UNIVERSITA’ DI PAVIA Dipartimento di Ingegneria SINTESI PER LEZIONI DI ECONOMIA GENERALE (corso di economia e estimo) A cura di Mario Mora Anno Accademico 2006-2007 LEZIONI DI ECONOMIA Anno Accademico 2006/07 Premessa Lo studio della economia può fornire un nuovo modo di pensare in quanto combina gli aspetti positivi della politica e della scienza. L’economia è una vera scienza sociale che ha per oggetto la società e indaga sul modo in cui gli individui decidono di vivere la propria vita e su come interagiscono tra loro con un approccio assolutamente scientifico. Applicando il metodo scientifico ai dibattiti politici la teoria economica cerca di dare un contributo al progresso sulle questioni fondamentali in cui la società si confronta. Gli economisti hanno un modo particolare di guardare il mondo e questo modo può essere insegnato a tutti nelle sue idee fondamentali. Il metodo appreso poi serve a tutti, qualunque sia la professione che vorranno svolgere o la decisione politica di fondo a cui vorranno giungere in seguito; quindi in ogni corso di studio dovrebbe essere insegnata l’economia perché serve a completare le conoscenze di base dell’uomo nella sua vita di relazione. Certamente non è scienza così facile né particolarmente dilettevole se non si trovano gli spunti di interesse più stimolanti o se il docente non sa farsi ascoltare: è per questo che è opportuno fare continui parallelismi tra scienza teorica e vita quotidiana e non cadere nell’errore di dare “una grande teoria” a cui potrebbe seguire “una grande noia”. Poiché ci rivolgiamo a futuri tecnici che potranno operare, di norma, in aziende pubbliche o private o come liberi professionisti e quindi come imprenditori si cercherà anche di rapportare lo studio teorico alle esperienze di vita aziendale per rimanere il più possibile nell’attuale e nel concreto. Un primo approccio alla materia può partire da una tabella che riepiloga, in dieci punti, i princìpi cardine dell’economia i quali ritorneranno in ogni argomento di analisi economica che sarà successivamente affrontato. I termini “domanda e offerta”, “costo-opportunità”, margine, incentivi, scambio, efficienza, mercato, elasticità, concorrenza, inflazione, “costo della vita” espressi o impliciti nei princìpi sono strumenti basilari “per farsi capire”, sia dall’economista preparato sia da chi non fa dell’economia la propria scienza ma opera nel quotidiano come politico o anche come professionista, manager, quadro direttivo di imprese pubbliche o private, piccole, medie o grandi che siano. Questi termini ci introducono anche ad una distinzione più recente tra microeconomia e macroeconomia che ha voluto considerare in sezioni di studio diverse i fenomeni che possono spiegare il comportamento economico di singoli individui o imprese, di gruppi limitati o invece di intere collettività nazionali. Dopo secoli di attenzione analiticamente rivolta ai meccanismi di azione che influiscono sul comportamento di compratori e venditori, consumatori e produttori l’ottica è da qualche tempo particolarmente puntata sui fenomeni che indagano la ricchezza nazionale o la disoccupazione o l’inflazione o gli investimenti o il deficit pubblico perché portano a comprendere e spiegare non soltanto l’economia politica ma a determinare la politica economica di una nazione. Già in premessa riteniamo opportuno segnalare un elemento unificante e aggregante della scienza ossia quello che può essere chiamato il fondamento da cui partire per definire le caratteristiche delle variabili che si incontreranno : esistono quindi dei Principi fondamentali dell’Economia Nelle diversità teoriche che distinguono profondamente le varie scuole di pensiero economico nei principali Paesi e anche gli stessi economisti che pure in esse si riconoscono, alcuni principi generali sembrano infatti restare consolidati ed essere condivisi come fossero un decalogo di valore assoluto : 1) OGNUNO DEVE AFFRONTARE SCELTE ALTERNATIVE 2) IL COSTO DI UN BENE O SERVIZIO CORRISPONDE ALLA RINUNCIA DI AVERNE ALTRI 3) LE DECISIONI RAZIONALI METTONO A CONFRONTO LE VARIAZIONI “MARGINALI” 4) GLI INCENTIVI CAUSANO VARIAZIONI AI COMPORTAMENTI INDIVIDUALI 5) GLI SCAMBI EFFETTUANO PORTANO VANTAGGI A TUTTE LE PARTI CHE LI 6) IL MERCATO E’ UN EFFICACE STRUMENTO ORGANIZZATIVO 7) L’INTERVENTO DELLO STATO PUO’ MIGLIORARE L’EFFICIENZA O L’EQUITA’ DEL SISTEMA 8) LA RICCHEZZA O IL BENESSERE DI UN PAESE DIPENDONO DALLA SUA CAPACITA’ DI PRODURRE BENI E SERVIZI 9) I PREZZI AUMENTANO IN RAPPORTO ALLA QUANTITA’ DI MONETA STAMPATA DALLO STATO 10)INFLAZIONE E DISOCCUPAZIONE POSSONO ESSERE IN ANTAGONISMO Avremo tutte le lezioni a disposizione per ragionare su questi punti; per ora rileviamo soltanto che i primi quattro princìpi si riferiscono essenzialmente ai singoli individui nell’atto di prendere decisioni economiche, i successivi tre al rapporto che si crea tra individui per effetto dell’azione economica e infine gli ultimi tre al funzionamento dei sistemi economici complessivi in un paese. Si potrebbe anche dire che i due primi gruppi di princìpi (punti 1-7) sono oggetto della microeconomia e l’ultimo gruppo della macroeconomia (punti 8-10). Generalità Perché gli individui decidono di intraprendere determinate attività economiche ossia la produzione e lo scambio di beni e servizi? Perché la gente è differente ! People are different aveva scritto un docente che tentava di proporre una risposta ai quesiti basilari su cui si fonda l’economia, ossia perché si sente il bisogno di intraprendere le diverse attività economiche ottenendo benefici reciproci e come avviene lo scambio di beni e servizi ? Se i soggetti fossero identici per preferenze, risorse e capacità ci sarebbero ben pochi spazi per dar vita a produzione e commercio. La diversità porta all’esistenza di convenienze a mettere in atto uno scambio che possa produrre vantaggi per tutti i soggetti che partecipano all’attività. Ciascun soggetto è differente e solo la necessità di avere un metodo di studio del comportamento induce a formare delle categorie di soggetti che, pur diverse tra di loro e nel loro interno, mantengono una linea di tendenza assimilabile. L’oggetto dell’economia è stato spesso definito “non esatto” come si usa invece dire per le scienze naturali; infatti l’economia non è considerata scienza naturale ma scienza sociale. Si tratta tuttavia di vera scienza perché usa metodi scientifici assimilabili a quelli usati dalla fisica, dalla biologia o dall’astronomia e procede nelle sue affermazioni passando attraverso l’osservazione, l’ipotesi, la verifica e la teorizzazione : con un difficoltà in più e cioè l’ostacolo della sperimentazione non ripetibile a volontà in laboratorio. L’economia contiene numerose, troppe variabili da considerare al punto che, per studiarla, si ricorre alla condizione coeteris paribus (e cioè a parità di altre condizioni) tenendo quindi ferme alternativamente alcune grandezze o limitando il numero delle variabili utilizzate, con le conseguenti maggiori difficoltà interpretative dei fenomeni da valutare che possono portare a diverse e anche opposte proposte di intervento per le eventuali modifiche da suggerire al sistema. Tra le molteplici variabili economiche significative da considerare vi è anche il comportamento umano, per sua natura spesso incoerente e imprevedibile. Due filoni diversi distinguono le principali teorie economiche e le differenziano perché, o seguono prevalentemente i fenomeni della produzione/industria (scuola classica e keynesiana) oppure privilegiano quelli dello scambio/commercio (scuola marginalista e neoclassica). Notoriamente il commercio è attività che risale alle prime civiltà conosciute ma si può considerare fenomeno sociale davvero rilevante solo a partire dalla fine del primo millennio; l’industria si concretizza invece soltanto nel diciottesimo secolo e presuppone un significativo sviluppo già maturato nelle fasi dei rapporti commerciali di scambio e dell’utilizzo dei mezzi di trasporto. Nel periodo temporale precedente l’industrializzazione l’economia era prevalentemente autarchica e propria, di norma, di spazi geografici limitati, basata sui prodotti della natura (minerali, legname, agricoltura, pesca), i soli ad essere scambiati nonostante la complessità di dover combinare le transazioni con altri prodotti da barattare, non essendo ancora di uso generalizzato la moneta. Nella fase storica propria dell’industria, prese coscienza la nuova idea di un possibile progresso continuo dell’umanità con incremento della ricchezza individuale e collettiva illimitato in relazione alla scoperta “riproducibilità” di beni o di nuovi beni in un numero indefinito di esemplari. Significative le differenze esistenti tra le due teorie anche per altri aspetti relativi all’accumulazione di scorte, alla nascita di classi sociali contrapposte all’individualismo, all’integrazione produttiva verticale ed orizzontale, al ruolo della domanda e dell’offerta, al tipo di mercato, alla dinamica dei processi innovativi sostitutiva del precedente conservatorismo puramente replicativo. Sono almeno tre gli ambiti principali coinvolti nell’esame dei sistemi economici moderni e ognuno di questi potrebbe fungere da base per dare una differente definizione di economia politica, a seconda dell’accentuazione che si voglia dare all’importanza di ciascuno: - quello dei fattori produttivi utilizzati (materie/terra/natura/ambiente, lavoro, capitale/tecnologia) - quello delle classi sociali coinvolte nei processi (gruppi di potere, enti pubblici o privati, portatori di interessi) - quello del mercato in cui si agisce come espressione della tipologia di governo al potere (concorrenza/ /monopolio, politica fiscale, politica monetaria). Origine della scienza Al di là della pacifica derivazione del significato dei termini economia o economia politica dal greco oikos , nomos e polis (buon governo della casa o della città) pochi altri tratti definitori accomunano il pensiero degli studiosi circa il campo che deve essere oggetto di interesse della scienza economica (ma sotto questo aspetto è in buona compagnia perché ormai poche scienze hanno definizioni univoche e concordi). L’economia è sicuramente “lo studio di come una società (famiglia, impresa o ente pubblico ) crea e gestisce le proprie scarse risorse”; ma, a fare una significativa differenza, è la dimensione numerica diversa che porta la famiglia a una decisione sufficientemente rapida perché può avere una pianificazione agevole, mentre una azienda o un Ente (Comune, Provincia, Regione o Stato) devono fare i conti, sempre più complessi, con un’azione combinata di una molteplicità di soggetti. Per scienze relativamente recenti o in forte evoluzione o sotto continua osservazione diventa ancora più difficile trovare consensi terminologici univoci che sarebbero invece desiderabili in linea teorica, per la chiarezza di indirizzo che potrebbero dare ma che, nella pratica, non risultano comunque indispensabili. A fornire una definizione meno generica di economia, sono quindi le diverse scuole di pensiero che accentuano i loro studi su differenti aspetti, ora del reddito (scuola classica), ora del bisogno (marginalisti), oppure dell’intervento pubblico (macroeconomia keynesiana) o infine della crescita e sviluppo (neoclassici). Certamente tutte le teorie devono considerare almeno tre aspetti influenzanti la vita economica e sociale: - la produzione di beni e servizi (fonti e tipo dei fattori produttivi, tecnologia di trasformazione, nuovi prodotti); - la distribuzione (sistemi di trasporto, conservazione nel tempo, leggi e regolamenti, forme di mercato, reddito); - il consumo (diverse qualità del prodotto, quantità richieste, prezzi, forme di pagamento, reddito disponibile) Allo stesso modo nessuna Scuola può trascurare di considerare, in via più o meno rilevante, la limitatezza di risorse disponibili (in particolare la scuola marginalista), la produttività decrescente dei fattori (ancora la scuola marginalista), la relazione tra prezzi e redditi (scuola classica), i tassi di crescita effettivi o previsti della popolazione (scuola classica malthusiana), la volontà politica incidente sulle forme di mercato e sul ruolo dell’intervento regolatore dell’ente pubblico (scuola keynesiana), la propensione al risparmio della popolazione (scuole neoclassiche). Particolare rilievo viene dato da tutte le scuole alla definizione e ai contenuti dei fattori produttivi proprio perché sono all’origine della scienza economica e ne costituiscono l’essenza fondamentale. Terra, Lavoro e Capitale, spiegati nei loro contenuti di risorse ambientali/energetiche, umane e di accumulo di risparmio sono elementi costitutivi indispensabili per pervenire ai processi di produzione, distribuzione e consumo di beni economici delle varie tipologie, a loro volta richiesti per soddisfare bisogni di diversa natura e urgenza. Una delle ultime distinzioni inserite tra i campi di indagine della scienza economica è stata quella tra macroeconomia e microeconomia per differenziare gli studi relativi alle variabili aggregate a livello nazionale (prezzi, inflazione, consumi, investimenti, prodotto interno, reddito complessivo, disoccupazione, tassi bancari) da quelli rivolti verso il comportamento e le scelte individuali o imprenditoriali, sia pure di aziende di dimensioni gigantesche, come nel caso di multinazionali (teorie del consumatore, del produttore, dei mercati, dei valori marginali). Tuttavia, i punti di contatto tra le due branche della teoria economica sono molti, perché da una definizione deriva l’altra o si giustifica l’altra in quanto gli individui singoli costituiscono poi anche un aggregato (il mercato) e quindi l’intera nazione o un largo comprensorio e, se è pure vero che il comportamento collettivo può essere diverso dalla semplice somma di tanti comportamenti individuali, è altrettanto vero che i fenomeni, per essere capiti, devono essere studiati nel dettaglio singolo e poi semmai adattati al collettivo attraverso modelli economici a loro volta non assoluti né esclusivi. I principi che uniscono gli economisti Il decalogo indicato in premessa di questo testo ci consente di riflettere su un contenuto minimale di princìpi che non trova divisi gli studiosi della materia. Si tratta di basi semplici da cui partire per riflettere su questioni che diventeranno in seguito ben più complesse e che determineranno invece prese di posizione diverse e anche opposte sulle soluzioni da adottare: 1) Ognuno deve affrontare scelte alternative Le risorse di una comunità oppure di ciascun individuo sono limitate. Si tratti di quantità di beni, di denaro o di tempo, non è pensabile ad una mancanza di limiti; da qui deriva la necessità di rinuncia a qualcosa e di scelta tra alcune alternative. Il costo per il cibo, l’alloggio, l’abbigliamento, il divertimento sono, almeno parzialmente, in alternativa tra loro in quantità e qualità per qualsiasi famiglia. Il costo per l’istruzione, la difesa, il reddito, il welfare, l’ambiente, la fiscalità sono parzialmente in alternativa tra loro in quantità e qualità per qualsiasi Stato. Allo stesso modo sono parzialmente alternative tra loro l’efficienza (il massimo risultato possibile) e l’equità (la suddivisione dei benefici in parti uguali tra tutti i componenti della società umana) e si impone una scelta sulla dimensione della torta complessiva da suddividere e sull’ampiezza delle fette di torta da distribuire alle diverse categorie di individui. 2) Il costo di un bene o servizio corrisponde alla rinuncia di averne altri Quando si deve operare una scelta è necessario confrontare costi e benefici di ogni alternativa e la determinazione di questi elementi positivi e negativi non è né scontata, né agevole. L’utilità o il sacrificio (in particolare se ci riferiamo al tempo da impegnare o al denaro da spendere) sono valori in parte soggettivi e in parte riferiti a momenti futuri con incerta possibilità di verifica. Poiché per acquisire un bene ognuno deve rinunciare ad un altro, automaticamente si definisce che il costo di un bene corrisponde al valore del sacrificio a cui si deve sottostare per averlo. E’ questo il costo-opportunità e cioè ciò a cui si deve rinunciare per avere un altro bene o servizio. Se pensiamo al caso di uno studente che riesce bene in uno sport e potrebbe farlo in modo professionistico, il costo-opportunità è dato dal confronto tra la perdita di guadagno a cui andrebbe incontro inizialmente se decidesse di fare l’insegnante o il progettista o il dirigente di azienda anziché continuare la carriera sportiva e il vantaggio economico di avere un’attività più certa e più duratura nel tempo. Da qui la scelta necessaria e alternativa tra l’una o l’altra strada con i relativi costi e benefici. 3) Le decisioni razionali mettono a confronto le variazioni “marginali” Gli economisti, nelle loro dimostrazioni sul comportamento di alcune variabili, devono ragionare spesso “al limite” ossia “al margine” delle situazioni. Questo modo di procedere ha dato il nome ad una Scuola di economisti, i marginalisti, assai attiva tra fine ottocento e primi del novecento. Le variazioni marginali consistono nei cambiamenti incrementali o decrementali ovvero negli aggiustamenti che possono avvenire ai limiti di un processo che si vuol esaminare. Il campo di azione delle decisioni quotidiane non prende in considerazione solo i limiti estremi, il bianco o il nero, il tutto o il niente, ma l’intera gamma che intercorre tra inizio e fine di un fenomeno: la decisione migliore si individua tuttavia ragionando al margine ossia in un δt posto appena prima o dopo il punto precedentemente toccato. I costi e i benefici di un anno in più di scuola, di un’ora in più di lavoro, di un chilo di produzione in più, di un passeggero in più su una linea aerea vanno ragionati al margine, ossia proprio per quell’ “in più” e si potrà affermare, in certe condizioni, che una azione verrà compiuta solo se e quando il beneficio marginale supera il costo marginale. 4)Gli incentivi causano variazioni ai comportamenti individuali Il principio del confronto “costo-beneficio” visto sopra, implica la possibilità di cambiamento nel comportamento al variare della componente “costo” o della componente “beneficio”. Se prendiamo in considerazione il prezzo di beni alternativi tra loro (tipo di frutta, di abbigliamento, di automobili, di lavoro, ecc.) si comprende subito come un incentivo, ossia un beneficio supplementare, possa far modificare una decisione precedente. Ad esempio, una proposta di incremento degli stipendi per persone pensionabili potrebbe far mutare la decisione di andare in pensione e continuare invece a lavorare per altri periodi di tempo; oppure, a fronte di riduzione di prezzi del gasolio rispetto alla benzina, molti possono pensare di passare ad automobili con motore diesel (beneficio sul gasolio); e ancora, con percentuali elevate di maggiorazione sulla paga per straordinari molti accettano di fare lavoro supplementare; con vantaggi sui tassi per mutui molti possono decidere di acquistare o costruire case invece di pagare un affitto; con premi economici per riduzione di emissioni ambientali dannose molte industrie accettano di introdurre apparecchiature meno inquinanti anche se più costose. Anziché pensare ad incentivi positivi si può ragionare anche sul loro contrario e cioè a penalizzazioni (contravvenzioni, gravami di costo, perdita di licenze) perchè, allo stesso modo dei premi, anche queste inducono cambiamenti al comportamento, confermando che gli individui sono comunque sensibili alle sollecitazioni economiche che portano a variazioni di costi o benefici. 5)Gli scambi portano vantaggi a tutte le parti che li effettuano Nella competizione commerciale tra nazioni o tra imprese che trattano prodotti differenti non avviene quello che può accadere per un evento sportivo in cui quando un atleta vince l’altro inevitabilmente perde. Al contrario, negli scambi commerciali entrambe le parti possono vincere, ossia ogni soggetto può ricavare benefici ricevendo o consegnando all’altra parte i beni in cui risulta più (o, viceversa, meno) competitiva per prezzo o qualità. Il vantaggio o lo svantaggio non è mai un valore assoluto ma sempre una comparazione tra valori relativi. A nessuno conviene produrre “ogni bene o servizio”, né alle diverse nazioni e neppure ai singoli individui; conviene invece dedicarsi soltanto ai beni nella cui produzione si riesce ad essere più efficienti e in cui continuando a specializzarsi e ad ottenere economie di scala si riuscirà ad essere più competitivi, abbandonando viceversa la produzione di beni o servizi in cui si è, relativamente ai competitori, meno positivi. L’autarchia porta all’isolazionismo, alla perdita di varietà di beni di cui godere, alla bassa qualità, alla minore capacità innovativa, al maggior costo e ai maggiori prezzi di mercato. Scambio non vuol dire rinunciare a produrre una determinata gamma di beni o servizi, né restringere in assoluto la propria attività e il proprio volume di attività creando disoccupazione bensì volgere il proprio impegno ad aumentare la produzione in cui si eccelle per condizioni di clima (agricoltura), di esperienza (tradizioni artigianali), di tecnologia (ricerca scientifica), di costo (fattori di produzione e di produttività) e cedere questi beni a chi offre, a condizioni più vantaggiose di costoopportunità, altri beni in cui, per carenze e diversità di clima, di esperienza, di tecnologia, di costo si difetta . Attraverso la specializzazione e lo scambio dei beni prodotti da ciascun imprenditore, i consumatori vengono a beneficiare in termini di prezzo e di qualità dei prodotti e i produttori ottengono maggiori quantitativi venduti, costi di produzione inferiori e spinte ad innovazioni tecnologiche. 6) Il mercato è un efficace strumento organizzativo L’economia di mercato è un sistema nel quale le risorse vengono allocate attraverso le decisioni decentrate e indipendenti di una molteplicità di soggetti che interagiscono in modo anche casuale per acquistare e vendere beni e servizi. Dopo l’esperienza del comunismo che aveva ritenuto, nella forma più ortodossa, di poter pianificare tipi, quantità e prezzi di tutti i beni, la generalità dei paesi ha ormai abbandonato l’idea di una pianificazione di governo assoluta e centralizzata. L’idea cardine di una guida dal centro che aveva illuso masse imponenti di persone è tramontata, sostituita dal convincimento che siano più efficaci (anche se non esenti da difetti) moltissime, libere decisioni individuali assunte da imprese e individui in modo autonomo. La singolarità che si constata in questo mercato aperto è quella di riuscire a far beneficiare tutte le parti (e quindi la collettività nel suo complesso) di vantaggi che nessuno dei singoli si pone come proprio fine sociale specifico; ciascun agente ha di mira il proprio interesse individuale ma in questa ottica egoistica, senza volerlo, si perviene anche al benessere economico collettivo e ciò attraverso la spinta organizzativa data all’attività economica dal mercato concorrenziale. Sembra esservi una “mano invisibile” (vedi gli studi di Adam Smith) che conduce il sistema al miglior risultato possibile utilizzando lo strumento del prezzo che porta all’ottimizzazione organizzativa per resistere all’urto implacabile delle rivalità di mercato. 7) L’intervento dello Stato può migliorare l’efficienza o l’equità del sistema Se la pianificazione centralizzata statale di derivazione comunista ha fallito a favore del sistema di mercato libero, ciò non vuol dire che lo Stato non debba intervenire assolutamente sull’economia. In particolare l’inserimento dello Stato tra le parti in causa può aiutare per favorire l’efficienza (il massimo risultato possibile) e l’equità (una giusta suddivisione dei benefici tra i cittadini) nel sistema socio-economico complessivo. In particolare, lo Stato è chiamato a intervenire sulle “esternalità” cioè sugli effetti negativi che alcuni attori del libero mercato possono causare a soggetti estranei allo scambio diretto produttoreconsumatore. In questi casi, il danno non viene pagato dalle parti in causa e il prezzo non comprende questa variabile: è cioè esterno al sistema domanda-offerta. Il caso classico esemplificativo cui riferirsi è dato da possibili inquinamenti dovuti a reflui dannosi, liquidi o aerei, liberati da alcune industrie che possono danneggiare una collettività senza pagarne le conseguenze se lo Stato non ponesse leggi o tasse pecuniarie a carico degli inquinatori. Un altro caso di riconosciuto beneficio nell’intervento statale è dato dai vincoli posti contro i monopòli, ossia situazioni di mercato che, se non disciplinate da leggi, distorcono il sistema di libera concorrenza alterando indebitamente i prezzi o limitando artificiosamente la quantità di beni offerti con perdite secche per la collettività. Il mercato libero (e quindi senza regole) soffre e mostra i suoi limiti nella sua capacità di distribuire equamente la ricchezza poiché remunera i soggetti in base alla rispettiva capacità produttiva e non in base ai singoli bisogni; lo Stato può migliorare i risultati complessivi di equità talvolta anche a scapito della massima efficienza in un’ottica più solidaristica. 8)La ricchezza o il benessere di un paese dipendono dalla sua capacità di produrre beni e servizi Le differenze di reddito e di tenore di vita degli abitanti confrontando le diverse nazioni sono enormi toccando moltiplicatori anche di dieci o cento volte maggiori dell’uno rispetto all’altro (si può passare, nei casi estremi, da 300 a 30.000 dollari di reddito annuo per abitante) determinando condizioni di estrema povertà per certe popolazioni o di grande e capricciosa opulenza per altre. Queste differenze sono fondamentalmente da collegare ad una diversa produttività ossia ad una diversa quantità di beni e servizi prodotti da un soggetto in una unità di tempo. Quando gli individui di un paese riescono ad ottenere alta produttività, il tenore medio di vita in quel paese è elevato : c’è ricchezza e benessere. Questo perchè l’alta produttività matura in un contesto di circostanze favorevoli che richiedono capitali e conoscenze; non solo quindi una particolare abilità manuale del singolo (si tratterebbe in questo caso solo di un fenomeno isolato e limitato, quasi un atto artistico), ma un insieme ben equilibrato e organizzato di tecnologia, attrezzature, infrastrutture, trasporti, clima, istruzione, risparmio, sicurezza, equilibrio di bilancio e governabilità politica. 9)I prezzi aumentano in rapporto alla quantità di moneta stampata dallo Stato L’aumento generalizzato dei prezzi nel sistema economico di un paese si definisce inflazione. Il fenomeno è uno dei più frequenti ed interessanti studiati dalla macroeconomia e vedremo come le sue origini siano collegate ad una numerosissima tipologia di variabili : l’andamento della domanda e della offerta di beni, l’aumento dei costi dei fattori di produzione, le imperfezioni di mercato collegate con regimi di monopolio, l’andamento del debito pubblico, il disavanzo commerciale. Tuttavia, la causa fondamentale dell’inflazione è individuata direttamente o indirettamente nella crescita della quantità di moneta in circolazione. E’ lo Stato quindi (e per esso la sua banca centrale deputata a stampare moneta) ad avere in mano la leva dell’inflazione e dei suoi conseguenti effetti negativi. A suo tempo vedremo comunque che, anche dopo aver individuato le cause dell’aumento dei prezzi, la soluzione apparentemente semplice per contenerla e governarla è tutt’altro che facile da applicare . 10) Inflazione e disoccupazione possono essere in antagonismo Individuate le cause dell’inflazione (ad esempio l’eccessiva circolazione monetaria) e riconosciuta la nocività del fenomeno sembrerebbe ragionevole combatterla rapidamente e aspramente. Ad ostacolare il processo di intervento di risanamento vi è la convinzione diffusa che una riduzione forte e repentina dell’inflazione (collegata certamente ad una eccessiva spesa pubblica e quindi ad un crescente indebitamento dello Stato fronteggiato da emissione di nuova moneta) possa provocare un aumento della disoccupazione secondo una relazione studiata da Phillips e rappresentata da una curva di relazione inversa tra i due fenomeni macroeconomici di rilevante impatto sociale. Nel breve periodo non sembra esservi dubbio sulla veridicità della relazione mentre nel mediolungo termine il fenomeno si attenua o addirittura si potrebbe invertire. La politica ha tuttavia le sue esigenze elettorali e pochi governi sono in grado di affrontare due-tre anni di forti difficoltà occupazionali derivanti dall’esigenza di contrarre la spesa pubblica per ridurre la circolazione monetaria e, di conseguenza, l’inflazione. Durante questo periodo di riduzioni di spesa infatti saranno in molti a soffrire tagli occupazionali che riguarderanno sia gli impiegati statali (ministeriali, insegnanti, enti previdenziali), sia il settore privato collegato alle grandi opere pubbliche (appalti, servizi trasporto, commesse di investimento) e sia, indirettamente, tutta l’economia per la sfasatura riduttiva consumistica che provoca con la riduzione dei redditi complessivamente distribuiti. La strada più percorribile (anche se penalizzante rispetto ad una soluzione più crudele ma più rapida) per ragioni di politica economica e di governabilità è quella di una applicazione graduale delle misure da adottare che possa far sopportare meglio al sistema i contraccolpi della disoccupazione anche se a fronte di una riduzione più lenta dell’inflazione e dei danni che la stessa provoca. Le grandi scuole di pensiero L’inizio ufficiale degli studi razionali della scienza economia si fa risalire allo scozzese Adam Smith con l’opera basilare del 1776 “Indagine sulla natura e cause della ricchezza delle Nazioni” (convenzionalmente, l’anno di nascita dell’economia politica) in cui venivano enunciati principi interpretativi di eventi economici che si discostavano dalla semplice descrizione dei fatti ( come fino ad allora attuato) per passare invece a formulare teorie che interpretavano e disciplinavano le attività economiche, allora prevalentemente agricole, in un tempo che cominciava a conoscere il cambiamento verso l’industrializzazione e il massiccio impiego di capitali di terzi anonimi e che introduceva variabili fino ad allora non considerate. Adam Smith, seguito dall’inglese David Ricardo e poi dal tedesco Karl Marx operarono nell’arco di un secolo (1770-1870) per porre le basi fondamentali della nuova scienza e possono essere considerati i massimi esponenti di quella che sarà definita la scuola classica, la quale ha posto tra i requisiti fondamentali della scienza economica, in tempi successivi, dapprima gli studi dell’andamento della domanda e offerta delle merci, poi del valore della produzione e quindi il problema della più equa distribuzione del prodotto tra le diverse classi sociali. I successivi 60 anni (dal 1870 a circa il 1930) sono caratterizzati da studiosi della scuola marginalista con filoni attivi e distinti in U.S.A. (Fisher), Svizzera (Pareto), Austria (Menger e von Bohm-Bawerk), Inghilterra (Jevon) e Italia (Pantaleoni). La chiara derivazione del nome della scuola marginalista, già indica una caratteristica tipica della linea seguita dagli studiosi che ne facevano parte e che li portava ad avere un interesse rigoroso per l’uso della matematica applicata alle variazioni marginali delle grandezze nella ricerca di leggi economiche rivolte quasi esclusivamente al settore della libera concorrenza che “inevitabilmente” (a loro dire) doveva affermarsi con la forza del mercato e dell’iniziativa individuale, fino ad annullare automaticamente gli eccessi di profitti, a compensare perfettamente produzioni con consumi, beni con bisogni e a regolare il pieno impiego della forza lavoro. Il tutto in ossequio ai principi dell’armonia matematica e dell’equilibrio universale e che considerava semplici “incidenti di percorso” le disarmonie del breve termine quali i monopòli, gli stock di giacenze invendute e la disoccupazione perchè i differenziali di domanda o offerta, le derivate delle curve di quantità e prezzi avrebbero rapidamente e automaticamente riportato il sistema nel giusto solco di equilibrio previsto dalla scienza esatta per eccellenza: la matematica. Tanti, economisti e non, ricordano e paventano gli eventi che nel 1929 e per oltre sette anni (anche se sono ormai passati più di settant’anni ritornano periodicamente segnali economici che devono servire a far richiamare l’attenzione dei governanti sulle esperienze negative allora passate per evitare la ripetizione delle conseguenze) portarono ad una grande crisi che attanagliò l’economia dell’intero mondo industriale senza che le teorie marginaliste sugli equilibri automatici potessero dare spiegazioni ragionate o fornire soluzioni collegabili alla forza del mercato della libera concorrenza. Servì invece la svolta proposta dall’inglese John Maynard Keynes e incentrata sull’intervento dello Stato come appaltatore di grandi opere pubbliche che doveva portare, oltre che un incremento dei redditi per i nuovi occupati direttamente nei lavori pubblici che si andavano ad avviare, anche una forza indiretta moltiplicatrice, sull’indotto conseguente e, subito dopo, al riaccendersi della spesa per consumi fino ad attuare un circolo virtuoso che poteva contenere la chiave di volta per superare la crisi e portare ad un nuovo periodo di sviluppo. Dal nome dell’economista, diventato famosissimo e tuttora frequentemente citato in ogni contingenza economica critica, nacque la terza scuola, propriamente denominata “keynesiana” o inglese (Cambridge), ufficialmente datata dalla pubblicazione nel 1936 dell’opera principale “Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta” e che segnò indelebilmente il new deal del presidente americano Roosvelt con principi trasferiti poi in ogni economia moderna e caratterizzati dall’intervento delle autorità di governo sulla politica economica per mezzo di azioni regolatrici di sostegno della domanda oltre che di variazioni di tassi di interesse della moneta. Il mercato di libera concorrenza perfetta, pur ancora apprezzato e da porre come obiettivo economico ideale, non restava più l’unico considerato, visto che da solo non riusciva a correggere automaticamente la realtà che continuava invece a registrare una anomala presenza contestuale di monopòli, oligopoli, mercati di concorrenza imperfetta, disoccupazione, inflazione e tassi monetari, spesso fuori controllo. Si andava verso un mercato misto pubblico-privato con pesi variegati attribuiti alle due parti economiche. Alla morte di Keynes, nel 1946 la scuola continuò ad esser un faro importante per almeno altri 20 anni con discepoli vivacissimi che operavano nelle più famose università americane e resta tuttora uno dei punti di riferimento di governi e politiche delle maggiori economie mondiali. Con la fine della seconda guerra mondiale e con i giganteschi problemi economici conseguenti alle immense distruzioni e alle necessarie ricostruzioni fisiche e morali dei paesi coinvolti, molti aspetti dottrinari e pratici intervennero per fornire visioni nuove e molto più complesse anche per le profonde modifiche intervenute nella pubblica opinione circa la percezione dei bisogni, delle aspettative, della sussidiarietà, della condivisione solidaristica delle risorse a livello mondiale, delle influenze sovranazionali delle azioni umane che puntavano a rompere il circolo perverso della povertà diffusa. L’implicazione più diretta e diffusa di queste nuove situazioni è stata la necessità di programmazione che non lasciava più spazi alla superficialità creativa e all’improvvisazione nella scelta dei rimedi. Le maggiori economie, sia di stampo socialista che liberista o occidentale (con tutte le varianti implicite di economie guidate o sorvegliate), dovevano progettare dal centro e per medi o lunghi periodi salvo differenziarsi poi nelle fasi di gestione applicativa specifica. Gli studiosi implicati, attraverso la politica economica, nelle indicazioni legislative da suggerire ai governanti avevano cominciato a riconsiderare su basi nuove la validità dei metodi delle scuole classiche, marginaliste e keynesiane utilizzando gli aspetti positivi che si potevano trovare in tutte e riformulando le teorie generali. Non si ha più quindi una sola quarta scuola prevalente come era stato per quasi 200 anni ma una pluralità di scuole economiche moderne chiamate neoclassiche. In questo periodo, premi Nobel americani (Samuelson e Modigliani) riflettono sugli schemi marginalisti degli equilibri per valutare la tassazione ottimale da applicare e il reddito minimo necessario per il ciclo vitale; economisti della scuola di Cambridge vanno oltre le teorie di Keynes (postkeynesiani) studiando la distribuzione del reddito e lo sviluppo economico di lungo periodo; studiosi italiani (Garegnani e Quadrio Curzio) riprendono gli argomenti già affrontati dal “classico” David Ricardo sulla produzione, sulla tecnologia e sulla distribuzione del reddito; il Nobel Friedman esamina l’influenza della moneta e il potere delle autorità monetarie come possibili agenti regolatori del sistema. Infine, si torna agli obiettori delle teorie di Keynes che contrastano le proposte sugli incentivi della domanda sostenuta dallo Stato quale molla autosufficiente a risolvere le crisi economiche. Tutte opinioni forti e ciascuna probabilmente valida sia pure in periodi, circostanze, ambienti diversi proprio perché molteplici sono le azioni e reazioni dell’uomo, il quale è un genio di sregolatezza e di inventiva e che sfugge, almeno in campo economico, ma non solo, alle briglie di una legge unica e assoluta. Su tutte aleggia poi un cambio di mentalità che ha portato studiosi e politici a considerare prevalenti gli aspetti aggregati delle variabili economiche interessanti i fenomeni nazionali e che rientrano nella macroeconomia, settore moderno ormai autonomo rispetto alla più classica microeconomia e molto fertile in termini di studi, di proposte e di sperimentazioni. Due settori innovativi di studio che si sono distinti negli ultimi 20 anni nell’alveo dell’economia sono stati quelli dell’economia dell’ambiente e della statistica economica. Il primo (economia dell’ambiente) è stato sostenuto dall’importanza crescente che la salvaguardia dell’ambiente ha assunto tra i fattori