impegnati a
sostenere che, in qualche senso, noi abbiamo accesso direttamente
al mondo in sé, e possiamo dunque accertarne l’esistenza. Vorrei
tuttavia argomentare un percorso alternativo per i realisti: quello che
consiste nel rigettare a monte l’interpretazione che Cartesio fornisce
del proprio esperimento mentale, e con esso la sua impostazione del
problema. Suggerirò cioè che in realtà le opzioni messe in campo
da Cartesio non sono le ipotesi, rispettivamente, dell’esistenza o
dell’illusorietà del mondo in sé, bensì due distinte interpretazioni
metafisiche su cosa sia il mondo in sé. Questo significa, come vedremo,
che in entrambi i casi la nozione di mondo in sé svolge un ruolo
esplicativo.
Osserviamo innanzitutto che, sotto l’ipotesi che un oggetto sia una
rappresentazione percettiva, esso è di regola una rappresentazione
percettiva complessa, formata cioè da una quantità di proprietà
percettive che covariano in modo regolare. Ad esempio, la
rappresentazione di un albero dipende dalla covarianza tra la
percezione di una chioma, di un tronco e di radici; inoltre, per
ciascuno di questi aspetti vi è covarianza tra certe percezioni visive
e certe percezioni tattili; e così via. Molti oggetti hanno anche la
proprietà della costanza, nel senso che a distanza di tempo o dopo
spostamenti nello spazio mantengono le loro caratteristiche, come
testimoniano percezioni successive da parte dello stesso soggetto.
Inoltre, anche nei momenti in cui un dato soggetto non accede a certe
manifestazioni percettive, queste sono talvolta accessibili da parte
di altri soggetti, e le percezioni di questi soggetti sono (a giudicare
dai loro comportamenti) simili in modo significativo. Infine, anche
quando nessun soggetto ha accesso a certe proprietà percepibili,
queste continuano a produrre effetti che prima o poi qualche soggetto
può rilevare.
Il punto cruciale, come ho già osservato, è che le correlazioni
regolari catturate dalla percezione appaiono al soggetto
fenomenologicamente distinte dalle correlazioni poste per
combinazione concettuale. Noi possiamo pensare - ad esempio
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- un organismo metà albero e metà leone, ma siamo in grado di
rilevare che questa correlazione non è istanziata percettivamente nel
nostro mondo: si tratterà pertanto di un oggetto fittizio. Data questa
capacità di discriminazione, non ogni rappresentazione possibile è
dunque un oggetto reale (come opposto di fittizio o di ipotetico):
lo sono bensì solo le rappresentazioni ricavate percettivamente. Di
un oggetto reale, dunque, il soggetto è fenomenologicamente certo
che non lo ha (meramente) costruito egli stesso per combinazione
concettuale. In tal senso, il soggetto non può dubitare che esso abbia
una causa esterna, pur ignorando tutto di tale causa eccetto il fatto
che produce quelle manifestazioni percepite. Il soggetto sa cioè che,
se percepisce visivamente un tronco, vi è una causa esterna di quella
percezione, la quale di regola causerà anche la percezione tattile di
un tronco, percezioni visive della chioma, ecc. Inoltre, il soggetto
sa che percezioni successive dello stesso albero saranno (entro certi
limiti temporali) simili, e che un soggetto diverso avrà percezioni
simili alle proprie. Ciò che chiamiamo oggetto in sé non è altro, per
usare una terminologia kantiana, che la condizione di possibilità di
questo insieme di percezioni.
Ora, una volta definita così la nozione di «oggetto in sé», l’esistenza
di un simile oggetto non è qualcosa che possa essere confermato o
smentito, non è cioè un’ipotesi: è piuttosto una constatazione, che
coincide con l’evidenza fenomenologica del carattere etero-prodotto
delle rappresentazioni percettive. Pertanto, l’ipotesi cartesiana del
genio maligno non potrebbe essere - e non è di fatto - l’ipotesi che
non vi sia una causa esterna per le rappresentazioni. Essa piuttosto
azzarda un’ipoteca sulla natura di questa causa: ossia, l’oggetto in sé
non sarebbe qualcosa di dato una volta per tutte, bensì il prodotto
di un continuo atto creativo da parte del genio maligno. In questo
senso, tale ipotesi a me pare indistinguibile dalla soluzione che
Cartesio dà, in positivo, al problema: ovvero quella secondo cui il
mondo esiste effettivamente, ma solo in quanto è ricreato da Dio
ad ogni istante. Quello che intendo suggerire è che il genio maligno
cartesiano è un’ipotesi metafisica in senso etimologico (ossia, che va
al di là della realtà alla quale abbiamo accesso con i sensi). Si può
ritenere che il mondo in sé sussista indipendentemente da qualsiasi
entità superiore; oppure che esso sia stato creato da una simile entità
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una volta per tutte; o ancora che l’intervento incessante di questa
entità sia necessario per mantenerlo in essere. Si tratta di ipotesi
che per costruzione, in quanto metafisiche, non ammettono risposta
nell’ambito della nostra esperienza. Il realista, a mio giudizio, non
dovrebbe occuparsene né preoccuparsene.
In termini un po’ diversi, l’idea è che Cartesio presenta le cose
in modo fuorviante quando parla di un genio maligno che produce
allucinazioni. Le allucinazioni si definiscono per il fatto che vengono
smentite da una quantità di percezioni ritenute affidabili per la loro
sistematicità. La nozione di una allucinazione sistematica è un
non-senso: essa sarebbe semplicemente una realtà. Se vi è un essere
superiore che si prende la briga di causare in noi la totalità delle
percezioni coerenti e prive di lacune che effettivamente abbiamo,
allora egli non ci sta illudendo dell’esistenza del mondo reale ma la
sta bensì ricreando perennemente. Suggerisco dunque che il realista
debba a) prendere sul serio l’idea che l’oggetto reale si identifica con
le nostre rappresentazioni percettive; b) considerare la nozione di
oggetto in sé equivalente all’idea di «condizioni di possibilità» delle
rappresentazioni percettive o, in altri termini, equivalente all’idea
che tali rappresentazioni sono etero-causate; c) lasciare il resto alla
metafisica.
Dopo questa breve digressione sulla Semantica cognitiva,
ontologica e metafisica, vorrei ora riallacciarmi al concetto di
convinzione. Spesso non siamo neanche consapevoli di avere
delle ‘convinzioni’. Eppure sono proprio le nostre convinzioni
a determinare il nostro modo di percepire la realtà. Forse siamo
convinti che i rapporti sentimentali non funzionano, magari perchè
abbiamo avuto una brutta esperienza in passato. Ma in realtà sarà
proprio questa convinzione a farci imbattere in storie difficili, perchè
la nostra mente funziona così. E allora prendiamo consapevolezza
delle nostre convinzioni: il metro di giudizio non è più la verità, ma la
funzionalità. Una convinzione non è mai nè vera nè falsa, in quanto
si basa su esperienze. Quello che conta è solo quanto una convinzione
limita o potenzia la nostra vita. Se ci limita, ci distrugge e la nostra
vita va a rotoli. Possiamo cambiarle e farle diventare qualcosa di
utile, che ci fa stare bene e ci porta a raggiungere risultati concreti.
È evidente che tutta la nostra vita si basa sulle nostre convinzioni, su
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ciò in cui crediamo o non crediamo. Proviamo a pensare a che tipo di
convinzioni dominano le nostre giornate. Sono di quelle che possono
potenziare i nostri risultati o piuttosto sono di tipo limitante? E cosa
succederebbe se ognuno di noi potesse scegliere liberamente ciò in
cui credere? Potremmo finalmente liberarci di ogni blocco e di ogni
pensiero non produttivo. Esiste un aforisma davvero illuminante
a questo proposito: noti testi di aeronautica affermano che «il
calabrone abbia un peso tale che in rapporto alla dimensione delle
sue piccole ali, secondo le leggi della fisica, non potrebbe volare... ma
il calabrone non lo sa e vola lo stesso!».
Facciamo un esempio concreto: mettiamo il caso che siamo
convinti di essere timidi. O insicuri. O addirittura di essere dei buoni
a nulla. Magari lo pensiamo perché da piccoli ci hanno affibbiato
questa etichetta, e noi abbiamo continuato a portarcela dietro
durante tutta la nostra crescita, convincendocene ogni giorno di più.
Di conseguenza abbiamo agito sulla base di questa etichetta. È un
processo definito «imprinting», secondo il quale noi imprimiamo nella
mente un evento che giudichiamo significativo e poi continuiamo ad
agire in modo coerente ad esso. A scoprirlo fu uno zoologo e psicologo
austriaco, Konrad Lorenz, dopo una serie di esperimenti portati
avanti con gli anatroccoli. Appena nati, i piccoli associavano alla
loro mamma il primo essere vivente in movimento che si trovavano
di fronte. Vedendo per primo lo scienziato, si convincevano che fosse
lui la loro madre e lo seguivano proprio come avrebbero fatto con la
vera mamma anatroccolo, che invece ignoravano del tutto. Proprio
come è successo agli anatroccoli, se da bambini ci hanno detto che
non sapevamo disegnare, o qualche compagno dell’asilo magari ci
ha detto che il nostro disegno era sgraziato, o ancora se noi stessi ci
siamo detti che quello che avevamo disegnato era qualcosa di non
corrispondente alle nostre intenzioni, sulla base di questo imprinting
ci siamo costruiti una convinzione negativa.
Per tutti gli anni a seguire ci siamo comportati di conseguenza,
rafforzando così l’idea e gli effetti pratici della nostra identità di
persone artisticamente poco capaci. Eventi anche molto lontani nel
tempo, che oggi giudicheremmo magari anche insignificanti, ma
che da bambini ci hanno colpito molto, sono dunque la base delle
nostre convinzioni. Tuttavia, visto che esse sono nate a partire da un
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evento cui abbiamo attribuito importanza e fondatezza, allo stesso
modo possiamo però cambiarle, ed in maniera altrettanto facile e
veloce. Oggi possediamo nuove risorse che prima non avevamo a
disposizione, che possono consentirci di gestire meglio le emozioni,
di scoprire il funzionamento dei nostri processi mentali. In sintesi,
di guadagnare la consapevolezza del fatto che quanto gli altri dicono
di noi è solo parte della loro mappa del mondo, non è la realtà
oggettiva delle cose. Del resto, anche le nostre stesse convinzioni si
originano da esperienze che non sono la realtà, ma sono soltanto
la nostra personale interpretazione della realtà. Nel suo libro
«PsicoCibernetica», il chirurgo estetico Maxwell Maltz riporta
alcuni episodi davvero stupefacenti di persone che, a seguito di un
intervento estetico, continuavano a non piacersi; addirittura casi in
cui le persone continuavano a vedere il proprio naso storto. Questo
perché l’intervento del chirurgo aveva modificato il loro aspetto
esteriore e non, naturalmente, l’immagine interiore che avevano di
loro stessi. Casi in cui sarebbe stato necessario piuttosto un supporto
di tipo psicologico. Insomma, quello che pensiamo di noi è quello
che trasmettiamo non solo agli altri, ma prima di tutto anche a noi
stessi. E l’autostima altro non è che una convinzione su chi siamo e
su quello che sappiamo fare.
Le convinzioni, sono soprattutto legate alla vita e considerate
dal soggetto come parte integrante della propria visione del mondo:
demolirle significa quindi mettersi in discussione, sottoporre ad una
revisione critica le basi della propria personalità, cosa ovviamente
non facile per chiunque, indipendentemente dalla ragionevolezza
delle opinioni falsificate. Cambiare opinione non è mai facile e,
soprattutto, richiede gradualità. Non basta la semplice esposizione
ad una teoria più avanzata perché il soggetto la faccia sua; bisogna
che egli vi arrivi, la consideri come la conclusione di un suo personale
percorso. Questo, lo diceva già Aristotele, è il principio basilare di
ogni arte retorica: perché un’argomentazione (non solo filosofica) sia
veramente convincente deve partire non dalle convinzioni dell’oratore
ma da quelle dell’interlocutore. Anzi, ancora prima, deve aiutare
l’interlocutore ad esplicitare le proprie convinzioni, esprimere e
rendere consapevole ciò che fino ad allora è stato dato per scontato.
Le convinzioni semplici sono spesso illogiche, ma non basta certo far
31
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notare questo piccolo difetto perché siano cambiate. Chi sulla realtà
svolge il ragionamento circolare sopra descritto (la realtà è l’insieme
delle cose e le cose sono le parti della realtà) non sarà turbato
più di tanto se costretto a constatare l’inconcludenza e persino
l’irragionevolezza del suo pensiero. Conviviamo tutti con assurdità
ben più sconvolgenti e comunque solo un dogmatico razionalista (un
tipo di filosofo da tempo estinto) potrebbe coltivare la speranza che
la gente cambi idee solo per averne riconosciuta illogicità. Spesso
non usiamo la logica neppure tentando di risolvere problemi logici.
Proprio perché nascono dall’esperienza e servono a giustificarla, le
convinzioni semplici possono essere smentite non con argomenti
teorici ma solo a partire da altre esperienze. Ogni singola esperienza
contiene in sé una potenzialità infinita di riflessioni filosofiche, poiché
la complessità del reale può suscitare approcci e considerazioni
fra loro diversissime. Ogni essere umano nasce in un mondo
precostituito da cui riceve immediatamente le istruzioni per l’uso,
ovvero insegnamenti su come è la realtà e come ci si deve muovere in
essa. La socializzazione porta all’interiorizzazione di schemi, modelli
comportamentali e abitudini. Le personalità e le proprie convinzioni
principalmente derivano da questa socializzazione (Matrix) così come
il modo di pensare, di agire, di interpretare la realtà e di plasmare
l’esperienza di vita. Nel descrivere la realtà, qualunque realtà, ci
appare quindi ovvio che tutti gli esseri umani, fanno uso di sistemi
di classificazione e che la classificazione stessa, essendo una utile, ma
arbitraria modalità descrittiva, può in ogni momento essere annullata
per procedere a nuove, più utili classificazioni. Nella percezione
ordinaria della Realtà, per la maggior parte della gente il mondo è
un’entità separata dal pensiero, una realtà composita, frantumata,
in cui tutto è diviso, l’energia scorre in quanto forzata, soprattutto
meccanicamente, il passato ha più forza ed è più importante del
momento presente, amare è rischio di perdersi e di essere infelici,
il potere è costantemente cercato al di fuori di sé e l’efficacia è una
questione di fortuna, di forza, di furbizia o di «giuste» conoscenze.
Il subconscio ragiona come un computer, traendo conclusioni da un
presupposto o da una esperienza precedente; e lo fa non in modo
irrazionale o imprevedibile, ma piuttosto con una logica impeccabile.
Il problema è che noi siamo per lo più all’oscuro delle premesse da cui
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parte ogni calcolo logico e la sua conseguente azione. Una persona
che sia stata «educata» sin da piccola a vivere il sesso come una cosa
riprovevole vivrà per tutta la vita le conseguenze di questa originaria
assunzione, a meno che non vengano riformulate le premesse.
Grazie alla memoria, possiamo imparare, ricordare, sviluppare
abitudini, tecniche, metodologie, avere il senso dell’identità. La
memoria viene conservata nel corpo, come registrazione, sotto
forma di vibrazione o modello di movimento. Ed esiste una memoria
genetica (dislocata a livello cellulare) e una memoria esperienziale
(dislocata a livello muscolare). Quando l’area del corpo in cui viene
conservato un dato ricordo è sottoposta a tensione, allora quel
ricordo viene inibito e, secondo l’intensità della tensione, persino
reso inaccessibile. Se e quando nella stessa area la tensione si rilassa, i
ricordi prima inibiti vengono liberati: questo è un fenomeno ben noto
a chi pratica o riceve dei massaggi. Il nostro corpo/mente inconscia
è cosciente solo del presente (per lui non ha senso la distinzione tra
passato, presente e futuro) ed è incapace di distinguere la cosiddetta
«realtà obiettiva» dalla realtà psichica o fantastica. Un ricordo del
passato è capace di evocare immediatamente una reazione fisiologica
e, per es., una emozione come la paura può essere causata da dati
obiettivi così come da fattori del tutto immaginari. Un modo efficace
per controllare le proprie emozioni e, di conseguenza, rispettare la
salute è di scegliere su quali ricordi permettere a se stessi di indugiare.
Attraverso l’immaginazione abbiamo il potere reale di cambiare la
nostra vita (il nostro sogno) e di influenzare positivamente tutti i
suoi aspetti sia in relazione al mondo interiore sia in relazione al
mondo esterno.
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Le regole della percezione
«Quando un cane si mette ad abbaiare a un’ombra
, diecimila cani ne fanno una realtà»
EMILE M. CIORAN
«Quando due persone si incontrano ci sono
in realtà sei presone presenti: c’è ogni uomo come
egli si vede, ogni uomo come l’altro lo vede,
e ogni uomo come egli è in realtà»
WILLIAM JAMES
I confini delle nostre conoscenze in fatto di mente e cervello sono
i confini delle ricerche e delle conquiste in terreni ancora inesplorati.
È necessario andar a cercare le persone che vivono i confini della
loro mente per comprendere dove stanno le regole del gioco. Non
è corretto pensare che il funzionamento del nostro cervello sia reso
evidente dai risultati che si ottengono nel nostro vivere quotidiano,
il sistema percettivo su cui ci appoggiamo per costruire la realtà
che troviamo attorno a noi sottostà alle nostre stesse conoscenze,
alle leggi della forma delle cose, noi crediamo continuamente di
scoprire un mondo attorno a noi mentre disveliamo unicamente le
sue forme implicitamente presenti nel nostro sistema di conoscenze,
le forme, quelle forme, sono già presenti in noi, le regole sono gli
unici riferimenti che possediamo per orientarci, orientare le nostre
esperienze e le descrizioni che facciamo di ciò che ci circonda e che
ci appartiene. La nostra percezione ci permette di costruire il mondo
attorno a noi, la realtà è definita dalle continue elaborazioni che il
nostro cervello, emulatore di realtà, ci confeziona, in particolare è la
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struttura del talamo1, all’interno del nostro cervello, che è delegata a
comporre le nostre esperienze percettive, a mettere assieme le singole
esperienze sensoriali in un’unica esperienza percepibile.
La nostra esperienza percettiva si compone unendo tre elementi
distinti di esperienza, l’oggetto, la parte fisica che siamo in grado di
toccare; la parola, il simbolo verbale dell’oggetto in considerazione,
il nome della cosa, l’immagine, l’esperienza visiva dell’oggetto;
l’unione di questi tre elementi percettivi attraverso la struttura del
talamo costituisce la nostra esperienza sensoriale. La conoscenza
che possediamo delle cose molto deve alla conoscenza che abbiamo
di noi stessi, percepire non è semplicemente raccogliere qualcosa dal
mondo esterno, è piuttosto scegliere, dunque essendo l’esperienza
della realtà un esperienza emulata, cioè a dire costruita, del nostro
cervello, noi percepiamo dalla realtà le stesse proiezioni percettive
che il cervello confeziona per noi, aggiungendo o sottraendo elementi
percettivi attraverso continui aggiustamenti pragmatici operati
sull’esperienza precedente.
È possibile pensare che buona parte dell’esperienza sensoriale
stessa, avvenendo per lo più a livello inconscio, non permetta di essere
compresa nei suoi rimaneggiamenti prima di disvelarsi agli occhi di
chi agisce percettivamente, la percezione è in ogni caso un’esperienza
agita; attraverso azioni percettive costruiamo continuamente la
realtà per come l’immagine della stessa oggi si rileva a noi, ricca
dell’esperienza percettivo-culturale costruita nei secoli. È l’idea del
«tutto» che ci inganna, un continuo articolare il reale che ci mette
nella condizione di non distinguere il lavoro della nostra mente nel
portarci alla luce tutti i particolari della «realtà», siamo abituati a
vivere in un mondo completo, ogni cosa ha un nome ed ogni nome ha
una cosa, tutto si completa dinnanzi alla nostra esperienza sensoriale
e dunque pensare che il nostro cervello costruisca ogni cosa così
come la vediamo è straordinario! L’aspetto però sconvolgente
delle esperienze maturate in ambito sensoriale dall’uomo è la
grande diversità di vedute che ogni individuo in fondo possiede, la
realtà esiste indipendentemente da noi ma è indifferenziata, tutte
le distinzioni che siamo in grado di fare a livello descrittivo sono
descrizioni che dipendono strettamente dall’osservatore, dalla sua
cultura di riferimento, dalle sue esperienze che hanno causato il
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suo mondo, l’esperienza percettiva di ognuno di noi è l’effetto
diretto delle nostre esperienze umane dirette, ontologiche, ed
indirette, antropologiche, nonché delle nostre esperienze personali
dirette, valori credenze e convinzioni personali, ed indirette, culture
d’appartenenza. L’articolarsi di tutti gli elementi a disposizione del
nostro cervello è da vedersi come un insieme di vettori di forza che
muovono in direzioni differenti la nostra potenzialità percettiva e
risolutiva orientandoci a realtà differenti.
Il problema «esiste o non esiste una realtà?» è mal posto, la realtà
attorno a noi esiste; ciò che però esiste è una realtà indifferenziata,
estremamente difficile da percepire nella sua globalità. Noi siamo
abituati a vedere un tutto, l’indifferenziato non appartiene alla
nostra esperienza percettiva, e per poterlo esperire dovremmo
andare a riprendere la nostra esperienza pre-culturale (improponibile
come esperienza). Dunque noi viviamo in un esperienza percettiva
altamente differenziata e quindi frutto di culture e culture stratificate
nei secoli da parte degli uomini. La realtà attorno a noi è come la
nostra conoscenza, non possiamo prescindere da ciò che conosciamo
nel vederla/descriverla. La domanda precedente dunque andrebbe
posta in questi termini: «esiste o non esiste una realtà indipendente
dall’osservatore?». La risposta ora appare ovvia: non può esistere
una realtà senza implicare il background culturale di riferimento
di colui che osserva. Senza entrare più di tanto in merito all’idea
del vedere e del guardare ad un’ esperienza, io posso guardare tante
esperienze, ma se non colgo da queste ultime, elementi connotabili
di un significato compiuto, in realtà io non vedo un bel niente! Per
vedere ho dunque bisogno di un oggetto e l’oggetto lo posseggo se ho
acquisito l’esperienza, diretta o indiretta, dell’oggetto stesso. Nella
mia mente io posseggo unicamente l’idea dell’oggetto, e questa è
vincolata e richiamata dal nome dato all’oggetto.
La sostanzializzazione o reificazione della rappresentazione
(idea) dell’esperienza (in aggiunta a questa prima connotazione)
e l’esperienza acquisita dall’osservatore (soggetto protagonista
dell’osservazione), è un complesso di «vettori» percettivi, una
fusione tra immagine (vista), parola (udito) e cosa (tatto); il tutto in
un’unica esperienza sensoriale. Infine, dato il diretto coinvolgimento
dell’osservatore nell’esperienza percettiva, e date le continue
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esperienze di apprendimento attraverso l’immedesimazione personale
nell’esperienza stessa (il fare «come se fosse» dell’apprendimento,
m’immedesimo, mi metto nei panni di, faccio finta), sono continue
le proiezioni della nostra conoscenza che vanno a guidare e spesso
ad anticipare la nostra esperienza percettiva. Ma le proiezioni della
nostra mente si trasformano spesso in identificazioni di altri nella
proiezione dei primi; proiettare ed indentificarci nella nostra stessa
proiezione è quasi immediato per un cervello emulatore di realtà
come è il cervello umano. Non ci rimane che riprendere il pensiero
di L. Wittgenstein che con lucidità ha anticipato molto bene le idee
oggi dibattute in campo percettivo: «Si crede di stare continuamente
seguendo la natura, e in realtà non si seguono che i contorni della forma
attraverso cui la guardiamo. Un’immagine ci teneva prigionieri. E non
potevamo venirne fuori, perché giaceva nel nostro linguaggio e questo
sembrava ripetercela inesorabilmente».
Pur trovando ancora molte convinzioni radicate sull’idea di una
realtà oggettiva, che esiste indipendentemente dall’osservatore (per
rendere chiaro il concetto), la realtà sta perdendo le sue connotazioni
di «pensiero forte» per vestirsi dell’idea di «pensiero debole», dove per
debole non intendiamo un idea fragile di realtà, bensì consideriamo
l’idea di una realtà costituita da principi aggregativi e partecipativi,
piuttosto che uno scontato monolita oggettivo. Un universo è reso
possibile solo nel momento che se ne coglie il pluriverso ad esso
intrinsecamente collegato. La nostra percezione multiforme della
realtà, è conseguenza della nostra capacità compositiva di ciò che
raccogliamo dalle nostre esperienze sensoriali. Ogni organo sensoriale
accompagna, precede, coincide con ciò che c’è stato descritto attorno
a noi. Un continuo lavoro interpretativo affinato dalla personale
cultura di riferimento, costruisce dentro e fuori di noi quelle idee che
descrivono, confermando, ciò che ci circonda. Lo stupore accorda le
nostre esperienze passate al nuovo e ci avvicina a qualcosa che, almeno
inizialmente, sa più di magico che di reale; poi, poco alla volta, fatti i
primi passi ecco giungere un forte coinvolgimento aggregativo verso
un senso condiviso ed accettato per la maggioranza, che diviene un
punto fermo sul quale stabilire nuovi punti di intesa: negoziando,
patteggiando, modificando e modificandosi alla presenza delle
percezioni esterne alla nostra.
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La realtà si compone più di elementi di fascinazione che di
oggettività. Essendo l’oggettività stessa frutto di accordi di comunità,
quando si parla di oggettività scientifica ci si riferisce ad accordi
presi dalla cosiddetta «comunità scientifica». La fascinazione, il
rimanere affascinati da un idea, o da un complesso di idee, è di tutte
le persone, scienziati e non. Se si rimane affascinati dalle proprie
idee, senza portarle a conoscenza degli altri, non si coinvolge la
pubblica opinione, dunque non si crea consenso, e la conseguenza è
che qualcosa non esiste.
La teoria computazionale della mente di Fodor assume che la mente
possa essere assimilata a un calcolatore capace di immagazzinare ed
elaborare simboli. Il paradigma delle attitudini proposizionali può
allora essere realizzato immaginando che una memoria di simboli
sia assegnata a ogni possibile attitudine («speranza», «desiderio»,
«timore», etc) e che ogni simbolo corrisponda a una delle possibili
proposizioni: una particolare proposizione incasellata in una
particolare attitudine costituisce allora una ben precisa attitudine
proposizionale. Ogni simbolo è una «rappresentazione mentale»
e la mente è dotata di un insieme di regole per operare sulle
rappresentazioni. La vita cognitiva, il pensiero, è la trasformazione di
queste rappresentazioni. Tali rappresentazioni mentali costituiscono
un «linguaggio della mente», che Fodor battezza «mentalese». Che
esista un linguaggio interno alla mente Fodor lo deduce da tre
fenomeni: il comportamento razionale (la capacità, cioè, di calcolare
le conseguenze di un’azione), l’apprendimento di concetti (la capacità
di formare e verificare un’ipotesi) e la percezione (la capacità di
riconoscere un oggetto o un evento). Tutti questi fenomeni non
sarebbero possibili se l’agente non potesse rappresentare a se stesso
gli elementi del problema. Che questo linguaggio non possa essere
una delle lingue a cui siamo abituati è dimostrato a sua volta da
due fatti: primo, anche altri animali, incapaci di parlare, esibiscono
facoltà cognitive simili alle nostre; lo stesso atto di imparare a
parlare una lingua richiede l’esistenza di un linguaggio interno di
rappresentazione. Nello schema di Fodor la mente manipola simboli
senza sapere cosa quei simboli rappresentino (ovvero in maniera
puramente sintattica: la rappresentazione non determina se e a quale
oggetto ci si riferisca). Il comportamento è dovuto esclusivamente
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alle strutture interne della mente, non a ciò che quelle strutture
rappresentano.
La teoria computazionale spiega in maniera semplice ed elegante
come le attitudini proposizionali abbiano origine nella nostra mente
(sono le rappresentazioni che la mente produce del mondo) e come
esse influiscano sul nostro comportamento (il comportamento è il
risultato di un calcolo eseguito proprio su quelle rappresentazioni).
Fra tutti i tipi di calcolo possibili, l’inferenza logica sarebbe stata
prescelta dalla natura in quanto la migliore per generare un
comportamento che ci consenta di sopravvivere. La teoria di Fodor
è un’estensione delle idee di Chomsky: se le frasi che un individuo è in
grado di produrre (la sua «competenza») sono infinitamente superiori
alle frasi che quell’individuo pronuncerà durante la sua esistenza
(la sua «performance»), vuol dire che esiste una struttura portante
del linguaggio grazie alla quale si è in grado di parlare e capire
qualunque frase. Questa struttura è una «grammatica universale»
comune a tutti: ciascuno, poi, impara una delle sintassi di superficie
disponibili (italiano, inglese, spagnolo, etc). Non diversamente, Marr
sostiene che l’apparato visivo faccia uso di informazioni innate per
decifrare i segnali di luce che percepiamo dal mondo; altrimenti
quei segnali sono talmente ambigui che non potremmo mai
inferire com’è fatto il mondo. Secondo Marr l’elaborazione dei dati
percettivi avviene grazie ad appositi «moduli», ciascuno specializzato
in qualche funzione, che sono controllati da un modulo centrale.
Secondo Chomsky, Marr e Fodor, pertanto, il cervello contiene
rappresentazioni semantiche (in particolare una grammatica) che
sono innate e universali (ovvero di natura biologica, sotto forma di
«moduli» che si attivano automaticamente) e tutti i concetti sono
decomponibili in tali rappresentazioni semantiche. L’elaborazione di
tali rappresentazioni semantiche è puramente sintattica. L’estremista
degli approcci sintattici è Stitch, secondo il quale entrano in gioco
quattro entità: stati cognitivi di tipo D (desideri), stati cognitivi di
tipo B (convinzioni), stimoli ed eventi comportamentali (azioni). Gli
stati cognitivi corrispondono ad oggetti sintattici in modo tale che
le relazioni causali fra i primi, o fra i primi e gli stimoli e le azioni,
corrispondono a relazioni sintattiche dei corrispondenti oggetti
sintattici. In questo contesto il principio di autonomia di Stitch
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afferma che: le differenze fra organismi (per esempio quelle dovute
a fattori ambientali) che non siano riconducibili a differenze dei loro
stati interni non sono pertinenti per una teoria psicologica; ovvero
gli unici fattori ambientali che devono essere presi in considerazione
sono quelli che provocano differenze negli stati interni.
Diversi filosofi sostengono invece che il modello del calcolatore
simbolico è implausibile dal punto di vista biologico. Dennett, per
esempio, fa notare che il cervello dovrebbe contenere un numero
infinito di strutture per rappresentare tutte le nostre convinzioni,
comprese quelle che non abbiamo mai usato ma che nondimeno
crediamo; per esempio, che «le anatre non portano stivali». (Ma forse
Dennett trascurava il fatto che un calcolatore simbolico è dotato di
regole di inferenza e, come qualsiasi sistema formale, può dedurre
nuove convinzioni da quelle note, e che pertanto potrebbe bastare un
numero molto limitato di convenzioni-assiomi per rendere conto di
un numero molto grande di convinzioni). Searle sostiene che, se anche
fosse plausibile, il modello puramente sintattico di Fodor non sarebbe
in grado di risolvere le numerose ambiguità del linguaggio naturale
(sintatticamente identiche, semanticamente diverse). L’elaborazione
parallela distribuita (o, più semplicemente, il connessionismo)
propone un’alternativa non simbolica (non rappresentazionale)
alla teoria computazionale, prendendo a modello le reti neurali del
cervello. Ciò che viene rappresentato non ha una relazione intuitiva
con le convinzioni o percezioni. Si tratta invece di una rete di nodi,
ciascuno dei quali comunica con altri tramite connessioni la cui forza
è variabile nel tempo; questa forza, che varia in funzione proprio
dell’attività dei nodi, è il fattore principale di rappresentazione.
È come se i nodi si scambiassero simultaneamente una grande
quantità di messaggi: la rappresentazione è data dall’insieme di
questi messaggi (e non dal contenuto dei nodi). Quando la rete
viene attivata a fronte di uno stimolo, le connessioni cambiano la
propria forza fino a raggiungere una configurazione stabile che
costituisce la risposta a quello stimolo. Non solo il connessionismo
rende conto, come la teoria computazionale, del processo attraverso
il quale la mente riesce a far riferimento al mondo esterno, non solo
(a differenza della teoria di Fodor) è biologicamente plausibile, ma
fornisce anche una spiegazione di come le rappresentazioni mentali
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vengano costruite (per fluttuazione di forze di connessioni) e di come
esse siano connesse con il mondo (attraverso associazioni del tipo
stimolo-risposta); e non ha bisogno di postulare alcun linguaggio
mentale.
Putnam, dal canto suo, pone la spiegazione e la predizione di
fenomeni intenzionali come la convinzione e il desiderio nella sfera
dell’interpretazione: i concetti non esistono nella mente, sono frutto
dell’interpretazione. Si tratta di «interpretare» quel linguaggio,
e lo si può fare da due angolature: normativa, che fa ricorso al
principio di carità (Davidson) o di razionalità (Dennett), secondo
i quali un organismo si comporta come deve comportarsi date le
sue circostanze (per esempio, la maggioranza delle sue convinzioni
sono vere; crede alle implicazioni delle proprie convinzioni; non ha
due convinzioni che si contraddicono; etc) e in tal modo aiuta il
compito di chi deve interpretare; e proiettiva (Stitch), secondo la
quale la nostra interpretazione consiste nell’attribuire all’organismo
le attitudini proposizionali che noi avremmo se fossimo al suo posto.
Il processo che definisce come le convinzioni e i desideri si formano
e come determinano il comportamento dell’organismo ha origini
biologiche. Dennett assume che, se un organismo è sopravissuto alla
selezione naturale, la maggioranza delle sue convinzioni sono vere
e l’uso che fa delle sue convinzioni è per lo più «razionale» (usa le
proprie convinzioni per soddisfare i propri desideri). Interpretato in
chiave biologica (e cioè in termini di bisogni primari), l’atteggiamento
intenzionale» finisce per descrivere anche come quell’organismo
è legato al suo ambiente, quale informazione ha acquisito e quale
azione si prepara a compiere. L’organismo riflette in continuazione
l’ambiente, in quanto l’organizzazione stessa del suo sistema ne
contiene implicitamente una rappresentazione. Per Dennett gli stati
intenzionali non sono stati interni del sistema, ma descrizioni della
relazione fra il sistema e il suo ambiente (per esempio, un sistema ha
paura del fuoco se si trova in una certa relazione con il fuoco).
Inoltre non esiste uno stato intenzionale separato dagli altri,
ma, olisticamente, ha senso parlare soltanto dello stato cognitivo di
un organismo nel suo complesso, e della sua relazione complessiva
con l’ambiente. In altre parole l’attitudine proposizionale è data da
un’«attitudine nozionale», che è indipendente dal mondo reale, e da
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una componente dovuta al mondo reale. Una «attitudine nozionale»
è definita rispetto a un «mondo nozionale» («notional world»): i
mondi nozionali di un agente sono i mondi in cui tutte le convinzioni
di quell’agente sono vere e tutti i suoi desideri sono realizzabili. In
definitiva l’intenzionalità definisce un organismo in funzione delle sue
convinzioni e dei suoi desideri, i quali sono il prodotto della selezione
naturale. Quanto più i mondi nozionali di un agente si discostano da
quello reale, tanto minore è la capacità di adattamento dell’agente al
proprio ambiente. È la funzione biologica dei meccanismi cognitivi a
fissare convinzioni e desideri, e questi devono essere rispettivamente
veri e possibili per essere utili alla sopravvivenza della specie.
L’intenzionalità non è una proprietà esclusiva della mente umana,
ma risulta diffusa in diversi sistemi fisici e biologici. Gli stati dei sistemi
intenzionali, in generale, misurano qualche grandezza dell’ambiente
in cui si trovano. Gli stati mentali potrebbero non essere altro che un
caso particolare di questo fenomeno, nel qual caso il pensiero stesso
non sarebbe altro che la misura di una qualche grandezza che si trova
nel mondo in cui viviamo.
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Il pensiero «magico»
«Credo nella magia, nell’evocazione degli spiriti, anche
se non so che cosa sono; credo nel potere di creare
a occhi chiusi magiche illusioni nella mente e
credo che i margini della mente siano mobili, che
le menti possano fluire l’una nell’altra, così creando
o svelando una mente o energia unica, poiché le
nostre memorie sono parti dell’unica memoria della Natura».
WILLIAM BUTLER YEATS
«La magia è una dimensione della fantasia.
La fantasia è fatta di immaginazione ma anche di realtà».
ANTHONY DE LONGIS
La «magia» è un fenomeno sociale molto diffuso che, sul
piano psicologico individuale, si innesta facilmente su una
predisposizione umana al «pensiero magico», una «forma mentale»
che contraddistingue il funzionamento cognitivo infantile. Questa
forma di pensiero non abbandona mai totalmente la mente umana,
perciò tracce del pensiero magico infantile sono facilmente rinvenibili
anche nel pensiero adulto quotidiano. L’analisi dei frequenti processi
di scelta basati su modalità «non razionali» mette in evidenza la
natura illusoria dell’«uomo logico», un modello di perfezione creato
sulla base di prototipi astratti della logica umana. Comunemente
quando si parla di «pensiero» si fa riferimento ad una facoltà propria
degli esseri razionali, sottolineando come quest’abilità si opponga
all’azione impulsiva rappresentandone l’antitesi. Questa concezione
riduttiva del pensiero si è cristallizzata negli anni a partire da alcune
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teorie psicologiche che, se da un lato hanno permesso di far luce
su alcuni aspetti del pensiero umano e del suo sviluppo, dall’altro
sono state frequentemente considerate un punto di arrivo di studi
che dovrebbero, in realtà, rappresentare un punto di partenza per
esplorare le numerose caratteristiche che contraddistinguono i
complessi processi cognitivi umani. Il risultato è stato il diffondersi
dell’equazione «pensiero = logica», la quale ha fatto in modo
che il «pensiero razionale», definito anche «pensiero ipoteticodeduttivo», venisse considerato a lungo come il pensiero umano per
antonomasia.
Per comprendere come questa forma di pensiero «perfetto»
spesso lasci il posto ad altre, è necessario ricordare che il «pensiero
logico» consente di ragionare in modo simile ad uno scienziato,
formulando un’ipotesi relativa ad eventi presenti o potenziali e
verificando tali ipotesi sulla realtà, seguendo operazioni logicomatematiche (addizione, sottrazione, moltiplicazione, divisione,
ordinamento, sostituzione, inclusione in classi, relazioni) e spaziotemporali (reversibilità, compensazione) (Miller P. H., 1983). È
facile intuire quindi come le decisioni fondate sulla logica ipoteticodeduttiva seguano le leggi e i principi della statistica e del calcolo
probabilistico.
Tuttavia, l’osservazione delle scelte in situazioni quotidiane è stata
una preziosa fonte di studio che ha mostrato la frequente violazione
di principi e di regole proprie della razionalità, mettendo in evidenza
il ripetuto ricorso anche a forme di ragionamento che rientrano nella
sfera del cosiddetto pensiero magico, o «pensiero quasi-magico».
(Giusberti F., Nori R., 2000). Uno dei maggiori contributi che ha
segnato la storia degli studi sullo sviluppo del pensiero umano è
indubbiamente costituito dalla teoria dello sviluppo cognitivo
di J. Piaget. Piaget (vedi Lo sviluppo della moralità dall’infanzia
all’età adulta), attraverso numerose osservazioni, ha tracciato le
caratteristiche dei principali «periodi» o «stadi» dell’evoluzione del
pensiero, dalla nascita all’età adulta, affermando che l’ultima tappa di
questa naturale evoluzione è rappresentata dal raggiungimento delle
abilità che appartengono alla sfera del pensiero ipotetico-deduttivo.
Piaget è stato anche uno dei primi studiosi del pensiero magico e,
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a tal proposito, ha suggerito che questa modalità di funzionamento
dell’apparato psichico è presente sia nel bambino che nella
mente dell’uomo con un funzionamento di tipo primitivo; essa
scomparirebbe poi completamente una volta raggiunti i livelli del
pensiero operatorio concreto e formale, lasciando il posto alla logica
ipotetico-deduttiva.
Oggi, la netta contrapposizione tra pensiero magico e «pensiero
razionale», che vedeva opposte la cosiddetta mentalità «primitiva»
alla mentalità «occidentale» e che scindeva l’umanità in due tronconi,
facendo per lungo tempo pensare che l’uomo moderno, simbolo
di perfezione, fosse sempre e soltanto un «pensatore scientifico»,
ha lasciato spazio ad una visione più realistica e intermedia. Di
conseguenza, «pensiero magico» e «pensiero razionale» si configurano
come due strutture mentali conviventi nella mente adulta, due forme
di pensiero in costante interazione nella quotidiana sperimentazione
della realtà, entrambe presenti nell’uomo occidentale come in quello
delle popolazioni primitive, sebbene la struttura del pensiero magico
resti più evidente e facile da studiare nelle civiltà primitive e quella
del pensiero razionale in quelle popolazioni che vivono nei Paesi
Occidentali e più moderni (Lévy-Bruhl L., 1966). La descrizione
della struttura e del funzionamento del pensiero magico è importante
per poter comprendere come esso stia alla base, tanto delle credenze
magiche più radicate, che di alcune convinzioni e atteggiamenti
che guidano comportamenti quotidiani comuni. La caratteristica
principale del pensiero magico è senza alcun dubbio quella che viene
definita partecipazione.
Quest’ultima rappresenta infatti il fulcro attorno a cui ruota tutto
il funzionamento di questa forma di pensiero, poiché attraverso
essa viene percepito un rapporto fra due fenomeni che in realtà
è assolutamente inesistente e non reale. La «magia» operata dal
pensiero nasce poi dall’illusione che si stabilisce in un individuo che,
più o meno inconsapevolmente, si convince, in virtù del suddetto
rapporto fittizio, di poter modificare la realtà. La facilità con cui
questa modalità di funzionamento del pensiero può essere colta
nelle popolazioni primitive è legata all’esistenza, in questi popoli, di
simboli in cui il rapporto tra significante (simbolo stesso) e significato
(oggetto o evento rappresentato) non è reale, ma è stabilito dalla
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mente sulla base di una relazione partecipativa che talvolta giunge
alla consustanzialità. Il simbolo, in questi casi, «è» il rappresentato
ed è sentito come l’oggetto stesso che rappresenta, il quale viene
reso dalla partecipazione «attualmente presente». Una conseguenza
significativa di questa modalità di pensiero è visibile nelle pratiche
magiche, presenti in Occidente come nel resto del mondo, in cui
l’azione sul simbolo (ad esempio un oggetto, quale una foto o un
fazzoletto, di un soggetto che si desidera far innamorare) è ritenuta alla
pari dell’azione sulla persona cui l’oggetto appartiene (De Martino
E., 1948). L’azione magica si ottiene quindi quando si stabilisce una
credenza di corrispondenza piuttosto che di simbolismo; in tal modo
«agire sul simbolo» è uguale ad «agire sul rappresentato» e non invece
«come se» si agisse sul rappresentato. La differenza risiede nella
credenza, nel sentimento, nella certezza che si struttura alla base
dell’azione e in base alla quale si ritiene di agire sul simbolo e dunque,
ipso facto, sul rappresentato. La partecipazione è una caratteristica
«forte» in quanto è in grado di reggere e alimentare la strutturazione
magica del pensiero, che talvolta sostiene le scelte e la vita intera
di alcune persone, resistendo all’esperienza che frequentemente
dimostra che l’oggetto-simbolo non è l’oggetto-persona/evento
rappresentato.
Tante volte infatti un evento o un essere che si vorrebbe controllare
o raggiungere sfugge alla presa; ad esempio, nelle tribù primitive la
pioggia non arriva nonostante l’azione sul suo simbolo o il mimo
della sua danza, così come una persona di cui si è innamorati non
torna se si agisce un rituale sul suo fazzoletto o sulla sua foto.
Tuttavia il pensiero magico sopravvive, nonostante i fallimenti della
magia, perché esso si basa anche su un’altra caratteristica che lo
mantiene in vita: l’impermeabilità all’esperienza. Nelle persone in
cui la mente segue prevalentemente una modalità di ragionamento
magico, quando le esperienze contraddicono il loro pensiero non
nasce il bisogno di spiegare l’insuccesso. Questo è possibile anche
grazie al ricorso a giustificazioni in base alle quali l’accaduto è
connesso all’intervento di altri fattori che lo possono giustificare,
oppure facendo riferimento a premesse diverse da quelle su cui si
fonda il «pensiero logico» e secondo cui le potenze invisibili che
consentono la «partecipazione» agiscono secondo progetti oscuri e
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quindi in momenti inattesi, imprevedibili e incalcolabili (Jung C. G.,
1942). Così i fallimenti di un rituale magico possono essere attribuiti
ad un errore di memoria, ad un errore nell’eseguire un rito, al volere
degli spiriti o ad una contro-magia (Malinoswski B., 1925).
