vol2_cap4_st - Liceo Mascheroni

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VOLUME II
CAPITOLO 4
Dal consolidamento all’apogeo dell’impero
$A 1 La dinastia Giulio-Claudia
$B Una transizione difficile
$C Monarchia o repubblica? L’anomalia della forma di governo creata da Augusto,
una repubblica che manteneva le sue istituzioni, ma governata di fatto da un solo uomo
come una monarchia, creava problemi per la successione, che Augusto aveva aggirato
attribuendo al figliastro Tiberio i poteri dei tribuni e dei proconsoli: ciò avrebbe reso
possibile la sua successione nel controllo della politica e dell’esercito, in Italia e in tutte le
province. Ma se il carisma di Augusto e la pace che aveva ristabilito dopo un secolo di
guerre civili gli avevano permesso di governare nella concordia, dopo la sua morte c’era
chi credeva ancora nella restaurazione della repubblica.
Le forze in gioco nel decidere la successione erano quattro: la famiglia di Augusto, che
si sentiva legittimata a succedergli, il senato, che voleva riprendersi l’antico ruolo, il
proletariato urbano, che chiedeva panem et circenses, e infine l’esercito, che
pretendeva come imperatore un generale gradito alle truppe.
Il I secolo d.C. fu quindi un’epoca di transizione piuttosto travagliata politicamente, anche
se nell’impero regnava sostanzialmente la pace.
Per l’intero secolo i successori di Augusto dovettero affrontare la questione della
legittimità del potere del principe, che risolvettero o continuando a mantenere in vita,
almeno formalmente, le istituzioni repubblicane, secondo la linea tracciata da Augusto,
oppure considerando apertamente lo stato come una monarchia e attribuendo al principe
le prerogative di un imperatore di tipo orientale.
$B La dinastia Giulio-Claudia, gli imperatori rifiutati (14-68 d.C.)
$C La famiglia di Augusto al potere Per un secolo si succedettero gli imperatori di due
sole dinastie, la Giulio-Claudia (dal 14 al 68 d.C.) e la Flavia (dal 69 al 96 d.C.).
A dar vita alla dinastia Giulio-Claudia fu Tiberio, adottato da Augusto e perciò
appartenente alla gens Iulia, ma figlio naturale di Tiberio Claudio Nerone, quindi della gens
Claudia, e di Livia, poi diventata moglie di Augusto. La storia della dinastia fu travagliata
da conflitti all’interno della famiglia e con il senato, che non si rassegnava alla perdita di
autorità.
$C Tiberio, l’imperatore scontroso (14-37 d.C.)
Tiberio non piaceva ad Augusto e
non piaceva al senato, mentre l’esercito, che lo aveva visto combattere valorosamente
contro i germani, lo apprezzava. Scontroso e cupo, egli cercò di farsi accettare rifiutando il
titolo di imperator e le cariche che gli venivano attribuite. Ma il copione della successione
era già implicitamente stabilito: i senatori lo acclamarono imperatore e lo “costrinsero” ad
accettare gli stessi poteri di Augusto.
In un primo tempo egli mantenne un atteggiamento prudente con il senato, a cui assegnò
l’elezione dei magistrati (prima di competenza dei comizi) e conservò il favore dei soldati
avviando una serie di campagne militari contro i germani, affidate al nipote Germanico,
figlio di suo fratello Druso. Ma Germanico era altrettanto amato dalle truppe quanto lo era
stato il padre e Tiberio cominciò a preoccuparsi. Lo inviò allora contro i parti in Oriente,
dove improvvisamente il giovane morì. A Roma sorse il sospetto che Tiberio avesse
ordinato di avvelenarlo e la sua popolarità crollò. Temendo congiure, l’imperatore eliminò
alcuni membri della famiglia di Germanico e nel 26 si stabilì definitivamente in una
lussuosa villa a Capri, lasciando Roma in mano al prefetto del pretorio Seiano. Quando
iniziò a temere l’eccessivo potere che questi aveva acquisito, eliminò anche lui, la sua
famiglia e i suoi sostenitori, con l’accusa generica di lesa maestà. Quando Tiberio morì,
nel 37, nessuno lo rimpianse, anche se lasciava le finanze statali in ordine, le frontiere
sicure e il potere solido.
Il prefetto del pretorio
Il prefetto del pretorio era il capo dei pretoriani, cioè delle truppe adibite da Augusto alla
sicurezza dell’Italia. Tre coorti di pretoriani avevano il diritto di risiedere a Roma e le altre
nelle città vicine. Tiberio raccolse tutti i pretoriani a Roma, nei castra praetoria, un
accampamento fortificato presso le mura di cinta. Essi formavano con gli equites
praetoriani la guardia imperiale ed erano l’unica milizia armata presente nella città.
$G Glossario
Lesa maestà
Negli antichi ordinamenti giuridici, ogni atto che attentasse alla sicurezza dello stato e alla
vita del sovrano o ne offendesse la persona. In realtà era un’accusa piuttosto generica,
che poteva essere estesa a reati in cui non era ravvisabile l’offesa al monarca.
$C Caligola, l’imperatore folle (37-41 d.C.) Sulla successione a Tiberio non sorsero
dubbi: Caligola, il venticinquenne figlio di Germanico, era amato dalle truppe che lo
avevano visto, poco più che bambino, vagare per gli accampamenti al seguito del padre,
con indosso piccole caligae, le calzature dei soldati, e lo avevano perciò soprannominato
affettuosamente Caligola, come dire “scarponcino”. Fu il primo a scegliere il modello
dell’imperatore orientale, forse più per il desiderio di farsi venerare come un dio che per
una scelta consapevole. I suoi eccessi, interpretati come segno di follia, portarono a
un’anomala coalizione di senatori, liberti imperiali e pretoriani, che, dopo due tentativi
andati a vuoto, nel gennaio del 41 posero fine alla sua vita.
$C Claudio, l’imperatore burocrate (41-54 d.C.)
Restava ancora un componente
della famiglia di Germanico, il fratello Claudio, che aveva già 50 anni. Fu lui a essere
acclamato imperatore dai pretoriani.
Malgrado fosse disprezzato dai più per il suo aspetto e il suo carattere timido, egli diede
prova di notevoli capacità e di una vasta cultura, governando con saggezza:
•
rifiutò il culto della sua persona per porsi nel solco della tradizione;
•
riportò ordine nelle finanze;
•
migliorò la burocrazia, organizzando nel palazzo imperiale quattro uffici centrali,
affidati a liberti abili e preparati;
•
nominò senatori alcuni nobili galli ed estese la cittadinanza a nuove popolazioni,
favorendo la romanizzazione dell’impero;
•
intraprese opere pubbliche di grande utilità, come la costruzione di un acquedotto
lungo 70 km e di un porto a Ostia, che evitava di prelevare le merci a Pozzuoli, dove erano
sbarcate fino ad allora;
•
nel 42-43 conquistò la parte meridionale della Britannia con una spedizione a cui
prese parte personalmente, malgrado l’età avanzata e la salute incerta, e assicurò a Roma
ingenti risorse minerarie.
fine testo a sommario
Le novità apportate da Claudio nell’amministrazione dello Stato, e soprattutto il ricorso ai
liberti e l’immissione dei galli in senato, suscitarono le gelosie del senato e aumentarono
le antipatie nei suoi confronti. Egli per altro era succube delle sue mogli, in particolare di
Agrippina, la quale fece tali pressioni su di lui da costringerlo a scegliere come suo
successore il figlio di lei, Nerone. Il giovane divenne imperatore a soli diciassette anni, nel
54, alla morte di Claudio.
$C Nerone, l’imperatore megalomane (54-68 d.C.) La madre Agrippina, una volta
sposato Claudio, aveva garantito a Nerone un’educazione di prim’ordine, affidata al
filosofo stoico Lucio Anneo Seneca, che divenne tutore e consigliere del giovane
imperatore, indirizzandolo verso una politica moderata e ispirata ai principi dello stoicismo.