economici da considerare, sia per concedere/ottenere le autorizzazioni di nuove attività industriali, sia per consentire la prosecuzione e il mantenimento di quelle ormai avviate: l’ambiente non è ormai più considerato un bene libero ma è diventato uno dei principali beni economici non riproducibili e quindi da conservare limitandone l’uso e applicando un prezzo sulla base di precisi calcoli costi/benefici per l’intera collettività. Il secondo (statistica economica) è diventato un pilastro previsionale o consuntivo su cui giudicare e verificare la bontà delle decisioni di politica economica assunte dai governanti. Le principali variabili aggregate studiate dalla macroeconomia (disoccupazione, prodotto interno lordo, inflazione, consumi, debito pubblico, deficit commerciale) sono infatti misurate e valutate in funzione di numeri indici elaborati con sistemi matematici sempre più raffinati, interpretati e costruiti da statistici dedicati ad uno specifico settore economico. Ormai la statistica economica non è soltanto uno strumento utilizzato dagli economisti, ma una vera sezione attiva dello studio della materia economica. Le fasi storiche degli studi economici 1) Aspetti preliminari Il succedersi delle fasi storiche dell’economia è molto legato all’avvicendarsi delle scuole di pensiero appena esaminate che, quasi sempre, hanno coordinato i diversi contenuti delle teorie preferite in connessione con le fasi temporali nelle quali sono state presentate. Fino alla rivoluzione concettuale portata da Keynes (e quindi fino agli anni trenta del ventesimo secolo) l’ambito di studio esclusivo degli economisti di scuola classica e marginalista è stato quello della microeconomia, con ricercato approfondimento delle conoscenze delle singole variabili legate ai meccanismi della domanda e offerta di beni, alle forme dei mercati concorrenziali o meno, alla remunerazione dei fattori della produzione, all’allocazione ottimale delle risorse, alla determinazione logica dei prezzi di equilibrio. Le analisi erano condotte con grande precisione matematica sulla base dello studio di funzioni complesse che portavano a individuare i punti di massimo e di minimo delle curve con largo ricorso alle analisi delle variazioni marginali e istantanee. Il meccanismo di azione appariva perfetto ed esteticamente piacevole e armonico oltre che interessante: le curve di domanda e offerta, rigide o elastiche a seconda dei beni e dei bisogni indagati, si incrociavano ai vari livelli di quantità e prezzo per indicare i punti di equilibrio o di eccesso della produzione o di riduzione dei consumi ed erano prontamente riconoscibili nei quadranti degli assi ortogonali. I fattori produttivi traducevano la loro importanza negli andamenti ben registrati da flessi e coefficienti angolari di curve e rette. Il tasso di interesse aggiustava efficacemente il risparmio dei singoli o delle imprese e favoriva o scoraggiava la propensione agli investimenti o ai consumi. Il meccanismo del mercato veniva visto come la bacchetta magica dell’economia e una volta studiato e imparato, la strada da seguire era una sola e il risultato era garantito con la tendenza, da un lato, ad ottenere (almeno teoricamente) la piena occupazione e, dall’altro, a far coincidere l’offerta dei beni con la quantità domandata. Fu però proprio questo teorico meccanismo matematico che si inceppò o, meglio, rivelò i suoi limiti e le insufficienze presenti in se stesso. Nel lungo periodo di crisi degli anni trenta l’economia non aveva seguito le leggi fino a quel momento ritenute così forti e indiscutibili e aveva quindi portato a far dubitare che la scienza microeconomica, pur precisa e affidabile, potesse valere sempre anche per alcune variabili aggregate considerate a livello nazionale. I fattori aggregati quali i consumi o la forza lavoro inducono infatti meccanismi moltiplicatori virtuosi o viziosi non spiegabili dalle leggi matematiche, tutto sommato semplici, ma applicabili solo ai comportamenti individuali. Per una domanda scarsa di beni, a livello collettivo e aggregato, la soluzione non si trova nella semplice riduzione del prezzo che possa determinare un aumento degli acquisti e quindi portare nuovamente all’equilibrio!. Succede infatti che una scarsa domanda generalizzata possa invece determinare chiusure di attività produttive senza trovare il rimedio nella riduzione dei prezzi e causare invece ulteriori riduzioni di consumi da parte di chi ha perso il lavoro, cui seguiranno nuove crisi produttive e nuovi disoccupati in una spirale recessiva sempre più grave e allargata a interi bacini nazionali di popolazione. Keynes ebbe il grande merito di cogliere questa insufficienza teorica e indicare una nuova strada nel rilancio della domanda intesa in senso aggregato e quindi non focalizzata su un singolo bene né su singoli produttori o consumatori ma sui sistemi complessivi di consumi e produzioni nazionali che si distribuiscono poi a seconda delle propensioni dei singoli e delle diverse opportunità liberamente scelte. In questa ottica, rilevante diventava il potere delle autorità di Governo che, intervenendo come un grande investitore, poteva influenzare in modo decisivo la domanda complessiva avviando modifiche di ciclo economico nell’intero paese. Anche in presenza di limiti riscontrati poi nella sua teoria ( sicuramente valida per riaccendere la domanda nel breve periodo e quindi per interventi shock e di spinta una tantum al volano economico ma insufficiente di fronte a crisi di lungo periodo perché non prevedeva inizialmente azioni sul lato dell’offerta e quindi della produzione aggregata) Keynes è stato certamente un gigante per l’affermazione e l’influenza universale della scienza economica. Come tutte le teorie nel campo sociale, anche questa, seppur forte, abbisognava di una conferma con una altrettanto forte verifica e dello scontro campale con i sui limiti, come puntualmente avvenne con la prima crisi petrolifera mondiale del 1972, giunta inavvertitamente a sanzionare la troppo semplice idea che si era diffusa circa la facile e illimitata possibilità di espansione della domanda e del consumo di beni e quindi di uno sviluppo continuo. La dura realtà che si era presentata con un inaspettato e fortissimo aumento dei prezzi del petrolio e con la riduzione delle quantità offerte, venne a ricordare alle nazioni industrializzate dell’occidente il problema della eccessiva dipendenza dall’estero o da singoli soggetti monopolisti che, con ricatti di prezzo e quantità, potevano portare ad una involuzione economica assai pesante (automobili ferme, luci stradali spente, fabbriche senza materie prime). Altri studi e diverse teorie hanno portato alla luce e variamente indicato proposte e soluzioni di comportamento ai politici e, senza cancellare le intuizioni di Keynes, hanno ricordato come la materia economica sia estremamente complessa perché, ad una azione, si contrappongono molte e talvolta opposte reazioni, con dinamiche spesso differenti nel tempo e nelle aree mondiali di applicazione. 2) Le origini Seppure nella vaghezza delle strutture e dei contenuti, qualche forma di economia è stata conosciuta da tempi storici anche nelle comunità più antiche che avessero comunque raggiunto una fase minimale di sviluppo sociale. La stessa derivazione della parola dal greco lascia intendere che, anche all’epoca dello splendore di quella civiltà, una forma di norme e rapporti basati “sul buon governo della casa o dello Stato”, che oggi viene chiamata economia o economia politica, esisteva; e così certamente doveva valere, ancora prima, per le mitiche epoche ebraiche, egizie, cinesi, sumeriche o centroamericane che già disponevano di forme e tecniche sufficientemente sviluppate di allevamento, artigianato, commercio e relazioni internazionali che muovevano i prodotti da e verso i confini del mondo conosciuto. Le imposte, i commerci, la moneta o i baratti erano concetti e pratiche diffuse pur se in ambiti ristretti e rappresentavano forme di rapporti oggetto di considerazione e valutazione. Essendo tuttavia la ricchezza-base prevalentemente impostata sulla proprietà terriera e sui prodotti naturali da essa derivati, non si può parlare in realtà di una scienza economica almeno fino alle grandi scoperte geografiche del XV e XVI secolo che avevano aperto le vie di comunicazioni mondiali, individuato ricchezze aurifere immense e prodotti totalmente nuovi da scambiare, creando una sconvolgente rivoluzione culturale che, unitamente all’avvento della manifattura industriale dei beni, necessitava anche di conoscenze scientifiche sul comportamento dell’uomo economico. 3) La fase del Mercantilismo Il primo periodo economico moderno a svilupparsi (senza ancora conoscere regole scientifiche scritte) è stato definito del “mercantilismo” ovvero del commercio su un mercato accompagnato dallo scambio di beni contro moneta o “compravendita” (a differenza del passato in cui prevaleva il baratto ossia scambio di beni contro altri beni). Questa forma di disponibilità di moneta (considerata un bene in tutto paragonabile agli altri da sempre utilizzati per lo scambio) veniva a costituire la nuova ricchezza perché il suo possesso consentiva di avere tutto: tutto ha un prezzo, basta avere moneta sufficiente per pagarlo ed ottenerlo! Visto, non più o solo a livello individuale, ma invece a livello dello Stato (che doveva intrattenere rapporti di bilancio interno/esterno e battere moneta), questo ciclo doveva essere in grado di garantire l’equilibrio complessivo del sistema finanziario puntando al pareggio importazioniesportazioni o, meglio ancora, a degli avanzi finanziari o surplus che potessero far crescere l’importanza politica ed economica di una nazione, la quale veniva messa in grado di finanziare investimenti in grandi opere pubbliche che portavano ad ulteriormente migliorare le capacità economiche complessive dei cittadini di questo Stato (la ricchezza creava altra ricchezza). Inghilterra e Olanda eccellono in questo periodo (1600-1750) e in questa attività mercantile nonostante fossero state Spagna e Portogallo ad effettuare le principali scoperte geografiche e quindi, teoricamente, quelle destinate a ottenere i maggiori vantaggi ricchezze economici dalle nuove ma che invece, per loro, non si trasformarono mai in investimenti ma soltanto o principalmente in consumi. Tra la fine del 1600 e gli inizi del 1700 la teoria mercantilista (non si può ancora parlare di scuola ) aveva elaborato alcune fasi di pensiero che avevano fatto intuire la convenienza per uno Stato nel favorire le esportazioni (eccedenza positiva del bilancio) e limitare le importazioni (anche per mezzo di dazi elevati) oppure nel considerare l’importanza dell’uso della moneta negli scambi (aumento complessivo della ricchezza) sino a concludersi con l’opera di James Steuart del 1767 (“Indagine sui principi di politica economica”) che tratta della convenienza per entrambe le nazioni contraenti di scambiarsi beni se questi vengono prodotti rispettivamente a minori costi dall’uno o dall’altro o ancora (e questo è un particolare sorprendente per l’epoca) considera la positività dell’azione che deriva all’intero sistema economico dalla spesa pubblica comunque indirizzata (meglio se per un investimento in grandi opere pubbliche ma accettabile anche in campo militare) perché crea sempre e comunque maggior lavoro e reddito. La ricchezza era vista principalmente come accumulo di riserve auree o anche come monte complessivo di beni (patrimonio) da difendere, non incrementabile genericamente in assoluto, ma solo diversamente ripartibile tra le parti in causa, ognuna delle quali guadagnerà o perderà le stesse quantità. Mancava ai mercantilisti l’indagine sul “sovrappiù” o sulla creazione di nuova ricchezza e questo è il limite che soltanto con altra visione, quella dei fisiocratici, si riuscirà a superare. 4) La fase della Fisiocrazia Con l’affermazione sulla scena internazionale dei risultati dell’agricoltura intensiva nelle coltivazioni, anche gli studi economici si spostano dal campo del puro scambio commerciale dei beni a quello della massima produzione agricola come fonte primaria di ricchezza crescente rispetto alla pura rendita patrimoniale immobiliare. Era sempre stato implicito nel pensiero dell’umanità che la vera ricchezza risiedesse nella terra in quanto fornitrice tangibile di moltiplicazione di beni tra quantità seminate e raccolte; ma gli studi avevano trascurato (come teoria scientifica) il settore fino alla metà del 1700 allorchè il francese Quesnay pubblicò un trattato (“Tavola economica”) considerato il fondamento della fisiocrazia. L’agricoltura era considerata come madre di tutte le ricchezze di una nazione perchè il prodotto ottenuto eccedeva la quantità delle materie prime impiegate (si ha quindi un surplus) mentre commercio e artigianato consentivano solo mantenimento, spostamento e trasformazione di beni ma non creazione di nuova ricchezza. Come tale, l’agricoltura doveva essere protetta da leggi che ne dovevano favorire il mantenimento e la successione ereditaria anche utilizzando una più moderata imposizione fiscale rispetto ad altri beni. Caratteristica dell’opera di Quesnay è la prima indicazione della ripartizione in classi sociali del sistema agricolo individuando: - una classe produttiva (i contadini addetti alle coltivazioni) che alimentava e consentiva il raggiungimento del surplus di prodotto; - una classe sterile (artigiani e addetti ai servizi) che si limitava alle trasformazioni di oggetti o dava servizi alle altre classi; - una classe aristocratica (proprietari terrieri) che riceveva i frutti della terra di proprietà. Tra queste classi si svolgeva lo scambio di beni e servizi che determinava il ciclo economico dell’epoca (quasi una economia di pura sopravvivenza per molti !) composto da: - scorte iniziali di sementi (capitale) per poter seminare e ottener il prodotto finale che andava ad alimentare gli stessi contadini (forza lavoro produttiva) ; - artigiani (forza lavoro sterile) che producevano gli attrezzi (capitale) per lavorare la terra ; - proprietari (forza aristocratica che metteva a disposizione la terra) che gestivano il processo economico e garantivano il capitale di avviamento del successivo, nuovo ciclo agricolo trattenendo il surplus, se e quando generato. 5) La fase dell’industrializzazione e dei Classici Il tempo ( siamo nell’ultimo quarto del 1700) era ormai giunto a far vedere i primi segnali più evidenti della nuova industria manifatturiera che metteva in discussione la certezza assoluta riposta, fino ad allora, sull’agricoltura come unico, vero produttore di ricchezza. Con Smith, Ricardo e Marx si proposero cent’anni di vera scienza economica che costituirono le basi della moderna dottrina. Adam Smith introduce non solo il concetto innovativo dei tre fattori di produzione tuttora valido (terra, lavoro, capitale) ma anche quelli della specializzazione (come massimo risultato di efficienza nella ripartizione dei compiti tra i lavoratori) e del libero scambio dei beni tra nazioni (svalutando il concetto dei vincoli dei dazi e dell’autarchia). L’economia industriale aveva aperto spiragli insospettabili alla teoria della ricchezza cambiando i rituali tempi stagionali agricoli di raccolta e semina in ritmi modificabili a libera scelta dimostrando che il surplus non era un criterio applicabile alla sola agricoltura ma era un fenomeno più generale rapportato alla produttività del lavoro, la quale, a sua volta, era collegata alla divisione del lavoro in unità frazionarie di compiti che rendevano più abili, più veloci, più sostituibili gli addetti con l’attribuzione di un profitto complessivo per tutto il sistema, da ripartire (e qui sta la difficoltà) tra le classi sociali (lavoratori, proprietari fondiari e capitalisti) che avevano partecipato alle operazioni industriali e da remunerare rispettivamente con salario, rendita e interesse. Il sistema doveva inoltre svilupparsi in un ambiente che facilitasse gli scambi lasciando il massimo di libertà di azione “laissez faire”, eliminando restrizioni o privilegi monopolistici, agevolando i movimenti di persone e di beni verso il mercato, unico selettore vero dell’economia. Ad avviso dei primi Classici, lo Stato ha ben altri compiti da svolgere : giustizia, difesa, amministrazione, opere pubbliche; alla produzione e allo scambio pensino i privati ! David Ricardo proseguì nella sistematizzazione dei concetti introdotti da Smith e in particolare attivò i tentativi di teorizzare leggi di ripartizione dei redditi tra i fattori di produzione e quindi tra le classi sociali : - la rendita va assegnata al proprietario terriero in relazione alla diversa fertilità delle terre, alla vicinanza ai mercati, all’esigenza di aumentare le superfici coltivate per sostentare l’aumento delle popolazioni utilizzando anche ambiti sempre meno produttivi e con rendimenti decrescenti fino a sfruttare il terreno marginale a profitto nullo; - il salario dovrebbe essere determinato, non tanto in rapporto al contributo offerto dal lavoratore alla produzione, quanto al bisogno fisiologico di sopravvivenza e procreazione. Dovrebbe quindi esistere un salario reale corrispondente ad un paniere di beni idoneo a garantire un vita dell’uomo adeguata al tempo, alle abitudini, alla zona dove si vive; - il profitto è considerato un elemento residuale dopo aver pagato rendita e salario e spetta all’imprenditore-capitalista quale organizzatore della produzione, anticipatore delle spese di impianto ed elemento di selezione delle opportunità e di accettazione del rischio economico. Tutti i fattori hanno tendenza ad espandersi per tutto il tempo in cui si ottiene un superprofitto e l’espansione si concluderà solo al raggiungimento del profitto marginale uguale a zero (o profitto nullo, che però contiene sempre l’equo reddito per il capitalista o l’imprenditore). Questo vale per la terra (su cui si continuerà ad investire fino all’utilizzo dell’ultimo terreno marginalmente produttivo), per il lavoro (che vedrà un numero crescente di occupati e di costo complessivo fino alla concorrenza del costo finale con il prezzo di vendita dei prodotti tendendo a dare la piena occupazione) e per il capitale (che vede il capitalista decidere l’investimento fino al punto in cui i rendimenti decrescenti pareggeranno altri tipi di investimento alternativi ossia il costo-opportunità). Karl Marx è considerato l’ultimo autore classico e visse con pienezza un tempo cardine dello sviluppo economico che stava tra l’assestamento del primo periodo industriale e la presa di coscienza del conflitto di classe. Continuatore temporale e storico di Ricardo, Marx portava come corredo una vastissima conoscenza di dati storici, sociologici e politici che valevano differenze significative con i predecessori, tutti di cultura più settorializzata. In una visione più spregiudicata ma anche più vera rispetto a Ricardo, Marx contestò l’idea, sostenuta nelle classi colte, di un capitalismo che si autolimitava volutamente nell’accumulo di ricchezza giusto nel momento di raggiunta soddisfazione, ritenendo invece collegata con la competizione insita nel sistema capitalista l’esigenza di disporre di sempre maggiori profitti da reinvestire continuamente per espandere l’impresa e mantenere la superiorità del mercato a pena di scomparire fagocitati dal concorrente maggiore. La fame di profitto capitalistico per alimentare nuove forme di produzione era insaziabile a scapito degli altri fattori produttivi. L’economia di scala produttiva sempre maggiore portava poi inevitabilmente ad un tentativo di monopolio con un aggravamento del potere in mano al capitale. Per Marx, il capitale non è altro che il risultato di attività svolta dai lavoratori di cui si è appropriato indebitamente il capitalista, e il capitale che può incrementarsi continuamente è una droga che prende possesso degli imprenditori creando una tensione sociale tra le diverse classi e tale da portare alla distruzione del sistema. La necessità di possedere maggior capitale in un regime di concorrenza e di sviluppo tecnologico induce il capitalista ad investire in macchinari più avanzati assorbendo la maggior parte dei profitti e mettendo a disposizione sempre più manodopera disoccupata. Si viene così a disporre di sempre maggiori quantità di capitale fisso che riduce le possibilità remunerative dei fattori di tipo più sociale. La conseguenza è una erosione continua del potere economico delle forze lavorative sia perché si riduce il salario a favore dell’interesse sul capitale, sia perché si costruisce una riserva di lavoratori disoccupati pronti a subentrare a costi inferiori a quelli già occupati, i quali invece potrebbero opporsi (con scioperi) a salari insufficienti. Per Marx il conflitto sociale è inevitabile e crescente e dovrà sfociare nella dittatura del proletariato, il principale e vero fattore produttivo da tutelare e che tenderà a riprendersi il capitale a cui erano stati indirizzati i profitti sottratti ai lavoratori. Alcune storture delle previsione marxiste, in parte collegabili a comportamenti egoistici degli individui, sono state storicamente dimostrate negli ultimi lustri del secolo XX dopo decenni (circa 70 anni) di competizione tra regimi liberisti e socialisti ed hanno portato a ritenere non corrette le affermazioni circa il vantaggio della proprietà collettiva dei mezzi di produzione o l’immiserimento cui era destinato il proletariato in economie liberiste. Invece, altre previsioni, quali la propensione all’aumento delle concentrazioni industriali e dei monopoli, insite nei sistemi capitalistici, sono state sicuramente centrate. 6) La fase dei Marginalisti La caratteristica principale degli studiosi di questa scuola, nata nel 1870 a conclusione di un secolo di predominio dei Classici, è quella di aver esaminato analiticamente il comportamento teorico delle due figure tipiche dei rapporti economici: il consumatore e il produttore. Questi soggetti sono alla base della cosidetta microeconomia che tanto ha contribuito ad approfondire la conoscenza delle strutture di base della scienza economica. Seguendo questo schema, il fenomeno della produzione in sé passa in secondo piano rispetto al criterio che dovrebbe permeare il comportamento dell’uomo economico e cioè quello della utilità e in particolare della utilità marginale dei beni confrontata con l’utilità marginale della moneta da cui deriva, in definitiva, il prezzo. Lo scambio tra beni di diversa specie (baratto) o tra beni e moneta (compravendita) che consegue al confronto delle rispettive utilità è la molla che consente di destinare e distribuire le risorse in modo ottimale rispetto ai bisogni. I concetti generali della teoria del consumatore (che saranno meglio esaminati in seguito) partono dal presupposto che si possa misurare con curve di indifferenza l’utilità che si dà alla soddisfazione che si ricava dal consumo di un dato bene e che si possano mettere in sequenza ordinata le priorità di uso dei diversi beni di cui si necessita con una corrispondenza matematica biunivoca tra l’utilità di questi beni e i rispettivi prezzi. Il reddito di cui dispone l’individuo è il vincolo alla spesa massima e, come tale, si può solo cercare di distribuire al meglio questa risorsa economica rigida. Da qui deriva lo sviluppo di una teoria che fa gran ricorso alla matematica la quale diventa lo strumento ideale ed essenziale dell’economista. Analogamente e contemporaneamente è stata sviluppata la teoria del produttore (anche questa sarà esaminata in seguito) basata sugli stessi schemi la quale esamina la migliore allocazione dei prodotti e le motivazioni che possono spingere a variare le quantità prodotte determinando l’andamento delle produttività marginali dei tipici fattori della produzione già introdotti dagli autori classici e ora misurati con isoquanti di produzione per stabilire i saggi marginali di sostituzione dei fattori. L’equilibrio tra le due teorie ( del produttore e del consumatore) è dato, considerando esclusivamente il mercato della libera concorrenza, da queste assunzioni che, matematicamente, si traducono in n equazioni con n incognite e quindi risolvibili accettando questi canoni: 1) nessuno può accrescere la propria utilità oltre ad un certo limite senza causare diminuzione dell’utilità altrui (ottimo di Pareto); 2) la quantità totale di beni domandati è uguale alla quantità dei beni offerti senza considerare possibilità di scorte. Le facili critiche che si possono fare partono dalla convinzione che l’ideale homo oeconomicus che fa tutti questi ragionamenti matematici per massimizzare l’utilità ogni volta che deve procedere sul mercato, sostanzialmente non esiste nella pratica e addirittura si deve dubitare se possa davvero esistere la libera concorrenza perfetta che metta in essere il meccanismo di domanda e offerta esposto dai marginalisti. Altrettanto dubbio (o impossibile senza interventi esterni) è il raggiungimento dell’equilibrio in funzione della semplice azione del tasso di interesse e del livello del salario che, teoricamente, dovrebbero compensare immediatamente i disallineamenti del mercato, ma che di fatto hanno fallito il loro compito, come è stato ampiamente dimostrato dalle grandi crisi degli anni ’30. I gravi limiti delle teorie microeconomiche di libero mercato derivano proprio dalla constatazione della mancata risoluzione dei problemi che avrebbero dovuto invece trovare, secondo una illusione durata più di un secolo, una risposta automatica e cioè: a) mancato pieno impiego della forza lavoro; b) persistenza di monopolio e di concorrenza monopolistica o imperfetta; c) diseguaglianze di distribuzione del reddito; d) eccessivi consumi di risorse non riproducibili (ad esempio petrolio o ambiente). C’era sicuramente bisogno di altre capacità di intervento e di altre considerazioni economiche per dire di aver fatto effettivi passi in avanti sulla strada della migliore ripartizione delle risorse tra la popolazione o le classi sociali e questi potevano essere visti solo con il ricorso all’esame di grandi variabili aggregate (inflazione, disoccupazione, prodotto interno lordo, debito pubblico) come avverrà con i concetti introdotti dalla macroeconomia.e da una presenza economica attiva, ma limitata, dello Stato. 7) La fase Keynesiana A fornire risposte a queste ultime gravi problematiche irrisolte dai marginalisti ci aveva provato, intorno agli anni ’30, l’economista inglese John Maynard Keynes con le teorie esposte poi nel 1936 nel suo libro intitolato “Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta” in cui evidenzia i seguenti punti principali : 1) non è sufficiente considerare le singole variabili microeconomiche ma bisogna valutare anche i dati aggregati delle principali grandezze economiche nazionali (tasso di disoccupazione, consumi globali, inflazione, prodotto nazionale, deficit di bilancio) che formeranno oggetto, successivamente, della macroeconomia; 2) la variabile economica dominante è il consumo e non tanto la produzione quindi, se si vuol dare una svolta all’andamento economico corrente, bisogna influire sulla domanda aggregata di beni che comprende consumi, investimenti privati e pubblici, differenziale tra importazioni ed esportazioni; 3) il pieno impiego della forza lavoro è solo uno degli eventi possibili ma non è condizione necessaria per l’equilibrio del sistema, il quale può sussistere sia in presenza di sovraoccupazione che di sottooccupazione. Quando i marginalisti potevano affermare che la manovra sui salari o sul tasso d’interesse avrebbe condotto alla piena occupazione, Keynes più realisticamente riteneva che la manovra di un ribasso dei salari poteva avere addirittura un effetto negativo sull’occupazione perché poteva far contrarre i consumi complessivi e quindi portare ad una involuzione generalizzata dell’economia. Le forze di mercato, da sole, non sarebbero in grado di modificare la base di disoccupazione in tempi medio-brevi e, senza interventi esterni, si andrebbe solo a stabilire un nuovo equilibrio tra domanda e offerta su un livello più basso di volume di beni scambiati e di forza lavoro utilizzata, con rischio di ulteriore disoccupazione o di maggiore inflazione tendendo a diventare una ignavia involutiva del sistema che tende a posizionarsi su livelli inferiori di benessere. Alcuni esempi del secondo dopoguerra nell’Europa dell’Est presentano casi di nazioni precedentemente già ben industrializzate ed evolute economicamente che si sono portate su standard molto meno avanzati dei precedenti e a chiaro rischio di collasso economico. Occorre quindi uno shock esterno (ad esempio l’intervento sulla domanda da parte dello Stato) per far mutare la posizione di equilibrio comunque raggiunto; 4) la moneta (come quantità di denaro circolante e come potere di acquisto sul mercato) è un’altra delle variabili aggregate da considerare nel sistema assieme al P.I.L. (prodotto interno lordo), alla disoccupazione e al debito pubblico ed ha lo scopo di agevolare le operazioni di scambio e di determinare il valore economico di tali variabili; 5) l’intervento dello Stato nell’economia è fondamentale per sbloccare le situazioni di crisi, di stagnazione e di depressione, sia agendo direttamente sulla spesa pubblica, sia intervenendo sulla politica monetaria tramite il credito e il tasso di sconto. Quest’ultimo punto è stato preso come una caratteristica significativa della dottrina di Keynes e utilizzato contemporaneamente, in ambito di politica economica, sia da economisti di sinistra, per evidenziare e giustificare la loro propensione verso una economia di tipo socialista, sia da economisti di destra per mettere in risalto la necessità di appoggio all’imprenditoria con la spinta che essa può dare al consumo tramite la maggior produzione. In realtà Keynes aveva già operato la sua scelta verso un “capitalismo saviamente governato” come la forma di mercato più efficiente ipotizzabile senza quindi lasciare ogni iniziativa e decisione né al libero arbitrio dei capitalisti, né al dirigismo centralizzato statale, ma con uno Stato attivamente presente sulla scena economica del paese che doveva fungere da sorvegliante attento del sistema, non per sostituirsi ma per incentivarlo. Resta comunque vero che la teoria di Keynes sull’efficacia dell’intervento statale nell’economia si è dimostrata valida nel breve periodo per riportare la produzione ad un miglior livello, tenendo presente che non dovrebbe essere né esagerato, né duraturo perché porterebbe ad eccedere e sovradimensionare le variabili creando aspettative insostenibili e gonfiate nel medio e lungo periodo e determinando invece una pericolosa inflazione. L’economia di stampo keynesiano è sostanzialmente di tipo misto, con lo Stato attore prudente e non solo spettatore, tenendo conto del rischio di trasformarlo in un soggetto sociale troppo invadente nelle attività economiche che potrebbe mettere in crisi il desiderio di rischio imprenditoriale, sostituendo completamente le funzioni del privato anche quando il singolo sbaglia e il sistema economico complessivo non è in crisi. Lo Stato diventerebbe quindi anche un comodo alibi all’incapacità colposa o dolosa del privato che prende i benefici fino a quando la sua azienda è attiva ma molla allo Stato la sua azienda quando sono presenti solo passività. L’intervento statale dovrebbe quindi essere limitato a: a) regolare l’attività economica con gli strumenti della spesa pubblica e dei tassi di interesse senza snaturarne il tipico e naturale indirizzo; b) redistribuire reddito e ricchezza per mezzo delle leve di imposte e sussidi; c) guidare la politica salariale, essendo comunque lo Stato uno dei più rilevanti e importanti datori di lavoro. Comunque sia visto politicamente, l’economista inglese ha avuto meriti scientifici innovativi straordinari legati anche a quella semplice soluzione di stimolare la domanda con il volano della spesa pubblica che non disturbava il mercato perché non si sostituiva agli imprenditori ma chiedeva invece maggior produzione all’imprenditoria. Un vero pericolo nuovo derivante dall’applicazione di tale teoria potrebbe derivare invece dall’accendersi dell’ inflazione, fenomeno sempre pronto ad intervenire in una fase di espansione della domanda sospinta anche dall’intervento statale. Ciò ha fatto constatare (in contrasto con quanto supposto dalla teoria marginalista) come esista una irreversibilità di una situazione di prezzi aumentati, che non ritorneranno mai, in generale, ai livelli precedenti anche nel caso di riduzione della domanda. Anzi, in caso di nuovo, ulteriore rallentamento dell’economia, si possono verificare contemporaneamente due effetti negativi : 1) mantenimento dell’inflazione acquisita e 2) stagnazione dei consumi con nuova disoccupazione derivante da riduzione della domanda. E’ il fenomeno della stagflazione (insieme di stagnazione e inflazione)! La motivazione della rigidità dei prezzi e dei salari (almeno nei valori nominali se non reali) anche in una fase di elevata disoccupazione è legata, da una parte, alla tendenza delle imprese di non procedere subito a licenziamenti degli esuberi di personale sperando in un temporaneità della crisi (l’addestramento di nuovi assunti sarebbe lungo ed oneroso) e, dall’altra, alla preferenza del ricorso al licenziamento degli esuberi nel caso di protrazione della crisi piuttosto che procedere ad una riduzione generalizzata dei salari (considerati generalmente come un minimo vitale) per tutti i dipendenti. Anche l’alta specializzazione sempre più necessaria e la spinta sindacale a non far perdere ai lavoratori occupati i benefici acquisiti rendono poco praticabile la riduzione dei salari; così, è preferibile per i sindacati perdere solo le iscrizioni (e i collegati contributi alle diverse organizzazioni) da parte di quei lavoratori licenziati piuttosto che quelle probabili di tutti i dipendenti di fronte alla prospettiva di riduzione del loro salario. Anche i prezzi di vendita difficilmente scenderanno dal livello raggiunto perché collegati in larga parte al costo fisso del lavoro (e abbiamo appena visto che questo non si riduce) e anche perché i contratti di acquisto già stipulati dall’azienda per l’approvvigionamento di materie ed energie contengono prezzi fissi o non modificabili immediatamente. 9)La fase post Keynesiana o neo classica Con la fine degli anni sessanta si conclude anche il periodo storico legato a Keynes. La grande crisi petrolifera con la quadruplicazione in pochi mesi del prezzo del petrolio e il forte razionamento nei consumi in vista di un paventato esaurimento dei giacimenti, ha modificato l’approccio fino ad allora prevalente di una spinta ai consumi collegabili con le facili importazioni e la dipendenza dall’estero. La storia, a questo punto, è però troppo recente per avere un inquadramento chiaro e definito e si suole quindi parlare di una fase degli economisti neoclassici. Sono gli economisti delle università statunitensi a prevalere anche perché le prestigiose sedi di Harward, Stanford o M.I.T. attirano i migliori ricercatori mondiali che trovano qui gli spazi culturali e i fondi economici essenziali per lavorare ed emergere. Da Keynes era stato ereditato il concetto delle variabili aggregate e quindi della nuova scienza della macroeconomia e su questa convergevano ormai tutte le indagini più accurate dei ricercatori. I grandi fenomeni della inflazione, della crescita del P.I.L., del risparmio e degli investimenti dominavano gli studi in cui eccelse anche l’italiano Modigliani premiato col Nobel per le teorie sul ciclo vitale e sull’entità del reddito necessario a sostenerlo. Nel clima di crisi degli anni ’70 si inserì un rinnovato spirito neoliberista con rivalutazione della forza del libero mercato studiata due secoli prima dai Classici. Un altro filone molto esplorato dai moderni economisti è quello legato alla circolazione monetaria con i riflessi collegati con le libere fluttuazioni dei cambi e del tasso di interesse bancario (e la forte incidenza sul costo del denaro e le conseguenze sul debito pubblico) sulle emissioni di cartamoneta, sullo sviluppo del credito per investimenti, sui redditi e sulla ricchezza collettiva di una società di uomini che si voleva sviluppare socialmente ed economicamente. Nuovo fenomeno oggetto di studio è stato quello dell’investimento finanziario che era venuto a sostituire, almeno in parte, l’investimento industriale, fino agli anni ’80 nettamente prevalente. Masse enormi di denaro cercavano strade più facili di investimento vantaggioso e rapido viaggiando in via telematica tra banche e borse sparse nei due emisferi e senza tregua di orari e di festività precipitandosi o ritirandosi verso/da settori, in forza di semplici e incerti segnali o aspettative ingigantendo gli effetti favorevoli o contrari agli assetti faticosamente raggiunti con anni di duro impegno industriale e di mercato commerciale. Alcuni di questi concetti saranno ripresi in seguito trattando aspetti della macroeconomia mentre ulteriori problemi metodologici e innovativi si sono posti relativamente ai rapporti tra economia ed etica (sono sorti di recente istituti bancari inseriti in questo filone etico del microcredito gratuito) per correggere una immagine, solo parzialmente vera, del mondo economico teso unicamente al profitto e allo sfruttamento di classi povere. 