La rottura dell’organizzazione spazio-temporale, che rappresenta
la principale differenza tra pensiero magico e «pensiero logico», è
un’altra caratteristica basilare della modalità magica di funzionamento
del pensiero; essa agisce rendendo possibile una «causalità» artificiale,
illogica e paradossale. Rispetto alla logica spaziale, la rottura operata
dal pensiero magico consiste nella creazione di una coincidenza tra
il «tutto» e le «sue parti», anche quando essi vengono separati. Di
conseguenza, per esempio, chi possieda anche una parte insignificante
del corpo di una persona, ad esempio un capello o un’unghia, può
convincersi di poter agire su di esso agendo sulla persona.
La rottura della logica temporale, che guida la causalità nel
«pensiero razionale», è presente in tutti quei casi in cui viene a
stabilirsi un legame, tra una causa ed un effetto, privo di un momento
temporale ben limitato. Questo avviene, ad esempio in alcune tribù,
quando si intende guarire una ferita agendo su un’arma che l’ha
provocata che viene sottoposta a particolari trattamenti. In questi
casi, infatti, il pensiero non tiene conto che il rapporto causale è ben
più di una relazione atemporale tra cose, essendo più precisamente un
rapporto tra cambiamenti che avvengono in certi oggetti entro tempi
stabiliti, così come quando una lancia ferisce un uomo incidendo
un suo organo (Cassirer E., 1967). Un’altra importante distinzione
tra «pensiero magico» e «pensiero logico» risiede nella differente
concezione dei simboli e, più precisamente, nel pre-simbolismo
persistente nella prima forma di pensiero. Infatti, il «pensiero magico»
è strettamente connesso ad uso primitivo dei simboli.
Questi ultimi, durante lo sviluppo, inizialmente cominciano
ad essere associati alle cose in base a riflessi condizionati e,
successivamente, vengono staccati dalle cose per diventare strumenti
plastici e mobili di espressione del pensiero. La magia si situa nell’area
intermedia di questa evoluzione dei simboli, quella in cui i simboli
sono ancora aderenti alle cose pur essendo già parzialmente staccati;
quindi i simboli nel «pensiero magico» sono ancora concepiti come
partecipi alle cose e sono utilizzati ad uno stadio pre-simbolico
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(Piaget J., 1955). Come è stato accennato, il pensiero magico,
presente accanto a quello razionale nell’uomo adulto, rappresenta
un retaggio della mentalità infantile; esso infatti è una modalità di
ragionamento predominante nell’infanzia in cui assume il valore
di un mezzo di adattamento. Durante l’età evolutiva sono molte le
attività spontanee in cui questo processo psichico si manifesta; ne
sono esempi alcune attività ludiche, grafiche e linguistiche in cui un
bambino compensa situazioni reali frustranti. Il pensiero magico ha
una duplice genesi, essendo basato su due fenomeni della mentalità
infantile, uno di origine individuale e l’altro di ordine sociale. Si fa
riferimento al primo fenomeno adottando il termine «realismo» e al
secondo utilizzando il termine «animismo». Il «realismo» implica
l’indifferenziazione e la confusione tra mondo interno (Io) e mondo
esterno (non Io) ed è fondamentale affinché lo psichico possa invadere
e permeare il fisico e viceversa, così come avviene nella struttura di
pensiero in questione.
L’«animismo» comporta invece la convinzione che gli oggetti e
gli eventi esterni siano dotati di propri sentimenti e volontà, che
possono essere favorevoli oppure ostili (Miller P. H., 1983). Se lo
sviluppo fosse a senso unico e la vita psichica non fosse suscettibile
di blocchi e di regressioni, il «pensiero magico» probabilmente
scomparirebbe totalmente nell’adulto. Tuttavia, leggendo gli esempi
più frequenti delle diverse forme di «partecipazione» magica, ci si
rende facilmente conto di quanto sia facile riconoscersi nell’utilizzo
di qualcuna di esse. Le credenze nei rituali magici e la superstizione
sono una manifestazione di un predominio del pensiero magico nella
vita mentale, l’espressione del ricorso frequente o costante a capacità
pre-simboliche di pensiero, un comportamento che è connesso ad
un arresto più o meno parziale nello sviluppo di un simbolismo
completo.
Ma il pensiero magico si attiva anche quando sono presenti
capacità simboliche complete, essendo avviato da particolari
condizioni in cui il «pensiero logico» non ha a disposizione tutti i dati
necessari per operare. L’attività di ragionamento del soggetto è infatti
multideterminata; ciò significa che essa è influenzata sia da fattori
generali, quali le capacità logiche possedute, che da fattori specifici
individuali, come la preferenza di una modalità di pensiero piuttosto
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che di un’altra, e infine, in percentuale non meno importante, da
fattori situazionali (Bonino S., Reffieuna A., 1999). Di conseguenza,
è possibile individuare diversi esempi di comportamenti guidati
dal pensiero magico che ricompaiono in diverse circostanze che si
verificano nella vita di tutti i giorni e che implicano principalmente una
rottura spazio-temporale nei principi di causalità e lo stabilirsi di una
partecipazione. Essi a volte sono attivati nell’impossibilità di operare
una stima di probabilità, altre volte sono accompagnati da un errore
nel giudizio relativo alla probabilità che un evento si verifichi. Un
primo esempio delle condizioni in cui si attiva facilmente la modalità
di pensiero magico è quello in cui ci si trova ad effettuare scelte in
situazioni incerte o di rischio, ossia in condizioni che non consentono
nessuna possibilità di valutare la probabilità che un evento si verifichi
e che, conseguentemente, non consentono scelte razionali. Infatti,
nelle scelte in cui è possibile apprezzare due alternative opposte, la
logica comporta solo di valutare la migliore; un esempio sono le
decisioni in merito all’acquisto dello stesso prodotto a due prezzi
diversi. Nelle situazioni in cui si può stimare la probabilità di un
evento, le scelte sono generalmente ancora guidate dalla logica che
le adatta alla probabilità del verificarsi dell’evento in questione; un
esempio è rappresentato dal caso in cui si scommette sull’uscita del
numero 2 al lancio di un dado, evento che ha una probabilità di
verificarsi semplice da calcolare, pari a 1/6.
Tuttavia, nella maggior parte delle scelte, le probabilità degli
eventi o sono sconosciute o sono complesse da valutare e le scelte
possono essere orientate verso le opzioni meno probabili. In queste
condizioni infatti si determina quasi sempre un conflitto fra il
desiderio che un evento si verifichi e la probabilità che ciò avvenga
realmente. L’attivazione in queste condizioni del pensiero magico è
testimoniata dalla violazione del principio della fissità del passato,
che rappresenta un esempio della rottura spazio-temporale nei
principi di causalità che guidano il «pensiero logico». La «violazione
del principio della fissità del passato»*1 può essere considerato uno
*1
Un esempio di questa violazione è riportato in una ricerca condotta alcuni anni
fa (Giusberti F., Nori R., 2000): Ad un gruppo di persone è stata data notizia
che uno studio ha mostrato come una maggiore resistenza ai rumori sia riscon-
51
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dei tanti comportamenti in cui in età adulta si manifesta ancora
il pensiero magico. Essa determina la tendenza a considerare un
evento E come dimostrazione evidente di un precedente evento A;
in tal modo si suppone che un’azione attuale (E) possa causare uno
stato (A) in realtà già determinatosi in precedenza. In condizioni
di probabilità ignota, quindi, la mente costruisce false relazioni
causali, guidate dal desiderio di trovarsi in una condizione ambìta
ma che in realtà è già preesistente. Le persone in questi casi agiscono
come se potessero influenzare un risultato che è già predeterminato
(la costituzione fisica). Anche quando la probabilità è calcolabile,
spesso il pensiero non segue il giudizio di probabilità, così come
avviene in una particolare manifestazione del pensiero magico,
costituita dal cosiddetto «pensiero desiderativo» (wishful thinking)*2.
Anche questa modalità di pensiero si attiva quando il «desiderio»
assume il controllo del comportamento e fa in modo che gli eventi
soggettivamente più desiderati vengano valutati come più probabili
di altri meno desiderabili (Morlock A. H., 1967). Questa modalità
di pensiero magico può essere innocua la maggior parte delle volte
che si stimano come più probabili gli eventi desiderati; essa tuttavia
può risultare particolarmente rischiosa in quei casi in cui vengono
*2
trata nelle persone con costituzioni fisiche più forti e dotate di buona salute.
Una volta appresa questa notizia, in successive condizioni di rumorosità si è osservata, nel suddetto gruppo, una tendenza piuttosto diffusa a tollerare il rumore (giudicato sopportabile in tutti i casi). Questa tendenza è volta a dimostrare a
se stessi di avere un organismo forte e in salute, facendo ricorso ad un pensiero
magico che inverte le relazioni causali, illudendo che se si resiste al rumore si ha
una costituzione fisica forte.
È importante sottolineare come questa tendenza non sia stata riscontrata nei
componenti di un secondo gruppo a cui la notizia sullo studio in questione non
era stata riferita; essi infatti hanno mostrato maggiore sincerità nel valutare il
fastidio degli stimoli rumorosi a cui sono stati sottoposti, nonostante fossero
identici a quelli cui sono stati sottoposti quelli del primo gruppo.
Un esempio tipico del “pensiero basato sul desiderio” è il seguente: Due case
produttrici commerciali degli stessi prodotti organizzano entrambe un concorso a premi. La prima mette in palio un’automobile e la seconda una borsa da
viaggio. Pur essendo riportato sulle confezioni dei prodotti che le probabilità di
vincere la borsa sono maggiori rispetto a quelle di vincere l’automobile, il desiderio di vincere l’auto può guidare all’acquisto del primo prodotto, ignorando
le scarse possibilità di vincita.
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considerati poco probabili (e così non è nella realtà) eventi negativi
non desiderati. *3
Un’altra forma molto comune di manifestazione quotidiana del
pensiero magico è costituita dai «rituali»*4. Essi sono costituiti da
abitudini che assumono il valore di possibilità di controllare gli eventi
reali; essi sono legati a tutti gli esempi di partecipazione che sono
stati riportati in precedenza. I rituali possono non interferire con la
vita di una persona, ovviamente a patto che non diventino, come
in alcuni casi, comportamenti rigidi e centrali. Uno dei compiti più
frequenti che ci viene richiesto quotidianamente è quello di prendere
delle decisioni. Le scelte che sono richieste spesso non sono tutte
ugualmente importanti; alcune sono abituali, come quelle che
riguardano cosa mangiare a colazione, come vestirci per andare a
lavoro; altre sono saltuarie, come quelle che riguardano l’acquisto di
un libro. Esistono poi delle scelte di maggiore rilevanza come quelle
che concernono l’acquisto di un appartamento, la scelta di un corso
di studi o di un partner. Queste importanti decisioni devono tenere
in considerazione sia aspetti concreti, come caratteristiche o fatti,
che aspetti meno tangibili, come i desideri, le emozioni altrui o la
probabilità che accadano determinati eventi. La conoscenza delle
modalità di ragionamento legate al pensiero magico può aiutare a
diventare più consapevoli delle scelte in cui esso può essere chiamato
in causa senza rischi e di quelle in cui questa forma di pensiero,
sostituendo le capacità di giudizio razionali, potrebbe divenire
pericolosa.
*3
*4
Un esempio di “pensiero desiderativo” pericoloso è il seguente: La scienza medica ha verificato con numerosi studi che, quando si è colpiti da infarto, esiste un
maggiore rischio di ricadute se si continua a fumare.Diversi infartuati tuttavia
non riescono a smettere di fumare, sottovalutando il rischio reale testimoniato
dai dati statistici sull’incidenza del fenomeno e lasciandosi guidare dal forte desiderio di continuare a fumare.
Esempi di rituali: Tutti, più o meno, fanno ricorso a rituali. Essi diventano più
frequenti quando ci si trova in condizioni di ansia e aumenta il desiderio di controllare la realtà.Ne sono esempi l’uso di uno stesso vestito per fare un esame, lo
scendere dallo stesso lato del letto ogni mattina, l’allenarsi allo stesso orario la
settimana prima di una gara, l’uso di un oggetto come portafortuna o il lasciare
fuori dall’armadio l’ombrello per scongiurare che non si rimetta a piovere.
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Nascita della Suggestologia
«La suggestione porta all’eliminazione dei fenomeni patologici,
ma solo transitoriamente»
SIGMUND FREUD
«A questo mondo vi sono solo due tragedie: una è non ottenere ciò
che si vuole, l’altra è ottenerlo. Questa seconda è la peggiore, la vera
tragedia».
OSCAR WILDE
Georgi Lozanov, dottore in medicina all’Università di Sofia
dal 1951, inizia ad esercitare la propria professione in qualità di
psicoterapeuta. Si occupa di ipnosi, ma ben presto abbandonerà
questo campo. Egli si convince molto presto che la suggestione allo
stato di veglia permette di ottenere risultati superiori a quelli della
suggestione sotto ipnosi e soprattutto più duraturi. Continuando la
pratica come medico, Lozanov si interessa anche alla parapsicologia
e in modo particolare ai fenomeni di telepatia. Il suo interesse per
questa branca della parapsicologia lo porta, tra il 1960 e il 1966,
presso l’Istituto di Studi Psicologici dell’Università di Leningrado.
Qui scoprirà tre dei maggiori principi della Suggestologia:
a) Le vaste risorse ancora poco conosciute e tutte da esplorare, della
suggestione telepatica;
b) L’estrema importanza della micro-comunicazione inconscia tra
gli esseri viventi;
c) La possibilità di risvegliare in ciascuno le potenzialità inutilizzate e
tutto ciò, attraverso l’attivazione di quelle che Lozanov chiamerà
«le riserve del cervello umano».
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Nel 1965 Lozanov soggiorna per diverse settimane in India, al
fine di approfondire certi fenomeni di parapsicologia presso degli
Yogi. Il soggiorno non soltanto lo persuaderà della realtà delle
straordinarie performaces di alcuni Yogi, ma lo convincerà anche
del ruolo decisivo che giocano la suggestione e l’autosuggestione in
questi processi. Da questa sua esperienza un punto soprattutto attira
la sua attenzione: l’ipermnesia o superattività della memoria. Alcuni
Yogi infatti, sono in grado di memorizzare migliaia di versetti di
testi sacri grazie all’ipermnesia suggestiva. Desideroso di proseguire
le proprie ricerche in questo settore, Lozanov sceglie come campo
di sperimentazione quello dell’insegnamento delle lingue straniere.
Infatti già nel 1955 Lozanov narra nell’opera «Souguestologuia» di
aver notato come nella sua pratica di psicoterapeuta non solo la
suggestione guarisce, ma libera anche importanti potenziali psichici
e mnesici. In quel periodo capitò che un suo paziente venisse alla sua
consueta seduta assai stanco e depresso: doveva frequentare lo stesso
giorno un corso serale e si lamentava di non aver potuto imparare
la poesia che doveva sapere a memoria. Contemporaneamente alla
suggestione terapeutica, condotta in stato di veglia senza ipnosi,
per la cura del caso specifico, Lozanov operò delle suggestioni
per stimolare il tono generale e specialmente la memoria del suo
paziente. Quest’ultimo lasciò lo studio di ottimo umore. Il giorno
dopo ritornò tutto eccitato e raccontò che durante il corso serale
aveva ripetuto a memoria l’intera poesia che aveva ascoltato una
sola volta nella lezione precedente. Ci furono numerosi e ulteriori
esperimenti per assicurarsi che non si trattasse di un fenomeno
accidentale. Si era ormai raggiunta la certezza che l’ipermnesia
suggestiva esiste veramente. Era nata la SUGGESTOLOGIA: scienza
della suggestione che studia l’influenza dell’ambiente sull’uomo e
tende a stabilire le condizioni necessarie perché si verifichino quei
fenomeni suggestivi atti a sollecitare i potenziali umani. Lozanov
stesso definisce la Suggestologia: «Scienza delle comunicazioni
inconsce, capace di mettere in evidenza e di attivare le riserve della
personalità.»
Nel 1963 con alcuni ricercatori e professori di lingue curiosi di
questo nuovo approccio, Lozanov inizia a sperimentare. I primi
tentativi consistevano nel far memorizzare delle liste di nomi, poi si
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è passati a frasi ed infine ad un insieme organizzato attorno a dei temi
coerenti. Il programma dei corsi proposti agli studenti comportava
l’acquisizione di un vocabolario di circa 1800 (2000) parole. Va
ricordato che il vocabolario di cui dispone una persona della propria
madrelingua, di buon livello di cultura generale, è dell’ordine di
24.000 parole, di cui in realtà utilizza nella conversazione corrente
soltanto da 3 a 4 mila. Gli studenti dei corsi di Suggestopedia,
sottoposti a test di memorizzazione, ottennero per 2/3 un risultato
in percentuale del 100%. Per i restanti il risultato fu comunque
superiore al 90%. Incoraggiato da questi risultati, Lozanov ed il suo
staff proseguirono la sperimentazione tanto che il Governo Bulgaro
approvò la creazione, nell’ottobre del 1966, di un Centro di Ricerche
in Parapsicologia e in Suggestologia appoggiato all’Università di
Sofia. Nel 1971 diventerà Istituto e dal 1973 si chiamerà Istituto di
Suggestologia, direttamente annesso al Ministero dell’Educazione
e diretto esclusivamente alle esperienze di Suggestopedia. Gli
studenti di lingue straniere dell’Istituto di Sofia erano soprattutto
adulti con impegni di carattere professionale, ma dal 1972 il settore
di ricerca dell’Istituto in materia di Suggestopedia riguarderà anche
l’insegnamento ai bambini della scuola primaria e secondaria.
Il termine «Suggestione» deriva dal latino «Suggero, suggessi,
suggestum» (porre o portare, suggerire, consigliare). Questo termine
ha acquistato un significato più o meno negativo in molte lingue.
La suggestione appare come un fenomeno ambiguo, contraddittorio.
Nella conversazione corrente, suggerire a qualcuno un’idea, una
decisione, un comportamento è a prima vista un non voler imporgli
la propria volontà. Significa quindi lasciarlo libero di esaminare, di
scegliere e di decidere da solo. Ma, in certe condizioni, la suggestione
riflette anche tutta un’altra realtà: la volontà di manipolare la mente
di un altro senza che egli ne sia cosciente. Questa terminologia
tuttavia non è definitiva ed i due significati coesistono nel linguaggio
corrente che si trova così a tradurre nel modo più concreto il
problema fondamentale della suggestione: assoggettamento o
rispetto dell’altro? Costrizione o libertà? La suggestione è come un
iceberg di cui emerge solo la parte cosciente, la meno importante. La
parte più importante è quella nascosta all’osservazione diretta ed
è quella immersa dell’iceberg. Possiamo aggiungere che è alla base
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della comunicazione dell’essere umano con gli altri, con l’ambiente
circostante, con se stesso, come nell’autosuggestione. Ma di tutto
ciò noi siamo consapevoli solamente in parte o in modo molto
limitato.
Possiamo dire che le origini del fenomeno suggestivo risalgono alle
origini stesse dell’uomo. Ma la presa di coscienza della suggestione
è più recente. Essa risale alla fine del XVIII° secolo. Per molto
tempo questa conoscenza è rimasta esclusivamente proprietà dei
medici e guaritori e si è limitata alla suggestione in campo medico e
paramedico. Mesmer, Puysègur, Braid, Charcot, Bernheim e anche
gli psicoanalisti con Freud e Jung, Coué, Baudouin e non ultimo
Lozanov, sono i principali ricercatori e praticanti che hanno dato
il loro nome alla storia di questa presa di coscienza da più di due
secoli.
Il riconoscimento del carattere normale, sano, non patologico
della suggestione ha segnato un’altra tappa nella sua affermazione
che ha completato la presa di coscienza dei suoi aspetti benefici per
l’individuo, la fiducia nella propria salute fisica e nello sviluppo
personale ed evolutivo. Finalmente è stata data alla suggestione
positiva moderna il suo vero volto quello della libertà in opposizione
alle sue forme negative obbliganti e manipolatrici. La suggestione
può essere considerata un canale di comunicazione molto sottile.
Lozanov afferma che la suggestione è una forma di reazione mentale
in cui si crea, principalmente in modo inconscio, una speciale
attitudine per lo sviluppo delle riserve funzionali dello psichismo
umano. La suggestione è al tempo stesso informazione, regolazione
e programmazione. È una parte costante e indispensabile di ogni
processo di comunicazione. In alcuni casi può aumentare l’utilizzo
delle proprie riserve mentali, in altri casi può diminuire, ma partecipa
sempre alla vita mentale ed emotiva dell’uomo. Il termine suggestione
comprende quello indivisibile e complementare di desuggestione.
La suggestione partecipa sempre alla nostra attività più razionale:
come ingrediente emotivo di ciascun processo razionale, come
percezione periferica in ogni attività, come azione inconscia negli
automatismi e, in generale, come un ingrediente inconscio di tutte
le qualità, processi e mediazioni tra la personalità e le barriere antisuggestive. La suggestione è realizzata attraverso il paraconscio
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in tutte le sue varianti. Possiamo definire la suggestione come
un costante fattore comunicativo che, principalmente attraverso
l’attività mentale inconscia, può creare le condizioni per sfruttare
le capacità latenti funzionali della personalità. La suggestione non
può essere separata dalla convinzione, come l’inconscio non può
essere separato dal conscio. Lozanov ha recentemente iniziato ad
usare il termine «Desuggestology» al posto di «Suggestology» per
sottolineare il principio di base delle sue ricerche e del suo metodo,
diretto ad aiutare le persone a rimuovere suggestioni restrittive e
limitanti, cosicché possano usare e accedere facilmente al livello
delle loro capacità naturali. Il processo d’informazione avviene
armoniosamente sia sul piano conscio che sul piano subconscio.
La suggestibilità è sempre limitata da una forma di protezione
naturale: le barriere antisuggestive. Così come il corpo possiede degli
anticorpi contro la malattia fisica, allo stesso modo la personalità
produce una protezione mentale per selezionare le sollecitazioni
suggestive. Lozanov classifica queste barriere in tre differenti tipi:
La barriera logica, la barriera affettiva e la barriera etica.
La barriera logica respinge tutto ciò che non dà l’impressione di
essere motivato logicamente. Quando la suggestione cade all’interno
del campo di coscienza del pensiero critico viene accuratamente
soppesata prima di essere accettata. La barriera affettiva fa rifiutare
tutto ciò che non riesce a creare una sensazione di fiducia e di
sicurezza. Sembra assai sviluppata nei bambini piccoli non ancora
in grado di elaborare il ragionamento logico. La barriera etica fa si
che le suggestioni che si pongono in contraddizione con i principi
morali delle persone non vengano realizzate. L’esistenza e la solidità
di queste tre barriere antisuggestive sono necessarie alla salute (la
loro mancanza o il loro indebolirsi possono essere causa di malattia).
Esse servono da filtro indispensabile agli innumerevoli stimoli
dell’ambiente. Queste barriere non vanno forzate; il modo migliore
di superarle è quello di agire in armonia con esse.
Così l’insegnante deve superare le stesse barriere antisuggestive
nel suo lavoro, adoperandosi nel creare fiducia, nell’incoraggiare
i suoi studenti alla calma e al relax per ottenere così l’atmosfera
preliminare necessaria. In seguito ai numerosi e attenti sperimenti
condotti dall’Istituto di Suggestologia di Sofia, si potè constatare
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che producendo una situazione di fiducia che consente di superare
la barriera logica e affettiva si produce un meccanismo di controsuggestione, di abbandono dei riferimenti abituali inculcati fin
dall’infanzia e di suggestione rispetto ad una maggiore valutazione di
sé e delle proprie capacità. Ad esempio, le convinzioni suggestive della
capacità piuttosto limitata della memoria umana, che sono costruite
nello sviluppo sociale e individuale, reinforzano notevolmente
le barriere antisuggestive rispetto alla memoria. L’ipermnesia
suggestopedica (superattività della memoria) non deriva tanto
dalla suggestione sulla capacità mnemonica incrementata, ma
dalla desuggestione, dalla liberazione della suggestione costruita
socialmente e individualmente sui limiti della capacità mnemonica
umana. È chiaro che il processo suggestivo è sempre una combinazione
di suggestione e desuggestione. Il collegamento desuggestivosuggestivo avviene grazie alle barriere antisuggestive.
Sappiamo che i due emisferi hanno funzioni diverse e che
l’apprendimento di una lingua straniera richiede l’attività
sincronizzata di entrambi, in quanto l’emisfero di sinistra è coinvolto
nella produzione verbale, mentre il destro deve assorbire e acquisire
familiarità con il nuovo materiale e la differente struttura linguistica
con cui devono essere organizzate le parole per avere un significato.
Imparare una lingua richiede maggiormente l’attività dell’emisfero
destro, sebbene non siamo consapevoli di ciò. Molto del nostro senso
per la struttura della lingua è acquisito prima ancora di iniziare
l’istruzione formale di grammatica e sintassi. Una delle ragioni
dell’efficacia dell’approccio suggestopedico risiede nell’uso delle
facoltà intuitive (generi di informazioni caratteristiche dell’emisfero
di destra) nell’apprendimento verbale (caratteristica dell’emisfero di
sinistra). Recenti scoperte neurofisiologiche descrivono il processo
di apprendimento come una serie di scariche di neuroni localizzati
su tutto il cervello (in entrambi gli emisferi), non solamente la
formazione di un legame tra neuroni in due differenti aree.
Esiste una categoria di stimoli che nella loro assoluta intensità
dovrebbero appartenere al sistema sensoriale, ma molto spesso,
sotto specifiche condizioni, rimangono inconsci. Questo accade
spesso, quando l’attenzione è attratta da alcuni stimoli mentre
altri rimangono alla periferia dell’attenzione. Questi tipi di stimoli
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inconsci sono chiamati «stimoli marginali subsensoriali». Essi
giocano un ruolo importante in tutte le relazioni umane. Studi
suggestopedici hanno dimostrato che questa informazione periferica
inconscia resta alla base della memoria a lungo termine. Un numero
enorme di azioni automatiche cadono dentro la sfera dell’attività
mentale inconscia. Le formule abbreviate del pensiero, i concetti
pronti ai quali siamo abituati, gli atti motori e molte altre attività
sono ottenute grazie all’automazione e all’attività mentale inconscia.
È attraverso canali inconsci che possiamo registrare una grande
quantità di percezioni. Queste, assieme alle percezioni coscienti,
forniscono quelle informazioni che conservandole, costituiscono
l’alimento della memoria.
Rorschach, noto psicologo e autore del famoso test che porta il
suo nome, sostiene che l’affettività si organizza nell’attività inconscia
e così pure l’immaginazione. La prima è inoltre responsabile della
conservazione o meno delle informazioni e regola le motivazioni,
le scelte, le simpatie e antipatie. Lozanov afferma: «tutta l’attività
cosciente si basa su componenti inconsce». È impossibile separare
l’attività mentale del conscio dal subconscio, così come lo è separare
un oggetto illuminato dalla sua stessa ombra. In ogni pensiero,
sentimento, percezione o attività mentale esiste un insieme di
esperienze chiare e centrali, e parallelamente in secondo piano, una
serie di esperienze oscure, periferiche. Queste ultime sono numerose e
provengono dai gesti, dal modo di muoversi, dall’espressione del viso
e degli occhi, dal modo di parlare e dal tono di voce, dai movimenti
ideo-motori impercettibili all’osservazione cosciente, dall’ambiente,
dalle aspettative o dai bisogni di chi ascolta, e in generale da
tutto ciò che al momento della comunicazione è collegato al suo
contenuto semantico. La maniera di esprimersi è quindi altrettanto
importante del contenuto del discorso. I fattori non specifici che
accompagnano un discorso molto spesso rimangono impercettibili,
ma entrano comunque a livello inconscio, in ogni caso giocano un
ruolo significativo nel condizionare impressioni, decisioni, relazioni,
umori, ecc.
Questo tipo di attività mentale inconscia è chiamata «Reattività
Mentale Non Specifica» (N. M. R. Nonspecific Mental Reactivity).
Conscio e inconscio, ragione e sensibilità, devono lavorare in armonia
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all’interno di questa unità indissolubile che è l’essere umano. Non si
può pensare ad una educazione specifica di uno dei due emisferi che
ignora l’altro. Ciò di cui beneficia il primo approfitta anche il secondo
e viceversa. Questa convinzione di Lozanov si appoggia sul principio
della REATTIVITÀ MENTALE NON SPECIFICA. La suggestione
globale sintetica lozanoviana è uno stimolo non specifico che suscita,
a ciò a cui si riferisce, una reattività anch’essa non specifica. È la
personalità tutta intera dell’allievo che è sollecitata. È ugualmente
questa personalità tutta intera che risponde e che reagisce senza che
sia possibile attribuire tale effetto determinato a una causa specifica.
Per globale si intende una reazione, conscia e inconscia allo stesso
tempo, della personalità e del processo desuggestivo-suggestivo.
Ma come educare non specificatamente? Con l’azione globale e
simultanea di tutti i mezzi della Suggestopedia. Ne cito subito alcuni:
la personalità stessa dell’insegnante che è senza dubbio l’elemento
più importante; l’uso sistematico di mezzi artistici nell’insegnamento,
il ruolo importante dovuto alle emozioni e alle emozioni piacevoli.
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L’approccio quantistico
«Nel trarre conclusioni così generali sorge un dubbio: è possibile
fidarsi della mente umana che, cosa di cui sono totalmente convinto,
si è sviluppata a partire da quella degli animali più primitivi che si
possano immaginare?»
CHARLES DARWIN
Nel 1994 usciva in contemporanea nelle librerie inglesi ed americane
un volume scritto da un famoso fisico dell’Università di Oxford R.
Penrose e intitolato «Le Ombre della Mente». Questo libro, per le tesi
che prospettava nonché per l’autorevolezza del suo autore, mise in
subbuglio il mondo medico-scientifico dell’epoca. La tesi principale
sostenuta da Penrose ruotava attorno all’inadeguatezza dei modelli
interpretativi dei «processi cognitivi» e sulla possibilità di trovare
strade alternative per spiegare le dinamiche degli «atti mentali».
Rifacendosi ad alcune pionieristiche ricerche dell’anestesiologo S.
Hameroff e del neurofisiologo B. Libet, Penrose ipotizzò che i processi
cerebrali come la coscienza o la consapevolezza dovessero essere
direttamente collegati al fenomeno fisico noto col nome di «coerenza
quantistica». La «coerenza quantistica» è quel meccanismo fisico per
cui i metalli portati a bassa temperatura manifestano il fenomeno
della superconduttività. A temperature molto basse infatti, alcuni
metalli possono condurre l’elettricità senza opporre resistenza. Una
corrente immessa in una spira superconduttrice scorrerebbe per
un tempo infinito. Il segreto di questo fenomeno è che gli elettroni
che trasportano la corrente elettrica si muovono tutti insieme in
modo coerente, come se fossero una unica gigantesca particella. La
conseguenza di questa «pan-armonia» è che la corrente elettrica
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scorre praticamente senza ostacoli. Una situazione simile -seppur
in condizioni ambientali decisamente diverse- avviene, secondo
Penrose, anche a livello cerebrale (al livello dei tubuli). Il cervello
umano è costituito da miliardi di neuroni (il neurone è la cellula
fondamentale del sistema nervoso) che a loro volta sono costituiti
da migliaia di microtubuli i quali sono composti da enti ancor più
piccoli chiamati tubuli. Ora, a parere di Penrose, l’evento cosciente
nell’uomo, il passaggio cioè dallo stato di pre-coscienza allo stato
di coscienza, avviene al raggiungimento da parte dei tubuli dello
stato di massima «eccitazione coerente». Come gli elettroni nella
superconduttività (i quali muovendosi all’unisono permettono alla
corrente di fluire senza ostacoli) così la globalizzazione della coerenza
tra i tubuli cerebrali permette il verificarsi del processo cognitivo. Il
tempo di transizione dalla fase pre-cosciente alla fase cosciente con la
conseguente attivazione del segnale motore che consente ad esempio
di muovere un braccio, dura circa mezzo secondo. Il susseguirsi delle
transizioni dal livello minimo al livello massimo di coerenza dei
tubuli, costituisce il «corso della coscienza»; lo scorrere del tempo.
I fenomeni di coerenza quantistica oltre a spiegare razionalmente
le dinamiche dei processi cognitivi, darebbero conto anche di quello
che Penrose chiama «Senso Unitario» della mente. Il processo
cosciente non può mai essere frutto dell’attivazione di una singola
area del cervello ma deve scaturire dalla azione concertata in un gran
numero di zone della mente. L’oscillazione coerente dei tubuli, la quale
interessa la maggior parte del cervello, provvederebbe egregiamente
a quel collegamento globale essenziale per l’estrinsecazione dell’atto
mentale. Una delle più singolari conseguenze dell’applicazione
della coerenza quantistica alla mente, è che i processi cerebrali non
potranno mai essere pienamente simulati da un calcolatore. Infatti, un
computer per quanto evoluto possa essere, deve pur sempre ragionare
seguendo una logica deterministica, ad ogni azione deve sempre
corrispondere una reazione. Uno più uno deve sempre dare due. La
coerenza quantistica alla base dei processi cerebrali invece, dovendo
sottostare alle leggi della Meccanica Quantistica (le quali prevedono
che qualsiasi sistema a loro soggetto debba sempre manifestare un
certo grado di indeterminazione, di imprevedibilità), sfugge a questa
logica. In altre parole l’aumento del grado di coerenza dei tubuli che
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deve condurre dallo stato di pre-coscienza allo stato di coscienza,
può, seppur con probabilità molto bassa, fermarsi o accelerare
spontaneamente, con tutte le conseguenze che ne derivano. Il filo
conduttore delle teorie di Penrose ruota attorno all’inadeguatezza
dei modelli interpretativi dei processi cognitivi e sulla possibilità di
trovare strade alternative per spiegare le dinamiche degli atti mentali.
Lo studioso britannico indica nella «coerenza quantistica» la causa
dei processi più intimi dell’attività cerebrale. La coerenza quantistica
è quel processo fisico per cui un gran numero di particelle agisce
coralmente assumendo le caratteristiche e le qualità di una unica
macro-entità, consentendo il verificarsi di fenomeni quali l’emissione
Laser o la Superconduttività2.
Le caratteristiche peculiari della coerenza quantistica sono
essenzialmente due: l’evoluzione dei suoi processi dinamici secondo
una logica non deterministica (non esprimibile cioè attraverso semplici
meccanismi di causa ed effetto o «razionalizzabili») e l’estensione
immediata e globale del fenomeno quantistico a tutti gli enti che
partecipano al processo coerente. Tali caratteristiche ben si adattano
al controllo dei processi mentali come gli «stati emozionali» (per
loro natura non razionalizzabili) o «l’unicità dei processi cognitivi».
Per quanto concerne quest’ultimo aspetto delle caratteristiche
della mente, recenti studi di neurobiologia hanno dimostrato la
non veridicità delle ipotesi secondo cui si avrebbe nel cervello una
localizzazione ben definita delle funzioni deputate alla coscienza o
al controllo dell’attività sensitiva. Tali funzioni andrebbero invece
attribuite al cervello nel suo insieme, il quale, attraverso una fitta
rete di sistemi interconnessi, controllerebbe ogni attività. Alle aree
tradizionalmente ritenute sede delle funzioni cerebrali andrebbe
soltanto riconosciuto il compito di originare il primo impulso per
l’attivazione dell’atto mentale o sensitivo.
Comparando i risultati dei diversi studiosi che nel tempo si
sono occupati di coerenza quantistica applicata ai sistemi biologici
(Fröhlich 1975, Grundler e Keilmann 1983, Marshall 1990, Penrose
1994), unitamente a specifici studi di meccanica ondulatoria (Rossi
e Cantalupi 1995), si evince che esiste una frequenza di eccitazione
coerente per i neuroni cerebrali ed i suoi sub-componenti comune
a tutti i lavori di coloro i quali si sono occupati di queste ricerche.
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Questa oscillazione, di cui nessuno prima d’ora aveva enfatizzato
l’importanza o aveva notato la sistematica ricorrenza nei lavori
sull’argomento, copre frequenze che vanno da dieci a cento miliardi
di cicli al secondo (dove un ciclo al secondo rappresenta il tempo
impiegato da un sistema eccitato per compiere un’oscillazione
completa). Ora, queste frequenze non devono essere confuse con
le oscillazioni che normalmente si registrano durante le sedute
elettroencefalografiche (le quali, per altro, hanno frequenze molto
basse); esse in teoria assumerebbero le caratteristiche di una vera e
propria vibrazione dei processi profondi del cervello, una oscillazione
dei nostri stessi pensieri. Se risultasse verificata sperimentalmente
questa potente «pulsazione cerebrale», si potrebbe aprire la strada
verso nuove forme di cura dei disturbi cerebrali.
Scienza, filosofia e religione cercano da secoli di rispondere alla
classica domanda: «Che cos’è la mente?», ma le diverse soluzioni
proposte sono sempre state parziali e spesso in contrasto reciproco:
in pratica mai nessuna spiegazione è risultata davvero valida ed
esauriente. Gli stessi psicologi sono poco soddisfatti delle teorie e
delle tecniche sviluppate dalla loro disciplina nel corso degli ultimi
decenni. Vediamo allora di partire da qualche punto fermo. Al di là
delle convinzioni personali e religiose, oggi la scienza ci informa con
ragionevole certezza che il processo del pensiero è dovuto a fenomeni
chimici e fisici che avvengono nel cervello e nel sistema nervoso
a livello microscopico, ovvero a livello molecolare ed atomico. Il
funzionamento della natura a livello atomico e sub-atomico è
governato dalle leggi della cosiddetta «meccanica quantistica», una
teoria fisica sviluppata agli inizi del secolo ventesimo, che risulta
molto valida e precisa ma che presenta risvolti molto strani o perfino
paradossali*5. A livello sub-atomico la materia perde le familiari
proprietà... «materiali» e si manifesta invece come un gioco di forze
e di onde. Chi ha studiato un po’ di chimica sa che l’atomo è molto
*5
Solo pochi scienziati nutrono ancora dei dubbi sul fatto che la meccanica quantistica giochi effettivamente un ruolo determinante nel processo del pensiero,
ma per contro molti altri (a partire da Bohr, Eddington e Wigner negli anni ‘20,
per arrivare a Wheeler e Penrose) hanno fortemente sostenuto questa tesi ed
oggi vi sono fortissimi indizi a suo favore ed anche alcune conferme.
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stabile e può essere considerato una pallina «solida». Il modello
fondato su particelle «dure» però fallisce quando si analizza la
struttura interna dell’atomo: la «solidità» dell’atomo è creata in realtà
da un gioco di forze che si crea al suo interno tra gli elettroni, i quali
non si comportano come vere e proprie «particelle» o «corpuscoli»
materiali ma si distribuiscono spazialmente in determinate «nuvole
elettroniche» o «orbitali». In realtà la questione è più complessa
di quanto si può dedurre da questa semplice descrizione: tali
orbitali in realtà sono delle «onde risonanti» che obbediscono
alle leggi della meccanica quantistica, le quali presentano diversi
aspetti paradossali.*6 È vero che il «capriccio» di voler accostare
il funzionamento della mente alla meccanica quantistica sembra
una specie di «moda», diffusa specialmente tra gli scienziati con
propensioni «new age», ma vi sono diverse conferme scientifiche a
riguardo. Se la mente umana è veramente capace di agire a livello
quantistico, essa può avere delle grandi potenzialità inespresse
(nettamente superiori a quanto generalmente si ritiene). Centinaia
di ricerche scientifiche (pubblicate fin dal 1970, per esempio su Le
Scienze n. 45 del Maggio 1972) hanno dimostrato che una certa
tecnica mentale molto semplice, chiamata TM, è capace di «ripulire»
il sistema nervoso stesso da stress e tensioni, apportando effetti
benefici di grande portata sull’organismo, sia a livello fisiologico
che psicologico. Alcuni scienziati sostengono che la TM agisce sul
sistema nervoso a livello quantistico e riesca portarlo al suo stato
di «minima eccitazione». Si tratta di una «tecnica-gioiello» che
implica e riassume in sé le conoscenze di varie scienze, dalla fisica
alla psicologia, dalla neurologia alla filosofia... E quindi presuppone
anche un’integrazione ed una sintesi di varie discipline, oltre ad avere
di per sé una straordinaria utilità pratica.
Quello che il Teorema di Bell3 sembra accertare, poiché si basa
*6
Occorre ribadire che la meccanica quantistica, nonostante le sue apparenti stravaganze, ha sempre dimostrato una straordinaria validità (nell’ambito di sua
pertinenza). Senza voler considerare i controversi risultati ottenuti dalla fisica
nucleare, la teoria quantistica ha permesso di creare tecnologie importantissime
ed oggi familiari, dal laser ai semiconduttori (che hanno permesso uno sviluppo
enorme dell’elettronica, specialmente in ambito digitale, con la conseguente rivoluzione informatica degli ultimi decenni).
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su fatti sperimentali, corrisponde al modello delle menti unificate:
menti che trascendono spazio, tempo e persone individuali; anche
questo modello si basa su fatti. Anche se la teoria quantistica viene
sostituita da un’altra teoria, e se le nostre teorie sulla psicologia
e sulla mente sono rimpiazzate da altre, questi fatti rimangono.
Essi ci dicono che il mondo è non localizzato e che, se guardiamo
abbastanza attentamente, possiamo vedere chiaramente prove di
questa non localizzazione nelle nostre vite quotidiane. La visione
popolare della mente e del sé conscio di una persona come di un
quid localizzato, che occupa uno spazio preciso, dà naturalmente
luogo alla nostra convinzione di essere osservatori situati in un corpo
da cui guardiamo la realtà a esso esterna. Questa teoria ha avuto
una forza poderosa nell’intera storia della nostra cultura ed è alla
base della scienza classica, secondo cui noi possiamo osservare e
misurare da un punto di osservazione esterno, e poi riflettere sul
possibile significato di tutto quanto; tuttavia nella fisica moderna,
essa è andata in frantumi. Attualmente la maggior parte dei fisici
ritiene che sia semplicemente impossibile spiegare le scoperte della
loro scienza attenendosi a questa ipotesi. La maggioranza della
comunità scientifica aderisce alla cosiddetta «interpretazione di
Copenaghen» della fisica moderna (così chiamata perché Niels Bohr,
il suo primo ideatore, era danese). Secondo quest’ottica, a livello
atomico, un mondo reale semplicemente non esiste fintanto che non
viene compiuta una misurazione o un’osservazione. Prima che ciò si
determini, c’è soltanto una varietà di possibili esiti per ciascun evento
successivo, ciascuno con la sua possibilità di realizzarsi una volta che
l’osservazione venga effettuata. L’osservatore (o, secondo alcuni fisici,
uno strumento di misurazione che funga da suo agente) compie l’atto
decisivo di far «collassare» tutte le possibilità consistenti in un singolo
esito coerente che solo allora può essere definito evento. Prima di
questo momento non siamo autorizzati a parlare di un mondo reale
di cose ed eventi, ma solo di possibilità con il potenziale di essere
realizzate. Solo combinando fra loro in un’unità singola l’osservatore
e quanto viene osservato la visione del mondo può avere senso. Qui
abbiamo una delle più radicali differenze fra la concezione moderna
del mondo alla luce delle scoperte della Meccanica quantistica e
quella classica. L’idea di una realtà eterna e fissa che segua il suo
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corso del tutto indipendente da un osservatore è stata superata nella
fisica moderna da una concezione che fondamentalmente incorpora
umanità in tale realtà.
La Meccanica quantistica nacque al principio del secolo e crebbe
come una teoria completamente rivoluzionaria che rovesciò le idee
prevalenti fra i fisici dell’epoca Vittoriana. Il modello classico
sosteneva che l’atomo fosse composto di un nucleo attorno al quale
orbitavano gli elettroni, come un sistema solare in miniatura. Si
sapeva che gli elettroni hanno una massa pari a circa un millesimo di
quella del protone (uno dei costituenti del nucleo) e che possiedono
una carica negativa in grado di bilanciare quella del protone, che è
positiva. Durante i primi decenni del secolo, però, si capì che questo
modello non poteva funzionare. Tanto per cominciare, i matematici
dimostrarono che gli elettroni non avrebbero potuto mantenere la
propria orbita stabilmente come fossero stati pianeti, e si sarebbero
fusi coi protoni del nucleo. Poiché era chiaro che nell’universo in cui
viviamo ciò non accade, si assunse, correttamente, che il modello
fino ad allora accettato doveva essere sbagliato. Grazie all’opera
pionieristica di fisici come Plank, Bohr e Schródinger, emerse un
modello che descriveva la natura del regno subatomico in modo di
gran lunga più sofisticato; questo nuovo modello portò con sé un
certo numero di conseguenze apparentemente astruse che da allora
come abbiamo più volte ripetuti, hanno gettato non solo i profani
nella confusione. Uno dei padri della Meccanica quantistica, Niels
Bohr, giunse persino ad affermare che «chiunque non resti scioccato
dalla teoria dei quanti non l’ha capita». I problemi cominciarono
davvero quando i fisici delle particelle si resero conto che l’elettrone
non era una sferula di materia carica negativamente, ma poteva
essere descritto solo in termini probabilistici. In altre parole, esiste
un’elevata probabilità che un elettrone si trovi a una determinata
distanza dal nucleo e una bassa probabilità che sia molto più distante
o molto più vicino a esso. Legato a questo concetto è il Principio di
indeterminazione4 annunciato da Werner Heisenberg nel 1927. Esso
dimostra che esistono dei limiti all’accuratezza con cui possono
essere misurate delle coppie di quantità fisiche. Ad esempio, se
cerchiamo di misurare la posizione e la quantità di moto di una
particella subatomica, lo stesso atto disturberà la particella a tal
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punto che non sarà possibile attribuire un valore preciso a entrambe
le quantità nello stesso istante. Questa nebulosità è descritta dalla
funzione d’onda - in altre parole, si tratta di una descrizione basata
unicamente sulle probabilità. Ora, di primo acchito, questa potrebbe
sembrare una faccenda da poco - che mai potrebbe accadere se non
riuscissimo a definire con precisione l’esatta posizione delle particelle
subatomiche? In realtà, questa è l’essenza stessa della Meccanica
quantistica e sta alla radice di tutti i problemi che essa crea alla mente
del profano. D’altra parte, questa è anche la ragione stessa per cui la
Meccanica quantistica potrebbe plausibilmente aiutarci a spiegare
alcuni fenomeni attualmente non spiegati.
