raccolta sentenze 2016

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URBANISTICA
IL TERRENO È MENO EDIFICABILE DEL PREVISTO? NON SI CONFIGURA AUTOMATICAMENTE
L’“ALIUD PRO ALIO”
Corte di Cassazione, Sez. II, Sentenza n.5329 del 17 marzo 2016.
Nell’ipotesi in cui oggetto della compravendita sia un terreno edificatorio, la parziale edificabilità dello stesso, minore
rispetto alle aspettative, non comporta automaticamente la configurabilità di vendita aliud pro alio – incidente, per
converso, sul regime di eventuali eccezioni di prescrizione e decadenza di vizi – dovendo il giudice del merito
provvedere a valutare congruamente se il tipo di edificabilità in concreto attuabile consenta o meno la detta
configurabilità di aliud pro alio.
VARIANTI SEMPLIFICATE
Consiglio di Stato, Sez. IV, Sentenza n.650 del 18 febbraio 2016
In tema di variante semplificata ex art. 5 del d.P.R. nr.
447/1998, l’eventuale esito positivo della Conferenza di servizi
non è in alcun modo vincolante per il Consiglio Comunale, il
quale, siccome organo titolare della potestà pianificatoria,
resta pienamente padrone della propria autonomia e
discrezionalità, potendo discostarsi dalla proposta di variante
e respingerla senza alcun dovere di motivazione puntuale o
“rafforzata”, in quanto l’esito della Conferenza non comporta il
sorgere di alcun affidamento né di aspettative qualificate in
capo al proponente. Tali conclusioni non mutano neanche per il
fatto che nel corso della Conferenza il rappresentante del
Comune abbia assunto posizione favorevole alla variante,
circostanza che comunque non limita in alcun modo l’organo consiliare nelle sue determinazioni.
INTERVENTI SU SUOLO O SU IMMOBILI DI PROPRIETÀ DELL’AMMINISTRAZIONE COMUNALE
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Consiglio di Stato, Sez. VI, Sentenza n.498 dell’ 8 febbraio 2016
Ogni trasformazione edilizia del territorio necessita di essere previamente assentita dall’amministrazione
comunale, anche quando sia quest’ultima proprietaria del suolo ovvero della costruzione oggetto di ristrutturazione
ma l’iniziativa dell’intervento faccia capo a soggetti terzi. Altro è il caso delle opere realizzate a iniziativa della stessa
amministrazione comunale proprietaria, in cui l’approvazione dell’opera con delibera di Consiglio comunale (ovvero
della Giunta, nei casi previsti dalla legge) assorbe ex se - ai sensi dell’art. 7 d.P.R. n. 380 del 2001 - l’ordinario
procedimento abilitativo delle opere edilizie.
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BENI CULTURALI. PROCEDURA DI DEMOLIZIONE ORDINATA DAL GIUDICE
Corte di Cassazione, Sez. III, Sentenza n.8186 del 29 febbraio 2016 .
Poiché il D.Lgs. n. 42 del 22 gennaio 2004 prevede una complessa disciplina per la conservazione dei beni culturali, in
caso di ordine di demolizione disposto dall’Autorità giudiziaria per una delle violazioni descritte dall’art. 169, devono
partecipare alla procedura esecutiva anche il Ministro per i Beni e le attività culturali ed il Sovrintendente
competente per territorio, in ragione del carattere particolarmente tecnico della materia e al fine di evitare che la
rimozione degli effetti dell’illecito penale possa cagionare un pregiudizio al patrimonio culturale ed artistico,
arrecandovi ulteriore danno.
BENI AMBIENTALI.DELITTO PAESAGGISTICO ED INTERVENTI
PRECARI
Corte di Cassazione, Sez. III, Sentenza n.8167 del 29 febbraio 2016
Integra il reato previsto dall'art. 181, comma primo bis, D.Lgs. n. 42 del
2004, la realizzazione su aree vincolate di interventi precari o facilmente
amovibili in difetto di autorizzazione paesaggistica, anche in caso di
occupazione temporanea del suolo per un periodo inferiore a 120 giorni,
trattandosi di attività da svolgere previo necessario assenso dell'Autorità
amministrativa competente, sebbene all'esito di procedura semplificata
DISCIPLINA URBANISTICA PER LE CANNE FUMARIE
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Consiglio di Stato, Sentenza n.553 del 9 febbraio 2016.
Nel caso delle canne fumarie la giurisprudenza considera necessario il
previo rilascio del permesso di costruire, rientrandosi nella categoria dei
lavori di ristrutturazione edilizia di cui all'articolo 3, comma 1, lettera d), del
D.P.R. n. 380 del 2001, realizzati tramite inserimento di nuovi elementi ed
impianti, qualora tali strutture non si presentino di piccole dimensioni,
siano di palese evidenza rispetto alla costruzione e alla sagoma
dell'immobile e non possano considerarsi un elemento meramente
accessorio, ovvero di ridotta e aggiuntiva destinazione pertinenziale, come
tale assorbito o occultato dalla preesistente struttura dell'immobile. Si
ritiene occorrente il permesso di costruire tutte le volte in cui venga in
rilievo un intervento che, per dimensioni, altezza e conformazione, risulti
incidere in modo significativo sul prospetto e sulla sagoma della costruzione
sulla quale la canna fumaria è installata; mentre l’intervento di mera
sostituzione di una canna fumaria, con le stesse dimensioni e identica
localizzazione rispetto alla precedente, va considerato di manutenzione
straordinaria, ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. b) del d.P.R. n. 380 del 2001, soggetto quindi a dia ai sensi dell’art.
22, comma 1 del D.P.R. n. 380 del 2001. E’ anche vero peraltro che in taluni casi, avuto riguardo all’entità, minima,
dell’intervento, si può rientrare nel campo di applicazione di cui all’art. 3 comma 1, lett. a), D.P.R. n. 380 del 2001,
secondo cui sono interventi di manutenzione ordinaria gli interventi edilizi che riguardano le opere di riparazione,
rinnovamento e sostituzione delle finiture degli edifici e quelle necessarie ad integrare o mantenere in efficienza gli
impianti tecnologici esistenti.
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CASSAZIONE: ALLE CANNE FUMARIE NON SI APPLICANO LE PRESCRIZIONI SULLE DISTANZE
Corte di Cassazione, Sez. III, Sentenza n.10618 del 23 maggio 2016
L’installazione di una canna fumaria ad una distanza inferiore ai tre metri, rispetto ad una finestra di un edificio vicino,
è conforme a diritto?
E’ stato questo il quesito sul quale sono stati chiamati a rispondere i giudici della seconda sezione della Corte di
cassazione, aditi da una cittadina genovese la quale riteneva che la Corte d’appello ligure, nel respingere il suo
gravame proposto proprio su questo aspetto, aveva superficialmente negato rilevanza al tema della violazione delle
distanze.
La Corte, però, riprendendo un suo precedente orientamento, ha osservato che la canna fumaria non è una vera e
propria “costruzione”, ma un semplice accessorio di un impianto e quindi non trova applicazione nei suoi riguardi la
disciplina di cui all'art. 907 del Codice civile (che parla dell’attività del “fabbricare”). Viste le caratteristiche del
manufatto di cui si discute (si tratta, in sostanza, di un “semplice” tubo in materiale metallico, secondo i giudici di
Piazza Cavour), perde consistenza ogni disquisizione sulla natura di luci o vedute che sarebbero oscurate dalla
presenza di una canna fumaria.
Questo il principio affermato con la sentenza in esame: che ha visto di nuovo soccombente la tenace cittadina
genovese, la quale però sarà costretta a convivere con l’attigua canna fumaria del vicino.
IL CERTIFICATO DI DESTINAZIONE URBANISTICA HA NATURA DICHIARATIVA.
TAR Lombardia Milano, sez. I, 6 ottobre 2010, n. 6863
«…il certificato di destinazione urbanistica ha carattere meramente dichiarativo e non costitutivo degli effetti giuridici
che dallo stesso risultano, visto che la situazione giuridica attestata nel predetto certificato è la conseguenza di altri
precedenti provvedimenti che hanno provveduto a determinarla (T.A.R. Toscana Firenze, I, 28 gennaio 2008, n. 55):
ciò impedisce all’Amministrazione di rilasciare una certificazione contenente attestazioni non veritiere, ossia
riportante una qualificazione differente da quella attribuita all’immobile dalla normativa urbanistica vigente. Di
conseguenza, non può essere considerato illegittimo il diniego, formulato dal Comune …, in relazione alla richiesta di
rilascio di un certificato di destinazione urbanistica che non rispecchi fedelmente l’effettiva classificazione urbanistica
riguardante l’immobile…».