10) Il disaccordo tra gli economisti Di fronte ad una situazione reale in una determinata fase storica accade normalmente che gli economisti offrano soluzioni e consigli la cui contraddittorietà è difficile da comprendere da parte dell’opinione pubblica la quale ritiene di dover ricevere da una scienza una ed una sola risposta certa. Le ragioni di queste diversità di interpretazioni di un fatto reale sono fondamentalmente due: - una differenza di posizione sulla validità delle teorie applicabili (diversità di posizione scientifica); - una differenza di valutazione politica sui rimedi applicabili (diversità nelle priorità dei valori sociali). Circa il primo punto si deve convenire sul fatto che la scienza economica deve ancora dire molto anche su aspetti basilari della materia ( ad esempio si deve ancora rispondere alla domanda se sia più corretta ed efficace una tassazione sul reddito oppure sul consumo ) e quindi sono poche le certezze anche teoriche. Circa il secondo punto, sono troppo evidenti e quotidiane le polemiche che scatenano le battaglie elettorali in Stati, Regioni, Province di qualsiasi dimensione del mondo libero che vedono fortemente contrapposti ideologicamente almeno due e più spesso cinque-dieci partiti politici che fondano larga parte della contrapposizione su temi prevalentemente economici a conferma che le soluzioni ipotizzabili di un problema, in questo difficile campo economico, non sono mai uniche né certe. Nonostante queste forti differenze concettuali e politiche, resta tuttavia anche molto di condiviso tra gli studiosi come è stato evidenziato con la presentazione dei dieci principi basilari precedentemente esaminati. E’ comunque il passaggio dalla teoria alla pratica il vero scoglio da superare e, al momento, sono poche le speranze di positivo e rapido superamento. LA MICROECONOMIA Lo studio dei fenomeni economici può essere effettuato da due diverse angolazioni: quella microeconomica e quella macroeconomica. I confini tra le due trattazioni non sono netti ma, in generale, la definizione che rispecchia di più i singoli contenuti è quella che indica appartenere alla macroeconomia lo studio di rilevanti fenomeni aggregati relativi all’intero sistema economico nazionale e alla microeconomia lo studio del comportamento decisionale individuale (imprese e famiglie) di fronte a fenomeni di domanda e offerta di beni scarsi atti a soddisfare bisogni diversi avendo un limitato reddito a disposizione. Entrambi i punti di vista offerti dagli studiosi sono importanti anche se, in periodi di forti squilibri economici prevalgono le decisioni da prendere a livello nazionale e quindi di tipo macroeconomico; di contro le singole imprese (che tuttavia talvolta hanno dimensioni economiche paragonabili ai bilanci di piccoli Stati) devono seguire di più le indicazioni dettate dai principi microeconomici per gestire correttamente il proprio conto economico e patrimoniale. In ottica economica complessiva, le due branche sono complementari fornendo l’una all’altra conoscenze e risultati reciprocamente validi nell’unica ottica utile : ottenere cioè vantaggi per tutti i sistemi nei quali, o come cittadini o come imprenditori o come governanti siamo comunque inseriti socialmente. La microeconomia classica considera essenzialmente il mercato di libera concorrenza e tratta gli altri mercati come delle imperfezioni che potranno essere corrette, anche automaticamente, dalla forza della concorrenza se questa potrà essere esercitata. In estrema sintesi, la microeconomia esamina la materia economica secondo questi grandi filoni: a) quantità di domanda del consumatore di beni e servizi disponibili e da acquistare a determinati prezzi; b) quantità di offerta dei produttori di beni e servizi da vendere a determinati prezzi; c) distribuzione del valore della produzione tra i fattori che hanno contribuito al risultato produttivo. L’analisi necessaria alla comprensione dei fenomeni avviene solitamente isolando le singole variabili e considerando le altre come costanti (e quindi a parità delle altre condizioni ) a differenza di quanto avviene nella macroeconomia che, trattando di aggregazioni nazionali, deve solitamente considerare il contesto complessivo in cui avviene il fenomeno economico. Alla base del ragionamento microeconomico stanno alcuni assunti teorici: - la flessibilità istantanea dei prezzi senza interventi regolatori esterni; - la piena occupazione di tutte le risorse ottenuta per la forza stessa dei vantaggi offerti dall’investimento di capitali nelle attività produttive; - il mercato di libera concorrenza perfetta che garantisce entrate e uscite dai mercati a qualunque produttore e consumatore in qualsiasi momento. Premesse e principali definizioni Si è soliti inserire, in questa prima parte di studio, l’esame di alcune definizioni, valide in generale per tutta l’economia, introdotte dalla scuola dei classici quando ancora non si parlava di distinzioni tra micro e macroeconomia e che servono a costituire un terreno comune di conoscenza e un linguaggio omogeneo. Tra queste definizioni citiamo: Economia politica: (letteralmente dal greco “leggi del buon governo della casa e dello Stato”) è lo studio dei fenomeni originati dalle attività che gli uomini svolgono per soddisfare i loro bisogni con i beni che hanno a disposizione. Politica economica: è lo studio delle norme relative a provvedimenti legislativi volti a regolare i rapporti economici e a promuovere lo sviluppo e la crescita della ricchezza nazionale. Il principale problema economico della società consiste nel far fronte al conflitto fra i bisogni o i desideri degli individui di disporre di beni e servizi ( pressochè illimitati in quantità e qualità), e la scarsità dei beni o risorse necessari per soddisfare questi bisogni. La scienza economica cerca di risolvere questo problema occupandosi del modo in cui possono essere impiegate le limitate risorse tra usi alternativi al fine di soddisfare i bisogni umani. Poiché tali risorse sono scarse rispetto ai bisogni da soddisfare, occorre effettuare delle scelte per utilizzarle in modo efficiente. A questo scopo l’homo oeconomicus, che agisce in modo razionale, segue il principio economico (detto anche edonistico o del minimo mezzo o del tornaconto) il quale insegna che, per soddisfare i propri bisogni e quindi per svolgere l’attività economica, si opera in modo da ottenere il massimo effetto utile col minor sacrificio o sforzo possibile. Bisogni : sono gli stimoli che spingono l’uomo ad ottenere i mezzi idonei a far cessare sensazioni dolorose o prevenirle oppure a mantenere o accrescere sensazioni piacevoli. Il bisogno è quindi “espressione dei desideri dell’uomo, aspirazione ad aumentare il proprio benessere materiale o intellettuale o a sacrificarsi per i suoi simili” (scuola classica) indipendentemente dalla considerazione che sia o meno conforme alla morale, che si adegui o meno all’interesse generale (completamento della scuola marginalista). Tutta l’attività economica prende impulso e movente dal soddisfacimento dei bisogni sentiti dagli uomini. E di conseguenza, la scienza economica descrive le azioni che gli uomini compiono per soddisfare i loro bisogni (Marshall) o meglio, che compirebbero se essi fossero guidati da criteri rigorosamente economici (Menger) I bisogni mutano per le singole persone nel tempo e nel luogo e quindi una graduatoria rigida dell’importanza dei diversi bisogni è impossibile; ciò tanto più in quanto i bisogni sono rapidamente mutevoli rispetto ad una collettività o società di uomini. I bisogni da soddisfare sono, sia quelli originari - a loro volta distinti tra primari e secondari o voluttuari a seconda che siano collegati alla sopravvivenza del singolo o invece solo al maggior benessere materiale o spirituale - sia quelli derivati. Quelli originari sono antecedenti alla produzione dei beni che possono soddisfarli, mentre quelli derivati sono indotti da stimoli esterni, in genere posti in essere dai produttori, tendenti a ingenerare negli individui l’esigenza di nuovi bisogni da soddisfare, in modo da potenziare la domanda e quindi il consumo di determinati beni o servizi. L’osservazione quotidiana consente le seguenti considerazioni circa i bisogni primari: 1) sono i primi ad essere soddisfatti; 2) sono insostituibili come bisogni (anche se il tipo di bene usato può avere delle alternative); 3) si soddisfano rapidamente. Esempi classici di bisogni primari sono quelli della fame, della sete, dell’abitazione, della protezione dal caldo o dal freddo. Esempi di bisogni derivati sono quelli del divertimento, dei mezzi di comunicazione, delle cure di bellezza, degli elettrodomestici più sofisticati. Fabbisogno : è la quantità di beni necessaria a soddisfare completamente(o in misura considerata adeguata) un bisogno. Nel caso di un solo bisogno, la tendenza generale è quella di soddisfarlo direttamente, avendone i mezzi; nel caso di più bisogni con quantità limitata di mezzi a disposizione vi è la necessità di distribuire i beni per il soddisfacimento differenziato, in tempo e quantità, dei diversi bisogni. Il criterio utilizzato per decidere la modalità di soddisfazione dei bisogni è quello determinato dall’intensità del bisogno. Tale intensità del bisogno decresce in relazione all’uso progressivo di un bene idoneo ad appagarlo; cioè la soddisfazione di ogni bisogno avviene per gradi. La distribuzione dei beni disponibili tra i diversi bisogni sarà tale (per un comportamento razionale) che non si passerà mai a soddisfare un dato bisogno oltre un certo grado di intensità se esiste ancora insoddisfatto un altro bisogno di intensità superiore. In specifico si può dire con Jevons che “la distribuzione di una massa limitata di beni destinata a soddisfare vari bisogni viene effettuata in modo tale che, al momento dell’esaurimento dei beni posseduti, i bisogni che sono stati soddisfatti abbiano raggiunto tutti lo stesso grado di intensità e questi siano i maggiori che in quel momento l’individuo risente”. Beni : sono quelle risorse in grado di soddisfare i bisogni. In questo senso così ampio, tutti i beni sono utili o necessari ma, per essere oggetto di interesse per l’economia e quindi essere considerati beni economici, devono essere limitati in quantità, in qualità o in disponibilità e pertanto insufficienti a soddisfare i bisogni di tutti gli individui (consumatori) in qualsiasi momento. Senza la limitatezza (o scarsità relativa), un bene non è definito “economico” (pur potendo essere assolutamente necessario) e viene detto “libero” perché offerto dalla natura senza che si debba sostenere uno sforzo per acquisirlo (è il caso dell’aria o dell’acqua in certe condizioni, della luce del sole e del clima oppure, fino a qualche decennio fa, anche dell’ambiente). Le condizioni che rendono “economico” un bene sono tali che: 1) deve esistere un individuo che senta un bisogno; 2) deve esistere un mezzo (ossia un bene) idoneo a soddisfare un bisogno; 3) deve essere conosciuta l’esistenza del bene; 4) il bene deve essere accessibile; 5) un individuo deve essere disposto a corrispondere un determinato prezzo per avere quel bene (quindi a dare una controprestazione). Molti bisogni non vengono appagati con l’uso di beni materiali ma con dei “servizi” (individuali o combinati, pubblici o privati). Anche i servizi sono quindi considerati dei beni. Nel concetto di bene è implicito anche quello di mercato e quindi quello di essere oggetto di scambio. I beni economici possono essere classificati in vari modi (esponiamo solo alcune distinzioni non esaustive): - beni di consumo o diretti - se non hanno necessità di ulteriori trasformazioni per essere impiegati (cibo, abiti, vacanza) - beni di investimento - se possono portare ad una soddisfazione dei bisogni solo in via mediata e con attività intermedie da praticare (costruzione di macchinari, strade, ponti) - beni succedanei o concorrenti o surrogati - se hanno la capacità di sostituire altri beni in grado di soddisfare lo stesso bisogno - beni complementari - se non sono in grado, da soli, di soddisfare completamente bisogni - beni inferiori o beni superiori/normali - se la loro domanda decresce o invece aumenta all’aumentare del reddito a disposizione - beni privati o pubblici - se il loro consumo esaurisce la possibilità di utilizzo da parte di altri individui (escono dalla sfera di disponibilità da parte dei non proprietari) oppure sono invece disponibili simultaneamente per numerosi utilizzatori e il singolo consumo non esaurisce o pregiudica il consumo da parte di altri (strade, illuminazione stradale, ecc.); - beni materiali o immateriali a seconda che abbiano una vera consistenza fisica oppure concedano solo un diritto (crediti, brevetti, marchi, avviamento di una impresa, ecc.); - beni di consumo immediato, semidurevoli o durevoli a seconda che protraggano la loro idoneità di soddisfazione per uno solo o per più atti. Le scelte produttive In relazione alla limitatezza o scarsità delle risorse disponibili rispetto ai bisogni da soddisfare occorre decidere quale sia il meccanismo di scelta che consenta di individuare come rispondere alle seguenti domande: a) quali e quanti servizi e beni devono essere forniti o prodotti; b) come devono essere prodotti beni e servizi; c) da chi devono essere prodotti e a chi devono essere distribuiti. Vediamo in particolare: a) Quali e quanti beni/servizi produrre - Il problema implica conoscenza dei bisogni sentiti dai consumatori, capacità di entrare e stare sul mercato, disponibilità di risorse finanziarie adeguate. La decisione va riferita alla scelta tra le tipologie dei beni da produrre, la gamma di beni all’interno di un settore, la proporzione in cui renderli disponibili nell’ambito del sistema di mercato. In genere, la scelta di produrre un bene, data la scarsità di tutte le risorse (naturali, umane o di capitale) avverrà a scapito di un altro bene perché la produzione di un bene comporta l’uso di risorse limitate e il sostenimento di un costo, detto costo opportunità, valutato in termini di quantità e valore di altro bene a cui bisogna invece rinunciare. b) Come produrre beni e servizi - La decisione da prendere riguarda la tecnologia impiantistica da usare, il processo chimico e fisico di base e di dettaglio, la combinazione dei materiali, l’organizzazione e gli orari di lavoro da dare al personale, lo stoccaggio di materie prime e prodotti finiti, il reperimento di materie prime ed energie. c) Da chi devono essere prodotti e a chi devono essere distribuiti – Ancora una volta la scarsità delle risorse impone scelte a favore o a danno di certi impianti, stabilimenti, aree geografiche, tipo di personale, mercati interni e internazionali, ingrosso e dettaglio, verso trasformatori intermedi o consumatori finali, con consegna presso la fabbrica o al singolo domicilio, con mezzi di trasporto propri o di terzi, con ricorso a forme di pubblicità su mass media o in forma anonima, con sconti particolari o su listini di prezzo fissi. L’insieme di tutte queste operazioni deve inoltre avvenire con la miglior efficienza, la quale si raggiunge nel punto in cui non è più possibile aumentare la produzione di un bene senza dover necessariamente diminuire la produzione di un altro bene. Inefficiente è quindi un sistema in cui, con le risorse disponibili, è ancora possibile aumentare la produzione di un bene senza ridurre la produzione di un altro. I sistemi economici: il sistema di mercato Il modo in cui avviene l’allocazione delle risorse (ossia la ripartizione tra le varie imprese che producono i beni e tra gli individui che costituiscono gli utilizzatori degli stessi beni) dipende dalla struttura dei sistemi economici. Qualsiasi sistema, sia esso capitalista o socialista pianificato, deve cercare di rispondere alle domande prima poste in merito alle scelte economiche; le risposte però saranno diverse in base al tipo di sistema e potranno essere date o dal libero mercato (se lasciate all’autonomia dei singoli produttori e consumatori escludendo l’ingerenza dello Stato) o da autorità centrali (con lo Stato propulsore della vita economica in cui tutto è soggetto alle sue disposizioni rese obbligatorie e spesso pianificate rigidamente). In realtà, al presente, non esistono economie totalmente pianificate o completamente libere perché i sistemi economici dei diversi Stati combinano in diverso rapporto aspetti significativi positivi di tutti e due i sistemi estremi. In pratica si ha a che fare con sistemi economici misti che, nell’un caso, presuppongono l’intervento dell’operatore pubblico quanto meno per fissare le regole di comportamento e farle rispettare, mentre nell’altro caso consentono libertà di azione, se non altro, per l’economia domestica o il piccolo artigianato. In tutte le economie viene comunque operato uno scambio dei diversi beni e servizi non essendo ormai concepibile una economia totalmente autarchica sia essa personale, famigliare, di clan o di nazione. Scambio : è la reciproca e libera cessione fra persone o enti di una certa quantità di ricchezza contro una specie diversa di ricchezza. Nel tempo le forme dello scambio hanno subìto modificazioni (pur essendo ancora tutte praticate) passando da un esclusivo sistema di baratto (scambio di beni in natura) alla compravendita (scambio di beni con ausilio di moneta), al credito (scambio di beni con impegno di pagamento futuro), fino al pagamento virtuale (utilizzo di carte di credito o bancomat). Le condizioni necessarie perché avvenga lo scambio presuppongono: a) che i soggetti attribuiscano maggiore utilità ai beni altrui; b) che si conoscano le possibilità di scambio; c) che il trasferimento dei beni sia possibile nel tempo e nello spazio. La convenienza dello scambio si protrae fino a quando si annullano le differenze delle utilità dei beni scambiati mentre la ragione o tasso di scambio è il rapporto o proporzione con cui si scambiano beni diversi tra soggetti diversi. I soggetti che operano sui mercati devono essere informati sulla possibilità di scambio e sulle condizioni che lo regolano ma sarà sempre presente anche la cosidetta mano invisibile (teorizzata da Adamo Smith come la forza della convenienza e del proprio interesse) che media automaticamente fra quantità e prezzi senza che ciascun operatore se ne renda personalmente conto ma senza la quale il mercato non potrebbe funzionare correttamente. Ciascun individuo “capisce solo il proprio interesse” ( Stuart Mill diceva che gli individui preferiscono un vantaggio maggiore ad uno minore), ma nel farlo promuove inconsapevolmente anche l’interesse pubblico perché la convenienza del produttore in libera concorrenza è quella di vendere di più e per ottenere questo deve abbassare i prezzi favorendo così i consumatori. Alla base del regime di scambio vi sono delle regole da osservare o delle non regole (anche la decisione di non dare regole è una regola: è la deregulation proposta da alcuni governi) e le qualità fondamentali da osservare da parte di tutti gli attori sono: il rispetto della volontarietà dello scambio, il diritto di proprietà sulle risorse (chi si priva di un suo bene deve farlo per libera scelta), la specializzazione (nessuno può produrre al meglio tutti i beni e quindi deve concentrarsi sui beni che sa produrre meglio) e la divisione del lavoro (la produzione migliora se l’addetto si concentra su una o solo poche fasi dell’attività). Ad ulteriore precisazione e completamento delle qualità essenziali dello cambio si indica: - la volontarietà degli scambi e diritti di proprietà - L’economia di mercato presuppone che gli scambi avvengano in modo volontario e quindi che esistano istituzioni in grado di permettere e di far rispettare le azioni di scambio dei beni e quelle connesse con i diritti di proprietà sulle risorse; - la specializzazione si ha quando un operatore concentra la sua attività su un particolare settore per utilizzare al meglio le proprie capacità in quanto acquisisce elevate abilità tecniche che si traducono in elevati livelli di efficienza; - la divisione del lavoro comporta la spaccatura della modalità di produzione in numerose fasi o compiti singoli specialistici consentendo di aumentare la quantità di beni ottenuti in ogni unità di tempo (aumento di produttività) e quindi a costi unitari ridotti. Mercato : in passato era il luogo in cui si svolgevano le contrattazioni delle merci (mercato chiuso). Ora è dato dall’ insieme di rapporti d’affari relativi a merci, immobili, capitali, titoli finanziari intercorrenti tra diversi contraenti in condizione di comunicare rapidamente tra loro (mercato aperto). Il mercato è quindi il luogo di incontro della domanda e dell’offerta di beni ed è costituito dall’insieme di operatori, compratori e venditori, che hanno rapporti di scambio (mercato effettivo) o vogliono averli (mercato potenziale). Il sistema di mercato ha come riferimento il principio della mano invisibile enunciato da Adam Smith nel 1776 in base al quale, nel perseguire egoisticamente il proprio interesse, ogni individuo è guidato da una immaginaria “mano” che lo porta anche a perseguire contestualmente e inconsapevolmente gli interessi della collettività nella fissazione dei prezzi e delle quantità scambiate. Le regole del mercato – Sono costituite da leggi e regolamenti che fissano le norme riguardanti le modalità di realizzazione degli scambi. Alcune regole vengono volontariamente introdotte come vincoli dagli stessi soggetti che operano sui mercati, altre vengono imposte dalle autorità preposte al controllo. In ogni modo, deve essere assicurata e garantita la libertà di effettuare gli scambi sul mercato affinché lo stesso possa funzionare correttamente. Qualora i soggetti si discostino da tali regole o si senta l’esigenza di regole più attuali è necessario che l’operatore pubblico intervenga con strumenti adeguati in modo da incentivare o obbligare i soggetti ad assumere comportamenti compatibili con le regole adottate. Esiste dunque complementarietà tra un funzionamento appropriato del mercato e l’esistenza di istituzioni giuridiche preposte a garantire l’ambito in cui avviene lo scambio; tuttavia, al fine di consentire il pieno dispiegarsi delle potenzialità del mercato occorre che il sistema giuridico abbia caratteristiche di certezza basate su leggi generali che formino la cornice di regole entro le quali può liberamente svolgersi l’organizzazione dello scambio. Il mercato competitivo è quello nel quale i venditori e i compratori sono piccoli e abbastanza numerosi e quindi con potere pressoché nullo così che essi considerano il prezzo di mercato come un dato non influenzabile nel momento in cui decidono quanto vendere e quanto acquistare. Prezzo - in una economia di mercato i beni prodotti vengono attribuiti a coloro che sono in grado di pagare un dato prezzo, ossia un adeguato controvalore economico del bene ricevuto. Il sistema dei prezzi di mercato costituisce lo strumento che permette di ripartire fra i vari consumatori potenziali i beni che vengono prodotti. La ripartizione è selettiva e limitata di numero perché la quantità di beni che la collettività desidera è sempre superiore alla disponibilità (in una economia collettivista la ripartizione dei beni avviene senza tener conto dei gusti o dei bisogni individuali ma in una stessa quantità eguale per tutti con la conseguenza di una enorme distruzione di soddisfazioni individuali sempre diverse da un soggetto all’altro). Il prezzo o il valore di scambio serve appunto per ripartire i beni disponibili col massimo possibile della soddisfazione individuale o con la minore insoddisfazione. Questa soddisfazione individuale non corrisponde alla soddisfazione sociale e in ciò può essere necessario un intervento mediatore dello Stato. Con altra ottica, il prezzo è anche la misura dell’utilità attribuita ad un bene cioè il vantaggio che ciascuno ritiene di poter trarre dall’uso del bene. Il vantaggio deriva dal confronto tra l’utilità che si riceve dal bene comperato e l’utilità di ciò che si cede in cambio ossia un altro bene o una determinata quantità di moneta o una certa dose di lavoro o altro ( quindi un valore di scambio). I diritti di proprietà Sono da intendere l’insieme di leggi, usi e regolamenti che contribuiscono a determinare la potestà di ciascuno relativamente all’appropriazione, all’uso ed al trasferimento dei beni prodotti o disponibili. I diritti di proprietà si evolvono nel tempo sotto l’influsso di fattori economici, sociali e politici. L’attribuzione o la modifica del sistema dei diritti di proprietà agisce sul comportamento dei soggetti economici e quindi sull’allocazione delle risorse, sulla composizione della produzione e sulla distribuzione del reddito. Perché ciò avvenga in modo efficiente i diritti devono essere completi e cioè possedere le caratteristiche di: 1) escludibilità = cioè la possibilità di impedire ad altri l’utilizzo dello stesso bene nello stesso tempo. Senza questo diritto il potere e la capacità di controllo del soggetto risultano limitati perchè non può appropriarsi di tutti i benefici che derivano dall’uso del bene stesso. Nonostante i vincoli di costo che talvolta risultano necessari da superare per acquisire il titolo di escludibilità (pratiche burocratiche, notarili, lavori da effettuare per tracciare i confini, tasse periodiche da versare, ecc.) l’acquisizione di questa caratteristica comporta vantaggi elevati tali da far superare, se possibile, anche gli ostacoli o le difficoltà eventualmente posti dall’ordinamento giuridico; 2) trasferibilità = ossia la possibilità di procedere all’alienazione del bene attraverso lo scambio. Senza questo requisito le risorse non potranno essere amministrate nel modo migliore e indirizzate all’uso più efficiente. Ostacoli alla trasferibilità possono essere posti dalle stesse autorità e per fini considerati superiori e consistono o in disposizioni di legge o in oneri economici particolarmente gravosi ed elevati (es. passaggi di proprietà di immobili richiedono pratiche catastali e notarili). Ovviamente i diritti devono essere tutelati con adeguate norme e sanzioni; un diritto non tutelato e che quindi non possa essere fatto valere equivale ad un non diritto. In un sistema di mercato in cui i diritti sono perfettamente definiti e gli attori economici possono scambiarli liberamente l’allocazione finale dei diritti di proprietà sarà efficiente: indipendentemente dalla natura pubblica o privata dei diritti ogni bene si troverà impiegato in modo tale che il suo rendimento sia massimo. Con ciò non si vuol dire che non si possano o non si debbano mettere vincoli ai diritti per raggiungere fini economici o di socialità ancora più importanti; si vuol soltanto distinguere quella che è la visione più corretta del libero mercato da quelle che possono essere le politiche economiche migliori in un determinato contesto. Per molte risorse (soprattutto per le risorse ambientali o naturali) potrebbero mancare i diritti di proprietà (manca quindi il requisito dell’universalità dei diritti). In tal caso, questi beni vengono utilizzati dai soggetti in modo indiscriminato senza che siano chiamati a pagare il costo connesso alle eventuali esternalità negative che possono causare (ossia la produzione di danni o la riduzione del benessere per la collettività quali possono derivare da inquinamenti di acqua o aria); inoltre, su molti diritti esistenti possono venir posti dei limiti (ad esempio alla piena escludibilità o alla trasferibilità) trasformandoli in diritti non assoluti e decidendo se e come riportarli sul mercato (si pensi al parziale diritto di inquinamento per emissioni di sostanze o per la circolazione limitata di mezzi in certe aree) utilizzando l’intervento dell’operatore pubblico che potrebbe decidere di scegliere se istituire dei diritti di proprietà collettivi, oppure dei prezzi amministrati o dei correttivi a livello di imposte o sussidi. Un’altra ottica dalla quale può essere esaminato il prezzo dei beni è proprio quella discendente dai diritti di proprietà. Infatti il valore di ogni bene scambiato viene a dipendere dall’insieme dei diritti di proprietà che si concretizzano negli scambi negoziali. In concreto, il problema della determinazione dei prezzi può essere visto come un problema di definizione, attribuzione e scambio dei diritti di proprietà che si realizza mediante la definizione di contratti che indicano il contenuto economico dell’operazione, gli impegni che assumono le parti e i modi in cui le transazioni dei diritti di proprietà vengono realizzate. Le forme di mercato Operare in un sistema di mercato non significa trovare strutture omogenee e valide per tutti i settori produttivi. Vedremo in seguito, in analisi, le forme più classiche di mercato, ma sin d’ora accenniamo che la forma più classica di mercato, più studiata, più portata a paragone per giudizi e confronti di validità ma sicuramente anche la più rara da trovare applicata allo stato ideale puro è quella della concorrenza perfetta o libera concorrenza mentre l’altra forma specularmente opposta nei paragoni e nei giudizi è quella del monopolio. Le forme intermedie a questi due sistemi sono quelle nella realtà più presenti e attuali e in particolare sono state individuate e descritte quelle dell’oligopolio e della concorrenza monopolistica. Come primi tratti distintivi delle diverse forme di mercato (argomento ripreso in successivi capitoli) si indicano i seguenti: a)Concorrenza perfetta : è la prima forma di mercato studiata dalla scuola dei Classici e vede compratori e venditori agire con la massima libertà di movimento e la piena conoscenza della situazione economica del momento. Se realizzata, dovrebbe permettere di ottenere i risultati economici teoricamente migliori perché prezzi, quantità di beni e costi sono ottimizzati, proprio dalla concorrenza, al livello della massima efficienza per la collettività. In essa operano molti contraenti (per definizione senza limite numerico) che offrono beni omogenei indifferenziati. Le imprese presenti non si pongono, singolarmente, problemi di quantità da vendere purchè sia accettato il prezzo di mercato e il prezzo non può essere influenzato dai singoli produttori e consumatori in quanto la loro quota di produzione è modesta rispetto al volume complessivamente trattato. Ogni impresa decide il proprio livello di offerta e trascura il comportamento delle altre imprese del settore con libertà di entrare e uscire dal mercato in qualsiasi momento. I consumatori sono figure razionali e non influenzabili ingannevolmente, conoscono i prezzi della concorrenza scartando immediatamente i peggiori e si spostano geograficamente per cogliere le migliori occasioni di mercato ovunque si presentino. b)Monopolio : riguarda un mercato in cui opera un solo produttore o consumatore e non vi sono possibilità per altri di subentrare a causa dei vincoli oggettivamente presenti. Vi è libertà di esprimere il prezzo o, in alternativa, di decidere la quantità da acquistare o vendere. E’ la forma di mercato che dà i maggiori vantaggi a colui che dispone di questo titolo di proprietà perché è vincolato solo dal perseguimento del suo massimo guadagno ossia dal maggiore scarto assoluto tra il costo di produzione e il ricavo, determinato quest’ultimo dal risultato della moltiplicazione della quantità che potrà vendere/acquistare per il massimo prezzo unitario praticato. c)Concorrenza monopolistica : è una forma di concorrenza imperfetta con una struttura caratterizzata dalla presenza sul mercato di un elevato numero di imprese (però non illimitato come nel caso precedente della libera concorrenza) che vendono prodotti pressoché uguali ma per certi versi distinguibili dagli altri per le qualità solo pubblicizzate o pseudoqualità (ad esempio il tipo di confezione usato) oppure sono disponibili in aree di vendita privilegiate per intensità di clienti o per tipologia di consumatori (ad esempio in centro città o zone attigue a mercati, scuole, fabbriche). Il prezzo di vendita dei prodotti è influenzato da queste caratteristiche distintive e consente spazi di ricavo superiore ai costi marginali di produzione. d)Oligopolio : vede la presenza di un numero limitato di imprese, ciascuna delle quali controlla una quantità considerevole di produzione e di vendita (imprese petrolifere o automobilistiche o aeronautiche). Il prezzo viene determinato da alcune imprese (quelle di maggiori dimensioni) considerate leader ma può essere calmierato dalla possibile concorrenza da parte delle altre. Una strategia che potrebbe essere seguita dalle imprese per limitare questa concorrenza all’interno dell’oligopolio è quella di concordare tra loro, in modo collusivo, un prezzo superiore a danno dei consumatori (forma di cartello). Problemi di metodo di studio dell’economia L’elaborazione teorica e dottrinaria predisposta dagli studiosi di economia è estremamente vasta come ben si può immaginare sia stato il prodotto di oltre 200 anni di studi intensi compiuti in tutto il mondo da parte di molti scienziati, nessuno dei quali è stato smentito in via definitiva per le sue teorie ma solo superato nelle contingenze storiche periodicamente presentatesi e poi ripresentatesi in tempi successivi. Il mondo reale è comunque incomparabilmente più complicato delle più complete previsioni teoriche elaborate dagli economisti e solo il ricorso a modelli e semplificazioni può consentire una parziale spiegazione dei fenomeni, una sufficiente conoscenza di particolari eventi ricorrenti e una analisi razionale di alcuni sistemi di mercato. Modelli economici : permettono di descrivere i fenomeni e di spiegarne la natura e le relazioni di causa e effetto in modo semplificato facendo astrazione dal mondo della realtà, troppo complesso per essere tutto rappresentato contemporaneamente. Un modello simula una situazione e le diverse alternative possibili consentendo così di chiedersi cosa possa succedere nei vari casi ipotizzati per mezzo di esperimenti i cui risultati vengono tradotti in diagrammi ed equazioni che tentano di interpretare e possono spiegare cosa accadrà in situazioni particolari ma effettive e di valutare i meccanismi principali del sistema considerato. Un primo esempio di modello economico che possiamo illustrare è quello del diagramma del flusso circolare del reddito (vedi grafico e spiegazione a pag. 47) in cui tutto il sistema economico è riassunto in due elementi : famiglie e imprese le quali si scambiano, in due schemi di flusso a senso invertito, beni e moneta. E ciò per dimostrare una stretta e vitale interdipendenza tra tutti i soggetti economici, visti talvolta come fattori di produzione e percettori di reddito e talvolta come produttori di beni ed erogatori di reddito. Un altro esempio di modello prende in considerazione la frontiera della produzione (vedi grafico e spiegazione a pag. 47) ossia la migliore combinazione di produzione di diversi beni presi a coppie in un particolare momento, date certe risorse economiche e tecnologiche. Tutte le diverse varietà di prodotti presenti sui mercati, combinati in tutti i possibili processi produttivi sono rappresentati nel modello con rette o curve che segnano l’ottimo “paretiano” (dal nome dell’economista Pareto che ha studiato l’argomento) ottenibile e i confini insuperabili di miglioramento che fungono però anche da obiettivo ideale di ulteriore sviluppo per le imprese. Analisi dei sistemi di mercato e ipotesi di massimizzazione delle utilità e dei profitti Le analisi si propongono di descrivere la realtà e di dare indicazioni di come, idealmente, essa dovrebbe essere partendo dall’assunto che gli individui agiscano in modo coerente e razionale, con una conoscenza completa delle proprie preferenze, degli obiettivi che intendono perseguire e del modo di raggiungerli. Nel caso pratico di analisi del comportamento di un consumatore l’ipotesi di razionalità vuol significare che egli opera le proprie scelte in modo da rendere massima l’utilità o la soddisfazione che ottiene con l’impiego ottimale del proprio reddito per acquistare una determinata quantità di beni e servizi. Nel caso invece di un produttore la stessa ipotesi razionale vuole indicare che egli deve operare col fine di rendere massimi i profitti, cioè ottenere il massimo beneficio dalla vendita dei propri prodotti senza essere distratto da considerazioni sociali di etica o di servizio. Per le due parti si tratta quindi di realizzare per ciascuna l’obiettivo di ottenere il massimo risultato col minimo impegno di tempo e di spesa (principio economico del massimo tornaconto). Per formulare teorie (in economia come in qualsiasi altra scienza) le fasi da seguire sono tre: - formalizzare le relazioni tra le variabili interessate (matematicamente si dice che si deve trovare la corrispondenza biunivoca tra di esse); - analizzare ciò che discende dalla relazione ipotizzata; - verificare se la relazione ipotizzata e le tesi che derivano siano riscontrabili nella realtà. Se prendiamo in considerazione due variabili X e Y, una relazione dovrebbe dimostrare che ad ogni valore di X corrisponde uno ed un solo valore di Y e cioè che Y è funzione di X . Per le funzioni economiche da valutare, il problema matematico che si pone per trovare la soluzione è lo stesso di qualsiasi altra equazione: il numero delle condizioni indipendenti e non contraddittorie deve essere uguale al numero delle incognite. Se è inferiore, il problema è indeterminato (ammette un numero infinito di soluzioni), se è superiore il problema è insolubile (troppe condizioni non simultaneamente soddisfatte). In un esempio pratico di problema economico da analizzare si potrebbe cercare di dimostrare la relazione esistente tra il consumo di beni C e il reddito Y percepito da un singolo o da una collettività quindi trovare se C = f (Y). Ciò equivale a verificare se la variabile C è dipendente dalla variabile indipendente Y quindi se il Consumo è funzione del Reddito. Se nel lavoro di analisi si dovesse riscontrare che esiste una relazione tale per cui C = 0,80 Y si avrebbe come conseguenza quella di poter dire che il consumo di un individuo dipende dal suo reddito disponibile, solo però nei limiti dell’80% del totale del reddito. Questa risposta microeconomica può essere importante perché, trasferita in macroeconomia, potrebbe far trarre delle considerazioni di forte peso politico ed economico in quanto collega decisioni di politica economica (aumentare i consumi o accrescere i redditi) con possibili effetti moltiplicatori che vanno ad incidere su sviluppi produttivi e su disoccupazione in modo differente da quello che potrebbe derivare, sia nel caso non esistesse relazione funzionale, sia se la relazione funzionale tra le variabili avesse valori diversi da quelli ipotizzati. La relazione matematica sopra indicata potrebbe avere una rappresentazione grafica del tipo: C (consumi) C = 100 + 0,80 Y 100 0 Y ( reddito) Dalla relazione esposta in grafico si potrebbero trarre alcune indicazioni importanti sia per il politico che per l’economista: 1) anche a reddito nullo un certo consumo è obbligatorio, se non altro per la sopravvivenza del soggetto (nel nostro caso, a reddito zero si ha comunque un determinato consumo = 100); 2) un determinato reddito non è totalmente dedicato a consumo ma in parte viene risparmiato (nel nostro caso la differenza tra 80% e 100% del reddito) per affrontare evenienze future; 3) misurata in tempi e in luoghi diversi può individuare cambiamenti di tendenza o rimarcare differenze importanti per