Che cos’è la «realtà» del mondo per la fisica quantistica?
Sfortunatamente quella che noi percepiamo come realtà si scopre
essere semplicemente una serie di incidenti di percorso. Se crediamo
alla fisica quantistica, il mondo è nelle mani di queste onde di
probabilità. Ogni tanto una di queste onde «collassa», e allora, e
soltanto allora, succede qualcosa (le quantità fisiche assumono dei
valori osservabili). La sequenza di quei «qualcosa» costituisce la
realtà che percepiamo noi. Fu Von Neumann a chiarire gli estremi
del problema. A far collassare la funzione d’onda5 è, secondo la fisica
quantistica, l’interferenza di un altro sistema. Per esempio, se cerco
di misurare una quantità di un sistema (la sua velocità, per esempio),
faccio collassare la funzione d’onda del sistema, e pertanto leggo un
valore per quella quantità che prima era semplicemente una delle
tante possibilità. È il mio atto di osservare a causare la «scelta» di
quel particolare valore della velocità fra tutti quelli possibili. Ma
«quando» si verifica quel collasso? C’è una catena di eventi che porta
dalla particella al mio cervello: la particella è a contatto con qualche
strumento, che è a contatto con qualche altro strumento, che è a
contatto con il microscopio, che è a contatto con il mio occhio, che è
a contatto con la mia coscienza... dove avviene di preciso il collasso?
A che punto la particella smette di essere una funzione d’onda e
diventa un oggetto con una velocità ben precisa?
Il problema può essere riformulato così: che cosa causa il collasso
di una funzione d’onda? Basta la semplice presenza di un’altra
particella nei dintorni del sistema? Oppure dev’essere un oggetto
di grandi dimensioni? Oppure dev’essere per forza un oggetto in
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grado di osservare? Oppure dev’essere per forza una mente umana?
Sappiamo che un uomo è in grado di far collassare una funzione
d’onda, in quanto gli scienziati possono misurare le particelle. Ma un
insetto? Un insetto-scienziato sarebbe in grado di compiere le stesse
osservazioni? Sarebbe in grado di far collassare una funzione d’onda?
E un virus? Una pietra? Un albero? Un soffio di vento? ...
Von Neumann si domandava cosa promuove un oggetto a
«collassatore». La fisica quantistica concede questo privilegio: i
sistemi classici (come gli strumenti di misurazione o gli esseri umani,
oggetti che hanno una posizione, una forma e un volume ben definiti)
sono capaci di far collassare la funzione d’onda di sistemi quantistici
(che sono invece pure onde di probabilità) e pertanto di misurarli.
Ma cosa determina se un sistema è classico o quantistico? Anzi,
come fa la natura a sapere quale dei due sistemi è quello che misura
e quale è quello da misurare, in maniera tale che possa far collassare
quello da misurare e non quello che misura? Perché, quando misuro
un elettrone, collassa l’elettrone e non collasso io? Intuitivamente,
i fisici rispondono che un sistema per essere classico deve essere
«grande», in quanto l’indeterminatezza è tanto maggiore quanto più
ci si avvicina alle dimensioni della costante di Planck. Ma questo
significa semplicemente che gli oggetti «grandi» hanno un’immunità
dalle leggi quantistiche che è basata soltanto sulla loro dimensione.
Quantomeno bizzarro. Roger Penrose ha proposto che sia la gravità a
concedere quella immunità speciale. Gli oggetti «grandi» deformano
lo spazio-tempo e ciò in qualche modo causa il collasso spontaneo del
sistema in una possibilità ben precisa. Ecco perché i sistemi «grandi»
hanno una posizione e una forma ben definita. Analogamente,
quando il mio campo gravitazionale entra in contatto con quello di
un sistema «piccolo» (che si comporta come un sistema quantistico),
lo fa diventare parte di un sistema «grande» e pertanto di un sistema
classico. E pertanto lo posso misurare.
Il fatto rimane che nulla nella fisica quantistica spiega cosa
realmente accada quando un sistema quantistico «collassa»: il
collasso corrisponde a un cambiamento nello stato del sistema, oppure
corrisponde semplicemente a un cambiamento nella conoscenza
che io ho di quel sistema? Naturalmente, viene subito la tentazione
di puntare il dito verso la coscienza. Forse il collasso è dovuto al
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fatto che un essere senziente compie la misurazione. Forse la mente
entra nel mondo attraverso il pertugio lasciato aperto dal principio
di indeterminazione di Heisenberg. Forse la fisica quantistica ci
sta dicendo che la mente umana «deve» esistere affinché il resto
dell’universo possa esistere, altrimenti non ci sarebbe nessuno ad
osservarlo e ciò significa che resterebbe in eterno nel limbo delle
possibilità. La realtà è il contenuto della nostra coscienza, come ha
scritto recentemente Eugene Wigner. Un’altra possibilità è quella di
negare semplicemente che si verifichi questo misterioso «collasso»
della funzione d’onda. Invece di ammettere che il futuro venga scelto
a caso ogni volta che la funzione collassa, uno può decidere che tutti
i possibili futuri si verificano tutti insieme. In ogni secondo l’universo
si divide in miliardi di altri universi, uno corrispondente a ogni
possibile valore di ogni possibile quantità che uno potrebbe misurare.
È questa la teoria di Hugh Everett: se qualcosa può succedere,
allora succede... in qualche universo. Una copia di me esiste in ogni
universo. Io osservo tutti i possibili risultati di una misurazione, ma
lo faccio in universi diversi. Fra coloro che credono in questa ipotesi
si contano luminari come David Deutsch e Stephen Hawking.
Wojciech Zurek pensa che tutto contribuisca al collasso, e che il
collasso possa avvenire per gradi successivi. L’ambiente distrugge
quella che Zurek chiama «coerenza quantistica». E per «ambiente»
intende proprio tutto, dalla singola particella che transita per
caso fino al microscopio. L’ambiente causa «decoerenza» e la
decoerenza causa una sorta di selezione naturale alla Darwin: lo
stato classico che emerge da uno stato quantistico è quello che meglio
si «adatta» all’ambiente. Non sorprende pertanto che, studiando
questo fenomeno, Zurek stia pervenendo a intriganti paralleli
con il fenomeno della vita (l’altro grande mistero della natura è,
ovviamente, quello di come la materia vivente emerga dalla materia
non vivente). Come fa il mondo classico, fatto di oggetti e forme e
confini e pesi e altezze, ad emergere da un mondo quantistico, fatto
soltanto di onde e di probabilità?
Una coerente teoria della mente, basata da un lato sulle posizioni
ontologiche di Heisenberg appena descritte, e dall’altro su quelle
psicologiche di William James (1842-1910), è stata sviluppata da
Henry Stapp in una serie di saggi, raccolti nel 1993 in Mente, materia
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e meccanica quantistica. Nella sua opera principale, I principi di
psicologia del 1890, William James aveva enunciato alcune posizioni
pragmatiche (in accordo con la sua generale filosofia). Anzitutto,
una teoria della mente degna di questo nome non può soltanto
dissolverla nella descrizione di meccanismi comportamentali o
neurofisiologici, ma deve essere in grado di rendere conto delle
azioni più apparenti e costanti della coscienza: la libera scelta fra
varie alternative, e il controllo del comportamento. Inoltre, poichè
tutto ciò che possiamo sperimentare sono percezioni, l’universo deve
essere riducibile ad un’unica sostanza (esperienza pura), di cui la
coscienza è solo una parte. Infine, il riduzionismo psicologico non
può basarsi esclusivamente sulla fisica classica, perchè essa non è in
grado di assegnare ad un sistema complesso proprietà che non siano
riducibili a quelle delle sue costituenti: l’introspezione mostra invece
che i pensieri e la coscienza, nonostante la presenza di componenti,
sono sistematicamente percepiti come sostanzialmente unitari.
Le ingiunzioni di James sono state sistematicamente disattese dalle
teorie psicologiche dominanti del secolo, dal comportamentismo
di Watson al darwinismo neurale di Edelmann: esse rimuovono
tutte il problema della coscienza, limitandosi a descrivere in
maniera puramente classica le sue manifestazioni a vari livelli, dal
sociologico al neurofisiologico. La fisica quantistica ha maturato i
tempi di un cambiamento, ritrovandosi in perfetta sintonia con le
posizioni di James: il collasso della funzione d’onda esibisce le stesse
caratteristiche di scelta e determinazione della realtà attribuite alla
coscienza, l’interpretazione di Copenaghen riduce l’intera realtà
all’osservazione, e gli eventi quantistici rivelano un carattere olistico
che non permette di ridurli al comportamento individuale delle loro
parti. Mentre von Neumann e Wigner cercavano però di costruire
una teoria mentale della meccanica quantistica, attribuendo ad una
indefinita coscienza la causa del collasso della funzione d’onda,
Stapp ribalta il loro approccio e costruisce una teoria quantistica
della mente, definendo la coscienza come la manifestazione del
collasso. In altre parole, nel cervello gli eventi si mantengono in
inconscia sovrapposizione di stati fino a quando essi vengono resi
psicologicamente coscienti dal collasso fisico della funzione d’onda,
e la coscienza è quindi la controparte macroscopica del processo
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di fissazione delle strutture microscopiche del cervello (così come
le sensazioni sono la controparte macroscopica del funzionamento
dell’organismo).
A causa di un risultato di von Neumann, non ha importanza
in che punto della catena di osservazione si suppone che il collasso
avvenga, perchè i risultati sono largamente indipendenti da dove esso
si situi: la precedente definizione è dunque compatibile con svariate
ipotesi, in particolare che la coscienza sia un fenomeno di basso o
di alto livello cerebrale (cioè, neuronale o integrato). Ciò che invece
ha importanza è la relazione fra la struttura degli eventi cerebrali da
un lato, e di quelli psicologici dall’altro: ed una volta postulata una
corrispondenza fra gli eventi, è naturale estenderla anche alle loro
strutture. Stapp propone dunque la seguente definizione: la coscienza
è l’immagine isomorfa del collasso della funzione d’onda degli eventi
cerebrali. Più precisamente un evento cosciente, cioè l’attualizzazione
di una potentia cerebrale, crea una configurazione neuronale
temporaneamente stabile detta simbolo, a sua volta costituita da
componenti: in tal modo si genera una disposizione per l’attivazione
di tutti gli altri simboli che hanno componenti in comune con quello,
e si crea quindi una nuova potentia che attende di essere attualizzata
da un successivo evento cosciente. La tendenza dei simboli a svanire
crea la sensazione del fluire del tempo, l’insieme dei simboli attuali
in un dato momento costituisce uno schema corpo-mondo che viene
continuamente aggiornato, l’insieme dei simboli che persistono e a
cui le sensazioni momentanee vengono riferite costituisce il senso
del sè (un’esperienza cerebrale come tutto il resto), e l’integrazione
quantistica degli eventi cerebrali viene percepita psicologicamente
come l’unità della coscienza. Poichè la realtà è costituita dalle
attualità, che a loro volta sono determinate dalle potenzialità, ma
non tutte le attualità sono eventi di natura cerebrale o umana,
si può dire più generalmente che la mente è la manifestazione del
processo di attualizzazione delle potentia, di cui la coscienza umana
è dunque solo un aspetto particolare. Si arriva così per via fisica ad
una teoria che ha vari aspetti in comune con quella filosofica esposta
da Whitehead ne «Il processo e la realtà». Tutto ciò che esiste, cioè
la totalità delle attualità, si manifesta dunque come un atto creativo
della mente universale, una scelta che allo stesso tempo è delimitata
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dallo spazio delle possibilità preesistenti, e restringe lo spazio delle
possibilità future. E gli atti creativi della mente universale sono
linearmente ordinati, poichè essi corrispondono a cambiamenti nello
stato potenziale dell’universo, che è unico in ogni istante: dunque il
tempo mentale è lineare, in accordo con l’esperienza, e in contrasto
con il tempo fisico (in altre parole, l’evoluzione deterministica della
funzione d’onda e il suo collasso si riferiscono a due tempi distinti,
locale e relativistico l’uno, e globale e classico l’altro). Ma come
si spiega il carattere unitario e globalmente coerente dell’attività
mentale? James giunse al punto di mettere in dubbio il determinismo
delle leggi fisiche, ciò che al suo tempo suonava ancora come una
bestemmia, e aveva perfettamente ragione.
Henry Stapp ritiene di aver trovato la risposta nella meccanica
quantistica: lo stato fisico del cervello a un certo istante non
è la collezione dei microstati delle parti del cervello ma l’onda
interfenomenica quantistica che, a dispetto della causalità
spaziotemporale, correla tra loro sincronicamente tutti gli stati
locali della materia e veicola la probabilità delle transizioni di fase
globali del cervello. In altri termini, la realizzazione fenomenica del
mondo sarebbe pilotata e determinata dalla riduzione dei pacchetti
d’onda quantistici che costituiscono gli stati fisici del cervello. Il fatto
è che nell’universo di cervelli ne esistono tanti e, se le cose andassero
come dice Stapp, si ricadrebbe nella solita tesi solipsista: che ognuno
determina lo stato fenomenico del suo proprio mondo compresi gli
stati mentali di tutti gli altri esseri coscienti dell’universo. Di fatto
questa è l’unica visione concessa dalla meccanica quantistica dei
sistemi finiti e coincide sostanzialmente con quella proposta da von
Neumann nel 1931.
Ma la meccanica quantistica dei sistemi infiniti, fondata dallo
stesso von Neumann tra il 1936 e il 1946, fa giustizia di questo tipo
di interpretazioni perché introduce una nuova dimensione nella
rappresentazione del mondo fisico: l’emergenza fenomenica del
mondo macroscopico come processo termodinamico-informazionale.
La vera «mente» rivelatrice della sostanza interfenomenica del
mondo fisico è la catena causale, ma non deterministica, degli eventi
di condensazione bosonica e rottura spontanea delle simmetrie
causate dall’espansione termodinamica del cosmo macroscopico,
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indipendentemente dall’esistenza di esseri viventi. È sul terreno dei
processi termodinamici non in equilibrio che si trova la risposta. Da
questo punto di vista Ilya Prigogine ha ragione. Dove Prigogine ha
torto è nel trascurare, se non ignorare, che i processi informazionali
che generano la complessità del vivente non sono quelli descritti
nella termodinamica dei sistemi non in equilibrio, di cui è il massimo
sostenitore e propugnatore, ma nei processi algoritmici basati sulla
formazione dei linguaggi a elementi strutturali discreti.
I sistemi termodinamici di Prigogine sono volatili e incapaci di
raggiungere livelli di organizzazione paragonabili a quelli che si
riscontrano nel vivente. La questione che allora si pone è questa: è la
teoria dei processi algoritmici in grado di spiegare l’emergenza della
coscienza? In linea di principio sì: sulla base delle teorie degli algoritmi
autoreferenziali di Gödel e degli automi capaci di autoriprodursi di
von Neumann. Queste modelli sono in grado di dire molto circa le
condizioni strutturali e funzionali che permettono la generazione
di un processo informazionale capace di interpretare sé stesso. Solo
un processo capace di «interpretazione universale», nel senso della
teoria degli algoritmi, è in grado di essere autoreferenziale. Luce,
suoni e azioni fisiche sul mondo esterno veicolano informazione
connettendo in un processo informazionale universale tutte le cose
esistenti. Per un interprete universale particolare, i segnali fisici sono
equivalenti a fibre nervose che trasmettono e ricevono informazioni;
in questo modo, esso stesso diventa centro integrante di un processo
informazionale che si estende enormemente al di fuori del suo
organismo fisico.
Questo processo globale comprende altri interpreti universali.
Tutte le cose visibili, udibili e trasformabili che esistono in natura
costituiscono per ogni interprete universale una sorta di gigantesca
memoria esterna che alimenta la sua attività di interpretazione
universale. La teoria di Stapp lascia aperti i problemi del libero
arbitrio e del determinismo, perchè non decide se il collasso della
funzione d’onda sia frutto del caso o di qualche scelta ad un livello
più profondo. Presentando però la coscienza umana ad un tempo
come la manifestazione di un processo naturale e la localizzazione
di un processo universale, essa reintegra l’uomo nella natura e
nell’universo, e contrasta in tal modo le nefaste e tuttora influenti
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visioni di Bacone e Descartes, che vedevano da un lato la natura come
terra di conquista scientifica e tecnologica dell’uomo, e dall’altro la
mente come un fenomeno estraneo alla natura.
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I quanti e la PSI
«Le sole leggi della materia sono quelle costruite dalla mente, e le
sole leggi della mente sono costruite per essa dalla materia».
J. C. MAXWELL
La scoperta del paradosso EPR (la sigla è data dalle iniziali dei
nomi degli scopritori, ossia Einstein, Podolsky e Rosen), nacque da
un intento polemico. Il criterio per cui Einstein ne elaborò il principio
era dettato dal ricorrente proposito di evidenziare l’insensatezza della
concezione indeterministica (addirittura «indeterminata» secondo la
tesi più radicale) dei microfenomeni implicita nell’interpretazione
classica di Bohr e Heisemberg. Possiamo evidenziarne il significato
con un esempio semplice. Tra le dinamiche che caratterizzano il
comportamento di una microparticella c’è quella del poter decadere
in due altre particelle le quali, automaticamente, si allontanano l’una
dall’altra secondo due diverse direzioni. Ora, tali due particelle, così
scaturite da una comune origine, debbono mantenere, anche dopo il
distacco, certi specifici rapporti di proprietà quantiche. Prendiamo,
ad esempio, la proprietà chiamata spin6, facilmente rappresentabile
con il modello di un movimento a trottola che la particella compie
attorno a un certo asse. Per una legge - detta di «conservazione del
momento angolare» -, imposta sempre dall’esser originate dalla
stessa particella, se una delle due ha l’asse del movimento a trottola
orientato verso l’alto, l’altra deve necessariamente averlo rivolto
verso il basso. Anche il valore numerico deve esser perfettamente
complementare. Ad esempio, se lo spin della prima particella ha
valore 1/2 (secondo l’immagine semplificata della trottola, compie
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mezzo giro su se stessa nell’unità di tempo), quello dell’altra deve
avere valore -1/2.
Orbene, per il principio di indeterminazione di Heisemberg,
finché nessuna delle due particelle è osservata/misurata da uno
sperimentatore, non ha lo spin (come ogni altra caratteristica fisica
misurabile) in uno stato specifico. Si trova, in base allo stesso principio,
in uno stato di indeterminazione quantica, o di sovrapposizione
potenziale di stati. Solo l’atto della misura gli conferisce uno spin
reale e determinato. Supponiamo ora di compiere proprio questa
operazione fatidica della misura e che si trovi lo spin di una delle
due particelle «ridotto», o «collassato», nello stato di 1/2. Il che
provocherà istantaneamente anche la riduzione dello stato dello spin
della seconda particella al valore di -1/2. Come dire che, determinando
la realtà specifica di un oggetto posto qui davanti ai miei occhi,
automaticamente determino la realtà di un altro ben distante da me
e su cui non posso influire causalmente in alcun modo. La palese
assurdità deriva dal fatto che la seconda particella è ora un sistema
fisico del tutto separato e può trovarsi anche all’altra estremità della
galassia al momento della misura della prima.
Il carattere istantaneo dell’effetto violerebbe inoltre quel limite
assoluto della propagazione degli effetti fisici che è la velocità
della luce. Da tener presente anche l’eventualità che, non esistendo
nell’universo una particella che non abbia interagito con altre, il
paradosso E. P. R. prospetterebbe un’amplificazione a cascata del
fenomeno di interconnessione quantica configurando l’impossibilità
dell’esistenza di un oggetto microfisico realmente e totalmente
separato dagli altri. Abbiamo detto che Einstein considerò l’ipotesi
di questa strana «telepatia» tra sistemi microfisici come una prova di
impossibilità, un’implicazione assurda che confutava evidentemente
la tesi dell’interpretazione di Bohr e Heisemberg. Quando tuttavia,
diversi anni dopo, grazie agli studi di un fisico irlandese, John S.
Bell, fu possibile sottoporre a verifica sperimentale l’effetto E. P. R.,
ciò che emerse suonò di nuovo come un’amara beffa per la teoria di
Einstein: quell’effetto fantasma di contatto istantaneo tra sistemi
microfisici separati esisteva davvero. Flussi di coppie di particelle
originate nel modo anzidetto, una volta divenute sistemi indipendenti,
mostravano accordi statistici delle proprietà prese in esame che non
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potevano essere dovuti al caso. È proprio questa interconnessione
universale degli enti fisici che costituisce un motivo di interesse per la
parapsicologia, tenuto conto che la psi, la facoltà oggetto del nostro
studio, è, abbiamo visto, sostanzialmente un annullamento delle
separazioni, delle distanze, sia spaziale che temporale. Vedremo ora
specificatamente come si colleghi al fenomeno il nostro problema.
Occorre a questo punto una precisazione. La teoria della
meccanica quantistica che abbiamo esposto fin qui non è l’unica
esistente (anche se è quella ufficialmente accettata dalla scienza).
Esiste almeno una scuola alternativa, il cui iniziatore fu Einstein, che
non accetta l’interpretazione della natura indeterminata, soggettivista
e a-causale dei microfenomeni come elaborata da Bohr e Heisemberg.
È una teoria che rivendica la completa realtà dei microfenomeni
indipendentemente dall’osservatore e la loro evoluzione del tutto
deterministica nel tempo. La distinzione è importante per inquadrare
organicamente il rapporto con la parapsicologia. Ci sono infatti
almeno due criteri per cui la facoltà paranormale, se esiste, può
essere collegata all’apparato concettuale della meccanica quantistica.
Si tratta per la verità di due criteri strettamente collegati tra loro,
ma è opportuno distinguerli per cogliere meglio l’articolazione del
problema.
La distinzione è imposta dal fatto che tali due criteri si collegano
proprio ai due diversi modi di interpretare la meccanica quantistica
che abbiamo esposto. Ora, se il primo gruppo, quello ortodosso
dominante, era genericamente favorevole alla possibilità dell’esistenza
delle facoltà paranormali, quello dell’interpretazione alternativa
era, possiamo dire, genericamente contrario. Lo stesso Einstein,
abbiamo visto, associava i paradossi della meccanica quantistica a
possibili effetti paranormali proprio per evidenziarne l’assurdità.
Un fisico italiano, seguace della scuola di Einstein, Franco Selleri,
riferisce il seguente aneddoto. Durante una breve conversazione
avuta da Einstein con un importante fisico teorico della scuola di
Bohr, mentre quello dichiarava di essere portato a credere nella
telepatia, Einstein suggerì a titolo di provocazione: «È una cosa che
probabilmente riguarda più la fisica che la psicologia». La risposta,
riferiva ironicamente Einstein, fu un semplice «sì». Ma qual’era il
motivo di fondo per cui i teorici della concezione ortodossa della
81
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quantistica erano o potevano essere favorevoli alla parapsicologia?
La risposta è semplice: era il principio della forte supremazia della
mente sulla materia che evidentemente scaturiva dal concetto del
ruolo fondamentale dell’osservatore nel determinare la realtà del
fenomeno osservato.
È un elemento concettuale che è stato designato in molti modi.
Si è parlato di «mentalismo», di «idealismo», di «psicologismo»
della meccanica quantistica. L’elemento che, in ogni caso, veniva
a fungere da supporto all’ipotesi della psi erano le potenzialità
di applicazione del principio. Se era la mente dell’osservatore ad
essere così decisiva nel determinare la realtà dei fenomeni osservati,
appariva possibile che in condizioni eccezionali tale supremazia si
amplificasse fino a produrre fenomeni eccezionali, impossibili in base
alla logica dell’esperienza quotidiana. È una fruibilità teorica che è
messa in evidenza anche dal Selleri: «Si tratta evidentemente (... ) di
una descrizione assai vicina alla «parapsicologia» per via dell’azione
diretta del pensiero sul mondo materiale». Veniamo ora alla scuola
antagonista rispetto a quella di Bohr e Heisemberg. Ovviamente per
costoro, propugnando una visione della microrealtà integralmente
determinista e priva di ogni influsso «mentalista», non c’era alcuno
spazio per una qualche forma di misticismo o di paranormalità.
Considerando ora i punti significativi di questo indirizzo di pensiero
vediamo come possa legarvisi il secondo criterio di connessione
dell’ipotesi della psi alla meccanica quantistica.
È ora importante notare che vi fu chi escogitò un espediente
concettuale per risolvere il rompicapo della natura indeterminata
dei microfenomeni: quello di ipotizzare l’esistenza di alcuni elementi
incogniti - le «variabili nascoste» (hidden variables) - una volta
conosciute le quali (almeno in teoria), si sarebbe potuto constatare
una relazione perfettamente causale e integralmente determinata
tra l’evento sub-atomico e il sistema macroscopico di rilevamento.
Il processo di collassamento, cioè, per cui il ventaglio di particelle
virtuali si riduceva di colpo a una sola particella reale all’atto
dell’osservazione, appariva del tutto probabilistico perché non
eravamo a conoscenza di un certo parametro di comportamento,
diciamo difficilmente accessibile, del fenomeno. Il primo a proporre
questa idea fu Von Neumann, uno dei maggiori matematici del
82
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secolo che, assieme ad altri fisici, tutti della scuola di Bohr, come Paul
Wigner, dette alle variabili nascoste quel significato mentalista tipico
di quell’indirizzo, avanzando l’ipotesi che fossero da identificarsi
addirittura con la «coscienza» dell’osservatore.
Ebbene i seguaci della scuola di Einstein si dettero da fare per
cercare di individuare e definire queste variabili nascoste in base a un
criterio del tutto diverso, contando cioè sulla possibilità che fossero
qualcosa di specificatamente fisico e di - almeno in via di principio
- caratterizzato da valori misurabili. Tra tutti i tentativi di ottenere
un’individuazione specificatamente fisica delle variabili nascoste,
nonché di dare un volto causale alla meccanica quantistica, spiccano
gli studi di un fisico americano, David Bohm. Tutti i membri della
scuola di Einstein danno un ruolo centrale alla sua teoria. Secondo
Bohm la variabile nascosta condizionante le operazioni di misura del
microfenomeno era semplicemente la posizione della microparticella,
posizione all’atto pratico inconoscibile, ma in teoria realmente
definita da valori precisi. Bohm compì inoltre il passo impegnativo
- lo riferiamo senza entrare in dettagli - di dare alla funzione d’onda
(che per i teorici ortodossi, ricordiamo, era solo una pura astrazione
matematica) un significato fisico, intendendola come la descrizione
di una sorta di campo di forza in grado di influire sull’evoluzione
dello stato della particella (intesa questa, si badi bene, come un ente
del tutto reale e determinato). Formulò in tal modo la teoria della
cosiddetta «onda pilota», una conformazione ondulatoria la cui
intensità nei diversi punti determinava la probabilità di trovare in
tali stessi punti la particella.
Ma la teoria di Bohm conteneva una caratteristica alquanto poco
gradita ai seguaci della scuola di Einstein: era una teoria prettamente
non-locale. In altri termini proprio quell’effetto fantasma a distanza,
quella strana «telepatia» tra oggetti del mondo microfisico, sulla cui
assurdità Einstein contava di confutare la concezione di Bohr, veniva
a costituire giusto il cuore della teoria. L’immagine del vecchio,
familiare mondo della separabilità, in cui le cose e gli individui
sono ben isolati l’uno dall’altro, era messo in discussione e al suo
posto subentrava quella di un mondo tutto percorso da una fitta
rete di interconnessioni quantiche che in modo sottile finiva per
collegare tutti gli enti o oggetti dell’universo. I seguaci di Einstein
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cercarono subito di eliminare l’inconveniente. Primo tra tutti John
Bell (che pur ammirava la teoria di Bohm) provò in ogni modo di
depurarla dalle implicazioni non-locali. Ma non vi riuscì, come non
vi riuscirono altri animati dallo stesso istintivo rifiuto. Del resto i
nuovi esperimenti che, via via, andavano dimostrando l’esistenza
dell’effetto E. P. R., fornivano anche un sostegno sperimentale alla
tesi della non-località.
Quello che è interessante osservare dal nostro punto di vista
parapsicologico è che con i tentativi di contestazione della teoria
quantistica di Bohr veniva reintrodotto dalla finestra giusto quello
che si era tentato di cacciare dalla porta. Bohm approdò, infatti,
tramite il suo universo integralmente unitario, alla stessa concezione
mistica più o meno propria dei membri della scuola di CopenhagenGoettingen, con le stesse ampie concessioni alla filosofia orientale.
Naturalmente, nel cercar di giustificare l’esistenza della psi con la
visione unitaria e interconnessa del cosmo proposta da Bohm, poteva
esserci qualche difficoltà nell’applicare il principio al mondo umano
cui sostanzialmente si riferisce la parapsicologia (la «telepatia»
presupposta nell’effetto E. P. R. è solo una «telepatia» tra particelle).
Ma il fenomeno accertato appariva indubbiamente un ragionevole
sostegno all’ipotesi della facoltà. Dobbiamo tuttavia osservare che
alle straordinarie possibilità dell’effetto E. P. R., ancora i seguaci
della scuola di Einstein, riuscirono a porre dei limiti, e questo sempre
nell’obbiettivo di costruire teorie causali della meccanica quantistica,
alternative alla concezione classica. Spicca in questa direttiva il lavoro
di tre fisici italiani: Gian Carlo Ghirardi, Alberto Rimini e Tullio
Weber, che pubblicarono una dimostrazione giudicata ineccepibile
e apprezzata anche a livello internazionale, della non trasmissibilità
di alcun messaggio tramite l’effetto E. P. R.
Senza entrare in dettagli diremo che punto centrale della
dimostrazione era l’assoluta casualità, all’atto della misura, del
processo di riduzione del vettore di stato, l’impossibilità, cioè, di
far collassare la particella nello stato specifico «voluto» tra quelli
possibili. Ad esempio, nel caso dello spin, non c’era alcun modo di
far collassare nei valori +1/2 o -1/2 la sua misurazione nella particella
direttamente osservata. Era quindi del tutto impossibile alterare in
modo voluto lo spin dell’altra particella, separata tramite il processo
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di decadimento. Non era, ancora, possibile quindi utilizzare l’effetto
per inviare da una sistema microfisico all’altro (ovvero da un punto
all’altro dell’universo) una sequenza di segnali in grado di veicolare
un qualunque messaggio.
Sembrerebbe a questo punto di essere di fronte a un insieme di
dati del tutto contraddittorio. Abbiamo la prova dell’esistenza di
un effetto con tutte le caratteristiche potenzialmente attribuibili
alla psi e tuttavia, a chiosa della promettente scoperta, spunta
una dimostrazione che vieta indissolubilmente la trasmissione di
qualunque tipo di comunicazione tramite quello stesso effetto. È un
problema irrisolvibile? Cerchiamo di capirlo nei particolari.
Innanzitutto analizziamone meglio le caratteristiche. Abbiamo
detto, i fisici chiamano «non-località» - o «non-separabilità» - la
natura interconnessa del cosmo implicata nel paradosso E. P.
R. Designano inoltre con il termine difficilmente traducibile di
entanglement («impiccio», «groviglio», «garbuglio») lo strano
legame che unisce le coppie di particelle separate nell’esperimento
classico del decadimento da una particella «madre». Possiamo capire
lo sconcerto comunicabile a chi ne intraprende lo studio con l’ovvia
constatazione che tutta l’esperienza del nostro rapporto con la realtà
è basata sulla certezza che oggetti ed eventi sono ben demarcati l’uno
dall’altro. Se, per un tracollo finanziario, uno speculatore in borsa si
suicida a New York, la mia coscienza è per fortuna ben schermata dal
percepire il suo disagio. E considerato tutto quel che di traumatico
accade nel mondo la separabilità è in fondo anche una garanzia per
la tranquillità della nostra «privacy» individuale.
Ma che cosa si trasmette attraverso la non-località? Un’intuizione?
Un pensiero? Un significato? Un’emozione? Appare innanzitutto
difficoltoso capire come si struttura il fenomeno. «Questa correlazione
quantistica - afferma Roger Penrose - è una cosa misteriosa che
sta tra la comunicazione diretta e la separazione completa e che
non ha alcuna analogia con qualcosa di classico di qualunque
tipo». Ricordiamo che Einstein l’aveva definita «azione spettrale a
distanza». Shimony preferisce quella di «passione a distanza».
Per chiarire i termini del possibile rapporto con la psi è importante
a questo punto elencare alcune caratteristiche fondamentali della nonlocalità. È un compito che svolge Ghirardi in una parte di un suo libro.
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Secondo il fisico milanese, l’incomprensibilità (dal punto vista fisico)
degli effetti della non-località è ascrivibile a tre caratteristiche: a) non
variano con la distanza (un millimetro o una distanza intergalattica
non comportano alterazioni nell’efficacia della comunicazione); b)
sono assai selettivi (la connessione tra i due componenti di un sistema
entangled è molto specifica nelle caratteristiche); c) comportano una
trasmissione di effetti assolutamente istantanea, non implicante
cioè in alcun modo una durata temporale (violerebbero cioè uno dei
presupposti essenziali della relatività che vieta a qualunque fenomeno
fisico una velocità di propagazione superiore a quella della luce).
È un elenco che, anche a prima vista, non può non colpire un
parapsicologo perché si tratta esattamente delle caratteristiche
essenziali che, dopo un secolo di ricerca, risultano attribuibili
all’ipotetica facoltà paranormale. Discutiamo ora brevemente
le tre caratteristiche in rapporto a tale secondo punto di vista
parapsicologico. L’indipendenza dalla distanza della psi è un dato
che ci deriva dalla valutazione di ampia casistica sia spontanea
che sperimentale. È vero che non sono mancati ricercatori come F.
Cazzamalli che hanno ritenuto di individuare, sul piano sperimentale,
un’affinità della ESP con le onde elettromagnetiche, ma è una tesi
ampiamente smentita da una vasta massa di dati e di relazioni. Essa,
se esiste, funziona altrettanto bene a pochi metri di distanza quanto
da un continente all’altro.
La psi, inoltre, è evidentemente selettiva. Anche se può essere
improprio parlare in termini di emittente e di ricevente, c’è in essa
qualcosa che, pur sporadicamente, mette in collegamento due o più
soggetti - o un soggetto e un evento - specifici sulla base di particolare
significato, ricordo o esperienza. Ad esempio, un ricercatore, come
N. Marshall, ha elaborato una complicata teoria detta «influenza
eidopica» proprio per giustificare questo carattere altamente selettivo
della ESP. Naturalmente c’è da tener presente la trasposizione di
campo. Gli esseri umani, abbiamo detto, non sono le microparticelle.
Uno dei dati emergenti è che la psi, se esiste, avviene probabilmente
da inconscio a inconscio (anche se infinite possono essere le modalità)
e comporta quindi il problema di un’elaborazione, almeno in parte,
inconsapevole. Il che a sua volta comporta, quasi inevitabilmente,
distorsioni e inesattezze. Ma il nodo simbolico che sta al centro della
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comunicazione è per lo più facilmente individuabile e riconoscibile. La
stessa considerazione vale per la presunta istantaneità dell’effetto.
L’elaborazione inconscia può comportare, oltre alle distorsioni,
dei ritardi per la manifestazione della psi. La percezione paranormale
può, cioè, impiegare del tempo per affiorare alla soglia della coscienza.
Ma tutto della casistica lascia credere che tali ritardi non siano
dovuti a una vera durata temporale della trasmissione. La psi, se
esiste, di per sé è istantanea, non comporta intervalli resi necessari
da una presunta velocità-limite dei suoi processi interattivi. Ma
un’altra caratteristica della non-località, facilmente deducibile dalle
tre elencate da Ghirardi, che la rende ancor più affine alla psi, è il
carattere a-causale dei suoi effetti. Particolarmente il fatto che i suoi
processi viaggiano a velocità superluminale elimina ogni ipotesi di
causalità in senso fisico.
Il problema fu già messo in rilievo da Bohr quando, preso per
la prima volta in considerazione il paradosso E. P. R., parlò della
necessità di «una rinuncia definitiva all’idea classica di causalità».
«Questi effetti quantistici non locali - nota anche Paul Davies - sono
in verità una forma di sincronicità nel senso che stabiliscono un
legame (... ) fra eventi per i quali qualunque forma di legame causale
è proibita». Parlare di a-causalità nell’ambito della parapsicologia
richiama istintivamente alla mente Jung e la sua teoria della
sincronicità (e in effetti Davies nella sua citazione si riferisce proprio
all’illustre psicanalista svizzero). I fenomeni paranormali secondo
Jung sono eventi associativi, «sincronici», prodotti da dei simboli
archetipi (appartenenti a un inconscio molto profondo di natura
collettiva) e attuantesi secondo una dinamica del tutto a-causale,
indipendente dallo spazio e dal tempo.
Certamente è per questa implicazione di fondo che si instaurò
tra Jung e un fisico come W. Pauli, anch’egli tra i fondatori
della quantistica, un intenso dialogo. Paul Davies nota che per
comprendere alcuni fenomeni o problemi di natura prettamente
fisica, ma inspiegabili secondo le leggi fisiche quali il caos o il
«principio antropico» (basato sulla possibilità - di nuovo senza
entrare in dettagli - che tra la presenza dell’uomo nell’universo e il
ciclo evolutivo dell’universo stesso vi sia un particolare legame di
natura a-causale), è necessario ricorrere a un principio abbastanza
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vicino al concetto Junghiano di sincronicità. Qualcuno potrebbe
obbiettare che la sincronicità è solo una delle molte teorie della psi.
In realtà è facile evidenziare che quasi tutte le teorie parapsicologiche
escogitate in tempi lontani e recenti, con quegli strani nomi esotici
che abiamo sentito - L’io subliminale di Meyers e Tyrrel, il «sistema
cosmico di leggi psichiche» di Murphy Gardner, la «shin» di Thoules
e Wiesner, e ancora quella del «serbatorio cosmico» di William
James, del «livello psi» dell’inconscio di Ehrenwald, le teorie
«osservazionali» di Walker e Schmidt, tanto per citarne alcune ruotano sostanzialmente attorno agli stessi concetti di base della
sincronicità: extra-causalità, indipendenza dallo spazio e dal tempo,
funzione attiva di unità o strutture simboliche più o meno inconsce.
Torniamo ora alla dimostrazione di Ghirardi, Rimini, Weber che
comporta la scomoda - per noi - proprietà di vietare nel modo più
assoluto l’utilizzo di processi non-locali per trasmettere un qualunque
messaggio e ripetiamo la domanda: quale beffarda convergenza di
indizi fa sì che un fenomeno, che avrebbe tutti i connotati per fornire
un’indiscussa base teorica alla psi, riveli poi un limite indiscutibile
per tale impiego?
L’equivoco sta tutto, ritengo, nella parola «messaggio».
Riflettiamo con attenzione su che cosa intendiamo normalmente con
tale termine: una sequenza di segni codificati che viene trasmessa,
attraverso un canale, da un emittente a un destinatario il quale,
per parte sua, compie l’operazione di decodifica. Qualunque sia la
modalità del processo, quella dell’alfabeto Morse, o la voce umana,
o i gesti di uno sbandieratore, la logica che lo rende efficiente è
sempre la stessa. Si tratta di un fenomeno che richiede una spesa
energetica (per quanto minima) e che si attua secondo una modalità
intrinsecamente causale. C’è anche un limite relativistico che lo
condiziona: deve propagarsi sempre a velocità non superiore a quella
della luce. A questo punto è doverosa la domanda: è così che avviene,
se esiste, la comunicazione extrasensoriale? La risposta apparirà, a
questo punto, abbastanza scontata: assolutamente no. La psi non
implica, come abbiamo visto poc’anzi, alcuna forma di codificadecodifica del messaggio, non implica alcuna causalità, non implica
alcuna spesa energetica, non implica alcun limite di propagazione
fisica. Si è ricorso a varie formule e definizioni per giustificare questo
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strano tipo di contatto comunicativo, alcune orientate più in senso
psicologico, altre più in senso spiritualista. Si è parlato di «simpatia»,
di «co-sensibilità» (G. Murray), di «gravitazione universale tra
le anime» (Myers), di «coniugazione psichica», di «mimetismo
mentale» (Talamonti) (si pensi al concetto quantistico di Shimony
della «passione a distanza»). Forse una delle più felici definizioni
della facoltà (che compendia questo suo agire fondamentalmente
a-causale) è quella di Harry Price, secondo il quale la telepatia «è
più simile a un contagio che a una conoscenza». Curiosamente il
concetto di «contagio», di reciproca «simpatia» tra le cose, sta alla
base di tutto il simbolismo della magia, come osserva lo stesso Selleri
avvalendosi della notazione di un celebre antropologo, J. Frazer.
La presenza di una logica compartecipatoria simile a quella
presente nella non-località è evidente. Si deduce da tali osservazioni
che la psi non manifesta alcuna attinenza con il limite imposto dalla
teoria di Ghirardi, Rimini, Weber, oggetto del cui divieto appare
invece proprio la modalità tradizionale del processo di trasmissione
dell’informazione che comporta sempre, in ultima analisi, l’azione
su un qualche sistema fisico (si tratti della scarica di un neurone o
dell’attivazione di un micro-chip). La non-località, nota Ghirardi, è
in effetti tale «da non consentire una sua utilizzazione per produrre
effetti istantanei a distanza tra sistemi fisici». Occorre purtroppo
riconoscere che non è facile concepire una forma di percezione o
conoscenza che non comporti alcun tipo tradizionale di trasmissione
di informazione quale richiede la psi. Per darne una inquadramento
organico occorrerebbe esaminare altri elementi concettuali derivati
dalla non-località quali la teoria quantistica della mente, l’eventuale
fattore soggettivo implicato - secondo alcune teorie - nei processi
quantistici come processi operanti a livello delle funzioni cerebrali
(in sintesi, quale aiuto possono offrire per capire quel fenomeno
sfuggente e ineffabile che è la coscienza). In via molto schematica
potremmo affermare che proprio il modello dell’entanglement, della
strana comunione di stati (se solo fisici, o anche psichici è il problema
da risolvere) implicato nel paradosso E. P. R. offre per la psi un
modello interpretativo interessante. Molto probabilmente è in gioco
nella comunicazione paranormale il contrasto tra le due categorie
operative del comunicare e dell’essere.
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Un soggetto che ha una qualche percezione extrasensoriale di
qualcosa che è nella mente di un altro individuo, verosimilmente
non riceve né trasmette niente. C’è una parte della sua personalità
che letteralmente viene ad essere qualcosa dell’altro individuo,
che instaura con lui una qualche perfetta unione di stati psichici.
Ricapitolando dunque gli elementi di apporto della quantistica alla
tesi della psi, se accettiamo l’interpretazione ufficiale ortodossa
possiamo avvalerci dei concetti di base della scuola di CopenhagenGoettingen la cui visione «mentalista», abbiamo visto, offre ampi
sostegni all’esistenza della facoltà. Se accettiamo la tesi alternativa,
di cui fu capostipite Einstein, finiamo col dover fare i conti con la
visione unitaria del cosmo proposta da Bohm, o in ogni caso, con
l’onnipresenza degli effetti non-locali che di nuovo concedono ampi
spazi teorici alla facoltà paranormale. Naturalmente non possiamo
assumere sic et simpliciter la tesi della non-località come una prova
indiscussa della psi. Quello che possiamo rivendicare, nella relazione
generale con teoria della meccanica quantistica, è nondimeno
l’insensatezza di un luogo comune cui indulgono i critici più radicali:
l’inconciliabilità tra i fenomeni paranormali e i concetti della scienza
in generale. In realtà i legami, abbiamo visto, esistono e hanno una
loro coerenza, una loro ragionevolezza. Se la non-località non può
essere considerata una prova assoluta della psi, certamente è una
prova della sensatezza dell’ipotesi, del fatto che la psi è un argomento
suscettibile di una costruttiva attività di ricerca.
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Mente, causalità e psicocinesi
«Seguendo due linee separate di pensiero, Watson, si trovano
alcuni punti di contatto che dovrebbero avvicinarsi alla verità»
A. CONAN DOYLE
«L’inquietudine che tiene in moto perenne l’orologio della
metafisica, è il pensiero che la non esistenza del mondo sia possibile
quanto la sua esistenza».
WILLIAM JAMES
Tutti noi sappiamo bene che non basta il pensiero per accendere
il fornello sotto la caffettiera, o per portare fuori la spazzatura;
dobbiamo muovere i muscoli e svolgere fisicamente il nostro compito.