Consiglio di Stato, Sentenza n. 1466 del 13 aprile 2016
La sentenza della IV Sezione del Consiglio di Stato in esame, in materia di espropriazione per pubblica utilità, è
tornata ad affermare che "l'intervenuta realizzazione dell'opera pubblica non fa venire meno l'obbligo
dell'amministrazione di restituire al privato il bene illegittimamente appreso; e ciò indipendentemente dalle modalità occupazione acquisitiva o usurpativa - di acquisizione del terreno; per tali ragioni, il proprietario del fondo
illegittimamente occupato dall'amministrazione, ottenuta la declaratoria di illegittimità dell'occupazione e
l'annullamento dei relativi provvedimenti, può legittimamente domandare, nel giudizio di ottemperanza, sia il
risarcimento, sia la restituzione del fondo sia la sua riduzione in pristino. La realizzazione dell'opera pubblica sul fondo
illegittimamente occupato è in sè, quindi, un mero fatto, non in grado di assurgere a titolo dell'acquisto, come tale
inidoneo a determinare il trasferimento della proprietà, per cui solo il formale atto di acquisizione dell'amministrazione
può essere in grado di limitare il diritto alla restituzione, non potendo rinvenirsi atti estintivi (rinunziativi o abdicativi,
che dir di voglia) della proprietà in altri comportamenti, fatti o contegni". L'istituto dell'accessione invertita è ormai
definitivamente tramontato anche sulla spinta della giurisprudenza della Corte di Giustizia. Ma la pubblica
amministrazione, una volta realizzata l'opera, ha comunque la possibilità di acquisire il terreno (o, forse, sarebbe
meglio dire di "legalizzare l'illegalità" come hanno commentato autorevoli giuristi) applicando l'art. 42 bis del DPR n.
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CONSIGLIO DI STATO: ESPROPRIAZIONI
327/2001 (cd. acquisizione sanante), recentemente dichiarato legittimo dalla Corte Costituzionale con la sentenza n.
71/2015.
DISTANZE MINIME: LE OPERE PIÙ VICINE DEL DOVUTO VANNO DEMOLITE ANCHE SE
RISPETTANO I CONTENUTI DEI TITOLI ABILITATIVI
Tar Lazio, Sentenza 9879/2016
Il Tar Lazio ha stabilito che i privati non possono accordarsi per effettuare interventi edilizi che violano le distanze
minime tra edifici, ordinando la demolizione. I giudici hanno ricordato che costruire ad una distanza inferiore a quella
minima prevista dalle norme in vigore è un’irregolarità che non riguarda solo i rapporti tra privati, ma anche la sfera
pubblicistica. Se è vero che l’Ente locale deve accertarsi del rispetto dei titoli abilitativi, senza entrare nei rapporti tra
privati, d’altra parte il Tar ha affermato che la violazione delle distanze rientra tra i rapporti pubblicistici e deve essere
subito sanzionata.
IL CALCOLO PER I LIMITI DI ALTEZZA- SENTENZA DELLA CASSAZIONE
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Corte di Cassazione sentenza n. 9133/2016
Con la sentenza in esame, la sezione penale della Corte di Cassazione ha di nuovo affrontato il problema interpretativo
relativo all'individuazione della quota a partire dalla quale misurare, ai fini della sua conformità al modello assentito,
l'altezza di un edificio: se cioè tale quota debba corrispondere al cosiddetto piano di campagna o se la stessa vada
individuata nel livello superiore del marciapiede circostante l'edificio.
Secondo la Cassazione è ancora condivisibile “il principio esposto da questa Sezione con la sentenza n. 1272 del 1983,
secondo la quale in tema di costruzione di un fabbricato ai fini del rispetto dei limiti di altezza, il relativo calcolo va
operato facendo riferimento al piano di posa dell'edificio che, dovendo essere perfettamente orizzontale, deve, se il
piano naturale di campagna sia inclinato e presenti livelli diversi, essere determinato calcolando la media delle misure
dei vari punti del perimetro esterno della costruzione”.
Tale principio secondo la Corte è preferibile a quello secondo il quale l'altezza dell'edificio va calcolata al netto della
altezza del marciapiede circostante, in quanto “solo il primo criterio, assicurando la univoca oggettività del piano di
impostazione del manufatto, non suscettibile di variazioni legate
alle diverse scelte costruttive del marciapiede nei singoli punti in
cui esso è realizzato, appare più conforme ad assicurare, sotto il
profilo del decoro della edilizia urbana, il rispetto di un criterio
uniforme di calcolo in maniera che si evitino difformità, sia pure
contenute, nei livelli di colmo degli edifici”, difformità che
“sarebbero legate a scelte, anche eventualmente interessate,
coinvolgenti l'altezza di elementi accessori all'edificio quale
potrebbe essere appunto il circostante marciapiede; ciò tanto più
in un'ipotesi in cui, come nella presente fattispecie, il marciapiede
ancora non è stato realizzato e nella quale, pertanto, la sua
maggiore o minore altezza rispetto al piano sottostante potrebbe
incidere su pregresse scelte costruttive, rendendo lecito,
attraverso una sapiente modulazione dei livelli costruttivi di esso, ciò che, invece tale originariamente non era”
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DECADENZA DEL PERMESSO DI COSTRUIRE E PROROGA DEI TERMINI
Consiglio di Stato, Sezione IV, Sentenza n.1520 del 15 aprile 2016
Il Consiglio di Stato, con la sentenza in esame, si è espresso sulla natura – dichiarativa ovvero costitutiva – del
provvedimento di decadenza del permesso di costruire per mancata osservanza dei termini di inizio e di conclusione
dei lavori e sulle possibili giustificazioni che consentono di ottenere la proroga di detti termini, con particolare
riferimento all'attuale crisi congiunturale dell'edilizia.
La decadenza del permesso di costruire costituisce l’effetto automatico dell’inutile decorso dei termini entro cui i
lavori si sarebbero dovuti iniziare e concludere. Pertanto, essa ha natura non già costitutiva, bensì dichiarativa con
efficacia “ex tunc” d’un effetto verificatosi “ex se” e direttamente. In tal modo va letto l’art. 15, c. 2, II per. del D.P.R.
n. 380/2001 (T.U. edilizia), in virtù del quale, inutilmente decorsi detti termini, «…il permesso decade di diritto per la
parte non eseguita, tranne che, anteriormente alla scadenza, venga richiesta una proroga…».
In base all'art. 15 del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, i termini entro i quali i lavori si sarebbero dovuti iniziare o
concludere possono esser prorogati con provvedimento motivato solo per fatti sopravvenuti estranei alla volontà del
titolare del permesso di costruire, o in considerazione della mole dell'opera da realizzare o di particolari sue
caratteristiche tecnico-costruttive. La crisi congiunturale dell'edilizia non è pertanto una valida ragione opponibile
all’inutile decorso dei termini predetti, né per giustificare l'inerzia del titolare del permesso di costruire, perché fa
riferimento a considerazioni generiche non rilevanti rispetto all'obbligo di osservare i tempi d’inizio e completamento
dei lavori.
Corte di Cassazione, sez. II Civile, Sentenza n. 10265 del 18 maggio2016
La Cassazione ha ribadito che, secondo la sua precedente
giurisprudenza, dalla quale non v’è ragione di discostarsi, nelle
controversie tra privati derivanti dall’esecuzione di opere
edilizie non conformi alle prescrizioni di leggi o degli strumenti
urbanistici, viene sempre e soltanto in rilievo la lesione di
diritti soggettivi attribuiti ai privati dalle norme medesime,
anche se trattasi di norme non integrative di quelle dettate
dal codice civile in materia di distanze fra le costruzioni,
mentre la rilevanza giuridica della concessione edilizia si
esaurisce nell’ambito del rapporto pubblicistico tra
l’amministrazione e il richiedente (Sez. U, Ordinanza n. 21578
del 19/10/2011).
Ha, quindi, ricordato che, ai sensi dell’art. 5 della legge 20 marzo 1865 n. 2248 All. E., il giudice ordinario ha il potere di
disapplicare l’atto amministrativo illegittimo e, a tal fine, può sindacare tutti i possibili vizi di legittimità dei
provvedimento amministrativo (incompetenza, violazione di legge e eccesso di potere), alla stessa stregua del giudice
amministrativo; anche se non ha il potere (come peraltro lo stesso giudice amministrativo) di sostituire
l’amministrazione negli accertamenti e valutazioni di merito che ad essa competono (cfr. da ultimo Sez. L, Sentenza n.
14728 del 2610612006, Rv. 590927).
La Corte di Appello, nel caso di specie, aveva sindacato la legittimità della concessione in deroga rilasciata dal comune,
in conformità ai richiamati principi di diritto, pervenendo alla conclusione della sua illegittimità per contrasto con le
norme regionali vigenti. In particolare, la Corte territoriale aveva spiegato le ragioni per le quali, nel caso di specie,
non ricorrevano le condizioni per concedere la deroga sulle distanze legali prevista dall’art. 5 del detto decreto
assessoriale regionale. Il Giudice di merito aveva concluso, perciò, per la sussistenza, nel caso oggetto di giudizio, della
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OPERA REALIZZATA IN VIOLAZIONE DELLE DISTANZE LEGALI: TUTELATI I DIRITTI SOGGETTIVI
ATTRIBUITI AI PRIVATI
violazione della disciplina sulle distanze legali, dovendosi fare applicazione del regolamento edilizio del comune
Sassari del 1997 che prevedeva una distanza di metri 10 in caso di pareti finestrate, nella specie non rispettata.
Secondo la Cassazione la Corte di merito ha giustificato la sua decisione con una motivazione esauriente, esente da
vizi logici e giuridici; cosicché ha ritenuto la doglianza del ricorrente infondata ribadendo, quindi, i principi di cui sopra
in materia di distanze legali.
URBANISTICA. REQUISITI DEI VOLUMI TECNICI
Corte di Cassazione, Sez. III, Sentenza n. 22255 del 27 maggio 2016
Per le loro caratteristiche i volumi tecnici non rientrano nel conteggio dell'indice edificatorio, perché non generano
carico urbanistico, hanno quale unico scopo quello di migliorare la funzionalità e la salubrità delle costruzioni e sono
privi di una propria autonomia funzionale, anche potenziale. Conseguentemente, restano esclusi da tale novero
quegli interventi che assolvono funzioni complementari all'abitazione (quali quelli di sgombero, le soffitte e gli
stenditoi chiusi) e che vanno dunque computati ai fini del calcolo della volumetria complessiva.
