LA SCENOGRAFIA DE LA FABULA DE CEFALO DI NICCOLÒ DA CORREGGIO La Fabula de Cefalo di Da Correggio (rappresentata a Ferrara nel 1487) è un'opera interessante dal punto di vista teatrale nonché letterario. Ma io intendo, in questo mio saggio, soffermarmi sulla scenografìa, anche perché due insigni critici, Antonia Tissoni Benvenuti e Nino Pirrotta, sono concordi nel riconoscere, per Γ allestimento scenico, la dipendenza di Cefalo (userò fin d'ora questa forma abbreviata) dalla Orphei Tragoedia, il cui autore è ancora sconosciuto (si fa il nome di Matteo Maria Boiardo). Come descritto nelle cronache ferraresi, il Cefalo fu rappresentato il 21 gennaio 1487, nella Corte del Palazzo Ducale di Ferrara, in occasione del matrimonio del Cav. Giulio Tassoni e di Ippolita, figlia di Niccolò Contrari e di Beatrice Rangoni. La rappresentazione durò dalle ventuno fino a mezzanotte ed avvenne nella Corte del Palazzo preparata appositamente con una tribuna di legno dipinta, la stessa che era stata allestita un anno prima per il Menaechmi. Le decorazioni erano d'oro e di velluto pregiato; tra gli atti si suonò musica con strumenti diversi. L'opera teatrale è composta di cinque atti; l'azione principale trae ispirazione dalle Metamorfosi di Ovidio sebbene Niccolò Da Correggio muti considerevolmente tutti i dettagli. Atto I. L'Aurora dichiara il suo amore a Cefalo ma, respinta, si vendica suscitando in Cefalo sospetti sulla propria moglie Procri. Per mettere alla prova la sua fedeltà, Cefalo si traveste da mercante, ed offre a Procri doni favolosi (le mele di Atalanta, l'olio di Tiresia, e lo scudo di Atena) in cambio dei suoi favori. Procri lo riconosce e fugge. Pieno di 28 rammarico Cefalo la segue. Atto IL Procri prega la dea Diana di accoglierla tra le sue caste ninfe. Diana acconsente e veste Procri come una vergine cacciatrice, fornita di giavellotto infallibile e del veloce cane da caccia Laelaps. Atto III. La coppia alla fine si riconcilia, e Procri dà a Cefalo il cane e la lancia come pegno del loro amore rinnovato. Cefalo allora esce per provare il nuovo equipaggiamento. Mentre lui è fuori, a caccia, un malizioso fauno, innamorato della donna, dice a Procri che Cefalo è stato chiamato dalla sua amata "Aurora." Atto IV. Ritornando dalla caccia, Cefalo affaticato, si rinfresca esponendosi alla brezza (Aura), e Procri che lo ha seguito, nascosta in un cespuglio, fa un rumore inavvertitamente. Cefalo lancia il giavellotto pensando si tratti di un animale selvatico, e ferisce mortalmente Procri. L'ultimo desiderio della donna è che Cefalo le rimanga fedele. Atto V. Artemide allora risuscita Procri e Galatea la riporta a Cefalo. Alla fine Diana ammonisce Procri di non essere più gelosa e la rappresentazione termina con una danza del coro delle ninfe. Dalle cronache del tempo (Ferrarmi, Zambotti e Caleffini) e dagli storici risulta chiaro che l'opera del Da Correggio fu un esperimento autonomo e indipendente dai volgarizzamenti plautini e terenziani, ma non ebbe il meritato successo a Ferrara, tanto è vero che il Duca Ercole d'Este ritornò subito a rappresentare, sulle sue scene, opere tratte da volgarizzamenti plautini. Nessuna fonte descrive l'allestimento scenico ma possiamo ricavare dal testo stesso e dalle didascalie dei due testimoni (una stampa veneziana, V, e un MS londinese Add, 16438, L, sui quali si basa il testo critico di Antonia Tissoni Benvenuti) notizie sulle necessità scenografiche. Era necessaria una sola casa, quella di Procri e Cefalo, con la finestra e la porta agibili perché Procri, nella seconda parte del Terzo Atto, dialoga stando alla finestra, ο forse si presenta già alla finestra, nel Primo