A seguirlo negli affari di stato era invece il prefetto del pretorio Afranio Burro, un’altra
figura di grandi capacità e moralità irreprensibile. La madre, poi, lo teneva a freno col suo
carattere forte. Così il primo periodo del governo di Nerone fu equilibrato. Però,
improvvisamente, Nerone cambiò atteggiamento: si liberò del controllo dei tutori e della
madre e, come Caligola, da un lato manifestò la volontà di umiliare il senato, dall’altro si
ingraziò la plebe con elargizioni e magnifici spettacoli. Interessato più a esibirsi in giochi e
gare poetiche che a governare, aveva come attività preferita l’organizzazione di giochi e
spettacoli. Istituì i Neronia, un concorso con gare ginniche, equestri e musicali, a cui egli,
impregnato di cultura greca, partecipava ora come auriga, ora come cantante, ora come
attore, con una scelta per niente confacente al suo ruolo. Tra il 66 e il 67 rimase molti mesi
in Grecia per partecipare a diversi giochi celebrati tutti nello stesso anno per permettere
all’imperatore di parteciparvi e consentirgli di vincere 1808 primi premi. Come
ringraziamento, Nerone proclamò la libertà della Grecia, che in realtà era solo
un’esenzione dai tributi.
Quando nel 64 scoppiò un incendio devastante che distrusse gran parte della città, di
fronte alle accuse di averlo fatto appiccare lui stesso per fare spazio alla costruzione del
suo palazzo, la Domus Aurea (“la casa d’oro”, una splendida dimora regale mai vista),
Nerone trovò un capro espiatorio che stornasse da lui le accuse. Approfittò della diffidenza
e dei sospetti che circolavano su quelle “strane” comunità della nuova religione, per
avviare la prima persecuzione di cristiani, in cui furono martirizzati, a quanto pare, anche
gli apostoli Pietro e Paolo. Quando le spese per realizzare la Domus Aurea prosciugarono
le finanze dello stato, Nerone pensò di procedere alla confisca di ricchi patrimoni e di
svalutare la moneta, provocando il fenomeno dell’inflazione.
Da tre anni, però, si preparava contro di lui una congiura capeggiata dal nobile senatore
Gaio Calpurnio Pisone; nel 66 la congiura fu scoperta e repressa nel sangue: furono
costretti al suicidio, tra gli altri, il poeta Marco Antonio Lucano, autore di un poema epico
sulla guerra civile fra Cesare e Pompeo (la Pharsalia) in cui esaltava la tradizione
repubblicana; il senatore Gaio Petronio, soprannominato Arbitro, cioè “arbitro di
eleganza”, uomo di corte, considerato da Nerone il giudice indiscusso dello chic e della
raffinatezza e autore di un romanzo sui costumi dell’epoca, il Satyricon, e infine lo stesso
Seneca. Quando Nerone fece assassinare anche il grande generale Corbulone, che
aveva imposto il protettorato romano sull’Armenia, sottraendola ai parti, si inimicò
l’esercito: fu l’inizio della sua fine.
Nel marzo del 68 le truppe stanziate in Spagna proclamarono imperatore il loro
comandante Servio Sulpicio Galba. A Roma anche i pretoriani appoggiarono Galba, il
senato allora dichiarò Nerone nemico pubblico ed egli si suicidò. Pare che le sue ultime
parole fossero: «Quale artista muore con me!» (Svetonio, Nerone, 69). Era il giugno del 68
e con lui finiva la dinastia Giulio-Claudia.
$K Cultura e identità
Pettegolezzi sulla prima dinastia romana
Una famiglia con una pessima fama
I quattro imperatori della dinastia Giulio-Claudia (Tiberio, Caligola, Claudio e Nerone) sono
presentati dagli storici latini con toni ostili, alcuni come pazzi, altri come inetti. Il principale
storico del periodo, Tacito (55-120 d.C.), pur consapevole della necessità dell’impero
come unica forma di governo ormai possibile, esprime il punto di vista dell’opposizione
senatoria e denuncia l’inconciliabilità tra gli antichi valori repubblicani e il principatus:
questo spiega la sua ostilità nei confronti dei primi imperatori. Un altro storico, Svetonio
(70-140 d.C.), intendeva invece fornire un ritratto integrale degli imperatori, spesso
impietoso e ricco di notizie concrete, per rivolgersi a un pubblico di ceto equestre, fatto di
funzionari e burocrati che amavano la concretezza, quando non il pettegolezzo…
Il nipote pazzo…
Stando alle fonti, Caligola manifestò subito un comportamento deviato: instabile,
irriverente, «commise abitualmente incesto con tutte le sue sorelle, e in presenza di tutti»
(Svetonio, Vita di Caligola, XXIV, RCS, Milano 2012, trad. Felice Dessì); manifestava
disprezzo per i senatori, umiliandoli in ogni modo, tanto che pare avesse nominato
senatore il suo cavallo, e, «oltre ad avergli fatto costruire una scuderia di marmo e una
mangiatoia d’avorio, gli regalò delle gualdrappe di porpora e dei finimenti ingemmati, e
persino una casa arredata e dei servi […]. Si dice che volesse persino nominarlo console»
(Svetonio, op.cit., LV). Preparò una spedizione per conquistare la Britannia, ma non la
portò a termine. Seduceva la plebe con ricchissime donazioni e dissipò le ricchezze dello
stato con un programma edilizio spropositato. Spinto da un irrefrenabile impulso
narcisistico – come il Narciso del mito innamorato di se stesso – si fece anche costruire
templi e venerare come un dio: collocò una sua statua persino nel tempio di
Gerusalemme, suscitando l’ostilità degli ebrei. Per rimpinguare le casse statali, ordinò
confische di beni privati ed esecuzioni di un’efferatezza inaudita.
… e lo zio inetto
Claudio, figlio del fratello di Tiberio, Druso, morto cadendo da cavallo nella spedizione in
Germania voluta da Augusto, era quindi lo zio di Caligola. Malfermo sulle gambe,
balbuziente, dedito agli studi, timido, debole con le donne della famiglia, era considerato
un inetto persino dalla madre Antonia, che «lo chiamava “una caricatura d’uomo, non finita
ma soltanto abbozzata dalla natura” e quando accusava qualcuno di stupidità diceva “più
scemo di mio figlio Claudio”» (Svetonio, Claudio, 3). Fu acclamato imperatore dai
pretoriani che, a sentire le malelingue, nella confusione seguita alla morte di Caligola, lo
avevano trovato nascosto dietro una tenda, mentre il senato era occupato a discutere su
come restaurare la repubblica. Fu il primo a essere acclamato imperatore dall’esercito, ma
non sarebbe stato l’ultimo.
I pretoriani pensavano evidentemente che Claudio sarebbe stato un imperatore debole e
facile da manovrare, invece si dimostrò un buon governatore, anche se non rivelò
altrettanta abilità nel gestire la vita privata. Non seppe impedire che la giovane moglie
Messalina tenesse una condotta scandalosa, che lo costrinse infine a condannarla a
morte. Sposata la nipote Agrippina, sorella di Caligola, che aveva avuto un figlio (Lucio
Domizio Enobarbo) da un precedente marito, Claudio fu da lei costretto ad adottarlo, con il
nome di Tiberio Claudio Nerone, per destinarlo alla successione, benché avesse già un
figlio proprio, Britannico. Quando Claudio morì nel 54, molti sospettarono che Agrippina lo
avesse avvelenato per accelerare la successione del figlio diciassettenne. Il senato
decretò l’apoteosi, la “deificazione” di Claudio, ma il filosofo Seneca scrisse un’operetta
satirica in cui, anziché in un dio, Claudio si trasformava in zucca, insomma non una
apothéosis, ma una apokolokýntosis, una “zucchificazione”!
Nerone l’assassino
Nerone è entrato nell’immaginario collettivo come il simbolo stesso della follia omicida.
Già nel 55 Nerone si liberò del giovanissimo fratellastro Britannico, che poteva
legittimamente aspirare al trono; nel 59 eliminò la madre, che non approvava la sua
relazione con Poppea Sabina, sposata con Otone, futuro imperatore. Poté così ripudiare la
moglie Ottavia (figlia di Claudio), quindi farla uccidere e sposare Poppea. Quando nel 62
morì anche Burro, egli scelse come prefetto del pretorio Ofonio Tigellino, pronto ad
appoggiare ogni suo crimine. Fu allora che Seneca decise di ritirarsi a vita privata. Con
una serie di processi per lesa maestà Nerone si liberò poi di tutti gli oppositori. Con un
calcio invece, durante una lite, colpì anche Poppea che era incinta e le provocò l’aborto
che la uccise.