Corte Costituzionale, Sentenza n.178 del 15 luglio 2016
Il Presidente del Consiglio dei Ministri si è rivolto alla Corte Costituzionale su una questione di legittimità
costituzionale in merito ad una modifica legislativa fatta dalla Regione Marche.
La legge Regione Marche n. 16 del 13 aprile 2015, modificava l’art. 35 della precedente legge regionale n. 33 del 4
dicembre 2014, introducendo l’espressione “e di ogni trasformazione” al posto di “ovvero di ogni altra
trasformazione”.
In particolare, la nuova disposizione, in attuazione dell’art. 2-bis del dpr 380/2001 (secondo cui le regioni possono
introdurre deroghe, entro certi limiti, a quanto previsto dal dm 1444/1968 nell’ambito della definizione o revisione di
strumenti urbanistici), prevede che:
“gli edifici esistenti, che siano oggetto di interventi di qualificazione del patrimonio edilizio esistente, di
riqualificazione urbana, di recupero funzionale, di accorpamento e di ogni trasformazione [la vecchia versione
recitava “ovvero di ogni altra trasformazione”] espressamente qualificata di interesse pubblico dalla disciplina
statale e regionale vigente, possono essere demoliti e ricostruiti all’interno dell’area di sedìme o aumentando la
distanza dagli edifici antistanti, anche in deroga ai limiti di cui all’articolo 9 del decreto del Ministro dei Lavori
pubblici 2 aprile 1968, n. 1444”
La Corte Costituzionale, con la sentenza in esame, dichiara l’illegittimità costituzionale della modifica al testo di legge
eseguita dalla Regione Marche.
Le norme regionali che intervengono sulle distanze tra fabbricati, in deroga al dm 1444/1968, sono legittime solo
nel caso in cui si persegua chiaramente una finalità di carattere urbanistico. In caso contrario la competenza
esclusiva è dello stato e quindi non si può interferire con l’ordinamento civile.
Infatti, in tema di disciplina delle distanze tra fabbricati, l’art. 9 del dm 1444/1968 ammette distanze inferiori a
quelle stabilite dalla normativa statale, ma solo nel caso di gruppi di edifici oggetto di piani particolareggiati o
lottizzazioni convenzionate con previsioni plano-volumetriche.
Per effetto delle modifiche lessicali effettuate al previgente testo di legge potrebbero anche essere realizzati
interventi “puntuali” (su singoli edifici), che non sono oggetto di un più ampio intervento di trasformazione o
comunque funzionali ad un assetto complessivo o unitario di specifiche aree territoriali.
Per questi motivi, dunque, la Corte Costituzionale rileva la violazione dei parametri costituzionali di riferimento ed
accoglie la richiesta del Presidente del Consiglio dichiarando illegittima la modifica legislativa eseguita dalla Regione
Marche.
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DEMOLIZIONE RICOSTRUZIONE E DISTANZE TRA EDIFICI
PIANIFICAZIONE URBANISTICA: LA NOZIONE DI LOTTO INTERCLUSO
Consiglio di Stato, Sentenza n. 3293 del 20 luglio 2016
La Quarta Sezione del Consiglio di Stato nella sentenza in commento ha, tra l'altro, evidenziato che dal punto di vista
urbanistico, un lotto non può qualificarsi come “lotto intercluso" se è confinante con un’altra area più vasta
anch’essa inedificata per cui non può dirsi che il terreno edificabile sia l’unico a non essere stato ancora edificato
(Cons. Stato Sez. IV 7/11/2014 n. 5488). Peraltro la nozione di lotto intercluso in tema di pianificazione urbanistica aggiunge il Collegio - ha una sua valenza quando non si rinviene spazio giuridico per un’ulteriore pianificazione
(Cons. Stato Sez. IV 17/7/2013 n. 3880; idem 21712/2012 n. 6656), stante la presenza di sufficienti opere di
urbanizzazione primaria e secondaria, ma non è questo il caso che ci occupa, posto che in loco non è possibile
ravvisare la sussistenza di un’adeguata dotazione degli standard urbanistici prescritti dal d.m. n.1444/1968. Invero,
anche a voler ammettere, come in sostanza rivendica il ricorrente, che la zona sia parzialmente urbanizzata, questo
non equivale a consentire di prescindere dalla previa approvazione di uno strumento attuativo proprio perché
l’ulteriore edificazione espone la zona in cui è inserita l’area de quaal rischio di compromissione definitiva dei valori
urbanistici, mentre la pianificazione attuativa può ancora conseguire l’effetto di correggere e compensare il disordine
edificativo in atto nonché di assicurare un armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo.
RAPPORTI DI VICINATO E VINCOLI DI INEDIFICABILITA
Corte di Cassazione, sez. II Civile, Sentenza n. 15458 del 26 luglio 2016
A tenore dell’art. 900 cod. civ., le luci sono costituite dalle finestre e dalle altre aperture sul fondo del vicino che
danno passaggio alla luce e all’aria, ma non permettono di affacciarsi sul fondo predetto; ne consegue che non
costituisce “luce” una rete metallica apposta all’aperto sul confine col fondo del vicino, la quale non svolga la
funzione di dare luce ed aria ad una fabbrica, ma serva solo alla protezione delle proprietà o – trattandosi di fondi
in dislivello – anche di tutela della incolumità delle persone.
Sussiste violazione delle prescrizioni dettate in materia di distanze minime tra fabbricati dall’art. 9 del d.m. 2 aprile
1968 n. 1444 sia qualora il regolamento locale preveda distanze inferiori a quelle minime prescritte sia qualora il
detto regolamento non preveda alcuna distanza tra fabbricati relativamente ad una o più zone territoriali
omogenee dal medesimo individuate. In tali casi, si determinerà l’inserzione automatica, nello strumento urbanistico,
della disciplina dettata dal detto art. 9 e tale disciplina si sostituirà ipso iure alle disposizioni regolamentari illegittime,
divenendo così parte integrante del regolamento comunale e immediatamente operante – in virtù della natura
integrativa del regolamento rispetto all’art. 873 cod. civ. – anche nei rapporti fra privati. In tal caso, non potranno
trovare applicazione né i criteri stabiliti dall’art. 873, né quelli di cui all’art. 17 primo comma legge n. 765 del 1967.
Quando lo strumento urbanistico comunale prevede un vincolo di inedificabilità assoluta con divieto di alterazione
dei volumi preesistenti, a tutela del carattere storico, artistico o di particolare pregio ambientale di una parte del
territorio, tale vincolo, per la sua funzione conformativa rispetto al territorio che mira a regolare, ha – per sua
natura – carattere inderogabile e non è soggetto a limiti temporali, potendo venir meno solo in forza delle diverse
previsioni di uno strumento urbanistico successivo.
Corte Costituzionale, Sentenza n. 193 del 20 luglio 2016
Non si rinviene nel quadro delle garanzie apprestato dalla CEDU, come interpretate dalla Corte di Strasburgo,
l'affermazione di un vincolo di matrice convenzionale in ordine alla previsione generalizzata, da parte degli
ordinamenti interni dei singoli Stati aderenti, del principio della retroattività della legge più favorevole, da trasporre
nel sistema delle sanzioni amministrative.
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SANZIONI AMMINISTRATIVE: NON VALE LA RETROATTIVITÀ DELLA LEGGE SUCCESSIVA PIÙ
FAVOREVOLE
Nella specie, il Tribunale di Como sollevava questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, L. 24 novembre 1981, n.
689, nella parte in cui non prevede l'applicazione all'autore dell'illecito amministrativo della legge successiva più
favorevole, in quanto in contrasto con gli artt. 3 e 117, primo comma, Cost., e quest'ultimo in relazione agli artt. 6 e 7
della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4
novembre 1950 e ratificata e resa esecutiva in Italia con la l. 4 agosto 1955, n. 848. Come noto, il principio di legalità
prevede che nessuno possa essere assoggettato a sanzioni amministrative se non in forza di una legge che sia
entrata in vigore prima della commissione della violazione; le leggi che prevedono sanzioni amministrative si
applicano solo nei casi e per i tempi in esse considerati. Secondo il giudice rimettente, la violazione dell'art. 117,
primo comma, Cost., in relazione agli artt. 6 e 7 CEDU, risiederebbe nel contrasto della disposizione censurata con il
principio di retroattività della norma più favorevole, principio che sarebbe applicabile anche alle sanzioni
amministrative.
La giurisprudenza della Grande Camera, infatti, ha più volte sottolineato come l'art. 7 CEDU non sancisca solo il
principio di irretroattività delle leggi penali più severe, ma anche implicitamente il principio delle retroattività della
legge penale meno severa; “le disposizioni che definiscono le infrazioni e le pene sottostanno a delle regole particolari
in materia di retroattività che includono anche il principio di retroattività della legge penale più favorevole
all'imputato” (decisione 27 aprile 2010, Morabito contro Italia).
Secondo i giudici delle leggi, nell'affermare il principio della retroattività del trattamento sanzionatorio più mote, la
giurisprudenza della Corte europea non ha mai avuto ad oggetto il sistema delle sanzioni amministrative
complessivamente considerato, ma singole discipline sanzionatorie, in particolare quelle che, pur qualificandosi come
amministrative, siano idonee ad acquisire caratteristiche punitive alla luce dell'ordinamento convenzionale.