Atto, un momento prima di scendere e parlare con il mercante. Indispensabile era pure un bosco che doveva rappresentare lo sfondo della scena e che sembra avesse anche la funzione di far entrare ed uscire i personaggi in modo naturale. Tanto più 29 indispensabile era un bosco nella scena del Quarto Atto quando Cefalo lancia il dardo in queste fronde credendo trattarsi di una fiera, e colpisce la moglie (che, quindi, non poteva essere vista da lui) e poi entra nel bosco e ne esce con la moglie morente sulle braccia. Anche per la costruzione della pira il bosco è funzionale: Calliope dice infatti che va a tagliare la selva (138-9). Ci troviamo quindi di fronte ad una scena simile a quelle previste per le favole satiresche nei trattati da Vitruvio all'Alberti ed a Pellegrino Prisciani. Antonia Tissoni Benvenuti ha studiato accuratamente il microfilm del MS londinese, Add. 16438, contenente le didascalie del Cefalo del Da Correggio e poi ha presentato una nuova edizione dell'opera con le didascalie del MS londinese e della stampa. Prima dell'egloga finale del Secondo Atto nella didascalia del MS londinese si legge: "Qui Cefalo e Procri intrati nel bosco sonando e cantando insieme e vien alcuni pastori fuori del bosco suonando e cantando la infrascritta egloga." Il bosco sembra quindi il luogo deputato per gli strumenti musicali e per i suonatori. Inoltre il fatto che anche Procri e Cefalo sono attori che cantano e suonano fa concludere che, a quel tempo, era abituale combinare pezzi drammatici con una sorta di suoni, sia come un intermezzo fra gli atti ο entro gli atti stessi qualora si adattasse il soggetto dell'opera. Atto Terzo, 153: "In questo mezo che lei dicea così da per lei, guardando per il bosco vide Cefalo che era stato a cercare il cane. Cefalo parla a Procri e dice." La didascalia della stampa veneziana offre qui, in aggiunta, qualche informazione interessante per gli strani strumenti musicali: "Qui esce el Fauno che accusò Cefalo, innamorato de Procri: vedendosi averli discordati insieme, chiama satiri e fauni cum strani e disusati instrumenti a lui; di quali alcuni in novi acti ballavan dixendo cusì"; e poi, nell'edizione della Benvenuti si parla di un altro boschetto dove entra Cefalo: "Intrando Cefalo in uno altro boscheto, Procri sì se asconde fra certe frasche ad audir quelo che Cefalo dicea [...]" (p. 242). Forse c'erano più boschi in scena? Oppure due boscaglie divise da una casa? Ο c'era una scena prospettica di case con il tempio di Diana e il bosco davanti a tutto movibile (come la nave per la scenografia del Menaechmi?). Le didascalie sono suggerimenti pratici variabili da (edizione ad edizione) rappresentazione all'altra secondo la sensibilità e differenza di coloro che le usavano, secondo la diversa mnemonica abilità degli attori, e secondo le variazioni, gli abbellimenti ed i tagli del regista. Le 30 didascalie sono indicazioni di regia perché il Cefalo poteva essere stato rappresentato più volte. L'eco dell'opera teatrale si ritrova a Milano, infatti, dove Bernardino Luini, un discepolo milanese di Leonardo Da Vinci, fece uso dell'opera di Da Correggio per le sue illustrazioni della storia di Cefalo e Procri nella casa di Girolamo Rabia (Lavin, p. 272). Così sarà stato abbastanza naturale per Girolamo Rabia e per Luini venire a conoscenza della novità del Da Correggio e rimanerne tanto entusiasti da usarla come illustrazione per la decorazione di soggetti mitologici nella casa di città del Rabia. Senza dubbio l'opera era nota a Milano, poiché il cronista Zambotti registra in maniera specifica, tra gli ospiti presenti alla produzione originale, due ambasciatori del Duca di