Eppure ciascuno di noi ha provato, in qualche momento della
propria vita, ad influenzare il comportamento delle persone o delle
cose mediante la sola forza del pensiero. Forse che nessuno ha mai
lanciato dei dadi, «desiderando» l’uscita di un certo numero? Forse
che nessuno ha mai osservato intensamente una persona di spalle,
cercando di farla voltare? Questi sono dei comportamenti abbastanza
naturali, dato che nel corso della crescita dobbiamo imparare a
conoscere i limiti delle nostre capacità, e dobbiamo apprendere i
concetti che riguardano la causalità. I bambini non nascono con la
comprensione dei rapporti di causa-effetto. Il pensiero naturale è
quello MAGICO.
Il pensiero magico consiste nella percezione di una relazione
causale tra due eventi, senza però capire i legami causali fra questi
stessi eventi. Esprimete un desiderio sotto una stella cadente, ed il
vostro desiderio si avvererà. Incrociate le dita affinché la sorte vi sia
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propizia. Pregate per ottenere aiuto. I bambini sono apertamente
«magici». Come ha detto il grande psicologo svizzero Jean Piaget, un
bambino che vede la luna, prima dalla finestra della sua cameretta e
poi dalla finestra della camera dei suoi genitori, penserà che la luna
lo stia seguendo. Questa deduzione non è poi così ingiustificata se
uno non sa nulla di astronomia, o circa la natura della luna, o della
tendenza degli oggetti naturali a non piegarsi alla nostra volontà.
Come facciamo a sapere che cosa causa che cosa? Se vi trovate in una
sala riunioni e osservate qualcuno di spalle, e costui si gira e vi guarda
in viso, sarà stato forse il vostro sguardo a farlo voltare? Molta gente
pensa che sia così, perché ciò è quanto l’esperienza dice loro. Una tale
semplice convinzione, supportata da successi occasionali dovuti a
coincidenze, oppure al fatto che una persona, mentre viene guardata
intensamente, si è voltata per vedere come mai nella sala è calato il
silenzio, è sufficiente per convincere diversa gente che i poteri psichici
esistono. Per ragioni analoghe, una buona dose di pensiero «magico»
è presente, sotto forma di rituali superstiziosi, all’interno delle sale
da gioco o dei campi sportivi.
Cosa possiamo dire di tutti quei casi in cui fissate lo sguardo su
di una persona, ma questa non si volta affatto, oppure desiderate
fare dodici ai dadi ma il risultato del lancio è diverso? Siete proprio
sicuri che, se NON vi è alcuna forma di controllo mentale in gioco,
sperimenterete una tale quantità di fallimenti, per cui un successo
occasionale non vi impressionerà più di tanto? È qui il nocciolo del
problema. Il nostro sistema nervoso non è predisposto per svolgere
accurate analisi di covarianza fra due variabili, ma per aiutarci a
sopravvivere. Esso è strutturato affinché un’importante o evidente
coincidenza fra due eventi (fisso la tua nuca e tu ti volti; desidero un
doppio sei ai dadi e lo ottengo) lasci una forte impressione, mentre le
non coincidenze fra le stesse due variabili siano largamente ignorate.
Scottatevi la mano su di un fornello, ed il vostro cervello imparerà
che i fornelli sono pericolosi. Toccate poi il fornello più volte senza
scottarvi, ma il timore non svanirà del tutto.
L’asimmetria di questi effetti è importante per la sopravvivenza.
Un animale che venisse aggredito da una volpe, e successivamente
venisse lasciato in pace da un’altra volpe, non vivrebbe a lungo
se la lezione tratta dalla prima esperienza venisse poi cancellata
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dalla seconda. Dunque vi è un’asimmetria nel modo in cui gli
eventi influenzano il nostro sistema nervoso. Pochi episodi - a volte
uno solo - di corrispondenza fra due avvenimenti sono sufficienti
per controbilanciare un insieme molto numeroso di mancate
corrispondenze, almeno per quanto riguarda la sensazione che un
evento sia causa dell’altro. Certamente, coloro che credono che il
fissare intensamente una persona alle spalle abbia un qualche effetto,
sono anche convinti che questo non sempre si verifichi. Per questo
motivo la loro credenza è molto resistente alle smentite.
La scienza è essenzialmente un mezzo per cercare di fare in modo
più accurato ciò che tutti noi tentiamo di fare nella vita quotidiana:
capire che cosa causa che cosa. Solo la scienza cerca sistematicamente
di eliminare spiegazioni alternative circa gli eventi concomitanti. Voi
guardate, e qualcuno si volta. Lo scienziato vuole stabilire se il fatto
di voltarsi abbia qualche legame con lo sguardo e, se così, in quale
modo i due eventi siano fra loro connessi. Potrebbe forse trattarsi
di una semplice coincidenza? Dopo tutto, ci sarà capitato spesso
di stare seduti dietro ad altre persone, aspettandoci di vedere ogni
tanto qualcuno girarsi per motivi suoi. O non sarà piuttosto che
l’osservatore è improvvisamente rimasto zitto ed immobile, e che
questo repentino silenzio ha indotto l’altra persona a voltarsi per
vedere che cosa è successo?
La psicocinesi si riferisce al movimento (la cinesi) di oggetti
dovuto all’influenza della mente (la psiche). Sia che si consideri o
meno come psicocinesi il fatto di osservare la nuca di qualcuno e di
farlo voltare, il successo nell’influenzare il lancio dei dadi verrebbe
sicuramente attribuito alla psicocinesi stessa. Alla fine del secolo
scorso, le indagini circa la possibilità della psicocinesi non erano
poi una cosa tanto inconsueta. Dopo tutto, quelli erano tempi di
grandi scoperte: immaginate lo stupore per essere in qualche modo
capaci di inviare suoni attraverso l’etere o dei fili, o per la possibilità
di rivelare delle emanazioni provenienti da certi pezzi di roccia, o per
essere in grado di osservare l’interno di un corpo umano tramite una
radiazione invisibile. Aggiungete a tutto questo il fatto che c’erano
in giro molte persone, presumibilmente dotate, le quali affermavano
di essere in grado di muovere degli oggetti dentro una stanza, se
non con il loro potere mentale, almeno tramite l’intervento di una
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qualche entità immateriale. Ne conseguì che, all’inizio di questo
secolo, sia in Europa che negli USA, eminenti psicologi presero in
seria considerazione la psicocinesi, insieme ad una sua cugina, la
percezione extrasensoriale. La mancanza di prove relative ai fenomeni
studiati indusse poi la maggior parte di loro ad abbandonare le
ricerche in questo settore. La ricerca nel campo della psicocinesi
può essere divisa in tre fasi (Stanford, 1977):
- Dal 1934 al 1950, la scena era dominata da Joseph Banks
Rhine, ed il principale banco di prova sperimentale era costituito
dal lancio dei dadi. Tuttavia, come evidenziato da Stanford, queste
sperimentazioni non venivano controllate con l’accuratezza che
sarebbe stata necessaria. Malgrado il fatto che Rhine avesse alla
fine optato per un lanciatore meccanico, molti studi vennero svolti
lanciando i dadi a mano. Per giunta, i dadi stessi contengono un
grosso artefatto: le facce con i numeri più alti sono le più leggere,
per via delle concavità dei puntini, e quindi sono anche quelle che
hanno maggiori probabilità di emergere. Questo problema veniva
generalmente trascurato. Attualmente, a causa degli errori empirici,
i parapsicologi non danno più molta importanza ai primi studi
effettuati con i dadi, anche se vi è un recente rinnovato interesse.
- Attorno alla metà degli anni quaranta, si scoprì l’effetto del
«declino del quartile»: ci si accorse che, se si esaminavano i risultati
di una sessione sperimentale, la quantità di successi era solitamente
maggiore nel primo quarto della sessione che non durante l’ultimo, e
questo fatto venne considerato come una proprietà della psicocinesi.
Le ricerche e le analisi vennero dirette sempre più verso questo
ed altri effetti «interni», interpretati come segni della realtà della
psicocinesi stessa.
- Dal 1951 al 1969, in ciò che Stanford chiamò il «periodo
di mezzo», il metodo dei dadi cadde in relativo disuso, e l’enfasi
venne posta sul metodo dello «spostamento». Lo scopo consisteva
nell’influenzare un dado od una pallina, in modo da farli muovere
in una certa direzione mentre rotolavano lungo un piano inclinato.
Tuttavia, come nel caso del lancio dei dadi, neppure qui emersero
dei dati convincenti.
Nella terza fase di Stanford, l’uso di generatori elettronici di
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eventi casuali fornì ciò che i parapsicologi sperarono essere un
elemento decisivo: d’ora in poi sarebbe stato possibile studiare
l’influenza della mente su eventi davvero casuali, mediante l’uso
di apparati automatici, del tutto obiettivi. Beloff ed Evans (1961)
furono i primi a cercare gli effetti della psicocinesi sul fenomeno
del decadimento radioattivo, ma non ebbero alcun successo. Helmut
Schmidt fu il pioniere degli studi di psicocinesi condotti con l’aiuto
di generatori di eventi casuali. Un tipico esempio di apparecchio e
di paradigma di Schmidt richiede quattro lampade connesse ad un
circuito elettronico.
Il circuito aziona in sequenza ciclica quattro interruttori, uno
per ogni lampada. Quando un annesso contatore geiger rivela
l’emissione di una particella da una sorgente radioattiva, il circuito
si ferma, qualunque sia l’interruttore attivato in quel momento, e
mantiene quindi stabilmente accesa una lampada. Lo scopo del
soggetto è di indurre una particolare lampada a rimanere accesa il più
frequentemente possibile. Naturalmente, l’unico modo per sapere se il
soggetto ha avuto successo consiste nel paragonare la frequenza delle
accensioni della lampada prescelta con quanto ci si può attendere
dal caso. Con questo ed altri paradigmi simili, Schmidt sostenne di
aver trovato prove convincenti a sostegno della psicocinesi. Fu lui a
dimostrare successivamente che un gatto in un locale freddo poteva
mantenere accesa una lampada, azionata casualmente, per un tempo
totale maggiore di quanto consentito dal caso, e che degli scarafaggi
subivano una quantità di scariche elettriche maggiore di quanto ci si
potesse aspettare (forse a causa dei poteri psicocinetici dello stesso
Schmidt e della sua ripugnanza per gli scarafaggi), e che le uova
fecondate potevano mantenere accesa una lampada riscaldante per
un tempo maggiore del previsto. Il lavoro di Schmidt si fece ancora
più notevole, poiché giunse apparentemente a dimostrare che la
psicocinesi poteva estendere i propri effetti nel tempo, sia nel passato
che nel futuro.
Per esempio, Schmidt (1976) usò un generatore casuale binario
per produrre una serie di scelte casuali, le quali venivano tradotte in
suoni impulsivi inviati agli auricolari di una cuffia stereofonica. La
sequenza di suoni venne registrata su nastro magnetico in duplice
copia, e uno dei due nastri venne messo al sicuro per i futuri controlli.
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L’altro nastro venne poi fatto ascoltare ad un soggetto, il cui compito
era quello di indurre un aumento della frequenza degli impulsi che
giungevano all’orecchio destro. Successivamente, Schmidt contò il
numero di impulsi che si erano verificati nel canale destro, e trovò un
evidente aumento statistico nella direzione voluta. Ma la cosa più
importante, come da lui detto, fu che quando egli stesso paragonò
la sequenza di impulsi del nastro sperimentale a quella registrata
nella copia che era stata messa da parte, scoprì che erano identiche!
Concluse quindi dicendo che il soggetto aveva influenzato ambedue i
nastri, presumibilmente mediante il collasso di una funzione d’onda
quantistica nel momento dell’osservazione (influenzando perciò in
maniera identica i due nastri, tramite una qualche stravaganza della
meccanica quantistica), oppure andando a ritroso nel tempo per
alterare le serie nel momento in cui venivano generate.
Lo scettico sarebbe rimasto molto più impressionato, se nel nastro
ascoltato dal soggetto fossero state invece trovate delle differenze
rispetto al contenuto del nastro di controllo!
Il margine di successo che Schmidt otteneva nei suoi lavori è
molto piccolo, anche se statisticamente significativo. Il valore medio
dei successi nella sua ricerca era solo di poco superiore a quanto ci
si può aspettare dal c1; 0caso (per esempio: 50.53%, rispetto ad una
probabilità puramente casuale del 50.00%. (Palmer, 1985)).
Robert Jahn è l’ex preside della facoltà di ingegneria all’università
di Princeton, dove continua ad insegnare ed a svolgere attività di
ricerca. Egli si è convinto dell’esistenza della psicocinesi in base delle
proprie ricerche, e accetta il fatto che essa possa trascendere non
solo lo spazio, ma anche il tempo. Come Schmidt, anche lui cerca
di interpretare le sue scoperte secondo i termini della meccanica
quantistica. Grazie alla sua posizione di prestigio e alla sua
reputazione, i suoi lavori e le sue conclusioni hanno sollevato molto
più interesse di quelle di Schmidt, almeno al di fuori del settore della
parapsicologia. Jahn ha concentrato le sue ricerche in tre aree: (1)
studi di psicocinesi in cui i soggetti tentano di influenzare l’uscita di
un generatore di eventi casuali; (2) studi di macro-psicocinesi in cui
i soggetti cercano di influenzare la caduta di palline in una macchina
statistica dimostrativa, e (3) studi sulla visione a distanza. Nei suoi
studi con i generatori di numeri casuali, Jahn ha accumulato milioni
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di prove con un sistema automatizzato in cui i soggetti cercano di
influire su di un processo casuale o pseudocasuale. In uno lavoro
tipico, un generatore casuale binario viene predisposto per emettere
una serie di 200 bit dopo che un tasto è stato premuto. Questi 200
bit rappresentano una singola prova.
Il soggetto osserva un display numerico il quale registra il numero
totale di «uni» o di «zeri» contenuti nella serie. L’esperimento si
svolge secondo un protocollo tripolare, nel senso che al soggetto viene
chiesto di produrre un punteggio maggiore di 100, uno minore di 100,
oppure, durante le prove di controllo, di non fare assolutamente nulla.
Un singolo esperimento consiste in 50 prove in cui il soggetto deve
«mirare» in alto, 50 prove in cui deve «mirare» in basso, e 50 prove
di controllo. Una serie completa consiste in 50 di questi esperimenti.
Jahn ha raccolto tutti i dati ottenuti nel corso di diversi anni, durante
i quali le sue apparecchiature avevano anche subito alcune modifiche.
A dispetto dell’elevata significatività statistica che Jahn attribuisce ai
suoi risultati, Palmer (1985) calcolò il valore medio dei successi per
tutta la mole di dati, e scoprì che si trattava solo del 50,02%, contro
un’aspettativa teorica del 50,00%. Comunque, per via dei milioni di
prove effettuate, anche un minimo scostamento come questo assume
un valore statistico molto significativo.
Esistono però diversi problemi nelle ricerche che Jahn ha eseguito
con i generatori di numeri casuali:
(1) Per cominciare, la maggior parte della significatività dei dati
proveniva dai risultati ottenuti da un solo soggetto, che era poi la
stessa persona che collabora con lui e gestisce il suo laboratorio. Jahn
ha in seguito fornito altri dati i quali, secondo lui, indicano che gli
effetti non sono limitati a quell’unico soggetto.
(2) Come evidenziato da Palmer (1985), Jahn non ha fornito
alcuna documentazione circa i provvedimenti adottati per evitare
che i risultati venissero manomessi dai soggetti. Il soggetto viene
solitamente lasciato da solo con l’apparecchuatura durante lo
svolgimento degli esperimenti.
(3) Le prove di controllo sono spesso eseguite separatamente
dalle prove sperimentali, e questo è un fatto assai rilevante, poiché
il paragone tra i due tipi di prove è alla base del processo di
inferenza.
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(4) La distinzione fra studi formali e studi esplorativi non è
chiara. È possibile che delle prove esplorative siano state qualche
volta considerate a posteriori come delle prove formali, specialmente
se i loro risultati sembravano positivi?
(5) Jahn esegue ripetute prove statistiche «post hoc» sui suoi dati,
e perciò i livelli di significatività da lui asseriti, che sono interpretati
come se si riferissero ad una singola prova, risultano gonfiati in una
misura imprecisata.
In conclusione, ciò che Jahn deve fare adesso è condurre
un esperimento: egli deve specificare in anticipo il protocollo
sperimentale, completo delle previsioni che devono essere verificate,
il numero dei soggetti, il numero delle prove, ecc. Finché non farà
così, egli avrà raccolto soltanto una grandissima collezione di dati
pilota. Nei suoi studi con la cascata meccanica casuale, Jahn usa
un dispositivo statistico dimostrativo, il quale consente la caduta di
9000 palline di polistirolo attraverso una matrice di 330 pioli, che
le smista in 19 diversi contenitori secondo una distribuzione della
popolazione che è approssimativamente Gaussiana (Dunne, Nelson
e Jahn, 1988). Gli operatori tentano di spostare la popolazione verso
destra o verso sinistra. Al tempo di quella pubblicazione del 1988,
quattro dei venticinque operatori coinvolti nelle ricerche avevano
«ottenuto separazioni anomale, nei loro sforzi sia verso destra che
verso sinistra», e altri due avevano ottenuto separazioni significative
verso destra o verso sinistra dalla linea di base. Di nuovo, ciò che qui
serve è un esperimento delineato con chiarezza, con tutti i dettagli,
inclusi i confronti statistici necessari, da specificare in anticipo. Per
quanto concerne gli studi di Jahn sulla visione a distanza, anche
se essi non coinvolgono la psicocinesi, vale comunque la pena di
riferire che essi sono stati recentemente esaminati in dettaglio da
un gruppo di parapsicologi (Hansen, Utts e Marwick, 1991), i quali
hanno concluso che:
«Gli esperimenti del PEAR [Princeton Engineering Anomalies
Research] di visione a distanza, si discostano da quelli che sono i criteri
comunemente accettati della ricerca formale nell’ambito scientifico.
Infatti, essi sono indubbiamente fra i peggiori esperimenti di percezione
extrasensoriale mai pubblicati in molti anni. Le carenze forniscono
spiegazioni alternative plausibili. Non sembra esserci alcun metodo
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statistico disponibile per la valutazione di questi esperimenti, a causa
del modo in cui essi sono stati condotti.» (p. 198)
Mentre non possiamo concludere direttamente che la medesima
trasandatezza sperimentale abbia caratterizzato il suo lavoro
sulla psicocinesi, questa valutazione negativa da parte degli stessi
parapsicologi non depone comunque molto a favore della qualità
degli sforzi sperimentali nel laboratorio di Jahn. Dopo tutto, è lo
stesso Jahn che traccia un parallelo tra i risultati ottenuti nei suoi
studi sui generatori di numeri casuali, la cascata meccanica, e la
visione a distanza:
«Quattro esperimenti tecnicamente e concettualmente distinti - un
generatore binario casuale pilotato da una sorgente elettronica di rumore
a diodo; un generatore pseudocasuale deterministico; una cascata
meccanica su larga scala; un protocollo digitalizzato di percezione
a distanza - mostrano degli andamenti sorprendentemente simili
nello scostamento dei conteggi dalle rispettive distribuzioni casuali...
In ciascun caso, il risultato equivale ad una semplice trasposizione
marginale dell’appropriata distribuzione statistica Gaussiana verso un
nuovo valore medio... o, in modo equivalente, ad un cambiamento della
probabilità fondamentale del processo binario di base [p]...» (Jahn,
York e Dunne, 1991, Abstract).
La meta-analisi è uno strumento per la revisione dei lavori
pubblicati. Essa fornisce una procedura statistica per esaminare
studi sperimentali correlati, e farsi un’idea di quanto essi supportino
collettivamente una particolare ipotesi. La meta-analisi è diventata
molto popolare nella parapsicologia contemporanea. Viene usata
per dimostrare che c’è una chiara indicazione, proveniente non solo
da studi individuali che potrebbero essere affetti da errori, bensì da
un’ampia collezione di ricerche, che le anomalie statistiche, sempre
implicitamente o esplicitamente interpretate come il risultato di
influenze psichiche, esistono. Ricorderete che in precedenza avevo
detto che gli studi con i dadi erano caduti in disuso nelle ricerche
di parapsicologia. Tuttavia, Radin (1991) ha presentato una metaanalisi relativa a 73 rapporti pubblicati tra il 1935 ed il 1987, per
un totale di 148 studi e più di due milioni di lanci di dadi, in cui
erano coinvolti 52 investigatori e oltre 2500 soggetti. Egli scoprì che
c’era effettivamente la presenza di un artefatto quando l’obiettivo
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era la faccia con un numero alto, come il sei. Ma quando si mise
ad analizzare un sottoinsieme di 59 studi intesi a verificare proprio
questo artefatto, trovò le prove di «un effetto indipendentemente
replicabile, significativamente positivo», e non spiegabile in termini
di resoconti parziali o di differenze nella qualità metodologica.
Radin e Nelson (1991) hanno condotto una meta-analisi di «tutti
gli esperimenti conosciuti che studiano le possibili interazioni tra
lo stato di coscienza ed il comportamento statistico dei generatori
di numeri casuali», prendendo in esame 597 studi sperimentali
e 235 studi di controllo pubblicati tra il 1959 ed il 1987. (Questi
provenivano da 152 differenti relazioni - uno studio definito come la
più grande possibile aggregazione di dati non sovrapposti e raccolti
con un unico scopo ben preciso). Gli autori hanno concluso che gli
studi di controllo si conformano bene alle aspettative di casualità,
mentre gli effetti sperimentali deviano significativamente da queste
aspettative:
«L’entità dell’effetto complessivo ottenuto in condizioni sperimentali
non può essere adeguatamente spiegata con carenze metodologiche
o parzialità nei resoconti. Perciò, dopo aver considerato tutte le
testimonianze ottenibili, pubblicate e non, mitigate da tutte le legittime
critiche emerse fino ad oggi, è difficile evitare la conclusione che, in
determinate circostanze, la mente interagisce con sistemi fisici casuali.
(Resta ancora da vedere se questo effetto sarà alla fine attribuito ad
un qualche artefatto metodologico sin qui trascurato, o ad un nuovo
tipo di perturbazione bioelettrica di sensibili dispositivi elettronici, o
se verrà considerato come un contributo empirico alla filosofia della
mente. )» (p. 1152).
Che cosa ci rimane? Si direbbe che se usiamo generatori sia di
eventi propriamente casuali oppure pseudocasuali deterministici,
e sia che cerchiamo effetti in tempo reale o dispersi a ritroso o in
avanti nel tempo, e sia che lavoriamo con eventi di microlivello o
di macrolivello come nella cascata casuale di Jahn, l’entità degli
effetti sarà virtualmente la stessa (Jahn, York e Dunne, 1991). A
detta di Schmidt (1988), sia gli esperimenti con diversi tipi di flipper
a monete e sia quelli con i dadi forniscono effetti psicocinetici dello
stesso ordine di grandezza, e nessuno è mai stato capace di realizzare
un generatore casuale apprezzabilmente più sensibile di altri. Per
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giunta, Stanford (1977), passando in rivista la psicocinesi, concluse
che il successo in questo campo non dipende dalla conoscenza
dell’obiettivo, dalla natura o dall’esistenza del generatore di eventi
casuali, dalla complessità o dal progetto del generatore di numeri
casuali, e neppure dal fatto che ci si stia cimentando in uno studio
di psicocinesi.
Egli concluse dicendo che, in qualche modo, il fenomeno
psicocinetico si manifesta senza che vi sia una qualche forma di
elaborazione da parte dell’organismo, ed avviene in modo tale
da raggiungere lo scopo senza nessuna mediazione sensoriale.
Chiaramente, tutto questo ricorda molto da vicino la cosiddetta
magia naturale: esprimi un desiderio ed esso si avvererà. Le nostre
convinzioni aprioristiche sono la chiave per determinare se siamo
disposti ad assegnare alla psicocinesi il ruolo di agente causale delle
deviazioni statistiche. Jefferys (1990) ha criticato l’applicazione
dell’analisi statistica classica agli studi eseguiti con generatori di
numeri casuali, in quanto essa non sarebbe adatta a questo tipo di dati
e porterebbe ad una grossolana sopravvalutazione della significatività
dei risultati. In effetti, egli afferma che l’analisi Bayesiana, la quale
prevede la presenza di convinzioni aprioristiche, mostra che piccoli
valori di «p» possono non essere sufficienti a provare l’esistenza di
un fenomeno anomalo. Jefferys illustra questo punto utilizzando una
parte dei dati raccolti da Jahn. A seconda delle ipotesi formulate
a priori, l’analisi Bayesiana dei dati di Jahn potrebbe addirittura
indurre ad essere piuttosto scettici. In conclusione, ciò che Jahn
ed altri devono fare è innanzitutto un esperimento ben concepito,
con previsioni chiare, con dichiarazioni specifiche circa quanto
verrà sottoposto ad esame ed al numero delle prove, ecc. Poi, se
emergono dei risultati, occorre replicare in modo indipendente gli
esperimenti. Successivamente bisogna cercare di capire che cosa
produce gli scostamenti dalla pura casualità, invece di etichettarli
subito come fenomeni psicocinetici, e poi concretizzare il concetto di
psicocinesi in modo da spiegare quegli scostamenti. Nel frattempo, a
causa di carenze metodologiche, di previsioni malamente definite, e
dell’incapacità di replicare gli esperimenti da parte di altri studiosi,
non ci sono, secondo me, dati anomali da spiegare. E se anche vi
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fossero, essi potrebbero puntare altrettanto bene nella direzione
dell’esistenza del dio Giove quanto in quella della psicocinesi.
Negli ultimi anni un numero crescente di ricerche ha dimostrato
l’esistenza della retrocausalità: situazioni nelle quali le cause sono
collocate nel futuro e l’informazione si muove a ritroso nel tempo. In
questo lavoro si suggerisce di inserire queste informazioni nei processi
decisionali al fine di governare in modo più efficace ed efficiente il
presente. Le dimostrazioni più famose di retrocausalità sono state
prodotte da:
-PEAR (Princeton Engineering Anomalies Research) che,
studiando l’interazione mente/macchina, ha dimostrato la possibilità
di modificare l’andamento di generatori di numeri causali con la
semplice intenzionalità (Jahn e Dunne 2005). In questi esperimenti
l’interazione anomala mente-macchina risulta essere più marcata
nella modalità retrocausale PRP (Precognitive Remote Perception),
raggiungendo una significatività (rischio di errore) di p=0,000002
(Nelson 1988).
- Cognitive ScienceLaboratori che, studiando stimoli fortemente
emotivi, ha scoperto l’esistenza di una riposta cutanea anticipata di
3 secondi (James 2003), con significatività statistica (rischio di errore)
di p=0,00054.
- Radin e Bierman (1997) i quali dimostrano che la risposta
anticipata del sistema nervoso autonomo e la conduzione cutanea
possono essere utilizzati come predittori di esperienze future.
- Parkhomtchouck (2002) che utilizza la fMRI (functional
magnetic resonance imaging) per studiare la retrocausalità.
Tutte queste ricerche hanno mostrato che le emozioni costituiscono
il veicolo principe della retrocausalità e delle informazioni che
provengono dal futuro. Alle stesse conclusioni era giunto Luigi
Fantappiè quando, nel 1942, trovò il collegamento tra soluzione
negativa dell’equazione di Dirac, sintropia ed emozioni (Fantappiè
1993). Chris King (1989) lega la retrocausalità al libero arbitrio e
afferma che in ogni momento la vita deve scegliere tra le informazioni
che provengono dal passato e le informazioni che provengono dal
futuro. Secondo King, da questa attività costante di scelta, da questo
indeterminismo di base, nasce l’apprendimento e la coscienza. King
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sottolinea che la coscienza soggettiva è una necessaria conseguenza
della supercausalità che nasce dall’unione della casualità ordinaria
con la retrocausalità. (King 2003).
«Parecchi indizi rilevati nei nostri studi sulle anomalie fisiche
dipendenti dalla coscienza suggeriscono che i meccanismi che sottendono
la loro espressione sono associati a processi biologici inconsci più che
a quelli cognitivi. Essi includono la mancanza di evidenza a favore di
un apprendimento da ripetute esperienze; la diffusa presenza di effetti
di posizione seriale chiaramente associati alla dimensione soggettiva
inconscia; le differenze di genere; la suscettibilità alla distorsione da
comportamenti casuali in esperimenti privi di intenzione; i frequenti
resoconti dei partecipanti sulla loro maggiore capacità di ottenere
risultati quando non tentano coscientemente di ottenere buoni risultati;
gli apparenti effetti di risonanza interpersonale; e i risultati ottenuti
con animali.»
BRENDA DUNNE (PEAR MANAGER)
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Guarigione intenzionale
«I concetti che ora si dimostrano fondamentali per la nostra
comprensione della natura …. sembrano alla mia mente essere
strutture di puro pensiero, (…. )
L’universo inizia ad assomigliare più ad un grande pensiero che ad
una grande macchina.»
JAMES JEANS, IN «THE MYSTERIOUS UNIVERSE»
«Guidati dalla forza dell’amore, i frammenti del mondo si cercano
l’un l’altro perché il mondo possa nascere».
PIERRE TEILHARD DE CHARDIN
Man mano che la nostra conoscenza scientifica aumenta, il
mondo fisico rivela un’unità ed un’interconnessione fondamentali che
nascondono un’apparenza superficiale di distinzione e separazione
meccanica. Anticipando la medicina moderna di molti secoli, le
ipotesi di base che mettono in risalto le tradizioni sia di guarigione
che di cure mediche allopatiche nella maggior parte delle culture
del mondo includono il riconoscere, a livello intuitivo, un Tutto
o l’unicità fisica e una visione del mondo come profondamente
interconnesso. Molte terapie alternative attingono da queste tradizioni
condividendo la convinzione che la mente può contribuire, in modo
diretto, al processo di guarigione. Sebbene la mente e la coscienza
non siano contemplate esplicitamente nei correnti modelli fisici, un
numero sempre crescente di fisici sta cercando le modalità per farlo,
motivati in parte da un solido corpo di evidenza sperimentale che
dimostra come le intenzioni umane (il pensiero) possano trascendere
le barriere spazio-temporali.
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Modelli di guarigione alternativa e la loro pratica basata
sull’intenzionalità (volontà) sono difficili, se non impossibili da
spiegare entro i limiti dell’attuale conoscenza scientifica. Preghiere di
intercessione, guarigione sciamanica, tocco terapeutico e guarigione
a distanza, tutto sembra essere in grado di aumentare e accelerare
il processo di guarigione, ma senza alcun evidente meccanismo
candidato. Anche altre pratiche più convenzionali sono valorizzate
da complementi di scarsa comprensione come l’effetto placebo o
il «pensiero positivo». Sebbene i meccanismi che sottostanno alle
terapie alternative risultino sfuggenti, vi sono alcuni elementi in
comune: il contesto comune include il riferimento al «disordine»
solitamente causato (inteso come malattia), e la potenziale struttura
o informazione che viene richiesta per ristabilire il sistema. La
guarigione sembra derivare più specificatamente da una volontà, da
un’intenzione a guarire, e le modalità intenzionali condividono tutte
uno sforzo per stabilire un collegamento o risonanza tra il guaritore
ed il paziente.
Si possono estrapolare alcuni discernimenti sui meccanismi
possibili da una letteratura istruttiva che riguarda esperimenti
che studiano le dirette interazioni tra la coscienza umana ed
il suo ambiente. Tali esperimenti condividono questi elementi
comuni e la maggior parte di essi sono basati su dispositivi che
racchiudono alcune forme di casualità o disordine e sono progettati
specificamente per rilevare un trasferimento di informazioni per
mezzo dell’intervento dell’intenzione cosciente. Su una più ampia
scala, in fisica moderna, vi è un’esplicita interconnessione a livello
subatomico che può suggerire simili interazioni sottili e influenze
tra sistemi fisici macroscopici. Allo stesso tempo, la teoria del caos7
modella la capacità delle influenze sottili di evocare considerevoli
effetti nei sistemi naturali caratterizzati da dinamiche non lineari,
suggerendo l’equivalente funzionale di informazione e di energia. Le
interconnessioni dilaganti, trasportando informazione ed influenza,
possono eventualmente essere viste come aventi un ruolo primario
in alcune forme di guarigione intenzionale.
A sostegno di questa possibilità giunge la ricerca di base, che
da alcuni decenni viene condotta, la quale ha fornito un accumulo
di prove scientifiche circa il fatto che la coscienza umana e
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l’intenzione possono alterare il comportamento dei sistemi fisici ed
accedere in modo anomalo all’informazione fisicamente isolata. In
questi esperimenti, sembra esserci un collegamento «non-locale»
di informazione-relazione della coscienza tra persone separate
fisicamente e temporalmente o tra dispositivi analoghi e può servire
da modello per le connessioni anomale ed inspiegabili che sono
al centro dei sistemi di guarigione. Le scoperte di laboratorio che
dimostrano le interazioni anomale della coscienza con i sistemi
fisici sono convincenti, e nell’applicazione clinica, con la sua
importanza intrinseca ed il suo significato, noi osserviamo spesso
un miglioramento imputabile a pratiche alternative e complementari.
E occasionalmente si osservano delle guarigioni che sembrano
«miracolose». Per ora siamo solo agli inizi della ricerca di spiegazioni
chiare. Il pregio della ricerca di laboratorio consiste nel fatto che
essa può essere progettata con una maggiore attenzione rivolta al
funzionamento e alla comprensione, mentre le applicazioni reali di
guarigione devono necessariamente avere come scopo principale il
benessere delle persone coinvolte. Con la guarigione intenzionale
come contesto, questo studio descrive un corpo di esperimenti
che esplorano le relazioni tra la mente, il mondo fisico ed alcuni
rudimentali modelli teoretici i quali tentano una riconciliazione tra
gli effetti anomali della coscienza e la fisica moderna. L’evidenza
oggettiva, è quella che la guarigione e i miglioramenti accadono
come risultato di interventi come preghiera di intercessione, tocco
terapeutico senza contatto, ed altre forme di guarigione a distanza.
Sorgono immediatamente due domande tra loro collegate: «In che
modo agiscono queste procedure?» e «Come possiamo migliorarle
ed aumentare il loro beneficio sui pazienti?». La prima implica una
teoria che spiega i meccanismi e permette di formulare predizioni
collaudabili. La seconda dipende in parte dalla prima, ma consente
anche un’estensione puramente empirica per mezzo di tentativi,
errori e acquisizione di esperienza.
Disponiamo soltanto di idee intuitive e speculative sulle basi fisiche
della guarigione alternativa e complementare. Un certo numero di
modelli informali o teorie servono come utile background per i
medici, ma non si possono sottoporre a test scientifici, sebbene siano
di grande aiuto nel guidare le procedure dei guaritori. Ad esempio, nel
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tocco terapeutico senza contatto, «energia» e «campi di energia» sono
una componente importante del linguaggio descrittivo, anche se non
è stata trovata nessuna tecnologia di misurazione per documentare
un fenomeno corrispondente. I termini sono riconosciuti come
metafore usate effettivamente nel training e nel linguaggio figurato
usato dai praticanti. Gli aspetti più importanti del modello del Tocco
Terapeutico sono le descrizioni esplicite di «trovare la centralità»,
ricercare la «risonanza» e «intenzione» all’aiuto e alla cura. Nella
preghiera di intercessione c’è un’invocazione di una sorgente esterna
da parte di molti praticanti, uno sforzo per accedere ad un potere più
alto, con l’atto della preghiera come canale per la sua applicazione.
È ancora notevole il ruolo centrale giocato dalla «intenzione nella
guarigione» per focalizzare e manifestare il potere della cura. Allo
stesso modo, nella metodologia della guarigione a distanza insegnato
da Leshan, il guaritore cerca «unità» con l’universo e quindi con
il paziente, e vi è una serie ben definita di esercizi concepiti per
promuovere questo stato. Lo stato di unicità è concepito come
fornitore di un canale di comunicazione delle intenzioni del
guaritore.
Questi esempi, e virtualmente tutta la classe di sistemi alternativi
di cura che funzionano senza un’apparente connessione fisica né
alcun meccanismo, condividono l’elemento comune di intenzione
alla guarigione e la sensazione che alcune forme di risonanza possono
stabilire un canale di comunicazione per quell’intento, sebbene
essi possano differire considerevolmente in altri aspetti della loro
definizione o condotta e nel loro tentativo di spiegazione teoretica.
La ricerca di laboratorio sulla diretta interazione della coscienza
umana con l’ambiente fisico e la relativa ricerca della comunicazione
anomala dell’informazione attraverso la separazione spaziale e
temporale, indirizzano lo stesso risultato ad un livello fondamentale.
Questi esperimenti relativamente semplici sono in linea di principio
analoghi a vari aspetti del lavoro di cura e gli studi con tali sistemi
possono fornire un approccio effettivo per imparare di più circa
le condizioni che portano alla guarigione e lavorare verso modelli
esplicativi.
Gli esperimenti mente - macchina hanno alcune forti
corrispondenze con il paradigma della guarigione, ma c’è un’analogia
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ancora più stretta in una piccola letteratura di esperimenti, per il resto
simili, che usano i sistemi biologici come obiettivo dell’intenzione. Un
certo numero di ricercatori hanno studiato gli effetti dell’intenzione
cosciente su individui non selezionati e su guaritori di vari sistemi
viventi. Ad esempio Nash ha dimostrato come la crescita dei batteri
può essere influenzata dall’intenzione cosciente in studi a doppio
cieco. Grad innaffiò alcuni semi, alcuni dei quali erano stati «curati»
mentre altri no, con una soluzione salina e, in un minuzioso progetto
a doppio cieco, notò che i semi curati (trattati) erano più propensi a
germogliare e a crescere con successo. In una serie di studi in cui si
usavano topolini, Grad e colleghi dimostrarono che ferite cutanee
guarivano in maniera significativamente più rapida se trattate da
guaritori, in esperimenti che controllavano manufatti come un calore
extra proveniente dalle mani. Braud rivelò una notevole riduzione
imputabile all’effetto dell’intenzione nei tassi di emolisi delle cellule
del sangue dei partecipanti, conservate in soluzione salina.
Ancora più vicini alla ricerca clinica sono gli studi che esaminano
la possibilità che le misure fisiologiche negli esseri umani siano
suscettibili all’influenza a distanza. Dean e Nash scoprirono che
l’attività vasomotoria misurata con un pletismografo aumentava
quando un agente in un’altra stanza prestava attenzione a nomi di
importanza emotiva o per l’agente o per il ricevente. L’attività del
sistema nervoso autonomo fu indirizzata verso studi riesaminati da
Braud e Schlitz, dove la conduttanza della pelle fu misurata nella
persona obiettivo mentre chi influenzava in una stanza separata
trasmetteva pensieri e desideri tranquilizzanti o eccitanti. Questi
investigatori resero operativa la nozione secondo la quale noi
possiamo «sentire» che qualcuno ci sta osservando, installando una
video – camera che mostri la persona obiettivo su di un monitor ad
un osservatore distante. Semplici misurazioni fisiologiche mostrarono
variazioni notevoli e caratteristiche durante i periodi di osservazione,
messi a confronto con controlli distribuiti casualmente.
Questi studi del sistema biologico sono stati replicati da ricercatori
indipendenti e costituiscono una promettente via di ricerca che si
pone a metà tra gli esperimenti mente - macchina e gli studi clinici
diretti con pazienti umani. È importante notare che questi studi,
del tutto analoghi alla ricerca mente - macchina, hanno misure di
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effetti considerevolmente più ampi. Ciò potrebbe suggerire che i
meccanismi sono fondamentalmente differenti, ma può darsi che
i sistemi biologici siano intrinsecamente più soggetti ad influenze
sottili, oppure che sia più facile per la coscienza interagire o entrare
in risonanza con un organismo vivente laddove l’impresa sembra più
rilevante ed importante.
Non vi sono modelli teorici ampiamente riconosciuti per spiegare
questi risultati di laboratorio, ma sono stati fatti molti sforzi concreti
al riguardo. Probabilmente il meccanismo più frequentemente
invocato nei modelli per cercare di spiegare la guarigione intenzionale
è una qualche forma di energia analoga alle energie familiari del
suono, del calore, della luce e di altri campi elettromagnetici. Come
metafora, «energia» è parte del sapere e della scienza di varie anomale
modalità di guarigione, ma è difficile trovare un dettaglio descrittivo
o misurazioni oggettive. Quando vi è un dettaglio, ad esempio la
descrizione di un’aura, esso sembra essere unicamente empirico e
soggettivo. Il termine «energia sottile» è usato ampiamente, ma ad un
esame più accurato, esso appare come un’etichetta per una varietà di
osservazioni anomale e non ha un significato chiaramente specificato
o fisicamente accettato. Per interventi immediati di guarigione come
il Tocco Terapeutico o l’imposizione delle mani, i campi chimici o
elettromagnetici sembrano ragionevolmente essere dei potenziali
mediatori, ma per ciascuna modalità di guarigione intenzionale
che trascende lo spazio e il tempo, i modelli convenzionali basati
sull’energia sono inadeguati. Ci sono prove evidenti che le anomalie
studiate sistematicamente nel laboratorio non possono essere adattate
in modelli che dipendono da energie fisiche, meccaniche, termiche o
elettromagnetiche, comprese quelle generate dal corpo umano e dal
sistema nervoso. Gli effetti non vengono diminuiti dalla distanza.
I campi fisici, invece, solitamente manifestano un decremento
caratteristico in proporzione alla distanza, e le interazioni anomale
non sembrano essere ostacolate da alcuna forma di protezione, mentre
la maggior parte delle energie fisiche possono essere prontamente
deviate o assorbite. Le difficoltà maggiori che incontrano le teorie
basate sull’energia è di accogliere le scoperte di laboratorio che
indicano, che le influenze anomale attraversano le barriere temporali.
Il concetto di campo punto-zero suggerisce che il vuoto fisico e
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tutto lo» spazio» interstiziale sono riempiti da fluttuazioni di campi
potenzialmente interagenti. Le fluttuazioni quantiche di particelle,
reali o virtuali, danno origine a modelli di interferenza che legano
specificatamente le particelle submicroscopiche separate e ciò, a sua
volta, implica un’interconnessione funzionale su scale più ampie.
Una conseguenza di questa inseparabilità quantica è costituita dal
fatto che i sistemi fisici mostrano una qualità di totalità, come viene
suggerito nel lavoro di Bohm. Anche se non è possibile spiegarlo in
senso meccanicistico, tali modelli portano la coscienza con un ruolo
efficace nel contesto. Essi suggeriscono che noi, come osservatori,
siamo un «ingrediente» necessario nella determinazione della realtà
fisica.
Ampliamenti di questo approccio con i modelli considerano
più direttamente gli aspetti teorici delle informazioni fornite dalle
interazioni anomale. In una versione della teoria dei quanti, che
enfatizza l’interconnessione e la totalità del mondo fisico, Bohm
descrive una particolare forma di informazione ‘attiva’ che è
presente potenzialmente ovunque, ma che è attiva solo quando è
significativa. Di conseguenza, un’intenzione a guarire può essere
disponibile come una fonte d’informazione con dimensione non
locale e universale, con l’esigenza, per la guarigione, di provvedere
alla finalità, e quindi, al canale di risonanza, attraverso il quale
l’informazione diventa attiva. Considerando la coscienza come una
forma o manifestazione di informazione, Jahn e Dunne suggeriscono
un’estensione metaforica dei principi meccanici quantistici nel campo
della coscienza. La coscienza è considerata sia come particella che
come onda, in analogia con le descrizioni meccaniche quantistiche
della materia e dell’energia. Nelle sue manifestazioni non localizzate,
simili a un’onda, è libera e può penetrare le barriere fisiche e risuonare
con altre coscienze e con l’ambiente, acquisendo o inserendo, in tal
modo, informazione unica per il sistema interattivo. Basandosi su
questa metafora, John e Dunne suggeriscono possibili funzionamenti
per l’influsso anomalo. Per esempio, citano il principio meccanico
quantistico dell’indistinguibilità allo scopo di aiutare a comprendere
il legame. Quando le molecole sono formate da atomi, gli elementi
costituenti perdono la loro identità e da questa perdita ne deriva una
‘forza di scambio’ classicamente anomala che produce un forte legame
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covalente. Analogamente, attraverso il sacrificio dell’individualità
consapevole, un legame risonante unificante può essere stabilito con
un’altra coscienza o un sistema fisico, permettendo l’acquisizione o
l’inserimento di informazione. Questo risulterebbe anomalo visto
come influenza di un sistema su di un altro, ma in un sistema coerente
e unificato, l’informazione viene distribuita ovunque.
La fusione delle identità soggettive una con l’altra o con l’ambiente,
consente il trasferimento di informazione oggettiva manifestandosi
come coesione tra i componenti che precedentemente erano separati,
producendo un sistema totale dentro il quale l’entropia è ridotta.
Nonostante queste ipotesi possano sembrare astruse, i principi
fondamentali corrispondono a quelli coinvolti nelle comuni esperienze
interattive come un innamoramento o la creazione di un’opera d’arte
oppure il godere della bellezza di un tramonto.
Non è difficile immaginare i meccanismi di ‘auto-guarigione’
attraverso la meditazione, le immagini e il pensiero positivo, perché il
corpo e la mente sono direttamente connessi da una rete di interazioni
neurofisiologiche e biochimiche enormemente complessa. Gli stati
mentali, come può essere la volontà di essere sani o di guarire, sono
un’aggiunta intrinseca all’informazione che dà forma e controlla le
interazioni fisiche e chimiche, aiutando a promuovere un ripristino
dell’equilibrio e di una struttura adeguata laddove un incidente o
una malattia hanno interferito col normale funzionamento ben
ordinato.