“L'intervento additivo invocato dal rimettente risulta, quindi, travalicare l'obbligo convenzionale: esso è volto ad
estendere la portata del principio della retroattività della lex mitior al complessivo sistema sanzionatorio
amministrativo, finendo così per disattendere la necessità della preventiva valutazione della singola sanzione come
convenzionalmente penale”.
Anche con riferimento all'art. 3 Cost., la costante giurisprudenza della Corte Costituzionale ha affermato che in
materia di sanzioni amministrative non è dato rinvenire un vincolo costituzionale nel senso dell'applicazione in ogni
caso della legge successiva più favorevole, rientrando nella discrezionalità del legislatore, nel rispetto del limite della
ragionevolezza, modulare le proprie determinazioni secondo criteri di maggiore o minore rigore in base alle materie
oggetto di disciplina (ordinanze n. 245 del 2003 e n. 501 del 2002).
IMPUGNAZIONE DEL PERMESSO DI COSTRUIRE RILASCIATO A TERZI
Consiglio di Stato, Sez. VI , Sentenza n. 3191 del 18 luglio 2016
In caso di impugnativa da parte del vicino di un permesso di costruire rilasciato a terzi, il termine di impugnazione
inizia a decorrere, in linea di principio, dal completamento dei lavori o, comunque, dal momento in cui la
costruzione realizzata è tale che non si possono avere dubbi in ordine alla portata dell'intervento. Al contempo,
tuttavia, il principio di certezza delle situazioni giuridiche e di tutela di tutti gli interessati comporta che non si possa
lasciare il soggetto titolare di un permesso di costruire edilizio nell'incertezza circa la sorte del proprio titolo oltre una
ragionevole misura, poiché, nelle more, il ritardo dell'impugnazione si risolverebbe in un danno aggiuntivo connesso
all'ulteriore avanzamento dei lavori che, ex post, potrebbero essere dichiarati illegittimi.
Corte di Cassazione, sez. III Penale, Sentenza n. 35212 del 22 agosto 2016
La demolizione del manufatto abusivo, anche se disposta dal giudice penale ai sensi dell’art. 31, comma 9, d.P.R.
380/2001, qualora non sia stata altrimenti eseguita, ha natura di sanzione amministrativa che assolve ad
un’autonoma funzione ripristinatoria del bene giuridico leso. La demolizione configura un obbligo di fare, imposto
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ORDINE DI DEMOLIZIONE DI UN MANUFATTO ABUSIVO
per ragioni di tutela del territorio che non ha finalità punitive ed ha carattere reale, producendo effetti sul soggetto
che è in rapporto con il bene, indipendentemente dall’essere stato o meno quest’ultimo l’autore dell’abuso.
Con tali motivazioni la Corte di Cassazione, con la sentenza in commento, ha respinto il ricorso presentato da una
signora nei cui confronti il tribunale di Napoli – Sez. distaccata di Ischia, in funzione di giudice dell’esecuzione, aveva
respinto la richiesta di revoca o annullamento dell’ordine di demolizione emesso a seguito dell’intervenuta
irrevocabilità della sentenza di patteggiamento emessa del medesimo tribunale.
Per il supremo Collegio, in ragione delle caratteristiche suddette, infatti, l’ordine di demolizione impartito dal giudice
non può essere considerato una “pena” alla stregua dell’art. 7 della Cedu, in quanto non è finalizzato ad una punizione
per impedire ulteriori trasgressioni a prescrizioni stabilite dalla legge, ma il suo scopo è quello di una riparazione
effettiva del danno. La stessa Corte Edu, nella sentenza Sud Fondi c. Italia del 20 gennaio 2009, si è espressa
considerando tale sanzione come giustificata rispetto allo scopo perseguito dalle norme interne di assicurare una
ordinata programmazione e gestione degli interventi edilizi e non contrastante con le norme Cedu.
L’emissione di un ordine di demolizione, inoltre, prescinde dall’individuazione di responsabilità soggettive: la
demolizione può, infatti, ben effettuarsi anche nel caso di alienazione del manufatto abusivo a terzi estranei al reato.
Data quindi la configurabilità dell’ordine di demolizione come obbligo di fare, non può essere soggetto alla
prescrizione quinquennale stabilita per le sanzioni amministrative dall’art. 28 della l. 689/1981, che riguarda le
sanzioni pecuniarie con finalità punitiva e, stante la sua natura di sanzione amministrativa, non si estingue neppure
per il decorso del tempo ai sensi dell’art. 173 c.p., atteso che quest’ultima disposizione si riferisce alle sole pene
principali.
ASPETTO E DECORO ARCHITETTONICO: NOZIONI E SOVRAPPOSIZIONI
Corte di Cassazione, sez. VI Civile, Sentenza n. 17350 del 25 agosto 2016
Decoro e aspetto architettonico sono complementari ma al tempo stesso diversi. Le loro relazioni e i parametri di
distanza tra i due concetti, ancora una volta, vengono ribaditi dalla Corte di Cassazione nella sentenza in esame. Per la
Suprema Corte, mentre la nozione dell'aspetto architettonico, contenuta nell'art. 1127 del Codice Civile e relativo
alla facoltà dei condomini di costruire in sopraelevazione, coinvolge una serie di valutazioni connesse alla
compatibilità con lo stile architettonico dell'edificio (Cass., sez. 2, n. 1025 del 2004), il decoro dell'immobile (art.
1120 del Codice Civile) si esprime nell'omogeneità delle linee e delle strutture architettoniche, ossia nell'armonia
estetica dell'edificio (Cass., sez. 2, n. 10350 del 2011).
A rinforzo di quanto sopra, la Cassazione ribadisce che "le due nozioni, a luce meridiana, vivono un rapporto di stretta
complementatarietà, tale da escludere uno iato netto tra le due, le quali appaiono anzi l'un l'altra imprescindibili,
risolvendosi la valutazione di continuità stilistica in una verifica del rispetto delle direttive architettoniche impresse dal
progettista".
Nella contestazione specifica, il giudice distrettuale ha ancor meglio precisato che, "a prescindere dall'applicabilità o
meno dei principi dettati dalla giurisprudenza per il decoro, l'opera realizzata è venuta a modificare illegittimamente
l'aspetto architettonico dell'edificio, non solo tenendo conto del suo aspetto originario, ma anche alla luce delle
modifiche apportate nel corso degli anni ed emerse nella consulenza tecnica d'ufficio".
Corte di Cassazione, Sez. III, Sentenza n. 35243 del 22 agosto 2016
La mera attività di indagine geotecnica, quand'anche avvenuta, non può comunque costituire "inizio dei lavori" (al
pari, peraltro, degli sbancamenti di terreno), occorrendo a tal fine la compiuta organizzazione del cantiere e la
presenza di altri indizi idonei a confermare l'effettivo intendimento del titolare del permesso di costruire di
realizzare l'opera assentita, quali l'impianto del cantiere, l'innalzamento di elementi portanti, l'elevazione di muri e
l'esecuzione di scavi coordinati al gettito delle fondazioni del costruendo edificio.
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NOZIONE DI INIZIO DEI LAVORI AI SENSI DELLA DISCIPLINA URBANISTICA
DISTINZIONE TRA RESTAURO E RISTRUTTURAZIONE EDILIZIA
Consiglio di Stato, sez. VI, Sentenza n. 3532 del 4 agosto 2016
La distinzione tra la categoria del restauro e risanamento conservativo e quella della ristrutturazione edilizia riposa,
più che sulla specifica tipologia degli interventi realizzabili (in gran parte comuni), sull’elemento funzionale, risultando
la prima destinata alla conservazione dell’organismo preesistente e la seconda alla trasformazione dello stesso.
Corte di Cassazione, Sentenza n. 13358 del 02 agosto 2016
L'ascensore realizzato tra fabbricati adiacenti deve rispettare le
distanze legali delle vedute se installato all'interno della
proprietà individuale.
Niente deroghe alle distanze legali se l'ascensore privato sorge
in un cortile non comune ma di proprietà esclusiva e i
manufatti che circondano il cortile, pur aderenti, non
costituiscono un unico fabbricato. Non si applica la disciplina
speciale prevista dalla normativa anti-barriere architettoniche.
Questo, in sintesi, quanto deciso dalla seconda sezione civile
della Corte di Cassazione con la sentenza in commento.
L'ascensore realizzato tra fabbricati adiacenti deve rispettare le
distanze legali delle vedute se installato all'interno della proprietà individuale, dunque non comune o
condominiale.
Inutile invocare le deroghe alle distanze legali previste dalla legge n. 13/1989 sulle barriere architettoniche:
l'ascensore va rimosso se sorge in un cortile di proprietà esclusiva e i manufatti, pur aderenti, non costituiscono un
unico fabbricato.
La Suprema corte ha rigettato il ricorso del proprietario di un immobile con annesso cortile interno, che aveva
realizzato un ascensore senza rispettare le distanze legali rispetto alle finestre dell'edificio confinante, di proprietà
diversa, che si affaccia sullo stesso cortile.
Nel caso di specie mancano i presupposti per poter invocare la disciplina anti-barriere architettoniche. Innanzitutto, il
cortile che ospitava la struttura dell'ascensore non è di proprietà comune o di uso comune a più fabbricati, ma di
proprietà e uso esclusivo del ricorrente.
Inoltre, i due edifici, anche se aderenti, non fanno parte di un unico fabbricato e costituiscono due proprietà distinte.