Milano (p. 178). Ciò che sembra una novità, in senso teatrale, nel Cefalo del Da Correggio, è il sottolineare, nelle didascalie, il cambio di costume da parte degli attori. Con un aspetto mutato (si pensi per esempio ad un attore con la maschera), l'attore cambia personalità, gesti, intonazione di voce. Ci troviamo di fronte, quindi, con le didascalie del Cefalo, ad un primo abbozzo di canovaccio della Commedia dell'Arte. La doppia personalità di Procri: moglie casalinga e ninfa di Diana è sottolineata da un cambio di costume. Diana le dice: "vientene meco in questo ombroso speco / che da virginee vesti io vó vestirte" (II, 22-4) e la didascalia della stampa veneziana sottolinea che Diana veste Procri a guisa di ninfa del bosco; poi Cefalo, rappacificatosi con la moglie, vuole che riacquisti anche l'aspetto consueto: "Vien, ti rivesti degli usati panni" (III, 51). Questo non avviene e così è sottolineato il sacrilegio inavvertitamente compiuto dai due sposi e causa della morte di Procri: Procri stessa avverte di non essersi più cambiata d'abito: "El dovea seguitare; / in abito ο ancora de venetrice" (III, 72-3). Anche Cefalo cambia costume, prima travestito in un abito mercantesco (I, 80, 95) e poi vestendo oscuri panni per la morte di Procri (V, 49). I cronisti sottolineano infine la presenza di "soni de diversi instrumenti intermedii a li acti" (Zamboni) ma anche Cefalo e Procri, attori protagonisti, cantano e suonano secondo il MS londinese. In effetti abbiamo già notato come ogni atto si chiuda con un coro, sicuramente accompagnato da suoni di strumenti e da danze: non si tratta di intermezzi di argomento diverso, come capiterà dagli ultimi anni del secolo in avanti (cfr. la Danae del Taccone) ma di cori che 31 concludono l'azione di ogni atto e ne fanno parte (come nella tragedia classica greca, anche se qui si potrebbe più pensare alle tragedie di Seneca, perché Niccolò Da Correggio leggeva le tragedie di Seneca, cfr. Luzio-Renier, 1893, p. 264). Tali intermezzi si dovevano svolgere sul palcoscenico, secondo quanto dice Elena Povoledo in Li Due Orfei (p. 366). Anche se il Cefalo del Da Correggio ebbe il suo debutto a Ferrara e Niccolò era imparentato con gli Estensi, tuttavia l'ambiente culturale del barone Da Correggio fu probabilmente più milanese che ferrarese (la madre Beatrice viveva già a Milano fin dal 1454, avendo sposato Tristano Sforza in seconde nozze; poi, fin dal 1481, il duca di Milano, d'accordo con Beatrice, aveva investito ufficialmente Niccolò della Contea di Castellazzo nell'Alessandrino e lo fece parte dell'arma dei Visconti, concedendogli di portare il cognome (Luzio-Renier, p. 213). Niccolò Da Correggio partecipò inoltre a quella ambasceria del 1487 (cfr. Zambotti, p. 194) del duca di Milano diretta alla volta d'Ungheria allo scopo di far visita a Beatrice d'Aragona, moglie di Mattia Corvino, insieme ai musicisti Pietrobono e Johannes Martini (Cattin, p. 303). E se il background è milanese, a rigor di logica collegherei il Cefalo del Da Correggio all'omonimo Cefalo bolognese del 1475 (Bregoli-Russo, 1988, pp. 93-102), cioè a quel primo tentativo teatrale profano di Tommaso Beccadelli (parente di quell'Antonio Beccadelli esperto studioso delle commedie di Plauto), tanto più che l'ingegno che fa scendere dall'alto una colomba parlante si trova analogamente in entrambe le opere (Tissoni Benvenuti, p. 249, v. 213). Nel Cefalo del Da Correggio e nel Cefalo bolognese si rinvengono degli elementi in comune: 1) stesso titolo e trama. 2) Stessi elementi coreografici: il palco sopraelevato, la scena satiresca, la parte assegnata al cantare; l'ingegno che permette di far scendere dall'alto la colomba (Bregoli-Russo, 1988, p. 100) e la caccia (Tissoni Benvenuti, p. 249). 