La ricerca sulle interazioni anomale offre delle prove interessanti
che mostrano la possibilità di come, interventi non locali, quali
la guarigione intenzionale, possono contribuire analogamente
al continuo scambio di informazione che è essenziale al fine di
mantenere l’integrità dei sistemi viventi.
Gli esperimenti mostrano persuasivamente che gli effetti anomali
si verificano oltre le separazioni spaziali significative, sebbene si debba
riconoscere che gli effetti sono di portata piuttosto scarsa quando
consideriamo le applicazioni. È poco probabile che tra breve si trarrà
profitto da queste scoperte per costruire un congegno pratico per
aprire la porta di un garage, o un telecomando per la TV. D’altra parte,
dispositivi di questo tipo non sono che la semplice fine di una scala
in cui i sistemi biologici e la coscienza definiscono un polo opposto
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molto più complesso. I corpi viventi, con i sistemi omeostatico,
immunitario e nervoso, i quali compendiano il regno delle dinamiche
non - lineari applicate, sono intrinsecamente suscettibili all’influenza
di piccoli input e sono in grado di identificare e amplificare anche il
più sottile dei modelli rudimentali e l’informazione. I sistemi biologici
usano processi casuali e l’indeterminatezza per mantenere il più alto
livello possibile di sensibilità ai cambiamenti sottili nell’ambiente.
Essi sono reattivi all’informazione sulla scala più sottile; tale
informazione riduce il disordine entropico e fornisce un incremento
della struttura e della preveggenza, producendo un ambiente
interno stabile e interazioni di successo con l’ambiente circostante.
In questo contesto, si osserva che guarire una ferita o guarire da
una malattia dipende dalla generazione o aggiunta di informazioni
appropriate per aiutare a ristabilire l’ordine e la struttura. Le
interazioni di lungo raggio tra anticorpi e antigeni, enzimi e substrati
suggeriscono effetti non locali e campi che esaminano e utilizzano
informazione costruttiva ad un livello fondamentale. Le guarigioni
a cascata che cominciano ad essere ben caratterizzate nelle ricerche
mediche in corso, mostrano l’ipersensibilità dei sistemi biologici
all’informazione e possono rappresentare obiettivi particolarmente
fertili per la ricerca sulle guarigioni anomale che coinvolgono una
valutazione diretta sulla quantità e efficienza nella produzione e
nel trasporto dei mediatori infiammatori. Quando si provoca una
ferita, inizia un processo di reclutamento altamente specifico, dal
momento che il taglio smembra la struttura e la suddivisione delle
cellule endoteliali nel tessuto vascolare, derivante dalla produzione
di attrattori endoteliali chemiotassici, linfochinesi e fattori che
attivano il rivestimento. Questi apportano alla ferita, con precisione,
i mediatori richiesti per il processo di guarigione, compresi i globuli
bianchi, linfociti e neutrofili.
Così la guarigione è una funzione di un campo chemiotassico
strutturato che provoca una cascata, distribuita in base allo spazio,
di produzione e trasporto in un processo che è intrinsecamente molto
sensibile alle piccole influenze d’informazione dell’ordine di quelle
rilevate nella ricerca delle anomalie. Queste sensibilità funzionali
intrinseche potrebbero costituire la matrice che permette al processo
di guarigione volontaria di operare attraverso lo spazio e il tempo
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servendosi di mezzi di acquisizione anomala, o di trasferimento di
informazione. Di certo quest’informazione sulla guarigione anomala
costituisce solo una parte del processo di guarigione, ma un crescente
insieme di studi controllati, di alta qualità, indica con insistenza
che esso può essere un elemento importante, potenzialmente
cruciale, nel mantenimento della salute e nel processo di recupero
dalla malattia. Gli esperimenti che abbiamo esaminato mostrano
che la coscienza umana può intaccare i sistemi fisici impartendo
direttamente informazioni, bypassando i normali meccanismi fisici.
E tale informazione può essere comunicata su grandi distanze e al di
là delle barriere temporali. Come Jahn suggerisce, discutendo sulle
relazioni tra l’informazione, la coscienza e la salute, «il fenomeno
anomalo che abbiamo studiato, può essere un microcosmo indicativo
di un genere di capacità umana ben più ampio - la capacità di creare,
di ordinare, di guarire». Una lesione o una malattia si manifestano
come un disturbo o disordine all’interno di un sistema che, se sano,
è magnificamente strutturato e ordinato. Questo è, d’altra parte, così
complesso che la sua funzione su di una misura accurata, è al di
là delle nostre conoscenze scientifiche complessive. Così come nel
controllo omeostatico del corpo, straordinariamente preciso, o nei
meccanismi esatti di riparazione e rigenerazione quando veniamo
feriti, o nella creazione di idee. Quando si verifica una distruzione,
e una guarigione viene richiesta, l’esigenza è per un ordine
supplementare, per l’introduzione dell’informazione. Certamente la
coscienza non è altro che una manifestazione d’informazione, e nelle
sue capacità creative e costruttive, essa è idealmente compatibile,
come serbatoio, per i processi che sostengono e ripristinano la salute
e il benessere.
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Simmetrie e sincronie
«Siamo creature naturali che si sono evolute all’interno di un
grande sistema vivente. Il resto del sistema cercherà di disfare o
equilibrare in tutti i modi possibili, qualsiasi cosa noi facciamo che
non sia a favore della vita».
ELISABET SAHTOURIS
«Tutto il vero vivere è l’incontro. L’incontro non è nel tempo e
nello spazio, ma lo spazio e il tempo sono nell’incontro».
MARTIN BUBER
Un nuovo modo di pensare della scienza sta quindi emergendo
agli inizi del secolo XXI, nel quadro del passaggio tra l’epoca
industriale basata sull’interpretazione meccanica della fisica e
la società post industriale dell’economia della conoscenza. La
spiegazione dei fenomeni fisici ormai implica anche la conoscenza
del funzionamento biochimico del cervello. In tal senso diviene
necessario riflettere, nell’ambito di una teoria evoluzionistica del
sapere, come sia stata storicamente possibile l’attuazione di una
connessione risonante tra percezione sensoriale ed apprendimento
cerebrale vista in relazione alla tradizionale interpretazione
di eventi fenomenici rappresentabili come eventi indipendenti
succedutisi nel mondo esterno. Diversamente, la percezione e la
conoscenza, secondo l’approccio innovativo derivabile dalla primaria
impostazione cognitiva di D. Bohm, vengono ad essere il risultato
di una complessa trasformazione dell’informazione sensoriale
condivisibile con la genetica di codificazione dell’informazione
propria di ciascuna specie. Pertanto oggigiorno si sente l’esigenza di
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definire una rappresentazione creativa dei diversi livelli di una realtà
Fisico - Biologica, integrando le relazioni bio-fisiche, tra soggetto
percettivo e l’oggetto percepito. In questa prospettiva futura della
Scienza pertanto, non vediamo ne consideriamo più gli oggetti e
gli eventi per come oggettivamente sono, ma ne interpretiamo
solamente determinati aspetti dell’«Informazione Attiva»; aspetti
che possono essere attivati in sincronia di fase tra gli eventi fisici e le
onde cerebrali. Comunque dobbiamo ammettere che se tutto fosse
risonante e coerentemente in fase nell’ambito delle interazioni tra
eventi fisici e attività cerebrali, espressi in un ambito completamente
olistico, sarebbe possibile una piena conoscenza, e quindi diverrebbe
possibile coscientemente il predire il futuro così come il conoscere
univocamente il passato. Invece il conseguimento di un preciso grado
di sincronizzazione cerebrale ( «binding resonance function» ), con
le diverse popolazioni di neuroni cerebrali, costituisce una sorta di
efficiente sistema di riconoscimento specifico sensoriale, sulla base
del quale diviene possibile sviluppare la successiva riflessione capace
di creare un rinnovato sviluppo cognitivo.
In tali condizioni genetico-strutturali, del funzionamento delle
aree cerebrali, specializzate ad esprimere determinate funzioni vitali e
cognitive, il fenomeno di risonanza bio-elettrica tra onde provenienti
dalla ricezione sensoriale e le onde cerebrali, genera quindi delle
fluttuazioni coordinate tra gli atomi e molecole nei neuroni. Tali
insiemi di neuroni coinvolti in modo sincronico, muovendosi in
fase con una maggior ampiezza e la stessa frequenza – vibrazione,
tendono ad abbassare il livello energetico di ogni sistema cooperativo;
così che la coesione energetica genera l’emissione di bio-fononi,
capaci di trasferire l’informazione attiva e il sistema metabolico
delle trasformazioni biochimiche. La presenza di bio-fotoni e stata
rilevata come radiazione fotonica (specie specifica) ultradebole in
tutti gli organismi viventi dal gruppo di Ricerca del Prof. F. Popp che
ha messo in evidenza il fatto che sebbene l’intensità della corrente
bio-fotonica sia estremamente debole, essa dimostra una coerenza
elevatissima la quale conferisce specifità al messaggio cerebrale.
Pertanto l’emissione di correnti biofotoniche ed anche di vibrazioni
sonore bio-fononiche, entrambe emesse dal cervello, corrisponde a
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poter trasmettere un insieme di messaggi di informazione per via
bio-elettrodinamica.
In sostanza, perseguendo un tale modo di ragionare sulle relazioni
bio-fisiche tra osservato ed osservatore (anche in seguito alle suddette
recenti scoperte di bio-fotonica ), si inizia a capire come possa essere
prodotta l’informazione biologica, per cui diviene possibile intuire in
che modo, nella evoluzione della vita, sia divenuto possibile elaborare
la conoscenza (secondo vari modelli cognitivi storicizzati), proprio a
partire da un sistema di interazione coerente di risonanze interagenti
tra energia e materia. I bio-fotoni che vengono emessi dal normale
funzionamento cooperativo cellulare, costituiscono un sistema
informativo ultrarapido, sia intra- che extra-cellulare. L’allineamento
sintonizzato di fasci coerenti bio- fotonici ( elettromagnetici) e biofononici (acustici), permette quindi che l’informazione biologica
venga trasferita a distanza, generando messaggi capaci di non
acquisire nè dissipare rapidamente il loro input informativo anche
durante un tragitto relativamente ampio.
A conclusione di questo breve excursus sul tema delle
SIMMETRIE e SINCRONIE spazio-temporali nel nuovo paradigma
della Informazione, sottolineiamo come la fisica sia passata attraverso
una rivoluzione concettuale per la quale le nozioni di particelle e di
traiettoria hanno smesso di essere fondamentali. Infatti mentre nella
fisica classica il mondo fisico è stato concepito come un aggregato
di oggetti, ognuno localizzato nello spazio e nel tempo, nella fisica
contemporanea ogni elemento fondamentale della realtà è co-esteso
con l’intero universo e quindi possiede una fondamentale continuità
(Oneness) intrinseca, che si manifesta tipicamente nelle proprietà
di comunicazione di informazione ottenibile mediante l’attività
cooperativa risonante delle interazioni dinamiche tra campi di
energia e materia. L’Universo Olistico, cosi descritto, comprendente
pertanto sia il soggetto che l’oggetto, procederà nel prossimo futuro
nel superare anche l’ultimo dualismo tra l’onda e la particella; infatti
quest’ ultimo, mantenendo separati gli aspetti fenomenici di tipo
ondulatorio e corpuscolare, ancora si interpone a realizzare una
rappresentazione complessivamente Olistica della stessa essenza
unitaria dell’Universo. Infine, rivolgendomi a quanti vorranno
migliorare ed ampliare questa nuova dimensione cognitiva della
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scienza, faccio presente la necessità di far debita attenzione al fatto
che ancora il formalismo matematico è tradizionalmente impostato
sulla base di coordinate cartesiane o coordinate ad esse equivalenti.
Pertanto per personale esperienza, mi sono fatto la convinzione che
la matematica ancora contenga in sé la chiave di sopravvivenza del
vecchio ordine della fisica meccanica. Questo determina non poche
delle difficoltà che la scienza contemporanea incontra in relazione ai
propri avanzamenti creativi del sapere, poiché le nuove intuizioni ed
idee e progetti di ricerca, rischiano di rimanere di un livello filosofico
descrittivo, se non sapremo modificare contemporaneamente anche
le logiche astratte del pensiero matematico.
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Psiche e Caos
«Una goccia d’acqua che si spande nell’acqua, le fluttuazioni delle
popolazioni animali, la linea frastagliata di una costa, I ritmi della
fibrillazione cardiaca, l’evoluzione delle condizioni meteorologiche,
la forma delle nubi, la grande macchia rossa di Giove, gli errori dei
computer, le oscillazioni dei prezzi Sono fenomeni apparentemente
assai diversi, che possono suscitare la curiosità di un bambino o
impegnare per anni uno studioso, con un solo tratto in comune:
per la scienza tradizionale, appartengono al regno dell’informe,
dell’imprevedibile dell’irregolare. In una parola al caos. Ma da due
decenni, scienziati di diverse discipline stanno scoprendo che dietro
il caos c’è in realtà un ordine nascosto, che dà origine a fenomeni
estremamente complessi a partire da regole molto semplici. «
J. GLEICK
La teoria del Caos ha radicalmente cambiato la nostra percezione
del mondo. Ci ha sospinti lontano dai sistemi semplici, lineari e
meccanicistici, verso sistemi che sono più organici e complessi. Ci
dice che gli organismi biologici, l’ecologia, il mercato azionario e
le società hanno molto in comune. Piuttosto che concentrarsi sulle
singole parti di un sistema, essa pone attenzione ai legami ed alle
interazioni all’interno di esso. Piuttosto che pensare il mondo in
termini di ripetizioni meccaniche, esso viene visto come fatto di
schemi in continua evoluzione e trasformazione, volti ad una sempre
maggiore complessità. Al posto di sistemi chiusi e isolati, questi
sistemi sono concepiti come aperti al loro ambiente attraverso un
continuo scambio di materia, di energia o di informazione.
Essi possono organizzarsi spontaneamente, sviluppare strutture
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interne e dimostrare sia gradi di stabilità che di adattamento alla
variazione. Poiché la teoria del caos funziona così bene quando
viene applicata ai sistemi che si organizzano autonomamente, si può
pensare di applicarne le idee fondamentali allo studio della mente
e della società. Ad ogni modo, poiché quest’ultime sono ben più
difficilmente definibili dei sistemi della fisica, si può dire che le idee
alla base della teoria del caos sono applicabili in questo campo in
un senso più metaforico, ossia, il comportamento di certi sistemi
della fisica può funzionare da metafora per il comportamento e la
coscienza umani. Così, studiando i primi si può tentare di giungere
alla comprensione del modo in cui operano la mente e la società.
Improvvisamente nell’osservazione del mondo, le somiglianze
divengono più importanti delle differenze. La teoria del caos ci rende
anche consapevoli dei limiti insiti nella possibilità di controllo di
un sistema e nelle previsioni possibili circa comportamenti futuri.
Ci dice che non si possono sempre prevedere gli effetti a lungo
termine delle nostre creazioni e che è quindi meglio essere aperti e
flessibili. Così come la natura sopravvive grazie alla biodiversità, è
fondamentale avere una varietà di idee e di approcci. La natura può
apparire inefficiente nella sua ricchezza, ma d’altro canto, quando si
chiude una via, la natura ha molte altre strade tra cui scegliere.
Ciò dovrebbe insegnare alle organizzazioni che una eccessiva
specializzazione porta alla morte. La teoria del caos ci dice anche
che, se non possiamo fare previsioni con assoluta esattezza, possiamo
almeno cercare degli schemi, e che tali schemi si ripetono spesso
all’infinito fino a livelli minimi. Carl Jung ha parlato di archetipi,
schemi che soggiacciono agli impulsi ed ai comportamenti umani.
In un certo senso, gli archetipi richiamano gli schemi dei sistemi
non-lineari, ad esempio nel modo in cui una donna può impegnarsi
in una serie di disastrose relazioni con uomini simili, oppure nel
modo in cui un uomo sembra sempre entrare in conflitto con
figure autorevoli. Questo non vuol dire che il comportamento sia
causalmente determinato, ma che il modo in cui la personalità si è
strutturata in sistema aperto nel contesto di una più vasta società
conduce ad una serie di schemi ricorrenti.
Questo pare suggerire che la metafora della teoria dei sistemi,
dell’organizzazione autonoma, e degli schemi ripetitivi potrebbe
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essere applicata nel campo della pratica terapeutica, dove si
potrebbero rintracciare diversi sistemi interconnessi. In primo
luogo c’è la struttura dell’inconscio del paziente che comprende
tutto quello che è stato interiorizzato a partire dal periodo infantile.
La terapia, tuttavia, si realizza anche nell’interazione tra il paziente
ed il terapista: si aprono così un altro sistema ed altre dinamiche.
Questo sembra suggerire che non si ha solo un’interazione tra un
terapista che tenta di «guarire» ed un paziente, ma che piuttosto la
cura si sviluppa a partire da una complesso di sistemi dinamici dei
quali sia il terapista che il paziente sono un aspetto. In questo senso
si può dire che la guarigione avviene in uno spazio situato tra il
terapista ed il paziente ma anche oltre la loro interazione. Ossia, per
dirla con una metafora tratta dalla teoria dei quanti, durante ogni
osservazione sperimentale, l’osservatore e ciò che viene osservato
sono irriducibilmente legati tra di loro e nessuna separazione può
essere effettuata. Così, l’osservatore diviene ciò che viene osservato,
il terapista diventa il paziente ed il paziente, il terapista.
Ancora una volta, però, il sistema che si costituisce, cioè quello
della guarigione, (l’asse terapista- paziente), è anche inserito in una
comunità, in una società, in una rete di significati e valori, in una
serie di pressioni economiche.
Proseguendo nella nostra riflessione sappiamo che le concezioni
scientifiche contemporanee fanno riferimento soltanto a due
variabili cognitive: l’Energia e la Materia: queste ultime sono prese
in considerazione in relazione alla osservazione del mondo esterno
In tal modo viene separato ed escluso dal pensiero scientifico il
soggetto della sua osservazione in quanto la scienza si preoccupa
solo e soltanto dall’osservato; da ciò dobbiamo ammettere che la
definizione concettuale del CAOS, così come quella contrapposta
dell’ORDINE, viene ad essere esclusivamente relativa alle proprietà
dello spazio «disordinate e ordinate» e non a quelle che includono
la dinamica del tempo. Infatti quando la struttura concettualmente
bipolare di Energia e Materia, viene correlata a concezioni di ordine/
disordine, dato che queste ultime hanno per riferimento la tradizionale
cognizione di spazio, la questione dell’ordine/disordine, viene ancora
ricondotta al dibattito tra Parmenide ed Eraclito sull’esistenza del
vuoto nello spazio; si ricorda infatti che Parmenide disse: «se il vuoto
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non esiste e lo spazio è pieno, allora non c’è moto né divenire nel
tempo se non quello erroneamente concepito dai sensi»; mentre per
Eraclito il vuoto esiste, proprio perché permette il continuo divenire
della realtà.
Einstein comprese pertanto che le basi di riferimento della scienza
erano divenute insufficienti per dare una spiegazione coerente
e completa a sistemi che evidentemente implicano l’esigenza di
introdurre il concetto di Informazione e con esso dell’uomo, come
parte integrante del sistema evolutivo della natura; ma accorgendosi
di non avere a disposizione nelle conoscenze pregresse alcun modello
interpretativo globale sufficientemente elaborato per poter trattare
il sistema soggetto/oggetto di osservazione, come un’ unica entità
interattiva, non riuscì a delineare un quadro cognitivo sufficiente a
superare la logica indeterministica della meccanica quantistica, così
da integrarla con le concezioni che egli sviluppò nell’ambito delle
teoria della relatività generale. La teoria dei Sistemi Dinamici Nonlineari (Non-linear Dynamic System = NDS, come li chiameremo
d’ora in poi) comunemente ed impropriamente chiamata Teoria
del Caos e della Complessità, è basata essa stessa sull’interazione
concettuale e dei corollari che derivano dalla triade terminologica:
Sistema, Dinamica, Non-linearità. Esaminiamoli in breve: Sistema:
possiamo definire un sistema, seguendo Lorenz, come una qualsiasi
entità che va soggetta a cambiamenti con il passare del tempo. Le
caratteristiche salienti di un sistema sono: la complessità, ovvero
l’interazione tra più variabili; l’adattività, cioè la capacità di far
fronte a un in-put esterno; l’aggregazione al suo interno di più
variabili che costituiscono i sottosistemi; la loro cooperatività e
sinergia relazionale.
Dinamica: è, seguendo Guastello, il cambiamento che avviene
nel tempo e nello spazio delle proprietà, dei comportamenti, delle
interrelazioni di un sistema.
Concetto fondamentale della dinamica è l’evoluzione, ovvero un
set di relazioni complesse co-evolventi non più secondo uno schema
lineare, cioè seguendo il vecchio Linneo per cui la natura non fa
salti, ma secondo lo schema dell’equilibrio punteggiato (punctuated
equilibrium) per cui si vengono a creare «salti» improvvisi e
discontinui. Tra i suoi corollari possiamo elencare la biforcazione,
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ovvero il cambiamento di una proprietà critica nell’organizzazione
o nella performance di un sistema. Tale cambiamento può avvenire
sia perché viene raggiunta la soglia critica (bifurcation point) di
una regola (control parameter), sia perché intervengono fattori
accidentali esterni; ma solo in caso straordinario. Altro corollario
sono i diversi livelli di interazione connessi sia ai parametri di
controllo che alla retroazione continua (feedback loop). Combinando
i concetti di feedback e parametri di controllo otteniamo il concetto
fondamentale di auto-organizzazione, ovvero la capacità di un
sistema di fare emergere caratteristiche, proprietà o interazioni
nuove che riorganizzano adattativamente o in modo innovativo
(novelty) il sistema. Non-linearità: è universalmente definita come
la non proporzionalità tra la variazione introdotta in un sistema e
il cambiamento indotto nel sistema, più comunemente: tra causa ed
effetto. I suoi corollari sono la dipendenza sensibile alle condizioni
iniziali (il concetto fondante la Teoria del Caos ), il fatto, cioè, che un
piccolo evento può avere un impatto imprevedibile (impredicibilità)
su di un sistema, il concetto di attrattore8 e la geometria frattale, con
l’enorme impatto applicativo che ne è conseguito.
La creatività gioca un ruolo primario nelle dinamiche
organizzative, in due modi. Primo, le organizzazioni hanno bisogno
di reagire a circostanze improvvise e insolite e alle instabilità dei
loro ambienti. Quando l’organizzazione è capace di rispondere in
modo adattivo, piuttosto che per inerzia, possiamo dire che il caos
genera creatività. Il secondo ruolo della creatività è la generazione
spontanea di idee che potrebbero implicare nuove iniziative d’affari
per l’organizazzione. Tipicamente, nuove idee spontanee generano
instabilità nell’organizzazione perchè possono comportare deviazioni
dai piani precedenti e la ridirezione di energie che erano dedicate
al raggiungimento degli obiettivi prefigurati dal management. La
tipica mentalità manageriale è di rispolverare le nuove idee come
divertimenti o seccature, ma è proprio questo processo spontaneo che
alla fine produce alcune rotture estremamente produttive. In questo
senso possiamo dire che la creatività genera il caos. Il «caos», in
riferimento alla creatività, è più di una pratica metafora. Secondo la
teoria di configurazione del caso (Campbell, 1996), i prodotti creativi
sono il risultato di un processo di generazione di un’idea casuale. Le
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maggiori quantità di idee sono generate da ambienti professionali
e personali arricchiti. Le idee si ricombinano in configurazioni
come parte del processo di generazione dell’idea, in cui il pensatore
creativo comprende una nuova configurazione e la esplora come
possibile soluzione di un problema, al che ha luogo una forma di
auto-organizzazione degli elementi dell’idea (Simonton, 1988). Una
volta ancora, il caos genera creatività.
Oggi, comunque, si ritiene che la generazione e la ricombinazione
degli elementi dell’idea non sia del tutto casuale, ma un risultato
finale di un processo caotico. Questo perchè, in larga parte, l’autoorganizzazione degli elementi dell’idea (che è prima di tutto una
risposta al caos), e gli elementi dell’idea, si pensava che fossero generati
da sistemi umani determinati, individulamente o in gruppi. Però il
processo di generazione dell’idea andrà a ripercorrere strade tra gli
elementi dell’idea che gli individui hanno già mentalmente creato,
prima di qualsiasi particolare evento di problem-solving. L’ambiente
arricchito è solo un altro esempio dei «canali di ritorno» che Stacey
(1992) dichiarò essere essenziali per un comportamento creativo di
successo. Tali canali scorrono tra l’ambiente e il risolutore di problemi,
e avanti e indietro assieme ad altri membri dell’organizzazione i quali
si trovano in una posizione tale da poter fare qualcosa per l’idea.
Sebbene i tratti psicologici che potrebbero essere responsabili della
generazione dell’idea creativa possano essere distribuiti a caso, la
reale distribuzione di frequenza delle quantità di configurazione
sulle persone ha un andamento altamente obliquo, con una lunga
coda positiva. Questa forma era simile a una distribuzione scoperta
da Lotka (1926) quando applicò il suo lavoro di dinamiche della
popolazione ai risultati creativi tra gli scienziati (Simonton, 1988).
La distribuzione di frequenza (uno dei molti esempi) è caratterizzata
da molti massimi e minimi locali. Cosa causa questa distribuzione?
Secondo Simonton (1988), che lavorò con storie di vita di persone
creative, c’erano due dinamiche coinvolte: il ritmo di ideazione e
il ritmo di elaborazione. Siccome i sistemi creativi auto-organizzati
generano più instabilità, ne seguirebbe che i gruppi creativi di
soluzione dei problemi sono sistemi che operano sull’orlo del caos
(Guastello, 1995; Guastello, Hyde e Odak, in stampa).
Il caos lascia emergere la tendenza all’ordine attraverso
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sincronicità e irripetibilità. Concetti di cui anche la scienza sa e
sempre con Prigogine li dice con un solo suggestivo nome: «effetto
farfalla», ovvero il battito d’ali d’una farfalla sul Righi di Genova
può produrre un uragano ai Caraibi! L’aria spostata dalla farfalla
in concomitanza al gioco delle temperature può diventare alito e poi
vento ed infine uragano! Torniamo dunque con pazienza e attività,
con contemplazione e distacco, alla situazione attuale e soffermiamoci
all’ambito che ci è usuale: la psicoanalisi evolutiva. Sappiamo che
l’inconscio è depositario della storia umana individuale, planetaria e
persino universale. Questo è vero come è vero che esiste, nella nostra
sensibile percezione, lo spazio-tempo della fisica classica. Ma questo
lato non esaurisce l’inconscio: esso lascia trapelare disordine e caos e
non solo nei sogni, ma nel modo personalissimo per ognuno di noi,
che esso produce per guidare il pensiero. L’inconscio è dunque il
luogo dove vigono le leggi universali. Non c’è da stupirsi che in esso
non esista il tempo e che presenti gli stessi interrogativi che suscita
la materia. Anche il nostro pensiero, ripeto, può funzionare, nel suo
lato più cosciente, prevalentemente secondo i principi della fisica
classica - ed è facile ritrovare lo schema causa/effetto, spazio-tempo,
secondo il principio della mediazione («maschile») paranoica ed
ossessiva nel suo aspetto funzionale e nel suo lato patologico - oppure
prevalentemente secondo i principi dell’indeterminazione e del caos
- ed è facile ritrovare lo schema dell’affidamento alla vita, nell’aspetto
della primaria immediatezza («femminile») isterica o nel lato della
secondaria immediatezza filosofica. Sappiamo che Prigogine ha
riconosciuto nel caos e nelle strutture dissipative l’origine dell’ordine
crescente. Questo sia a livello fisico universale che sul piano sociale
delle comunità umane, nonché nelle società di insetti ecc.
Il caos governa il mondo. Penso che questo caos che, con le sue
«leggi» gestisce il tutto con cui coincide, non sia altro che l’inconscio
del mondo giunto nell’uomo a potersi non solo intuire ma nominare.
Nominare una cosa non significa conoscerla dal di dentro. Nessuno
di noi può dire alcunchè dell’inconscio per il semplice fatto che esso
non sarebbe più tale. Conosciamo l’inconscio dal di fuori ovvero per
la sua superficie, per ciò che offre alla coscienza in sogni, pensieri e
quanto altro si fa da essa registrare. E quanto sappiamo di quel buio
abisso ci permette di intuire un grande potere: il potere di percepire il
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movimento del caos nel suo aspetto interiore: la nostra psiche. Il caos
che, inteso come mero disordine viene proiettato nel mondo esterno,
può offrirsi a ben altra e migliore lettura se riconosciuto anche
nell’interiorità dell’uomo. Voglio dire che c’è una sola differenza
tra mondo fisico e mondo spirituale: se nel mondo fisico l’effetto
farfalla» può diventare ciclone, in quanto soggiace alle cieche leggi
di natura, nel mondo spirituale sapere che esiste l’effetto farfalla ci
aiuta a guidare lo spirito stesso verso sempre maggiore libertà dalla
natura.
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Frattali e terapia
«Sedete davanti ai fatti come bambini, e siate pronti a rinunciare
ad ogni nozione preconcetta, seguite umilmente la Natura, dovunque
vi conduca, o non apprenderete nulla».
T. H. HUXLEY
Un frattale è un oggetto con una complessa struttura sottilmente
ramificata; ingrandendo gradualmente una parte della struttura
vengono alla luce dettagli che si ripetono identici a tutte le scale di
accrescimento. Un frattale appare quindi sempre simile a se stesso
se lo si osserva a grande, piccola o piccolissima scala. Mandelbrot
ha osservato che molti oggetti naturali, apparentemente disordinati,
godono di questa proprietà. Un’altra peculiarità dei frattali è legata
al fatto che questi non si esprimono mediante forme primarie, bensì
mediante algoritmi, vale a dire insieme di procedure matematiche che
vengono tradotte in forme geometriche con l’ausilio di un calcolatore.
In tal modo si produce una grande ricchezza di forme geometriche a
partire da un algoritmo piuttosto semplice. L’esempio più affascinante
è l’insieme di Mandelbrot: un frattale dalla straordinaria ricchezza.
L’invarianza di scala trova un notevole parallelismo nella teoria
del caos, nella quale molti fenomeni, benché seguano rigide regole
deterministiche, si rivelano imprevedibili in linea di principio.
Gli eventi caotici, come la turbolenza atmosferica o le pulsazioni
cardiache, manifestano andamenti simili su scale temporali diverse,
più o meno come gli oggetti dotati di autosomiglianza presentano
forme strutturali simili su scale spaziali diverse. La corrispondenza tra
frattali e caos non è accidentale: è viceversa il segno di una relazione
profonda: la geometria frattale è la geometria del caos. Un frattale è la
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trasformazione di un fenomeno semplice in un meraviglioso disegno,
basato sulla frazione ricorrente dei suoi segmenti. In questo senso il
gruppo analitico può essere considerato, usando la teoria del caos,
come l’analogo di un frattale. Infatti, come inizialmente descritto
da Foulkes, la topologia del gruppo si articola in 5 livelli ordinati
gerarchicamente; il gruppo analitico, cioè, può essere descritto come
un continuum, in cui si va dal piano corporeo a quello sociale. I vari
livelli, sono autosomiglianti, in quanto ogni comunicazione dinamica
può essere «attribuita» a ciascuno di questi livelli e letta ed interpretata
nell’area gerarchica di riferimento. Si può dire che in questo senso il
gruppo si rivela simile ad un frattale in quanto vengono replicati, ai
vari livelli, con una invarianza di scala, gli stessi elementi tematici.
La qualità frattale del gruppo si può poi ritrovare anche ad un altro
livello: il gruppo analitico infatti può essere letto come un percorso
iniziatico che ripropone in una sorta di ricapitolazione filogenetica,
il processo collettivo dell’individuazione dell’uomo. I vari autori che
si sono occupati del processo gruppo-analitico, descrivono fasi di
sviluppo, ognuna sfociante nella successiva, che rappresentano un
passaggio critico, un superamento, una crescita, e appaiono inscritte
teleologicamente in una sorta di «progetto gruppale»: ricordiamo
qui, per esempio, le sei fasi di sviluppo descritte da Bennis e Shepard
(1956): dipendenza-fuga; controdipendenza-lotta; rapporti di potereautorità; incantamento (accoppiamento); disincantamento; lavoro
interdipendente (o di validazione consensuale), oppure le quattro fasi
di Usandivaras (1985): fase caotica; fase di fusione e disintegrazione;
fase detta di «comunità»; fase dell’individuazione e del problem
solving maturo. Questa lettura in senso diacronico longitudinale
del processo di gruppo ha molte analogie con ciò che in psicologia
analitica viene definito individuazione: tutto il processo analitico, per
Jung, è costituito da fasi successive di passaggio inscritte nel grande
processo dell’individuazione. L’individuazione è la replica personale
del grande cammino collettivo dell’umanità nel suo emergere dalla
indifferenziazione primordiale, questo cammino è rappresentato
nei sistemi immaginali collettivi «prototipici», i miti di fondazione
dell’umanità. In queste grandi saghe mitologico-religiose è descritto,
con caratteristiche tematiche e strutturali straordinariamente simili,
il processo di sviluppo dell’umanità. In tutti i miti di fondazione
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(da quello giudaico cristiano, a quelli babilonesi, romani, greci,
sumeri, ecc. ) sono rappresentate sempre le stesse fasi condivise:
all’inizio il mondo è in uno stato indifferenziato, caotico, uroborico.
Successivamente compare una funzione di separazione e ordinamento
del Caos primigenio impersonata da una figura di Eroe che si ribella:
Prometeo, Marduk, Gilgamesh, ecc. Poi si assiste ad una fase
regressiva, in cui l’eroe viene momentaneamente sconfitto (Prometeo
incatenato, Gesù che scende agli Inferi, ecc. ), infine il processo di
nuovo riprende il suo cammino e c’è il trionfo definitivo dell’eroe.
Queste fasi corrispondono esattamente, come dimostrato da
Neumann (1978), allo sviluppo dell’individuo, nel suo uscir fuori dallo
stato indifferenziato della fusione con la madre, nel suo confrontarsi
eroicamente con i problemi della separazione, nel suo cedere alle spinte
depressive e regressive conseguenti e, infine, nel suo emergere come
individuo differenziato e autonomo. I miti di fondazione sono un’eco,
una risonanza, sul piano immaginario collettivo di questo processo,
tipico della specie umana, archetipicamente predeterminato e che si
dispiega da sempre con le stesse modalità tematiche. In questo senso il
gruppo analitico rappresenta il punto di incontro, lo scenario dove si
replicano dinamiche collettive primordiali e dinamiche assolutamente
personali, il gruppo è il punto focale in cui si va dal collettivo
all’individuale, ritroviamo qui nuovamente una auto-somiglianza
che riecheggia la natura frattale del gruppo. Questa peculiare qualità
del gruppo appare riferibile alla stretta equivalenza tra la psiche
individuale e quella gruppale; infatti, come dice Foulkes (1967): «Si
potrebbe parlare di una psiche di gruppo allo stesso modo che si
parla di una psiche individuale. Anche se non riusciamo ad astrarre
dal concetto di individuo in senso fisico e corporeo ci dovrebbe essere
tuttavia più facile superare il nostro abituale concetto di individuo
psichico in modo da cogliere il carattere sovrapersonale delle reazioni
di gruppo: in altri termini i confini degli individui isolabili nella
matrice di gruppo ( che sarebbe forse meglio indicare con il nome
di «individui Psichici») non coincidono con quelli delle persone
fisiche». Un autore che si è molto occupato dell’argomento (Fiumara,
1992) sosteneva l’equivalenza tra la mente dell’individuo e la matrix
del gruppo proponendo l’esempio dell’ologramma come modello
esplicativo: l’ologramma è caratterizzato dal fatto che ciascuna
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singola parte della lastra olografica contiene tutte le informazioni di
tutto l’insieme; così appaiono le relazioni tra l’individuo ed il gruppo.
Sempre secondo Fiumara la mente del gruppo e quella dell’individuo
sono sovrapponibili ed entrambe sul piano psicodinamico tendono
alla individuazione. La natura frattale del gruppo comporta un
ulteriore possibilità di utilizzare la teoria del caos per descrivere
metaforicamente l’azione del gruppo: in questo senso il gruppo
analitico può essere considerato l’analogo di un attrattore strano
o caotico. Mentre la meccanica classica si presta egregiamente per
la descrizione e la previsione di sistemi semplici, i sistemi complessi
sono caratterizzati da una imprevedibilità intrinseca, questa
aleatorietà rende il loro comportamento imprevedibile e richiede un
diverso approccio concettuale, dato appunto dalle teorie del caos,
queste sono nate per la descrizione e la spiegazione di fenomeni
imprevedibili quali quelli naturali, e la mente ed il comportamento
umano è il più complesso di tutti i fenomeni naturali.
Un sistema semplice, come per esempio il moto di un pendolo
o le orbite lunari, può essere descritto perfettamente da poche
equazioni nella meccanica classica; queste descrizioni appartengono
alla cosiddetta teoria dei sistemi dinamici. Un sistema dinamico
si compone di due parti: le caratteristiche del suo stato (cioè le
informazioni essenziali sul sistema) e la dinamica (una regola
che descrive l’evoluzione dello stato nel tempo). Se si rappresenta
l’evoluzione di un sistema dinamico in forma geometrica (grafica) si
vede che un sistema che tende alla quiete, per esempio un pendolo
soggetto all’attrito, prima o poi si ferma e questo può essere
rappresentato graficamente sotto forma di un’orbita che tende verso
un punto fisso, questo punto fisso è detto attrattore perché attrae
le orbite del sistema dinamico. In termini grossolani un attrattore è
ciò verso cui si stabilizza o verso cui è attratto il comportamento di
un sistema. Un sistema più complesso può possedere più attrattori;
sistemi ancora più complessi hanno attrattori toroidali. Per sistemi
di estrema complessità, quali quelli di competenza delle dinamiche
caotiche (che sono poi quelle dei fenomeni psichici e in particolare
mentali), l’attrattore si chiama attrattore caotico o attrattore
strano, in questo caso le orbite del sistema vengono continuamente
sovrapposte, ripiegate, rimescolate fino a che l’informazione iniziale
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è del tutto eliminata e sostituita con nuova informazione. Il processo
di piegamento avviene più volte e produce pieghe dentro altre pieghe
all’infinito. In altre parole un attrattore caotico è un frattale. Il caos
mescola le orbite nello spazio degli stati esattamente come un fornaio
impasta il pane. L’imprevedibilità dei sistemi complessi, (quelli
dominati dalle leggi del caos) è legata alla amplificazione, da parte
degli attrattori strani, di piccole fluttuazioni iniziali, molto modeste.
È chiaro allora che non può esistere alcuna soluzione esatta, alcun
legame, causalmente determinabile, con gli stati di partenza. Dopo
un breve intervallo di tempo l’indeterminazione corrispondente
alla misura iniziale ricopre tutto l’attrattore. Questo processo
verosimilmente può rappresentare il funzionamento di sistemi
complessi, quali il cervello, ed è molto efficace per descrivere cosa
avviene in un gruppo quando più persone interagiscono sommando,
a vari livelli i corrispettivi delle loro orbite dei sistemi dinamici,
rappresentate in questo caso dalle reti di relazioni che si strutturano
secondo una rete orbitale gestita dall’attrattore caotico costituito dal
gruppo. Il gruppo, che come si diceva prima, costituisce un continuum
in cui si dispiegano vari livelli dell’esperienza umana, con la sua
funzione di attrattore permette il passaggio e lo scambio tra diversi
piani frattalici, in modo che i vissuti personali e collettivi vengono
continuamente rimescolati e modificati provocando una nuova
informazione e, in definitiva, il cambiamento e la trasformazione.
Possiamo quindi dire che la natura quindi sfrutta il caos in modo
costruttivo; grazie all’amplificazione delle piccole fluttuazioni, esso
può consentire ai sistemi naturali di accedere alla novità. Partendo
da questo considerazioni possiamo ora utilizzare questo schema
concettuale anche per i sogni del gruppo: come si diceva all’inizio il
frattale è la trasposizione grafica dell’algoritmo; in analogia il sogno
può essere considerato una trasposizione grafica di questa natura
frattale del gruppo. Nei sogni vengono rappresentati a vari livelli
i diversi piani di espressione del continuum gruppale, che a diversi
livelli di autosomiglianza ed invarianza di scala manifesta sempre lo
stesso tema; il viaggio dell’umanità nel suo allontanarsi dal caos della
condizione presimbolica e prelinguistica, l’uscir fuori del gruppo
dallo stato di caos iniziale fusivo, l’emergere dell’individuo dal caos
dei propri conflitti.
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I sogni di gruppo appaiono quindi raggruppabili in due categorie:
quelli più direttamente espressivi delle dinamiche interattive e
transferali tra i vari membri e quelli che si stagliano direttamente
dallo sfondo collettivo e che anticipano e descrivono i grandi temi
dell’individuazione; tramite questi ultimi emergono immagini
archetipiche dall’inconscio collettivo. Queste sono caratterizzate
da motivi mitologici, arcaici religiosi, alchemici, teriormorfi, ed
altri simbolismi arcaici, dalla lontananza dagli eventi quotidiani
e dall’intensità degli affetti associati ad essi. Queste caratteristiche
li differenziano dai «Sogni Personali» che manifestano una
preponderanza di immagini basate ontogeneticamente che
riguardano soprattutto i quesiti ed i conflitti personali del sognatore.
Il sogno archetipico può essere anche meglio definito come la via
dell’approccio simbolico in contrasto con l’approccio semiotico che
guarda alle immagini come segni.
Questi sogni, in analogia a quanto è successo nella storia
dell’umanità per i sistemi collettivi di rappresentazione dell’Universo,
sono i generatori dei miti e delle cosmogonie del gruppo, veri
e propri sistemi di spiegazione, comunicazione e significazione
dell’esperienza comune che consentono di affrontare le prime difficili
fasi del contatto con gli elementi caotici e fusivi. Questi miti del
gruppo svolgono cioè una funzione analoga a quella dei miti e delle
religioni antiche, il cui scopo era appunto di «religare» i dati del
reale in un insieme comprensibile, di fornire cioè una spiegazione e
una sistematizzazione delle realtà spaventose e incontrollabili della
natura. Queste costruzioni mitico-religiose sono state il punto di
partenza per il progressivo sviluppo del pensiero che ha portato alla
nascita dell’individuo in senso moderno. Il gruppo quindi appare un
vero percorso iniziatico che consente all’individuo, in un viaggio al
di fuori del tempo, di sperimentare il viaggio dell’Eroe e la nascita
del Sé; viaggio ritmato dalle immagini delle grandi saghe mitologiche
e religiose che trovano nuova vita nei sogni dei vari membri. Sarà
compito precipuo dell’analista prestare orecchio attento a queste
componenti ricche di significato e di preziosa utilità per l’evoluzione
del gruppo stesso, integrandole, con gli elementi più direttamente
legati alle storie individuali dei vari membri, in un quadro complessivo
di grande respiro e di profondo valore euristico.
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Omeostasi e Caos
«Ogni atomo mi appartiene come appartiene a te»
WALT WHITMAN – SONG OF MYSELF
Il concetto di omeostasi, introdotto dal fisiologo W. Cannon
nel 1929, è apparentemente molto semplice ed ha avuto successo in
fisiologia per la sua capacità di descrivere il comportamento di sistemi
che vanno dal controllo della frequenza cardiaca alla pressione del
sangue, dalla temperatura corporea alla concentrazione di elementi
corpuscolati del sangue, dalla glicemia alla crescita dei tessuti.
Esistono sistemi omeostatici a livello cellulare, come i trasporti di
membrana o l’induzione enzimatica, a livello di organo, come la
regolazione del flusso ematico in dipendenza del fabbisogno di O2
o il controllo delle popolazioni cellulari, a livello di apparati, come
il mantenimento della pressione sanguigna, della termoregolazione,
a livello di funzioni superiori integrate, come il controllo delle
emozioni o la risposta allo stress. In linea molto generale, l’omeostasi
rappresenta la capacità dell’organismo nel suo insieme o di sue
sub-componenti di conservare costanti, o meglio variabili entro
determinati limiti, dei parametri biochimici o delle funzioni in modo
che tali parametri e tali funzioni concorrano al buon funzionamento
dell’organismo nel suo insieme.