Nerone il cantore pazzo
Megalomane, narcisista e privo di senso della misura, Nerone trovava nel modello del
sovrano orientale, adorato come un dio, l’immagine che più gli si confaceva. Decise quindi
di costruirsi una dimora immensa, la Domus Aurea. L’incendio che scoppiò a Roma nel
luglio del 64, cadde talmente a proposito che molti pensarono fosse opera sua, anche
perché nei sei giorni in cui la città bruciava, pare che fosse rimasto ad ammirare la scena
dall’alto di una torre, cantando per analogia, al suono della sua lira, l’incendio di Troia. Poi
poté costruire la sua reggia estesa per un’area immensa, resa ormai libera dall’incendio,
che andava dal Palatino all’Esquilino.
$B La rivolta ebraica
$C Un episodio marginale che cambiò la storia La stabilità dell’impero era in pericolo
sia per le leggerezza con cui gli imperatori affrontavano i problemi, sia per le minacce alle
frontiere, soggette agli attacchi dei germani, sia perché in alcune zone “calde” la
romanizzazione appariva più difficile. Una delle terre più turbolente era la Palestina. Qui
dal 66 in Palestina si stava svolgendo la rivolta giudaica, che traeva origine da diversi
fattori: povertà, malcontento contro il dominio romano e la sua esosa tassazione, conflitti
degli ebrei con la popolazione greca o ellenizzata, azioni di gruppi nazionalisti di zeloti e di
sicari, armati di pugnale (in latino sica), fautori della violenza contro gli occupanti romani.
Nel 66 gli ebrei, esasperati dal malgoverno dei funzionari imperiali, attaccarono e misero
fuori gioco la guarnigione romana di stanza nella regione e addirittura le truppe giunte in
aiuto dalla Siria. Nerone fu costretto a inviare 60#000 legionari al comando del generale
Vespasiano, che però nel 69 fu scelto come imperatore dalle truppe e lasciò il comando in
Palestina a Tito: gli occorsero due anni per sedare la rivolta e altri tre per spegnere gli
ultimi focolai di lotta. Nel 70 Tito rase al suolo Gerusalemme compreso il Tempio, da cui
furono trafugati gli arredi sacri come un enorme candelabro a sette bracci. Da quel
momento iniziò la diaspora, cioè la dispersione, degli ebrei nel mondo con le terribili
conseguenze che li colpirono a più riprese, dalle espulsioni (ad esempio dalla Spagna nel
XV secolo) ai massacri, di cui il più intollerabile rimane quello della Shoah.
Dalla sua distruzione nel 70, il tempio di Gerusalemme non è stato più ricostruito. Il solo
dei muri perimetrali rimasto in piedi è chiamato il Muro del pianto ed è ancora oggi luogo
di preghiera e di pellegrinaggio degli ebrei. La nuova diaspora, la dispersione degli ebrei, è
durata duemila anni, in cui il popolo ebraico ha continuato a mantenere una forte identità
religiosa e culturale, malgrado la sua dispersione in ogni parte del mondo.
$C L’anno dei quattro imperatori (69 d.C.)
$C Nuove lotte per il potere L’anno dei quattro imperatori ebbe inizio il 1 gennaio del 69,
quando le legioni stanziate in Germania si ribellarono a Galba e proclamarono imperatore
Aulo Vitellio, governatore della provincia. L’anziano Galba, di rango senatorio, aveva
avviato, appoggiato dal senato, un risanamento delle finanze dissestate dagli sprechi di
Nerone e non aveva concesso il donativo promesso ai soldati dai loro comandanti. Così
anche i pretoriani a Roma acclamarono un loro imperatore, Marco Salvio Otone, ex marito
di Poppea ed ex amico e “compagno di bagordi” di Nerone. Relegato in Lusitania come
governatore dallo stesso imperatore che gli aveva sottratto la moglie, Otone, distribuiti
donativi ai soldati e fatto massacrare Galba dai pretoriani nel Foro, quattro mesi dopo si
scontrò con Aulo Vitellio, sceso in Italia con le sue truppe dalla Germania e ne fu sconfitto
nei pressi di Cremona. Giunte a Roma, le legioni di Vitellio si comportarono come truppe
d’occupazione, saccheggiando e commettendo atrocità.
$C Un altro generale imperatore Intanto in Giudea Tito Flavio Vespasiano, nel 69, a
sessant’anni, veniva acclamato imperatore dalle sue legioni, gelose dei benefici concessi
da Vitellio alle proprie truppe. Lasciato a concludere la guerra il figlio Tito, Vespasiano,
sconfitto Vitellio ed eliminata la resistenza dei pretoriani, il 22 dicembre del 69 fu
riconosciuto imperatore dal senato. A un anno esatto dall’inizio si concluse così questa
sorta di guerra civile che aveva sconvolto l’“anno dei quattro imperatori” o annus horribilis
e aveva reso definitivamente chiaro che a stabilire chi dovesse governare erano gli
eserciti.
$A 2 La dinastia Flavia
$B Una dinastia di provincia
$C L’ingresso degli italici nelle sedi del potere
L’avvento di Vespasiano al potere
segnò una svolta storica. Nato a Reate (l’odierna Rieti), un villaggio nella Sabina, da una
famiglia di affaristi di ceto equestre, priva di antenati illustri, era cresciuto in campagna e
della vita contadina aveva conservato il carattere attento alla concretezza e parsimonioso,
tanto da attirarsi l’accusa di avarizia. La sua proclamazione era il segno che nuove forze
emergenti si stavano facendo strada nella politica per sostituire l’antica aristocrazia, ormai
inadeguata a ruoli di governo. La politica di Vespasiano tese a dimostrare che una
successione basata sulla scelta del migliore era preferibile a una successione per via
ereditaria.
$C Vespasiano, emblema di parsimonia (69-79 d.C.)
Rispettoso
delle
leggi,
Vespasiano scelse la linea di Augusto e come lui celebrò il culto della pax, a cui dedicò un
tempio in ricordo della vittoria conseguita sugli ebrei nel 73. Gli si poneva, però, il
problema di trovare la formula per giustificare il potere che aveva ottenuto dall’esercito.
Fece dunque varare dagli antichi comizi curiati una lex de imperio Vespasiani (“legge
sul potere di Vespasiano”), che per la prima volta fissava con un atto ufficiale i poteri
dell’imperatore, gli stessi sostanzialmente che avevano permesso di governare ad
Augusto e ai suoi successori. L’imperatore poté, di conseguenza, far accettare il suo piano
di riorganizzazione amministrativa, volto innanzitutto a un’accorta gestione e al
risanamento delle finanze.
•
Impose nuove tasse, ridusse le distribuzioni gratuite di grano, limitò gli spettacoli
e le donazioni all’esercito.
•
Avviò una serie di lavori pubblici in Italia e nelle province; fece demolire la Domus
aurea e sulla sua area costruì opere destinate al popolo, tra cui le Terme intitolate al figlio
Tito e l’anfiteatro Flavio, più noto come Colosseo, perché sorse vicino al colosso che
Nerone aveva fatto costruire nella Domus con la propria immagine in veste del dio Sole,
sul modello del Colosso di Rodi.
•
Assunta la carica di censore nel 73, promosse al rango di senatori e cavalieri molti
italici, tradizionalmente operosi e diffidenti nei confronti delle culture orientali, e alcuni
provinciali, soprattutto spagnoli; ridusse il potere dei liberti e, per dare un’adeguata
preparazione alla nuova classe dirigente, stabilì che l’educazione dei giovani fosse a
spese dello stato. Fu dunque il primo ad istituire la figura dell’insegnante stipendiato.
•
Estese la cittadinanza per parificare via via le province con l’Italia.
•
Consolidò ed estese i confini fino al Galles in Britannia e alla zona della Foresta
Nera tra il Reno e il Danubio.
Per preparare la successione, Vespasiano si era associato al governo i due figli, Tito, il
maggiore, con pieni poteri, e Domiziano, con incarichi inferiori: così quando l’imperatore
improvvisamente morì, nel 79, l’impero passò automaticamente nelle mani di Tito.
$C Tito, delizia del genere umano (79-81 d.C.)