la politica economica di una collettività. Come si è già avuto modo di segnalare, le relazioni sono, in economia, tendenziali e di natura probabilistica quindi, per l’esempio riportato, non sarà mai vero nei singoli casi puntuali di poter ritrovare sistematicamente questi valori ma in media, nella massa dei dati complessivi aggregati (attività della macroeconomia), in tempi medio-lunghi e in determinate aree di paesi, sarà molto probabile riconoscere la validità della relazione. La statistica (e in particolare la statistica economica) aiuterà l’economia, con le varie tecniche che ha elaborato (come ad esempio i coefficienti di regressione e poi con i test di significatività), a valutare e stimare l’andamento delle variabili considerate. Nel caso ipotizzato si è parlato di reddito e di consumo ma facilmente si può estendere il criterio e il metodo al campo dei salari, della disoccupazione, degli investimenti, delle produzioni, ecc. La matematica è l’altra scienza di indispensabile sostegno dell’economia entrando puntualmente e frequentemente nello studio delle funzioni rappresentative di fenomeni economici e nei calcoli differenziali indicando i metodi per ricavare i valori delle variabili da considerare. I modelli nell’economia di mercato: il flusso circolare del reddito Abbiamo appena citato, parlando dei metodi di studio dei fenomeni economici, che un esempio di modello economico molto efficace per semplificare l’analisi del sistema di mercato, può essere rappresentato dal grafico detto del “flusso circolare del reddito”. In tale rappresentazione, tutti i rapporti di scambio economico tra i diversi soggetti del mercato vengono condensati in due sole sezioni: consumatori (singoli o famiglie) e produttori (imprese). L’aspetto dominante della situazione è determinato dal fatto che le famiglie possiedono i fattori della produzione (lavoro, capitale e risorse naturali) e le imprese sono utilizzatrici di questi fattori per la produzione dei beni e servizi (tutte le attività di produzione). Contemporaneamente le imprese devono pagare alle famiglie il giusto compenso (cioè fornire il reddito) e le famiglie devono pagare alle imprese l’utilizzo dei beni necessari ai loro bisogni (cioè utilizzare il reddito percepito). Si ha cioè un doppio scambio nel sistema, tale che le famiglie, per il conferimento alle imprese dei fattori produttivi, acquisiscono un reddito col quale acquistano i beni e i servizi dalle stesse imprese. Tenendo conto degli scambi complessivi tra famiglie e imprese si può immaginare di avere una attività economica con un andamento circolare su due livelli: 1) un flusso reale di beni, servizi e risorse produttive che va dalle famiglie alle imprese per fornire i fattori della produzione (lavoro, capitale e terra) e che ritorna poi alle famiglie sotto forma dei beni prodotti e necessari per le esigenze quotidiane; 2) un flusso monetario che va in direzione opposta e dalle imprese si indirizza alle famiglie come pagamento di salari, interessi e rendite e ritorna poi alle imprese a pagamento dei beni acquistati dalle famiglie. Il modello che esce da questi flussi reali e monetari è detto flusso circolare del reddito e spiega bene l’interdipendenza tra i diversi “portatori di interesse” anche se la raffigurazione grafica, al momento, è incompleta e semplificata non considerando, per ora, altri operatori economici che intervengono a pieno titolo nello scambio come lo Stato nazionale (attore forte per l’influenza che può avere per l’entità delle imposte applicate o della spesa pubblica) o gli Stati esteri (rapporti tra le monete) o anche le banche (sistema creditizio). Come si potrà vedere in seguito però anche l’introduzione di queste ultime figure non altera l’essenza del modello come importante elemento di considerazione non solo per gli aspetti economici statici ma anche per ogni decisione di politica attiva perché ogni operatore esercita contemporaneamente una domanda e una offerta, elementi questi che determinano il prezzo e la quantità di equilibrio di ciascun bene e di ciascun fattore. L’equilibrio delle variabili quindi sembra avvenire in modo spontaneo, volontario, quasi fatale e sono queste le caratteristiche principali del sistema di mercato. A loro volta i mercati nazionali e internazionali sono interdipendenti determinando una sorta di equilibrio generale universale guidato da quella mano invisibile che determina i prezzi come conseguenza delle domande e offerte aggregate e della libera circolazione di beni e di comunicazioni. Beni e Servizi Spese famiglie Flusso reale Famiglie Imprese flusso monetario Redditi famiglie Fattori produttivi Stato Banche I modelli nell’economia di mercato: la frontiera delle possibilità di produzione Il secondo modello semplificato sopra accennato, la frontiera della produzione, ci introduce nel mondo dello scambio o commercio per farci intendere la convenienza di ogni individuo o di ogni nazione a non limitarsi a produrre e consumare solo quanto è necessario per se stessi ma di ampliare l’orizzonte producendo per un mercato diverso e consumando da mercati diversi. Ciò facendo si sposta la frontiera della produzione, ossia il massimo limite di beni producibili da soggetti diversi, aumentando il benessere di tutte le parti perché tutte le parti traggono vantaggi in qualità e in prezzo da un commercio incrementato e cioè da uno scambio maggiore di beni. La negatività dell’autarchia, in termini di risultati, è uno dei punti di accordo tra tutti gli economisti e la dimostrazione si ha pensando che il ricorso a tale forma economica si verifica solo in casi eccezionali di guerra o di interruzioni di relazioni politiche cioè quando gli scambi sono impediti dagli eventi bellici o da boicottaggi di relazioni. Le modalità di rappresentazione della frontiera delle possibilità di produzione assumono questi andamenti esemplificativi ipotizzando di raggruppare tutta l’economia su due beni soltanto prodotti da singoli individui o Stati consumando tutti i fattori produttivi a disposizione in un certo momento: A E D* *H *G C* quantità B F Gli unici beni A e B, oppure E ed F si ipotizza possano rappresentare le quantità massime producibili da soggetti singoli o da singoli Stati utilizzando al meglio e al massimo tutti i fattori della produzione. Le rette o le curve che uniscono le diverse quantità dei due beni indicano la distribuzione delle quantità quando si decida di produrre o un solo bene (vedi il punto di stacco con l’ascissa o l’ordinata) o entrambi i beni in proporzioni diverse . Oltre i tracciati delle rette o curve (le frontiere della produzione) non si può andare perché si presumono esauriti i fattori di produzione (lavoro, capitale e terra) e pertanto non è immaginabile incontrare i punti asteriscati D o H. Quanto ai punti asteriscati C e G , evidentemente raggiungibili perché si trovano all’interno della frontiera, non conviene toccarli perché risultano non efficienti ossia non richiedono il massimo impiego ottimale dei fattori produttivi. La sola possibilità di raggiungere i punti esterni D* e H* è legata ad una variazione di tecnologia che introduca un risparmio unitario nel consumo di un fattore di produzione e quindi consenta di aumentare la produzione complessiva. Una variazione di tecnologia produttiva viene indicata con la curva tratteggiata sul grafico di destra ed è relativa al bene E. Da notare che la pendenza della curva sul grafico di destra è indice di una non perfetta sostituibilità delle produzioni dei due diversi beni dovuta probabilmente a capacità diverse dei fattori di produzione o a preferenze che non consentono la piena indifferenza verso un tipo di fattore o un altro. La rappresentazione della frontiera di produzione è quindi un modello perché consente con un semplice schema di riassumere (sia pure con possibilità di critica) concetti impossibili da rappresentare nella multiforme realtà perché troppo complessi. E’ evidente che, se un singolo soggetto produttore di due beni, di cui uno con migliori risultati dell’altro per vantaggi climatici, di fertilità, di tecnologia, di professionalità riesce a concentrarsi sulla produzione di quel solo bene producendolo nella quantità massima, avrà convenienza a scambiarne l’eccesso rispetto ai suoi bisogni con un altro produttore che, per le stesse ragioni, potrebbe essersi dedicato alla produzione del secondo bene. In definitiva è la frontiera della produzione che si sposta consentendo di toccare quei punti D o H che in una economia autarchica e in assenza di modifiche tecnologiche risultano irraggiungibili. Mercati e settori A livello concettuale i mercati vengono solitamente aggregati in settori diversi in relazione al tipo di produzione o al diverso soggetto proprietario della produzione. Circa il tipo di produzione si può distinguere tra un settore primario (comprendente tutte le attività di produzione di risorse naturali quali l’agricoltura, le miniere, le fonti di energia, la pesca), un settore secondario (e cioè le attività manifatturiere e di costruzione), un settore terziario (relativo a tutti i servizi, dal commercio ai trasporti, alla finanza, alle libere professioni). Un quarto settore, detto per ora del terziario avanzato e comprendente attività di alta tecnologia, informatica, servizi specialistici o innovativi sta assumendo spazi sempre più rilevanti nel processo economico. Circa il soggetto proprietario della produzione, la distinzione principale porta a distinguere tra il settore privato (presente in larga prevalenza nelle economie occidentali e caratterizzato dalla presenza di una moltitudine di imprese di dimensioni molto diversificate rappresentate da proprietari del capitale o da manager) e il settore pubblico (con prevalenze diverse nei singoli Stati in funzione di politiche economiche variabili e di momenti storici particolari) con presenze di pochi soggetti non personalizzati (Enti) di dimensioni molto grandi (Stato, Regioni, Province, Comuni, Consorzi) rappresentati da funzionari nominati dal Governo o da rappresentanze politiche locali. Le forze del mercato e le curve di Domanda e Offerta Tra le parole usate dagli economisti, quelle di Domanda e Offerta risultano nettamente privilegiate in termini assoluti perché corrispondono alle forze che fanno funzionare i mercati in quanto determinano le quantità dei beni acquistati e venduti e i relativi prezzi. Per valutare gli effetti economici che potrà avere un evento politico, sociale, meteorologico, legislativo o altro, un interrogativo da porsi è di pensare a come sarà influenzata da tale evento la domanda e l’offerta di singoli beni o di tutto il sistema economico. Si dovrà quindi valutare il comportamento dei compratori e dei venditori, dei prezzi dei beni e della conseguente allocazione delle risorse. I termini “domanda” e “offerta” fanno solitamente riferimento al comportamento del gruppo di soggetti che interagiscono sul mercato e non al singolo compratore o produttore il quale, per motivazioni particolari, potrebbe agire con modalità incoerenti rispetto ad un modello teorico. a) La Domanda La domanda individuale indica la quantità complessiva di un bene che i consumatori hanno desiderio o necessità di acquistare in relazione a determinati prezzi. Tra prezzo e quantità domandata esiste una relazione negativa o inversa rappresentata con una curva crescente di quantità domandata in funzione di un prezzo decrescente, ferme altre condizioni (coeteris paribus) quali potrebbero essere i prezzi di altri beni sostitutivi, il reddito, il gusto, ecc. Questa relazione è generalizzabile alla maggior parte dei casi tanto da poter essere chiamata : legge della domanda P prezzo curve classiche di domanda in funzione del prezzo Q quantità Ogni compratore avrà una sua curva di domanda che, pur mantenendo una pendenza negativa, sarà diversa e caratteristica per ogni individuo preso singolarmente. La domanda complessiva del mercato si otterrà sommando orizzontalmente tutte le domande singole. Ogni variazione del prezzo del bene indagato causerà uno spostamento della quantità domandata che avverrà seguendo l’andamento della curva, quindi “lungo” la curva con conseguente incremento o diminuzione della quantità complessivamente domandata. P prezzo P1 P2 Q1 Q2 Q* quantità In realtà, per una rappresentazione più corretta, anche se non esaustiva di tutte le conseguenze determinate dalle possibili variabili coinvolte, la quantità domandata Qd dipende, non solo dal prezzo Px del bene oggetto di indagine, ma anche da altre variabili quali il prezzo (Py ) di altri beni, dal reddito (Y ), dai gusti o preferenze (G ) del consumatore, dalle aspettative (A ) sul futuro, ecc. ( e inoltre anche dalla politica del credito delle banche o dalla politica economica del governo) per cui, limitandoci alle prime variabili individuate, avremo una domanda che diventerà una funzione di più variabili e non solo del prezzo del bene: Qd = f (Px, Py ,Y, G, A) P prezzo P1 alternative alla curva di domanda P2 Q (quantità) Q1 Q2 La modifica di altra variabile che non sia il prezzo del bene (e quindi il prezzo di altri beni, reddito, preferenze del soggetto o aspettative sul futuro) determina uno spostamento della curva di domanda. Quindi, un aumento, ad esempio, del reddito dei consumatori sposta la domanda dei beni normali verso destra e ciò perché, in corrispondenza di ogni livello di prezzo, sarà domandata una quantità superiore di bene disponendo il consumatore di maggiore quantità di moneta a cui potrà attribuire una utilità singola minore rispetto alla precedente situazione di reddito. Viceversa, nel caso di una riduzione del reddito, si verificherà uno spostamento della curva verso sinistra con acquisti di minori quantità di bene pur ad invarianza del prezzo. Un caso particolare (e contrario a quanto si sta dicendo) è dato dall’esame dell’andamento della domanda dei cosiddetti beni inferiori (tali sono quelli che il singolo considera della stessa tipologia idonea a soddisfare un bisogno ma meno pregiati per diversi motivi: ad esempio i surrogati, le seconde scelte, i tipi di carne solitamente meno richiesti, ecc.) per i quali un eventuale incremento di reddito del consumatore abituale, provoca solitamente una riduzione della quantità acquistata a favore dei corrispondenti beni normali, determinando, per i primi, anche lo spostamento della curva verso sinistra (quindi, pur senza essere variato il prezzo e con reddito maggiore, vi sarà minor richiesta quantitativa del bene inferiore). Riepilogando, la variazione del solo prezzo del bene, invariate le altre condizioni e prezzi, determina soltanto spostamenti lungo la curva di domanda e questo spostamento riflette la disponibilità a pagare, da parte del consumatore e per ogni determinata quantità del bene, quel determinato prezzo. Il prezzo che si viene a determinare sul mercato della libera concorrenza attraverso il meccanismo che stiamo vedendo è quello accettato dal consumatore marginale cioè quel consumatore che, per primo, abbandonerebbe il mercato se il prezzo fosse appena più elevato o anche quello dell’ultimo consumatore disposto ad acquistare a quel prezzo. La curva di domanda di mercato di tutti i consumatori, per un determinato bene, è data dalla somma orizzontale (in relazione ad ogni prezzo), della quantità di beni richiesta dai vari consumatori. La figura sotto riportata indica la costruzione della domanda di mercato nel caso di due soli consumatori ma il procedimento è lo stesso per una molteplicità di consumatori A p* B M domanda del consumatore A + domanda del consumatore B = domanda di mercato M p1 Quantità I consumatori hanno tuttavia bisogno, non di un solo bene, ma di più beni o di panieri di beni e pertanto l’andamento della domanda sul mercato deriva da un incrocio di diverse componenti di beni e servizi che i consumatori mostrano di prediligere. Le diverse combinazioni di quantità di beni differenti ( per semplicità e modello ad esempio solo i beni A e B) o di panieri di beni differenti che forniscono ad un consumatore lo stesso livello di utilità (soddisfazione) si rappresentano con delle curve chiamate curve di indifferenza, le quali sono determinate dalla congiunzione dei diversi punti di incontro delle variabili Q e P (quantità richiesta ad ogni singolo prezzo). Bene A Curva di indifferenza tra le quantità dei beni A e B Bene B Se aumenta l’utilità di uno o di entrambi i beni esaminati (oppure se aumenta il reddito) si passa a curve di indifferenza superiori (viceversa nel caso opposto di perdita di utilità o di diminuzione del reddito) per cui può essere tracciata una intera famiglia di curve di indifferenza in relazione a modifiche di utilità dei beni o di variazione del reddito o del valore della moneta. Bene A Famiglia di curve di indifferenza Bene B Proprietà delle curve di indifferenza : 1) Le curve di indifferenza hanno inclinazione negativa 2) Non si intersecano mai (sarebbe un controsenso per definizione perché vi sarebbero due gradi di soddisfazione uguali con dei presupposti diversi) 3) Ciascun paniere può giacere su un’unica curva di indifferenza 4) Normalmente le curve sono convesse verso l’origine (ciò implica che i panieri “intermedi” sono preferiti ai panieri “estremi” ossia solitamente i consumatori prediligono un mix di beni anziché esasperare l’uso di un solo bene). Potrebbe esistere un caso anomalo di curva di domanda con pendenza positiva se si fosse nell’ipotesi di un cosidetto “bene di Giffen” e cioè di un bene per il quale un aumento dei prezzi fa addirittura aumentare la quantità consumata. Si dovrebbe trattare di un bene cosiddetto inferiore rispetto ad altro con cui si può scambiare e al quale si potrebbe rinunciare (in periodi di crisi economica) per fare maggior ricorso al primo per avere un risparmio di spesa (si può fare il caso di maggior domanda di patate, pur aumentate di prezzo, al posto di domanda di carne ritenuta bene di lusso). La pendenza in qualsiasi punto della curva di indifferenza corrisponde al tasso per il quale il consumatore è disposto a scambiare un bene con l’altro. Questo tasso è chiamato tasso marginale di sostituzione. La forma delle curve di indifferenza dipende dalle preferenze individuali. Esistono due classi molto ampie di preferenze individuali: preferenze concave e preferenze convesse : le curve di indifferenza sono concave se l’individuo preferisce consumare i due beni congiuntamente, mentre sono convesse se desidera consumare i due beni separatamente. Una concavità meno marcata indica che i due beni sono facilmente sostituibili tra loro, mentre è fortemente marcata se i due beni sono scarsa mente sostituibili. Le curve di indifferenza sono lineari se l’individuo considera i due beni perfetti sostituti mentre hanno forma ad L se i beni sono considerati perfetti complementi (cioè devono essere considerati necessari entrambi) e andamento rigido per beni neutrali o indifferenti alle combinazioni. Bene beni perfetti A sostituti beni perfetti i A Bene B complementi Bene B beni A neutrali Bene B b) L’Offerta L’ offerta individuale indica la quantità di un bene (o servizio) che i produttori decidono di produrre e portare sul mercato in relazione a determinati prezzi. Tra prezzo e quantità offerta esiste una relazione positiva o diretta rappresentata con una curva crescente di quantità offerta in funzione di un prezzo crescente, ferme altre condizioni. P prezzo curva classica di offerta in funzione del prezzo Q quantità Ogni venditore avrà una sua curva di offerta che, pur mantenendo una pendenza positiva, sarà caratteristica per ogni individuo. L’offerta complessiva del mercato si otterrà sommando orizzontalmente tutte le offerte singole. Ogni variazione del prezzo del bene indagato causerà uno spostamento della quantità offerta lungo la curva con conseguente incremento o diminuzione della quantità offerta. In realtà, la quantità offerta Qs dipende, oltre che dal prezzo del bene (Px ) anche da altre variabili quali le tecnologie di produzione (T ), il costo dei vari fattori di produzione (Py ) le aspettative o previsioni sull’andamento futuro dei prezzi (Pf ) ( ma anche da obiettivi dell’impresa e dalla struttura dei costi) per cui : Qs = f (Px, T, Py, Pf) P prezzo alternative alla curva di offerta Q quantità La modifica del prezzo del bene determina spostamenti lungo la curva di offerta della quantità di beni portata sul mercato mentre le modifiche nelle altre variabili causano spostamenti della curva di offerta. Pertanto, se si verifica, ad esempio, un miglioramento della tecnologia produttiva con riduzione del costo di produzione e quindi del prezzo del bene si potrà avere uno spostamento ad altra curva più favorevole per produttori e, di riscontro, probabilmente anche per i consumatori. In sintesi, la curva-base di offerta indica, nel suo percorso, quello che succede circa la diversa quantità di bene immessa sul mercato in relazione alla variazione del prezzo di quel bene, a parità di tutte le altre condizioni; mentre, variando altre condizioni, è la curva di offerta che si sposta e pertanto si avrà la conseguenza che, allo stesso prezzo, la quantità di bene offerto risulta diversa . La metodologia di determinazione della curva di offerta complessiva di mercato, date le curve individuali di ogni produttore, avviene secondo quanto già visto in precedenza per la domanda e cioè sommando orizzontalmente, in relazione ad ogni prezzo, la quantità offerta dalle singole imprese. c)L’equilibrio di mercato L’interazione tra le decisioni di acquisto dei consumatori (domanda individuale o delle famiglie) e le decisioni di vendita dei produttori (offerta delle imprese) determina il prezzo P* del bene e la quantità Q* che viene effettivamente comprata o venduta sul mercato. Il prezzo che si ottiene o prezzo di equilibrio indica che il mercato ha raggiunto una posizione stabile che garantisce la coincidenza tra le decisioni delle due parti in causa, compratore e venditore : al prezzo P*, la quantità Q* complessivamente domandata eguaglia la quantità offerta. Eccedenza di offerta Prezzo o scarsità di domanda P* P’ Quantità P” Q* Scarsità di offerta o Eccesso di domanda Qualunque prezzo diverso da quello di equilibrio, sul mercato di libera concorrenza, indurrà processi di aggiustamento che riporteranno il prezzo verso l’equilibrio. Pertanto, ad un prezzo più basso, si determinerà un eccesso di domanda rispetto a quanto può essere offerto dal mercato; la concorrenza che si scatenerà tra gli acquirenti per avere il bene farà salire, da un lato, il prezzo di mercato scoraggiando i consumatori marginali e dall’altro lato farà sì che altri produttori marginali possano entrare sul mercato cosicché l’azione combinata porterà a cancellare l’eccesso di domanda rispetto all’offerta riportando il punto di incontro verso la posizione di equilibrio precedente o verso un nuovo punto di equilibrio. Viceversa, se il prezzo di mercato dovesse salire, si verificherebbe un eccesso di offerta perché alcuni consumatori marginali si ritirerebbero e altri produttori entrerebbero in competizione; di conseguenza l’azione combinata degli eventi riporterà il prezzo in posizione di equilibrio. Il sistema dei prezzi è quello che consente di coordinare le quantità domandate e offerte portando a far corrispondere le quantità di beni e servizi domandati e offerti. Queste azioni richiedono certi tempi per realizzarsi e, in alcuni periodi, si potranno verificare sfasamenti, ma la teoria e il modello del mercato di libera concorrenza, o della domanda e dell’offerta così come lo abbiamo descritto, semplificano e accelerano soltanto la dimostrazione del procedimento che, tecnicamente e in tempi non istantanei, avviene nella realtà. Ciò serve per dimostrare alcuni principi fondamentali: in un sistema di mercato libero, se si sta producendo una quantità eccessiva di un bene, il suo prezzo diminuisce; se si sta producendo una quantità insufficiente di un bene il suo prezzo aumenta. Il prezzo rimane stabile quando si raggiunge un equilibrio tra le quantità domandate e offerte. Nella realtà questo fenomeno è talmente frequente e ripetuto da essere noto come legge della domanda e dell’offerta. Cambiamenti stabili (o non temporanei) nei sistemi sottostanti le curve di domanda e di offerta (nuove tecnologie produttive, introduzione di nuovi prodotti, cambiamenti di moda, ritrovamenti di nuove fonti produttive, esaurimento di materie prime, nocività dell’uso di determinate sostanze ) modificano l’equilibrio generale di mercato portando domanda e offerta su nuovi punti di equilibrio a prezzi stabilmente più alti o più bassi. P Nuovo equilibrio Q I prezzi, in una economia di mercato, forniscono segnali di attenzione per consumatori e produttori: prezzi alti e in aumento suggeriscono ai consumatori di comperare di meno e posticipare i consumi e ai produttori di aumentare le produzioni e ridurre le scorte; viceversa nel caso di prezzi bassi o in riduzione. I prezzi rappresentano inoltre uno strumento che permette di ripartire le risorse fra usi alternativi e alcuni esempi di variazioni, tra le più semplici da considerare e con le relative implicazioni, sono: 1) mutamento delle preferenze dei consumatori a favore di un bene – provoca modifica positiva nel volume degli acquisti con conseguente scarsità del bene preferito e giacenze dell’altro bene sostituito. Si ha dunque un aumento del prezzo del primo e diminuzione per l’altro; 2) modifica della redditività delle diverse produzioni a seguito della variazione dei prezzi – provoca la diminuzione della produzione del bene divenuto meno redditizio e l’aumento della produzione di altri più redditizi; 3) variazione della domanda dei fattori produttivi (materia, lavoro o capitale) sottostanti la produzione di beni - provoca un incremento della domanda (e di conseguenza del prezzo) dei fattori utilizzati nella produzione del bene preferito e di contro una riduzione dei fattori utilizzati ( e quindi del prezzo) per l’altro bene meno utilizzato; 4) in generale – un cambiamento dei prezzi provoca un rimescolamento nell’ambito del mercato e un effetto paragonabile a quello di un sasso lanciato in uno stagno calmo (situazione precedente di equilibrio) con un’onda che si allarga e propaga a grande distanza a seconda dell’intensità del fenomeno, delle dimensioni del mercato, del momento storico in cui avviene la modifica, delle contromisure che gli attori sul mercato (produttori e consumatori) sono in grado di adottare. Una analisi algebrica della modalità di determinazione del prezzo di equilibrio vede la necessità, per la corretta risoluzione del problema, di impostare un sistema di tre equazioni: - una equazione comportamentale per determinare la curva di domanda - una equazione comportamentale per determinare la curva di offerta - una equazione di equilibrio che impone le condizioni di uguaglianza tra quantità domandata e offerta Il sistema algebrico indica, per la quantità Qd e Qo (domandata o offerta) e il prezzo P, le seguenti equazioni connesse con le risultanze evidenziate sugli assi cartesiani : P a b d c Q Qd = a + bp con a > 0 (stacco in ordinata) e b < 0 (coefficiente negativo e quindi curva decrescente) Qo = c + dp con c < a (stacco in ordinata < di a) e d > 0 (coefficiente positivo e quindi curva crescente ) Qd = Qo (equilibrio tra quantità di domanda e offerta ) Dal sistema si potrà ricavare il prezzo di equilibrio tra domanda e offerta conoscendo il comportamento rispettivamente del produttore e del consumatore ai diversi livelli di prezzo del bene. Infatti, sostituendo a Qd e Qo i rispettivi valori si avrà: a + bp = c + dp da cui : (a – c ) = (d – b ) p e quindi p (prezzo) = a – c / d - b In relazione ai valori degli ( in cui b è negativo) stacchi sull’ordinata e dei coefficienti angolari delle curve si determinerà il prezzo di equilibrio. Se prendiamo ad esempio un mercato di un prodotto concreto si potrebbe avere: Qd == 450 + (- 4) p Qo = -150 + 2 p Qd = Q o 450 – 4 p = -150 + 2p 600 = 6p p = 100 il prezzo di equilibrio è pertanto : 100 Inserendo il prezzo di equilibrio all’interno della curva di domanda (o di offerta) si ottiene la quantità di equilibrio: Qd = 450 – 4 (100) = 50 e Qo = -150 + 2 (100) = 50 La quantità di equilibrio è pertanto : 50 d) Elasticità delle curve di domanda e di offerta L’elasticità misura la sensibilità dei compratori e dei produttori alle variazioni delle condizioni di mercato nelle diverse determinanti e consente di analizzare con maggiore precisione l’andamento delle curve di domanda e offerta. Se ricordiamo che, parlando di domanda, si era detto che a fronte di un riduzione del prezzo la quantità domandata di un bene aumenta, non avevamo però allora detto di quanto aumenta. L’elasticità della domanda al variare del prezzo misura questa sensibilità di fronte ad una modifica del prezzo ed è tipica di ogni bene in un determinato momento. L’elasticità viene definita dal rapporto tra le variazioni relative delle quantità domandate rispetto alla variazione del prezzo. Il rapporto tra le variazioni assolute del prezzo e della quantità determina invece l’inclinazione della curva. Si dirà che la domanda è elastica se la quantità richiesta reagisce più che proporzionalmente alle variazioni di prezzo mentre sarà anelastica o rigida se reagisce meno che proporzionalmente. Si dovrà cioè verificare, ad esempio, se ad una variazione del prezzo dell’1%, anche la quantità richiesta del bene varia nella stessa percentuale, o di più, di meno, oppure se non varia affatto. L’elasticità della domanda rispetto al prezzo può assumere un valore tra zero e infinito: 0 < ε < ∞ e potrebbe, in casi particolari (vedi i beni di Giffen), essere anche negativa. L’elasticità assume valore zero se, al variare del prezzo, la quantità domandata non varia minimamente (curva perfettamente rigida e quindi perpendicolare all’asse delle ascisse); assumerà valore infinito se, ad una variazione incrementale del prezzo, la domanda si annulla totalmente (la curva resta parallela all’asse delle ascisse). In generale si definisce rigida la domanda con fattore di elasticità ε < 1 (la quantità varia percentualmente meno del prezzo) mentre si definisce elastica per ε > 1 (la quantità varia percentualmente più del prezzo). Elasticità unitaria o proporzionale si ha per ε =1 (la variazione è cioè strettamente correlata al prezzo). P ε=∞ ε=0 ε=1 Quantità I casi più ricorrenti sono quelli di beni che hanno certi gradi intermedi di elasticità o rigidità in relazione alla diversa tipologia di beni e allo specifico momento della variazione di prezzo introdotta. Infatti, se si tratta di beni necessari la tendenza maggiore sarà verso la rigidità, per beni di lusso verso una maggiore elasticità; per beni che hanno buoni succedanei (quindi ben sostituibili) si nota buona elasticità al contrario di quel che avviene per beni pressoché unici; per beni da utilizzare istantaneamente o nel breve periodo la rigidità sarà maggiore (prezzo della benzina) rispetto agli stessi beni acquistati in periodi medio-lunghi (alcuni automobilisti possono decidere di passare al gasolio o al metano). La rappresentazione grafica di questi casi porta a indicare esemplificativamente questi andamenti: Prezzo Prezzo Domanda elastica Quantità Domanda rigida Quantità Se l’elasticità ε > 1 si suppone possa trattarsi di un prodotto di lusso o di un nuovo bene introdotto sul mercato e ambìto perché, a modeste variazioni di status sociale, si ha un forte incremento di domanda; se invece l’elasticità fosse compresa tra 0 e 1 si presume trattarsi di beni di prima necessità o comunque molto necessari; infine se ε < 0 (caso in cui si ha elasticità negativa) si potrebbe trattare di un bene inferiore solitamente abbandonato a favore di beni simili ma di qualità superiore (anche solo per status ), all’aumentare del reddito, pur in assenza di variazioni di prezzo. L’elasticità della domanda varia sensibilmente in funzione del reddito; il calcolo dell’andamento di questo tipo di elasticità è dato dal rapporto fra la variazione percentuale della quantità domandata e la variazione percentuale del reddito ε = ( dQ/Q ) / ( dR/R ). Infine, in relazione al tempo di osservazione del fenomeno e a tipologie di beni con domanda, nell’immediato, rigida si potranno avere altre e diverse curve di breve, di medio e di lungo periodo a seguito di aggiustamenti sostitutivi con altri beni che potrebbero venire successivamente introdotti o scoperti. Avremo quindi, dapprima, una curva rigida o poco elastica a cui seguiranno altre curve sempre più elastiche in relazione alle alternative successivamente individuate e quindi utilizzate. Una rappresentazione di questa situazione può essere così indicata: D2 D1 D0 P2 La prima curva di equilibrio è (D0 ), ridimensionata nel breve in (D1) e poi in (D2) a fronte P1 Di di incrementi di prezzo prima saliti a P1 e poi a P2. La curva di equilibrio finale sarà Di P0 Q2 Q1 Q0 Dalla curva di domanda in funzione del prezzo nasce, per il produttore, la considerazione sul ricavo che ne deriverà, a sua volta distinto tra marginale e totale. Il ricavo marginale è dato dalla variazione del ricavo totale in seguito alla variazione di una dose di beni venduti, mentre il ricavo totale è dato dal ricavo medio moltiplicato per tutte le quantità vendute. Il ricavo totale è chiamato anche fatturato o valore totale della produzione, termine importante per tutte le considerazioni che saranno effettuate sulla redditività aziendale e sui margini di profitto da cui discendono indici di valutazione e di punto di equilibrio o break even point. Casi analoghi a quelli della Domanda si possono avere anche per la curva dell’Offerta per la quale l’elasticità misura l’ampiezza della variazione della quantità prodotta e portata sul mercato dalle imprese in relazione alle variazioni di prezzo. Essa dipende dalla flessibilità delle imprese venditrici e dal tipo dei beni in offerta. Anche nell’analisi dell’offerta si possono avere tutti i casi già considerati di andamenti delle curve potendo passare da “totalmente anelastiche”, a “infinitamente elastiche” o “variamente elastiche” (con ε<=> 1). L’andamento delle curve dei casi estremi ripete quanto già visto relativamente a quelle analoghe della “domanda” mentre, per le fasi a elasticità intermedia, si avranno curve che possono essere, graficamente, del tipo: Prezzo Offerta rigida Quantità Offerta elastica Quantità e) Determinazione dei prezzi in relazione alle tipologie di beni Non per tutti i beni il comportamento del prezzo segue lo stesso automatismo negli stessi tempi pur essendo simile il modello. Abbiamo già parlato di beni “normali” e beni “inferiori” e, prima ancora, avevamo distinto tra beni primari, secondari, complementari, succedanei e vari altri. Vediamo ora due esempi caratteristici di comportamento di beni “prodotti industrialmente” e invece di beni “unici” (o a offerta fissa). 