“Se è vero– osserva la suprema Corte – che il primo comma dell'articolo 3 della legge 13/1989 (relativo alla deroga alle
distanze previste dai regolamenti edilizi) contempla, oltre ai cortili "comuni o in uso comune a più fabbricati", anche i
cortili "interni”, indipendentemente dal regime dominicale di questi ultimi, ciò tuttavia non consente di pervenire alla
cassazione della sentenza gravata, perché quest'ultima risulta autonomamente sorretta dall'affermazione che
l'obbligo del ricorrente di rispettare le distanze dai confini e dalle vedute previste dal codice civile deriva, nella
fattispecie, dal disposto del secondo comma del suddetto articolo”.
Per comprendere il caso in esame, è utile anzitutto ricordare quanto previsto dall'art. 3 della Legge n. 13/1989. Tale
articolo dispone che le innovazione dirette ad eliminare le barriere architettoniche (tra le quali l'installazione di
ascensori) “possono essere realizzate in deroga alle norme sulle distanze previste dai regolamenti edilizi, anche per i
cortili e le chiostrine interni ai fabbricati o comuni o di uso comune a più fabbricati”. Il secondo comma dispone che
“E' fatto salvo l'obbligo di rispetto delle distanze di cui agli articoli 873 e 907 del codice civile nell'ipotesi in cui tra le
opere da realizzare e i fabbricati alieni non sia interposto alcuno spazio o alcuna area di proprietà o di uso comune”
Nella vicenda in oggetto di giudizio, Tizia, premesso di essere proprietaria di un appartamento in un fabbricato che
chiude interamente un cortile interno di proprietà esclusiva di Caio, e che in tale cortile quest'ultimo aveva realizzato
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L'ASCENSORE REALIZZATO TRA FABBRICATI ADIACENTI DEVE RISPETTARE LE DISTANZE LEGALI
DELLE VEDUTE
un ascensore che non rispettava le distanze legali rispetto alla finestra dell'attrice che sul medesimo si affaccia, citava
Caio per la rimozione dell'ascensore.
Caio contestava la fondatezza della domanda, affermando la legittimità dell'opera, realizzata a norma di legge n.
13/1989 sul superamento delle barriere architettoniche.
Come anticipato, il Tribunale prima, e la Corte d'appello poi, hanno accolto la domanda dell'attrice ed escluso la
possibilità di derogare alla disciplina sulle distanze per eliminare le barriere architettoniche, sulla base di una duplice
ratio decidendi.
La deroga di cui al primo comma dell'art. 3 della legge n. 13/89 alle distanze previste dai regolamenti locali non è
applicabile alla fattispecie perché il cortile ove è stato collocato l'ascensore è in proprietà individuale e non in
proprietà comune o condominiale;
In ogni caso, l'obbligo di rispettare le distanze dai confini e dalle vedute previste dal codice civile deriverebbe, nella
fattispecie, dal disposto del secondo comma del suddetto articolo.
La decisione è stata conformata dalla Corte di Cassazione, a cui il proprietario dell'ascensore era ricorso per contestare
la sentenza d'appello. Secondo quest'ultimo, entrambi i punti sopra elencati erano errati.
Quanto alla prima ragione, sarebbe irrilevante che il cortile sia in proprietà esclusiva, perché il citato art. 3 della L. n.
13/89 fa rifermento non solo ai “cortili comuni a più fabbricati” ed ai “cortili in uso comune a più fabbricati”, ma anche
ai “cortili interni”, indipendentemente dalla circostanza che essi siano in proprietà comune o condominiale o
individuale. Quanto al secondo punto, nella fattispecie non si applicherebbe la disposizione di cui al secondo comma
del suddetto art. 3, perché la stessa riguarderebbe la distanza tra le opere da realizzare e i fabbricati alieni, mentre
l'ascensore di cui si tratta è collocato all'interno di un fabbricato condominiale. La suprema Corte, però, è di avviso
contrario. Se è vero che il primo comma dell'art. 3 della L. n. 13/89 (relativo alla deroga alle distanze previste dai
regolamenti edilizi) contempla, oltre ai “cortili i uso comune a più fabbricati”, anche i cortili “interni”, tuttavia nel caso
di specie l'obbligo di rispettare le distanze legali dai confini e dalle vedute previste dal codice civile deriva, nella
fattispecie, dal disposto del secondo comma del suddetto articolo. Nella sentenza impugnata, infatti, è stato accertato
non solo che non condominiale il cortile in cui è installata la colonna dell'ascensore, ma anche che non è
condominiale, cioè non appartiene al medesimo fabbricato di cui fa parte l'unità immobiliare della controparte, la
muratura perimetrale a cui detta colonna si appoggia. Non ci sono dunque i presupposti per poter applicare la
disciplina anti barriere architettoniche. Di conseguenza niente deroga alle distanze legali: l'ascensore va rimosso.
L'INTERVENTO EDILIZIO È UNA RISTRUTTURAZIONE SOLO SE C'È PREESISTENTE CONSISTENZA
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Corte di Cassazione, Sentenza n. 44921 del 25 ottobre 2016
Per qualificare un intervento edilizio alla voce ristrutturazione edilizia, è assolutamente necessario accertarne tramite riscontri documentali o altri elementi certi e verificabili - la preesistente "consistenza", intesa come il
complesso di tutte le caratteristiche essenziali dell'edificio, quali volumetria, altezza, struttura complessiva.
Lo ha ribadito la Cassazione, che con la sentenza in esame, è nuovamente intervenuta sulla possibilità di individuare
un intervento edilizio come ristrutturazione.
Perché, quindi, l'intervento sia assoggettabile al regime semplificato e quindi a Scia, deve esistere - secondo i giudici
supremi - "un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura", oppure serve
"l'accertamento della preesistente consistenza dell'immobile in base a riscontri documentali, alla verifica
dimensionale del sito o ad altri elementi certi e verificabili, nonché, in ogni caso, il rispetto della sagoma della
precedente struttura".
Se manca anche uno solo di tali elementi, decade anche la possibilità di escludere, per l'intervento, il permesso di
costruire (art. 30 del decreto legge 69/2013).
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IMPUGNAZIONE DI TITOLI EDILIZI ED INTERESSE E LEGITTIMAZIONE A RICORRERE
Consiglio di Stato, Sez. IV, Sentenza n.4380 del 20 ottobre 2016
Sebbene l’art. 31 nono comma, della legge 17 agosto 1942, n. 1150 sia stato formalmente abrogato dall’art. 136,
comma 1, lett. a), del d.P.R. n. 380 del 2001, in ordine all’impugnazione dei titoli edilizi deve essere riconosciuta una
posizione qualificata e differenziata solo in favore dei proprietari di immobili siti nella zona in cui la costruzione è
permessa e a coloro che si trovano in una situazione di "stabile collegamento" con la stessa. Di conseguenza, è
legittimato a impugnare il titolo edilizio ad altri rilasciato il soggetto in questa situazione che, dolendosi del mancato
rispetto di una servitù di non edificazione gravante sul terreno della controparte e della perdita di valore di mercato
dell’immobile di proprietà, censuri l’alterazione dello stato dei luoghi e la violazione dell’ordine urbanistico,
indipendentemente dalla circostanza dell’aver fornito la prova che i lavori contestati abbiano provocato uno specifico
danno e, in particolare, una diminuzione del valore economico dei beni, costituendo questa una questione di merito
irrilevante sulla condizione dell'azione.
LA PREDISPOSIZIONE DI IMPIANTI TECNOLOGICI È CAMBIO DI DESTINAZIONE D'USO
Corte di Cassazione, sez. III Penale, Sentenza n. 49840 del 24 novembre 2016
In tema di reati edilizi, la modifica di destinazione d'uso è integrata anche dalla realizzazione di sole opere interne,
come ad esempio nel caso di mutamento in abitazione del sottotetto mediante la predisposizione di impianti
tecnologici sottotraccia. In particolare, è configurabile il reato di cui all'art. 44, comma 1, lett. b), d.P.R. n. 380/2001,
commesso mediante il mutamento abusivo, con opere, della destinazione d'uso di un immobile, quando viene
effettuata la predisposizione di impianti tecnologici sottotraccia all'interno di un vano autorizzato come “vuoto
tecnico”, in quanto tale tipologia di intervento costituisce circostanza idonea per ritenere la destinazione abitativa
dell'immobile. Inoltre, nel caso di modifica della destinazione d'uso realizzata mediante l'esecuzione di opere edili, il
reato si consuma sin dall'inizio dei lavori, non essendo necessario attenderne il completamento.
VALUTAZIONE IMPATTO
PROGETTAZIONE
AMBIENTALE
RIFERITA
ALLA
FASE
PRELIMINARE
DELLA
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Consiglio di Stato, Sez. IV, Sentenza n.4179 del 11 ottobre 2016
La normativa nazionale è conforme a quella comunitaria, nella parte in cui la stessa riferisce la valutazione di impatto
ambientale alla fase preliminare della progettazione delle grandi opere, anziché a quella definitiva, considerato che, in
base alla stessa, il primo livello di progettazione individua in modo adeguatamente approfondito e sviluppato tutti gli
elementi dell’opera che possono avere incidenza sull’ambiente, in modo da non poter essere modificato dal
successivo livello di progettazione.
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EDILIZIA
ONERI DI URBANIZZAZIONE DOVUTI ANCHE SE IL PERMESSO SCADE E NON SI COSTRUISCE PIÙ
Consiglio di Stato, Sentenza n. 260 del 27 gennaio 2016
Gli oneri di urbanizzazione devono essere pagati per il solo fatto di aver ottenuto il permesso di costruire, anche se poi
il cantiere non parte. Lo ha stabilito ilConsiglio di Stato con la sentenza 260/2016.