3) Il genere Fabula (l'opera bolognese finisce tragicamente mentre la ferrarese viene modificata con l'intervento divino di Diana (BregoliRusso, 1988, p. 93), una specie di deus ex machina come sarà l'Ausilio nel Timone del Boiardo (Bregoli-Russo, 1988, p. 368). 4) Allineerei con i due Cefali (Cefalo bolognese del 1475 — Cefalo del Da Correggio del 1487 e Rappresentazione allegorica bolognese del 1487) anche la rappresentazione allegorica, sempre avvenuta a Bologna 32 per le nozze di Lucrezia d'Este e Annibale Bentivoglio (entrambi presenti alla rappresentazione del Cefalo del Da Correggio, cfr. Zambotti, p. 178) per via della caccia che, nella rappresentazione di Bologna del 1487, è una danza di Diana e delle sue ninfe. 5) Il Cefalo bolognese ed il Cefalo del Da Correggio sono collegati perché rappresentati in onore, a distanza di 12 anni, dei matrimoni della stessa famiglia modenese dei Rangoni. Come tutta la poesia pastorale (la bucolica) del secolo quindicesimo (Rossi, pp. 165-7), anche il Cefalo del Da Correggio, come ambiente pastorale (pastori, fauni, satiri) presenta tre aspetti: a) entra nel Cefalo una corrente semplice, quotidiana e realistica (nel Primo Atto Aurora offre a Cefalo consigli triviali: "lassa toi panni e non parer marito / ma in forma di mercante ti provedi, / tentala cum toi doni, e vedrà/alora/si teco in un voler casta dimora," (vv. 37-40); il monologo della fante Circassa del Quarto Atto: "Vada in malora! / Tornarò a casa, e poi, se me adimanda, / — Non lo trovai, — dirò, — in alcuna banda — / Quante sono le donne a che i mariti / rompeno la fede, e pur nulla si sente! / Costui non falla, e a mille bei partiti / dato ha repulsa, onde forsi si pente, / Io per me già gli ho fatto mille inviti,/e tra le donne io son pur parisente! (vv. 14-22). b) la bucolica del Da Correggio è dramma quindi teatro. c) la bucolica del Cefalo è allegorica, cioè ha un significato simbolico. Il Cefalo del Da Correggio ha un significato chiaro, preciso, riportato dal cronista Zambotti: "E la concluxione per exemplo de le donne che non siano ziloxe de li loro mariti" (p. 178). Il messaggio morale dalla favola è espresso da Calliope nel Quarto Atto: "Così a voi done una doctrina sia / che riposo non sta cum gelosia" (vv. 211-13). Il cronista Ferrarmi, riportando l'avvenuta rappresentazione del Cefalo del Da Correggio, aggiunge: "Nota che [...] la illustrissima madama nostra di Ferrara non li fu a vederla recitare ma stette in Castel Vechio sua abitazione" (Coppo, pp. 45-6). Antonia Tissoni Benvenuti osserva: "Non voglio vedere in questo atteggiamento di Eleonora una ribellione femminista contro la proclamata morale della favola: ma forse fu proprio questo aspetto dello spettacolo aggiunto alla tristezza del funerale a decretarne la sfortuna" (p. 205). E qui è il caso di ricordare che Beatrice d'Este, figlia di Ercole ed Eleonora d'Este, si accingeva ad unirsi in matrimonio con Ludovico Sforza, il Moro, di Milano, quel Ludovico già unito more uxorio con la colta, raffinata, ma povera e non potente, Cecilia Gallerani. Quasi per Beatrice d'Este si adatterebbe il 33 consiglio di non essere gelosa e stare in pace. Dal Diario dello Zamboni si apprende che la rappresentazione del Cefalo del Da Correggio avvenne di notte "[...] che fu bel vedere e oldire" (p. 178). In altre parole sulla scena doveva esserci qualcosa di speciale da ammirare e sentire. Per il sentire possiamo ipotizzare i canti ed i suoni, ma per il vedere siamo ancora in una nebulosa. Chi fu il coreografo, lo scenografo, l'architetto della rappresentazione