Tito Flavio Vespasiano, omonimo del
padre e perciò passato alla storia con il semplice prenome di Tito, aveva combattuto
insieme al padre in Britannia e in Germania e nel 73 aveva vinto la guerra giudaica, dopo
aver conquistato Gerusalemme nel 70. Giunto a Roma condusse una vita dissoluta, ma
una volta assunto il governo si mostrò severo con se stesso e con i compagni dei suoi
svaghi, anche se affabile e generoso verso i sudditi. Non pronunciò mai una condanna a
morte e affrontò con grande umanità alcuni momenti difficili: il dramma dell’eruzione del
Vesuvio che nel 79 distrusse Pompei, Ercolano e Stabia; quello di un altro incendio che
devastò Roma per tre giorni; la pestilenza scoppiata nell’80.
Contrariamente ad altri giovani imperatori travolti dalla sete di potere dopo un primo
periodo di buon governo, Tito fece un percorso inverso e, una volta a capo del governo, si
trasformò, come dicevano i romani, nella «delizia del genere umano» (Svetonio, Tito, 1). Il
suo principato durò tuttavia solo due anni, in cui fece in tempo a completare e inaugurare il
Colosseo, poi si ammalò e morì nell’81, a soli quarant’anni.
$C Domiziano verso la tirannide (81-96 d.C.)
Il fratello minore di Tito, Domiziano,
era ben diverso da lui. Lasciato dal padre ai margini del potere, una volta ottenuto il trono
scelse il modello orientale, si definì dominus et deus (“signore e dio”) e prese la china
della politica ferocemente antisenatoria di un Caligola o di un Nerone; ricorse ad
arbitrarie condanne a morte, perseguitò filosofi stoici e cristiani, come Flavio Clemente
(suo cugino), ridusse al silenzio scrittori come Plinio, Tacito e Giovenale.
Tuttavia la sua attività di governo seguì le orme paterne nel curare le finanze, reprimere la
corruzione, costruire edifici pubblici, come lo Stadio (oggi trasformato nella piazza
Navona), consolidare i confini: tra Reno e Danubio fece costruire una linea difensiva, il
limes; estese il dominio romano in Britannia fino a parte della Scozia; tentò la conquista
della Dacia, ma fu costretto a scendere a patti con il re Decebalo (89). Ancora una volta fu
una congiura a eliminarlo nel 96 e a porre fine alla dinastia Flavia.
$A 3 Gli imperatori adottivi
$B Il senatore, il generale e l’intellettuale
$C Personaggi scelti al governo
Eliminato il tirannico Domiziano, il senato decise
di prendere in mano la situazione, dopo un lungo periodo di impotenza. Ma era un senato
molto diverso da quello di un tempo: estinta gran parte delle famiglie della più antica
aristocrazia romana, esso era ora composto soprattutto da provinciali e famiglie di
nuova nobiltà, più aperti verso il potere imperiale. Gli stessi imperatori, d’altro canto,
ormai provenivano dalla nobiltà provinciale e avevano perciò la stessa cultura, le stesse
aspirazioni e lo stesso spirito che animavano il senato. Si spiega così la collaborazione
che si avviò tra i due poteri. I senatori imposero una nuova formula per la successione,
scegliendo essi stessi l’imperatore, anziché subire le decisioni dei militari. Per succedere a
Domiziano optarono per un anziano e stimato membro dello stesso senato, Marco
Cocceio Nerva.
$C Nerva il saggio (96-98)
Un uomo anziano non poteva ottenere l’appoggio
dell’altra grande forza in gioco, l’esercito, quindi Nerva decise di associarsi al governo un
valoroso generale, governatore della Germania Superiore, Marco Ulpio Traiano, che egli
adottò. Per tutto il II secolo la successione per adozione avviata da Nerva prevalse,
anche perché nessuno degli imperatori ebbe un figlio maschio. Ognuno di essi adottò
quindi la personalità più adeguata a succedergli dopo la morte e questa scelta garantì
all’impero guide capaci ed equilibrate, che fecero del II secolo il beatissimum saeculum,
l’epoca d’oro della storia imperiale.
Dopo un governo di neppure due anni, in cui promulgò ottime leggi e cercò di alleggerire il
peso eccessivo delle imposte, Nerva si ammalò e morì nel 98.
$C Traiano, optimus princeps (98-117)
Oltre alla novità fondamentale dell’adozione
che permise di scegliere il migliore, la proclamazione a imperatore di Traiano portò con sé
un’altra novità significativa. L’imperatore non era romano e neppure italico, come
Vespasiano, ma figlio di un senatore spagnolo: era la prova della consolidata
romanizzazione delle province e del profondo cambiamento dell’impero.
Come generale, il nuovo imperatore impresse una svolta nella politica estera, in cui finora
era prevalsa la tendenza a seguire le orme di Augusto nel consolidare i confini senza
ampliarli. Eppure anche Traiano, che pure portò l’impero alla sua massima estensione, in
fondo era spinto, come Augusto, dall’esigenza di rafforzare le frontiere, che risultavano
troppo deboli, specie a nord. Qui portò a termine la conquista della Dacia, che era fallita a
Domiziano, per rendere più sicura la frontiera del Danubio. In due campagne, nel 101-102
e nel 105-106, uccise Decebalo, il re dei daci, conquistò la regione, per altro ricca di
miniere d’oro, ne fece una provincia e ne avviò la capillare romanizzazione.
L’oro tratto dalla Dacia consentì all’imperatore sia di potenziare l’edilizia sia di migliorare
l’agricoltura italica, aiutando i proprietari terrieri, in crisi per la concorrenza dei prodotti
provenienti dalle province, con prestiti a basso tasso di interesse. Con gli interessi ricavati
finanziò strutture che assistevano orfani e bambini poveri e permettevano loro persino di
studiare. Traiano diede di sé l’immagine dell’imperatore benefattore che prevarrà per
tutto il II secolo e consentirà un periodo di diffuso benessere.
La nuova ricchezza consentì anche di ampliare ulteriormente i confini. A est, nel 106, un
generale di Traiano conquistò l’Arabia nord-occidentale, dove passava una grande via
carovaniera che andava dall’Egitto all’Eufrate, una delle più importanti vie del commercio
con l’Oriente. La regione, divenuta la provincia dell’Arabia Petrea, dal nome della
splendida capitale Petra, fruttò all’impero enormi ricchezze.
Restava però la minaccia dei parti, contro cui i romani si scontravano da secoli.
La regione dell’altopiano iranico in cui erano stanziati, era attraversata dalla via della seta
che collegavano il Mediterraneo e gli imperi dell’Asia orientale, indiano e cinese, su cui
transitavano prodotti allora pregiatissimi: incenso, spezie, seta, avorio, ambra.
Nella prima età imperiale i parti si erano limitati a svolgere il ruolo di intermediari nei
commerci tra est e ovest, senza più attaccare le province romane d’Asia, rinunciando a
raggiungere la costa mediterranea. Tuttavia, fra il 114 e il 116, Traiano volle conquistare
l’Armenia, che i parti avevano rioccupato vent’anni dopo gli accordi con Augusto, marciò
verso la Mesopotamia, conquistò Babilonia e la capitale del regno partico Ctesifonte,
raggiungendo così l’oceano Indiano e aprendo la via per l’India. I commerci se ne
avvantaggiarono perché si poté scavalcare l’intermediazione dei parti. La Mesopotamia fu
costituita in provincia, il regno dei parti, ridotto in confini ristretti, divenne vassallo di
Roma.
Una nuova rivolta delle comunità ebraiche della diaspora, scoppiata in varie città
dell’impero, costrinse però Traiano a interrompere la spedizione e a ritornare verso Roma,
ma, giunto in Cilicia ormai malato, l’imperatore morì nel 117.
$M Memo
I parti
I tentativi più significativi di Roma per arginare l’espansione dei parti, che avevano
costituito un impero dall’Indo fino alla Mesopotamia, erano stati quello di Crasso, sconfitto
nel 53 a.C.; tra il 36 e il 34, quello di Marco Antonio, che dovette ritirarsi con gravi perdite,
mentre Augusto, consapevole della difficoltà di una guerra, aveva lasciato prevalere la
diplomazia e ottenuto che l’Armenia entrasse nella sfera d’influenza romana e che fossero
riconsegnate le insegne militari sottratte a Crasso.
$E La conquista della Dacia
Lo stesso nome della regione oggi è Romania (“terra romana”) e il rumeno è una lingua
neolatina, cioè derivata dal latino. In ricordo dell’impresa Traiano innalzò la Colonna
traiana.
L’oro tratto dalla Dacia consentì a Traiano di edificare a Roma un nuovo Foro, il più
grande dei fori imperiali, e gli immensi Mercati Traianei, di bonificare nel Lazio le paludi
Pontine, di ampliare in tutto l’impero la rete stradale.