Nel caso preso in esame, il Comune aveva rilasciato il permesso di costruire a un costruttore che aveva pagato il costo
di costruzione, ma non gli oneri di urbanizzazione.
Il permesso di costruire aveva autorizzato la realizzazione di un edificio in ambito di una lottizzazione scaduta. Il
costruttore precedentemente aveva ottenuto un altro titolo abilitativo e aveva realizzato tutte le opere di
urbanizzazione primaria e secondaria, ma poi i cantieri si erano fermati senza costruire nessuno degli immobili
previsti.
Dato che nella zona le opere di urbanizzazione primaria e secondaria già esistevano ed erano state acquisite dal
Comune, il costruttore aveva pensato che queste opere potessero essere poste a servizio dell’immobile che prevedeva
di realizzare. Il Comune, invece, gli aveva imposto il pagamento degli oneri di urbanizzazione.
In un primo momento, il Tar ha dato torto al Comune affermando che le opere di urbanizzazione servono a bilanciare
l’aumento del carico urbanistico provocato da una nuova costruzione. Non essendoci la costruzione, le opere
potevano quindi alleggerire il peso causato dall’edificio autorizzato successivamente.
Non l’ha pensata così il Consilio di Stato. Secondo i giudici, gli oneri di urbanizzazione si riferiscono solo a un permesso
di costruire perché sono quantificati sulla base del progetto autorizzato. Analogamente, un nuovo piano regolatore
non può essere collegato a opere di urbanizzazione preesistenti.
Corte di Cassazione, terza sez. penale, Sentenza n. 50215 del 22 dicembre
2015.
In materia edilizia, la natura precaria di qualsiasi manufatto non si desume dalla
temporaneità della destinazione dell'opera come attribuitale dal costruttore, ma
risulta dalla vera destinazione della stessa: in altri termini essa deve essere
concepita per un reale uso temporaneo e per specifici fini limitati nel tempo (in
questo quadro, non dice nulla l'eventuale sua rimovibilità o il suo mancato
ancoraggio al suolo). Trattandosi, ad esempio, di un pollaio costruito con
blocchetti di tufo, copertura di travi in legno e lamiera zincata e perimetrato da
una rete di recinzione, questa specifica conformazione ne esclude a priori la natura temporanea, in quanto realizzato
con materiali non facilmente eliminabili (manufatto adibito a ricovero di animali). Per legge quindi, la natura non
precaria dell'opera vuole che per la sua realizzazione sia richiesto il permesso di costruire.
Per principio generale sappiamo che le contravvenzioni relative agli abusi edilizi rientrano nel novero dei reati
permanenti. Nel caso in cui questa permanenza non fosse cessata, potrebbe sostenersi che eventuali cause di non
punibilità (ad esempio per tenuità del fatto) non siano applicabili, proprio a fronte della perdurante compressione del
bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice. Tuttavia, la Cassazione ha riconosciuto che il reato permanente
può essere "valutato" con riferimento all'indice -criterio della particolare tenuità dell'offesa (non abitualità del
comportamento; esiguità del danno o del pericolo; ecc.), la cui sussistenza sarà tanto più difficilmente rilevabile
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OPERA PRECARIA CHE NON NECESSITA DEL PERMESSO DI COSTRUIRE
quanto più tardi sarà cessata la permanenza. In buona sostanza: l'eliminazione dell'abuso può permettere
l'applicazione della causa di non punibilità. In questa circostanza, come verificatosi nella sentenza in commento, la
Corte di Cassazione annulla la sentenza impugnata per la verifica dell'applicazione della causa di non punibilità a
fronte della tenuità del fatto, il tutto rinviando alla Corte di Appello chiamata ad adeguarsi ai principi di diritto
affermati.
ABUSI EDILIZI: CON IL RIGETTO DELL'ISTANZA DI SANATORIA, IL PROVVEDIMENTO DI
DEMOLIZIONE RIACQUISTA EFFICACIA
Consiglio di Stato, Sez. VI, Sentenza n.3407 del 28 luglio 2016
La proposizione di un’istanza di sanatoria ordinaria non comporta la radicale e definitiva inefficacia dell’ordine di
demolizione, (cfr. Cons. di Stato, n. 1546/2014 e 4818/2013), ma fa conseguire all’atto uno stato di temporanea
quiescenza, fino alla definizione del procedimento, espressa o tacita, all´evidente fine di evitare, in caso di
accoglimento dell´istanza, la demolizione di un’opera che, benché realizzata in assenza o difformità dal titolo
edilizio, si accerti tuttavia essere conforme alla strumentazione urbanistica. Una volta rigettata l’istanza di sanatoria,
il provvedimento di demolizione riacquista la sua efficacia, determinando, così, la permanenza dell’interesse
all’impugnazione dello stesso.
ABUSI EDILIZI: L'ORDINE DI DEMOLIZIONE NON SI PRESCRIVE
MAI
Corte di Cassazione, Sez. III, Sentenza n.9949 del 10 marzo 2016.
La demolizione del manufatto abusivo, anche se disposta dal giudice penale
ai sensi dell'art. 31, comma 9, qualora non sia stata altrimenti eseguita, ha
natura di sanzione amministrativa, che assolve ad un'autonoma funzione
ripristinatoria del bene giuridico leso, configura un obbligo di fare, imposto
per ragioni di tutela del territorio, non ha finalità punitive ed ha carattere
reale, producendo effetti sul soggetto che è in rapporto con il bene, indipendentemente dall'essere stato o meno
quest'ultimo l'autore dell'abuso. Per tali sue caratteristiche la demolizione non può ritenersi una «pena» nel senso
individuato dalla giurisprudenza della Corte EDU e non è soggetta alla prescrizione stabilita dall'art. 173 cod. pen.
INTERVENTI SU SUOLO O SU IMMOBILI DI PROPRIETÀ DELL’AMMINISTRAZIONE COMUNALE
Consiglio di Stato, Sez. VI, Sentenza n.498 dell’ 8 febbraio 2016.
Ogni trasformazione edilizia del territorio necessita di essere previamente assentita dall’amministrazione
comunale, anche quando sia quest’ultima proprietaria del suolo ovvero della costruzione oggetto di ristrutturazione
ma l’iniziativa dell’intervento faccia capo a soggetti terzi. Altro è il caso delle opere realizzate a iniziativa della stessa
amministrazione comunale proprietaria, in cui l’approvazione dell’opera con delibera di Consiglio comunale (ovvero
della Giunta, nei casi previsti dalla legge) assorbe ex se - ai sensi dell’art. 7 D.P.R. n. 380 del 2001 - l’ordinario
procedimento abilitativo delle opere edilizie.
Corte di Cassazione, Sez. III, Sentenza n.8186 del 29 febbraio 2016 .
Poiché il D.Lgs. n. 42 del 22 gennaio 2004 prevede una complessa disciplina per la conservazione dei beni culturali, in
caso di ordine di demolizione disposto dall’Autorità giudiziaria per una delle violazioni descritte dall’art. 169, devono
partecipare alla procedura esecutiva anche il Ministro per i Beni e le attività culturali ed il Sovrintendente
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BENI CULTURALI. PROCEDURA DI DEMOLIZIONE ORDINATA DAL GIUDICE
competente per territorio, in ragione del carattere particolarmente tecnico della materia e al fine di evitare che la
rimozione degli effetti dell’illecito penale possa cagionare un pregiudizio al patrimonio culturale ed artistico,
arrecandovi ulteriore danno.
BENI AMBIENTALI.DELITTO PAESAGGISTICO ED INTERVENTI PRECARI
Corte di Cassazione, Sez. III, Sentenza n.8167 del 29 febbraio 2016.
Integra il reato previsto dall'art. 181, comma primo bis, D.Lgs. n. 42 del 2004, la
realizzazione su aree vincolate di interventi precari o facilmente amovibili in
difetto di autorizzazione paesaggistica, anche in caso di occupazione temporanea
del suolo per un periodo inferiore a 120 giorni, trattandosi di attività da svolgere
previo necessario assenso dell'Autorità amministrativa competente, sebbene
all'esito di procedura semplificata
Corte di Cassazione, Sez. III, Sentenza n.1145 del 14 gennaio 2016.
Realizzare un fabbricato per civile abitazione in zona sismica,
con autorizzazione rilasciata solo successivamente, integra
un’omessa denuncia dei lavori e omessa presentazione dei
progetti di costruzione in zona sismica (ex artt. 93, 94 e 95
del D.P.R. n. 380 del 2001). Il reato ha natura permanente.
I fatti
L’attività edilizia prende il via nel 2007; nel 2008 giunge al
termine; il 3 giugno 2009 ha luogo il collaudo; il 26 luglio 2011
ha luogo il deposito della documentazione presso la Regione,
ai fini del rilascio dell’autorizzazione sismica. Sullo sfondo il
quesito se si tratti di realizzazione di un fabbricato o mero ampliamento di un fabbricato già esistente.
Secondo quanto messo in risalto dalla Cassazione, il punto centrale della vicenda investe la possibilità che per il fatto
contestato sia intervenuta la prescrizione.
In via di prima ipotesi, la sentenza considera la possibilità che la prescrizione decorra dal rilascio dell’autorizzazione,
con evidente effetto sfavorevole per il reo, che non potrebbe chiedere la dichiarazione di avvenuta prescrizione del
reato per decorso del termine quinquennale previsto per legge.
