“Fuoco del Sud” (di Lino Patruno)- anabasi risorgimentale nel Mezzogiorno d’Italia Casa delle Culture, Laino Borgo, 15 settembre 2011 L’Autore espone una controstoria del Risorgimento italiano vista dall’angolo degli sconfitti, degli annessi o se si preferisce degli occupati, dalla parte, di coloro che non scrivono la storia ma la subiscono, pagandone i prezzi sociali, etici e economici. Nel saggio è contenuta una messa di informazioni e fatti documentati che dimostrano come l’Unità d’Italia è stata una storia controversa e ambigua i cui protagonisti ne sono stati artefici consapevoli. È la frantumazione dei miti, il crollo della storiografia pedagogica che ha formato generazioni di italiani, un sussulto di verità negata come quelle pagine di vergogna “familiare” ipocritamente obliterate alla conoscenza. Ma la storia non è una sequenza di fatti, per quanto veri, come non è neppure una selezione di fatti opportunamente combinati per dimostrare una tesi. Allo stesso tempo la verità storica non è un’oggettività, un’ontologica registrazione di accadimenti di per sé capace di coglierne l’essenza funzionale, multiforme e umanamente plurale, com’è sfaccettata l’esistenza e l’azione dell’uomo. Dunque, non è agevole decontestualizzare il saggio di Patruno dal momento storico contemporaneo e dall’influenza volgarizzante della contrapposizione Nord-Sud dominata dalla propaganda leghista. Eppure la questione meridionale ha ricevuto almeno una duplice lettura, una gramsciana e l’altra crociana, la prima legata alla irrisolta questione agraria, la seconda alla malintesa applicazione dei principi liberali una volta scomparso Cavour. L’una e l’altra suppongono eventi storici mai accaduti le cui probabilità è difficoltoso valutare. Era ragionevole imputare alla classe politica l’indifferenza verso un’equa distribuzione delle terre quale causa del brigantaggio, quasi a riconoscere nelle classi meno abbienti uno “spirito rivoluzionario” esploso in una sorta di lotta armata ante litteram?, l’ipotesi è teoricamente plausibile ma non fa i conti con i secoli di feudalesimo con i quali il contado meridionale (e non soltanto) aveva convissuto pacificamente e rassegnato! Allo stesso modo, supporre che i dieci anni di liberalismo pronosticati da Cavour e mai realizzatisi per fare del Mezzogiorno un esempio di sviluppo è ipotesi plausibile, anche se a giudicare dall’azione dei continuatori della destra storica (Minghetti, Ricasoli, D’Azeglio, ecc.) tutto lascia pensare ad altro. Il saggio di Patruno è esplicativo della migliore tradizione dello storicismo crociano secondo il quale nessuno degli eventi accade per caso essendo l’esito di precise scelte: dunque anche il brigantaggio è da annoverare tra le scelte politiche del primo decennio di unità o se si preferisce di annessione. Napoleone III, il Papato, il Borbone esiliato o la questione agraria, le mancate riforme, fattori che insieme hanno scatenato una guerra civile. Ciò nonostante non può omettersi la considerazione che nell’analisi svolta con coerenza dall’Autore v’è un convitato di pietra, cioè la classe dirigente meridionale. Intendo per classe dirigente quella ristretta parte della società meridionale, all’epoca selezionata per censo, che prese parte attiva alle scelte del governo unitario torinese. Quella stessa classe dirigente che sul tema della questione meridionale versava in un palese conflitto di interessi giacché espressione del latifondo e della rendita parassitaria e che non ebbe se non il proprio interesse egoistico nell’orientare le vicende meridionali, compresa la violenta repressione del brigantaggio. Il rivoltamento della società meridionale postunitaria richiedeva una pacificazione sociale in termini di ricollocazione delle varie componenti dell’esercito e delle istituzioni pubbliche e private rimosse a causa dell’unificazione-annessione, questa fase riconciliativa fu mercanteggiata dalla classe dirigente meridionale per il proprio conto con il più bieco spirito di autoconservazione, il tutto ai danni di quanti si avventurarono nel brigantaggio perché già emarginati dal nuovo ordine sociale. Nello Stato unitario avrebbe dovuto operare una direzione inclusiva e invece ha varato una legge sullo stato d’assedio e gli ebeti della pseudoscienza hanno collezionato teschi per dimostrare l’attitudine naturale a delinquere dei briganti. Ma in tutto questo -con buona pace dei pochi noti- dov’era la classe dirigente meridionale? Come ha agito (semmai ha agito) per contrastare quanto accaduto? Perché la deputazione meridionale