$C Adriano, tra viaggi e cultura (117-138) Traiano, che non aveva figli, aveva allevato
il figlio di un cugino, Publio Elio Adriano, che adottò e designò come suo successore poco
prima di morire. Adriano era cresciuto anche lui in Spagna e aveva avuto incarichi di
potere. La sua politica fu improntata più a una difesa delle frontiere che a un’ulteriore
espansione: abbandonò quindi il controllo troppo oneroso della Mesopotamia e costruì in
Britannia il cosiddetto Vallo di Adriano, che attraversava l’isola da mare a mare e
difendeva le conquiste romane dall’attacco delle tribù della Scozia.
Dovette però sedare una grande rivolta ebraica contro la romanizzazione forzata, che
impegnò gli eserciti romani dal 132 al 135, fece migliaia di vittime e culminò con la
distruzione definitiva di Gerusalemme, sulle cui rovine fu fondata la colonia romana di
Elia Capitolina.
Ma la scelta che più caratterizzò la politica di Adriano fu l’attenzione ai problemi dei
cittadini dell’impero, anche e soprattutto di quelli che abitavano le regioni periferiche.
Viaggiò per questo in lungo e in largo, dal 122 al 132, avviando un’intensa attività edilizia
per promuovere lo sviluppo della vita cittadina, fondamentale per estendere la
romanizzazione. Fece costruire strade, acquedotti, fontane, templi, teatri, un nuovo
sobborgo ad Atene e una nuova città in Egitto, Antinoopoli, dedicata al suo preferito, il
giovane bell’Antinoo. Molte altre città, spesso con il nome di Adrianopoli, furono fatte
edificare dall’imperatore in zone poco urbanizzate, nella penisola balcanica e in Africa. A
Roma rifece il Pantheon costruito da Agrippa, il generale genero di Augusto, e costruì un
mausoleo grandioso, che, trasformato poi in fortezza, oggi è diventato Castel
Sant’Angelo.
Ormai malato, si fermò infine nei pressi di Roma, a Tivoli, nella sua splendida Villa
Adriana, in cui fece riprodurre molte delle meraviglie dell’architettura che lo avevano
colpito nei suoi viaggi. Il suo gusto subiva profondamente l’influenza della cultura
ellenistica e rispecchiava la sua grande cultura, che lo spinse a potenziare il ruolo di
capitale culturale di Atene e a migliorare l’educazione scolastica. Grande attenzione
dedicò anche alla produzione giuridica, con cui pose le basi del diritto romano.
Morì nel 138, dopo aver adottato un senatore cinquantenne di origine gallica, Antonino, a
cui aveva imposto di adottare a sua volta due giovani, i futuri imperatori Marco Aurelio e
Lucio Vero.
$B L’impero degli Antonini (138-192)
$C Antonino Pio e l’apogeo dell’impero (138-161) Uomo legato alla tradizione romana,
vissuto in un periodo di pace, Antonino incarnò l’ideale dell’imperatore come funzionario
al servizio dello stato e dedicò i suoi ventitré anni di governo a favorire la cultura, a
conservare la pax Romana e a consolidare le frontiere, costruendo, tra l’altro, il Vallo di
Antonino a nord di quello di Adriano. Proprio durante il suo governo l’impero raggiunse il
suo apogeo di pace e prosperità tanto che ad Antonino fu attribuito il titolo di Pio.
$C Marco Aurelio alla fine del beatissimo secolo (161-180)
Adriano aveva inteso
sperimentare una nuova forma di governo per Roma quando aveva chiesto ad Antonino
Pio di adottare due giovani, Marco Aurelio e Lucio Vero, che alla sua morte governarono
per la prima volta insieme, come in una diarchia, benché tra i due predominasse in realtà
Marco Aurelio. Essi ripresero la guerra contro i parti, che tentavano una rivincita dopo la
sconfitta subita per opera di Traiano, e, dopo numerosi successi, nel 166 riconquistarono
Armenia e Mesopotamia. Durante la guerra scoppiò, però, un’epidemia di peste
bubbonica, che i soldati di ritorno diffusero anche a Roma nel 172 e da lì in tutta Europa,
causando milioni di morti, forse il 10% della popolazione. Il calo demografico provocò il
tracollo dell’economia e l’esercito, per mancanza di uomini, dovette arruolare persino gli
schiavi. La miseria spinse molte popolazioni periferiche, difficili da controllare, a ripetute
ribellioni, che furono represse nel sangue.
$C Minacce di invasioni
Cominciavano intanto a farsi sentire le conseguenze delle migrazioni di popolazioni
nomadi di goti, che, approfittando della crisi dell’impero, calavano dalla penisola
scandinava verso le regioni a nord del mar Nero, e di unni che, provenienti dalla lontana
Cina, ora premevano da est e spingevano i germani verso il limes imperiale.
Nel 166 quadi e marcomanni avevano valicato il confine, erano arrivati ad Aquileia,
nell’attuale Friuli-Venezia Giulia, e minacciavano di arrivare sino a Roma. Quando nel 169
Lucio Vero morì, restò Marco Aurelio a fronteggiarli, finché li sconfisse nel 175. Il saggio
imperatore si rese però conto che il problema doveva essere risolto anche con la
diplomazia: offrì alle popolazioni germaniche la possibilità di integrarsi nell’impero,
arruolandosi nell’esercito come truppe ausiliarie o accettando di lavorare come contadini
nei territori romani, dove la manodopera era ormai carente in conseguenza del calo
demografico seguito alla peste. Attraverso patti commerciali l’imperatore estese la
romanizzazione alle popolazioni al di là del Reno. Ma la morte, forse di peste, lo raggiunse
a Vindobona (Vienna) nel 180, durante una campagna contro una popolazione germanica
in cui era accompagnato dal figlio diciannovenne Commodo che, poco prima di morire,
aveva associato al suo governo.
Un filosofo al governo
Marco Aurelio realizzò il sogno di Platone: un filosofo al potere. Egli era infatti uno stoico
e visse come tale molto parcamente, guardò sempre con distacco agli impegni di governo,
non si lasciò travolgere dalle passioni e fu animato da una profonda umanità. Lasciò le
sue riflessioni sul significato della vita in un libro di Ricordi, intitolato anche A se stesso, in
cui rivela il malessere esistenziale che, dopo un secolo di pace e di splendore, cominciava
ormai a diffondersi.
$C Commodo, il figlio degenere (180-192) Quando, alla fine del secolo, all’ultimo
imperatore adottivo Marco Aurelio successe il figlio Commodo, questi, con il suo
comportamento tirannico, sembrò far regredire la situazione all’epoca della successione
ereditaria della dinastia Giulio-Claudia. La scelta di Marco Aurelio non fu felice: suo figlio
non aveva la propensione a governare né a combattere. Si affrettò, infatti, a tornare a
Roma, abbandonando il fronte danubiano in una situazione precaria, si orientò
immediatamente verso il modello del sovrano despota che era stato di Caligola, Nerone
e Domiziano, e cominciò a sperperare denaro pubblico per condurre una vita sfarzosa.
Uccise molti senatori accusati di avere ordito una congiura contro di lui ed eliminò persino
la sorella, poi la moglie, il prefetto del pretorio e così via. Una congiura lo fece scomparire
dalla scena politica solo nel 192.
$A 4 Le ragioni dello splendore, i segni della crisi
$B Un impero di città
$C Un’organizzazione originale
Una delle ragioni dell’affermazione e soprattutto
della lunga tenuta dell’impero romano fu l’originalità della sua struttura e della sua
organizzazione. Mentre i grandi imperi orientali erano fondati su monarchie territoriali,
l’impero romano era retto da una città che aveva saputo stabilire solidi rapporti con altri
popoli, conquistati con la forza, ma amministrati concedendo una larga autonomia. Del
resto, neanche un esercito di ben 300.000 effettivi in età imperiale avrebbe potuto tenere
sotto controllo i 6 milioni di km² e i 10.000 km di confini dell’impero, le circa 40 province e i
50-60 milioni di abitanti.