Altra ipotesi è che la prescrizione decorra dal collaudo dei lavori, andando indietro nel tempo, con l’effetto di
determinare il decorso del termine sufficiente al prodursi dell’effetto estintivo.
Ultima ipotesi è che la prescrizione decorra dall’inizio dei lavori, e dunque indietreggiando ulteriormente, con l’effetto
di retrocedere anche l’inizio del decorso del termine prescrizionale, e conseguentemente il prodursi dell’effetto
estintivo.
L’adesione all’ipotesi più corretta passa attraverso un primo dato pressoché pacifico: il fatto omissivo si configura (già)
con l’inizio dell’attività carente delle formalità previste dalla legge, e dunque con l’inizio dei lavori. Più complesso è
stabilire se il reato si perfezioni nello stesso momento, e secondo quali modalità di offesa. In particolare, occorre
stabilire se il momento dell’offesa al bene giuridico tutelato dalla normativa di specie si esaurisca nell’omissione della
richiesta di autorizzazione ovvero continui in modo durevole (secondo il modello del reato permanente) oltre tale
momento, e dunque oltre l’inizio delle attività. La Corte propende per la natura permanente (pur dando atto di un
filone giurisprudenziale difforme, peraltro superato dall’orientamento più recente)e al contempo è attenta a chiarire
una distinzione tra i reati richiamati: “il primo (art. 93) permane sino a quando chi intraprende l'intervento edilizio in
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LAVORI EDILIZI IN ZONE SISMICHE: NATURA E PRESCRIZIONE DELL'OMESSA DENUNCIA
zona sismica non presenta la relativa denuncia con l'allegato progetto ovvero non termina l'intervento e, il secondo
(art. 94), permane sino a quando chi intraprende l'intervento edilizio in zona sismica lo termina ovvero ottiene la
relativa autorizzazione”.
Nondimeno, nel ritenere ritiene plausibile la natura di reato permanente, la Suprema Corte si guarda bene
dall’avallare un avanzamento eccessivo del dies a quo per la decorrenza del termine, perché questo legherebbe in
qualche modo il destinatario della norma a profili procedurali, curati dalla Pubblica Amministrazione, che
evidentemente esorbitano la sua sfera di “controllo”, e soprattutto fuoriescono dalla compressione del bene giuridico,
che si è già esaurita.
Così, in definitiva, secondo la III sezione della Cassazione, “la persistenza dell'offesa al bene giuridico tutelato deve
essere mantenuta concettualmente distinta dall'apertura formale di un procedimento amministrativo e comunque
dalla possibilità di un controllo postumo, attivate dall'adempimento tardivo del contravventore; con la conseguenza
che la persistenza della condotta antigiuridica e la connessa protrazione della lesione all'interesse pubblico di vigilare
sulla regolarità tecnica di ogni costruzione in zona sismica, sussistono anche se (anzi proprio perché) l'amministrazione
competente non ha aperto un procedimento formale o non ha attivato alcun controllo”. Il reato è dunque prescritto.
LA PERMANENZA DELL'ILLECITO PAESAGGISTICO CESSA CON IL CONSEGUIMENTO DEL
PERMESSO POSTUMO
Tar Toscana nella sentenza n. 638/2016.
Gli illeciti in materia paesaggistica, urbanistica ed edilizia che consistono nella realizzazione di opere senza le dovute
autorizzazioni “hanno natura di illeciti permanenti, in relazione ai quali il termine di prescrizione inizia a decorrere solo
dalla cessazione della permanenza, ovvero con l’irrogazione della sanzione pecuniaria o con il conseguimento del
permesso postumo”. Questo è quanto affermato dalla terza sezione del Tar Toscana nella sentenza n. 638/2016.
Pur non ignorando “l’esistenza di un orientamento giurisprudenziale che fa coincidere la cessazione della permanenza
dell’illecito paesaggistico con la rimessione in pristino o con il pagamento della sanzione irrogata”, il Tar Firenze
aderisce invece all'orientamento – peraltro seguito dalla prevalente giurisprudenza – secondo cui la permanenza cessa
con il conseguimento del permesso postumo.
“Nonostante la disposizione sanzionatoria parli di “indennità”, non si tratta di una fattispecie risarcitoria per il danno
ambientale prodotto, bensì di una sanzione amministrativa, essendo il danno non già oggetto della tutela ma criterio
di commisurazione della sanzione, unitamente al criterio del profitto conseguito dalla violazione ha sostenuto il TAR.
Tar Napoli, sentenza n. 1769/2016
Le modifiche della disposizione interna degli ambienti, il rifacimento di pavimenti e controsoffitti, così come
l’adeguamento o la realizzazione di impianti igienico sanitari privati, idraulici o elettrici, non comportano la necessità
del permesso di costruire, poiché manca la configurazione di un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal
precedente con modifiche della volumetria complessiva degli edifici o dei prospetti o mutamenti della destinazione
d'uso (peraltro rilevanti solo se relativi a immobili compresi nelle zone omogenee A) o modificazioni della sagoma
(peraltro solo sugli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42). Lo ha precisato
il Tar Napoli, sezione VIII, con la sentenza n. 1769/2016 depositata il 7 aprile.
L’art. 16 del D.P.R. n. 380/2001 stabilisce, al primo comma, che il rilascio del permesso di costruire comporta la
corresponsione di un contributo commisurato all'incidenza degli oneri di urbanizzazione, nonché al costo di
costruzione. Presupposto per la debenza del costo di costruzione è che l’intervento rientri nell’ambito di quelli per i
quali l’art. 10 del medesimo del D.P.R. n. 380/2001 prevede il titolo abilitativo del permesso di costruire.
In tal senso deve essere interpretato anche il comma 10, dell’art. 16 del D.P.R. n. 380/2001, secondo il quale “nel caso
di interventi su edifici esistenti il costo di costruzione è determinato in relazione al costo degli interventi stessi, così
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RISTRUTTURAZIONI EDILIZIE: ONERI CONCESSORI
come individuati dal comune in base ai progetti presentati per ottenere il permesso di costruire. Al fine di incentivare
il recupero del patrimonio edilizio esistente, per gli interventi di ristrutturazione edilizia di cui all'articolo 3, comma 1,
lettera d), i Comuni hanno comunque la facoltà di deliberare che i costi di costruzione ad essi relativi siano inferiori ai
valori determinati per le nuove costruzioni”.
Questo comma rileva l’esistenza di interventi di ristrutturazione edilizia soggetti al pagamento dell’onere, ma deve
essere interpretato – ha precisato il Tar Campania - nel senso che, in caso di interventi di ristrutturazione, il costo di
costruzione è dovuto solo qualora le opere medesime richiedano il titolo abilitativo del permesso di costruire in
conformità a quanto previsto dall’art. 10, comma 1, lett. c) del D.P.R. n. 380/2001, ovverosia per quelle opere di
ristrutturazione che “che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino
modifiche della volumetria complessiva degli edifici o dei prospetti, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi
nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d'uso, nonché gli interventi che comportino
modificazioni della sagoma di immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42”;
mentre il costo di costruzione non deve essere corrisposto per gli interventi di ristrutturazione realizzabili con d.i.a..
Significativi dell’esattezza di tale interpretazione si rivelano il comma 5 dell’art. 22 del D.P.R. n. 380/2001, che
assoggetta al pagamento del costo di costruzione gli interventi effettuati con d.i.a. solo nel caso in cui questa sia
sostitutiva del permesso di costruire nelle ipotesi previste nel comma 3, tra le quali si trova l’ipotesi degli interventi di
ristrutturazione assoggettati al regime del permesso di costruire ai sensi del già indicato art. 10, comma 1, lettera c),
D.P.R. n. 380/2001. Inoltre, la giurisprudenza ha precisato che per le opere di ristrutturazione edilizia (soggette al
regime del permesso di costruire), il pagamento degli concessori è dovuto solo nel caso in cui l'intervento abbia
determinato un aumento del carico urbanistico.
E’ stato ancora precisato che, ai fini della corresponsione o meno degli oneri d'urbanizzazione in caso di intervento su
un fabbricato già autorizzato, l'unico legittimo presupposto dell’imposizione è costituito dalla sussistenza o meno
dell'eventuale maggiore carico urbanistico, dovendosi considerare illegittima la richiesta del pagamento di tali
maggiori oneri se non si verifica la variazione del carico urbanistico. Il fondamento del contributo di urbanizzazione,
invero, non consiste nel titolo edilizio in sé, ma nella necessità di ridistribuire i costi sociali delle opere di
urbanizzazione, facendoli gravare su quanti beneficiano delle utilità derivanti dalla presenza delle medesime, secondo
modalità eque per la comunità.
Anche nel caso di modificazione della destinazione d'uso, cui si correli un maggiore carico urbanistico, è integrato il
presupposto che giustifica l'imposizione del pagamento della differenza tra gli oneri di urbanizzazione dovuti per la
destinazione originaria e quelli, se più elevati, dovuti per la nuova destinazione impressa; il mutamento, pertanto, è
rilevante quando sussiste un passaggio tra due categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico,
qualificate sotto il profilo della differenza del regime contributivo in ragione di diversi carichi urbanistici.
Corte di Cassazione, Sentenza n. 15427 del 13 aprile 2016
Il regime dei titoli abilitativi edilizi “non può essere eluso attraverso la suddivisione dell'attività edificatoria finale nelle
singole opere che concorrono a realizzarla, astrattamente suscettibili di forme di controllo preventivo più limitate per
la loro più modesta incisività sull'assetto territoriale”.