Man mano che la complessità dei sistemi deputati a tale scopo
si è andata rendendo più evidente con il progresso delle scienze
biomediche, il concetto di omeostasi si è ampliato, nel senso che
mentre inizialmente la sua applicazione poteva essere delimitata nel
campo della fisiologia (es.: pressione del sangue, sistema endocrino,
ecc... ), oggi si può constatare che esiste un’omeostasi anche ad altri
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livelli, sia sul piano cellulare e molecolare (es.: concentrazioni di ioni
nel citoplasma, velocità di catalisi di un enzima, ecc... ) che sul piano
dei sistemi che controllano l’integrità e la «qualità» dell’informazione
biologicamente significativa (es.: sistema immunitario, neurobiologia,
ecc... ). È opportuno ribadire e chiarire il fatto che il concetto di
omeostasi non deve essere confuso con equilibrio stazionario. I vari
sistemi biologici non sono mai in «equilibrio»; piuttosto, essi vanno
soggetti a continue oscillazioni nell’intensità dei fenomeni ad essi
correlati in quanto sono mantenuti lontano dall’equilibrio da un
continuo flusso di energia. I sistemi biologici sono oggi visti come tipici
sistemi «dissipativi», nel senso che il loro steady-state è mantenuto
dal continuo consumo di energia che mantiene l’ordine in uno spaziotempo limitato, a spese dell’aumento di entropia nell’ambiente
circostante [Guidotti, 1990; Nicolis e Prigogine, 1991]. Si pensi, ad
esempio, alla fisiologia della cellula, in cui si può constatare come la
membrana plasmatica divide due ambienti (intra ed extracellulare)
e quindi determina un grande «disequilibrio» di ioni (soprattutto
sodio, potassio e calcio): è proprio grazie a tale disequilibrio ed a sue
improvvise oscillazioni che la vita della cellula è mantenuta e molte
sue funzioni sono esplicate. I costituenti essenziali dei sistemi biologici
omeostatici sono rappresentati da strutture anatomiche o biochimiche
con funzioni effettrici regolabili e reversibili, da molecole segnale che
mettono in comunicazione strutture vicine e lontane, da recettori
per molecole segnale o per gli altri tipi di messaggeri, da sistemi di
trasduzione che connettono il recettore ai sistemi biochimici effettori
e, infine, da elementi responsabili del deposito dell’informazione, che
può essere genetica o epigenetica.
Quanto più un sistema omeostatico è complesso, tanto più
ha reso complessa la gestione delle informazioni, che può essere
effettuata da molti elementi disposti in sequenze ed in reti. Tali reti
(networks) connettono diversi elementi e gestiscono l’informazione
con meccanismi di amplificazione o di feed-back multipli e
incrociati. Esempi di tali reti sono quelle neurali, quelle del sistema
immunitario, quelle delle citochine, ecc... L’informazione, nelle reti
biologiche, è solitamente «ridondante», cioè lo stesso segnale può
agire su molteplici bersagli ed essere prodotto da molteplici elementi
del sistema. Inoltre, lo stesso elemento è controllato da diversi
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segnali e la sua risposta dipende dai loro sinergismi o antagonismi.
La «specificità» nella comunicazione tra gli elementi di una rete
non è garantita solo dall’esistenza di specifici segnali a seconda
della funzione o azione che la rete compie. Gli stessi segnali usati
(es.: particolari citochine, o neurotrasmettitori) possono causare
diversi effetti, innescare diverse risposte, anche opposte in taluni
casi, a seconda dell’ambiente in cui agiscono, cioè a seconda della
dinamica della rete stessa. In questo contesto di controlli multipli
ed incrociati, il concetto di «sistema regolatore» può essere rivisto
in una dimensione più ampia. Mentre su scala limitata ad un
singolo meccanismo esso può essere considerato come un elemento
fondamentale del sistema omeostatico. Su scala più ampia, dove si
consideri una rete di interazioni, il sistema regolatore coincide con
la rete stessa. Quando una rete è ben funzionante, ben «connessa» al
suo interno, il comportamento dell’insieme regola il funzionamento
delle singole variabili, ciascuna delle quali dà il suo contributo alla
regolazione delle altre.
Nei sistemi biologici esiste un’ampia serie di fenomeni oscillatori,
con periodi varianti da pochi millisecondi (oscillazioni enzimatiche,
attività neuronale) a secondi (respirazione), minuti (divisione
cellulare), ore (ritmi circadiani, attività ghiandolari, ritmo sonnoveglia), giorni (ciclo ovarico), mesi ed anni (variazioni di popolazioni).
La descrizione di sistemi più o meno complessi in cui più componenti
interagiscono in modo non lineare, non può quindi trascurare i
fenomeni caotici considerandoli dei disturbi di una teoria per altri
versi perfetta, ma deve trovare gli strumenti e le vie per integrarli
con la teoria precedentemente ritenuta sufficiente. In altre parole,
nella variabilità dei fenomeni oggetto di studio, si deve cercare di
distinguere il vero «disturbo» (noise), legato a fluttuazioni del tutto
casuali e disordinate o all’imprecisione delle misure, dall’oscillazione
che si presenta con caratteri di a-periodicità per ragioni comprensibili
e spiegabili. A questo proposito è stato introdotto il concetto di
caos deterministico, indicando appunto il fenomeno variabile e
impredicibile, ma soggetto a leggi deterministiche.
Ovviamente, alcuni parametri fisiologici appaiono praticamente
stazionari nell’adulto: si pensi all’altezza del corpo, che dopo il
periodo di accrescimento si stabilizza a un valore fisso per un lungo
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periodo, per poi subire una lieve diminuzione solo nella vecchiaia.
Se però si pensa al peso corporeo, già si vede che, dopo il periodo
dell’accrescimento, si raggiunge un peso solo apparentemente
stazionario, in quanto si possono facilmente notare delle variazioni
circadiane e stagionali, oltre a quelle legate agli sforzi fisici
contingenti. Ancora più evidenti sono le variazioni temporali della
secrezione di ormoni e quindi del livello di metaboliti o sali minerali
legati all’azione degli ormoni stessi. L’attività pulsatile di secrezione
ormonale è stata descritta in molti sistemi. Ad esempio, l’LH mostra
una pulsatilità, sia nel maschio che nella femmina. In quest’ultima, le
oscillazioni seguono due diversi schemi: nella fase follicolare del ciclo
si osservano pulsazioni di frequenza di 60’-90’ e di ampiezza limitata
(15-35 ng/ml circa), mentre nel periodo luteinico la pulsatilità è
caratterizzata da minore frequenza (una pulsazione ogni 3-4 ore) e di
maggiore ampiezza (intervallo: 5-50 ng/ml) [Flamigni et al., 1994].
La maggior parte delle reazioni biochimiche mostrano un
andamento oscillatorio nell’ambito della funzione cellulare, mentre
se condotte in provetta hanno una cinetica che tende a fermarsi con
l’esaurimento del substrato. La velocità di attività enzimatiche oscilla
quando due enzimi competono per lo stesso substrato e piccoli
cambiamenti delle concentrazioni dei reagenti possono portare a
cambiamenti nella frequenza o nella ampiezza delle oscillazioni,
introducendo comportamenti caotici in schemi precedentemente
armonici o viceversa [Cramer, 1993]. Sono stati costruiti sistemi
chimici a flusso (in cui cioè il substrato è fornito in continuazione)
che producono delle oscillazioni. Di questi il più studiato è la
reazione di Belusov-Zhabotinsky, in cui Ce(IV)/Ce(III) catalizza la
ossidazione e brominazione dell’acido malonico (CH2(COOH)2) da
parte di BrO3- in presenza di H2SO4. Le reazioni di ossidazione e
di riduzione avvengono a cicli alternantisi per cui le concentrazioni
dei substrati e dei prodotti continuano a variare nella soluzione e
tali variazioni possono essere monitorate con appropriati elettrodi.
Se la reazione è eseguita in un recipiente a flusso continuo e sotto
agitazione, ciò che determina ultimamente se il sistema mostra uno
steady-state, un comportamento periodico o un comportamento
caotico è la velocità di flusso dei reagenti nel recipiente [Epstein et
al., 1991; Petrov et al., 1993].
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È ben noto che all’interno delle cellule molte molecole con
funzioni regolatorie variano secondo oscillazioni più o meno veloci
e ritmiche. Sono state misurate oscillazioni nella concentrazione dei
nucleotidi ciclici [Meyer, 1991] e dell’inositolo fosfato [Berridge and
Irvine, 1989], del potenziale di membrana [Pandiella et al., 1989;
Maltsev, 1990; Ammala et al., 1991], nel metabolismo ossidativo dei
leucociti [Wymann et al., 1989], nella polimerizzazione dell’actina
[Omann et al., 1989]. È stato sostenuto che uno dei più importanti
sistemi di segnalazione intracellulare, l’aumento dello ione calcio
libero, attua la sua funzione per mezzo di pulsazioni, o meglio
oscillazioni di concentrazione o onde spazio-temporali [Berridge and
Galione, 1988; Cheek, 1991]. Misurazioni effettuate su singole cellule
hanno rivelato che molti ormoni innescano una serie di onde nella
concentrazione degli ioni calcio, ad intervalli di qualche secondo,
e che esse mostrano un aumento di frequenza all’aumentare della
concentrazione degli ormoni.
Il meccanismo di tali oscillazioni intracellulari di secondi
messaggeri non è molto ben compreso, ma è evidente che esse
dipendono dal «disequilibrio controllato» esistente tra i vari
meccanismi che tendono ad abbassare il loro livello e quelli che
tendono ad innalzarlo. Ad esempio, per quanto riguarda il calcio
intracellulare si sa che esso tende a essere mantenuto molto basso
per azione sia delle pompe (Calcio-ATPasi) che di controtrasporti
(scambio Ca++/Na+ e Ca++/H+), mentre tende ad aumentare per il
grande gradiente tra la concentrazione esterna e quella interna e per
l’esistenza di canali con maggiore o minore apertura a seconda dello
stato di attivazione della cellula (ad esempio, alcuni canali del calcio
sono direttamente accoppiati al recettore per segnali esterni, altri al
potenziale di membrana). Le onde del calcio possono propagarsi in
tessuti e organi, rappresentando in essi un sistema di segnalazione a
lungo raggio, come è stato osservato nelle cellule cigliate degli epiteli,
nelle cellule endoteliali, negli epatociti, nei monociti in coltura e negli
astrociti. È stato sostenuto che questo meccanismo di comunicazione
intercellulare contribuisce alla sincronizzazione di grandi gruppi di
cellule svolgenti la stessa funzione [Meyer, 1991]. Le oscillazioni, più o
meno ritmiche, non sono solo un risultato inevitabile del disequilibrio
tra sistemi di controllo. Esse probabilmente hanno anche una loro
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peculiare importanza, in quanto i ritmi biologici aiutano a coordinare
e stabilizzare il funzionamento di diversi organi e sistemi [Breithaupt,
1989; Matthews, 1991]. Inoltre, è stato sostenuto che molte risposte
cellulari siano controllate dalla modulazione di frequenza piuttosto
che dalla modulazione di ampiezza del segnale, in modo analogo alla
trasmissione di informazione tra neuroni attraverso cambiamenti
di frequenza del potenziale d’azione. In altre parole, la frequenza
di tali oscillazioni potrebbe rappresentare un codice segnaletico
«digitale», con significato informativo: affinché una risposta o un
processo sia attivato, ciò che conta è la frequenza delle oscillazioni
spazio-temporali (onde) nella concentrazione del calcio piuttosto
che la quantità di calcio realmente presente. Questo tipo di segnali
potrebbero regolare in modo più preciso la risposta cellulare al
variare della concentrazione di ormoni [Berridge and Galione, 1988;
Cheek, 1991; Catt and Balla, 1989]. Due tipi cellulari simili (basofili
e mastcellule) si distinguono per la frequenza delle loro oscillazioni
del calcio intracellulare [MacGlashan and Guo, 1991].
Le oscillazioni delle scariche della corteccia cerebrale sono
probabilmente molto importanti per garantire il coordinamento
di diversi gruppi di cellule e di centri nervosi [Engel et al.,
1992]. Tecniche di analisi non lineare possono essere applicate
all’elettroencefalogramma per costruire modelli di funzionamento
della corteccia cerebrale [Babloyantz and Lourenco, 1994]. In questi
modelli, i vari stati comportamentali (sonno, veglia, attenzione, ecc...
) sono visti come una attività corticale caotica nello spazio e nel
tempo, soggetta però ad un controllo che ne aumenta la coerenza per
inputs provenienti dal talamo o da altre aree (ad esempio la corteccia
visiva riceve informazioni dalle vie ottiche). È stato sostenuto che le
dinamiche caotiche possono fornire la possibilità di codificare un
infinito numero di informazioni, perché sono come la «riserva» di
un infinito numero di orbite periodiche instabili [Babloyantz and
Lourenco, 1994]. Un altro aspetto da sottolineare a riguardo delle
oscillazioni dei parametri soggetti a controllo omeostatico è che tali
oscillazioni, misurate sperimentalmente, si dimostrano quasi sempre
di tipo caotico. Raramente si osservano oscillazioni periodiche e
stabili (cioè di frequenza ed ampiezza perfettamente costanti). Le
oscillazioni che si osservano sono per lo più di tipi diversi, che vanno
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dal tipo periodico-instabile al tipo quasi-periodico-instabile fino
al tipo completamente irregolare. Quando si parla di oscillazioni
di variabili biologiche, non si dovrebbe trascurare il campo delle
oscillazioni molecolari accoppiate ad oscillazioni del campo
elettromagnetico, problema al quale si sta volgendo l’attenzione degli
scienziati in tempi piuttosto recenti. Trattasi di un tema di rilevante
interesse anche pratico, vista la sempre maggiore diffusione delle
onde elettromagnetiche nell’ambiente e nella vita quotidiana. In
questa sede non è possibile una disamina esaustiva dell’argomento,
ma basta accennare al fatto che campi elettromagnetici di diversi
ordini di grandezza più deboli del gradiente di potenziale transmembrana possono modulare azioni di ormoni, anticorpi e
neurotrasmettitori a livello di recettori e di sistemi di trasduzione
[Adey, 1988] e che anche l’attività proliferativa cellulare è influenzata
da campi elettromagnetici, anche di intensità molto debole (0.2 20 mT, 0.02 - 1.0 mV/cm) [Luben et al., 1982; Conti et al., 1983;
Cadossi et al., 1992; Walleczek, 1992]. Molte di queste interazioni
sono dipendenti dalla frequenza più che dalla intensità del campo,
cioè compaiono solo in determinate «finestre» di frequenza, fatto
che suggerisce l’esistenza di sistemi di regolazione «non lineari» e
lontani dall’equilibrio [Tsong, 1989; Weaver and Astumian, 1990;
Yost and Liburdy, 1992].
Molti processi cellulari sembrano avvenire secondo una logica
del «tutto o nulla», che dipende, a parità di condizioni esterne, sia
dall’evenienza di microeventi casuali e imprevedibili in un determinato
momento, sia dall’esistenza di meccanismi di amplificazione a cascata
dei segnali (vedi ad esempio la esocitosi delle cellule granulocitarie,
o il potenziale d’azione delle cellule nervose, o la mitosi). Tali
processi cellulari dipendono dal superamento di una «soglia» di
concentrazione di mediatori o di carica di potenziale elettrico, o di
funzionalità recettoriale. Occasionalmente, tale soglia può essere
superata per fluttuazioni dei parametri di controllo dell’omeostasi, ma
questo fenomeno pare essere imprevedibile perché, su scala cellulare
o molecolare, pare dipendere anche da fenomeni «quantizzabili»
[Hallet, 1989]. Molte delle reazioni che si svolgono in una cellula
coinvolgono un numero ristretto di componenti, dell’ordine delle
decine o centinaia (ad esempio le molecole di acidi nucleici, i recettori,
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i canali ionici, le vescicole sinaptiche, ecc.), per cui le reazioni in cui
tali componenti sono coinvolte, possiedono un significativo grado
di imprevedibilità di tipo quantistico. Ciò non significa che tutto sia
in preda al caso, perché sulla lunga distanza molte fluttuazioni si
mediano e si rientra nella probabilità quasi certa di comportamento
cellulare. Ad esempio, se si stimola un singolo leucocita con alte
dosi di un adatto agente chimico, non si può prevedere dopo
quanto tempo si avrà un aumento di metabolismo, ma si può essere
praticamente certi che prima o poi il fenomeno avvenga. Se però le
dosi sono molto basse, non possiamo prevedere se esso risponderà,
sappiamo solo che, in una popolazione di leucociti, alcune cellule
saranno responsive ed altre totalmente non responsive.
Il ruolo dei fenomeni caotici in medicina comincia ad essere
studiato e compreso negli ultimi anni, grazie a studi condotti
soprattutto nel campo della cardiologia e della neurologia, ma
certamente il campo è molto aperto anche per la biologia cellulare,
la farmacologia e l’immunologia. Tutti questi fenomeni sono quindi
tipici fenomeni dinamici (cambiano il loro stato nel corso del
tempo) e non-lineari (influenze esterne causano modificazioni non
necessariamente proporzionali all’entità della perturbazione), che
richiedono adatti studi teorici [Kaiser, 1988].
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Il Caos… Patologico
«Tutto è vivo; ciò che chiamiamo morto è un’astrazione»
DAVID BOHM
Ci si può chiedere a questo punto se i modelli del caos e delle reti
interconnesse possano essere applicati allo studio della patogenesi
delle malattie: la risposta è positiva ed in questo capitolo si
forniranno alcuni esempi di tale nuovo approccio alla patologia. Le
considerazioni che seguiranno sono sviluppate in gran parte sulla base
di un ragionamento teorico e analogico che, per quanto suggestivo
e utile a costruire modelli, deve essere sostanziato da dimostrazioni
sperimentali per potersi dire a pieno titolo scientificamente fondato.
Tali dimostrazioni si stanno oggi accumulando, ma si tratta pur
sempre di studi-pilota e preliminari, la cui importanza per quanto
riguarda una possibile applicazione clinica su larga scala resta ancora
da determinare.
Quanto finora detto mostra che le oscillazioni biologiche e
fisiologiche fanno parte della «regola» matematica che governa un
sistema omeostatico per il semplice fatto che esso è organizzato a feedback: esse sono quindi normali, anche in forma caotica, per determinati
valori dei parametri di controllo di un sistema omeostatico. Tuttavia,
ogni aspetto della fisiologia ha un suo versante patologico e quindi si
può logicamente chiedersi quali siano le «patologie» dell’omeostasi
dal punto di vista della sua caoticità. La risposta a questa domanda
è, da un certo punto di vista, abbastanza semplice: si può delineare
l’esistenza di una patologia da «perdita di caoticità» ed una patologia
da «aumento di caoticità». In altre parole, se è vero che ogni sistema
biologico complesso tende a regolare l’intensità e la qualità delle
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proprie funzioni sulla base di un certo tipo di attrattore, è anche
vero che la patologia insorge quando l’attrattore stesso cambia di
dimensione (es. nel tipo di periodicità) o di struttura. Da questo
punto di vista, l’origine della malattia potrebbe essere colto là dove
c’è una biforcazione nelle dinamiche di uno o più sistemi biologici,
sia in aumento di caoticità che in diminuzione.
I sistemi biologici hanno molteplici parti che agiscono
coerentemente per produrre una azione globale. Essi possono essere
considerati come «patterns» collettivi meta-stabili di molti oscillatori
più o meno accoppiati. La caoticità di ogni sistema conferisce ad
esso la flessibilità tale da poter variare con facilità (cioè grazie a
piccole influenze esterne) il proprio comportamento per adattarsi
ai cambiamenti degli altri. Per questo, la patologia può cominciare
come «perdita di connettività» tra gli elementi del sistema globale.
Tale perdita di connessioni rende meno complessa la rete di
comunicazioni, ma può aumentare la caoticità perché alcuni elementi
(cellule, tessuti, organi) sfuggono al gioco dei controlli incrociati e
iniziano ad oscillare in modo molto più marcato e disorganizzato.
Quindi, se è vero che il caos di per sé non è un elemento negativo, in
quanto è elemento di flessibilità e generatore di diversità, se si perde
il coordinamento, la «connettività» del sistema nel suo insieme e con
il resto dell’organismo, alcune sub-componenti possono oscillare in
modo eccessivo, imprevedibile, generando quindi disordini localizzati
che però possono essere amplificati (l’amplificazione delle fluttuazioni
è un tipico comportamento dei sistemi caotici) e trasmessi ad altri
sistemi in modo disordinato e afinalistico.
L’oscillazione assume l’aspetto della malattia in quanto provoca
l’emergere di sintomi e danni consistenti. È come se il caos venisse
amplificato e si formassero dei «nuclei» di interrelazioni patologiche
tra cellule o sistemi, coinvolgenti anche il sistema connettivo, che in
qualche modo si isolano dal controllo generale e si automantengono.
Al limite, variazioni troppo rapide ed intense delle variabili implicate
in un sistema omeostatico possono configurare una situazione
analoga a quella vista sopra per la funzione di Verhulst, allorché
il parametro k superi un determinato valore: una situazione di
feed-back positivo ed autodistruzione del sistema. D’altra parte, la
distruzione di connessioni e/o la perdita di complessità di specifici
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sistemi (ad esempio: atrofia di tessuti, invecchiamento) può far
ridurre le fini variazioni omeostatiche e caotiche, accompagnandosi
a una semplificazione degli schemi omeostatici. In questo caso, si può
anche ravvisare la patologia come perdita di caoticità. La sclerosi, ad
esempio, rappresenta fisicamente una modificazione del connettivo
con riduzione della flessibilità, della deformabilità ed, infine, della
vitalità (atrofia).
Molte malattie riconoscono nella loro patogenesi, almeno nelle
fasi iniziali, dei difetti della comunicazione che insorgono nelle reti
complesse dei sistemi integrati (controllo della proliferazione cellulare,
sistema immunitario, equilibrio tra fattori pro- e anti-infiammatori,
ecc). In una rete in cui molti sistemi omeostatici (molecolari,
cellulari, sistemici) sono interconnessi, l’informazione del sistema
intero «percorre» dei cicli («attrattori») che hanno forme spaziotemporali variabili, fluttuanti, ma sempre riconducibili, nello stati di
normalità, ad uno schema armonizzato con il tutto visto nella sua
globalità, schema finalizzato alla sopravvivenza dell’organismo, con
il minore dispendio di energia possibile. Se uno o più elementi di tali
reti perdono le connessioni informative, cioè il sistema omeostatico
in sé si spezza, o si spezza il flusso di informazione tra diversi sistemi,
si ha un processo patologico proprio in quanto si genera il caos, o,
meglio, il sistema caotico passa in un altro attrattore. Tali modelli
prevedono che il nuovo attrattore, nel caso considerato «patologico»,
possa conservarsi anche se la perturbazione iniziale (perdita di
connessione) è solo temporanea (in patologia, si potrebbe parlare
di cronicizzazione). Vi sono molti modi con cui un sistema integrato
perde di complessità e di connettività e qui ne sono elencati alcuni
a titolo esemplificativo (in fondo, tutta la patologia potrebbe essere
vista in questa ottica):
a) diminuzione del numero di elementi cellulari in gioco (vedi, ad
esempio, processi di atrofia senile o per anossia cellulare).
b) alterazioni di numero o di sensibilità dei recettori quando essi
sono troppo a lungo o troppo intensamente occupati, o quando sono
direttamente attaccati dalla malattia (es.: miastenia grave), o quando
sono geneticamente difettosi (es.: ipercolesterolemia familiare).
c) mancata produzione del segnale (es.: difetto anatomico o
malattia di ghiandola endocrina) o sua intercettazione durante il
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percorso (interruzione di nervi, presenza di autoanticorpi verso
proteine segnale).
d) difetto nei meccanismi intracellulari di trasduzione del
segnale (dal recettore all’intero della cellula): si pensi ad esempio
all’azione di tossine batteriche che mettono fuori uso le G-proteine,
o all’adattamento delle stesse G-proteine nello scompenso cardiaco,
o alla azione di molte sostanze farmacologicamente attive come i
calcio-antagonisti o gli agenti che elevano l’AMPciclico, ecc... Molti
oncogeni agiscono proprio su questi delicati passaggi del controllo
della proliferazione.
È certo che dinamiche caotiche sono presenti normalmente
nell’omeostasi di reti a componenti multiple e incrociate come le
citochine, i neuropeptidi, il sistema endocrino, le reti idiotipoantiidiotipo, l’equilibrio HLA-recettori immunitari. La malattia
autoimmunitaria viene oggi interpretata come un difetto di
funzionamento del network immunitario. Il comportamento
dinamico di cloni autoreattivi è alterato in quanto essi sono meno
densamente connessi, cosicché essi si espandono e possono essere
selezionati mutanti ad alta affinità per autoantigeni. È stato
riportato che gli schemi di fluttuazione degli anticorpi naturali sono
alterati nell’uomo e nel topo affetti da malattie autoimmunitarie:
le fluttuazioni sono o totalmente ritmiche, o totalmente casuali
(random), mentre nel normale le fluttuazioni hanno schemi caotici
ma non totalmente casuali (cioè una situazione intermedia tra i due
estremi) [Varela and Coutinho, 1991]. È interessante il fatto che
gli stessi autori sopra citati suggeriscono che la comprensione di
queste dinamiche porterebbe a modificare i convenzionali schemi
terapeutici: piuttosto che sopprimere in modo aspecifico l’immunità,
il trattamento dovrebbe rinforzare il network immunitario stimolando
la connettività delle regioni variabili di recettori e anticorpi. Di fatto,
una prima applicazione di questo principio è l’indicazione, emersa
di recente, di somministrare immunoglobuline naturali in una serie
di malattie autoimmunitarie. Un’applicazione dei modelli del caos
riguarda anche l’epidemiolologia delle malattie infettive: l’insorgenza
e la ricorrenza di epidemie ha un andamento ciclico, come è ben
noto, ma irregolare, ha dinamiche che sono state analizzate con la
144
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matematica del caos [May, 1987; Olsen and Schaffer, 1990; Blanchard,
1994]. Ad esempio, pare che le epidemie di varicella presentano
una variabilità in cui si possono comunque evidenziare andamenti
temporali del tipo di ciclo-limite, con periodo di un anno, mentre le
epidemie di rosolia mostrano un andamento tipicamente caotico, cioè
più irregolare e più sensibile all’influenza di piccoli fattori climatici o
ambientali [Olsen and Schaffer, 1990].
Seguono altri esempi di disordini dell’omeostasi, in cui sono stati
descritti dei comportamenti fisiopatologici che si possono ricondurre
essenzialmente a «deficit» o ad «eccesso» di caoticità. Nelle persone
sane, l’insulina è secreta con pulsazioni che si ripetono ogni 12-15
minuti, comandate da un «pacemaker» pancreatico probabilmente
influenzato dal nervo vago. L’insulina secreta in pulsazioni è
metabolicamente più efficiente nel mantenere i normali livelli di
glucosio ed è significativo il fatto che l’irregolarità o persino la
perdita di tali oscillazioni è la più precoce anomalia rilevabile nella
secrezione di insulina in pazienti con diabete di tipo 2 [Polonsky
et al., 1988; Holffenbuttel and Van Haeften, 1993]. Nel diabete di
tipo 2 il controllo metabolico è ovviamente disregolato, e finora
nella valutazione dell’andamento clinico si è posta molta attenzione
alla quantità assoluta di glucosio presente nel sangue (oltre ad
altri parametri quali le emoglobine glicosilate, che documentano
in qualche modo l’effetto di tale disregolazione sulle proteine).
Recenti evidenze mostrano che un altro fattore che può essere
considerato è rappresentato dalla variabilità della glicemia, cioè dalla
sua instabilità nel tempo, indipendentemente dal livello assoluto.
A questo proposito, è degno di citazione uno studio condotto per
valutare se il controllo della glicemia nei pazienti diabetici anziani
è una determinante significativa della mortalità [Muggeo et al.,
1995].
Il glucosio plasmatico (a digiuno) è stato misurato ripetutamente
nel corso di tre anni in un ampio numero di pazienti, quindi è
stata valutata la mortalità nei successivi cinque anni. La mortalità
maggiore non è risultata associata alla concentrazione media del
glucosio, bensì alla sua variabilità (misurata come coefficiente di
variazione rispetto alla media, in ripetute misurazioni). In altre
parole, il gruppo di pazienti con CV maggiore (per la precisione
145
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> 18.5%) aveva una probabilità di sopravvivenza significativamente
inferiore al resto dei pazienti con la stessa malattia e il CV è
risultato una variabile indipendente dalla media della glicemia. La
patogenicità del disordine metabolico non pare quindi legata tanto
alla iperglicemia, quanto all’ampiezza delle sue oscillazioni, legate
alla inefficienza del controllo ormonale. Gli autori concludono
suggerendo che per un buon controllo del diabete nell’anziano si
dovrebbe considerare non solo il parametro quantitativo medio ma
anche la sua stabilità. Applicazioni della teoria del caos sono state
avanzate in cardiologia.
È stato riportato [Goldberger et al., 1991] che la frequenza cardiaca
di un individuo sano varia nel tempo con periodicità intrinsecamente
caotica e non, come si riteneva finora, secondo un normale ritmo
sinusale influenzato solo dai sistemi omeostatici. Osservando tali
variazioni secondo scale temporali diverse (minuti, decine di minuti
e ore) si vedono fluttuazioni simili, che ricordano un comportamento
frattale, nel dominio del tempo anziché in quello dello spazio. Non si
tratta, ovviamente, di aritmia, ma di oscillazioni del ritmo normale.
Il battito cardiaco normale non è perfettamente regolare nei
soggetti sani, ma presenta ampie variazioni che mostrano dinamiche
caotiche, mentre soggetti con scompenso cardiaco congestizio hanno
minore variabilità nella frequenza cardiaca. La variabilità nel ritmo
diminuisce in corso di grave malattia coronarica, uso di digossina o
cocaina ed anche semplicemente nell’invecchiamento [Casolo et al.,
1989]. La morte cardiaca improvvisa è preceduta da periodi in cui
si è evidenziata la scomparsa del caos normale e l’insorgere di una
periodicità più regolare ma, proprio per questo, patologica [Kleiger
et al., 1987; Goldberger and West, 1987].
La fibrillazione ventricolare potrebbe, a prima vista, apparire
come il massimo della caoticità. Tuttavia, alla luce della teoria del
caos, ciò non è esatto: vi è infatti una sostanziale differenza tra eventi
contrattili totalmente casuali e slegati tra loro e comportamento
caotico. Nell’analisi ECG del cuore in fibrillazione non è stato
identificato nessun attrattore [Kaplan and Cohen, 1990a e 1990b],
così che gli autori concludono che la fibrillazione appare come un
segnale random non caotico. In psichiatria, si potrebbe considerare
come esempio di perdita di caoticità l’insorgere di idee fisse o di
146
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ossessioni: mentre la psiche normale segue un attrattore «strano»,
ricco di variabilità pur con delle caratteristiche di stabilità (patterns
psicologici, archetipi secondo Jung), nell’ossessivo emergono
comportamenti stereotipati, ripetitivi o fissi, difficili da influenzare
dall’esterno (se non con grosse dosi di farmaci o manovre estreme).
Anche la patologia psichica spesso origina e trova consolidamento
dalla perdita di capacità di comunicare con i propri simili (perdita
di complessità e di flessibilità). L’importanza del caos nelle funzioni
cerebrali è tale che alcuni autori si sono spinti a considerare questo
fenomeno la base per la creatività intellettuale [Freeman, 1991] o
addirittura il corrispondente fisiologico dell’esistenza di un libero
volere [Crutchfield et al, 1986].
Freeman, professore di neurobiologia all’Università della
California a Berkeley, riferisce: «I nostri studi ci hanno fatto anche
scoprire un’attività cerebrale caotica, un comportamento complesso
che sembra casuale, ma che in realtà possiede un ordine nascosto.
Tale attività è evidente nella tendenza di ampi gruppi di neuroni a
passare bruscamente e simultaneamente da un quadro complesso di
attività ad un altro in risposta al più piccolo degli stimoli. Questa
capacità è una caratteristica primaria di molti sistemi caotici. Essa
non danneggia il cervello: anzi, secondo noi, sarebbe proprio la
chiave della percezione. Avanziamo anche l’ipotesi che essa sia alla
base della capacità del cervello di rispondere in modo flessibile alle
sollecitazioni del mondo esterno e di generare nuovi tipi di attività,
compreso il concepire idee nuove» [Freeman, 1991].
Da una prospettiva ancora più ampia di discussione del problema,
si è già avuto occasione di dimostrare come l’esercizio della libera
volontà presupponga necessariamente che il suo strumento materiale
(cervello) non sia rigorosamente deterministico, ma sia soggetto
alla indeterminatezza inerente alla materia atomica (fluttuazioni
quantistiche) ed alla materia vivente (sistemi lontani dall’equilibrio)
[Zatti, 1993]. In neurologia, si è visto che l’anziano presenta una
minore ramificazione delle cellule di Purkinjie, quindi una riduzione
della loro dimensione frattale [Lipsitz and Goldberger, 1992].
Particolari metodi di analisi basati sulle dinamiche non lineari hanno
permesso di paragonare gruppi di soggetti giovani e anziani per
147
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quanto riguarda la complessità del ritmo cardiaco e delle variazioni
di pressione [Kaplan et al., 1991].
Si è visto che tale complessità è ridotta nel corso
dell’invecchiamento. Per questo alcuni sostengono che la misura
della complessità basata sulla teoria del caos e dei frattali può
fornire un nuovo strumento per monitorare l’invecchiamento e
testare l’efficacia di interventi indirizzati specificamente a modificare
il declino di capacità adattativa che avviene con l’età [Lipsitz and
Goldberger, 1992]. L’idea di «padroneggiare il caos» pare molto
attraente in un’ampia serie di campi di ricerca! [Ditto e Pecora, 1993;
Shinbrot et al., 1993]. La comparsa di crisi epilettiche si associa ad
una perdita di caoticità nelle onde cerebrali e comparsa di treni di
impulsi periodici a partenza da determinati focolai [Babloyantz
and Destexhe, 1986; Schiff et al., 1994]. Nel campo dello studio
dell’epilessia è stato utilizzato il concetto di «dimensione frattale» per
analizzare l’evoluzione temporale delle onde EEG. La computazione
dei dati di ratti normali ha consentito di costruire un attrattore di
dimensione 5.9, mentre l’attrattore durante le crisi epilettiche aveva
una dimensione di 2.5, quindi indicava un grado minore di caoticità.
È stato suggerito che in questo caso la dimensione frattale correla
con la flessibilità e adattabilità dell’organismo.
In un elegante esperimento eseguito su preparato di cervello di
ratto si è data una dimostrazione di come controllare il caos in un
sistema vivente [Schiff et al., 1994]. In una fettina di ippocampo
mantenuta in bagno di coltura la attività neuronale è rappresentata
da scariche a impulsi con tipico comportamento caotico (periodicità
instabile), che può essere registrato al computer. Impulsi elettrici
intermittenti somministrati ad appropriati intervalli temporali
(«periodic pacing»), calcolati dal computer sulla base dell’andamento
della scarica spontanea, sono in grado di regolarizzare la periodicità
della scarica della popolazione neuronale. D’altra parte, certi tipi di
preparazioni hanno un comportamento periodico spontaneo, che può
essere «anticontrollato» per indurre il caos. Gli autori suggeriscono
che questo modello potrebbe trovare applicazione nel controllo
in vivo dei foci epilettici, che hanno alcune caratteristiche tipiche
di periodicità instabile. Riduzione di complessità (misurata come
riduzione della dimensione frattale) si è osservata nelle trabecole
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ossee in caso di osteoporosi [Benhamou et al., 1994]. Secondo alcuni
autori [Caldwell et al., 1994], la dimensione frattale fornisce una
informazione qualitativa sulla struttura dell’osso (espressa però in
termini quantitativi), che va ad aggiungersi, integrandola con nuovi
significati, alla informazione puramente quantitativa fornita dalla
tradizionale densitometria ossea.
La misura della irregolarità della forma è stata utilizzata in studipilota anche nella diagnostica istopatologica dei tumori [Landini and
Rippin, 1994]. Mentre il profilo di una sezione della mucosa normale
del pavimento della bocca è risultata avere una dimensione frattale
di 0.97, quello di una sezione di un carcinoma aveva dimensione
di 1.61, documentando quindi in termini numerici la maggiore
irregolarità. Forme di cheratosi con severa displasia davano valori
intermedi. La membrana delle cellule leucemiche (leucemia «hairycell») ha una dimensione frattale tra 1.29 e 1.37, mentre quella dei
linfociti T normali è tra 1.12 e 1.23 [Nonnemacher, 1994]. È chiaro
che per fare la diagnosi in questo caso non servono complicati calcoli
matematici, essendo determinanti l’osservazione al microscopio
ottico e l’immunocitochimica, ma è pure significativo il fatto che si
sia trovato un modo per trasformare un giudizio qualitativo (e per
questo in un certo modo soggettivo) in un numero oggettivo.
L’organizzazione frattale può essere studiata anche su sistemi in
coltura di tessuti o di microrganismi. Per quanto riguarda i primi, si
può citare lo studio della ramificazione dei piccoli vasi nella membrana
corion-allantoidea del pollo [Kurz et al., 1994]. La velocità di crescita
delle cellule endoteliali e delle altre cellule che costituiscono la rete
vasale è stata misurata sia come densità di cellule per area di superficie
che come dimensione frattale. Si è visto, tra l’altro, che l’aggiunta di
un fattore di crescita (Vascular Endothelial Growth Factor) aumenta
il numero di cellule ma aumenta anche la dimensione frattale (da
1.4 a 1.8 circa) dei vasi neoformati: esso interviene quindi nella
organizzazione delle ramificazioni e nell’aumento di complessità. Per
quanto riguarda i microrganismi, ad esempio, sono state misurate,
in colonie fungine crescenti su agar, le variabili come la «rugosità»,
la «altezza» e la «autosomiglianza» delle colonie. Tali variabili
dipendono dalla concentrazione del glucosio nel mezzo in modo
indipendente l’una dall’altra [Matsuura and Miyazima, 1994]. Un
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aggravamento della situazione caotica nella secrezione di ormoni
nell’insufficienza cardiaca è stato messo in evidenza da Nugent
e collaboratori [Nugent et al., 1994]. In sintesi, tali autori hanno
misurato la concentrazione ematica di peptide atriale natriuretico
(ANP) ogni 2 minuti per un periodo di 90 minuti. Nel soggetto sano
si notano marcate e irregolari oscillazioni (la concentrazione varia
da 2 a 60 ng/l), nel soggetto malato (insufficienza cardiaca cronica) si
notano oscillazioni di ampiezza molto maggiore (da 2 a 400 ng/l). In
questi casi, quindi, si potrebbe dire che la caoticità è peggiorata, nel
senso osservato nella nostra progressione matematica con la funzione
di Verhulst, in cui aumentando il parametro k aumentava l’ampiezza
dei picchi. Tuttavia, bisogna precisare che in alcuni pazienti (5 su 27)
sono comparsi dei picchi di concentrazione (fino a circa 2000 ng/l)
con una periodicità molto più evidente (ogni 10-12 minuti). In questi
casi, quindi, all’aumento ulteriore di concentrazione dell’ormone, si
accompagna la comparsa di maggiore periodicità (ordine nel caos!
). Uno di questi pazienti morì poco dopo per molteplici embolie
polmonari, a conferma del fatto che la situazione era estremamente
grave.
Una forma particolarmente grave di aumento di caoticità si
può verificare in tutte quelle situazioni in cui la perdita di controllo
omeostatico per ragioni esterne al sistema stesso si accompagna
a incapacità del sistema di compensare la perturbazione indotta.
A questo proposito si possono fare i seguenti esempi di catene
consequenziali di eventi patologici (riportati con inevitabili
semplificazioni):
a) shock → vasocostrizione compensatoria → ipoperfusione → danno
cellulare → vasodilatazione → ipotensione → shock, ecc...;
b) ipertensione → vasocostrizione → ipoperfusione renale →
attivazione del sistema renina/angiotensina → ipertensione,
ecc...;
c) lesione cellulare per anossia → deficit di energia → mancata
funzione delle pompe di membrana → ingresso di calcio →
eccitazione cellulare → aumento di consumo di energia → deficit
di energia, ecc...
d) infezione da HIV → distruzione dei linfociti → immunodeficienza
→ infezione → attivazione del sistema immunitario → attivazione
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del virus latente → replicazione del virus → distruzione dei linfociti,
ecc...
In tutti questi casi, riguardanti sia il piano clinico che quello
biologico-cellulare, si può parlare di situazioni di autoamplificazione
della deviazione dalla normale omeostasi, situazioni dette anche circoli
viziosi. Con riferimento all’ipotesi dell’esistenza di processi caotici
nel cervello, è importante segnalare il contributo del neuroscienziato
americano Walter Freeman, impegnato da oltre trent’anni nello studio
delle dinamiche caotiche cerebrali (soprattutto con riferimento alla
percezione olfattiva). In un suo recente libro, Freeman sottolinea
che l’enorme complessità del cervello dà ragione dell’inadeguatezza,
nello studio delle dinamiche cerebrali, del modello causale lineare,
del tipo sensazione/input - elaborazione - output/risposta. Il cervello
deve essere considerato un sistema dinamico altamente complesso:
esso contiene circa dieci miliardi di cellule nervose o neuroni, connessi
tra loro in un’intricatissima rete non continua mediante mille miliardi
di contatti sinaptici discontinui.
Secondo l’autore, il funzionamento di una tale rete può essere
compreso solo ricorrendo al modello fornitoci dalla moderna teoria
dei Sistemi Dinamici non lineari (o complessi), la cui proprietà
fondamentale è quella dell’auto-organizzazione o emergenza: già
sistemi molto più semplici di quelli viventi, come ad esempio uno
strato di fluido o una miscela di prodotti chimici, caratterizzati
da un alto numero di entità microscopiche interagenti, sotto certe
condizioni possono generare delle proprietà globali macroscopiche
che non esistono al livello delle entità di base e che vengono designate
appunto come «fenomeni emergenti».
Tali proprietà globali dipendono dalle configurazioni (patterns)
risultanti da interazioni non lineari tra le entità elementari. Da un
punto di vista fisico questo legame non lineare è dato dai cosiddetti
«anelli di retroazione» (feedback loops) in cui le componenti del
sistema si connettono circolarmente, in maniera tale che ogni elemento
agisce sul successivo, finché l’ultimo ritrasmette l’effetto al primo.
Grazie a questa disposizione circolare l’azione di ciascun elemento
risentirà e in qualche modo verrà influenzata da quella degli altri. Ciò
consentirà al sistema di autoregolarsi, fino al raggiungimento di uno
stato di equilibrio dinamico, nel quale gli elementi che compongono
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il sistema vengono vincolati da quello stato globale che essi stessi
hanno generato cooperando insieme.
L’interazione circolare o ad anello consente dunque al sistema
di auto-organizzarsi spontaneamente senza che ci sia alcun agente
esterno che controlli tale organizzazione. La ricerca di questo
scienziato è innovativa già a partire dal metodo d’indagine utilizzato:
anziché studiare la risposta delle singole cellule nervose di animali
immobilizzati, sottoposti a stimoli esterni, Freeman ha introdotto
alcuni elettrodi nel bulbo olfattivo di conigli liberi di muoversi. Mentre
l’animale interagiva liberamente con l’ambiente, annusando alcuni
oggetti, Freeman ha misurato, mediante elettroencefalogramma,
l’attività neuronale di quella particolare area della corteccia.
Dopo aver analizzato le fasi ottenute da elettroencefalogrammi
prima e durante la percezione di un odore noto, ed averle
rappresentate nello spazio come forme generate da un modello al
calcolatore, Freeman conclude che le forme ottenute, irregolari ma
ancora strutturate, rappresentano attrattori caotici. Ogni attrattore
corrisponde al comportamento assunto dal sistema per effetto di
un particolare stimolo, per esempio una sostanza odorosa ben
conosciuta. Il modello interpreta un atto percettivo come un balzo
esplosivo del sistema dinamico dal «bacino» di un attrattore caotico
a quello di un altro: in altri termini, in risposta allo stimolo esterno
i neuroni danno vita ad un’attività collettiva globale (registrata
dall’EEG) «caotica», ma dotata di una certa struttura ordinata, e
se lo stimolo muta anche minimamente, i neuroni di colpo generano
simultaneamente un’altra configurazione, piuttosto complessa ma
pur sempre ordinata.
Secondo l’autore, queste stesse dinamiche possono essere
dimostrate anche per le altre percezioni, come quella visiva. In
conclusione, Freeman afferma che: «Un notevole vantaggio che il caos
può conferire al cervello è che i sistemi caotici producono continuamente
nuovi tipi di attività. A nostro parere queste attività sono decisive per
lo sviluppo di raggruppamenti di neuroni diversi da quelli già stabiliti.
Più in generale la capacità di creare nuovi tipi di attività può essere alla
base della capacità del cervello di formulare intuizioni e di risolvere i
problemi per tentativi ed errori».
L’esistenza di processi non-locali è una delle qualità base
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dell’inversione della freccia del tempo e deve perciò essere intesa
come una qualità base di tutti i processi sintropici, non ultimi i
sistemi in cui operano attrattori o che possono essere descritti solo
ricorrendo alla scienza del caos.
Poiché i sistemi viventi e i processi cerebrali sono tipici esempi di
sistemi sintropici, è inevitabile la considerazione che la supercausalità
e la non-località devono essere qualità tipiche dei sistemi viventi ed
in modo particolare dei processi cerebrali. Ne consegue, ad esempio,
che i processi cerebrali debbano presentare la co-presenza di caos
e ordine (caratteristiche tipiche dei processi non-locali e degli
attrattori/sintropia): il caos nasce dal fatto che si attivano processi
non meccanici, non determinabili, mentre l’ordine nasce dal fatto
che i sistemi sintropici, attraverso l’azione degli attrattori, portano
inevitabilmente ad una riduzione dell’entropia e ad un aumento della
differenziazione e dell’organizzazione. Questo fatto è particolarmente
evidente nei processi cerebrali, processi nei quali coesistono caos,
complessità e ordine.