1) prezzi dei prodotti industriali ( ossia riproducibili rapidamente) Normalmente per questi beni prodotti in serie è il produttore che fissa il prezzo della merce che offre in vendita (tenendo conto della situazione di mercato di beni similari) mentre sarà la domanda del mercato che determinerà la quantità che riuscirà a vendere. L’ impresa calcola i suoi costi di produzione e, dato un profitto desiderato, stabilisce un prezzo che sia sufficientemente remunerativo. Nel caso il mercato dovesse rispondere molto positivamente, l’ impresa può aumentare il prezzo per ridurre l’eccesso di domanda o, meglio, può provvedere ad aumentare la sua produzione (con nuovi impianti o maggior sfruttamento di quelli esistenti o riduzione delle giacenze). Nel caso di difficoltà di vendita potrà invece scegliere tra riduzione di prezzo (per invertire la tendenza), riduzione della produzione, aumento temporaneo delle scorte. Solitamente, e per i primi periodi, la manovra più consueta è quella di operare sulle giacenze o sulla flessibilità degli impianti salvo passare poi a manovre di più lungo termine che comportano spesso variazioni strutturali impiantistiche. Ovviamente l’impresa non può fissare il prezzo a qualsiasi livello perché deve considerare il comportamento della concorrenza esistente sul mercato. Più forte è la concorrenza, minore sarà la possibilità di manovra di una impresa sul prezzo dei suoi prodotti e, nel caso limite della concorrenza perfetta, il potere dell’impresa sarà nullo ossia il prezzo è dato dal mercato. Un prezzo possibile per l’impresa è quello corrispondente al suo costo medio di produzione (dato dal costo totale diviso per le quantità prodotte) perché garantisce all’impresa la copertura integrale dei costi. Prezzi diversi sarebbero, o non convenienti per il produttore (se inferiori al costo medio) e causerebbero l’uscita dell’impresa dal mercato, o troppo remunerativi (superprofitto) e richiamerebbero immediatamente la concorrenza che andrebbe a ridimensionare il prezzo. Nel grafico sotto riportato si ipotizza una domanda D* che comporta una produzione Q* e una seconda domanda ridotta D1 a cui la produzione deve adeguarsi passando a domanda Q1. A questo punto però bisogna ricontrollare la curva del costo medio (e quindi un ipotetico nuovo prezzo P1 o P2) che potrebbe non più consentire una sufficiente remunerazione (potrebbe infatti essere connessa a economie o diseconomie di scala e quindi essere crescente o decrescente in funzione della variazione di quantità prodotta) e portare l’impresa fuori mercato. La caratteristica dei beni prodotti industrialmente è comunque quella di una significativa elasticità potendosi rapidamente variare la quantità offerta intervenendo su organizzazione, scorte e impianti. D1 D* Prezzo P1 o Costo P* Costi medi superiori o inferiori P2 Q1 Q* 2) Prezzi dei beni non riproducibili (o unici o ad offerta fissa) Se si pensa a beni quali quadri d’autore, libri rari, campioni sportivi, prodotti agricoli stagionali, ecc. riconosciamo subito che la loro offerta è limitata e rigida e i prezzi sono strettamente collegati alla domanda di quel bene particolare, diverso e specificamente individuato . Il comportamento della domanda e offerta di questi beni è completamente diverso da quello valido per i prodotti industriali. Vista in un grafico l’offerta viene riprodotta con una linea verticale (proprio per la rigidità che la caratterizza) perché la quantità offerta non può variare al variare del prezzo. Di contro è la domanda che muta in relazione alle variazioni di prezzo conseguenti a modifiche di preferenze o di altre variabili o considerazioni e ciò può modificare il prezzo del bene in misura sostanziale. Per comprendere il meccanismo e senza ragionare solo sul caso limitato di celebrati campioni sportivi si può considerare tutto il settore dei beni agricoli stagionali o anche della pesca per i quali, andamenti particolarmente sfavorevoli di produzione disponibile, anche solo per pochi giorni, possono portare a raddoppi o triplicazioni di prezzi quasi immediati (casi relativi a insalata, pomodori, fragole, pesche, mare burrascoso, blocchi di trasporti, ecc.). D D D1 P* S* S1 P1 P* P1 Q* Q* Offerta rigida non modificabile Q1 Modifica di offerta di limitata entità Il grafico a sinistra mostra il caso di offerta unica in cui la domanda determina il prezzo (e non viceversa) mentre il grafico a destra indica come possa esservi una forte variazione (in questo caso, in riduzione) del prezzo (da P1 a P*) a fronte di una modesta variazione, in aumento, della quantità offerta ( da Q* a Q1) qualora la domanda sia abbastanza rigida. f) Effetti di politica economica su domanda e offerta Alcuni esempi risultano emblematici per dimostrare il movimento delle curve di domanda e offerta conseguenti a possibili decisioni delle autorità politiche e quante variabili si possono andare a toccare con queste decisioni politiche nell’immediato o a distanza di tempo: 1) variazioni del salario minimo : il Governo o il Parlamento potrebbero decidere di incrementare il livello minimo dei salari in un solo settore dell’economia oppure generalizzato a tutto il comparto del lavoro subordinato quando sul mercato era già presente (perché raggiunta in precedenza) una posizione di equilibrio del mercato del lavoro come punto di incontro tra domanda e offerta di manodopera. Se avviene un incremento del salario allora potrà conseguire che un maggior numero di lavoratori sarà disposto a entrare sul mercato (per ricevere salari ritenuti interessanti) creando una nuova e incrementale domanda di lavoro mentre alcune aziende potrebbero non riuscire più ad accontentarsi dei precedenti prezzi di vendita dei loro prodotti essendo aumentato il costo di un fattore produttivo e potrebbero essere quindi costrette ad uscire dal mercato licenziando i dipendenti e creando un aumento della disoccupazione. Una prima conseguenza potrebbe dunque essere una eccedenza di manodopera e quindi un effetto di aumento della disoccupazione. Ma, visto in altra ottica, si potrà sostenere che coloro che manterranno l’occupazione disporranno ora di maggior reddito (perché è aumentato il salario minimo) e potranno comperare di più chiedendo maggiori quantità di prodotti e di produzione e quindi portare a nuove assunzioni di dipendenti. Dunque, gli occupati avranno un maggior reddito ma aumenteranno anche le persone senza alcun reddito (disoccupati) e inoltre i possessori di reddito fisso (rimasto invariato), quali i pensionati, potranno acquistare di meno perché i prodotti sono diventati più cari. Infatti, se dopo l’aumento salariale dovessero aumentare i prezzi per ripagare i produttori dell’incremento dei costi di lavoro, si avrà che tutti, occupati e no, dovranno utilizzare maggior quantità di reddito per comperare le stesse utilità precedenti. Ma, ancora, può accadere che un incremento dei salari minimi potrebbe spingere maggiormente i giovani a scegliere di lavorare presto a differenza di quanto avverrebbe se i salari minimi fossero bassi e questo potrebbe comportare due conseguenze : 1) abbandono di studi con abbassamento del livello culturale e, 2) maggiore offerta non specialistica di lavoro. I non specialisti poi sono una categoria che ha poche capacità di contrattazione individuale della propria retribuzione (a differenza degli specialisti ai quali poco importa del salario minimo perché hanno margini di contrattazione individuale) e hanno bisogno di essere tutelati collettivamente da sindacati e governo per ottenere un salario minimo più elevato. A loro volta i percettori di redditi fissi ( pensionati in particolare), aumentando il costo della vita per i riflessi dei salari minimi incrementati e dei prezzi più alti, chiederanno allo Stato integrazioni economiche e questo avrà nuovamente riflesso sui prezzi e sulla occupazione e tutto questo rimetterebbe in moto una spirale di richieste e di interventi modificatori alla ricerca di nuovi equilibri di mercato. Si comprende quindi come, anche un moderato intervento di politica economica possa causare tutta una serie di perturbazioni sul mercato dei beni e dei fattori con un effetto non sempre previsto o, se anche previsto dagli economisti, differentemente gestibile o giustificabile, per entità e risultati ottenibili, in base ai diversi convincimenti politici e, conseguentemente, al tipo di rimedi suggeriti. Il grafico sotto riportato evidenzia solo un primo effetto derivante dall’aumento dei salari minimi, ma in verità il problema diventa una questione di macroeconomia con una serie di variabili aggregate, di pesi e contrappesi da valutare e da risolvere con una notevole serie di incognite e quindi di gradi elevati di sistemi di equazioni da impostare. Situazione di equilibrio precedente Applicazione di aumento salariale salario D w offerta di w1 lavoro w Q di occupati nuovo salario Q richiesta Q offerta Il salario minimo è spesso al centro di dibattiti politici con elevato numero di sostenitori e di detrattori tutti ugualmente convinti della bontà delle loro diverse e opposte tesi. I sostenitori possono legittimamente e teoricamente affermare che esso sia un valido strumento per far aumentare il reddito dei lavoratori più poveri e, pur riconoscendone alcuni effetti perversi, questi possono ritenersi trascurabili rispetto ai benefici che ricadono sulle classi più deboli e sull’intera economia. I detrattori possono altrettanto correttamente sostenere che non sia la via migliore per ridurre la povertà perché un salario minimo elevato e rigido crea disoccupazione, limita la formazione e l’addestramento professionale, ha applicazione indiscriminata e non mirata solo sulle classi più deboli. 2) Imposte sulla produzione o sul consumo: il Governo e il Parlamento potrebbero decidere di introdurre nuove imposte su un prodotto. Fissata l’entità dell’imposta si deve anche decidere se applicarla al momento della produzione del bene o al momento del consumo. Che effetto ha una imposta sulla domanda e offerta del bene ? Chi ne sopporta l’onere ? E’ indifferente che si tratti di imposta sulla produzione oppure sul consumo ? Varia il prezzo del bene oppure la quantità acquistata e venduta? Vediamo i due casi. a) Imposta sul consumo : allo Stato potrebbe non interessare il prezzo di vendita di un bene ma potrebbe voler applicare una imposta per ogni unità di bene venduta per aumentare le sue entrate. A versare l’imposta è, in questo caso, il consumatore il quale dovrà pagare, per ogni unità di bene, un prezzo più alto rispetto al momento precedente l’introduzione dell’imposta. Il punto di equilibrio precedentemente formatosi non sarà più valido perché la curva di domanda subirà una riduzione e quindi diminuirà la quantità di bene richiesta. A fronte di questa riduzione di quantità venduta il produttore si troverà ad avere un ricavo inferiore e i suoi costi di produzione saranno meno efficienti (si produrrà una diseconomia di scala) portandolo ad avere un guadagno inferiore. In generale quindi si avranno consumatori che pagheranno di più, altri consumatori che saranno privati della possibilità di acquistare il bene (i consumatori marginali precedenti usciranno dal mercato) e i produttori che venderanno minori quantità e a un prezzo che sarà inferiore (detratta l’imposta) al precedente. Il risultato complessivo sarà quello di avere una quantità venduta totale ridotta (con possibili conseguenze sugli occupati), un prezzo complessivo più elevato (con rischio di inflazione) e una ripartizione della imposta sulle due figure del compratore e del venditore (entrambe penalizzate). L’unico ad averne un beneficio è lo Stato (comunque in misura ridotta rispetto al massimo possibile perché il sistema nel suo complesso subisce una perdita secca totale di ricchezza) il quale potrà decidere come utilizzare questo beneficio nell’ambito del suo bilancio generale (riduzione del deficit o aumento della spesa pubblica). Il grafico indica l’andamento delle variabili di mercato prima e dopo l’applicazione dell’imposta sul consumo, con prezzi in crescita, quantità prodotte in riduzione e curva della domanda (linea a tratteggio) che si sposta negativamente. La differenza tra P0 e P1 indica l’entità dell’imposta applicata. P1 P* P0 Q1 Q* b) imposta sulla produzione : il caso è simile al precedente; le varianti consistono nel soggetto che deve versare l’imposta (il produttore anziché il consumatore) e nella curva che subisce le modifiche (quella dell’offerta anziché della domanda). L’imposta farà sì che il produttore debba aumentare il prezzo di vendita perché, ai costi dei fattori produttivi precedenti, si andrà a sommare quello della nuova imposta; il nuovo prezzo scoraggerà i consumatori marginali che si ritireranno dal mercato riducendo la quantità totale venduta, la quale andrà ad incidere ulteriormente sui costi di produzione per effetto delle diseconomie di scala. Il risultato è ancora quello precedentemente visto nel caso dell’imposta sul consumo, con tutte le parti in causa che perdono tutti o parte dei benefici e quindi con una perdita secca di ricchezza della collettività. Soltanto nel caso di una proficua attribuzione da parte dello Stato delle maggiori entrate derivanti dall’imposta si potrà parzialmente compensare la perdita economica subita dal sistema. P Q Dall’esame delle forze di mercato e delle conseguenze di decisioni di politica economia si può concludere che l’economia è governata da due tipi principali di leggi: 1) legge della domanda e offerta di beni e servizi 2) leggi del parlamento dello Stato. Questi esempi delle variazioni di salario e di imposte su produzione o consumo fanno vedere come non siano possibili manovre economiche secche e semplici e come tutte portino a forti impatti sui mercati tali che, se non sostenute e corrette con adeguate contromosse, realizzano una involuzione complessiva del mercato rispetto a quello di libera concorrenza con maggiori costi, anche sociali, per tutti. Infine, un’ultima annotazione sul vantaggio derivante dallo scambio di beni e cioè sul commercio. Abbiamo due modi per confrontare la capacità dei soggetti di produrre beni in modo competitivo rispetto alla concorrenza e quindi di poterli vendere in ogni parte del mondo: uno è quello di considerare la quantità di produzione ottenuta utilizzando la minor quantità di fattori produttivi (si tratta di un vantaggio assoluto che equivale ad una maggior produttività), l’altro è quello di considerare il più basso costo-opportunità ossia ciò che si tralascia di produrre come alternativa a ciò che si decide di produrre (si tratta di un vantaggio relativo che porta a scegliere di produrre il bene per il quale si ha il maggior vantaggio comparato ). I benefici del mercato si fondano sui vantaggi comparati e non su quelli assoluti. Gli scambi rappresentano un vantaggio per tutti i soggetti coinvolti perché consentono di specializzarsi nelle attività nelle quali si ha un vantaggio comparato rispetto al costo-opportunità. Il vantaggio assoluto ( massima produttività) si aggiunge al vantaggio comparato per tutto il tempo in cui la concorrenza non livellerà questa maggior produttività. TEORIA DEL CONSUMATORE Nel sistema di mercato le parti in causa sono due: consumatori e produttori; l’incontro delle due volontà determina le quantità scambiate e i relativi prezzi. E’ evidente che, perché avvenga lo scambio, è necessario che le due parti possano trarre entrambe dei vantaggi dall’operazione e cioè ricavino una utilità. Per il consumatore l’utilità di un bene è dimostrata in base alla preferenza che viene data nella scelta di un bene ossia dall’ordine classificatorio in cui pone i beni di cui ha bisogno. UTILITA’ L’utilità di un bene è la sua capacità di soddisfare un determinato bisogno. Sono importanti almeno due definizioni di tipi di utilità: l’utilità totale e l’utilità marginale (altre, per ora non considerate, sono le definizioni di utilità iniziali, finali, medie, comparate, dosali). L’utilità totale è la soddisfazione complessiva che il consumatore ottiene nel disporre di una data quantità di bene o servizio e sarà data dalla somma dei valori degli incrementi di soddisfazione complessiva che ottiene con l’aumentare del consumo di dosi successive del bene. L’utilità marginale è la soddisfazione che si riceve dall’ultima dose considerata di bene consumato. L’utilità è un concetto essenzialmente “ordinale” e non “cardinale” ; è quindi una preferenza di posizione nell’ordine desiderato di consumo rispetto ad altri beni, una classifica di priorità nel consumo tipica di ogni individuo in un determinato momento che tiene conto di una serie di variabili di tempo, luogo e condizioni difficilmente comparabili. Ogni unità aggiuntiva (quindi marginale) di bene disponibile e consumato procura al consumatore una utilità (soddisfazione) singola sempre minore proprio perché le unità precedenti, disponibili e consumate hanno già parzialmente gratificato l’utilizzatore (principio dell’utilità marginale decrescente). Tutte le unità di bene, nel loro insieme (quindi totali), forniscono invece un continuo incremento di soddisfazione, almeno fintanto che anche le ultime dosi utilizzate abbiano un valore, sia pur piccolo, ma positivo (principio dell’utilità totale crescente). In grafico, i due tipi di utilità hanno andamenti antitetici proprio perché quella totale continua ad aumentare anche se in misura minore sommandosi alle soddisfazioni precedenti (almeno fino alla piena saturazione del bisogno) mentre quella marginale è continuamente decrescente tendendo, al limite, ad azzerarsi : Utilità totale Utilità marginale quantità di bene assunta quantità di bene assunta L’andamento delle curve indica che le prime unità di bene consumato comportano rilevanti soddisfazioni per l’utilizzatore mentre le unità successive forniscono soddisfazioni più contenute fino, tendenzialmente, ad annullarsi. Un altro grafico illustra ancora il concetto e la differenza tra utilità totale e marginale: U Utilità marginale (decrescente) 1 Utilità totale = 1 + 2 +3 + 4 = 10 (crescente) 2 3 4 quantità di bene assunta In microeconomia il concetto di utilità sta alla base delle curve di domanda e offerta perché vale qui la legge dell’utilità marginale decrescente (ciascun soggetto ritrae dalla disponibilità di quantità successive di bene una utilità via via minore). Chi dispone di un dato reddito e può scegliere fra più beni cercherà sempre di massimizzare la propria soddisfazione (utilità) e per far questo ripartirà il suo reddito nell’acquisto di beni in modo che l’utilità dell’ultima dose di bene acquistata (marginale) sia maggiore di quella di altri beni di cui pure avrebbe bisogno. Alla fine della ripartizione del reddito disponibile per ogni individuo, le utilità marginali di tutti i beni posseduti tenderanno ad essere uguali. Così facendo l’utilità totale derivante dai beni acquistati sarà massima. Il concetto di utilità marginale è molto importante in quanto serve per: a) misurare l’utilità di tutte le dosi di quel bene simultaneamente possedute b) misurare l’utilità di tutti i beni confrontati tra loro. In particolare, il confronto e il rapporto tra l’utilità marginale del bene e l’utilità marginale della moneta introduce il concetto di prezzo. Infatti la preferenza da riservare ad un bene non va mai disgiunta dal suo costo, ossia dalla quantità di moneta che si deve cedere per disporre del bene. Entro certi limiti, al fine di dare una risposta univoca ai comportamenti individuali si conviene che la moneta mantenga per tutti la stessa utilità marginale costante indipendentemente dalla quantità effettivamente posseduta. Altra distinzione nel modo di valutare e misurare l’utilità di un bene si fa tra utilità cardinale e ordinale intendendo con la prima (utilità cardinale) l’utilità misurata in termini di valore numerico (100, 300 o 1000 o altro) attribuito alla capacità di soddisfazione fornita da una dose di bene. Questo valore viene indicato con l’unità di misura data dalla moneta e in definitiva con il prezzo. Il prezzo servirà anche per misurare e confrontare in ogni singolo momento l’utilità di ciascun bene con gli altri contemporaneamente disponibili secondo il principio della massima soddisfazione. L’ordine di priorità in cui mettere le alternative dei beni tra cui operare la scelta discende quindi dal valore monetario paragonato dei beni. Il concetto “ordinale” di utilità diventa quindi “cardinale” introducendo il metro dato dal prezzo il quale, a sua volta, deriva da un insieme di variabili date dal costo dei fattori e dall’utilità generale espressa dal mercato. In termini algebrici, dati due beni x e y con i rispettivi prezzi Px e Py la regola della massimizzazione dell’utilità richiede un confronto tra i rapporti utilità/prezzo dei due beni per decidere sulla soluzione ottimale: Umg x / P x = Umg y / P y (rapporto tra utilità marginale e prezzo di ciascun bene). Dato quindi un determinato reddito e dovendo scegliere tra due beni che hanno lo stesso prezzo, il consumatore farà le sue scelte in modo che l’utilità marginale di ciascun bene sia la stessa; se i prezzi sono diversi il consumatore modificherà la domanda dell’uno e dell’altro fino ad avere proporzionalità delle utilità ai rispettivi prezzi (ad esempio, se l’ultima dose di bene acquistata costa il triplo di un altro bene essa deve generare una utilità marginale tre volte superiore a quella del bene non acquistato). * Il metodo dell’utilità ordinale si fonda sull’ipotesi che le scelte vengano effettuate in base all’ordine di preferenza tra le alternative a disposizione (la prima, poi la seconda, la terza e così via). Le preferenze sono rappresentate attraverso curve di indifferenza (luogo geometrico di punti che rappresentano combinazioni di due beni che danno all’individuo un uguale livello di soddisfazione o di utilità). Tutte le combinazioni che si trovano sulla stessa curva di indifferenza sono equivalenti come soddisfazione ma utilizzano quantità sempre diverse dei due beni disponibili che comunque comportano uguale impegno di reddito; tutte le combinazioni che si trovano su curve più elevate o meno elevate sono da preferire o da scartare in quanto impegnano minore o maggiore reddito. Il rapporto di scambio tra i due beni è detto saggio (o tasso) marginale di sostituzione (SMS o TMS) e matematicamente è dato dal valore numerico della pendenza della curva nel punto preso in considerazione : dx / dy. Data una curva di indifferenza, ad ogni incremento di consumo di un bene deve corrispondere una riduzione di consumo dell’altro bene : ciò in relazione al vincolo di bilancio ossia al reddito massimo disponibile da parte del consumatore e che non potrà essere superato (se non in tempi successivi). Considerando il reddito R (che indica il vincolo di bilancio), e i prezzi p (x) e p (y) di due beni X e Y si avrà una relazione : R = p(x) X + p (y) Y Il vincolo di bilancio o retta di bilancio esprime l’insieme di tutte le possibili combinazioni delle quantità dei beni X e Y acquistabili con il reddito a disposizione. In grafico, il vincolo di bilancio si indica con una retta la cui pendenza è data dal rapporto tra il prezzo dei beni : Y R/p(y) X Se il Reddito aumenta, il vincolo di bilancio si sposta parallelamente verso destra; viceversa se diminuisce. Se il Prezzo di vendita del bene X aumenta, la retta del vincolo di bilancio diventa più ripida mentre, se ad aumentare è il prezzo di vendita di Y, la retta diventa meno ripida. Dato il vincolo di bilancio e le curve di indifferenza si può determinare la massimizzazione del benessere del consumatore : essa coincide con il punto di tangenza del vincolo di bilancio con la curva di indifferenza più esterna raggiungibile dal consumatore tenendo conto dei diversi prezzi. Bene Y bene X Si dovrà quindi trovare una funzione che metta in relazione il prezzo dei beni con la quantità consumata : in definitiva si trova la curva di domanda di ognuno dei due beni. Il comportamento razionale del consumatore consiste nell’utilizzare il proprio reddito per domandare beni e servizi cercando la massima soddisfazione o utilità e quindi ponendosi sulla curva di indifferenza più elevata. Come già riportato in precedenza ricordiamo le principali proprietà delle curve di indifferenza : a) le curve più alte danno livelli di soddisfazione più elevati b) le curve hanno pendenza negativa elevata (per il rapporto inverso esistente tra un maggior consumo di un bene e la necessaria riduzione dell’altro bene dato il vincolo di bilancio) c) le curve non si intersecano (perché in tal caso si avrebbe un punto di sovrapposizione che andrebbe a contraddire il principio di indifferenza su ciascuna delle diverse curve); d) le curve sono concave rispetto agli assi (perché il tasso marginale di sostituzione favorisce lo scambio di beni di cui si ha abbondanza con altri a disponibilità più limitata). Talvolta una variazione positiva o negativa del prezzo di un bene può causare effetti multipli sulle curve di indifferenza quali ad esempio un insieme di effetto di reddito e effetto di sostituzione che potrebbe essere indagato al fine di determinare l’incidenza dell’uno e dell’altro sul comportamento del consumatore. L’esempio che si porta può essere quello derivante da una riduzione del prezzo di un bene A per un individuo che utilizza solo due beni (A e B). La riduzione di prezzo di A può essere vista come somma di due effetti: uno è quello di corrispondere sostanzialmente ad un incremento, di fatto, di reddito (effetto di reddito) ossia di aumento della capacità di acquisto (infatti il consumatore spende meno di prima per avere le stesse quantità dei due beni e, utilizzando quanto risparmiato con la riduzione del prezzo di A potrebbe anche passare ad una curva di indifferenza più elevata potendo comperare di più di prima), l’altro è quello di far cambiare i prezzi relativi dei beni tra loro e quindi la ragione di scambio tra quei due beni (effetto di sostituzione) ma anche di tutti gli altri beni del mercato (i beni non diminuiti di prezzo risulteranno relativamente più cari rispetto al bene A). Il risultato complessivo è quindi di una modifica sulla curva di indifferenza che si porrà in posizione comunque più elevata e che sarà composta da quantità diverse (rispetto a prima della riduzione di un prezzo) dei due beni (e quindi con pendenze di curva diverse). L’effetto reddito è la variazione del consumo che risulta dal passaggio ad una curva di indifferenza più elevata. L’effetto sostituzione è la variazione del consumo indotta dal passaggio a un punto della medesima curva di indifferenza con un tasso marginale di sostituzione diverso. L’effetto della riduzione del prezzo del bene A è quindi duplice ed entrambe le cause (reddito e sostituzione) porteranno alla variazione totale della quantità domandata in seguito alla variazione del prezzo. L’effetto reddito è positivo per i beni normali ma inverso per i beni inferiori; l’effetto sostituzione è sempre inverso. Il prezzo di un bene riflette generalmente la scarsità di quel bene in rapporto agli altri beni ed è connesso alla disponibilità a pagare da parte dei consumatori per ottenere una dose addizionale del bene. Dall’utilità dei beni può derivare il valore degli stessi e quindi il prezzo. Il valore di mercato di un bene non va confuso col valore d’uso. Tipico il caso dell’acqua il cui valore d’uso è altissimo ma ha basso valore di mercato perché l’acqua è relativamente abbondante in genere e quindi si è poco disposti, finora, a spendere molto per una dose in più di essa. Il valore d’uso è un prerequisito perché i beni vengano scambiati e quindi abbiano un prezzo, ma l’entità di questo prezzo è legato poi alla effettiva, limitata disponibilità che determinerà il valore di mercato. Anche per la parte di offerta i produttori, nella scelta dei fattori di produzione, utilizzeranno lo stesso procedimento visto precedentemente per la domanda combinando al meglio le utilità marginali dei fattori, impiegandoli così nel modo più efficiente. Per i produttori vale la legge della produttività marginale decrescente dei fattori (simmetrica alla precedente legge sulla utilità decrescente) la quale afferma che ogni dose ulteriore di fattore produttivo impiegato nel processo di produzione in combinazione con altri fattori fissi determina una crescita meno che proporzionale della produzione. In pratica, livelli produttivi sempre più elevati richiedono quantità sempre maggiori dei fattori produttivi variabili impiegati e ciò comporta costi marginali di produzione crescenti da confrontare con i ricavi aggiuntivi marginali ottenuti con la vendita delle ulteriori quantità di produzione. Se i ricavi marginali saranno maggiori dei costi aggiuntivi i profitti aumentano e, ovviamente, viceversa per la situazione opposta. Il punto di equilibrio si avrà al raggiungimento dell’uguaglianza tra costi aggiuntivi e ricavi aggiuntivi. In definitiva, il prezzo di mercato (o valore di scambio) di un bene è determinato dall’effetto congiunto della domanda (sottostante alla quale sta la legge dell’utilità marginale decrescente) e dell’offerta (sottostante alla quale sta la legge della produttività marginale decrescente e il concetto di costo marginale crescente). L’equilibrio si avrà quando i costi marginali di produzione risulteranno uguali ai benefici marginali ottenuti dai consumatori. Prima di questo momento la tendenza del mercato sarà quella di una concorrenza continua nella ricerca di una posizione di vantaggio sugli altri produttori o nell’appropriazione di quote della rendita dei consumatori Anche lo Stato, secondo una filosofia politica dell’800 indicata da John Stuart Mill e detta “dell’utilitarismo”, dovrebbe determinare la propria politica in modo da massimizzare l’utilità totale di ciascun componente della società degli uomini, ossia dello Stato. RENDITA DEL CONSUMATORE Le Parti che si avvicinano al mercato per entrarci e rimanerci devono trovare dei vantaggi, diversamente escono. Se ci proponiamo lo studio del comportamento del Consumatore, la premessa è che questi debba avere una certa disponibilità a pagare; deve cioè essere in grado di pagare un prezzo (non il prezzo) superiore a zero per acquisire un bene, anzi deve definire quale è il suo prezzo massimo (definito anche “prezzo di riserva” cioè prezzo massimo da pagare per poter disporre del bene desiderato) corrispondente al valore che egli attribuisce al bene. Ogni potenziale compratore acquisterebbe il bene ad un prezzo inferiore alla propria disponibilità a pagare ma rifiuterebbe di farlo ad un prezzo superiore. Il mercato di quel momento stabilirà il prezzo effettivo del bene. La rendita del consumatore (o surplus del consumatore) è definita come la differenza tra il prezzo di domanda che il consumatore sarebbe disposto a pagare (disponibilità a pagare) per ottenere una data quantità del bene e il prezzo corrente di mercato. Si tratta di una vantaggio virtuale di chi riesce a comperare un bene ad un prezzo inferiore a quello ipotetico che poteva permettersi. E’ noto che molti consumatori sarebbero disposti ad avere un bene anche ad un prezzo superiore a quello di mercato pur di non rinunciarvi e il fatto di “risparmiare” costituisce un teorico vantaggio rappresentabile dalla figura: prezzo a rendita del consumatore quantità La rendita del consumatore è strettamente correlata con la curva della domanda complessiva, la quale a sua volta è data dalla somma di tutte le domande individuali. La rendita complessiva che ne scaturisce, costituita dall’area compresa tra la curva di domanda e il livello del prezzo, è quindi composta da tutta una serie di rendite diverse proprie di ogni consumatore. Se si verificano variazioni di prezzi di mercato si verificano anche dei mutamenti nelle posizioni dei consumatori che hanno delle conseguenze sulla rendita complessiva. In particolare, un prezzo più basso farà aumentare la rendita dei consumatori mentre al contrario un prezzo più alto farà diminuire la rendita : p1 p* p2 q1 q2 q3 Nella figura sopra rappresentata, al prezzo più alto (p1) c’è già qualche consumatore disposto ad acquistare (cioè già con un differenziale positivo rispetto alla sua disponibilità a pagare); ma se il prezzo di mercato diminuisce (p2) lo stesso consumatore pagherà il prezzo reale di mercato e quindi teoricamente meno di quello a cui era già disponibile e quindi “guadagnando” una rendita data dal triangolo superiore al prezzo di mercato. In caso di successiva variazione del prezzo, in aumento o in riduzione, la rendita varierà in modo inverso dando luogo, ad esempio in caso di riduzione di prezzo, ad un incremento di rendita per i vecchi consumatori ed anche una nuova rendita per i nuovi consumatori che hanno potuto entrare sul mercato in quanto il prezzo ribassato raggiungeva la loro disponibilità a pagare. Poiché il prezzo di mercato è uguale alla disponibilità a pagare del compratore marginale, la rendita del consumatore implicitamente indica anche il benessere economico dei consumatori perché dimostra il margine di reddito teoricamente disponibile per altri impieghi. Sulla rendita del consumatore si potranno poi scatenare battaglie economiche per appropriarsene (da parte dei produttori) o per ampliarle (da parte dei consumatori) e questo può avvenire con modalità diverse. Da parte dei produttori si potranno ad esempio offrire nuovi prodotti tecnologicamente più avanzati che attraggono chi ha le rendite maggiori, oppure fornire benefici supplementari presunti ma ben reclamizzati o di distinzione sociale (prezzi diversi sui treni, a teatro, allo stadio, capi di abbigliamento “firmati”, ecc.), oppure applicare le così dette doppie tariffe (telefoni, elettricità, acqua) per classi di consumi che sottintendono tenori di vita diversi. Da parte dei consumatori si potrà puntare su modifiche incrementali del proprio reddito con maggiori dosi di lavoro, con cambio di attività verso quelle più remunerative oppure con richieste di aumenti salariali. a a = rendita iniziale dei consumatori p1 p2 b = incremento di rendita dei consumatori iniziali b c Q1 c = rendita dei nuovi consumatori Q2 RENDITA DEL PRODUTTORE Come già nel caso del consumatore anche per il settore dell’offerta si può manifestare una rendita o surplus a favore dei produttori che si presentano sul mercato. La dinamica che si utilizza per spiegarla è la stessa già vista nell’esame della domanda e risulta dalla differenza tra il prezzo pagato dal mercato al produttore e il suo costo di produzione. In sostanza, sul mercato si presentano produttori che sopportano costi di produzione diversi e che sono remunerati da un prezzo uguale di vendita come previsto dal mercato di libera concorrenza. Chiaramente tutti i produttori che non siano marginali (e cioè che abbiano costi inferiori a quelli degli ultimi che possono entrare sul mercato) godono di una rendita (vantaggio) che sarà massima per il produttore con i costi minori di tutti gli altri. Il prezzo minimo al quale il venditore è disposto a cedere il suo prodotto è chiamato “prezzo di riserva” del produttore L’area compresa tra la curva di offerta e il prezzo di mercato ci indicherà la rendita dell’aggregazione di tutti i produttori di quel bene che sono presenti sul mercato. Nel grafico, la rendita dei produttori, a quantità di produzione Q*, è data dall’area del triangolo POA mentre il triangolo OAQ* rappresenta il costo totale di produzione. P A Prezzo rendita del produttore a O Q* Quantità Quando si verificano variazioni del prezzo di mercato si manifestano anche dei mutamenti nelle posizioni dei produttori che hanno delle conseguenze sulla rendita complessiva. In particolare un prezzo più basso (ferma restando la curva dei costi di produzione) farà diminuire la rendita dei produttori mentre, al contrario, un prezzo più alto farà aumentare la rendita. L’andamento della rendita (figura sotto) in funzione di differenti prezzi di mercato mostra un incremento crescente al crescere dei prezzi che premia inizialmente i produttori già presenti (area incrementale dall’iniziale rendita “a” fino a comprendere la nuova area “b” corrispondente al rettangolo P2 P1 A B) e successivamente i nuovi produttori ( area “c” compresa tra ABC) che, a prezzi più alti dei precedenti e avendo quindi superato i rispettivi costi marginali, possono anch’essi proporsi sul mercato di vendita. P2 A P1 b a O C c b = rendita aggiuntiva del produttore iniziale B Q1 a = rendita iniziale del produttore c = rendita dei nuovi produttori Q2 Una delle battaglie che si potrà scatenare sui mercati sarà quella che vedrà impegnati i gruppi di produttori per difendere le loro rendite rispetto al prezzo di mercato ( perché le rendite vogliono dire anche superporfitti o extra profitti ) e avere quindi maggiori possibilità di guadagno che possono anche voler dire, oltre che maggiori dividendi, anche maggiori capacità di effettuare investimenti per aumentare le dimensioni aziendali o per acquisire aziende concorrenti o per tentare di passare da mercati di libera concorrenza a monopolio, oligopolio o quantomeno a forme di concorrenza monopolistica. Anche a prezzo di mercato inalterato è possibile che avvenga una modifica nella rendita del produttore quando questi riesca, prima che venga modificato il prezzo di mercato, ad abbassare il costo di produzione del bene attraverso le manovre su acquisti di materie, miglioramenti tecnologici produttivi, interventi riorganizzativi sul personale, ecc. RENDITA DI CONSUMATORE E DI PRODUTTORE NEL MERCATO IN EQUILIBRIO Consumatori e produttori nel loro insieme costituiscono la società economica degli uomini e l’equilibrio del mercato è lo strumento che governa l’economia e nel complesso il benessere della società.. La somma delle rendite del produttore e del consumatore determina la rendita o il surplus totale della società. Se ricordiamo che il prezzo è il punto di equilibrio tra le curve della domanda e dell’offerta avremo un differenziale tra le due variabili che corrisponde ad una area di rendita complessiva data dalla somma della rendita del produttore ( b ) e del consumatore ( a ): P a rendita del consumatore b rendita del produttore Q Poichè : la rendita del consumatore = valore per il consumatore - prezzo pagato dal consumatore la rendita del produttore = prezzo ricevuto dal produttore - costo del produttore sommando le equazioni si avrà che la rendita totale = valore per il consumatore - costo per il produttore Anche nel caso dell’equilibrio di mercato si avranno mutamenti nella distribuzione delle rendite tra le due parti con vantaggi che si spostano a favore dell’una o dell’altra. Nel mercato di libero scambio si avrà una massimizzazione della somma delle rendite del consumatore e del produttore (e quindi dell’efficienza) perché opera nel senso di contenere al massimo i costi e quindi tende a far godere di vantaggi crescenti i venditori e i compratori rappresentati dalle curve di domanda ( valore del bene per i compratori) e di offerta (costi di produzione). Nella realtà tuttavia la concorrenza è ben lontana dall’essere libera e singoli compratori o venditori possono esercitare un controllo dei prezzi (potere di mercato) che comporta inefficienza del sistema complessivo con perdite secche per la collettività. La massimizzazione dell’equilibrio concorrenziale non significa che il sistema sia equo (ossia che la distribuzione dei guadagni sia equa in termini sociali): questo resta un argomento di giudizio al di fuori del campo dell’economia per entrare nel campo sociale, morale e politico. TEORIA DEL PRODUTTORE La seconda componente del mercato, dopo la “domanda” per il consumo, è l’offerta di beni ossia la produzione. Produrre significa trasformare beni o servizi in altri beni o servizi ritenuti più utili e l’azione fondamentale della trasformazione consiste nel generare maggior valore rispetto a quello dei fattori produttivi impiegati. Si può anche dire che, per mezzo della produzione, si apporta ai beni prodotti un valore aggiunto. Il comportamento del produttore è volto a massimizzare la differenza tra i ricavi ottenuti dalla vendita dei beni e i costi di produzione ossia a massimizzare i profitti. La trasformazione e quindi la produzione di beni o servizi può essere intesa in senso stretto con mutamento della struttura chimica o fisica del bene iniziale oppure in senso lato, ossia una semplice confezione del prodotto oppure una trasformazione nello spazio ( trasporto di persone o cose) o anche una trasformazione nel tempo ( conservazione di prodotti per utilizzi futuri). Produzione, costi e profitti L’obiettivo principale delle imprese è di produrre e vendere beni e servizi massimizzando i profitti. I profitti sono il risultato della differenza tra i ricavi totali che l’impresa ottiene dalla vendita dei prodotti sul mercato e i suoi costi totali di produzione. Dal punto di vista economico il costo di produzione riflette il sacrificio derivante dalla rinuncia all’opportunità di produrre beni e servizi alternativi, quindi dalla valutazione del costo-opportunità che corrisponde al costo che l’impresa sopporta quando rinuncia all’uso di una determinata risorsa nel miglior modo alternativo disponibile. Questo perché le risorse sono, per definizione, scarse e quindi, usandole per uno scopo, non si possono utilizzare per altri. I costi sono il risultato di tutte le spese e gli oneri sopportati per utilizzare i diversi fattori produttivi e devono tener conto di tutto: costi espliciti (flussi di denaro in uscita ad esempio per acquistare materie prime, energie, lavoro, prestazioni professionali, pagare imposte, ecc.), costi impliciti ma comunque imputabili al prodotto (costi che non generano flussi di denaro in uscita come ad esempio i compensi per il lavoro del proprietario, gli interessi per l’uso di capitali propri, il valore incrementale dell’avviamento, l’accantonamento per ammortizzare gli impianti o i beni mobili, ecc.) e costi sociali o esternalità (inquinamenti di acque o di aria, distruzione di paesaggi, rumori molesti, ecc), il tutto secondo schemi contabili