del Cefalo? L'unico documento esistente nell'Archivio di Stato di Milano, in data 15 maggio 1492 (quindi molto più tardi dell'anno di rappresentazione del Cefalo) è relativo alla consultazione del Bramante per le feste teatrali del figlio di Ludovico il Moro e Beatrice d'Este Sforza (Uzielli, p. 763). D'altra parte i disegni di Leonardo Da Vinci, relativi alla rappresentazione della Danae di Baldassarre Taccone, sono tardivi rispetto all'opera del Da Correggio. La Danae infatti fu rappresentata a Milano nel 1496 e in essa c'era il dispositivo (ingegno) speciale per il volo simulato. Ma, come dice giustamente Kate Steinitz (pp. 259 ss.) il problema del volo simulato era stato risolto dal Brunelleschi settant'anni prima con l'allestimento della festa dell'Annunciazione in S. Felice a Firenze nel 1426 circa. Il volo simulato, tramite colomba, appare nei due Cefali del Beccadelli (1475) e Da Correggio (1487). Ma in che cosa consistevano i meccanismi applicati da Leonardo per la Danae? Dice acutamente la Steinitz che, per la Danae, Leonardo seppe sincronizzare il movimento del volo agli effetti della luce e a quelli del suono. Ecco la novità. A tal proposito mi sorge alla mente una poesia in latino che dimostra l'impressione avuta da uno non ben identificato spettatore alla rappresentazione del Cefalo di Da Correggio: Undique spectandi studio venere remotis finitimisque locis gentes: comoedia magnis sumptibus et cultu cum renovata decore saepius his agitur: mira messenius arte dum loquitur superans reliquos aurora canendo cum cephalum mulcet lacrimas miserabilis anni dum movet et Procris populo de more canentes cum fauni in scena saliunt satyrique biformes ore nonos eduntque sonos cannaque palustri. Nunc ea mirantur populi: nunc fulgura mittit Juppiter et cunctis coelis spectantibus aula panditur [...] (MS Modenese Cod. Est. a. p. 7, 14 ed i versi sono di un certo Ludovico Carro, cfr. Pieri, p. 25). 34 Alla Corte di Ferrara presso cui furono educate sia Isabella che andava sposa al Gonzaga di Mantova, che Beatrice, futura moglie del Moro di Milano, il duca Ercole d'Este conduceva un'intensa opera di restituzione del teatro classico comprendente traduzioni dal greco e dal latino (Stefani, p. 74). Tale opera rispondeva non solo alle istanze edonistiche ma anche a quelle di prestigio della corte. Il teatro era un modo di fare politica non solo dimostrando la ricchezza e la potenza di una Corte, ma anche, poiché il teatro è una forma d'arte aperta al pubblico, dando una comunicazione, un avvertimento. Per quanto riguarda il nostro autore, Niccolò Da Correggio, noi non sappiamo molto di lui in senso politico. La studiosa Antonia Tissoni Benvenuti ha fatto tantissimo per mettere in evidenza la produzione poetica del Da Correggio. Ma, come dice e raccomanda Dionisotti, manca ancora un'opera sui coinvolgimenti politici del Da Correggio, opera che, da quanto posso intravvedere, potrebbe essere di ausilio per capire e risolvere tante incongruenze e contraddizioni in seno all'opera omnia del Da Correggio. 11 Da Correggio, secondo quanto dice Cattili (p. 295) era in ottimi rapporti con Isabella d'Este Gonzaga: esiste una lettera di Niccolò Da Correggio a Isabella in cui il poeta diceva di portare con sé la lira del Migliorotti perché Isabella aveva deciso d'imparare a suonarla. Nel 1481-82 Lorenzo Il Magnifico mandò al Duca di Milano, al seguito di Leonardo Da Vinci, Atalante Migliorotti poiché questi era l'unico esperto suonatore di lira (Uzielli, p. 54). Presso la corte milanese degli Sforza abbondavano gli strumenti musicali. Dice Malaguzzi Valeri: "La ridda di suonatori di liuto, di viola, di arpa, di cui