Eppure la stessa burocrazia romana non era estesa né oppressiva, si limitava ai
governatori delle province e ai loro collaboratori, poche centinaia di persone. Le città si
autogovernavano tramite proprie istituzioni, che Roma mantenne in vita: in genere una
curia, una specie di senato locale sul modello romano, i cui componenti, i decurioni,
scelti in base al censo, si occupavano di amministrare la giustizia e le finanze, di
riscuotere i tributi, approvvigionare la città, occuparsi degli edifici pubblici e dell’ordine
pubblico. Tributi e ordine pubblico erano i soli aspetti che interessassero a Roma.
$C Tutto un fiorire di città
L’impero risultava così composto da città, legate a Roma
da vincoli diversi:
•
le città peregrinae, di recente conquista e poco romanizzate, sottomesse alla legge
di Roma e prive della cittadinanza romana, dovevano pagare i tributi più alti;
•
le città libere erano esentate dal controllo di Roma e da alcuni tributi;
•
le città alleate erano quasi del tutto autonome.
La presenza dei centri urbani era indispensabile alla difesa e al controllo sul territorio,
perciò Roma favorì l’urbanizzazione, con la fondazione di nuove città, spesso nei luoghi
degli accampamenti militari, specie alle frontiere, e l’ammodernamento dei vecchi centri,
dove furono edificati fori, teatri, terme… così anche le città preesistenti assunsero un
aspetto romano. Nelle zone appena conquistate, poi, Roma fondava colonie, che erano
un’estensione dell’Urbe stessa, e i loro abitanti, in genere militari in congedo, erano
cittadini romani.
Eppure l’80% della popolazione dell’impero viveva ancora nei villaggi e nelle comunità
tribali sparse nel territorio; il numero delle città si aggirava tra 1000 e 2000 e quello degli
abitanti tra i 2000 e 15#000 per città: solo Roma ne contava 1 milione, Alessandria
300#000 e poche altre, come Antiochia e Cartagine, superavano i 100.000.
$C La città che romanizza
Roma ebbe una grande capacità di assimilare i popoli
conquistati, che mancava invece ai grandi imperi assiro-babilonese e persiano: le città
garantivano la romanizzazione, la diffusione della lingua latina, della cultura e degli stili di
vita di Roma. Ma i romani seppero anche rispettare quelle civiltà che vantavano una
lunga tradizione: in un Oriente profondamente ellenizzato non imposero la propria lingua,
lasciando che l’impero diventasse bilingue, né la propria cultura, anzi fecero proprio gran
parte di quello che quei popoli offrivano in termini culturali e di civiltà.
Le città orientali mantennero pertanto le proprie istituzioni e godettero della doppia
cittadinanza, perché Roma si limitò a prelevarne le enormi ricchezze. Nelle città
occidentali, invece, fu favorita un’aristocrazia che fondeva elementi provinciali e romani.
Soprattutto in Gallia, un’aristocrazia gallo-romana sempre più potente aspirava a entrare
anche nel senato romano, e abbiamo visto come l’imperatore Claudio accolse
effettivamente in senato alcuni aristocratici della Gallia.
$C I nuovi tre ordini Le classi dirigenti dell’impero appartenevano ormai a tre gruppi
sociali.
•
I 600 senatori, il cui reddito doveva ammontare almeno a un milione i sesterzi, alla
fine del II secolo non appartenevano più esclusivamente alla nobiltà romana, ma per il
57% erano aristocratici italici; avevano perso l’antico prestigio e dipendevano dal
principe che li nominava. Anche i proconsoli, sebbene nominati dal senato, in realtà erano
sottoposti all’imperatore.
•
I cavalieri, con un reddito minimo di 400.000 sesterzi, erano circa 20.000 tra
proprietari terrieri, commercianti, banchieri, affaristi, ufficiali a capo delle legioni, prefetti.
Alcuni erano al governo delle province in cui erano stanziate solo truppe ausiliarie. Le
origini dei cavalieri erano spesso modeste, perché per entrare nell’ordine si valutavano
soprattutto i meriti personali.
•
Gli aristocratici municipali erano circa 150.000, svolgevano la funzione di
decurioni ed erano membri dei consigli cittadini. Venivano selezionati tra i liberi per
nascita, con una buona reputazione e con un reddito che andava dai 20.000 ai 100.000
sesterzi.
$C Schiavi meno schiavi Una società aperta come quella romana di epoca imperiale
consentiva una grande mobilità sociale, che permise l’affermazione di nuove categorie.
Il numero degli schiavi andava diminuendo perché il lungo periodo di pace non permetteva
la cattura di nuovi prigionieri. Gli schiavi cominciarono pertanto a diventare “merce
preziosa” e a essere trattati con maggiore umanità; anche la legislazione divenne più
mite nei loro riguardi e decadde il diritto di vita o di morte che il pater familias poteva
esercitare su di loro. Aumentò il numero di quegli schiavi che, soprattutto nel mondo
ellenizzato, venivano impiegati come pedagoghi e segretari o per funzioni di una certa
responsabilità. Ma soprattutto aumentarono le manomissioni, che trasformavano uno
schiavo in liberto. Anche gli imperatori ormai prediligevano come funzionari per
l’amministrazione sia dei loro patrimoni privati sia delle finanze pubbliche i liberti, perché
risultavano più fidati e controllabili. Alcuni di essi divennero così personaggi ricchi e
potenti. In seguito la reazione di senatori e cavalieri fece sì che progressivamente i liberti
fossero allontanati dagli incarichi più rilevanti, pur lasciando che continuassero a occuparsi
dei “collegi augustali”, nelle varie città dediti al culto dell’imperatore.
$C L’ascesa sociale dei soldati Anche i militari assunsero un ruolo nuovo nella società.
Oltre a intervenire sempre più spesso nella scelta del principe o nella sua eliminazione, le
legioni, che avevano ormai raggiunto il numero di 30, stanziate nei punti chiave
dell’impero, crearono stabilità e progresso sociale. Il legionario poteva contare su una
buona paga di 300 denari all’anno e i pretoriani, che avevano anche il privilegio di essere
di stanza in Italia, arrivavano fino a 1000 denari. Al salario si aggiungevano gli ingenti
donativi e, alla fine della carriera che durava 20-25 anni, una buonuscita in denaro o un
appezzamento di terra in una colonia. In questo modo lo stato romano si garantiva, nelle
zone più a rischio, contadini ex soldati educati alla fedeltà al principe. Ben presto si
cominciarono ad arruolare truppe ausiliarie di barbari, che finirono così con l’essere
integrati nella società romana.
$C Distinzione di classe Nel corso del II secolo si precisò nella società romana, anche a
livello giuridico
•
honestiores (letteralmente “più onesti”, nel significato di “più onorati”, “più
rispettabili”), che appartenevano alle classi alte e godevano di privilegi, come quello di non
poter essere sottoposti a punizioni infamanti;
•
humiliores (“più umili”), le classi inferiori non protette.
I ceti popolari crearono delle associazioni, chiamate collegi, che riunivano i loro membri
per pasti in comune e cerimonie sacre e avevano ciascuno un patrono, in genere un
magistrato o un ricco cittadino. Spesso i collegi raccoglievano persone che praticavano la
stessa attività (artigiani, piccoli negozianti…) per valorizzare i vari mestieri e tutelare gli
interessi della categoria davanti all’autorità, aggregare chi era escluso dalla vita
pubblica perché si sentisse parte di un gruppo, garantire una sepoltura individuale,
attingendo a un patrimonio comune costituito dai versamenti dei soci. I collegi divennero
inoltre la forma di associazione più diffusa tra i seguaci dei nuovi culti.
I ricchi che sostenevano i collegi spendevano cifre considerevoli per organizzare feste o
edificare edifici pubblici; in cambio mantenevano il monopolio delle cariche pubbliche. Il
più grande benefattore, però, restava il principe, che, per non dividere con i ricchi il favore
della plebe, doveva elargire assai più di loro.
$C Tra progresso e nuovi equilibri I romani non avevano una politica economica, lo
stato non interveniva direttamente sull’economia, che restava in mano ai privati, tuttavia la
pace e la stabilità garantite dagli imperatori promossero, nella prima fase imperiale, la
rapida ripresa dopo i decenni di guerre civili dell’ultima fase repubblicana. Inoltre, le
infrastrutture che lo stato sviluppò in tutto l’impero – l’efficiente rete stradale a lunga
percorrenza che si estendeva per quasi 80#000 km, i porti, il miglioramento della
navigazione fluviale – avvantaggiarono lo sviluppo economico.