di ragioneria e di controllo di gestione (per i costi espliciti e impliciti) oppure secondo i diversi punti di vista degli economisti (per i costi espliciti, impliciti e sociali). I ricavi sono il risultato contabile della produzione venduta, ai rispettivi prezzi, sul mercato o comunque delle entrate proprie dell’attività economica svolta . Costi impliciti, espliciti, esternalità (elementi negativi) e ricavi (elemento positivo) determinano, in somma algebrica, l’utile o profitto economico normale o invece il superprofitto o surplus (in caso di prevalenza degli elementi negativi si determinerà una perdita) di una impresa . Ciò indipendentemente dal regime di mercato in cui si opera in un determinato momento. Si definisce funzione della produzione quella relazione che collega la quantità di fattori produttivi utilizzati o disponibili (materie oppure lavoro oppure energie) e la quantità complessiva di bene prodotto (prodotto totale). L’impresa che cerca di ottenere la maggior quantità di prodotto dai fattori produttivi impiegati opera in maniera tecnicamente efficiente. Il prodotto marginale è invece l’incremento della quantità complessiva prodotta che si ottiene a seguito dall’aumento di una sola unità di fattori di produzione impiegati. Una legge dell’economia (legge dei rendimenti decrescenti) afferma che il prodotto marginale è decrescente e cioè al crescere della quantità utilizzata di un fattore (lavoro, materia o capitale) la quantità aggiuntiva di prodotto ottenuta è in progressiva decrescita. (solo da un certo punto della funzione di produzione in avanti perché inizialmente il prodotto marginale è invece crescente più che proporzionalmente). prodotto fattore produttivo Il grafico esprime l’andamento della curva tipica di produzione nella quale la pendenza e i flessi descrivono l’apporto produttivo fornito dalle unità aggiuntive di fattore di produzione che, inizialmente, portano ad una crescita più che proporzionale della produzione (rendimento marginale crescente) ma, dopo un certo punto, la produzione cresce meno che proporzionalmente (rendimento marginale decrescente ma comunque positivo) fino ad esaurire completamente la validità del suo impiego (rendimento marginale nullo). Fino a quando il prodotto totale cresce, il prodotto marginale è positivo. Quando il prodotto marginale è maggiore del prodotto medio, quest’ultimo è crescente e viceversa quando il prodotto marginale è minore del prodotto medio, quest’ultimo è decrescente. Lo scopo principale delle imprese è quello di ottenere un profitto dalla produzione realizzata. A questo fine è importante individuare la relazione tra il costo totale e la quantità prodotta e cioè esaminare l’andamento della curva del costo totale mettendola anche in relazione con la curva di produzione. L’effetto della legge sulla produzione marginale decrescente si nota dall’incremento modesto iniziale del costo totale (periodo in cui l’apporto del fattore produttivo incrementale determina un aumento più che proporzionale del risultato) e dall’impennarsi successivo della curva del costo totale nel periodo in cui l’apporto di ulteriore fattore dà un rendimento decrescente. costo totale quantità di produzione L’aspetto dei costi in ogni Impresa o Ente è di fondamentale importanza nel breve o nel lungo periodo e spesso determina la possibilità di sopravvivenza dell’impresa : è necessario quindi conoscere la funzione del costo minimo nei due diversi periodi di tempo considerati. Va precisato che non esiste un arco temporale specifico che separa il breve dal lungo periodo ma si definisce breve periodo quel lasso di tempo nel quale uno o più fattori produttivi restano fissi mentre lungo periodo quello in cui tutti i fattori produttivi possono variare. Quando tutti i fattori produttivi possono variare (ad esempio tipo e qualità di lavoro, tecnologia produttiva, fonti di approvvigionamento di materie ed energie, zona di produzione, modalità di vendita, ecc,) il risultato della produzione può variare in modo significativo. Queste considerazioni portano a ritenere che il costo di breve periodo non potrà mai essere inferiore a quello di lungo periodo a parità di costo dei singoli fattori di produzione. Tipologia di costi nel breve periodo Oltre al costo totale (fondamentale per determinare l’andamento economico di una impresa), è importante poter analizzare le diverse componenti che lo determinano. Una prima distinzione si può fare tra costi fissi (Cf) e costi variabili (Cv) che, assieme, costituiscono il costo totale (Ct): Ct = Cf + Cv I costi fissi non variano al variare della quantità prodotta e sussistono invariati anche a produzione nulla. Esempi sono dati dagli stipendi di personale direttivo o amministrativo (spesso tutto il costo del lavoro è considerato costo fisso considerate le rigidità di modificare gli organici), da affitti, premi assicurativi, spese generali di riscaldamento uffici, illuminazione di edifici o strade, manutenzioni periodiche, ecc. Graficamente l’andamento classico dei costi fissi è dato da una parallela all’asse delle ascisse (nel breve periodo). I costi variabili cambiano (di solito proporzionalmente) al variare della quantità prodotta e corrispondono, ad esempio, ai costi per i consumi delle materie prime, dei combustibili per il vapore industriale, della forza motrice, degli imballi, ecc. In termini grafici si ha: costi variabili Costi Costi fissi Quantità di produzione Nella realtà gli andamenti sono un po’ diversi da quelli rappresentati perché i costi fissi non hanno un andamento costante in assoluto (possono variare a gradini secondo intervalli produttivi più o meno ampi) e i variabili possono risentire della legge dei rendimenti crescenti e decrescenti assumendo un aspetto di curva anziché di retta con flessi al variare della produzione. Costi fissi costi fissi ad avvicendamento più ravvicinato Quantità di produzione Costi Variabili andamento teorico o reale costi semivariabili Quantità di produzione L’andamento del costo totale sarà dato dalla somma delle curve dei costi fissi e variabili e risulterà: Costo costi totali = fissi + variabili totale Costi fissi Dividendo i costi totali, fissi e variabili, per la quantità di produzione ottenuta, si ricava il costo medio (rispettivamente totale, fisso o variabile) : Cme = Ct / Q . Il costo medio totale indica il costo di ogni unità prodotta. La curva del costo medio totale avrà tipicamente un andamento ad U spiegato dal fatto che in un primo tempo il costo medio diminuisce al crescere della produzione mentre successivamente aumenterà in forza della legge del prodotto marginale decrescente. L’interesse per la determinazione dei costi medi è dato dalla necessità imprenditoriale di verificare, attraverso il confronto tra costo medio e ricavo medio, se si stanno realizzando profitti o perdite. Il punto più basso della curva ad U indica la dimensione efficiente dell’impresa per la quale si minimizza il costo medio totale. Prima e dopo questo punto si ha disefficienza. costo medio dimensione efficiente quantità Il costo marginale corrisponde all’incremento del costo totale determinato dall’aumento di una sola unità di quantità prodotta δCt = / δQ. Il costo marginale indica come varia il costo dell’ultima dose di bene prodotta. Considerata la legge del prodotto marginale decrescente si avrà, corrispondentemente, che il costo marginale avrà andamento crescente (nel medio-lungo periodo). Costo marginale minimo Quantità In definitiva il Costo marginale di produzione è dato dal costo da sostenere per ottenere una unità in più (rispetto al livello già raggiunto) di produzione. Dal confronto delle curve si potrebbe rilevare che, fino a quando il costo marginale sarà inferiore al costo medio totale, questo continuerà a decrescere mentre, quando il costo marginale sarà superiore al costo medio, questo comincerà a crescere. Avere un costo marginale superiore al costo medio non vuol dire automaticamente di dover interrompere subito la crescita produttiva: E’ solo un livello di attenzione da valutare. I costi nel lungo periodo Nel medio-lungo periodo l’impresa è in grado di variare liberamente le quantità prodotte e i rapporti tra tutti i fattori impiegati. In pratica potrebbero non esistere costi assolutamente fissi, salvo che, in spazi di tempo limitati, dopo i quali potrebbero diventare variabili. La stessa manodopera, tipico costo fisso, potrebbe diventare un costo variabile perché si potrebbero ipotizzare alternative di contratti a termine o di esternalizzazione di attività verso altre imprese con costi legati alle quantità di produzioni effettivamente ottenute; così ad esempio i costi per gli affitti ( altro caso di costo fisso) potrebbero trasformarsi in costi variabili attraverso la stipula di contratti con terzi a costi onnicomprensivi calcolati per ogni tonnellata di prodotto immagazzinato. In queste condizioni, i costi medi di lungo periodo deriverebbero da somme di parti di costo medio di breve periodo via via diverse in relazione ai cambiamenti aziendali apportati (in pratica una media dei costi medi di breve periodo). Il vero problema dell’impresa è quello di scegliere la combinazione ottimale di input in relazione all’output che si intende produrre. Il costo marginale di lungo periodo è sempre, per definizione, il costo dell’ultima dose di prodotto (sia pure nel lungo periodo) con tutte le variazioni strutturali e organizzative apportate nel tempo e sarà rispettivamente minore, uguale o maggiore del costo medio di lungo periodo nel tratto in cui questo è decrescente, minimo o crescente. Una differenza tra i costi marginali di breve o di lungo periodo è determinata dalla necessità, nel secondo caso temporale, di considerare anche la quota di ammortamento di capitale relativa ai costi delle variazioni strutturali apportate agli impianti a seguito di modifiche delle capacità produttive. Economie e diseconomie di scala La tendenza di ampliare l’attività dell’azienda o di utilizzare impianti di sempre maggiori dimensioni ( o per meglio dire impianti che utilizzano quantità maggiori di fattori produttivi) è collegata all’ipotesi di poter conseguire continue riduzioni nei costi medi e quindi di avere sempre maggiori rendimenti e profitti per combattere la concorrenza. Se così è davvero, allora ci si può domandare se non vi è limite alle opportunità positive di variare le dimensioni degli impianti per ridurre i costi; oppure chiedersi se invece si può incorrere talvolta anche in incrementi dei costi medi correlati con le maggiori dimensioni impiantistiche produttive. Si tratta di comprendere gli andamenti e i limiti delle economie e diseconomie di scala. Si tratta cioè di rilevare le variazioni dei rapporti tra quantità di produzione, costi e rendimenti di scala per accertare se siano crescenti, costanti o decrescenti. L’andamento di tali rapporti determinerà andamenti delle curve che potranno essere rispettivamente convessi, lineari o concavi. Il concetto di Rendimento di scala è legato alla quantità di Produzione; quello di Economie di scala è legato ai Costi. Costi Quantità Rendimenti di scala decrescenti Rendimenti costanti Rendimenti di scala crescenti Un’impresa gode di economie di scala quando può aumentare la quantità prodotta ad un costo proporzionalmente meno elevato. Un’impresa soffre diseconomie di scala quando, ad aumento significativo di produzione, subisce un costo proporzionalmente più elevato. Nel caso si siano ottenute delle economie di scala, ciò significa che si saranno avuti dei rendimenti crescenti di produttività come possibile conseguenza di interventi organizzativi (ad esempio divisione e specializzazione del lavoro) oppure miglioramenti tecnologici sugli impianti (cioè variazione dei processi produttivi) oppure cambiamenti dei mercati di vendita, degli stock ottimali di acquisto, delle condizioni bancarie agevolate, di leggi favorevoli per zone di territorio, ecc. Sono considerate tra le cause positive anche le maggiori possibilità di diversificazione e di integrazioni produttive, le forme di pubblicità di massa, le manovre oligopolistiche possibili o di cartelli sui prezzi.. Circa le possibili diseconomie di scala collegate a rendimenti decrescenti nell’impiego dei fattori produttivi si tratta di constatare se i problemi gestionali collegati con le incrementate dimensioni aziendali possano ingigantirsi a seguito delle difficoltà di controllo e di organizzazione di sistemi troppo ampi e complessi. Limiti al gigantismo aziendale (fenomeni di cosiddetta globalizzazione con tendenze a regimi di monopolio) possono essere previsti dalle legislazioni nazionali o internazionali con sanzioni pesanti per gli inadempienti oppure, a volte, sono le stesse aziende che si autolimitano per evitare di avere ricadute eccessivamente penalizzanti derivanti da insofferenze dell’opinione pubblica verso forme di presenza troppo invasive, oppure da richieste sindacali troppo onerose, oppure da disservizi qualitativi veri o presunti, oppure da errori o sabotaggi che possano connotare negativamente un prodotto o un marchio di vendita con ricadute produttive enormi. In relazione alle tipologie produttive, ai rami di attività, ai tempi e ai mercati, ogni impresa ha delle dimensioni ottimali diverse che possono portare a creare con altrettanto buoni risultati sia aziende di dimensioni gigantesche ed estensioni mondiali, sia invece conservare piccole, ma eccellenti nicchie specialistiche a livello regionale o locale. Si può quindi oscillare, con risultati ugualmente positivi (almeno percentualmente), da una convenienza economica di avere una sola grande azienda semimonopolistica ( con o senza operatore pubblico alla guida) fino a strutture individuali o famigliari assai floride e durature nel tempo. Un andamento esemplificativo di costi collegato ad economie o diseconomie di scala potrebbe avere un tracciato quale indicato in figura dalla curva rappresentativa del costo medio di una impresa ipotizzato essere prima decrescente, poi costante e infine crescente in funzione delle diverse quantità prodotte e dell’influenza che hanno, sul costo medio, le produttività marginali delle dosi incrementali dei fattori produttivi utilizzati: Prezzo o Costo economie diseconomie Prezzo di vendita Costo medio aziendale costanza quantità di produzione Punto di pareggio o break even point Il termine viene usato molto spesso in economia aziendale riferendosi al momento in cui la produzione di una determinata quantità di bene venduta ad un determinato prezzo è tale per cui l’impresa non ottiene né perdite, né profitti (i ricavi totali e i costi totali sono uguali) . La ricerca del punto di pareggio costituisce un importante strumento decisionale per l’imprenditore perché gli pone un obiettivo produttivo minimo da raggiungere. Nel punto di pareggio la quantità di produzione venduta o vendibile moltiplicata per il prezzo consente di incassare un ricavo (fatturato) che compensa i costi di produzione totali (fissi + variabili). Prima del raggiungimento di questo punto l’impresa rimane in un’area di perdita più o meno sensibile mentre, oltre questo punto, entra in un’area di profitto tendenzialmente crescente. Avendo già visto in precedenza l’andamento dei costi fissi e dei costi variabili e aggiungendo ora la curva dei ricavi (con andamento proporzionale alle quantità vendute) si può tracciare un grafico complessivo che consente di individuare, teoricamente, il punto di pareggio : ricavi Costi/Ricavi costi totali (fissi + variabili) Ricavo* Area di profitto Costi fissi B.e. p. Quantità Area di perdita Nel grafico si evidenzia: 1) i costi fissi restano inalterati (tendenzialmente) per una produzione crescente a partire da zero 2) i costi variabili sono (tendenzialmente) proporzionali rispetto alla quantità prodotta e si sommano ai costi fissi per formare i costi totali 3) i ricavi sono crescenti (tendenzialmente) e proporzionali alla quantità prodotta e venduta 4) il punto di pareggio viene evidenziato sull’asse delle ascisse e corrisponde alla quantità di produzione minima necessaria per compensare i costi totali. Il punto di pareggio si trova in ascissa come proiezione dell’incrocio tra le curve del costo totale e del ricavo Per valutare compiutamente l’importanza del break even point per una impresa è opportuno conoscere qualche altro termine di economia aziendale tra i più ricorrenti oltre a quelli già visti di costi fissi, costi variabili, prezzi e produzioni. Per farlo, utilizziamo una figura riepilogativa molto nota e molto semplice che indica una ripartizione classica e teorica del valore del prodotto aziendale ossia del fatturato tra i diversi fattori produttivi che hanno concorso a determinarlo. In questa figura si ipotizza che l’intera area del cerchio corrisponda al fatturato aziendale (dato dalla quantità di prodotto venduto moltiplicato per il prezzo di vendita) e che i diversi settori circolari esprimano la distribuzione del valore del fatturato sui fattori che hanno contribuito alla produzione dei beni e che devono essere remunerati con il ricavato ottenuto dalla vendita del prodotto. Nella successiva spiegazione (e in un lucido a parte) si illustrano sommariamente alcuni termini ricorrenti nel linguaggio aziendale e riferiti a particolari indicatori di bilancio. L’ampiezza delle aree indicate non ha attinenza a effettive percentuali ma ha solo scopo indicativo e didattico : Fatturato dell’impresa e sua distribuzione costi variabili (a) utile netto ( f ) costi fissi (b) imposte su utile ( e) ammortamenti ( c) oneri finanziari (d ) Fatturato (area totale) : è dato dal prodotto delle quantità vendute per i prezzi di vendita Margine di contribuzione (b + c + d + e + f): è quanto residua dal fatturato detratti i soli costi variabili (a) Margine Operativo Lordo (c + d + e + f) o EBITDA : è quanto residua dal fatturato detratti sia i costi variabili che i costi fissi Ammortamento (c ) : è l’accantonamento annuo da effettuare per compensare la perdita di valore di un impianto o di una attrezzatura nel tempo a causa dell’usura materiale e tecnologica ipotizzata Risultato Operativo (d + e + f) o EBIT : è quanto residua dal fatturato detratti i costi variabili, i costi fissi e gli ammortamenti Oneri Finanziari (d ): sono i costi subiti per pagare gli interessi passivi su prestiti e da versare a banche o finanziatori diversi Autofinanziamento : è la capacità dell’azienda di utilizzare mezzi finanziari propri per sostenere la Gestione. Possono derivare da: capitale proprio, dividendi non distribuiti o accantonamenti vari ( quote di ammortamento, trattamento di fine rapporto di lavoro, fondi rischi, ecc) Utile Lordo (e + f): è il profitto di impresa prima del pagamento di imposte sul reddito Imposte su utile : è la quota percentuale da versare allo Stato in relazione agli utili lordi conseguiti nell’anno fiscale di riferimento Utile Netto ( f ) : è il profitto netto della gestione aziendale. Tale valore potrà essere accantonato per corrispondere successivamente un dividendo agli azionisti, oppure essere mantenuto come riserva obbligatoria o volontaria o comunque essere a disposizione quale fonte di autofinanziamento aziendale Dividendo : è la quota di utile netto da versare agli azionisti che hanno conferito il capitale Punto di chiusura di impresa Se i Costi Medi di una impresa sono superiori al prezzo medio di vendita del prodotto, l’impresa è in perdita . Teoricamente, in questo caso, l’azienda dovrebbe cessare l’attività. Trattandosi di una decisione molto impegnativa, anzi drammatica, per i coinvolgimenti che si determinano su molti soggetti è necessario riflettere attentamente, prima della decisione, sulle cause di questa perdita, sui momenti aziendali in cui si verifica, sulla reale convenienza economica complessiva. Le operazioni di chiusura di una attività, le perdite di valore del complesso dei beni di cui è costituita l’azienda, i trascinamenti giuridici ed economici che si manifesteranno nel tempo, spesso sconsigliano questa scelta rinviandola nel tempo per valutare possibilità e alternative. Ma allora quando si dovrebbe decidere di chiudere un’azienda ? Spesso la decisione finale dipende dal confronto tra prezzo di vendita dei prodotti aziendali e costi variabili di produzione in quanto, fino al momento in cui dovesse esservi divario positivo a favore dei prezzi, il delta rimanente può servire per coprire, almeno in parte, gli altri costi che si devono comunque sopportare. Partendo dal grafico relativo al fatturato dell’azienda (vedi sopra) e in particolare dalle ultime componenti, si potrebbe trovare in più punti una motivazione per ritardare la decisione di chiusura delle attività. Si può infatti pazientare nel caso di mancanza di utili per i soci ( si può non distribuire dividendo o si possono temporaneamente utilizzare le eventuali riserve accumulate in precedenza), o di impossibilità di pagare puntualmente gli oneri ai finanziatori alle scadenze previste (si può ipotizzare la conversione di obbligazioni o di mutui in azioni trasformando la figura di finanziatore in quella di socio), o di rinviare l’accantonamento degli ammortamenti agli anni futuri, di ridurre i costi fissi e quindi migliorare il Margine Operativo Lordo (si possono predisporre piani di ristrutturazione aziendale). Quando però il Margine di Contribuzione fosse negativo, allora questo vorrebbe dire che il prezzo di vendita del prodotto è inferiore allo stesso costo delle materie prime o energie (ossia i costi variabili) : cioè, ogni unità prodotta consuma un valore di materia o energia superiore al suo prezzo di vendita. Salvo il caso di poter rimediare intervenendo sui prezzi di acquisto di materie e energie, la decisione di chiusura o almeno di sospensione temporanea di attività, apparirebbe a questo punto inevitabile. Tutta un’altra serie di considerazioni di carattere sociale, o anche di convenienza economica su altre basi, possono ancora intervenire, prima di questo punto ineludibile di rottura, per sospendere la decisione. Oltre a possibili aiuti statali, periodi di cassa integrazione, accordi con partner, prospettive di intese con imprese concorrenti si deve anche considerare che una chiusura definitiva non fa necessariamente cessare immediatamente tutti i costi perchè gli oneri di smantellamento, l’esigenza di eventuali bonifiche dei suoli, la perdita di clientela, la svendita affrettata di beni strutturali possono avere costi e conseguenze economiche molto pesanti., forse più pesanti di una prosecuzione temporanea dell’attività. Fattori della produzione Sono i beni e servizi di base che vengono utilizzati per produrre tutti gli altri beni e servizi. I fattori di produzione sono, per molti aspetti, simili agli altri beni e servizi differenziandosi tuttavia per un particolare: la domanda dei fattori è derivata dalle decisioni di produrre gli altri beni e servizi; è cioè consequenziale ad una decisione primaria di produzione di un bene finale nel quale entra il fattore produttivo (se cioè si decide di produrre automobili si dovrà conseguentemente decidere di trovare i fattori terra, lavoro e capitale idonei a produrre automobili). Classicamente i fattori sono distinti in tre gruppi caratteristici: - Capitale - Lavoro - Terra/Natura e i possessori di questi fattori sono rispettivamente: - i capitalisti che possiedono le risorse economiche per l’acquisto di attrezzature, impianti, materie prime da destinare alla produzione - i lavoratori che forniscono risorse intellettuali e manuali per far funzionare il sistema produttivo - i proprietari di terreni, aree e fabbricati che concedono gli spazi necessari o le infrastrutture per collocare gli impianti oppure dispongono di miniere, cave, boschi, bacini acquei, ecc. da cui ricavare ciò che sarà oggetto di lavorazione per pervenire al prodotto finale. La combinazione organizzata di questi fattori per ottenere il miglior risultato è attuata dall’imprenditore definito come colui che “esercita professionalmente un’impresa” e distinto ormai tra due figure: l’azionista (chi fornisce i capitali) e il manager (chi dirige l’impresa). La distinzione è relativamente recente ma è ben indicata in un modello di crescita che precisa come sia generalmente separata la proprietà dalla gestione, con il manager che cura i costi, la sicurezza e la posizione sociale dell’impresa e il proprietario che cura i profitti, la salvaguardia del capitale e la posizione di mercato dell’impresa. L’impresa poi è chiaramente configurata in un articolo del codice civile (art. 2082) come “attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni e di servizi”. Concetto affine e derivato è poi quello di azienda definita nell’art. 2555 c.c. come”complesso di beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa”. Non basta, per soddisfare i bisogni e quindi produrre beni e servizi, disporre di capitale, di lavoro e di aree, bisogna anche che qualcuno si incarichi di coordinare tutti questi elementi in modo da ottenere l’effetto cercato della migliore produzione di beni: e questi è l’imprenditore. Caratteristica dell’imprenditore è di disporre di un capitale monetario e di accettare di rischiarlo in una “ventura economica” che rappresenta il fine dell’impresa. I fattori della produzione devono essere remunerati e lo saranno, come tutti gli altri beni e servizi, in funzione della legge della domanda e dell’offerta la quale, a sua volta, agirà in relazione al contributo che ogni fattore offre al processo produttivo e dimostrato dall’entità del valore del prodotto marginale (quantità marginale di prodotto moltiplicata per il prezzo). Ogni fattore sarà quindi tanto o poco domandato/offerto per quanto potrà compensare, al netto dei costi o dei sacrifici (costo-opportunità), chi lo cede o acquista (teoria neoclassica della distribuzione). L’incrocio tra le curve di domanda e offerta fornisce la situazione di equilibrio in termini di prezzo e quantità; le pendenze, elasticità o rigidità delle curve saranno in via teorica e in via pratica diverse in relazione alle caratteristiche proprie di ogni fattore e alla specificità dei momenti economici in cui si agisce. La remunerazione dei fattori produttivi assume denominazioni convenzionali diverse per ciascuno dei tre elementi considerati, ossia: - profitto per il capitale - salario per il lavoro - rendita per la terra/natura. Il profitto normale o più semplicemente profitto (ossia la remunerazione dell’imprenditore) è elemento da considerare regolarmente tra i costi dell’impresa perché l’imprenditore-proprietario deve essere remunerato correttamente in quanto si deve tener conto che, diversamente, non si impegnerebbe nell’impresa come apportatore di capitali andandoli ad impiegare altrove e in altro modo, oppure potrebbe impiegarsi come manager presso un’altra impresa e in questo caso ottenere un reddito adeguato alle sue capacità e al tempo dedicato a questa attività. Diverso è invece il caso dell’extra profitto, dato dalla differenza tra ricavi e costi (e tra questi ultimi è già compreso anche il profitto normale) e che costituisce un surplus temporaneo destinato ad essere eroso dall’azione combinata della concorrenza di mercato e dalle aspettative degli altri fattori produttivi. Ancora da considerare, in materia di costi, è il periodo temporale al quale si riferiscono e cioè se si tratta di un breve o lungo periodo intendendo per breve un intervallo di tempo in cui un’impresa non è in grado di modificare la propria capacità produttiva fissa mentre per lungo periodo si intende quello in cui può avvenire un radicale cambiamento di strutture aziendali e consentire quindi di entrare sul mercato o di espandersi o di ridurre invece la scala delle proprie operazioni. Funzione di produzione : variabilità di un fattore Alla base dei costi del produttore risiede la funzione di produzione che mette in relazione la quantità massima di prodotto ottenibile con le quantità dei fattori produttivi necessari. Se si fa l’ipotesi che un fattore sia pienamente sostituibile dagli altri si potrà dire che la funzione è data da: Q = f (L, M, K) in cui Q è la quantità di produzione ottenibile con l’impiego di determinate quantità dei fattori L (lavoro), M (terra o risorse naturali) e K (capitale o tipologia di impianto). Per determinare il valore di ciascun componente si può ipotizzare di rendere variabile un solo fattore produttivo per volta mantenendo fissi gli altri e verificare come cambia la quantità di produzione ottenibile. Il grafico del prodotto totale (funzione di produzione) ottenuto in un determinato periodo di tempo al variare di un solo fattore potrebbe avere un andamento secondo le tipologie sotto indicate: Produzione totale max Q del fattore produttivo variabile Come si vede, la funzione di produzione ha un andamento crescente ad indicare che il contributo produttivo di ulteriori dosi del fattore esaminato è comunque generalmente positivo in assoluto (sia pure con andamenti marginali crescenti o decrescenti in relazione ai flessi delle curve ipotizzate) fatto salvo che possa diventare, oltre una certa misura, inutile (perché non porta ad alcuna variazione di quantità prodotta) o controproducente (eccesso di automazioni o eccesso di presenza di manodopera) portando addirittura ad una riduzione della quantità di produzione ottenuta per la disorganizzazione che potrebbe indurre nel sistema produttivo. Quando dosi incrementali di un fattore si uniscono a quantità fisse di altri fattori, normalmente, in una prima fase, il contributo è decisamente positivo valorizzando gli altri fattori a tassi crescenti salvo poi perdere di rilevanza fino a diventare inerte o negativo. La produttività dei fattori, ossia il rapporto fra il risultato dell’attività produttiva (e quindi la produzione totale) e le quantità di fattori impiegati per ottenerla, tende a crescere in misura variabile, con maggiore o minore intensità, in relazione alla quantità di fattore impiegato; ma da un certo punto la legge dei rendimenti decrescenti prende il sopravvento e il fattore non fornisce più produzione incrementale adeguata. Il prodotto marginale (da un punto di vista geometrico dato dalla pendenza della curva del prodotto totale ) indica le variazioni finali del prodotto totale all’aumentare di ogni dose di fattore variabile, ferme restando le dosi degli altri fattori. L’andamento classico del prodotto marginale PMg è dato da una curva decisamente crescente fino ad un massimo, seguito poi da una mantenimento stazionario senza crescita e poi ridursi fino ad azzerare i suoi effetti nonostante le dosi, anche crescenti, somministrate. Il prodotto medio si ottiene dividendo il prodotto totale per le corrispondenti quantità di fattore variabile utilizzato. Coerentemente col prodotto marginale anche l’andamento del prodotto medio è, dapprima in fase di crescita, poi stazionario e quindi in riduzione come indicato in grafico. Pmg Pmg Pme Pme Q del fattore produttivo E’ facile considerare che, quando il prodotto marginale cresce o resta comunque al di sopra del prodotto medio, anche il prodotto medio cresce, mentre quando diminuisce, passando ad essere inferiore al prodotto medio, anche il prodotto medio diminuisce. Per fornire vero vantaggio all’impresa, la produttività di un fattore (si intende per produttività di un fattore l’incremento di prodotto che deriva dall’applicazione dei singoli fattori ) deve essere superiore al costo medio del prodotto. Da considerare rilevante è anche il valore del prodotto marginale ossia la quantità di prodotto marginale moltiplicata per il prezzo del bene ottenuto dalla produzione. E’ fondamentale infatti, per i confronti economici aziendali, esaminare il ricavo aggiuntivo (marginale) ottenuto con l’impiego di una dose di fattore e il costo aggiuntivo (marginale) dovuto per la remunerazione di quest’ultima dose: una impresa concorrenziale cercherà di utilizzare il fattore produttivo in esame solo fino a quando si eguaglieranno il valore del prodotto marginale e il costo marginale del fattore. La remunerazione di tutti i fattori di produzione è strettamente dipendente dal valore del prodotto marginale di ogni singolo fattore e deve essere considerata strettamente collegata con la classica “legge dei rendimenti decrescenti” la quale afferma che, se si continuano ad aggiungere successive dosi di una risorsa variabile ad una risorsa fissa, da un certo punto in poi il prodotto aggiuntivo o marginale che si ricava da ogni ulteriore dose di risorsa variabile diminuisce o comunque non aumenta. Questa legge vale nel breve periodo e si basa sull’ipotesi che non vi siano né variazioni di prezzo del prodotto, né modifiche di offerta di altri fattori, né innovazioni tecnologiche di rilievo. Nel medio-lungo periodo il ciclo virtuoso potrebbe ripetersi con l’applicazione di nuovi processi tecnologici, di nuovi impianti o di nuove combinazioni di materie salvo poi toccare un nuovo limite, in attesa di nuovi sviluppi della ricerca e di nuove scoperte che potranno far ripartire il ciclo virtuoso. Isoquanti di produzione Nel caso si abbia la possibilità di variare contemporaneamente due diversi fattori di produzione anziché uno solo si avranno tante, diverse, possibili combinazioni dei due fattori per ottenere le stesse quantità di prodotto. Il parallelismo di queste nozioni con quello delle curve di indifferenza, nel caso prima visto della teoria del consumatore, è evidente e cambia solo la terminologia, variando da aspetti di preferenza del tipo di bene consumato (e quindi di maggior utilità ottenuta) ad aspetti di dosi di beni utilizzati (e quindi di maggiori quantità ). Tutte le possibili combinazioni sono rappresentate da curve di isoquanti ( isoquanto è definito come luogo di punti nello spazio in corrispondenza dei quali la produzione è costante ) come indicato nella figura sotto riportata in cui, ad ogni curva, corrisponde una diversa quantità di prodotto totale ottenuto con le quantità diverse di fattori produttivi impiegate (ad esempio capitale e lavoro) indicate dalle proiezioni sugli assi cartesiani : fattore K K1 isoquanto isocosto L1 fattore L La convessità delle curve verso l’origine dipende dalla legge sui rendimenti decrescenti dei fattori produttivi la quale implica che, ad una riduzione di un fattore, corrisponda un aumento della sua produttività marginale. La pendenza della curva dell’isoquanto dipende dal “saggio marginale di sostituzione” che misura l’aumento di un fattore necessario per compensare la riduzione dell’altro. La minimizzazione dei costi di produzione dipende dalla retta di isocosto ( isocosto è il luogo di punti nello spazio in cui il costo totale delle quantità dei due input di fattori di produzione utilizzati è uguale ) la quale indica il rapporto tra i prezzi dei due fattori produttivi utilizzati (nel caso esaminato, capitale e lavoro). Il punto di tangenza tra la retta di isocosto e la curva di isoquanto indica la migliore combinazione possibile tra quantità di fattori utilizzati e il loro costo. Il costo totale è dato dalla somma delle quantità dei singoli fattori moltiplicata per i rispettivi prezzi. : Ct = r K + w L La pendenza dell’isocosto è pertanto data dal rapporto w / r (quantità del fattore lavoro rapportata alla quantità del fattore capitale). Se il prezzo di un fattore aumenta potrà essere vantaggioso per l’impresa sostituire il fattore divenuto più caro con altro fattore che sia rimasto fermo nel prezzo o cresciuto meno. Progresso tecnico La tecnologia è fonte di cambiamento nei processi produttivi per le modifiche e innovazioni che introduce nel processo, nel prodotto e nell’organizzazione. Con il progresso tecnico si può ottenere o una variazione nelle quantità prodotte o una riduzione delle curve di isoquanti come si indica nei sotto riportati grafici a) e b) : Q1 K Q* Q* Q1 L a) La nuova tecnologia ha portato, a parità di Lavoro, maggior produzione totale L b) Si utilizzano minori quantità di fattori produttivi per avere la stessa produzione totale La funzione di produzione di lungo periodo La caratteristica del lungo periodo in economia è quella di poter presumere che tutti i fattori produttivi possano essere considerati variabili e quindi si dovrà decidere se, eventuali variazioni produttive, debbano essere ottenute agendo proporzionalmente su tutti i fattori o se concentrate su alcuni soltanto perché più convenienti. Il problema è quello dei rendimenti di scala ossia le variazioni legate a dimensioni diverse dell’impresa dovute, sia a singole modifiche impiantistiche dirette, sia ad incorporazioni e fusioni di altre strutture operative, similari o no, precedentemente di proprietà di terzi. Anche relativamente all’andamento dei rendimenti di scala gli economisti non si sono limitati ad osservare il fenomeno, ma hanno cercato spiegazioni razionali. Per secoli si è ritenuto che la specializzazione nelle mansioni e la conseguente maggiore abilità dell’individuo potessero spiegare (con Adam Smith) il fenomeno della maggior produttività (poche operazioni ripetute con poche perdite di tempo facilitano l’apprendimento e quindi la maggiore quantità di risultati); non sono però da trascurare aspetti che non derivano da uno sfruttamento diretto dell’addetto. Ad esempio, spazi fisici maggiori di magazzino a disposizione consentono stock di materie e prodotti più elevati ed economici; automazioni di impianti avanzate danno ritorni vantaggiosi in termini di manodopera; costi fissi da ripartire su volumi maggiori di produzione riducono il costo per unità di prodotto. Rendimenti di scala possono aversi anche per motivazioni legate al superamento di certe immodificabilità tecniche di sezioni di impianto (impossibilità di adottare dimensioni ottimali degli impianti legati a parametri rigidi su alcune caratteristiche costruttive ) oppure di aspetti gestionali e organizzativi, oppure di rapporti sindacali o anche a ostacoli da parte di autorità per quel che riguarda ambiente e sicurezza. Di fatto, nel lungo periodo tutto può essere messo in discussione e quindi i ragionamenti economici devono essere flessibili, pronti per essere anche capovolti dalle nuove situazioni che si possono presentare. Gli equilibri sul mercato dei fattori produttivi La legge di domanda e offerta che regola quantità e prezzi di tutti i fattori produttivi può avere delle caratteristiche applicative proprie per ciascun singolo fattore che può essere utile indicare. Circa il fattore lavoro la regola del mercato della libera concorrenza indica che