King afferma che «l’interazione tra cause che non sono tra loro
contigue si manifesta sotto forma di un’apparente situazione caotica
che può quindi essere studiata solo da un punto di vista probabilistico.
In altre parole, i processi caotici che si osservano nel sistema nervoso
possono essere il risultato di un comportamento apparentemente
casuale di tipo probabilistico, in quanto non è locale sia nello spazio
come nel tempo stesso. Ciò potrebbe, ad esempio, consentire ad una
rete neurale di connettersi a livello sub-quantico con situazioni nonlocali nello spazio e nel tempo, e quindi spiegare il motivo per cui i
comportamenti risultino attualmente non determinabili per mezzo
delle tecniche classiche computazionali. L’interazione quantica
renderebbe le reti neurali analoghe ad assorbitori e trasmettitori
di particelle e di anti-particelle.» King prosegue affermando che il
modello della supercausalità combina un approccio riduzionista, in
cui i fenomeni biologici vengono ridotti a modelli fisici e chimici,
con un approccio quantistico che rende, di conseguenza, l’intero
sistema non determinabile. Infine, l’autore conclude affermando
che il libero arbitrio nasce dal fatto che ogni nostra cellula e
processo è costantemente obbligato a scegliere tra informazioni
che vengono dal passato (onde divergenti, emettitori-entropia) e
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informazioni che vengono dal futuro (onde convergenti, assorbitorisintropia). Il modello della supercausalità suggerisce perciò che
a livello macroscopico i sistemi neuronali debbano presentare
costantemente caratteristiche caotiche. Di questo apparente caos si
alimentano i processi della coscienza che sono fondamentalmente di
tipo sintropico e quindi non riproducibili in laboratorio o grazie a
tecniche computazionali.
Jeffrey Satinover in un recente libro suggerisce che una risposta
a tutto ciò può essere ricercata nel fatto che nel cervello umano
esistono strutture che sembrano perfettamente designate alla cattura
degli effetti quantici, e alla loro amplificazione. Se così fosse, le azioni
generate dal cervello, e dalla società umana nel suo complesso,
potrebbero condividere (almeno in parte) la libertà assoluta, il
mistero e la non-meccanicità del mondo quantico. Nel lontano 1948
Luigi Fantappiè, lavorando su considerazioni analoghe a quelle di
King e di Satinover, avanzava l’ipotesi che nel momento in cui i
processi all’interno dei sistemi viventi sono di tipo sintropico, quindi
strettamente legati alle caratteristiche della meccanica quantistica, e
nel momento in cui passato, presente e futuro coesistono, nascono
automaticamente una serie di ipotesi estremamente suggestive
in merito al funzionamento del cervello. In proposito Fantappiè
fa un semplice esempio limitato alla memoria. Le proprietà della
meccanica quantistica suggeriscono infatti che la memoria possa
funzionare secondo processi non-locali nello spazio tempo e quindi
in modo estremamente diverso da quello fino ad oggi proposto da
biologi e neuropsicologi.
Dalla coesistenza di passato, presente e futuro e dalla nonlocalità dei processi quantistici deriva infatti la possibilità di flussi
istantanei e non-locali di informazione tra punti distanti dello spazio
e del tempo. Di conseguenza è possibile immaginare la memoria
come un insieme di processi «quantici» in cui l’informazione viene
prodotta/ricordata stabilendo collegamenti non-locali. Secondo
questa ipotesi, quando ricordiamo eventi passati il cervello si
collegherebbe all’evento non-locale, ma tuttora presente nello
spazio-tempo, e il ricordo verrebbe attinto direttamente da tale
collegamento e non da «magazzini» di memoria all’interno del
nostro cervello. Questa ipotesi, estremamente suggestiva e a distanza
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di 60 anni ancora estremamente azzardata, potrebbe costituire un
importante contributo alla comprensione di un fenomeno complesso
come la memoria umana. In definitiva, l’allargamento della scienza
psicologica alle qualità di non-località della fisica quantistica e alle
qualità della sintropia9, e l’adozione della metodologia relazionale
accanto alla metodologia sperimentale, aprirebbero la strada a studi
scientifici in grado di affrontare tutte quelle tematiche attualmente
escluse dalla psicologia in quanto considerate al di fuori della scienza
(ad esempio, la parapsicologia). A tal fine è interessante sottolineare
il senso diffuso di insoddisfazione che si percepisce tra gli studenti di
psicologia che, in genere, si iscrivono a questa facoltà con la speranza
di scoprire la scienza dell’anima, per poi trovarsi imbrigliati in una
disciplina che, nel tentativo di essere scientifica, utilizza paradigmi e
metodologie di un «fisicalismo» ormai sorpassato da più di un secolo
nella stessa fisica. Questa resistenza della psicologia ad aprirsi ai
nuovi paradigmi della meccanica quantistica ha ridotto la psicologia
ad una disciplina che in modo arbitrario cerca di ridurre la coscienza,
la psiche e le emozioni ai soli aspetti meccanici e computazionali,
creando in questo modo una contraddizione di fondo per la quale
si tenta di indagare con un approccio entropico processi e fenomeni
che nei fatti sono di natura sintropica.
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Memi e psicotecnologia
«Ora mi avvedo che non di rado i libri parlano di libri, ovvero
è come se parlassero tra loro. Alla luce di questa riflessione, la
biblioteca mi apparve ancora più inquietante. Era dunque il luogo
di un lungo secolare sussurro, di un dialogo impercettibile tra
pergamena e pergamena, una cosa viva, un ricettacolo di potenze non
dominabili da una mente umana, tesoro dei segreti emanati da tante
menti, e sopravvissuti alla morte di coloro che li avevano prodotti, o
se ne erano fatti tramite».
UMBERTO ECO
Dawkins narra (nell’opera The Selfish Gene) che, prima dell’avvento
della vita sulla terra (3-4 milioni di anni fa) si sviluppò per reazioni
chimiche un brodo primordiale, le cui molecole, sotto l’effetto
del sole si andarono combinando in molecole sempre più grandi.
A un certo punto si produsse accidentalmente una molecola organica
replicante. Questa molecola aveva la capacità di replicarsi e ad ogni
replica venivano commessi dei piccoli errori che resero possibile la
varietà e quindi l’evoluzione.
Poiché il brodo primordiale non era in grado di alimentare un
numero infinito di molecole iniziò la lotta per la sopravvivenza e le
molecole svilupparono un involucro protettivo (si formarono le cellule)
per proteggersi dalla guerra chimica con le loro rivali. Col tempo e
in virtù del meccanismo della selezione naturale e dell’evoluzione i
replicanti andarono creando delle macchine per la sopravvivenza:
veri e propri organismi pluricellulari sempre più complessi come le
piante e gli animali erbivori e carnivori. Che fine hanno fatto questi
replicanti, miliardi di anni dopo? «Esse sono in tutti noi, hanno creato
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noi, corpo e mente, e la loro conservazione è la ragione ultima della
nostra esistenza [...] Ora vanno sotto il nome di geni, e noi siamo le
loro macchine per la sopravvivenza» (Douglas R. Hofstadter, L’Io
della Mente, Adelphi, p. 135). Come geni si trovano al sicuro dentro
di noi nel nucleo di ciascuna delle cellule che compongono il nostro
corpo. Un corpo che nell’attimo del concepimento non è altro che
una singola cellula dotata di tutte le informazioni necessarie per
costruire un essere umano. Questa cellula è capace di dividersi più
volte trasmettendo ogni volta una copia dei piani originali.
Il gene è quindi quell’unità fondamentale della selezione naturale
che tende a sopravvive e a replicarsi anche per migliaia di anni
attraverso un gran numero di macchine per la sopravvivenza. Se i primi
ricettacoli erano semplici macchine passive col passare del tempo la
complessità di tali macchine crebbe a dismisura. Arrivati all’uomo si
manifesta una qualità emergente definibile come «la coscienza di sé».
Con il linguaggio e la cultura, secondo Dawkins, entra in gioco
un nuovo replicante. Tale replicante viene chiamato Meme (da
mimema). Esso ha la facoltà di propagarsi da un cervello all’altro e
di sopravvivere come idea, produzione culturale o altro anche dopo
la morte dell’individuo ospite. Se i geni sono la base del nostro
hardware i memi costituiscono il nostro software. «le nostre menti
sono costituite da hardware genetico e software memetico» (Richard
Brodie, Virus della mente, Ecomind, 2000, p. 231).
Con questi due termini mi sto riferendo a una terminologia in uso
nell’ambiente informatico. Per esempio Assembly è un linguaggio
di programmazione vicino al linguaggio macchina (che quindi
potremmo considerare di basso livello - vicino al livello hardware)
mentre C++ possiamo considerarlo come un linguaggio d’alto livello,
cioè con un livello di astrazione maggiore: «La programmazione in
Assembly richiede una riflessione secondo fasi ben precise e la stesura
delle istruzioni da eseguire. Per esempio, diciamo che vuoi trovare
l’ascensore. Una serie corrispondente di istruzioni in linguaggio
d’alto livello potrebbe essere di questo tipo: ‘Esci dalla porta, passa
davanti alla fontana e lo trovi alla tua sinistra’. L’equivalente in
Assembly somiglierebbe a questa sequenza: ‘Trova il piede sinistro;
trova il piede destro. Metti il piede sinistro davanti al destro. Ora
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metti il destro davanti al sinistro. Ripeti questa operazione dieci
volte. Fermati. Voltati di novanta gradi a destra... ‘ (Hafner Lyon,
1996, p. 104). Similmente la coscienza opera a livello simbolico e
normalmente non si interessa dei livelli operativi «inferiori». Per
esempio può specificare un obiettivo in termini generali e astratti
come «mi voglio alzare e andare a farmi un caffé» e non è suo
compito entrare nelle istruzioni particolareggiate (come contrarre
i muscoli etc... ).
Allacciarsi le scarpe, guidare la macchina e infiniti altri
comportamenti ricorrenti vengono cablati, in altre parole si incarnano
nella fisiologia dell’uomo e funzionano come strutture cognitive in
larga misura inconsce e automatiche.
Qualcosa di simile avviene anche per le nostre convinzioni profonde
che strutturano la realtà (memi-distinzione, memi-associazione) e
determinano parte del nostro comportamento (memi-strategia). (
In PNL si dice che queste strategie hanno raggiunto lo status di
TOTE inconscio). Solo che le convinzioni su di noi, gli altri e il
mondo sono programmate con il linguaggio umano, un linguaggio
a un livello di astrazione decisamente superiore rispetto a quello
fisiologico. George A. Miller - Eugene Galanter - Karl H. Pribram
nell’opera «Piani e struttura del comportamento» ipotizzavano che
il comportamento fosse guidato da una serie di piani o schemi di
azione nidificati l’uno dentro l’altro secondo un ordine gerarchico a
complessità crescente.
Secondo gli autori un Piano o schema di comportamento è
l’equivalente di un programma di un calcolatore che predispone
l’individuo a una particolare strategia d’azione: «Un Piano è ogni
processo gerarchico nell’organismo che può controllare l’ordine in
cui deve essere eseguita una serie di operazioni.» (p. 32). Le abitudini
e abilità acquisite, all’inizio erano dei Piani volontari che, attraverso
un superapprendimento si sono automatizzate. Se la coscienza
elabora l’informazione sequenzialmente sono necessari - per il suo
funzionamento altamente complesso - anche una serie di elaboratori
distribuiti parallelamente (sotto/parti dissociate dalla coscienza che
in alcuni casi possono entrare in conflitto fra loro).
Il meme può essere un concetto, un’idea, una particella
d’informazione — infatti come il gene è composto da stringhe di
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simboli — che aspira a sopravvivere propagandosi per contagio
attraverso mezzi non-genetici o psicotecnologie (il linguaggio, la
scrittura, i libri, la radio, la TV, Internet, i CD-ROM, la musica,
il teatro, il cinema, etc. ) da una mente all’altra. Come nel caso dei
geni gli esseri umani sarebbero nient’altro che veicoli inconsapevoli.
Ogni giorno all’interno delle loro menti si verificherebbe una lotta
incessante fra fazioni di memi (memeplessi) avverse. Ma non solo,
poiché una delle lotte più importanti si svolgerebbe nello spazio
mediatico.
Il termine «Psicotecnologia», è stato coniato da Derrick de
Kerchove: Scrive De Kerkhove: «Ho coniato il termine ‘psicotecnologia’, modellato su quello di ‘bio-tecnologia’, per definire una
tecnologia che emula, estende, o amplifica le funzioni senso-motorie,
psicologiche o cognitive della mente [...] In effetti, il telefono, la
radio, la televisione, i computer e gli altri media concorrono a creare
ambienti che, insieme, stabiliscono ambiti intermedi di elaborazione
di informazione.
Sono questi gli ambiti delle psicotecnologie. «Le psicotecnologie
consentono di immagazzinare e replicare i memi e operano su tempi
molto più brevi a differenza del DNA. Questo tipo di tecnologie
vengono chiamate psicotecnologie poiché il software (per esempio
la scrittura) è capace di retroagire sull’hardware (il cervello)
determinando l’insorgere di nuovi paradigmi cognitivi (quindi nuovi
memi) che vanno a influenzare vari aspetti dell’esistenza umana: la
scienza, l’arte, la stessa visione del mondo.
Un primo esempio di psicotecnologia è il linguaggio. Il linguaggio
predispone l’uomo al ragionamento sequenziale e lineare. Con la
scrittura l’uomo fa un passo successivo: prende possesso del linguaggio.
I pensieri, la memoria e la conoscenza vengono rappresentati
esternamente su supporti materiali e per questo possono venir
manipolati come oggetti. Derrick de Kerckhove definisce la scrittura
come la prima psicotecnologia che ci ha dato una visione differente del
mondo, ha comportato: - la costituzione del soggetto individuale nel
pieno dei suoi poteri, la riorganizzazione del campo visivo normativo
in tre dimensioni; - l’apparizione in più tappe della prospettiva a
seconda del progresso nell’alfabetizzazione, la desensorializzazione
del linguaggio e l’interiorizzazione psicologica della scrittura sotto
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forma di pensiero; - le condizioni che permetteranno all’individuo
di prendere potere sul linguaggio e di conseguenza sul suo destino.
[Derrick, de Kerckhove, La civilizzazione video-cristiana, Feltrinelli,
Milano 1995] Scrittura intesa dunque non semplicemente come
strumento tecnico ma come principio organizzatrice della mente
umana, comportante uno spostamento dall’atto dell’udire a quello
del vedere, facendoci così uscire dalla tribalizzazione; «solo quando
la lingua smette di essere «musicale» e di soggiacere all’incanto della
narrazione, potrà creare parole che esprimano la convinzione che
esiste un «io», distaccato dalla tradizione e dalla sua forza ipnotica,
[...] capace di distogliere le proprie facoltà mentali dall’apprendimento
mnemonico per dirigerle nei canali dell’indagine critica e dell’analisi.»
[Internet e le muse, Associazione culturale Mimesis, 1997 Milano, p.
348].
Con l’avvento del calcolatore (grazie alle sue capacità di
elaborazione) si realizza l’estro-flessione cognitiva non solo della
memoria a lungo termine (ciò era avvenuto grazie a i libri) ma anche
della memoria operativa o a breve termine. Le conoscenze escono dal
corpo per diventare oggetti sui quali operare. Con la realtà virtuale si
può persino pensare di condividere fisicamente le proprie conoscenze
con altri in una realtà parallela. Mentre con gli schermi del computer
- a differenza delle altre interfacce (come le pareti di roccia, i rotoli
di papiro, le pagine del libro) - l’informazione è indipendente dal
singolo schermo. Diventa onnipresente: Lo stesso documento può
manifestare su qualsiasi schermo connesso alla rete. Un altro aspetto
interessante rispetto al libro sta nell’interattività. Con l’interattività
il medium risponde in tempo reale all’input dell’utente.
L’addestramento all’interattività con una interfaccia grafica grazie
ai videogames inizia anche in età prescolare. Tali giochi non hanno
un effetto solo ludico, sono vere e proprie psicotecnologie poiché
implicano l’addestramento del sistema nervoso: «Manipolano il
corpo e la mente degli utenti in nuove configurazioni, condizionandoli
ad un successivo uso professionale di tecnologie computerizzate.»
(Derrick de Kerckhove, L’intelligenza connettiva, Aurelio De
Laurentiis Multimedia, 199 Mi, p. 54). Infine con il collegamento
ipertestuale dei calcolatori in una grande rete mondiale si assiste
all’avvento di una «creatura planetaria» che a detta di Giuseppe
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Longo «si prefigura come un vero e proprio soggetto di conoscenza
inedito» (Giuseppe O. Longo, Il nuovo Golem, Editori Laterza, 1998
Bari, p. 115).
Questo grande animale autoreferenziale e autocinetico si è posto
completamente fuori dal controllo dell’individuo e forse anche degli
Stati e tende al «mantenimento e al rafforzamento delle proprie
strutture» (Giuseppe O. Longo, Il nuovo Golem, Editori Laterza,
1998 Bari, p. 10). Ha assunto una vita autonoma e si sta sviluppando
inesorabilmente e inevitabilmente, con esiti che sono al di fuori
della nostra capacità di elaborazione. Egli vive di sé stesso, si autoriproduce (elabora e sforna informazione), si alimenta di sé stesso
come l’Oroboruous, il serpente mitico che si morde la coda.
L’evoluzione biologica ha contribuito a sviluppare un hardware
molto particolare, un terreno di coltura di un nuovo replicante: il
meme. Secondo Dawkins con la comparsa del meme si apre un capitolo
interamente nuovo nell’evoluzione. A differenza dell’evoluzione
genetica, l’evoluzione memetica è molto più veloce: i memi possono
passare da genitori a figli come i geni oppure possono diffondersi tra
individui come un virus utilizzando le nostre menti e altri supporti
come mezzo per replicarsi, inoltre un meme inadeguato viene
eliminato senza bisogno di aspettare la morte del suo portatore.
Ciò spiegherebbe «il fatto che durante gli ultimi diecimila anni
gli uomini fondamentalmente non siano mutati a livello genetico,
mentre la loro cultura (l’insieme totale dei memi) abbia subito
sviluppi radicali» (Francesco Ianneo, Meme. Genetica e virologia di
idee, credenze e mode, Castelvecchi, 1999 Roma, p. 65). Ma di cosa
ha bisogno un meme per potersi replicare efficacemente? Secondo
Ianneo occorre che il meme sia semplice e comprensibile, che sia
plausibile, che sia trasmesso fedelmente e riprodotto da medium
duraturi e veloci. È altresì importante che sia ridondante: il meme
deve essere come un mantra che si ripete costantemente. Occorre
inoltre che sia in grado di integrare attraverso sincretismi altri memi
con cui è in competizione oppure sia capace di cooperare con altri
al fine di costituire un memeplesso possibilmente intollerante verso
i memi differenti o meno adattativi (Francesco Ianneo, Meme.
Genetica e virologia di idee, credenze e mode, Castelvecchi, 1999
Roma, pp. 83-84).
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Inoltre un meme deve attirare la nostra attenzione (vedi anche
focalizzazione dell’attenzione nell’ipnosi come primo passo per la
creazione di una monoidea e quindi dell’ideoplasia). In un mondo
in cui l’offerta di informazione è enormemente aumentata questo
è un fattore cruciale per la sopravvivenza del meme stesso, che nel
frattempo «si è fatto furbo». I «buoni memi» (quelli che sopravvivono
e si diffondono) fanno spesso leva su alcuni istinti basici fondamentali
come: combattere, fuggire, nutrirsi, accoppiarsi (Richard Brodie,
Virus della mente, Ecomind, 2000, p. 96). In altre parole utilizzano gli
«hot buttons» o «pulsanti biologici» presenti nel nostro hardware per
istallarsi nella nostra mente: «I memi che risultano affascinanti per
gli istinti delle persone sono quelli che più facilmente si replicano e si
trasmettono attraverso la popolazione» (Richard Brodie, Virus della
mente, Ecomind, 2000, p. 46). Questa è una legge che conoscono
bene i «designer virus», coloro cioè che definiscono e progettano
a tavolino i virus della mente con cui ci vogliono programmare:
«Nella nostra ricerca per i virus della mente, allora, i primi aspetti
da individuare saranno proprio quelle situazioni che cliccano uno
o più di questi quattro pulsanti: rabbia, paura, fame e lussuria, che
attirano la nostra preziosa attenzione [...]» (Richard Brodie, Virus
della mente, Ecomind, 2000, p. 101). Una cosa dovrebbe essere ben
chiara a questo punto.
I memi non si evolvono per essere di beneficio agli individui,
anche se molti memi lo possono essere. Un meme ben radicato
nella sinapsi dell’individuo ospite guiderà il suo comportamento
inducendo una fiducia cieca nella sua validità. Ciò comporta quindi
un ordine implicito di diffusione. Si riscontra inoltre come a volte
un meme possa essere di tipo simbiotico (capace di promuovere un
comportamento adattativo per sé e per l’individuo che lo ospita)
mentre altre volte funziona come un parassita e sopravvive a spese
dell’organismo come i memi settari. A volte questi memi sono
particolarmente aggressivi come alcune fedi politiche o religiose. Le
persone che ne sono preda ne sembrano interamente controllate e
perdono lo scopo della loro esistenza in loro mancanza. I suicidi
collettivi ai quali partecipa anche il santone sono il chiaro esempio
di come il meme detenga il potere e non chi lo «ha creato». Ci sono
particolari tecniche che si sono evolute nel tempo e che consentono ai
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memi di riprodursi efficacemente e sono per esempio l’arte retorica,
l’ipnosi, la teoria della persuasione oppure la coercizione e l’inganno.
Richard Brodie descrive, oltre alla tecnica del condizionamento
classico e operante, anche la dissonanza cognitiva e i cavalli di
troia.
La dissonanza cognitiva, fa leva sulla pressione mentale, il pathos,
il disagio per istallare un nuovo meme10: «Imponendo alle persone
il superamento di prove rituali, analogamente a quanto avviene ai
fini dell’accesso a una casta chiusa, accade una di queste due cose:
o l’iniziato si ritira per non sopportare la sofferenza, o un meme
che rappresenta il valore dell’appartenenza all’organizzazione si
crea o si rinforza nella mente dell’iniziato» (Richard Brodie, Virus
della mente, Ecomind, 2000, p. 225). Per rafforzare questo effetto si
può far leva sugli istinti biologici fondamentali come la paura o la
fame di potere e creare quello stato particolare di impasse definibile
come «manette dorate», descrivibile anche con la seguente frase:
«ti do la libertà totale e il potere in cambio della schiavitù perenne,
ma ricorda se te ne vai perderai tutto e cadrai in disgrazia». L’altra
tecnica descritta da Brodie si chiama Cavallo di Troia: «Il metodo di
programmazione detto «Cavallo di Troia» opera inducendovi a fare
attenzione ad un solo meme, introducendo poi, di nascosto insieme al
primo, un intero pacchetto di altri memi. [...] un Cavallo di Troia può
servirsi dei vostri pulsanti istintuali, cliccandoli per ottenere la vostra
attenzione e insinuandosi poi in un altra zona. [...] Perché il sesso
vende? Perché pigia i vostri pulsanti, attira la vostra attenzione e,
agendo come un cavallo di Troia, vi condiziona con gli ulteriori memi
impacchettati all’interno dello spot pubblicitario [...] La tecnica più
semplice per confezionare pacchetti, quella usata più frequentemente
da politici e avvocati, consiste semplicemente nel dichiarare i memi
uno dopo l’altro, in un ordine decrescente di credibilità.
La credibilità delle prime affermazioni sembra essere d’aiuto per
quelle successive sprovviste di fondamento. [...] I memi discutibili
posti alla fine del pacchetto si introducono nella vostra mente
servendosi del cavallo di Troia costituito dai memi incontrovertibili
posti all’inizio dell’argomentazione.» (Richard Brodie, Virus della
mente, Ecomind, 2000, pp. 157-158). Un precursore della memetica è
Gustav Le Bon con la sua Psicologia delle folle del 1895 (p. 157)Scrive
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Le bon: «In una folla ogni sentimento, ogni atto, sono contagiosi, a
tal punto che l’individuo sacrifica facilmente il suo interesse personale
all’interesse collettivo [...] Quando un’affermazione è stata ripetuta
unanimemente per un numero sufficiente di volte, come accade per
certe imprese finanziarie che acquistano tutti i consensi, si forma ciò
che vien chiamato una corrente d’opinione ed interviene il possente
meccanismo del contagio.
Nelle folle, le idee, i sentimenti, le emozioni, le credenze
divengono contagiose non meno dei microbi.» Lo scritto di Gustave
Le Bon influenzò anche Hitler che riconobbe nella propaganda
l’arma strategica per vincere la guerra: «Il ruolo di sbarramento
che svolge l’artigleria nella preparazione dell’attacco della
fanteria in futuro sarà assunto dalla propaganda rivoluzionaria.
Si tratta di spezzare psicologicamente il nemico prima che le
truppe comincino ad entrare in azione.» (Adolf Hitler, Mein
Kampf). È più importante uccidere un uomo oppure le sue idee?
L’arma più potente nel Terzo Millennio sarà la memetica.
Siamo in piena Terza guerra mondiale e non ce ne siamo ancora
accorti, ogni giorno noi siamo costantemente sotto il fuoco dei media.
Le tecniche di disinformazione, persuasione e suggestione sono
molteplici. Per esempio i media grazie alla loro ridondanza precisano
ciò di cui si dovrebbe parlare, dirigono l’attenzione del cittadino e in tal
modo istituiscono dei trend. Questa tecnica si chiama agenda-setting.
Il modo in cui sono presentate le notizie funziona come un effetto
placebo: Noi acquistiamo il giornale e cominciamo col vedere i
titoli di prima pagina, la priorità loro accordata e in virtù di questo
inganno deduciamo la loro importanza rispetto alle altre notizie
che meritano minore attenzione per non parlare delle notizie mai
pubblicate che a volte potrebbero essere le più importanti. L’effetto
placebo consiste nel ritenere le notizie di prima pagina le notizie del
giorno (Fabrizio Benedetti, La realtà incantata, Zelig Editore, 2000
Milano, p. 71).
I passaggi sono esattamente gli stessi del placebo classico:
inganno- convinzione - effetto. Se alla stessa persona avessimo
fatto leggere le notizie in ordine sparso su dei fogli con carattere
uniforme costui avrebbe sicuramente cambiato la priorità degli
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avvenimenti e si sarebbe accorto di alcuni avvenimenti che erano
passati inosservati.
Ciò vuol dire che «per modificare la nostra visione del mondo,
basta modificare la forma logica con cui il mondo viene descritto
attraverso i media» (Bruno Ballardini, Manuale di disinformazione,
Castelvecchi, 1995 Milano, p. 16). Prendiamo i sondaggi. Sappiamo
tutti ormai che i sondaggi sono creati a tavolino per ottenere un certo
feedback, basta orientare il parere degli intervistati con domande
formulate ad arte. Le domande servono per contagiare la persona
con memi che passano inosservati sotto forma di presupposizioni.
Una volta che il sondaggio ha dato il risultato desiderato può essere
pubblicizzato e diffuso ampiamente come il risultato autorevole di
una seria ricerca di mercato.
Il sondaggio non è più un parere ma una rappresentazione
oggettiva di cosa la gente pensa. Non si tratta qui di convincere la
gente dicendo che cosa dovresti pensare ma si da la vittoria già per
scontata. In tal modo il sondaggio funziona come una profezia che
si autodetermina, serve a creare opinione piuttosto che misurarla
(Bruno Ballardini, Manuale di disinformazione, Castelvecchi, 1995
Milano, p. 41-42). Un esempio di profezia che si autodetermina
grazie all’intervento dei media: «quando nel marzo 1979 i giornali
californiani cominciarono a pubblicare servizi sensazionali su
un’imminente e drastica riduzione nell’erogazione di benzina, gli
automobilisti diedero l’assalto alle pompe per riempire i loro serbatoi
e tenerli possibilmente semrpe pieni. Fare il pieno di 12 milioni di
serbatoi (che fino a quel momento erano mediamente solo a un
quarto del livello) esaurì le enormi riserve disponibili, provocando
praticamente da un giorno all’altro la scarsità predetta. (Paul
Watzlawick, La realtà inventata, Feltrinelli, Milano 1994, p. 87).
Ma che dire di Internet e in particolare dell’interattività.
L’interattività venduta come potere e scelta maggiore a un esame
più attento si rivela una interpassività. Ciò che viene venduto
come interattività è la possibilità concessa all’utente di schiacciare
un infinito numero di tasti che permetteranno l’accesso ad altri
documenti secondo un percorso solo in apparenza libero, insomma,
qualcosa di molto simile a un topo che viene fatto correre in un
labirinto.
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Nell’opera Scienza del comportamento umano (1957), Burrhus
F. Skinner, fa una distinzione fra comportamento operante, ovvero
il comportamento che opera sull’ambiente producendo delle
conseguenze e quello rispondente, che risponde passivamente allo
stimolo, il cui esempio tipico è il cane di Pavlov. Per dimostrare il
comportamento operante ideò una gabbia (detta Skinner-box) al
cui interno venne posto un topo. Nella gabbia c’era una levetta,
che, una volta premuta, procurava del cibo al topo. A differenza
dell’esperimento di Pavlov, il rinforzo, cioè l’evento che concorre
all’apprendimento non è dato esternamente da una persona, ma
è dato dall’azione del soggetto. Il topo ha il cibo solo se preme
l’apposita levetta, pertanto lo stimolo non è incondizionato come
per il comportamento rispondente, ma è condizionato dalla risposta
del topo. [Giovanni, Reale, e Dario, Antiseri, Il pensiero occidentale
dalla origini a oggi, op. cit., 676-677].
Nel 1948 Skinner aveva pubblicato Walden Two, dove
viene descritta una società ideale governata in base alle teorie
comportamentistiche di stimolo/risposta. La manipolazione del
comportamento creerebbe una vita ideale, un’utopia non solo buona
ma anche realizzabile...
In effetti tutta la scienza del condizionamento consiste
nell’istallazione di memi attraverso la ripetizione. Il condizionamento
operante grazie al rinforzo autoindotto installa non solo memi
associazione ma anche strategie di comportamento del tipo Se...
allora. Il fenomeno detto «apprendimento hebbiano» (dallo
psicologo canadese Donal Hebb) spiega questi fenomeni. In
pratica succede che, quando dei neuroni vengono attivati più volte
contemporaneamente si associano e «le cellule e le loro sinapsi
cambiano chimicamente in modo tale che, quando una ora s’attiva,
sarà molto più efficace nell’attivare l’altra. In altre parole, i neuroni
entrano in società in modo tale da eccitarsi in coppia con maggior
rapidità rispetto a prima.» (Ian H. Robertson, Il cervello plastico,
Rizzoli, p. 17). Nel caso di esperienze emotive piuttosto forti la
struttura di connessioni che si viene a creare rimane particolarmente
radicata nel cervello (questo fenomeno è detto imprinting). Molte
campagne di marketing funzionano proprio secondo questi principi:
«il manifesto pubblicitario che vedete mentre vi recate al lavoro
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raffigura una splendida modella alla guida di una macchina che
sfreccia attraverso una foresta in fiamme in un’esotica località
tropicale; queste immagini attivano i neuroni nei centri emotivi del
vostro cervello.
Nello stesso istante i neuroni dei centri del linguaggio e di
quelli visivi registrano il marchio e il nome della casa costruttrice.
Tombola! Due gruppi di neuroni in zone distinte del cervello sono
attivati contemporaneamente. Passate davanti a quel manifesto ogni
mattino per alcune settimane, magari vi capita di vedere immagini
simili la sera in televisione, e vi troverete con un complesso di
neuroni interconnessi, legati tra loro, per il semplice fatto che sono
stati attivati all’unisono. Il risultato? Che quando vedrete la stessa
macchina nella vetrina di un concessionario, questo farà riemergere
un qualche frammento dell’emozione provata inizialmente - o,
almeno, questa è la speranza del gruppo responsabile del marketing!»
(Ian H. Robertson, Il cervello plastico, pp. 21-22).
L’ambiente culturale costituito da memi che tendono a propagarsi
e a replicarsi diventa il nuovo habitat o nicchia ecologica nella quale
la specie umana coevolve: «Viviamo, pertanto, all’interno di una
Matrice, la matrice dei memi, quella che Wittgenstein chiamava
una «forma di vita» e che il filosofo statunitense Hilary Putnam ha
definito più icasticamente una vasca dove sono immersi i cervelli.»
( (Francesco Ianneo, Meme. Genetica e virologia di idee, credenze e
mode, Castelvecchi, 1999 Roma, p. 134).
Gli schemi comportamentali e cognitivi che definiscono la realtà
consensuale sono culturalmente appresi. Il bambino impara attraverso
l’esperienza, tramite l’interazione con l’ambiente in cui si situa
interpretando la realtà secondo uno schema di riferimento condiviso.
Il senso del Sé è frutto dell’interazione sociale e la mente emerge
all’interno di un contesto tramite uno strumento offerto dalla
collettività: il linguaggio. Non esiste un Io archetipo e originario
preesistente alla realtà sociale poiché il Sé emerge dall’interazione
con l’Altro, il non-Sé. Per esempio «Bruner sostiene che il concetto
di sé che ciascuno di noi possiede non è un’essenza né un nucleo di
coscienza isolato, racchiuso nella mente individuale, ma il risultato
continuamente emergente della negoziazione incessante tra le nostre
versioni del Sé e le versioni del nostro Sé che gli altri ci forniscono.»
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(Francesca Emiliani, Bruna Zani, Elementi di psicologia sociale, Il
Mulino, 1998 Bologna, p. 89).
Esiste anche un ben precisa influenza dei fattori culturali sulla
organizzazione cerebrale. La percezione dei colori, il linguaggio,
la scrittura sono fenomeni non programmati dai geni. Il contesto
sociale e quindi il medium memetico è responsabile della variazione
nella percezione dei colori da cultura a cultura: «L’uomo percepisce
una gamma di lunghezze d’onda grazie a varie strutture, la retina e il
corpo genicolato laterale, le quali sono presenti anche in altre specie
animali, come il gatto o la scimmia. Tuttavia nell’uomo le lunghezze
d’onda vengono categorizzate secondo delle denominazioni
specifiche. Esse vengono apprese nel bambino dopo l’acquisizione
del linguaggio [...]
Quando si denomina una certa lunghezza d’onda («questo è
rosso», «questo è giallo», ecc. ) si è stabilita, tra le strutture implicate
nella decodificazione dell’informazione «lunghezza d’onda» e
quelle implicate nelle funzioni linguistiche, una nuova interazione
funzionale che precedentemente non era già implicita.» (Luciano
Mecacci, Identikit del cervello, Laterza, 1995, p. 160). Gli studi
sull’organizzazione funzionale del cervello giapponese hanno dato
risultati sorprendenti. A quanto pare la specializzazione emisferica
nei giapponesi non corrisponde a quella che di regola si riscontra
negli occidentali. L’emisfero sinistro (preposto alla elaborazione del
linguaggio) nei giapponesi compie un’analisi verbale anche di suoni
come il vento, le onde, etc. e ciò è dovuto alla grande importanza
delle vocali nella loro lingua.
Si è inoltre riscontrato che i vari disturbi del linguaggio nei
giapponesi derivano da lesioni in aree cerebrali diverse da quelle
degli occidentali. Ciò è dovuto alla struttura della lingua giapponese.
La scrittura giapponese è costituita da caratteri ideografici (Kanji) e
caratteri alfabetici (Kana). Per il riconoscimento degli ideogrammi
si attiva in particolare l’emisfero destro mentre per il riconoscimento
dei caratteri alfabetici l’emisfero maggiormente implicato è quello
sinistro.
Così può accadere che un giapponese colpito da lesione all’emisfero
sinistro può continuare a leggere e a scrivere a differenza di un
occidentale - per lo meno i Kanji. La cosa importante da considerare
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è che tali caratteristiche sono culturalmente determinate: «Rispetto a
uno stimolo come una figura geometrica o un suono puro il cervello
dei giapponesi non ha una organizzazione diversa dal cervello degli
occidentali. Quando però interagisce con il mondo di stimoli della
propria cultura (la musica, i tipi di scrittura, ecc. ), allora il cervello
mette in atto una specifica dinamica funzionale.» (Luciano Mecacci,
Identikit del cervello, Laterza, 1995, p. 46) Insomma i memi, in virtù
della stretta relazione corpo/mente guidano anche l’evoluzione
genetica...
Tutto ciò è affine alla proposta teorica del movimento del
costruzionismo sociale nato tra la fine degli anni ‘70 e i primi anni
‘80. Per i costruzionisti la conoscenza non è costruita individualmente
ma è frutto di una costruzione condivisa per mezzo di pratiche di
tipo conversazionale. È tramite la comunicazione, la negoziazione,
la retorica, il linguaggio, l’interazione sociale che la realtà viene
costruita e condivisa: «la conoscenza non è qualcosa che le persone
possiedono da qualche parte nelle loro teste, ma piuttosto è qualcosa
che fanno insieme.» (Oltre il cognitivismo, Franco Angeli, p. 94).
Troviamo quindi una chiara influenza della visione olistica
della mente proposta da Bateson, una mente intesa come proprietà
immanente nel più ampio sistema uomo più ambiente. Troviamo
anche un’eco della filosofia analitica, in particolare il secondo
Wittgenstein (Ricerche filosofiche). In quest’opera Wittgenstein
sostiene che ogni forma di linguaggio sia anche una forma di gioco
linguistico con le sue particolari regole d’uso. E in quanto artefatto
sociale è il risultato di un’impresa attiva e congiunta di persone in
relazione. I significati perciò vengono creati e negoziati all’interno
di una particolare comunità. L’inconscio non è soltanto qualcosa di
atavico o il deposito degli istinti animaleschi ma è un fatto culturare,
i sintomi sono culturalmente determinati. L’inconscio non è neanche
qualcosa che sta nel cervello. A questo proposito Jung parlava di un
inconscio collettivo. Mentre Jacques Lacan diceva che l’inconscio è
strutturato come un linguaggio e che il linguaggio è la condizione
dell’inconscio. L’uomo concorre a creare queste narrazioni anche se
il più delle volte ne è raccontato. Pensiamo ai fenomeni di culto come
le Nike, l’Harley Davidson, la Ferrari, Che Guevara, lo Swatch, Star
Treck, la New Age e molti altri fenomeni più o meno duraturi. Un
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artefatto di questo tipo richiama altro da sé stesso. Si trasforma in
una merce/simbolo, una merce/racconto, diventa una vera e propria
iper-merce che può garantire l’appartenenza a una tribù (merce/
badge) e l’acquisizione di una identità (merce/identità) (La fabbrica
del cult. Merci da amare (e comprare), a cura di Fulvio Carmagnola,
Ricerca e Sviluppo Mediaset, LINK Ricerca, 1999 Milano, p. 16).
Il cult acquisisce un sovraccarico valoriale (un valore aggiunto
di tipo simbolico) attraverso un percorso analogico metonimico
e metaforico che lo aggancia a miti e narrazioni preesistenti
nella società. In quanto «rappresentante simbolico privilegiato»
acquisisce il potere di richiamare un mondo mitico (p. 34) Sono
quindi le connotazioni simboliche che creano quell’alone di
seduttività e fascinazione da cui viene rivestito il prodotto. Questo
addensamento connotativo comporta secondo Maura Ferraresi una
surrinterpretazione (si comincia a pensare che il culto voglia dire
più di quello che dice) e quindi una vera e propria deriva semiotica
(pp. 44-45). «I giochi surrinterpretativi surriscaldano un oggetto,
un libro, per farlo diventare altro, lasciando all’oggetto il ruolo di
gancio sul quale si appendono la fantasia, i bisogni, le speranze o
le disperazioni del soggetto che lo investe di un discorso. [...] Ma il
vero lavoro di trasformazione non sarà dell’oggetto, che svolge in
questo caso solamente la funzione di esca. Sarà il lavoro semiotico a
produrre questa radicale trasformazione.»
Quando il prodotto è diventato un simbolo, quando è stato
per così dire, caricato energeticamente è in grado di focalizzare e
colpire l’attenzione e allora ne veniamo come catturati e il culto
potrà impiantarsi nelle nostre menti e replicarsi: «Se proviamo a
circoscrivere l’ambito di esperienza che ci conduce a diventare
adepti di un culto, dobbiamo ammettere che la scelta avviene perché
qualche cosa ci ha colpito e ci ha quasi costretto a dedicargli la
nostra totale attenzione. Da dove viene tale sorgenza di attenzione?
L’ipotesi immediata è: dalla concreta presenza, fisica e determinata
dell’oggetto. Senonché, questo oggetto a noi appare sotto forma di
discorso, o comunque avvolto da discorsi e quindi «semanticamente»
già lavorato».
I fenomeni più drammatici sono chiaramente le infezioni
memetiche ideologiche e religiose che possono arrivare addirittura
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a sfociare in suicidi di massa come fu il caso del Tempio del Popolo,
del Tempio Solare e di Heaven’s Gate. Il termine infezioni memetiche
ci riaggancia all’ultima definizione (in ordine di tempo) che Dawkins
da del meme: nel saggio Viruses of the mind (1993) il meme viene
descritto come un virus capace di propagarsi di mente in mente.
Questa apparente incongruenza fra il modello darwiniano-replicativo
(meme=gene) e il modello epidemiologico (meme=virus) è soltanto
apparente secondo Dawkins poiché le due ipotesi si possono integrare:
«I memi viaggiano longitudinalmente attraverso le generazioni, ma
viaggiano anche orizzontalmente, come i virus in un’epidemia» (R.
Dawkins, Unweaving the Raimbow. Science, Delusion and the Appetite
for Wonder, London, Penguin, 1998, p. IX).
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Retrocausalità e terapia
«La legge della vita non è dunque la legge dell’odio, la legge della
forza, cioè delle cause meccaniche, questa è la legge della non vita,
è la legge della morte; la vera legge che domina la vita è la legge dei
fini, e cioè la legge della collaborazione per fini sempre più elevati,
e questo anche per gli esseri inferiori. Per l’uomo è poi la legge
dell’amore, per l’uomo vivere è, in sostanza, amare, ed è da osservare
che questi nuovi risultati scientifici possono avere grandi conseguenze
su tutti i piani, in particolare anche sul piano sociale, oggi tanto
travagliato e confuso.»
LUIGI FANTAPPIÉ
Nel 1928, lavorando sulla equazione relativistica dell’elettrone, che
ammette due soluzioni, la prima che si muove dal passato al futuro
(onde ritardate) e la seconda che si muove dal futuro verso il passato
(onde anticipate) Paul Dirac arrivò alla dimostrazione matematica
dell’esistenza del positrone, esistenza che fu poi confermata nel 1932,
da Anderson, grazie allo studio dei raggi cosmici. Nel 1907 Einstein
con la teoria della relatività ristretta e successivamente Minkowsi con
il cronotopo avevano mostrato che il tempo non è formato da «istanti»
contemporanei, ma che passato, presente e futuro coesistono.
La scoperta della coesistenza di passato, presente e futuro è
paragonabile, per importanza, alle altre grandi scoperte controintuitive della scienza, ad esempio: era intuitivo immaginare la
Terra piatta, mentre era contro-intuitivo immaginarla rotonda;
era intuitivo immaginare il Sole che ruota attorno alla Terra, ma
contro-intuitivo immaginare la Terra che ruota attorno al Sole.
Oggi è intuitivo immaginare il tempo che scorre dal passato verso
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il futuro, ma contro-intuitivo immaginare che passato, presente e
futuro coesistono!
Nel 1942 Luigi Fantappiè, uno dei maggiori matematici italiani,
dimostrò che le onde ritardate (che si muovono dal passato al futuro
e che dipendono da cause collocate nel passato) sono governate dal
principio dell’entropia, mentre le onde anticipate (che si muovono
dal futuro verso il passato e che dipendono da attrattori collocati nel
futuro) sono governate da un principio simmetrico da lui denominato
sintropia. Attualmente, la nostra cultura rifiuta l’esistenza del
futuro e cerca di spiegare tutto in termini di cause collocate nel
passato. Le conoscenze e l’agire così prodotte sono necessariamente
governate dal principio dell’entropia, cioè da un principio che
tende verso il disordine, la disgregazione, il caos e la morte. La crisi
contemporanea non è altro che la dimostrazione quotidiana del
principio dell’entropia.
Albert Szent-Gyorgyi, scopritore della vitamina C e premio
Nobel per la medicina e la fisiologia nel 1937, sottolinea che
«Una differenza fondamentale tra l’ameba e l’uomo è l’aumento di
complessità che presuppone un meccanismo in grado di contrastare
la seconda legge della termodinamica. In altre parole, deve esistere
una forza in grado di contrastare la tendenza universale della materia
e dell’energia a distribuirsi uniformemente. Nei processi della vita
troviamo comunemente una diminuzione nell’entropia. Gli organismi
viventi aumentano l’organizzazione interna e, spesso, del mondo esterno,
opponendosi alla tendenza universale verso l’entropia.» Sviluppando
queste considerazioni Szent-Gyorgyi postulò negli anni ’70 l’esistenza
del principio della «sintropia», pur non conoscendo i lavori di
Fantappiè che già negli anni ’40 aveva coniato questo termine. Mente
l’entropia è una forza universale che porta alla disintegrazione verso
forme inferiori di organizzazione, la sintropia è la forza opposta che
porta i sistemi viventi a raggiungere forme di organizzazione sempre
più elevate e armoniche (Szent-Gyorgyi, 1977).