fanno fede i documenti del tempo di Ludovico il Moro, varrebbe da sola a togliere ogni dubbio riguardo a questa ricchezza" (p. 253). Tanto è vero che c'era molta rivalità tra le varie Cappelle di musica delle corti vicine. Continua sempre il Malaguzzi Valeri: "Pur troppo l'anno della caduta del Moro fu anche l'ultimo della Cappella ducale. Mentre il compositore di barzellette più in vista, Bartolomeo Tromboncino, insieme a Baldassarre Castiglione, entrava in Milano il 6 ottobre 1499 a lato del Marchese di Mantova con il corteggio di Luigi XII venuto a soppiantare Ludovico nel dominio del Ducato, il Duca di Ferrara, ch'era nel numero, pensava di accaparrarsi i cantori della Corte sforzesca" (p. 253). Ma il Migliorotti non era solo un suonatore di lira al seguito di Leonardo Da Vinci, nell'Enciclopedia dello Spettacolo e nel DBIviene 35 chiamato anche architetto nonché attore. Sostiene Uzielli: "I veri direttori delle feste pubbliche erano Atalante Migliorotti e Zaffarano, cioè il bolognese Ercole Albergati, attore e architetto, meccanico e inventore d'ingegni, di congegni ed arredi" (p. 562). Nel 1484 Ludovio (il Moro) chiedeva l'Albergati al duca Ercole I, scrivendogli che lo voleva "per adoprarlo nella settimana santa a fare qualche rappresentazione essendo lui aptissimo"; nel 1487 (stesso anno della rappresentazione del Cefalo di Da Correggio) veniva adoperato da Giovanni Bentivoglio per le nozze di suo figlio Annibale con Lucrezia d'Este (p. 564). Al di fuori e al di sopra di ogni documentazione riguardante il teatro del tardo Quattrocento, penso che sia consigliabile giudicare ogni problematica entro un'ottica storico-politica. Do solo un esempio per comprovare quanto ho sostenuto: nel 1493 (maggio-giugno) Beatrice d'Este, moglie di Ludovico il Moro, si reca a Venezia. Alla fine del volume di Molmenti vengono riprodotte le lettere scritte da Beatrice al marito (pp. 588-95), lettere tutte descrittive di quell'apparato di visita alla Serenissima che, per gli addobbi, i banchetti, i cibi, i vestiti indossati dalla duchessa, risulta proprio una festa-teatro, secondo la definizione di Cruciani (pp. 5-9). Ma una piccola nota dello storico Giovanni Soranzo in Rendiconti dell'Istituto Lombardo (1960) offre un'altra spiegazione di quella visita a Venezia in cui Beatrice Visconti Sforza ebbe una delicata missione speciale politica. Dietro invito del Papa che si riteneva minacciato da Ferdinando d'Aragona, Re di Napoli, le signorie di Venezia e Milano erano state d'accordo di stipulare una lega (signorie e Papa) allo scopo di garantirsi vicendevolmente Γ integrità dei rispettivi territori da eventuali minacce (aprile 1493). Ludovico Sforza il Moro, benché alleato di Carlo VIII, Re di Francia, per mezzo di Beatrice sua moglie, in tutta segretezza, informava il Governo Veneto della spedizione che quello stava per intraprendere in Italia. Il Moro, preoccupato, chiedeva consiglio al Doge che, però diede prima officiosamente a Beatrice, e poi, ufficialmente, agli ambasciatori milanesi, una risposta evasiva. Il succo del discorso è questo: ogni mossa politica veniva, in quel tempo, accompagnata ο camuffata da manifestazioni festive e teatrali. Spesso i direttori teatrali, gli autori di opere teatrali e tutti gli addetti ai lavori teatrali subivano gli alti e bassi delle vicende politiche, diventando vittime d'ingiustizie e rivalità senza azzardare il caso che potessero trovarsi a volte in pericolo di vita. 36 Concludendo sento la necessità di insistere nel voler riguardare con questa ottica l'opera teatrale del Da Correggio e, forse, tutta la sua opera omnia! 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