l’impresa domanderà lavoro fino a che il valore del prodotto marginale del lavoro non eguaglia il salario pagato. Le imprese quindi eguagliano la produttività marginale del lavoro con il salario reale percepito dai lavoratori. Applicando rigidamente il concetto di libera concorrenza al mercato del lavoro deriverebbe che, a fronte di elevata e crescente disponibilità di manodopera (offerta di lavoro), i salari dovrebbero ridursi (teoricamente fino alla semplice sussistenza). Nel mercato reale tuttavia sono invece presenti normalmente alcune rigidità (sia dalla parte degli imprenditori sia da quella dei lavoratori) tali che spesso non sono consentite o volute queste riduzioni di salario. Conseguentemente, potrà continuare a sussistere un divario tra domanda e offerta di lavoro tanto da mantenere sacche di disoccupazione da un lato ed elevati costi salariali dall’altro che possono tradursi in circoli viziosi che portano ad ingigantire situazioni di crisi economica. Seguendo le regole teoriche comunque, l’equilibrio istantaneo di mercato o quello conseguente a variazioni incrementali di offerta dovrebbe risultare da quanto esposto in grafico: salari offerta salario domanda nuovo equilibrio quantità di lavoro …a dimostrazione che, ad aumento dell’offerta di lavoro, il salario si riduce per favorire nuova occupazione. Molto influenti sul fattore lavoro per determinare il prezzo (salario) sono anche altre variabili come la qualità delle mansioni (di soddisfazione o no per il lavoratore), lo sforzo fisico (lieve o pesante), l’orario giornaliero o settimanale, la durata delle ferie, le possibilità di carriera, il tempo libero, ecc. In genere si rapporta quindi la retribuzione e la quantità di lavoro messa a disposizione da un singolo alla penosità dell’attività vista come mix molto complesso di azioni e non azioni solo indirettamente legate al salario. Il fattore “lavoro”, nei sistemi occidentali avanzati in cui si è ampiamente superata la soglia della sopravvivenza, si differenzia dai beni e servizi genericamente trattati in economia perché contiene una serie di variabili soggettive che possono distorcere i classici schemi domanda-offerta-prezzo pur essendo questi ancora tendenzialmente validi. Limitandoci a verificare le leve legate all’effetto reddito e all’effetto sostituzione (viste in precedenza per altre tipologie di beni) tra la quantità di lavoro offerto e di tempo libero richiesto si viene ad avere: - effetto reddito : un aumento del salario fa aumentare il reddito consentendo al lavoratore di consumare di più tutti i beni, tra cui il bene “tempo libero”. Se il bene tempo libero è un bene normale, il consumatore è indotto a domandare più tempo libero e meno lavoro; - effetto sostituzione : un aumento del salario rende il tempo libero relativamente più caro. Il consumatore è indotto a domandare meno tempo libero e ad offrire più lavoro; - effetto totale : dipende dal risultato algebrico dei due precedenti effetti. In particolare per bassi livelli di reddito il risultato fa prevalere l’effetto sostituzione e quindi il lavoratore domanda meno Tempo Libero e più Lavoro. Viceversa, per livelli elevati di reddito prevale l’effetto reddito e il risultato sarà quello di chiedere più Tempo Libero e offrire meno Lavoro. Esiste dunque un livello di salario reale oltre il quale l’offerta di lavoro diminuisce all’aumentare del salario. L’andamento, visto in grafico, porterà ad una curva di offerta di lavoro rivolta all’indietro: salario lavoro Se questo andamento di una offerta in controtendenza è vero per una certa categoria di lavoratori, non lo è altrettanto se consideriamo tutti i lavoratori. In questa ottica la curva complessiva torna ad avere un normale andamento crescente rispetto al salario perché anche se l’aumento del salario può indurre singoli lavoratori a lavorare di meno, tale aumento attira lavoratori da altri settori (o da altre nazioni tramite l’immigrazione) verso quello nel quale si è registrato l’aumento salariale. La curva tornerà quindi ad essere, tendenzialmente: salario lavoro Circa il fattore terra si può rilevare, come elemento distintivo, una significativa rigidità nell’offerta determinata dalla difficoltà di incrementare ed estendere la quantità a disposizione (sia con riguardo all’agricoltura, sia per aree in posizioni appetibili per residenze o uffici) o dalla ritrosia a ridurre o sospendere le coltivazioni. L’equilibrio si troverà comunque nel consueto punto di incontro tra domanda e offerta (quest’ultima tendenzialmente rigida nelle nostre zone): prezzo offerta domanda quantità di terra La terra è, da sempre, considerata un bene di investimento, un prezioso salvadanaio, un bene che non perde di valore. Se pure il rendimento per impieghi agricoli è considerato poco remunerativo, il suo costo di mercato, in tempi normali si mantiene alto, anzi è in continuo incremento sia per la speranza speculativa che possa diventare terreno edificabile a seguito di varianti di piani regolatori, sia per la diffusione di ricchezza tra classi sociali che porta significativi settori di popolazione a cercare di ampliare spazi di proprietà per il desiderio di ostentare potere e per poter disporre di aree verdi, non inquinate e tranquille. Circa il fattore capitale si registra una rilevante flessibilità di domanda e offerta quando si tratta di capitale monetario e invece una crescente rigidità per il capitale investito in attrezzature o impianti. Il capitale monetario si sposta infatti nello spazio e nel tempo in modo ormai istantaneo alla ricerca delle migliori remunerazioni, le quali subiscono repentine oscillazioni in funzione di aspettative o rumors per eventi interessanti l’intero sistema economico mondiale con attese anche speculative. Il capitale investito registra invece andamenti molto più cauti con una variabilità di medio-lungo termine collegata direttamente alla tipologia dell’investimento per caratteristiche di destinazione produttiva (un solo prodotto o più prodotti), impegno economico (forti esborsi di costi fissi o modesti impegni) e presunte innovazioni tecnologiche (prodotti di base consolidati o invece prodotti di moda e voluttuari). Il costo del capitale è chiamato tasso di interesse e l’impresa domanderà capitale ( K) fino a che il valore del prodotto marginale del capitale non eguaglia il tasso di interesse ( r ). Tasso interesse r domanda di capitale K Anche l’offerta di capitale è determinata dal tasso di interesse in quanto la sua valorizzazione potrà o no indurre i risparmiatori ad offrire i propri risparmi in cambio della remunerazione rappresentata dal tasso. L’intersezione della curva di domanda di denaro per l’acquisto di beni capitali e della curva di offerta di denaro da parte dei risparmiatori determina il tasso di interesse di mercato. Offerta tasso Domanda Moneta disponibile Il criterio di scelta per l’acquisizione di un bene capitale (più in generale per effettuare un investimento) prevede il calcolo del VAN (valore attuale netto). L’argomento sarà trattato nel capitolo specifico successivo. Infine, per i fattori terra e capitale si potrebbe anche distinguere tra prezzi di acquisto dei fattori (e quindi di appropriazione definitiva ) e prezzi di locazione (e quindi di utilizzo temporaneo). Per le due forme si muovono forze e aspettative di mercato diverse per cui, anche le remunerazioni, nei due casi di acquisto o di locazione possono avere andamenti significativamente diversi. A volte si usa il termine “capitale” anche con riferimento al fattore lavoro. Si parla cioè di “capitale umano” per indicare l’accumulazione di investimento sulla persona-lavoratore dato dai periodi di istruzione, formazione e esperienza professionale legati al singolo individuo. La remunerazione del fattore lavoro è collegata anche con questo requisito e spesso in misura proporzionale al tempo trascorso in formazione. Questo potrebbe, in parte, spiegare le diverse carriere e le diverse remunerazioni acquisite da lavoratori che sono entrati tardi nel mondo del lavoro per dedicarsi a più numerosi anni di studio. I REGIMI DI MERCATO Si è già detto in diverse occasioni che i regimi di mercato comunemente studiati distinguono quattro diverse forme principali di cui, quella più a lungo esaminata, discendendo dagli studi dei classici a partire da Adam Smith, è la “libera concorrenza o la concorrenza perfetta” in cui ogni compratore e venditore è libero di entrare e uscire dal mercato ed è così piccolo (proporzionalmente al mercato) da non poter influire sul prezzo, da considerare quindi come dato di fatto. Al contrario, se singoli operatori possono influenzare il prezzo, si dice che essi hanno un potere di mercato. La struttura dei mercati dipende da vari fattori ma, in particolare, dal numero delle imprese che operano e dalla tipologia di bene che viene offerto in vendita. Una schematizzazione semplificata indica queste quattro forme classiche valide per un territorio (un comune o un consorzio di comuni, una provincia, una regione, uno Stato o il mondo a seconda del confine in cui si frappongono barriere al libero scambio dei beni) salvo poi entrare in particolari spiegazioni: Tipo di mercato N° DI IMPRESE TIPI DI PRODOTTO BENI ESEMPLIFICATIVI MONOPOLIO UNA UNICI ACQUA POTABILE OLIGOPOLIO POCHE UNICI o POCHI PETROLIO, AEREI CONCORRENZA MOLTE DIFFERENZIATI BAR, RISTORANTI, MONOPOLISTICA CONCORRENZA ALIMENTARI MOLTISSIME IDENTICI PERFETTA CEREALI, FRUTTA, ATTREZZI, LATTE COMMODITIES CONCORRENZA PERFETTA La concorrenza perfetta, anche se presente in realtà piuttosto rare, costituisce un modello teorico di mercato di forte rilievo di studio. In esso, ogni impresa ha un potere nullo su quantità e prezzo ma anche nessun limite di azione; il numero di imprese può essere talmente elevato che ognuna è costretta ad accettare il prezzo fissato dalle forze presenti della domanda ed offerta. Le caratteristiche principali dei casi teorici classici sono: a) presenza di elevato numero di imprese e di acquirenti di piccole dimensioni; b) offerta di prodotti indifferenziati (o comunque percepiti come tali dai consumatori) e quindi sostituibili tra loro indipendentemente dall’impresa che li produce (ad esempio frumento, latte, ferro, etilene, benzolo, ecc.); c) libertà per le imprese di entrare o uscire dal mercato senza vincoli istituzionali o economici (allevatori, commercianti, produttori di metalli, ecc.); d) disponibilità di informazioni complete e simmetriche del mercato e dei concorrenti. Le singole imprese non sono dunque in grado di influire sul prezzo di mercato perchè la quantità di beni singolarmente apportata o chiesta è insufficiente a mutare i rapporti complessivamente stabiliti dalle forze in equilibrio. I prodotti sono identici e non possono influenzare la scelta dei consumatori i quali restano indifferenti al nome del venditore e cercano solo il prezzo migliore. Non sono previste né erogate licenze limitate di vendita, non vi sono impedimenti territoriali per trasferimenti o cessazioni di imprese; i consumatori presenti sono persone razionali che operano secondo le regole del massimo tornaconto o del principio economico. E’ il prezzo che determina la presenza di compratori e di venditori anche se, invisibilmente e inconsciamente, indipendentemente l’uno dall’altro, sono tutti i singoli compratori e i venditori che fanno nascere il prezzo di equilibrio. La curva di domanda diventa pertanto assolutamente elastica e viene rappresentata graficamente da una parallela all’ascissa al livello di prezzo indicato dal mercato; ad un prezzo superiore nessuno comprerebbe il prodotto dell’impresa che vuol modificare arbitrariamente la variabile e la sua offerta resterebbe senza sbocchi. Come conseguenza del prezzo invariato ne risulta un ricavo perfettamente proporzionale alla quantità venduta, un ricavo medio e un ricavo marginale uguali tra loro e uguali al prezzo. Nel mercato di libera concorrenza (come in ogni forma di mercato) l’obiettivo di breve periodo per l’impresa, è di massimizzare il profitto e questo si può ottenere o attraverso il confronto costo totale v/s ricavo totale oppure tra costi e ricavi marginali. Il primo confronto si realizza utilizzando il livello di produzione ossia la quantità totale da offrire sul mercato: alle diverse quantità prodotte e vendute crescerà proporzionalmente il Ricavo Totale (dato dalla quantità prodotta moltiplicata per l’unico prezzo di mercato) mentre il Costo Totale potrebbe crescere di più o di meno a seconda dei rendimenti di scala o comunque della diversa incidenza dei costi fissi sulle quantità prodotte. Il secondo confronto ( confronto marginale) si ottiene valutando il momento in cui il prezzo di mercato corrisponde al costo di produzione marginale nel tratto crescente della curva dei costi. Poiché fino a che c’è divario positivo tra prezzi e costi marginali si ha un guadagno per l’impresa, la convenienza sarà di aumentare la produzione fino a quel punto, ottenendo dei profitti totali continuamente superiori. Ovviamente, se il prezzo dovesse risultare inferiore al costo marginale converrà fermarsi al punto di pareggio e, se lo si è già superato, ridurre la produzione per tornare al pareggio (altro problema sarà quello di decidere se ritirarsi definitivamente o temporaneamente dal mercato). Il grafico dimostra che il profitto si massimizza quando il prezzo è uguale al costo marginale nel tratto crescente della curva dei costi P = CMg costi/ricavi prezzo = ricavi Punto di pareggio tra Ricavi totali e Costi totali Costi marginali Quantità di produzione Un altro modo di guardare il punto di massimizzazione del profitto è dato dal livello di produzione ottimale che corrisponde a quello in cui ricavo marginale e costo marginale sono identici. Ad ogni variazione di prezzo (ad esempio in aumento) l’impresa si trova di fronte ad un divario tra quest’ultimo e il suo costo marginale di produzione, il quale a sua volta era uguale al precedente prezzo. Se il divario è positivo l’impresa sarà spinta ad aumentare la produzione per aumentare il suo profitto: in definitiva la curva di offerta dell’impresa corrisponderà al prezzo, il quale sarà bilanciato con il costo marginale. Ciò si vedrà meglio esaminando l’equilibrio di lungo periodo perché è in un arco temporale maggiore che si possono rappresentare in modo più evidente prezzi, costi marginale, costi medi e ricavi. L’equilibrio di mercato di lungo periodo in libera concorrenza In un mercato in cui i produttori riescono ad ottenere profitti è lecito attendersi l’ingresso di concorrenti che porteranno a maggiore offerta di beni e quindi, per la legge di mercato, a riduzione di prezzi a cui conseguirà una riduzione di profitti o superprofitti fino all’azzeramento e al blocco di interesse verso quel mercato da parte di altre imprese, a meno che si scoprano tecnologie nuove che possano portare a riduzione di costi rimettendo in modo la spinta concorrenziale. Viceversa, nel caso di prezzi inferiori ai costi medi e quindi di perdite, alcune imprese che si trovano in questa fascia negativa di profitto potranno decidere di uscire dal mercato e ciò causerà riduzione di offerta del bene, incremento dei prezzi e nuove spinte concorrenziali fino ad una nuova condizione di equilibrio tra ricavo e costo totale medio. Queste decisioni modificatorie necessitano, per concretizzarsi, di tempi medio-lunghi che porteranno a nuovi equilibri, tali che progressivamente si potrà avere una eguaglianza tra: prezzo = costo marginale = costo medio P D O P* costo marginale O1 P1 P* E P1 Q* Q1 prezzo R costo medio Q1 Q* Nella figura sopra a destra si rappresenta graficamente quello che avviene sui mercati nel tempo: si nota infatti che, a prezzo P*, una impresa che abbia un costo medio R uguale ad un prezzo P1 realizza un profitto pari all’area P*ERP1 (vedi il capitolo della rendita del produttore); ma il profitto richiama l’interesse di altre imprese che entreranno sul mercato facendo diminuire ipoteticamente il prezzo fino a P1 annullando di conseguenza i profitti precedenti. Nella figura di sinistra è invece rappresentato il movimento della quantità di beni offerti sul mercato dai produttori i quali, attirati dai prezzi interessanti, fanno aumentare, temporaneamente, l’offerta spostandola da Q* a Q1. Nel tempo tuttavia la maggiore offerta farà ridurre il prezzo e di conseguenza si potrà ritornare alla precedente posizione di equilibrio oppure ci si potrà spostare definitivamente su altre posizioni di equilibrio in relazione ai movimenti di altre variabili quali il reddito o il cambiamento di gusti o il prezzo di altri beni alternativi. Si deve sempre ricordare che, dicendo che si azzera il profitto non si intende che l’azienda sia, automaticamente, in perdita perché il profitto zero significa in realtà solo superprofitto o extraprofitto zero, restando compreso nei costi di esercizio il profitto normale cioè quello corrispondente al normale guadagno per l’attività svolta dall’imprenditore sia come lavoro sia come impiego di capitali o di terra. La vera perdita economica si ha quando, non solo non si ha profitto, ma quando il ricavo totale non copre (nel medio-lungo periodo) i costi totali; nel breve periodo invece di guardare subito ai costi totali ci si può accontentare di guardare ai costi variabili potendo, nel breve, accettare di coprire con i ricavi solo questi ultimi tipi di costi spostando nel periodo più ampio il recupero anche dei costi fissi o delle altre tipologie di accantonamenti di bilancio (vedi capitolo specifico sui costi). Se immaginiamo di esaminare il mercato di libera concorrenza e una impresa in particolare si possono determinare queste situazioni: 1) inizialmente : mercato e impresa sono in equilibrio con il mercato che stabilisce un prezzo al punto di incontro di domanda e offerta e l’impresa che, a quel prezzo, ferma la sua produzione avendo raggiunto l’equilibrio con il suo costo marginale e il suo costo medio 2) nel breve periodo : il mercato può avere un incremento (o decremento) di domanda e offerta a cui corrisponderanno prezzi più o meno elevati e imprese che godranno o subiranno temporaneamente, superprofitti o perdite 3) nel lungo periodo : il mercato riadegua domanda e offerta in base ad un prezzo che tende a ritornare al livello iniziale e impresa che ritorna ad avere costi marginali e medi che si equivalgono ai prezzi e quindi senza più superprofitti o perdite. Le possibili cause di fallimento dei mercati di libera concorrenza sono: • presenza di potere di mercato rappresentato da monopoli o oligopoli • presenza di esternalità e di beni pubblici rivali e no • presenza di imposte distorsive che colpiscono impropriamente un bene • informazioni di mercato incomplete • assenza di mercato per certi beni (ad esempio per l’aria pulita) GLI ALTRI SISTEMI DI MERCATO Mercati di concorrenza imperfetti: Nei sistemi di mercato effettivamente in essere sono prevalenti situazioni in cui le imprese hanno un certo grado di controllo sul prezzo dei beni venduti e questo cancella il requisito fondamentale proprio della libera concorrenza per portare il rapporto tra produttori e consumatori in altri regimi di mercato. Che il sistema in essere sia imperfetto non vuole automaticamente affermare che non vi sia assolutamente concorrenza perché ogni impresa cerca comunque di prevalere sulle altre aumentando la propria quota di mercato a scapito delle altre spostando la curva di domanda verso i propri prodotti. Anche nel caso estremo del monopolio una certa concorrenza potenziale può esistere in quanto nuove imprese potrebbero costituirsi e presentarsi sul mercato e approfittare di condizioni particolarmente favorevoli, oppure potrebbero far leva sugli organi dello Stato perché siano emanate leggi di tutela della concorrenza. E’ l’elasticità della domanda (e la sua conseguenza sul prezzo) che porta ad una vera differenza tra i sistemi di mercato e se, nella libera concorrenza perfetta, è un dato di fatto costitutivo quello dell’elasticità massima (si azzera completamente la quantità venduta se si aumentano indebitamente e discrezionalmente i prezzi ), negli altri regimi si ha invece un certo grado di rigidità (e la curva di domanda ha una inclinazione negativa più o meno accentuata). Per questo motivo (e data una certa tecnologia) i prezzi dei mercati imperfetti risultano normalmente superiori rispetto a quelli della concorrenza perfetta e di conseguenza la produzione venduta risulta inferiore a quella teoricamente possibile. Si ha quindi, per i produttori, un certo superprofitto e una tendenza al dominio di mercato con una forma di barriera all’ingresso di altre nuove imprese che dovranno ricorrere a forme onerose di pubblicità, brevetti, concessioni, differenziazioni di prodotto per farsi conoscere e in qualche misura imporsi. Dall’altra parte, la collettività dei consumatori viene a soffrire una perdita secca di benessere perché non ha economicamente la possibilità di accedere al godimento di un bene. Da questi mercati di concorrenza imperfetta non si hanno comunque solo svantaggi perché l’aumento della quantità di produzione da parte di una impresa dominante può riflettersi positivamente sulla produttività e l’economia di scala che si può ipotizzare, porta con sé ipotetici vantaggi (contrariamente ai concetti più diffusi) sui prezzi di vendita e sulla capacità di disporre di maggiori fondi per la ricerca e l’innovazione tecnologica (si hanno infatti a disposizione profitti maggiori che potrebbero essere, in parte almeno, impiegati per sviluppare nuovi prodotti) con possibili vantaggi indiretti. Tra le diverse forme di concorrenza imperfetta le più note sono: il monopolio, l’oligopolio e la concorrenza monopolistica. Monopolio Si ha quando l’offerta di un bene che non ha stretti sostituti viene concentrata su un unico soggetto senza alternative valide (si pensi ai casi di taluni software informatici o a medicinali). Il controllo alternativo o contemporaneo delle materie prime, della tecnologia produttiva, del mercato di vendita o della struttura dei costi può creare barriere di ingresso sul mercato a tutte le altre imprese comportando di fatto un dominio produttivo, ossia un monopolio. Se possono essere pochi i veri monopoli dovuti al possesso di una risorsa chiave, molti sono invece quelli legati a diritti di vendita esclusiva (licenze pubbliche per elettricità, acqua, telefoni, brevetti, ecc.) o ai costi medi più economici collegati a vantaggi derivanti dalla scala di produzione (monopolio naturale). Obiettivo di una impresa privata in regime di monopolio è la massimizzazione del profitto utilizzando lo strumento del prezzo o della quantità di produzione portata sul mercato. Tipiche conseguenze del monopolio sono le produzioni limitate (per mantenere un livello elevato di prezzo), i prezzi più elevati e i superprofitti. La curva di offerta viene mantenuta dal monopolista uguale alla curva di domanda con un andamento tipico tendente a massimizzare non il prezzo di vendita né la quantità offerta ma il guadagno ottenuto. Fortunatamente il monopolista non ha in mano tutte le leve del mercato perché in tal caso potrebbe avere profitti teoricamente illimitati; ma può agire o sul prezzo (accettando la conseguente quantità di domanda tarata sulle possibilità economiche da parte dei consumatori) o sulla quantità venduta (accettando il conseguente prezzo). Da queste leve si determina un certo ricavo totale dal quale, detraendo i costi totali a quel livello di produzione (RT – CT), deriverà un ipotetico guadagno (G) rappresentato da una curva con andamento simile a quello sotto rappresentato studiata dall’economista Cournot: G punto di Cournot Q* Con G (guadagno) = produzione) Quantità Q P (quantità venduta per il prezzo di vendita) – C (costo di Si deduce quindi il prezzo fissato dal monopolista e la quantità venduta in relazione al prezzo saranno i termini che gli consentiranno il massimo guadagno in un punto denominato punto di Cournot. Per massimizzare il profitto il monopolista cercherà di eguagliare il ricavo marginale al costo marginale cioè opererà fino al punto di guadagno marginale uguale a zero. Fino a questo punto infatti, pur riducendosi il guadagno marginale (o dell’ultima dose venduta), esso sarà sempre positivo e quindi vantaggioso. Il freno alle ambizioni massime del monopolista è dato dall’impossibilità di stabilire congiuntamente il prezzo massimo e la quantità massima ma soltanto una delle due traendone le conseguenze più vantaggiose. Solo se si trattasse di beni irrinunciabili e insostituibili si verserebbe in una condizione di assoluto dominio al quale evidentemente le leggi di uno Stato civile dovranno necessariamente porre rimedio (le vie possibili per questo consistono in stimoli o regole o trasformazioni delle imprese private in imprese pubbliche) . Se ragioniamo in termini matematici con riferimento agli assi cartesiani e pensiamo a quanto già presentato in regime di concorrenza avremo, in termini di domanda in funzione del prezzo, anche per il regime di monopolio, il consueto andamento decrescente come indicato nel grafico a sinistra. Per il ricavo marginale il grafico di destra mostra un analogo andamento decrescente della domanda ma con pendenza doppia (il ricavo marginale sarà sempre inferiore alla domanda salvo al momento di origine perché, per vendere maggiori quantità, anche il monopolista dovrà ridurre il prezzo) : prezzo domanda domanda ricavo marginale quantità -2b -b L’equazione della retta di domanda avevamo già visto essere : P= a–bQ con a = stacco sull’ordinata e b = coefficiente angolare della retta di domanda. L’equazione del Ricavo totale è : P * Q = (a- bQ ) Q = aQ – bQ2 Il ricavo marginale è l’incremento del Ricavo totale dovuto all’ultima dose di bene venduto e corrisponde alla derivata prima dell’equazione vista sopra, ossia : a – 2bQ Anche nel caso del monopolio si dovrà poi confrontare il ricavo marginale con il costo marginale e, nel punto di uguaglianza, si avrà il massimo della convenienza per il monopolista che corrisponde con il massimo guadagno o profitto, ossia il punto di incontro determina la quantità da produrre per massimizzare il profitto. Il ragionamento sembra uguale tra concorrenza e monopolio (in entrambi i casi si produce fino al raggiungimento dell’uguaglianza tra costi e ricavi marginali) e così è; ma la differenza consiste nell’uguaglianza che, nel mercato di libera concorrenza, si raggiunge contemporaneamente anche con il prezzo di mercato : maggiore : P = RMg = CMg mentre nel monopolio il prezzo di mercato sarà P > RMg = CMg Se volessimo rappresentare in grafico la differenza tra concorrenza e monopolio potremmo riportare le precedenti curve aggiungendo l’indicazione del prezzo che si raggiunge col monopolio e che corrisponderebbe al costo marginale: area di superprofitto monopolistico a b Q* prezzo di libera concorrenza Q Si evidenza una riduzione di quantità posta sul mercato di monopolio (Q*) rispetto alla concorrenza (Q) a seguito del maggior prezzo; a questa perdita di quantità corrisponde una perdita secca di benessere per i consumatori. Si individua anche l’area di superprofitto data dalla differenza tra prezzo e costo marginale (area a ) e la perdita secca per la collettività (area b ). . La perdita secca di benessere è analoga a quella provocata dall’introduzione di una imposta su un prodotto la quale, aumentando artificiosamente il costo e quindi il prezzo del prodotto riduce l’area di possibilità di acquisto e quindi la quantità prodotta. Il problema sociale del monopolio sta proprio nel benessere ridotto che si ha sul mercato e riguarda la distribuzione della rendita; ciò che un consumatore paga di più va al produttore ( e fin qui si tratta “solo” di una diversa redistribuzione) ma quello che non si recupera in assoluto è la rendita totale perduta derivante dalla minor quantità prodotta a causa del prezzo di vendita superiore al possibile. Si ha quindi un livello inefficiente di produzione che, da un lato, non utilizza tutte le possibili risorse e dall’altro non ripartisce adeguatamente i profitti. Non è poi neppure detto che l’impresa monopolistica applichi lo stesso prezzo a tutti i consumatori. Nell’intento di massimizzare i profitti l’impresa potrebbe discriminare i prezzi in funzione dei diversi consumatori applicando il prezzo massimo che questi (individualmente o per classi) sono disposti a pagare. In questo caso il monopolista potrebbe riuscire a catturare l’intera rendita dei consumatori massimizzando la propria come produttore. Per ottenere questo il monopolista tenterà di dividere i consumatori in classi con strategie di vendita adeguate. Se così operasse il monopolista, allora la perdita secca derivante dalla minor produzione vista nel grafico sopra, potrebbe venire annullata perché la domanda potrebbe rimanere inalterata rispetto alla libera concorrenza e tutti i possibili consumatori potrebbero essere soddisfatti (rispetto alla singola disponibilità a pagare). Infatti, tutti gli scambi sono in sé favorevoli se visti nell’ottica del prezzo specifico adeguato alle capacità di ogni singolo e tutti i consumatori saranno disposti a pagare un prezzo in ragione del rispettivo reddito e dell’interesse verso il bene. Ciò che cambia, e si annulla, è la rendita del consumatore che viene ad essere cancellata passando tutta a favore del produttore come si vede passando attraverso le diverse quantità e prezzi del grafico: prezzo rendita del consumatore assorbita dal monopolista | costo marginale per il produttore Domanda q1 q2 q3 q4 Quantità venduta ai diversi prezzi Certamente una discriminazione così completa è difficile o impossibile, ma una vendita a scaglioni o per classi è invece quotidianamente applicata da chi ha potere di mercato (esempio le classi di viaggio del treno o i biglietti per i diversi ordini di posti a teatro o negli stadi) e consente erosioni di rendita del consumatore e massimizzazioni di profitto per i produttori. In definitiva il monopolista potrebbe usare tre forme di discriminazione di prezzo: 1) perfettamente discriminante (il monopolista riesce a fissare un prezzo diverso per ogni unità venduta; 2) vendita di quantità differenti a prezzi diversi ove chiunque acquista la stessa quantità paga lo stesso prezzo (tariffe a scaglioni come avviene per gas o energia elettrica); 3) vendita di prodotto a prezzi diversi per ciascun gruppo di consumatori (classi ferroviarie o aeree). Il caso del monopolio naturale è un esempio di come la forma di monopolio sia più diffusa di quel che si pensi. Il monopolio naturale si ha quando una sola impresa è in grado, per le sue dimensioni, di fornire all’intero mercato un bene a costi medi più bassi di quelli che dovrebbero sostenere due o più altre imprese. Questo può avvenire a causa della struttura dei costi medi che possono diminuire come conseguenza di economie di scala che portano ad avere costi continuamente decrescenti in rapporto all’estendersi dell’attività. Se, tra le diverse imprese presenti su un mercato, una avesse costi di produzione inferiori potrebbe vendere a minor prezzo il bene e quindi assorbire consumatori a scapito delle altre imprese. Per questa via le imprese diminuirebbero di numero fino ad averne, per ragioni naturali, una soltanto. Questo tipo di monopolio si dice naturale proprio perché è ottenuto spontaneamente dal libero operare delle forze di mercato senza essere imposto da leggi o da manovre indebite ma soltanto da una situazione favorevole di costi conseguente a volumi di produzione maggiori e si verifica in particolari settori (ad esempio la vendita di acqua potabile da parte di imprese municipalizzate) nei quali, per ragioni storiche o in forza di leggi particolari, si erano insediate imprese che avevano potuto godere di benefici che avevano loro consentito di sostenere spese per investimenti in strutture fisse (ad esempio condotte di acqua ) il cui costo o il tipo di difficoltà si presentano oggi di entità tale da scoraggiare nuovi interventi. Oligopolio E’ caratterizzato dalla presenza sul mercato (solitamente molto ampio e comprendente nazioni o interi continenti) di poche imprese di rilevanti dimensioni. E’ un forma di mercato sviluppatasi nei tempi recenti a fronte di produzioni di beni a diffusione mondiale omogenei e sostituibili (acciaio, petrolio, legno, ecc.) oppure differenziati ma dello stesso genere (automobili, calcolatori, aerei, ecc.). Su questi prodotti l’impresa ha un rilevante grado di controllo sul prezzo, quasi quanto l’impresa monopolistica, perché fa leva sull’immagine distintiva e apprezzata dai possibili acquirenti o comunque dal fatto che non ci può essere assoluta libertà di scelta da parte dei compratori. Una caratteristica peculiare è costituita dal comportamento strategico delle imprese presenti ossia dal fatto che le decisioni di ciascuna impresa oligopolistica, relativamente al prezzo o alla quantità da produrre, dipendono dal comportamento di tutte le altre imprese oligopoliste presenti sul mercato: ciò che è ottimale per una impresa dipende sia dalle proprie decisioni che dalle decisioni delle altre imprese. Nell’oligopolio sono cioè consentite azioni ad una impresa tali da poter avere un forte impatto sul profitto delle altre imprese; è quindi presente una vera interazione strategica tra le imprese. L’entrata di nuove imprese sul mercato è difficile, non tanto perché esistono blocchi normativi o di boicottaggio, quanto per le risorse finanziarie elevatissime di cui si deve disporre per acquisire tecnologie complesse, reti di vendita capillari, impianti di notevoli dimensioni e per far conoscere il prodotto al mercato. La concorrenza è limitata nel numero di imprese ma presente con compagnie altrettanto forti e rivali strutturalmente e decise a resistere sul mercato e ingaggiare battaglie di prezzi. Ogni oligopolista formula le sue politiche di prezzo, di quantità, di aree di vendita che spesso vanno a urtare sensibilità nei concorrenti con i quali può decidere se concordare o meno condizioni e zone di influenza riservate. Si parla di oligopolio collusivo o non collusivo a seconda che esistano o meno accordi di qualsiasi natura tra imprese per restare contemporaneamente sul mercato e ottenere le condizioni migliori per entrambe. Nell’oligopolio non collusivo si possono ipotizzare le diverse modalità di reazione da parte dei concorrenti nel breve periodo in funzione di azioni o di mancate azioni dei rivali e di interdipendenza o di dipendenza reciproca sulle quantità prodotte e vendute. Le strategie adottate dalle diverse imprese per prevalere sui rivali possono essere riferite o a guerre di quantità tra imprese o a guerre di prezzi Nella guerra di quantità (studiata da Cournot) il tentativo sperimentato è quello di scegliere la quantità di produzione che massimizza il proprio profitto sottraendo quote di mercato ai rivali competendo contemporaneamente sia attraverso il profitto crescente (nel caso di rendimenti di scala crescenti maggiore è il livello di produzione minore sarà il costo medio e quindi maggiore il profitto), sia costringendo i rivali a sopportare riduzioni produttive a cui conseguiranno, per loro, costi crescenti (a seguito di costi medi crescenti). Il punto di equilibrio sarà toccato quando le quantità prodotte da ciascuno consentiranno di parificare i costi medi mantenendo comunque uno scarto positivo sul prezzo tale da garantire un superprofitto. Nel caso di guerra di prezzi (studiata da Bertrand) i rivali, anziché cercare di espandersi con una maggior quantità offerta sul mercato mantenendo la politica di prezzi inalterata, tenteranno di acquisire quote di mercato sfruttando l’attrattiva di prezzi inferiori per la clientela. In questa ipotesi si potrà avere un vantaggio per i consumatori perché il prezzo finale sarà uguale al costo medio di produzione tendente al costo marginale (stesso risultato della libera concorrenza) con conseguente annullamento del superprofitto. Una guerra di questa natura sembrerebbe irrazionale visto che tutti i produttori possono perderci; l’esperienza passata dovrebbe aver insegnato che la strategia è perdente a livello di profitto; ma la verifica pratica dimostra che molte imprese ricorrono a questa strategia puntando sulla ipotizzata stabilità di prezzi dei rivali o sulla fidelizzazione della clientela conquistata con questo stratagemma o sulla prospettiva di rifarsi successivamente delle perdite o dei mancati guadagni una volta raggiunto il dominio del mercato e aver costretto i rivali ad arrendersi. Certamente, quando le imprese si renderanno conto della propria interdipendenza (e quindi delle azioni e reazioni cui sono portate a fronte di reazioni e azioni dei rivali) allora ognuna coltiverà la propria nicchia cercando di non disturbare l’avversario e potranno così applicare le regole del monopolio pur in presenza di molteplicità di imprese e pur senza aver raggiunto accordi collusivi espliciti. Il numero delle imprese che fanno parte dell’oligopolio è molto importante perché all’un estremo di due sole imprese che si spartiscono il mercato si avrà un “ quasi monopolio “ con un prezzo che tenderà a quello del massimo profitto mentre, all’altro estremo di molte imprese sul mercato, si avrà una “ quasi concorrenza” con un prezzo che si avvicina al costo marginale. L’oligopolio collusivo prevede di limitare l’incertezza dominante sui mercati ove siano presenti imprese di caratteristiche oligopolistiche mediante la stipula di accordi, taciti o non, tra le stesse in funzione delle leggi vigenti che sovente vietano tali intese (recente il caso delle compagnie di assicurazione o di vendite di carburanti). Una forma assai nota di accordo è il cartello cioè una organizzazione unitaria creata da imprese rivali che producono beni dello stesso tipo e che si propone di evitare la concorrenza manovrando il prezzo e rafforzando le barriere all’ingresso di nuove imprese nel proprio settore. Sostanzialmente si tenta, attraverso il cartello, di raggiungere una condizione di monopolio. La collusione è la forma più redditizia di monopolio. Le modalità per raggiungere gli obiettivi del cartello sono diverse ma gli accordi risultano solitamente instabili essendo legati a una presunzione di correttezza comune di comportamento sovente insostenibile essendo insufficiente la determinazione delle quote di produzione di ciascuno (calcolate in base a percentuali sulla capacità produttiva oppure sulle vendite degli ultimi periodi precedenti il cartello