Il problema fondamentale secondo Szent-Gyorgyi è che «esiste
una profonda differenza tra sistemi organici e non organici […] come
scienziato non posso credere che le leggi dell’universo perdano la loro
validità alla superficie della nostra pelle. La legge dell’entropia non
sembra dominare i sistemi viventi.» Szent-Gyorgyi dedicò gli ultimi
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anni della sua vita allo studio della sintropia e del contrasto tra
sintropia ed entropia.
Come è stato sottolineato dal fisico quantistico Giuseppe
Arcidiacono e dal biochimico Salvatore Arcidiacono,
l’indeterminatezza che si osserva al livello del microcosmo deriva
dal fatto che il sistema quantico è costantemente esposto alla
supercausalità, cioè in ogni istante il sistema è obbligato ad operare
una scelta tra cause collocate nel passato (onde divergenti) e cause
collocate nel futuro (onde convergenti); l’esito di queste scelte non
può essere determinato a priori, rendendo perciò i sistemi quantici
indeterminati (Arcidiacono, 1991). Anche se la questione in merito a
quando una qualsiasi struttura passi dalle leggi del microcosmo (fisica
quantistica) a quelle del macrocosmo è ancora oggi una questione
aperta, sembra che tale passaggio avvenga gradualmente attorno ai
200 Angström (una unità di misura pari a 0,1 nanometri; ad esempio,
l’atomo di idrogeno misura 0,25 Angström). Poiché le strutture
biologiche minimali, come le vescicole sinaptiche e i microtuboli,
hanno dimensioni inferiori ai 200 Angström, si ipotizza che esse
siano oggetti «quantici» sollecitati, di conseguenza, in modo costante
dalla causalità e dalla retrocausalità (Arndt, 2005). Questo stato
costante di scelta in cui si troverebbero i sistemi viventi porterebbe
alla nascita di «dinamiche caotiche», dinamiche che possono essere
studiate unicamente da un punto di vista probabilistico.
L’equazione energia/momento/massa, E2 = c2p2 + m2c4, implica
l’esistenza di massa positiva (+mc2) e di massa negativa (-mc2), dove
la massa positiva si muove a velocità inferiore a quella della luce e
la massa negativa si muove a velocità superiore a quella della luce
con un flusso temporale che va dal futuro verso il passato. Da queste
premesse, nel 1928 Dirac giunse alla sua famosa teoria dell’elettrone
con spin, e alla previsione dell’antiparticella dell’elettrone (positrone).
Nel 1934, tuttavia, la soluzione negativa dell’equazione di Dirac
venne rifiutata, dando così origine all’attuale Modello Standard
della fisica. Oggi, la validità della soluzione negativa dell’equazione
energia/momento/massa è confermata dai fenomeni «anomali»
osservati nei sistemi viventi e nella fisica quantistica: la trasmissione
di informazione ad una velocità superiore a quella della luce (nonlocalità spaziale) e a ritroso nel tempo (non-località temporale).
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L’equazione di Dirac è robusta matematicamente, non mostra
contraddizioni e le sue previsioni vengono confermate dalla verifica
empirica; ma, nel 1934, Heisenberg dichiarò l’inesistenza degli stati
negativi di questa equazione irrigidendo il paradigma meccanicista
(causa-effetto) e bloccando lo sviluppo della scienza nei campi della
super-casualità.
Negli ultimi anni un numero crescente di ricerche ha dimostrato
l’esistenza della retrocausalità: situazioni nelle quali le cause sono
collocate nel futuro e l’informazione si muove a ritroso nel tempo.
La Psicologia Quantica (P. Q. ) è la nuova psicologia che scaturisce
dalle conclusioni alle quali sono ormai pervenuti molti dei fisici
quantistici di punta contemporanei e che pensa la struttura dell’essere
umano in modo nuovo e diverso. Attraverso gli studi di D. Bohm,
E. Laszlo e K. Pribram, nell’interpretazione della realtà generale e
nelle neuroscienze ha preso forma l’ipotesi ologrammatica, che spiega
sia il funzionamento della vita umana in rapporto all’universo sia
il funzionamento del cervello. Nella struttura interna dell’uomo la
P. Q. postula la possibile esistenza di un Sé extramentale (OntoSè)
più prossimo al piano ontologico della dimensione implicata
secondo D. Bohm, rispetto al Sé mentale di tipo junghiano. Inoltre
e per conseguenza, può esistere probabilmente un centro coscientepensante che costituisce la matrice dell’identità fondamentale di
ognuno, denominato Essere relativo, a sua volta filiazione di una
matrice originaria costituita da energìa-informazione-coscienza pura
(l’esseità dell’ordine implicato). Si sostiene altresì che, in accordo con
la tesi dei molti universi fisici esistenti, questi siano potuti emergere da
energìe infinitesimali subquantistiche del Campo di Energìa Unificato
primordiale (il «mare» di P. Dirac) che precedeva il Big Bang, lo
spazio ed il tempo. Per questo la realtà manifesta e gli eventi in essa
debbono conseguentemente avere al loro interno le stesse leggi della
dinamica subquantistica (SQD), le quali oggi obbligano a pensare le
interazioni ad ogni livello in modo olistico e non più diviso in parti,
come invece fatto sino ad ora dalla concezione classica deterministica
e causale della fisica newtoniana. La visione olistica-quantistica
richiama inoltre il concetto di sintropia, proposto a suo tempo da
Luigi Fantappiè e rilanciato ai nostri giorni dalle iniziative del dr.
Ulisse Di Corpo. In pratica le cause di ciò che accade possono anche
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venire «richieste» dal futuro, se si ammette che gli eventi dimorino
nel non-tempo degli stati sovrapposti di indeterminazione quantistica,
prima di emergere sul piano fattuale. Ne consegue che si può allora
anche affermare che tali cause attraggono gli eventi che hanno un
valore sintropico-finalistico.
Per questa ragione diviene possibile altresì considerare
l’universo come «un grande pensiero» ed i fenomeni sintropici
come caratteristici del principio di vita (L. Fantappiè). Se come
sostenuto da questo autore, vivere significa tendere a dei fini, ciò
comporta necessariamente che vi sia un programma a monte, sia
a livello universale che particolare nell’umano. Così l’ordine e la
differenziazione complementari e caratteristici della sintropia,
aiutano anche la coevoluzione dell’umano, inteso questi come sistema
operante secondo criteri e scopi di crescente complessità e qualità. La
sintropia rappresenta in tal modo l’essere «in fase» dell’uomo e più
in natura vi è sinergìa, coerenza e sintropia, più queste si debbono
conseguentemente ritrovare in ogni sistema naturale, così che la
sovracitata coevoluzione deve venire più logicamente promossa da
un’antecedente e poi corrispondente coinformazione.
Allora in una realtà che scaturisce dagli stati quantistici sovrapposti
e che si dipana mediante il collasso della funzione d’onda, anche il
rapporto paziente-terapeuta (di seguito P-T) va ripensato secondo
la concezione duale tipica dell’onda-particella in fisica, partendo
dall’originario stato di indeterminazione secondo W. Heisemberg.
In altri termini la dinamica intrapsichica ed interpersonale P-T
seguirebbe le stesse regole della fisica quantistica e l’inconscio sarebbe
il «luogo» nel quale tali regole si applicano inizialmente anche per lo
psichismo. In psicoanalisi il processo primario viene pensato come
energìa psichica che fluisce tramite spostamento e condensazione
ed obbedisce ai criteri del principio di piacere, quindi risulta essere
ontogeneticamente anteriore al principio di realtà ed agli eventi;
pertanto il processo sembra svolgersi proprio mediante le stesse
leggi dell’energìa quantistica: dall’indeterminato alla finalizzazione.
Quando l’analista non definisce, non interpreta, ma si arresta
rimanendo sospeso ed in disparte nella relazione terapeutica, egli
consente al paziente di risolvere lo svolgimento dell’equazione di
Schrödinger secondo necessità, così che la comunicazione e gli eventi
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in seduta appaiono come il risultato di una scelta operata fra tutti i
possibili protopensieri (quelli non ancora definiti e coscienti) presenti
nel campo P-T. La psicoanalisi stessa, come i modelli integrati più
recenti, potrebbe dunque venire considerata ciberneticamente come
un linguaggio che si rivela in modalità quantistiche. In particolare
ogni interazione P-T, a prescindere dall’indirizzo seguito, non
può che venire considerata oggi come uno spazio di Hilbert, vale
adire la descrizione matematica delle variazioni spazio-temporali,
l’insieme di tutti i possibili stati di un aggregato quantico, il luogo
della compresenza delle emozioni che trasformano, uno spazio
infinito di dimensioni. Per F. Corrao il campo terapeutico è energìa
costituita da impulsi in propagazione espansiva (vedi teorema delle
relazioni connessionistiche a distanza di J. Bell), è l’area che D.
Winnicott definiva «transizionale», una dimensione in cui identità ed
appartenenze sfumano. Per F. Riolo tale campo è una distribuzione
di intensità.
Ivi occorre inserire quello che prima era il «Terzo escluso»,
facendolo divenire incluso, la via di mezzo, ciò che è e che non
è contemporaneamente, poiché il campo bipersonale P-T può
funzionare in coerenza quantistica secondo le teorie dei campi ed in
esso le affermazioni e le negazioni non sono più le sole possibilità
d’espressione: ciò che non è ancora pensiero e non è ancora a coscienza,
è però già un essente in potenza. S. Hameroff (1998) ha considerato
gli effetti filosofici del fatto che il pensiero compaia e scompaia come
il fotone evenescente all’interno dei microtubuli cerebrali. Dunque
nel rapporto terapeutico c’è un momento del non-tempo, dove ciò che
poi si rivela ed accade viene influenzato dal trasferimento di energìa
in forma duale ed indeterminata-paradossale. Ma ogni terapia non è
forse in definitiva un trasferimento di informazione-consapevolezza
che porta conoscenza e che in seguito viene suscitata nell’interiorità
del paziente? Pertanto la nuova psicoterapia interdisciplinare che
oggi si annuncia (poiché fondata su tali princìpi) avrà di fronte a sé
un problema tecnico: come sostenere l’equazione che la conoscenza
determini la salute psicofisica e come accedere ad una conoscenza
interdisciplinare integrata da veicolare al paziente attraverso
nozioni assunte da aree del sapere diverse ma connesse dai princìpi
di riferimento, dai contenuti e dalla logica (fisica, neuroscienze,
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psicologia clinica su basi quantiche, filosofia). Se la cura ha come fine
ultimo l’individuazione (C. G. Jung) e la realizzazione (A. Maslow),
allora la terapia consistente in energìa-informazione-consapevolezza
prima veicolata al paziente e poi suscitata nel medesimo, può produrre
quella potentia aristotelicamente intesa come energìa originaria,
come l’essere in coerenza quantica con l’esistenza, prima smarrita. W.
Pauli affermava in proposito: «L’energìa è la vera sostanza, ciò che si
conserva; solo la forma con la quale essa si presenta, cambia». Ancora,
egli aggiunge che il binomio inconscio-coscienza va interpretato in
analogìa con le situazioni paradossali della fisica; la complementarità
ha permesso la sintesi di opposti fondamentali quali l’oggettività e
la soggettività, mentre l’indeterminazione dà ragione dei fenomeni
psichici già esistenti seppur non ancora attuati (ibid); (controfattuali
sono detti gli eventi possibili ma effetti di cause non realizzatesi;
cfr. R. Penrose). In definitiva per Pauli: «la coscienza non è un qui
e l’inconscio non è un là». L’apprendimento che segue nel paziente,
inteso allora come modalità di superamento dell’entropìa interiore,
risolve la nevrosi e riorganizza il soggetto favorendo la sua salute e
la sua evoluzione, sicché possiamo anche affermare che salute ed
evoluzione debbono consistere nel risultato conseguente del livello di
informazione-coscienza posseduto dal paziente, dalla sintropia come
risultato e condizione di stato, grazie anche alla terapia. Per queste
ragioni la nuova psicoterapia che scaturisce dalla psicologia quantica
sarà fondamentalmente basata sul trasferimento alla persona di un
sapere olistico interdisciplinare integrato che essa deve assimilare
(un insieme di nozioni non soltanto psicologiche), oltre al consueto
apporto dato dalle interpretazioni della psicologia tradizionale. Per
quanto concerne la misurabilità degli effetti del nuovo modello e dei
risultati, la sperimentazione continua e sembra indicare un netto
abbassamento della lunghezza del trattamento, una più rapida
risposta dei soggetti ad esso ed una crescita qualitativa degli stessi
nella triade costituita da: consapevolezza di sé, del rapporto fra sé e
la realtà e dal livello di coscienza-evoluzione sintropica raggiunto.
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PARTE II - ANALISI DEL TESTO
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NOTE
1) Talamo
Il talamo è una struttura del sistema nervoso centrale più
precisamente del diencefalo posto bilateralmente ai margini laterali
del terzo ventricolo. Il talamo è un ammasso di sostanza grigia al
cui interno si trovano la stria midollare interna e la stria midollare
esterna. Queste due unendosi fra loro formano una stuttura ad Y
delimitando innanzi, compresi nella biforcazione, i nuclei anteriori,
i nuclei laterali e mediali (rispetto alla lamina midollare interna); i
nuclei laterali vengono distinti in ventrali e dorsali. Inoltre vi sono
i nuclei intralaminari nello spessore della lamina midollare interna,
il nucleo reticolare posto lungo la superficie laterale del talamo e i
nuclei della linea mediana del talamo posti sulla superficie mediale
dello stesso.
2) Superconduttività
Il fenomeno della superconduttività venne inaspettatamente
scoperto nel 1911 da un fisico olandese di nome Heike Kamerlingh
Onnes (1853-1926, premio Nobel per la fisica nel 1913). Questi,
nell’ambito di uno studio delle proprietà elettriche dei metalli a basse
temperature, osservò che il mercurio, se raffreddato a temperature
inferiori ai 4,16 Kelvin (i Kelvin sono gradi centigradi al di sopra
dello zero assoluto della temperatura, che è situato a -273,16 gradi
centigradi), cessa improvvisamente di opporre qualsiasi resistenza
al passaggio di corrente elettrica: la sua resistenza elettrica diventa
nulla. Successivamente si è potuto accertare che questo fenomeno
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non è limitato al mercurio, ma esiste una lunga serie di altri elementi
o sostanze composte che, se raffreddati al di sotto di una determinata
temperatura critica, come viene denominata la temperatura alla
quale il fenomeno della superconduttività si innesca, permettono
il trasporto di corrente elettrica senza la benché minima perdita di
energia.
Fra gli elementi a noi più famigliari figurano l’alluminio, con
una temperatura critica di 1,19 Kelvin, o il piombo, che diventa
superconduttore a 7,2 Kelvin. Sul fronte delle sostanze composte
vale la pena citare, per la sua ampia utilizzazione in applicazioni
commerciali, il niobio-titanio, una lega metallica che diventa
superconduttrice a circa 9 Kelvin. Abbastanza interessante e
curioso, come vedremo ancora in seguito, è il fatto che il rame,
l’oro e l’argento, ossia quei materiali che a temperatura ambiente
figurano fra i migliori conduttori elettrici, a basse temperature
non diventano superconduttori. Non esiste una regola semplice
che permette di stabilire a priori quali materiali diventino
superconduttori a temperature sufficientemente basse. I seguenti
punti, basati su osservazioni empiriche, meritano comunque di
essere citati: 1)solamente metalli o composti metallici diventano
superconduttori, 2) tutte le temperature critiche sono inferiori ai 23
Kelvin, 3) i metalli nobili e 4) i metalli magnetici non diventano
superconduttori. L’assenza di resistenza elettrica non è però l’unica
caratteristica fondamentale dei superconduttori. Esiste infatti una
seconda non meno spettacolare proprietà che un superconduttore
deve manifestare affinché esso possa essere considerato tale: si tratta
dell’effetto di Meissner, così chiamato in onore dello scienziato che
lo scoprì nel 1933. L’effetto consiste nella proprietà del materiale
superconduttore di escludere dal suo interno qualsiasi campo
magnetico. In termini specialistici si dice che il superconduttore si
comporta come un diamagnete ideale. Senza questa proprietà un
materiale privo di resistenza elettrica non è un superconduttore, esso
è «semplicemente» un conduttore ideale. È grazie a questa proprietà
che il fenomeno della superconduttività può essere considerato un
vero e proprio stato di fase della materia, uno stato di equilibrio
termodinamico che si contrappone alla fase cosiddetta normale,
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quella cioè in cui il trasporto della corrente elettrica è un fenomeno
dissipativo.
Generalmente un campo magnetico è, o può essere, associato ad
un flusso di corrente elettrica. In un elettromagnete, ad esempio, il
campo magnetico è generato dalla corrente che scorre nelle sue spire.
Analogamente, i superconduttori reagiscono a campi magnetici
esterni mettendo spontaneamente in moto nel loro interno un flusso
di corrente elettrica tale che il campo magnetico ad esso associato
annulli internamente il campo magnetico nel quale essi sono immersi.
I superconduttori, quindi, escludono dal loro interno i campi
magnetici magnetizzandosi. Questo particolare comportamento
può essere messo in evidenza sperimentalmente avvicinando un
superconduttore ad un magnete permanente, e registrando la forza
repulsiva che si instaura tra di essi a causa della loro diversa polarità
magnetica. L’effetto che si osserva è del tutto simile a quello che tutti
abbiamo probabilmente già sperimentato tentando di avvicinare i
poli opposti di due magneti.
3) Teorema di Bell
Il Teorema di Bell è il più famoso lascito del fisico irlandese John
Bell. È notevole perché mostra che le predizioni della Meccanica
quantistica differiscono da quelle dell’intuizione. È semplice ed
elegante, e tocca questioni fondamentali per la filosofia della
fisica moderna. Nella sua forma più semplice il teorema afferma:
Nessuna teoria fisica a variabili locali nascoste può riprodurre le
predizioni della meccanica quantistica. L’articolo di Bell del 1965 era
intitolato «Sul paradosso Einstein-Podolsky-Rosen». Il Paradosso
Einstein-Podolsky-Rosen presume il realismo locale, ossia le nozioni
intuitive che gli attributi delle particelle abbiano valori definiti
indipendentemente dall’atto di osservazione, e che gli effetti fisici
abbiano una velocità di propagazione finita. Bell ha dimostrato che
il realismo locale impone delle restrizioni su certi fenomeni, che non
sono richieste dalla meccanica quantistica. Queste restrizioni sono
chiamate disuguaglianze di Bell.
Le disuguaglianze riguardano misure fatte da osservatori
(solitamente chiamati Alice e Bob) su coppie di particelle «entangled
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(intrecciate)» che hanno interagito e sono state separate. I presupposti
delle teorie a variabili nascoste limitano le correlazioni possibili nelle
successive misure sulle particelle. Bell ha scoperto che, invece, per
la meccanica quantistica, questo limite alla correlazione può essere
violato. Gli esperimenti ad oggi dimostrano abbondantemente che
le disuguaglianze di Bell sono violate. Questo fornisce una prova
empirica contro il realismo locale, e dimostra che alcune delle
«raccapriccianti azioni a distanza» previste dall’esperimento ideale
EPR di fatto accadono realmente. Questi esperimenti sono quindi
considerati prova positiva a favore della meccanica quantistica. I
principi della relatività speciale sono comunque salvati dal teorema
di non-comunicazione, che implica che gli osservatori non possono
utilizzare gli effetti quantistici per comunicare informazione a
velocità superiore a quella della luce.
4)Principio di Indeterminazione
Werner Heisemberg (1902-1976) fornì negli anni 1926 e 1927
l’impianto concettuale su cui si organizzò la nuova meccanica
necessaria per analizzare il comportamento del mondo microscopico.
In quell’ambito Heisemberg derivò dai principi della meccanica
quantistica una legge estremamente semplice da comprendere,
ma assolutamente controintuitiva. Tale legge era già stata intuita
analizzando il risultato di tutti i possibili esperimenti ideali che si
possano pensare per misurare le coordinate spaziali e la velocità
(o quantità di moto) di una particella quando si tenga conto della
interazione tra oggetto di misura e strumento di misura. La legge
afferma che la misura simultanea delle coordinate spaziali e della
quantità di moto di una particella introduce sempre incertezze (o
indeterminazioni) nei loro valori indicate con Δx e Δpx. Tali incertezze
sono collegate tra loro dalla relazione: Δx Δpx ≥ h /4π (dove h è detta
costante di Plank).
La costante h è una delle costanti più importanti della fisica, gioca
un ruolo fondamentale nella descrizione del mondo sub atomico e la
si incontra costantemente in meccanica quantistica (interazioni tra
radiazione e materia, energia e quantità di moto dei fotoni, principio di
indeterminazione). Senza entrare troppo in dettaglio si può affermare
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che per osservare la particella bisogna illuminarla, ma illuminarla vuol
dire farla interagire con almeno un fotone la cui energia è proporzionale
alla frequenza attraverso la costante di Planck. L’interazione della
particella con il fotone modifica lo stato della particella e lo modifica
tanto più intensamente quanto più si vuole determinare con precisione
la posizione. Infatti il fotone è tanto più preciso spazialmente quanto
maggiore è la sua frequenza, ma questo fatto ne aumenta l’energia
e dunque produce effetti sempre più imprevedibili sulla velocità della
particella dopo l’urto. Le coordinate e le corrispondenti quantità
di moto lungo gli altri due assi sono legate da relazioni simili. Se
confrontiamo la soluzione classica del problema della dinamica con
il principio di indeterminazione vediamo subito che essi sono in
contraddizione. In effetti, nello scrivere le equazioni del moto bisogna
specificare, con la massima accuratezza, le condizioni iniziali; ma, in
base al principio di indeterminazione le condizioni iniziali possono
essere determinate solo in maniera approssimata ed esiste un limite
al di sotto del quale non si può scendere.
All’interno della diffusa (ma non universalmente accettata)
interpretazione di Copenaghen della meccanica quantistica, il
principio di indeterminazione è inteso come il fatto che a un livello
elementare, l’universo fisico non esiste in forma deterministica,
ma piuttosto come una collezione di probabilità, o potenziali.
Ad esempio, il modello (probabilità di distribuzione) prodotto da
milioni di fotoni che passano attraverso una fessura di diffrazione,
può essere calcolato usando la meccanica quantistica, ma il percorso
esatto di ogni fotone non può essere predetto da nessun metodo
conosciuto. L’interpretazione di Copenaghen sostiene che non può
essere predetto da nessun metodo. Ed è questa interpretazione che
Einstein stava mettendo in discussione quando disse: «Non credo che
Dio abbia scelto di giocare a dadi con l’universo». Bohr, che era uno
degli autori dell’interpretazione di Copenaghen rispose: «Einstein,
smettila di dire a Dio cosa deve fare», a cui Feynman aggiunse «Non
solo Dio gioca a dadi, ma li lancia dove non possiamo vederli».
Einstein era convinto che questa interpretazione fosse errata. Il
suo ragionamento era che tutte le distribuzioni di probabilità
precedentemente conosciute, sorgessero da eventi deterministici. La
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distribuzione di un lancio di moneta può essere descritta con una
distribuzione di probabilità (50% testa e 50% croce).
Ma questo non significa che i movimenti fisici siano impredicibili.
La meccanica classica può essere usata per calcolare esattamente come
ogni moneta atterrerà, se le forze agenti su di essa sono conosciute.
E la distribuzione testa/croce si allineerà con la distribuzione di
probabilità (date forze iniziali casuali). Einstein assunse che ci
fossero delle variabili nascoste nella meccanica quantistica che
sottostanno alle probabilità osservate. Né Einstein né altri sono mai
riusciti a costruire una teoria della variabile nascosta soddisfacente,
e la disuguaglianza di Bell illustra alcuni aspetti critici di questa
ricerca. Anche se il comportamento di una particella individuale è
casuale, è correlato al comportamento delle altre particelle. Quindi,
se il principio di indeterminazione è il risultato di qualche processo
deterministico, deve essere il caso che particelle poste a grande
distanza trasmettano istantaneamente l’informazione a tutte le altre,
per assicurare che ci sia una correlazione nel comportamento.
5) Funzione d’onda
Nella meccanica quantistica, la funzione d’onda è un’equazione
che descrive una porzione di spazio in cui si ha la massima probabilità
di trovare una data particella. Ha le sue origini nel Principio di
indeterminazione di Heisenberg. Solitamente si intende, per funzione
d’onda, l’ampiezza di probabilità calcolata tramite l’equazione di
Schrödinger. L’equazione di Schrödinger è una delle più importanti
scoperte della fisica ed in particolare della meccanica quantistica.
Quest’ultima, risalente alla metà degli anni Venti, ha preso due
direzioni principali: una, battuta da Heisenberg, Bohr, Jordan, che
si basa sull’approccio matriciale, l’altra, sviluppata soprattutto da de
Broglie e Schrödinger, si basa sull’approccio ondulatorio. In questa
seconda visione si rappresentano le particelle attraverso le così dette
funzioni d’onda, poiché le evidenze sperimentali (vedi, ad esempio,
l’esperimento di Davisson e Germer) confermavano che a volte anche
le particelle posseggono comportamenti ondulatori. Era pertanto
necessario avere a disposizione un’equazione che fosse in grado
di descrivere come evolveva nel tempo la funzione d’onda di una
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particolare particella. Nasce, così, l’equazione di Schrödinger, che
nella sua forma più compatta e indipendente dal tempo può essere
scritta come segue:
Hψ = Eψ
dove H è l’hamiltoniana, E l’energia della particella o del sistema
quantistico e ψ la funzione d’onda. Nella sua forma più semplice,
ovvero per una particella libera (assenza di potenziale), essa è
rappresentata, «in una dimensione», da
dove i è l’unità immaginaria, ħ è la costante di Planck, il primo
termine è l’hamiltoniana (o operatore hamiltoniano) e il secondo
l’energia.
6) Spin
Lo Spin è il momento angolare intrinseco associato con le
particelle della meccanica quantistica. Diversamente dagli oggetti
rotanti della meccanica classica (spin in inglese significa rotazione),
che derivano il loro momento angolare dalla rotazione delle parti
costituenti, lo spin non è associato con alcuna massa interna. Ad
esempio, le particelle elementari, come gli elettroni possiedono uno
spin, anche se sono particelle puntiformi. Inoltre, contrariamente
alla rotazione classica, lo spin non viene descritto da un vettore, ma
da un oggetto a due componenti (per particelle con spin semi-intero):
esiste una differenza osservabile in come quest’ultimo si trasforma
ruotando le coordinate. Altre particelle subatomiche, come i neutroni,
che hanno carica elettrica nulla, possiedono lo spin. Quando
vengono applicati alla rotazione spaziale, i principi della meccanica
quantistica enunciano che i valori osservati del momento angolare
(autovalori dell’operatore del momento angolare) sono ristretti a
multipli interi o semiinteri di h/2π. Questo si applica ugualmente allo
spin. Inoltre, il teorema dello spin statistico enuncia che le particelle
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con spin intero corrispondono ai bosoni, e le particelle con spin semiintero corrispondono ai fermioni. Un corpo caricato elettricamente,
ruotante in un campo magnetico disomogeneo, è sottoposto a una
forza. Questo vale anche per gli elettroni. Le forze osservate, variano
per differenti elettroni, e queste differenze sono attribuite a differenze
di spin. Quindi, tipicamente, lo spin degli elettroni viene misurato
osservando la loro traiettoria in un campo magnetico disomogeneo.
In accordo con le predizioni della teoria, solo multipli semi-interi di
h/2π vengono osservati per gli elettroni.
Lo spin venne scoperto per la prima volta nel contesto
dell’emissione spettrale dei metalli alcalini. nel 1924, Wolfgang Pauli
(probabilmente il più influente fisico nella teoria dello spin) introdusse
ciò che chiamò un «grado di libertà quantico a due valori» associato
con gli elettroni del guscio esterno. Questo permise di formulare il
principio di esclusione di Pauli, che stabiliva che due elettroni non
possono condividere gli stessi valori quantici. L’interpretazione
fisica del «grado di libertà» di Pauli era inizialmente sconosciuta.
Ralph Kronig, uno degli assistenti di Alfred Landé, suggeri, agli inizi
del 1925, che venisse prodotto dall’auto-rotazione degli elettroni.
Quando Pauli venne a conoscenza dell’idea, la criticò severamente,
notando che l’ipotetica superficie dell’elettrone avrebbe dovuto
muoversi più velocemente della velocità della luce per poter ruotare
abbastanza rapidamente da produrre il necessario momento angolare,
contravvenendo così alla teoria della Relatività. Nell’autunno dello
stesso anno, lo stesso pensiero venne a due giovani fisici olandesi,
George Uhlenbeck e Samuel Goudsmit.
Su consiglio di Paul Ehrenfest, pubblicarono i loro risultati, che
incontrarono una risposta favorevole, specialmente dopo che L. H.
Thomas riuscì a risolvere una discrepanza tra i risultati sperimentali
e i calcoli di Uhlenbeck e Goudsmit (e quelli non pubblicati di
Kronig). Questa discrepanza era dovuta alla necessità di prendere
in considerazione l’orientamento della microstruttura tangente
all’elettrone, in aggiunta alla sua posizione. L’effetto aggiunto
dalla tangente è additivo e relativistico (ovvero svanisce se c va
all’infinito); è pari a un mezzo del valore ottenuto se non si considera
l’orientamento dello spazio tangente, ma con segno opposto. Quindi
l’effetto combinato differisce da quest’ultimo per un fattore due
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(precessione di Thomas). Nonostante le sue obiezioni iniziali, Pauli
formalizzò la teoria dello spin nel 1927, usando la moderna teoria
della meccanica quantistica, proposta da Erwin Schrödinger e
Werner Heisenberg. Egli introdusse l’uso delle matrici di Pauli come
rappresentazione degli operatori di spin, e una funzione d’onda a
due componenti (spinore). La teoria di Pauli era non-relativistica.
Comunque, nel 1928, Paul Dirac pubblicò l’equazione di Dirac,
che descriveva l’elettrone relativistico. Nell’equazione di Dirac, uno
spinore a quattro componenti (conosciuto come «spinore di Dirac»)
veniva usato per la funzione d’onda dell’elettrone. Nel 1940, Pauli
provò il teorema dello spin statistico, che enuncia che i fermioni
hanno spin semi-intero e i bosoni spin intero.
7) Teoria del Caos
La teoria del caos è nata quando la scienza classica non aveva più
mezzi per spiegare gli aspetti irregolari e incostanti della natura; è
innanzitutto una teoria scientifica, nata su sperimentazioni fisiche,
biologiche, matematiche, socio-economiche, che ha cambiato
l’aspetto del mondo e che in un secondo tempo è stata sintetizzata
nelle arti espressive, facendo la sua apparizione nello studio di
fenomeni meteorologici.
Le applicazioni pratiche di questa teoria sono dirette nei più
svariati campi, in quanto essa permette, con la sua visione della
realtà, di scegliere tra una grande abbondanza di opportunità e di
raggiungere il principale obbiettivo della scienza oggi e di sempre
trovare per mezzo di quali regole è governato 1’ universo e in che
modo possiamo usarlo ai nostri tini come vagheggiava Bacone.
Nell’affermazione di George Santayana «Chaos is a name for any
order that produces confusion in our minds», si conferma che il
caos, questo punto, non può più essere visto come casualità e totale
mancanza di ordine, ma unicamente, come un ordine così complesso
da sfuggire alla percezione e alla comprensione umana; un ordine
con una logica stocastica e inestricabile dove le regole dell’antica idea
di armonia platonica non siano più riscontrabili. Di conseguenza,
i sistemi caotici non possono più essere interpretati esclusivamente
come imprevedibili anche se irregolari È fondamentale sottolineare
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che il caos non è sinonimo di caso (curiosamente suo anagramma)
come la logica potrebbe indurre a pensare e non si può parlare di
completo disordine, in quanto i sistemi caotici, alla luce delle nuove
scoperte della teoria del caos, sono sistemi dinamici sempre prevedibili
a breve termine e, quindi, riconducibili ad una logica nuova più o
meno complessa. Si può, dunque, paradossalmente affermare, in
base a precise scoperte scientifiche, che nel caos c’è ordine.
La nazione di «organizzazione» evidenzia un processo che si
dimostra innanzi tutto imprevedibile, non deterministico, partecipe al
tempo stesso di ORDINE e DISORDINE, di condizioni di equilibrio
e di non equilibrio. Alla luce di questo la natura ci si presenta sempre
più come una realtà difficilmente definibile determinabile. Infatti
venuta attualmente meno la pretesa di un suo completo dominio,
ci sembra vada meglio avvicinata l’interno di una ricerca aperta
che tenga conto di tutti gli elementi che intervengono; elementi che
evidenziano una certa discontinuità ed ambiguità nella nozione di
natura. In tal modo non trovano più posto tutti i modelli riduzionisti
e continuistici di spiegazione. Emerge, invece, una qualche libertà
nelle strutture fisiche non deterministiche. La natura, in quanto
tale, si presenta in sé imprevedibile e disponibile verso sempre nuove
ed inedite possibilità di sintesi, le quali prendono inevitabilmente
corpo qualora si verifichino certe circostanze. La nuova visione
della natura dunque oscilla tra condizioni vincolanti e libertà tra
loro dinamicamente connesse. Evidentemente questo conferisce un
certo valore all’idea che nella natura vi sia un certo progresso, una
sua storia, che non è tuttavia assolutamente indicabile.
La natura al contrario di quanto sostiene Manod, non si trova in un
equilibrio morto, dove l’organizzazione del vivente è semplicemente
un’eccezione e dove non ci sono le idee di progresso e libertà, bensì è
qualcosa di organizzato da leggi che regolano il processo tra ordine
e disordine. Di conseguenza possiamo affermare che l’universo è
in continua trasformazione e in progresso per le sue intrinseche
possibilità e trova spiegazione non dentro di sé, ma altrove. Questo
suggerimento è alla base dell’attuale riflessione sulla natura. Tale
apertura conferisce maggior spazio alla libertà umana che resta
irriducibile rispetto ad ogni tentativo di dominio o di comprensione
della natura. Ciò restituisce un valore positivo all’uomo che, senza
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sentirsi schiacciato dalla natura, vi si avvicina per trascenderla.
Di siffatta apertura partecipa anche il sapere scientifico stesso.
Infatti la natura, in quanto realtà non omogenea ed estremamente
complessa, ci appare resistere ad ogni intento conoscitivo inglobante.
Di conseguenza la natura si mostra sempre come circoscritta entro
i molteplici linguaggi della scienza; di qui l’impossibilità inoltre di
sbarazzarci delle nostre conoscenze che sono sempre linguisticamente
confinate entro «mappe» o «modelli» che ovviamente non sono
la realtà, bensì livelli o aspetti particolari di essa, che resta in sé
attingibile. E in questo spazio di irriducibilità teorica e pratica che
si situa una diversa intelligibilità della natura; un’intelligibilità che
è estremamente dipendente per un verso dai condizionamenti del
nostro conoscere e, per l’altro, da un’emergenza ontologica che
sembra affacciarsi dall’epistemologia contemporanea.
Cimentarsi nella ricerca di una definizione esauriente dei fermenti
del nostro tempo appare un’impresa quanto mai rischiosa e, sotto
parecchi aspetti, sterile. Il compito sarebbe più facile e interessante
se ci si limitasse ad un’analisi condotta attraverso l’individuazione di
alcune parole chiave, intese come guide per posare lo sguardo sulla
realtà. Una di queste parole da usare come lente di ingrandimento,
soprattutto per esplorare il campo del sapere a noi più vicino, quello
della filosofia e della scienza, potrebbe essere senz’altro il termine
«crisi». La storia del pensiero scientifico e filosofico contemporaneo è
infatti segnata, già a partire dalla fine del XIX secolo dalla progressiva
presa di coscienza di un lento ma inesorabile dileguarsi delle certezze,
dei fondamenti teorici e pratici del sapere.
Una alla volta, tutte le categorie del pensare e dell’agire
scientifico e filosofico, idee e concetti ritenuti immutabili come il
tempo, lo spazio, il rapporto tra cause ed effetto, sono stati messi
alla prova. Assunta consapevolezza di ciò, su un piano più teorico
ed intellettuale si è ritenuto che una delle possibili linee di azione
fosse, da un lato, quella di trovare nuove risposte, più adeguate al
tempo che stiamo vivendo, agli interrogativi classici della filosofia,
intesa ancora come sguardo critico sul mondo; dall’altro, si è cercato
di costruire un’immagine il più possibile confortante del lavoro e
delle prospettive della scienza, la quale ha mantenuto la speranza
di continuare a ricoprire il ruolo ereditato dal tempo di Newton e
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Galileo, di faro illuminante dell’esistenza umana. Su un piano meno
astratto, la crisi che caratterizza il nostro secolo è però una crisi di
tipo esistenziale, profonda e diffusa a livello globale; nessun aspetto
della nostra vita ne è immune, a partire da questioni come la salute,
i mezzi di sussistenza, la qualità dell’ambiente e dei rapporti sociali,
l’economia, la tecnologia. Si è sviluppata insomma la coscienza di
una serie impressionante di emergenze, che coinvolgono l’umanità, a
tutti i livelli in un tentativo di ricerca di nuove soluzioni. L’immagine
stessa della filosofia e della scienza ne risulta quindi modificata: il
sapere ereditato dall’età moderna, per poter sopravvivere, deve
mettere in discussione uno dopo l’altro tutti i suoi fondamenti, ma
soprattutto deve scoprirsi ancora capace di calarsi nella vita reale, e
rispondere alle domande sempre più pressanti che essa gli pone.
Alcune note «tecniche»: L’analisi del comportamento caotico si
basa sulla teoria matematica dei frattali: un frattale è una struttura
geometrica irregolare che può essere suddivisa in elementi, ciascuno
dei quali riproduce approssimativamente l’intero oggetto (proprietà
di autosomiglianza). Inoltre, ogni frattale è caratterizzato dalla
dimensione frattale definita come la capacità del frattale stesso a
riempire lo spazio in cui è immerso. I risultati raggiunti dalla teoria
frattale sono, però, difficilmente applicabili a quei sistemi che non
possiedono una modelizzazione matematica. In alcuni casi, però, è
possibile ricostruire la dinamica del sistema in esame, effettuando
registrazioni di lunga durata. Elaborando opportunamente questi
dati, è possibile calcolare il coefficiente di correlazione che approssima
la dimensione frattale (dimcorr >= coefcorr). Uno strumento
potente per descrivere il comportamento dei sistemi caotici è lo
spazio degli stati, che consente di rappresentare il comportamento
in forma geometrica utilizzando il metodo delle Return Map. Una
Return Map è uno strumento grafico che riporta in ascisse i valori
delle registrazioni EGG ad un tempo T, e sulle ordinate i valori delle
registrazioni al tempo T+t (t è il tempo di ritardo).
Una Return Map è, quindi, un supporto grafico che permette
un’analisi visiva del comportamento del sistema in esame. I
sistemi dinamici caotici sono caratterizzati dalla presenza di un
attrattore strano nello spazio degli stati. Un attrattore è una forma
geometrica che caratterizza il comportamento a lungo termine
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nello spazio degli stati. In altri termini, un attrattore è ciò verso
cui si stabilizza, o è attratto il comportamento di un sistema.
È un oggetto frattale cui è associata una dimensione frattale.
Un’altra grandezza che caratterizza il comportamento di un sistema
caotico è l’esponente di Lyapunov, che permette, su ogni serie
temporale, di stimare la velocità media di divergenza delle traiettorie
descritte nello spazio delle fasi. La presenza di almeno un esponente
di Lyapunov positivo, è indice che il sistema ha un comportamento
caotico.
Le immagini dei frattali più famosi:
L’insieme di Mandelbrot
Julia Set
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8) Attrattore
I sistemi conservativi sono soltanto un’idealizzazione; spesso
si ha a che fare con sistemi dissipativi, nei quali l’energia, a causa
dell’attrito, viene dispersa in calore. Non è detto che l’attrito distrugga
il moto di un sistema. Pensiamo, ad esempio, al corso di un torrente:
l’attrito sul fondale e la resistenza idrodinamica distruggono l’energia
cinetica, ma essa è continuamente ricreata dall’energia potenziale
della forza peso. I sistemi dissipativi sono caratterizzati dal fatto
che le orbite di fase che partono da condizioni iniziali anche molto
diverse finiscono per giungere tutte in un determinato insieme di
stati di superficie nulla detto attrattore. L’attrattore di Lorenz fu
il primo esempio di di sistema di equazioni differenziali a bassa
dimensionalità in grado di generare un comportamento complesso.
Venne scoperto da Edward N. Lorenz, del Massachusetts Institute
of Technology, nel 1963. Semplificando le equazioni del moto alle
derivate parziali che descrivono il movimento termico di convezione
di un fluido, Lorenz ottenne un sistema di tre equazioni differenziali
del primo ordine
Sebbene le equazioni, a causa del forte troncamento, descrivano
, esse vengono
bene il fenomeno di convezione solo per
utilizzate come modello a bassa dimensione per un comportamento
caotico, portando il parametro r dell’equazione completamente fuori
dall’appropriato regime fisico. Oggetti geometrici di questo tipo,
rappresentativi del moto di un sistema caotico, vengono detti strani
attrattori o attrattori strani.
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L’attrattore di Lorenz
9) Sintropia
Nel 1942 Fantappiè (uno dei maggiori matematici italiani)
dimostrò che la soluzione positiva dell’energia (+E) è governata dalla
legge dell’entropia, mentre la soluzione negativa dell’energia (-E)
è governata da una legge simmetrica all’entropia, da lui chiamata
sintropia. Studiando le proprietà della sintropia Fantappiè scoprì,
con suo grande stupore, la coincidenza tra queste proprietà e le
caratteristiche tipiche dei sistemi viventi, quali ordine, organizzazione,
crescita e tendenza alla complessità; egli arrivò così ad affermare che
le proprietà tipiche della vita sono la conseguenza di cause collocate
nel futuro. Prigogine ha mostrato come il rifiuto preconcetto
della soluzione negativa dell’energia ha portato all’incapacità di
comprendere i meccanismi che sottostanno le qualità proprie della
vita, dividendo in questo modo la cultura in due: da una parte la
scienza meccanicista, dall’altra la vita e le finalità, attualmente
trattate al di fuori della scienza (religione). Si è venuto così a creare
un equilibrio tra scienza meccanicista (cause collocate nel passato) e
religione dogmatica (finalità e cause collocate nel futuro) alla quale
Prigogine da il nome di «vecchia alleanza». Secondo Prigogine,
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l’allargamento della scienza alla soluzione dell’energia negativa
porterà a ridefinire l’alleanza tra scienza meccanicista e religione
dogmatica, aprendo così la strada ad una nuova cultura in cui scienza
e religione si integrano e che lui definisce come «nuova alleanza».
10) Meme
Un meme è un’unità di informazione che è in grado di replicarsi
da una mente o un supporto simbolico di memoria - per esempio
un libro - ad un’altra mente o supporto. In termini più specifici,
un meme è un’unità auto-propagantesi di evoluzione culturale,
analoga a ciò che il gene è per la genetica. La parola è stata coniata da
Richard Dawkins nel suo controverso libro Il gene egoista. Un meme
può essere parte di un’idea, una lingua, una melodia, una forma,
un’abilità, un valore morale o estetico; può essere in genere qualsiasi
cosa può essere comunemente imparata e trasmessa ad altri come
un’unità. Lo studio dei modelli evoluzionistici del trasferimento
dell’informazione prende il nome di memetica. Come l’evoluzione
genetica, anche l’evoluzione memetica non può avvenire senza
mutazioni. La mutazione produce varianti di cui solo le più adatte
si replicano, ossia, diventano più comuni ed aumentano la loro
probabilità di replicarsi ulteriormente. È probabile che sia stata la
mutazione a far evolvere culturalmente un gruppo di primitive sillabe
nell’attuale ampia gamma di lingue e dialetti esistenti, oltre all’ampia
gamma di significati simbolici all’interno di ogni lingua. E ulteriori
mutazioni del linguaggio sono la scrittura, l’alfabeto Braille, la lingua
dei segni, eccetera. Persino i cosiddetti «tormentoni» generati dai
mass-media o estrapolati da film, videogiochi, discorsi pubblici sono
memi capaci di diffondersi e mutare - si pensi ad esempio alla recente
diffusione dell’espressione «mi consenta...» impostasi nel linguaggio
prima politico e poi mass-mediatico. Un motore di ricerca può essere
uno strumento utile, ancorché imperfetto, per misurare la diffusione
memetica di una frase. Nell’uso generale, il termine meme è usato per
indicare un qualsiasi pezzo di informazione che viene trasmesso da
una mente ad un’altra. Questa interpretazione è più simile all’idea
del «linguaggio come virus» piuttosto che all’analogia di Dawkins
dei memi come comportamenti replicantisi. La chiave di ogni uomo
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è il suo pensiero. Benché egli possa apparire saldo e autonomo, ha un
criterio cui obbedisce, che è l’idea in base alla quale classifica tutte
le cose. Può essere cambiato solo mostrandogli una nuova idea che
sovrasti la sua ( Ralph Waldo Emerson ).
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Finito di stampare
nel mese di dicembre 2006
presso Legoprint S.p.A., Lavis (Trento)
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