nel parlamento unitario non ha rivendicato -oltre alle indagini parlamentari- investimenti infrastrutturali piuttosto che contrattare la tolleranza nelle continue usurpazioni delle terre demaniali e civiche presenti nel Sud d’Italia? Domande retoriche ma con una valenza non soltanto storica perché il Mezzogiorno ha tuttora un problema di classe dirigente: al mutare del metodo selettivo -dal censo al consenso- è mutato il criterio usurpativo. Una classe dirigente presuppone una classe diretta e in questo rapporto circolare rinvenire il bandolo della matassa non è mai agevole se non fosse che la Classe Dirigente è tale non perché ne dirige un’altra (la quale spesso non ne ha di bisogno) ma per la responsabilità (politica) che assume verso le future generazioni. Veniamo ad oggi. Il federalismo strabico che si è e si sta varando non è un male in sé se non fosse che reclama l’affermazione di un principio scellerato: affermare il diritto di un popolo allo sviluppo anche a danno di un altro popolo. Questo principio è la negazione del federalismo come concetto, sebbene trovi il suo valido piedistallo in decenni di spesa pubblica (quindi di debito pubblico) scarsa di investimenti e di merito. Fenomeno non esclusivo del Mezzogiorno ma che il Nord Italia non tollera più in quanto la società manifatturiera della Padania è decotta e decadente a causa della concorrenza orientale. La già sviluppata capacità onnivora dell’area industrializzata del Paese perde il senso del limite dinanzi al disfacimento del sistema produttivo: assistiamo con la Lega alla decadenza dell’Impero e alla zampata del leone morente, alle fughe antietniche ed euroscettiche, alle ideologie neoprotezionistiche e alla instabilità dei mercati finanziari. L’apertura mondiale dei mercati trasforma un’economia di mercato in una società di mercato e l’argine a questo fenomeno non può essere apposto da un singolo Stato, figuriamoci dalla c.d. Padania. In sintesi se Atene piange Sparta non ride, e la catastrofe è tanto più nociva lì dove c’è più da perdere. Occorre fronteggiare l’onda lunga e potente dell’Oriente invasivo consapevoli che la fase comporta un rivolgimento socio economico che non risparmierà nessuno. Non che i destini individuali siano in discussione, ciascuno troverà la sua strada, i romani sopravvissero alla caduta dell’impero; ciò che è in discussione è un modello di società che per brevità chiameremo occidentale, in esso vi è un sistema di valori in crisi per la disgregazione della coesione sociale: lì dove non c’è coesione e considerazione dell’altro come di se stesso non c’è tenuta sociale. Non sarà né la Lega con il suo federalismo né un ritrovato spirito rivendicativo Meridionale a farci intravedere una via d’uscita dall’attuale condizione di crisi sociale e istituzionale. D’altra parte la questione meridionale oggi non è più soltanto una rivendicazione politica essendo già ampiamente riconosciuta tra le questioni meridionali d’Europa. È soltanto la scarsa consapevolezza e fiducia nell’Europa e i latenti nazionalismi separazionisti che non ci fanno beneficiare a pieno della soluzione proposta da anni dalle istituzioni europee per superare lo scarto di sviluppo delle aree con ritardi. L’esempio recente dei fondi FAS è sintomatico. In un recente scritto apparso su Mondoperaio ho provato a dimostrare che il Federalismo non è un destino ineluttabile. L’autonomia riconosciuta dalla Costituzione Italiana non è una conquista irreversibile ma un riconoscimento legato alla meritevolezza dell’amministrazione degli enti. Un ente che fa cattivo uso dell’autonomia nell’interesse della comunità di amministrati deve diminuire le caratteristiche autonomiche. L’ente pubblico in un economia di mercato è un soggetto del mercato che viene valutato per l’efficienza, efficacia ed economicità delle sue scelte. I ritardi anche nella spesa sono più dannosi di un adeguato debito pubblico che nel mercato è fisiologico. L’impresa ha bisogno di forti investimenti nella conoscenza, senza Know hau anche la piccola impresa non può reggere l’urto dei bassi costi dei paesi emergenti. Un neomeridionalismo senza la consapevolezza del mutevole contesto internazionale sarebbe inutile e dannoso, bisogna accogliere la sfida della modernità e del mercato e dimostrare le qualità, il buon gusto e l’effetto positivo dell’immaterialità nell’impresa italiana. Credo sia questo il senso più vero del saggio di Patruno: ritrovare l’orgoglio di essere Meridionali -io preferirei essere Mediterranei- in un Mondo materiale e quantitativo.