oppure in base ad aree geografiche). Purtroppo per le imprese, o fortunatamente per il mercato, sono molte le difficoltà che si frappongono al raggiungimento degli obiettivi di oligopolio collusivo e tra queste citiamo: a) imprecisioni nella valutazione delle curve di domanda complessiva di mercato (con possibili nicchie insoddisfatte e quindi con la possibilità di altri concorrenti di introdursi sul mercato); b) lentezza e complessità di trattative per costituire un cartello (particolarmente se le imprese sono molte); c) rigidità del prezzo “politico” concordato rispetto alle mutevoli esigenze dei mercati; d) defezione di qualche impresa rispetto all’accordo raggiunto; e) spinta a modifiche degli accordi da parte delle nuove imprese che tentano di affacciarsi al mercato; f) sfiducia reciproca sul rispetto delle quantità e dei prezzi concordati; g) intervento di commissioni statali antimonopolio; h) immagine pubblica negativa. Gli obiettivi che si vogliono raggiungere con l’oligopolio collusivo sono: - la massimizzazione dei profitti congiunti dell’intero settore (come nel monopolio); - l’identità del prezzo praticato per tutte le imprese aderenti (non si ha più concorrenza sul prezzo); - rispetto degli accordi da parte di tutti gli oligopolisti; - acquisizione di buona immagine pubblica da parte di tutte le imprese; - divieto di far entrare nuove imprese. Le imprese oligopolistiche, pur nell’ambito di accordi, non rinunciano ad attuare strategie che consentiranno loro di consolidare la posizione sul mercato perché tutte sanno che la situazione di privilegio dura poco tempo per tutte le cause sopra indicate e quindi si preparano il terreno per avere in futuro una singola posizione dominante. Tra queste strategie indichiamo quelle della differenziazione del proprio prodotto, la pubblicità, le barriere all’entrata di estranei, i canali distributivi privilegiati, le aree di vendita più convenienti. Concorrenza monopolistica E’ una forma di mercato in cui è presente un numero relativamente alto di imprese, ognuna con un certo grado di controllo sul prezzo ma scarsamente consapevole della propria interdipendenza con gli altri produttori. Il tipo di bene prodotto è simile a quello di tante altre imprese ma vi è tendenza da parte di ciascuna di apportare qualche differenziazione (qualità, confezione, localizzazione, servizi complementari) per ricavare un vantaggio sul prezzo. Non vi sono particolari difficoltà a nuovi ingressi sul mercato (non servono controlli o licenze da parte di autorità o enti), la tecnologia è disponibile a tutti e l’obiettivo è sempre quello della massimizzazioni dei profitti. Il nome di concorrenza monopolistica è dato dalla combinazione di operare in regime di sostanziale concorrenza ma di riservare al prodotto o al produttore una nicchia monopolistica più o meno consapevole. Vi sono molti esempi concreti di realizzazione di concorrenza monopolistica e basta pensare al commercio al dettaglio di beni alimentari o servizi per individuare facilmente casi esplicativi : panifici rinomati o esclusivi, bar centrali, salumerie di pregio, fruttivendoli con primizie, boutique di abbigliamento, cosmetici, prodotti di bellezza, medicinali comuni ma marcati. La differenziazione con prodotti della concorrenza può essere reale o solo illusoria ma comunque percepita dal consumatore e tale da far risultare un curva di domanda non perfettamente elastica tale per cui aumenti di prezzo decisi dal produttore non fanno perdere tutti i clienti all’impresa. La pendenza della curva è quindi negativa (anziché parallela all’ascissa come nella libera concorrenza con prezzo indifferenziato) ma con diversa pendenza in relazione al prodotto e ai pregi differenziali che gli vengono attribuiti. Sul mercato è da prevedere non un unico prezzo ma un ventaglio di prezzi anche se non molto ampio per non perdere troppa clientela. Il costo di produzione può essere ipotizzato, in un primo tempo, uguale tra le imprese o la eventuale differenza è dovuta a una scelta di immagine (ad esempio involucri più pregiati o pubblicità) che concorre a formare il parziale monopolio e quindi è discrezionale. Un confronto tra prezzi e quantità di un bene nei regimi di libera concorrenza o di concorrenza monopolistica può essere così evidenziato: prezzo P regime di libera concorrenza Quantità prezzo p1 p2 regime di concorrenza monopolistica q1 q2 Quantità Il costo, in regime di concorrenza monopolistica, è in realtà più alto perché l’impresa deve sostenere oneri per la differenziazione artificiosa del prodotto. Come conseguenza si avrà un prezzo più elevato e una quantità venduta più limitata con conseguenze negative per il consumatore il quale però deve lamentarsi principalmente con se stesso per non aver saputo considerare la sostanziale uguaglianza del prodotto e aver preferito distinguersi per un fatto sociale o psicologico e a fronte di questo è stato disponibile a subire una spesa superiore . Se, come in altri regimi di mercato si vuol esaminare il breve o il medio-lungo periodo, si ritrovano alcune caratteristiche tipiche e particolari. Nel breve periodo una impresa in concorrenza monopolistica entra sul mercato con un bene reclamizzato come unico (un nuovo shampoo, nuove lame da barba, ecc.) e agisce come un monopolista determinando prezzo o quantità venduta e ottenendo superprofitti. Nel medio-lungo periodo i superprofitti attirano la concorrenza di altri produttori i quali si presentano sul mercato con prodotti che tendono ad essere sempre più simili a quello di successo in ogni particolare e che attireranno gruppi di consumatori distogliendoli dal precedente mercato; la maggior offerta farà diminuire tutti i prezzi e quindi i profitti fino a far coincidere la situazione con quella della libera concorrenza annullando la differenza tra prezzi e costi marginali. Fino a che vi è concorrenza monopolistica il prezzo resta superiore ai costi e la quantità venduta resta inferiore a quella massima possibile: si resta quindi in una situazione di inefficienza e di benessere sociale inferiore a quello realizzabile. GLI INVESTIMENTI E LA VALUTAZIONE DEGLI INVESTIMENTI Si è visto che una parte molto consistente del reddito nazionale non viene destinata al consumo (inteso come soddisfazione immediata dei bisogni delle famiglie) bensì agli investimenti intesi, per le imprese, come trasformazione di moneta circolante in capitali fissi e quindi a produzione di macchinari, attrezzature e strutture destinate a mantenere ed accrescere l’attività economica futura e, per le famiglie, in beni durevoli o immobili destinati anche alle future generazioni. Si può quindi dire che una parte del reddito non viene consumata ma risparmiata e capitalizzata. Questa parte dell’attività economica è dunque direttamente correlata con la progressiva intensificazione del fattore di produzione “capitale” nei processi produttivi e con la crescita economica stabile della nazione ed ha il suo centro decisionale principale nelle imprese e nello Stato-imprenditore ma è anche molto presente nelle famiglie. Le componenti principali in cui si materializza l’investimento sono: 1) le attrezzature, gli impianti, le strutture (fabbriche, uffici, mezzi di trasporto pubblici, edilizia non residenziale delle imprese) e le infrastrutture (strade, dighe, porti, ponti, aeroporti, ecc). Il totale di questa categoria rappresenta il 50% di tutti gli investimenti; 2) l’edilizia residenziale (non è considerata un consumo perché inizialmente derivante all’attività delle imprese di costruzione e solo successivamente portata sul mercato dei beni); 3) le scorte di prodotti semilavorati o finiti. L’investimento può essere definito come un impiego di capitali in mezzi/risorse (capitali fissi) per il perseguimento di un obiettivo di breve, medio, lungo termine. In particolare nelle Imprese si intende generalmente per investimento un impiego di capitale effettuato per : • ottenere maggiori redditi futuri (o evitare future perdite) • migliorare le condizioni operative interne o esterne Dall’investimento si presume di ottenere un “margine” che dovrà (vedi “lucido” a parte): 1) remunerare il capitale investito (dare cioè l’interesse) 2) alimentare il processo di rientro del capitale (cioè rimborsare i prestiti ottenuti). In genere un’operazione di investimento non può essere immaginata come una iniziativa autonoma in quanto viene ad innestarsi su una specifica realtà aziendale e ciò significa che, per una analisi degli investimenti, si possono immaginare due livelli di indagine: 1) la coerenza rispetto al piano strategico che l’impresa intende seguire; 2) la determinazione degli effetti dell’iniziativa sulla ricchezza da fornire agli azionisti dell’impresa. Per semplificare il modello di analisi, dovendo pervenire ad una valutazione economica dell’investimento o meglio della sua convenienza economica, si ritiene di considerare una iniziativa del tutto priva di legami sul piano operativo e finanziario con l’unità produttiva cui può essere connessa : si effettuerà quindi una considerazione detta “stand alone”. Questa è evidentemente una manipolazione semplificatrice perché sono troppo importanti gli intrecci con il processo esistente ma si potrà rimediare successivamente con altre variabili da introdurre e che potranno portare a considerare e valutare adeguatamente l’intero complesso aziendale in cui si colloca. I principi generali della valutazione di una iniziativa portano ad affermare che il valore di un investimento dipende da tre fattori: a) i flussi monetari che essa è in grado di generare (risultati monetari contro risultati contabili tenendo anche conto dell’inflazione); b) il profilo temporale associabile ai flussi monetari (principio della attualizzazione per portare i valori ad un unico tempo) c) la situazione di incertezza che caratterizza lo sviluppo dei risultati dell’iniziativa (profilo del rischio). In altri termini un qualsiasi investitore deve valutare: - “quanto” renderà l’investimento; - “quando” potrà riavere i suoi capitali; - il “rischio” a cui si espone. In particolare per “rischio” si intende l’insieme dei fattori potenzialmente responsabili della “variabilità dei risultati” (cosiddetto rischio operativo). A sua volta tale variabilità dipende da tre circostanze di carattere generale: 1) la sensibilità all’andamento “ciclico” dell’economia in generale e dell’area specifica dell’impresa (prezzi, tassi, redditi delle famiglie, tassi di cambio, consumi); in definitiva il “rischio di mercato”; 2) l’esposizione a fenomeni di “discontinuità” ossia a cambiamenti strutturali di scenario e quindi durevoli (nuove tecnologie, messa al bando di alcuni prodotti nocivi per la salute, cambiamenti radicali del contesto competitivo); 3) l’esposizione a fattori riferibili specificamente a “quella” iniziativa (contestazioni sulla localizzazione, dipendenza da una materia prima vulnerabile, concentrazione della clientela in una sola zona). Posizione a sé occupano gli investimenti a carattere ambientale o di sicurezza in quanto non comportano lo stesso iter valutativo dovendo considerare anche altri parametri di tipo sociale o autorizzativi che potrebbero stravolgere qualsiasi completa valutazione economica. Classificazione e scopi di un investimento Una prima indicazione da fornire al top management dell’azienda sull’importanza e l’opportunità dell’investimento è quella che distingue tra investimenti strategici (riguardano la sopravvivenza nel tempo e lo sviluppo dell’impresa nel medio-lungo periodo) e invece tattici (riguardano aspetti di miglioramento dell’efficienza o dell’ottimizzazione nel breve periodo). Tra gli investimenti strategici che puntano a stabilire vantaggi competitivi dell’azienda sul mercato indichiamo quelli destinati a: a) aumentare la capacità produttiva; b) aumentare le quote di copertura del mercato; c) aumentare e completare la struttura distributiva; d) innovare la tecnologia del processo o introdurre automazioni impiantistiche; e) aumentare o completare la gamma dei prodotti. Tra gli investimenti di tipo tattico si indicano quelli impostati per: a) completare nicchie di marginalità di tipologie di prodotti; b) dare restyling dei prodotti esistenti; c) migliorare la produttività; d) inserire l’azienda in attività sociali o culturali e dare migliore visibilità (sponsorizzazioni) e) ampliare forme di pubblicità Ancora sui fattori di rischio Se si perviene a calcolare il valore creato dall’iniziativa di investimento non è detto che il risultato debba essere considerato come un fatto certo e definitivamente acquisibile dall’impresa. Bisogna infatti introdurre la variabile data dal profilo di rischio individuato secondo due tecniche: • metodo CEQ (Certainty Equivalent o Risultato Certo Equivalente) che prevede l’applicazione di un coefficiente crescente di rettifica ai flussi finanziari in rapporto al rischio; • metodo RADR ( Risk Adjusted Discount Rate) che si fonda sul principio di dover sommare al tasso base di compenso per l’iniziativa legato al tempo di impiego anche un “premio rischio” sempre più elevato in rapporto al tipo di iniziativa. La configurazione del rischio da remunerare nel RADR cambia in funzione delle caratteristiche del mercato/investitore di riferimento (rischio paese che ha talvolta penalizzato anche possibilità di investimenti esteri in Italia); l’analisi condotta nell’ottica del mercato/investitore trascura il fatto che anche i fattori di rischio che possono essere neutralizzati dagli investitori hanno comunque un impatto sull’impresa (riduce la positività o modifica l’immagine). Modalità di finanziamento dell’iniziativa Nello schema stand alone le modalità di finanziamento dipendono esclusivamente dalla capacità del progetto stesso di servire il debito (cioè di remunerarlo adeguatamente). Si tratta quindi di individuare il rapporto di struttura finanziaria (debiti/capitale o debiti/C.I.N. – ossia capitale investito netto) che possa tollerare il rischio di investimento. I criteri che portano a definire la struttura finanziaria di progetto si basano su variabili già note: • incertezza delle proiezioni dei flussi di cassa (rischio operativo) • vantaggi fiscali per la deducibilità degli interessi passivi • costi diretti e indiretti connessi con l’indebitamento aggiuntivo dovuto all’investimento In concreto, ogni investimento costituisce una scelta tra più alternative di allocazione delle risorse finalizzate ad un obiettivo e pertanto un’analisi di convenienza richiede di delineare ed esaminare tutte le alternative compresa quella di non investire. Si esaminerà quindi ogni diverso obiettivo, ogni modalità per raggiungere comunque quell’obiettivo, le diverse modalità di realizzare l’iniziativa, le modalità di realizzare un singolo progetto. Le conseguenze della decisione di investire (rispetto all’alternativa di rimanere allo stato presente) portano a valutare tre aspetti: 1) un differenziale quantitativo (varia l’entità dei flussi produttivi e finanziari dell’azienda); 2) un differenziale qualitativo (il grado di rischio dei nuovi flussi sull’intera gestione dell’azienda); 3) un differenziale finanziario (si modifica la capacità di indebitamento dell’azienda a seguito dell’operazione di investimento). Il primo differenziale (quantità) deriva, oltre che dalla iniziativa in sé, anche dalle interconnessioni di mercato per i riflessi sulle aree di business della stessa impresa e dalla possibile presenza di sunk costs (costi sommersi ossia già sostenuti e non modificabili dall’investimento quali, ad esempio, i costi di ammortamento rilevanti per avere in passato costruito uno stabilimento di dimensioni eccessive). Le cautele che sono da osservare al riguardo possono riguardare: a) realizzazione di iniziative che possono avere un impatto sui costi/ricavi di altre attività già svolte dall’impresa quali: • lancio di prodotti sostitutivi o succedanei rispetto a quelli già offerti dall’impresa; • introduzione di prodotti che completano la gamma di produzioni già esistenti o integrano il piano di erogazione dei servizi; • disponibilità di materie prime aggiuntive o utilities per le nuove quantità di prodotti. b) realizzazione di iniziative che consentono di utilizzare risorse altrimenti esuberanti per l’impresa (la valorizzazione di questi costi potrebbe essere nulla se sono costi già sostenuti = sunk costs) e di fatto prive di utilità o addirittura costose per gli smaltimenti eventualmente necessari; c) dirottamento di risorse già utilizzate dall’impresa in altre attività. Il secondo differenziale (qualità del rischio) viene risolto generalmente assumendo che il profilo di rischio di un progetto sia simile a quello dell’area di affari nel quale esso può essere stato classificato. Si tratta evidentemente di una semplificazione perché in realtà una nuova iniziativa comporta nuovi rischi aggiuntivi oppure nuove opportunità migliorative (maggiore sensibilità ciclica dell’impresa ma anche maggior forza penetrativa di mercato, incrementi di portafoglio ordini, forme di pubblicità collettiva). Il terzo differenziale (finanziario) deriva direttamente dal costo del nuovo indebitamento (attenuato dalla deducibilità fiscale dei nuovi interessi passivi o da disposizioni di legge tendenti a favorire investimenti particolari) e la scelta, in caso di insufficiente capacità di autofinanziamento, sarà rivolta ad assunzione di mutui, emissione di obbligazioni, aumenti di capitale da soci. La teoria finanziaria afferma che il modello di finanziamento dell’investimento dovrà corrispondere al rapporto di indebitamento-obiettivo stabilito dall’impresa stessa in funzione di un ragionevole compromesso tra il vantaggio fiscale derivante dalla deducibilità degli interessi passivi e i rischi connessi a una struttura finanziaria più debole. In occasione della studio degli indici di bilancio vedremo come risulti importante il coefficiente di indebitamento in rapporto alla liquidità aziendale (e alcuni casi finanziari emersi in questi ultimi periodi confermano l’importanza del fattore). Criteri di valutazione degli investimenti Gli aspetti principali di un investimento che sono oggetto di valutazione per determinarne la validità e l’opportunità possono essere di tipo : 1) quantitativo 2) qualitativo. Gli aspetti quantitativi sono tali perché trasformabili immediatamente in valori economici quali : * impegni di spesa - per ottenere riduzione di costi fissi o variabili * impegni di spesa - per aumentare il fatturato (maggiori quantità o prodotti più specialistici) * impegni di spesa - per attività di ricerca e modifiche tecnologiche di prodotti o impianti Gli aspetti qualitativi sono invece trasformabili in valori economici solo in via mediata come: * spese per immagine - per aumentare fatturato o margini * spese di ecologia - per aumentare o conservare il fatturato * spese per servizi sociali - per aumentare il consenso e il fatturato * spese per sponsorizzazioni - per aumentare le vendite o i prezzi Lo schema di lavoro da compiere quando si deve effettuare una valutazione dell’investimento si può essere condensato nelle seguenti operazioni: 1) analisi delle caratteristiche dell’iniziativa sul piano industriale, commerciale, competitivo 2) ricerca degli elementi più significativi del rischio 3) calcolo del risultato probabilistico e ponderato sulla media dei rischi 4) determinazione del valore creato dall’iniziativa (valore attuale dei flussi generati e rettifica dei risultati con il parametro dei rischi). Si possono distinguere, in via esemplificativa, due ordini di criteri di valutazione a) criteri che misurano soltanto le entità globali di costo e ricavo 1) P.B.P. (Pay Back Period) 2) R.O.I. (Return On Investment) b) criteri che misurano le entità globali di costo e di ricavo e inoltre considerano i tempi di differimento dei flussi finanziari (spese ed entrate) 1) V.A.N. o N,P,V, ( Valore Attuale Netto o Net Present Value) 2) I.R.R. (Internal Rate Return o Tasso Interno di Rendimento) I primi si utilizzano per semplici e grossolane stime di validità dell’investimento e per esaminare la possibile convenienza che una Direzione Aziendale possa mostrare per alcune alternative di investimento. Nessuna decisione per investimenti significativi sarà adottata solo sulla base di P.B.P. o R.O.I. ma siccome sono metodi che danno velocemente un risultato, non preciso ma comunque interessante e soprattutto poco costoso in tempo utilizzato e in risorse economiche impegnate, è utile conoscere il sistema che li contrassegna. I secondi sono i veri metodi di valutazione, spesso integrati e adattati, utilizzati da aziende private ma ormai entrati anche nei dettami degli enti pubblici che li hanno resi obbligatori (ad esempio gli enti locali devono presentare i piani finanziari per determinate opere pubbliche). a) I criteri per misurare solo le entità globali di costo e ricavo 1) Pay Back Period : esprime il periodo di tempo necessario a recuperare il totale degli esborsi sostenuti per effettuare l’investimento. Si ricava dal rapporto tra entità dell’investimento ed entità secca del ritorno economico. Il risultato sarà una entità temporale misurata in anni, mesi o giorni. Pay Back = I / R (con I = investimento e R = ritorno economico) Esempio: decisione di acquisto di una stampatrice per materiale plastico con potenzialità doppia rispetto a quella usata attualmente dall’impresa e con minor consumo di forza motrice. “ Dato un costo dell’investimento pari a € 300.000 e un risparmio di n° 2 unità lavorative del costo di € 30.000/anno/pro-capite e di 20 kw/h di E.E. del costo di € 0,08 /kwh e un utilizzo della macchina per 16 h/g e 200 gg lavorativi all’anno trovare il pay back period “ P.B.P. = 300.000 / = 300.000 / 65.120 30.000 • 2 + (0,08 • 20 • 16 • 200) = = anni 4,61 L’investimento si ripaga in 4 anni / 7 mesi / 11 giorni . 2) Return On Investment : esprime il rapporto percentuale tra entità del risparmio (ragguagliato ad anno) e il costo dell’ investimento R.O.I = R/I ( con R = ritorno economico e I = costo dell’investimento) Esempio : lo stesso caso sopra riportato fornirà questi risultati: ROI = € 65.120 / € 300.000 = 0, 217 x 100 = 21,7% Il ROI trovato indica che in un anno l’investimento ripaga il 21,7% del costo e quindi saranno necessari 4,61 anni per il completo recupero del costo (come già visto per il pay back period). Considerate le modalità di calcolo si avranno i diversi casi : R.O.I. = 100% significa che l’investimento si ripaga in un anno. ROI < 100% indica che gli investimenti necessitano di oltre un anno per essere ripagati. ROI > 100% indica che gli investimenti sono ripagati in meno di un anno. Le preferenze aziendali privilegeranno gli investimenti che si possono ripagare nei minori periodi di tempo sia perché dopo questo periodo tutto il margine ottenuto potrà essere considerato come profitto netto, sia perché l’entità del rischio si può risolvere in tempi limitati. Pay Back e ROI sono due metodi simili ma inversi. b) I criteri per misurare le entità globali di costo e ricavo e i tempi di differimento Evidentemente più logici e completi risultano i sistemi che considerano anche il momento dell’esborso effettivo per realizzare l’investimento e quello dei ricavi. E’ quindi importante conoscere “quanto” si spenderà e si ricaverà da un investimento ma anche “quando” avverrano i flussi finanziari. Si possono infatti verificare casi di investimenti con spese quantitativamente uguali ma diversamente convenienti in relazione ai differenti momenti di spesa e incasso. Le regole dell’economia affermano che l’utilità di una somma decresce più si allontana il momento della riscossione e cresce più si avvicina. Il tasso di interesse è ciò che rende uguali le utilità differite nel tempo alle utilità immediate. A parità di entità di esborso monetario è più vantaggioso quello maggiormente rinviato nel tempo. A parità di entità di incasso monetario è più vantaggioso quello maggiormente anticipato nel tempo. Tutto questo in relazione alle regole di matematica finanziaria proprie dell’attualizzazione (ossia quella operazione che consente di portare il valore di un importo dal tempo qualsiasi “ t” al tempo t 0 ) le quali precisano che il tasso di attualizzazione ha due funzioni principali : 1) esprimere la misura del valore finanziario del tempo; 2) esprimere la misura della rettifica da apportare ai flussi monetari attesi in funzione del rischio dell’iniziativa. In sintesi il tasso di attualizzazione esprime il rendimento che i sottoscrittori delle passività finanziarie dell’impresa giudicano accettabile in rapporto al rischio da essi sopportato in funzione del tempo che deve trascorrere.. Per ogni progetto di investimento è necessario costruire tabelle che comprenderanno le serie di esborsi e incassi annui (o di altri periodi infrannuali) che metteranno in luce gli aspetti: • globali (entità degli esborsi e degli incassi e quindi flussi di cassa) • temporali (epoca dei flussi di cassa). I due sistemi più usati sono: 1) Net Present Value o V.A.N, ( Valore Attuale Netto) Il metodo mette in evidenza la differenza globale tra esborsi e incassi attualizzati ad un certo tasso. Si può definire come il valore che assume la somma dei flussi di cassa netti attesi dal progetto di investimento, nell’istante in cui viene effettuata la valutazione. Il VAN è quindi la differenza attualizzata tra l’entità complessiva dei risparmi o dei maggiori utili derivanti dall’investimento e l’entità delle spese sopportate nei diversi momenti per realizzare l’investimento. Si dovrà perciò scontare sino al tempo presente tutto il flusso di cassa netto del progetto calcolato come differenza tra flussi positivi e negativi di ciascun periodo (compresi anche i costi di investimento iniziale) e sommare i singoli valori così ottenuti. Calcolato in questo modo il VAN rappresenta l’incremento o la diminuzione del valore di un investimento iniziale. Il progetto di investimento rende più o meno del tasso di sconto utilizzato a seconda che il VAN sia rispettivamente positivo o negativo. Il VAN permette di valutare la variazione di valore di un investimento indipendentemente dalla struttura finanziaria adottata ossia tanto nel caso che i fondi per l’investimento siano propri (capitale sociale o di rischio) quanto che ottenuti da mutui con terzi (capitale di debito). In via di principio il tasso di sconto da utilizzare è quello che esprime il tasso di remunerazione medio (media ponderata del costo delle diverse fonti finanziarie) richiesto dai finanziatori del progetto, cioè il progetto deve remunerare adeguatamente tutto il capitale utilizzato. L’attualizzazione di spese e incassi avviene mediante la regola di matematica finanziaria da applicarsi ad ogni periodo di spesa o di incasso : VAN = C • 1 / (1 + i ) n ossia C (1 + i )-n con C = quota di spesa o ricavo di ogni periodo i = tasso di mercato n = anticipazione temporale di competenza di ogni spesa e incasso Applicato per tutti i periodi si avrà: VAN = ∑ R ( 1 + i ) –n con - ∑ S ( 1 + i ) –n R = incassi di ogni periodo S = spese di ogni periodo Esempio : per la costruzione di un impianto di produzione di idrogeno il costo di investimento è di € 5.000.000 di cui 1.000.000 da pagare subito, 2.000.000 dopo 1 anno e 2.000.00 dopo 2 anni. I flussi positivi netti derivanti dall’avvenuto investimento sono previsti per la fine del secondo anno per € 500.000 e dal terzo al decimo anno per 1.500.000 all’anno. Il tasso di interesse è pari al 6% annuo. VAN = [500.000 (1 + 0,06) –2 + 1.500.000 (1 + 0,06) –3 +……………..+ 1.500.000 (1+0,06)-10 ] - [1.000.000 + 2.000.000 (1 + i )-1 + 2.000.000 (1 + i ) –2 ] Il risultato che si ottiene è un valore assoluto che determina la positività o meno di quanto apportato economicamente dall’investimento ipotizzando un determinato tasso di mercato. Per ottenere una misurazione in termini relativi (cioè in rapporto alle risorse finanziarie impegnate per la realizzazione di una iniziativa è sufficiente effettuare un rapporto tra VAN risultante ed esborso complessivo necessario per l’investimento. Si ottiene così un indice di rendimento IR : IR = VAN/ I Se ad esempio VAN fosse uguale in termini assoluti a € 3.000.000 e nel caso ipotizzato i costi per l’iniziativa fossero stati effettivamente di € 5.000.000 si avrebbe un IR di 0,6 ossia del 60% in un arco di tempo di 10 anni. E’ anche questo un metodo che presenta molte approssimazioni ma come sempre può servire ad agevolare dei confronti tra diversi investimenti oppure a selezionare tra diverse iniziative proposte. Un affinamento decisivo si può avere con il metodo IRR (Internale Rate Return) o TIR (tasso interno di rendimento). 2) Internal Rate Return o Tasso Interno di Rendimento Il metodo ha lo scopo di individuare l’entità del tasso al quale, presumibilmente, si andrà ad investire su certe basi di esborsi e di ritorni. I.R.R. rappresenta in termini percentuali il beneficio dell’investimento e il valore (tasso) risultante potrà essere confrontato con altre possibili forme di investimento (acquisto di partecipazioni azionarie, BOT, acquisto di terreni, impianti e attrezzature di diversa tecnologia, ecc. ). Meglio si dirà che IRR indica per quale tasso il VAN (in cifra assoluta) si annulla (quindi per quale tasso il VAN è uguale a zero) e conseguentemente troveremo quale deve essere il VAN per far godere all’investimento i tassi desiderati e comprenderne la realizzabilità. Se IRR (o TIR) viene definito come il tasso di attualizzazione che rende nullo il VAN di un determinato flusso finanziario allora rappresenta anche il massimo tasso di interesse che un investitore è disposto a pagare per raccogliere le risorse con cui finanziare il progetto. Per utilizzare questo indicatore come strumento di selezione critica degli investimenti è anche necessario avere un parametro di riferimento definito come tasso di rifiuto; quindi in linea di massima saranno accoglibili progetti con IRR superiore al tasso di rifiuto che potrebbe essere indicato corrispondere al rapporto tra reddito aziendale (in pratica l’utile di bilancio) e capitale investito netto (o CIN). Il calcolo di IRR avviene con la stessa impostazione di VAN ponendo come incognita il tasso indicato nelle equazioni. Si potrà in realtà già ipotizzare un tasso per i prestiti da chiedere a istituti esterni (i tassi di mercato sono assai plausibili considerati i tempi limitati di durata degli esborsi) o un tasso figurativo per gli autofinanziamenti e lasciare come sola incognita il tasso di attualizzazione dei ritorni economici. Quando il tasso calcolato con IRR è superiore di una congrua percentuale di maggiorazione dovuta al rischio specifico del settore nel quale avviene l’investimento (comunque almeno 5-6% in più) rispetto al tasso attivo dei rendimenti con rischio minimo o uguale a zero (ad esempio i BOT) si potrà dire che l’investimento è conveniente sotto il profilo economico finanziario. Tutto un altro gruppo di considerazioni saranno da effettuare relativamente alle tempificazioni e alle modalità delle verifiche da effettuare a valle dell’investimento per giudicare a posteriori la effettiva validità dell’iniziativa. Su questo argomento la debolezza della maggior parte di aziende o enti pubblici è molto grave perché tanto sono solitamente bene analizzate (e pignole) le ipotesi e i calcoli pre-investimento altrettanto sono trascurate le validazioni a posteriori dimenticando tutti i buoni propositi e le attenzioni iniziali o prendendo a soccorso una serie di scusanti per giustificare risultati diversi e regolarmente peggiorativi (quando addirittura non si facciano per nulla le verifiche) Un elemento particolarmente importante da considerare nei metodi di valutazione che tengono in considerazione il tempo dei flussi finanziari è l’inflazione ( e quindi il collegamento con la perdita del potere di acquisto della moneta nel tempo che si può verificare nel periodo dell’investimento). L’inflazione produce effetti sull’algoritmo del VAN e quindi del TIR e l’impatto risulterà differenziato in funzione delle caratteristiche del processo inflazionistico. Normalmente, in periodi di inflazione al fine di mantenere costante il potere di acquisto dei finanziatori, i tassi nominali dei mercati si adeguano al deprezzamento della moneta secondo una legge di Fisher: i =r+rp+p con : da cui : i = r (1 + p ) + p i = tasso nominale r = tasso reale p = tasso di inflazione Per quanto sopra sarà quindi necessario valutare se si è nel caso di una inflazione neutrale (in cui tutti i flussi positivi e negativi variano con la stessa rivalutazione) o se si ritiene che possano sussistere delle rigidità o sul versante della spesa (ad esempio mutui a tasso fisso piuttosto che variabile) o sul versante dei ritorni (ad esempio un blocco di tariffe). L’importanza del risparmio per gli investimenti Si è già detto che l’investimento è un impiego di capitali…. per il perseguimento di un obiettivo. Questo obiettivo consiste, a sua volta, nella produzione diretta o indiretta di un bene-capitale (solitamente un capitale fisso) che serve per produrre altri beni. Un esempio può essere quello di impiego di una somma liquida (capitale monetario) per acquistare una nuova e più veloce stampatrice di materiale plastico (capitale fisso o bene-capitale) la quale sarà dedicata a produrre bicchierini per bevande fredde (prodotto di consumo). Se oggi l’economia produce una notevole quantità di beni-capitali, domani disporrà di una riserva di capitale fisso maggiore e potrà, con questo, produrre di più, sia come maggior quantità di beni di consumo nell’unità di tempo (maggior produttività) sia come nuovi beni di investimento che saranno adibiti a nuove e più efficaci produzioni di beni. In tutti i casi si incrementa cioè la produttività generale del sistema. Un modo per aumentare la produttività del sistema (per produttività si intende la quantità di beni e servizi prodotte da un singolo lavoratore in un’ora) consiste nell’investire quote crescenti di risorse nella produzione di beni-capitali. Secondo i concetti della macroeconomia questo significa che, nella ripartizione del P.I.L., la quota destinata a investimenti dovrebbe crescere a scapito di quella destinata ai consumi e poiché si è vista l’eguaglianza I = S (investimento = risparmio) la propensione al risparmio dovrebbe essere privilegiata per una miglior prospettiva futura a scapito della propensione al consumo ad effetto più immediato. L’incentivazione del risparmio per aumentare l’investimento è uno dei modi a disposizione della politica economica per stimolare la crescita ossia il miglioramento del livello di vita di una società misurato solitamente con il valore del PIL-procapite. Uno dei principi basilari dell’economia dice che il tenore di vita di una nazione dipende dalla sua capacità di produrre beni e servizi: quanto maggiore è questa produzione pro-capite nell’unità di tempo (è il concetto di produttività) tanto maggiore sarà la ricchezza prodotta e di conseguenza il tenore di vita giudicato secondo i concetti attuali dei paesi industrializzati. Quali sono i fattori che determinano la produttività ? I principali sono quattro: 1) Capitale fisico : ossia la disponibilità di attrezzature e di strutture utilizzabili per la produzione di beni e servizi (più semplicemente detto “capitale”). Si vuol dire che i lavoratori sono più produttivi quando dispongono di strumenti di lavoro idonei e sufficienti. 2) Capitale umano : ossia le conoscenze e le capacità fornite ai lavoratori attraverso l’istruzione, l’addestramento e l’esperienza professionale. Si intende che i lavoratori più professionalizzati forniscono risultati produttivi migliori. 3) Risorse naturali : ossia le materie fornite dal territorio, siano esse rinnovabili (ad esempio boschi, pesca, allevamenti) o non rinnovabili (come petrolio, carbone o minerali). Si tratta di fattori molto importanti ma non obbligatori se rimpiazzati da adeguati accordi commerciali. 4) Conoscenze tecnologiche : ossia un bagaglio di conoscenze scientifiche e tecniche circa le modalità di produrre beni. Sono il frutto di idee, osservazioni o attività di ricerca più o meno strutturata che sfociano in ritrovati prima non noti e poi utilizzabili e quindi traducibili in beni economici. Come in microeconomia si era visto che per pervenire alla produzione erano necessari i fattori della produzione (terra, lavoro, capitale), in macroeconomia si studiano i fattori della produttività (capitale fisico, umano, risorse naturali e conoscenze tecnologiche) che danno luogo ad una funzione di produttività : Y = f ( L, K, H, N) corrispondente alla funzione di produzione precedentemente esaminata. Oltre alla propensione al risparmio (più o meno incentivata dallo Stato) l’investimento idoneo a stimolare la crescita di un paese può essere agevolato da altre situazioni quali: a) investimenti esteri : si tratta di capitali provenienti da altre nazioni che vedono opportunità positive in un diverso paese; b) istruzione : si tratta di investimento in capitale umano cioè in conoscenze scientifiche che forniscono capacità realizzative innovative al sistema nazione; c) stabilità politica e certezza giuridica : si tratta di predisporre un tessuto di garanzia per chi rischia un’avventura economica; d) libero scambio : si tratta di assicurare il movimento alle imprese e alle merci evitando situazioni di autarchia che penalizzano produttori e consumatori; e) controllo dell’aumento della popolazione : si tratta di conoscere e limitare incrementi insostenibili del numero dei residenti per consentire una previsione e una programmazione delle attività. Come per tutti i fattori anche qui vale la regola della produttività decrescente nel rendimento(oltre un certo limite) per cui l’apporto di quote crescenti di capitale (di qualsiasi natura) non fornirà un tasso di crescita continuo e illimitato (quindi il tasso di incremento del PIL potrà continuare ad essere positivo ma con percentuali decrescenti quando si raggiungono determinati livelli) ma per i paesi poveri che partono da bassi valori di PIL gli effetti della produttività dei fattori possono dare risultati di fortissima crescita iniziale (effetto catch up) con benefici tali da eliminare, in tempi brevi, strati significativi di povertà anche con modeste dosi di investimento. Le istituzioni internazionali quali il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale dovrebbero avere proprio lo scopo di dare l’avvio a questo movimento incentivante della crescita.