A favorire l’incremento dei traffici commerciali fu soprattutto la diffusione di un unico
sistema monetario, basato sul denarius d’argento e l’aureus d’oro, che garantivano
facilità e sicurezza dei pagamenti, prestiti a tassi ragionevoli, anche se contadini e artigiani
potevano ottenere prestiti solo a usura.
La ripresa economica, l’aumento della richiesta di prodotti di lusso e l’incremento
dell’attività estrattiva dei materiali necessari a realizzare lavori di edilizia, favorirono
l’artigianato, che tuttavia si svolgeva ancora in piccole botteghe a conduzione familiare, le
tabernae, spesso di proprietà di liberti.
$C Consumatori privilegiati
Sebbene vi fossero merci che avevano un’ampia
circolazione, spesso i mercati erano locali e vi si scambiavano prodotti della zona. Solo
Roma e altre grandi città erano grandi acquirenti dei prodotti provenienti da tutto il mondo,
compresa la lontanissima Cina.
I migliori consumatori, dopo le classi più abbienti, erano i soldati che, ben pagati, avevano
la possibilità di spendere: dov’erano alloggiate le truppe si svilupparono mercati in cui
circolavano soldi e merci.
L’Italia però perse quella centralità che in età repubblicana aveva sia per la sua posizione
geografica al centro del grande impero sia per il suo ruolo politico-amministrativo. Il
baricentro economico e poi politico si andò spostando sempre più da Roma alle province,
e mentre queste, malgrado i notevoli tributi che pagavano al potere centrale, si
svilupparono, l’Italia decadde.
$C Una nuova vita nelle campagne Con l’aumento dell’urbanizzazione, un profondo
squilibrio si venne a determinare nel rapporto, sempre difficile, tra città e campagna. La
città non produce ma consuma quello che produce la campagna: così, proprio nel periodo
di massimo splendore dell’impero, si assistette a un progressivo impoverimento delle
campagne e a una trasformazione dei rapporti contadini-proprietari.
Intanto si modificò il sistema della villa, l’azienda produttiva sviluppata in una proprietà
terriera di circa 250 ettari con al centro una casa signorile, su cui si era fondata la
ricchezza della nobiltà in epoca repubblicana.
Ora il sistema entrò in crisi per diverse cause:
•
la concorrenza dei prodotti che giungevano da ogni parte dell’impero;
•
la penuria di schiavi a causa dell’emancipazione diffusa e della mancanza di
nuove conquiste territoriali;
•
la diffusione del latifondo: la terra infatti restava l’unica forma di investimento sicuro
per i ricchi, che avevano finito per accumulare enormi proprietà, sottraendo terra ai ceti
meno abbienti.
Il latifondo era una proprietà agricola che si estendeva oltre i 500 ettari, di proprietà
dell’imperatore o di privati. Non era particolarmente produttiva perché gli schiavi che lo
lavoravano non avevano interesse a migliorarne la produttività e i padroni, che vivevano in
città, spesso se ne disinteressavano.
Chi invece volle incrementare la produzione, trovò una soluzione, sia pure parziale, nel
sistema del colonato: suddivise la proprietà in piccoli lotti che affidò a contadini privi di
terra e a schiavi lasciati a gestire il lavoro in autonomia. I coloni (“coltivatori”, dal verbo
latino còlere, “coltivare”) avevano interesse a incrementare la produttività della terra,
perché una parte del prodotto restava a loro. Solo quando lo stato aumentò la tassazione,
il colono divenne un dipendente del proprietario e si ridusse in condizione di semischiavitù.
Il latifondo determinò la crisi della piccola proprietà, che non poteva sopportarne la
concorrenza. Le campagne furono allora gradualmente abbandonate e le città divennero
sempre più affollate, con problemi di ordine pubblico e di approvvigionamento.
$C Bilinguismo ed educazione Le classi colte dell’impero utilizzavano due lingue, il
latino e il greco della koiné, ma la loro cultura era essenzialmente greca ed era basata
sull’ideale di perfezione, di pieno sviluppo delle potenzialità dell’individuo, di raffinata
eleganza. Il latino in Oriente rimase solo la lingua dell’amministrazione della giustizia e
dell’esercito. L’educazione dei giovani poneva al gradino più alto la retorica e la filosofia:
la prima schiudeva la carriera forense e quella politica delle magistrature, a cui, secondo
gli insegnamenti di Quintiliano (35-95 d.C.), la filosofia doveva fornire la conoscenza del
bene, del giusto e del vero.
L’educazione non era più un’iniziativa privata, ma cominciò a essere finanziata e
controllata dallo stato, anche per formare un ampio ceto di funzionari al servizio della
burocrazia statale.
$C Fine del mecenatismo
Con il progressivo irrigidimento di alcuni principi su
posizioni assolutistiche, si interruppe la collaborazione tra potere e cultura che aveva
caratterizzato il principato di Augusto. Se Traiano lasciò che gli storici Tacito e Svetonio
esprimessero liberamente le proprie idee e intrattenne con il letterato Plinio il Giovane,
proconsole in Bitinia, una fitta corrispondenza, Nerone costrinse non solo il filosofo
Seneca, ma anche il poeta Lucano e il romanziere Petronio al suicidio. Gli imperatori si
mostrarono infatti molto rigidi nei rapporti con gli intellettuali e ai letterati imposero spesso
di inserire nelle loro opere aperti elogi della casa regnante. Tuttavia, pur in questo clima, si
poté diffondere la poesia satirica di Marziale e Giovenale, con forti accenti di critica
sociale.
$C Sviluppo dei trattati giuridici e scientifici
Al contrario, l’epoca imperiale
promosse lo studio del diritto, che doveva adeguarsi alle nuove esigenze e giuristi come
Ulpiano furono protetti dagli imperatori. Fiorirono anche le scienze. Plinio il Vecchio, la
cui morte nell’eruzione del Vesuvio è descritta in una lettera di suo nipote Plinio il Giovane,
scrisse una Storia naturale, in 37 libri; Tolomeo elaborò la sua teoria sul sistema
geocentrico; il medico Galeno, vissuto alla corte di Commodo, scrisse un fondamentale
manuale di medicina in uso fino al Settecento.
$B L’affermazione progressiva del cristianesimo
$C Le prime ekklesíe
Il I e il II secolo videro affermarsi progressivamente, malgrado le
prime persecuzioni, il nuovo culto cristiano,
Le prime comunità, definite dall’apostolo Paolo ekklesíe, “assemblee”,si formarono sul
modello dei collegi romani e furono inizialmente tollerate, anche perché, come quelli
romani ed ebraici, i collegi cristiani erano finalizzati a opere di carità, elemosine e
assistenza ai bisognosi. A occuparsi di queste attività erano i diaconi (letteralmente,
“inservienti”), che attingevano alla cassa comune, alimentata dalle elemosine di tutti i
fedeli. Essi coadiuvavano i presbiteri (gli “anziani”), che guidavano come sacerdoti i riti
religiosi.
Con il tempo si formarono raggruppamenti di comunità vicine, le diocesi, che riconobbero
l’autorità di un vescovo (in greco epískopos, “sorvegliante”), una guida spirituale che
stabiliva le regole di comportamento, vigilava sulla giusta interpretazione del messaggio
evangelico, sovrintendeva alla corretta celebrazione dei riti, verificava l’adempimento dei
compiti relativi alla predicazione e al proselitismo. Gli epískopoi erano considerati i
successori degli apostoli e godevano quindi di grande prestigio.
Ogni comunità aveva i suoi patroni, ricchi personaggi che la proteggevano e finanziavano
le attività comunitarie con donazioni e lasciti testamentari. Tutte le comunità erano
indipendenti, ma si sentivano parte di una chiesa universale, cioè cattolica (katholikós,
“universale”, da katá e hólos, “tutto intero”), che con il tempo riconobbe come massima
autorità il vescovo di Roma. La comunità romana deteneva infatti il primato nella rete
delle comunità perché risiedeva nella capitale dell’impero, dove, per di più, erano sepolti i
fondatori spirituali del cristianesimo, gli apostoli Pietro e Paolo.
Già nel IV secolo ai vescovi venne attribuito spesso l’appellativo affettuoso di páppas o
pápas, che corrisponde al nostro “papà, babbo”; nel VI secolo il termine definì il vescovo di
Roma, che divenne appunto il papa. Per lui si poteva anche usare il termine di pontefice,
derivato dal mondo latino.
$C I riti delle comunità Le prime comunità si riunivano in case private, dove svolgevano
una serie di attività: lettura e interpretazione dei testi sacri, preghiera, opere di carità.
Molto importante era la catechesi, cioè l’insegnamento dei principi della dottrina cristiana
ai nuovi convertiti, sul modello di quanto avevano fatto gli apostoli. Quando il neofita aveva
un’adeguata preparazione, veniva battezzato ed entrava a far parte della comunità. Ogni
giorno si celebravano le agápai (plurale di agápe, che significa “amore”), cioè la cena
rituale comunitaria, in memoria dell’ultima cena di Gesù.
Durante l’agápe si riceveva il sacramento dell’eucaristia (letteralmente, “gratitudine”) con
cui si ringraziava il Signore: per commemorare il suo sacrificio, con la preghiera di
consacrazione si trasformava il pane e il vino nel corpo e nel sangue di Cristo. Con il
tempo l’agápe si celebrò esclusivamente la domenica mattina e divenne un pranzo
simbolico in cui si somministrava solo l’eucaristia.
La prima forma di messa vera e propria è attestata solo nel III secolo, quando ormai al
cristianesimo si erano avvicinati fedeli di altri culti, che sentivano la nuova religione vicina
alla propria: alcuni principi cristiani, infatti, come il monoteismo e l’idea della resurrezione,
e alcuni riti, come la cerimonia di iniziazione al culto (il battesimo), il pasto comune, la
lettura dei testi sacri, erano presenti anche in altre religioni, tra cui quella ebraica e i culti
misterici.
$C Diffidenze e sospetti Inizialmente la nuova religione, nata in un ambiente provinciale
marginale, quale la Giudea, e diffusa soprattutto in ambienti poveri, era poco conosciuta
ed era tollerata senza problemi perché ogni comunità raccoglieva pochi fedeli. Quando
però cominciò a diffondersi fra i ceti alti, suscitò diffidenze e ansie, e soprattutto il timore
che si perdesse il controllo su una fetta di popolazione di cui facevano parte personaggi di
primo piano.
La diffidenza era provocata anche dall’atteggiamento dei cristiani, che apparivano asociali
perché, per vari motivi, non partecipavano alla vita pubblica (le cerimonie pubbliche
erano infatti legate alla religione pagana); gli svaghi collettivi, come il teatro e gli spettacoli
gladiatori, erano sentiti dai cristiani come estranei e intollerabili per la loro violenza e le
oscenità che vi si rappresentavano (specie nelle commedie).
Molto sospetti apparivano ai romani anche i riti “misteriosi” che si svolgevano in case
private, e non nei luoghi aperti in cui si celebravano i riti pagani, e le pratiche
sconosciute che facevano pensare ad atti di cannibalismo (i cristiani mangiavano,
dopotutto, il corpo di un uomo), a pratiche sessuali illecite (parlavano d’amore anche nei
confronti di persone non conosciute), all’incesto (si chiamavano l’un l’altro “fratello” e
“sorella”), all’infanticidio di quel bambino che veneravano. In realtà, come è evidente, i
romani non capivano e avversavano ciò che ignoravano, proprio perché era ignoto e
diverso.
$C Principi inaccettabili e rifiuti
Per i pagani era difficile accettare i principi cristiani
di amore e di perdono, l’idea dell’uguaglianza fra tutti gli uomini, schiavi compresi, la
netta distinzione tra politica e religione, l’intolleranza nei confronti della molteplicità dei
culti dell’impero e soprattutto il rifiuto di venerare l’imperatore, che costituiva un grave
atto di insubordinazione politica. Infatti l’imperatore, un uomo dalle qualità eccezionali,
dotato di poteri straordinari era ormai assimilato alla divinità e i romani credevano nella
necessità di onorare gli dei, che garantivano il benessere collettivo e le fortune dell’impero.
Il cittadino, venerando l’imperatore, dimostrava lealtà nei confronti dello stato, mentre
rifiutandosi di farlo compiva un atto di ribellione, punito nei processi per lesa maestà, che
proliferarono già nei primi decenni dell’impero.
$C Malvisti da tutti Non erano solo i romani, secondo i quali i cristiani veneravano un
malfattore condannato a una morte infamante, a manifestare ostilità nei confronti del
cristianesimo.
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Gli ebrei erano avversi ai cristiani perché questi sostenevano che il messia, dagli
ebrei atteso da secoli, fosse morto crocefisso, un’idea offensiva per la religione ebraica.
Da parte loro, i cristiani cominciarono ad accusare gli ebrei di essere deicidi, uccisori di
Dio, dando così il via all’antisemitismo che avrebbe riproposto le accuse fino a tempi
molto recenti.
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I greci, che ricercavano la sapienza, consideravano una follia credere che un dio si
fosse fatto uomo e che per di più fosse morto e risorto.
$C Le prime persecuzioni
Per i primi due secoli, diffidenze, sospetti e accuse non
provocarono persecuzioni sistematiche: quella di Nerone sfruttava il risentimento popolare
contro i cristiani per allontanare dall’imperatore l’accusa di essere stato lui ad appiccare il
fuoco alla città. Di certo neppure l’imperatore filosofo Marco Aurelio riuscì a capire la
dottrina cristiana, così lontana ed estranea alla cultura greca e romana.
Però, in generale, l’atteggiamento del potere nei confronti dei cristiani può essere
sintetizzato dalla lettera di risposta di Traiano a Plinio il Giovane, il governatore della
Bitinia, che gli chiedeva che cosa fare con i cristiani: chiedere loro di sacrificare
all’imperatore, rispose Traiano, se lo facevano, lasciarli liberi e punirli solo in caso
contrario.
La situazione per i cristiani peggiorò decisamente alla fine del II secolo, quando le prime
invasioni barbariche e l’ondata di epidemie crearono incertezza e inquietudine che
spinsero la gente a cercare un capro espiatorio per sfogare la rabbia: l’adesione al
cristianesimo divenne un crimine punito per legge e iniziarono i primi episodi di martirio.
Proprio l’incredibile atteggiamento di serenità dei cristiani, a volte quasi di gioia, di fronte
alla morte tra atroci sofferenze, suscitò la pietà e l’ammirazione dei romani più sensibili e
rafforzò la religione, che diffuse il culto dei martiri per proporre un’immagine eroica del
cristiano.
Generi e generazioni
La nuova condizione delle donne cristiane oppure Verso nuove forme di controllo
sulle donne
Mentre Gesù aveva ridato dignità persino alle adultere e alle prostitute, ben presto si
cominciarono a profilare posizioni diverse nei confronti delle donne. Accanto e in
contraddizione con l’affermazione della parità di diritti nel matrimonio, già Paolo scriveva
nella prima lettera ai Corinti (1Cor, 11,3.7-9): «capo della donna è l’uomo» e «L’uomo non
deve coprirsi il capo, perché egli è immagine e gloria di Dio; la donna invece è gloria
dell’uomo. E infatti non è l’uomo che deriva dalla donna, ma la donna dall’uomo; né l’uomo
fu creato per la donna, ma la donna per l’uomo». Per di più, Paolo esaltava la castità e
sosteneva che la funzione del matrimonio è principalmente quella di evitare le tentazioni
della carne: «è meglio sposarsi che bruciar dalla passione», ma chi viveva in castità era
più vicino al regno dei cieli.
Mentre la monogamia e l’indissolubilità del matrimonio sembravano tutelare le donne, la
posizione del cristianesimo nei confronti dell’aborto limitò la loro libertà. I romani punivano
l’aborto se la donna lo eseguiva senza il permesso del marito, perché si sottraeva alla sua
potestà. I cristiani sostenevano che il feto era già un uomo – mentre per i romani era solo
“speranza di essere un uomo” – quindi l’interruzione della gravidanza era un omicidio ed
era vietato a tutti, uomini e donne. Di fatto era un modo per limitare il diritto della donna a
gestire il proprio corpo.
Con il tempo, a mano a mano che il vescovo diventava la guida della comunità, le donne
persero anche il diritto a occupare posti di responsabilità nell’ambito della Chiesa e a metà
del II secolo solo alcuni concedevano pari dignità alla donna nelle comunità e pochi
insistevano ancora sulla figura fondamentale di Maria di Magdala. Gli altri, i più,
cominciarono a considerare la donna un pericolo per l’attrazione che esercitava sul
maschio e Tertulliano, uno scrittore cristiano, definiva la donna “la porta del diavolo”.
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