Infatti, l'opera “deve essere considerata unitariamente nel suo complesso, senza che sia consentito scindere e
considerare separatamente i suoi singoli componenti e ciò ancor più nel caso di interventi su preesistente opera
abusiva”.
In tema di condono edilizio, la suprema Corte chiarisce inoltre che “devono tenersi distinte l'ipotesi della sospensione
ai sensi del combinato disposto degli artt. 36 e 45 d.P.R. n. 380/01 e quella della sospensione conseguente al rinvio su
istanza di parte”.
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ABUSO EDILIZIO: L’OPERA DEVE ESSERE CONSIDERATA NELLA SUA INTEREZZA
RESPONSABILITA’ DEL DIRETTORE DEI LAVORI
Corte Cassazione Sentenza n. 7370 del 13 aprile 2015
Il direttore dei lavori, nel momento in cui accetta l’incarico, deve garantire al committente la capacità professionale
per esercitare il controllo sulla corretta esecuzione dell’opera nel suo complesso ed in ogni suo aspetto. Viceversa,
sulla base dei principi di prudenza, correttezza e diligenza professionale, è suo preciso obbligo astenersi dall’accettare
l’incarico. Chiarimenti sulla posizione di garanzia e sugli obblighi del committente. Con la Sentenza in esame la Corte di
Cassazione fornisce fondamentali chiarimenti sul tema delle responsabilità professionali che ricadono in capo al
direttore dei lavori, evidenziando in estrema sintesi come: “il suo compito di controllare la corretta e puntuale
esecuzione delle opere si estende alla interezza delle opere stesse; sia preciso dovere del direttore dei lavori non
assumere l’incarico qualora egli non abbia sufficiente competenza e capacità professionale per poter verificare l’intera
esecuzione delle opere, anche con riferimento a quelle parti per le quali egli non sia eventualmente in possesso delle
necessarie competenze e conoscenze professionali”
DIRETTORE DEI LAVORI_OBBLIGHI
Corte di Cassazione, Sentenza n. 18285 del 19 settembre 2016
Recentemente la Corte di Cassazione, con la sentenza in commento, ha osservato che, negli appalti di opere edilizie, la
figura del direttore dei lavori per conto dell’appaltatore è diversa da quella del direttore dei lavori per conto del
committente.
Mentre il primo, quale collaboratore professionale dell’imprenditore, ha il dovere di provvedere, dal punto di vista
tecnico all’esecuzione dell’opera, organizzando e vigilando che essa si svolga in modo non pericoloso per gli addetti ai
lavori ed i terzi, il secondo ha soltanto il compito di controllare la corrispondenza dell’opera al progetto, rispondendo
dell’adempimento di tale obbligo solo verso il committente a norma dell’art. 2236 c.c., e, pertanto, ove abbia
esercitato il compito suddetto, non può essere ritenuto responsabile con l’appaltatore dei danni derivati al
committente dalla difettosa esecuzione dell’opera e dall’imprudente svolgimento dei lavori diretti al compimento di
essa.
I Giudici di legittimità hanno, quindi, enunciato il seguente principio di diritto: il direttore dei lavori esercita in luogo
del committente quei medesimi poteri di controllo sull’attuazione dell’appalto che questi ritiene di non poter svolgere
di persona.
La connotazione tecnica di tale obbligazione di sorveglianza lo obbliga a vigilare affinché l’opera sia eseguita in
maniera conforme al progetto, al capitolato e alle regole della buona tecnica, ma non lo rende per ciò solo
corresponsabile con l’appaltatore per i difetti dell’opera derivanti da vizi progettuali, salvo egli sia stato
espressamente incaricato dal committente di svolgere anche l’attività, aggiuntiva rispetto a quella costituente
l’oggetto della sua normale prestazione, di verificare la fattibilità e l’esattezza tecnica del progetto.
Corte di Cassazione, Sentenza n. 18521 del 21 settembre 2016
La Corte di Cassazione con la sentenza in esame, ha stabilito che, in tema
di contratto di appalto, nel caso in cui il danno subito dal condomìnio sia
conseguenza dei concorrenti inadempimenti dell’impresa appaltatrice e
del direttore dei lavori, entrambi devono rispondere solidalmente dei
danni derivati dalla cattiva esecuzione delle opere. Per la sussistenza
della solidarietà è sufficiente che le azioni e le omissioni di ciascuno
abbiano concorso in modo efficiente a produrre l’evento. Risulta
irrilevante che le azioni costituiscano autonomi e distinti fatti illeciti o
violazioni di norme giuridiche diverse. In particolare la solidarietà fra
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RESPONSABILITÀ DIRETTORE DEI LAVORI
coobbligati trova fondamento nel principio di cui all’art. 2055 cc., secondo cui:
“Se il fatto dannoso è imputabile a più persone, tutte sono obbligate in solido al risarcimento del danno. Colui che ha
risarcito il danno ha regresso contro ciascuno degli altri, nella misura determinata dalla gravità della rispettiva colpa e
dall’entità delle conseguenze che ne sono derivate. Nel dubbio, le singole colpe si presumono uguali”. Pertanto la
Cassazione ha confermato la sentenza della Corte di Appello di Torino, ritenendo che il direttore dei lavori sia
responsabile in solido con l’impresa e che debba rispondere a titolo di responsabilità contrattuale.
NECESSARIO IL CONSENSO DI TUTTI I COMPROPRIETARI PER LA RICHIESTA DEL TITOLO EDILIZIO
IN SANATORIA
Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza n. 3823 del 7 settembre 2016
Assume rilievo la recentissima sentenza del Consiglio di Stato, in materia di legittimazione a richiedere il permesso di
costruire.
Nel caso di specie, dinanzi ad una richiesta di permesso di costruire in sanatoria, i supremi giudici amministrativi
hanno ricordato che, in sede di procedimento per rilascio di titolo edilizio in sanatoria, deve formare oggetto di
valutazione da parte del Comune di Lavagna la sussistenza di tutti i presupposti cui la legge condiziona il rilascio del
provvedimento stesso.
Ebbene, tra i requisiti indefettibili per il rilascio del titolo, va annoverata anche la circostanza che l’istanza di sanatoria
provenga da un soggetto qualificabile come proprietario dell’edificio oggetto degli interventi della cui sanatoria
giuridica si tratti (cfr. sul punto in questione e sui limiti ed obblighi che incontra il comune nel vagliare gli ostacoli di
ordine civilistico al rilascio del titolo edilizio ordinario, o per accertamento di conformità, o per condono edilizio
straordinario, Cons. Stato, Sez. IV, n. 2116 del 2016; n. 4818 del 2014; Sez. V, n. 5894 del 2011).
La regola sopra esposta deve essere ulteriormente precisata nel senso che il soggetto legittimato alla richiesta del
titolo abilitativo deve essere colui che abbia la totale disponibilità del bene, pertanto l’intera proprietà dello stesso e
non solo una parte o quota di esso. Non può invece riconoscersi legittimazione, al contrario, al semplice proprietario
pro quota ovvero al comproprietario di un immobile, e ciò per l’evidente ragione che diversamente considerando il
contegno tenuto da quest’ultimo potrebbe pregiudicare i diritti e gli interessi qualificati dei soggetti con cui condivida
la propria posizione giuridica sul bene oggetto di provvedimento.
In caso di pluralità di proprietari del medesimo immobile, di conseguenza, la domanda di rilascio di titolo edilizio - sia
esso o meno titolo in sanatoria di interventi già realizzati - dovrà necessariamente provenire congiuntamente da tutti i
soggetti vantanti un diritto di proprietà sull’immobile, potendosi ritenere d’altra parte legittimato alla presentazione
della domanda il singolo comproprietario solo ed esclusivamente nel caso in cui la situazione di fatto esistente sul
bene consenta di supporre l’esistenza di una sorta di cd. pactum fiduciae intercorrente tra i vari comproprietari.
In carenza della situazione da ultimo descritta, il titolo edilizio, volto alla realizzazione o al consolidamento dello stato
realizzativo di operazioni (incidenti su parti non rientranti nell’esclusiva disponibilità del richiedente) non potrà essere
né richiesto – non avendo il soggetto titolo per proporre tale istanza – né, ovviamente, rilasciato - non sussistendo i
presupposti per l’emissione dello stesso - in modo legittimo dalla P.A. (Cons. Stato Sez. VI, 10 ottobre 2006 n. 6017;
Cons. Stato Sez. V, 24 settembre 2003 n. 5445; Cons. Stato Sez. V, 5 giugno 1991 n. 883).
Corte Costituzionale, Sentenza n.49 del 9 marzo 2016
Risulta costituzionalmente illegittima la disposizione della Legge regionale, che, consentendo all’amministrazione di
intervenire in via inibitoria o repressiva sull’attività intrapresa in base a SCIA o a DIA, dopo il termine previsto dalla
Legge statale, senza le garanzie imposte dal legislatore viola un principio fondamentale della materia del governo
del territorio. Con la sentenza n. 49 del 9 marzo 2016 la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale
dell’art. 84-bis , comma 2, lettera b) della Legge della Regione Toscana 3 gennaio 2005 n. 1 in tema di governo del
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SCIA: ILLEGITIMO IL CONTROLLO OLTRE I 30 GIORNI
territorio. In particolare, per i giudici della Corte Costituzionale la normativa regionale in esame, nell’attribuire
all’Amministrazione un potere di intervento, lungi dall’adottare una disciplina di dettaglio, ha introdotto una
normativa sostitutiva dei principi fondamentali dettati legislatore statale; andando a toccare i punti nevralgici del
sistema elaborato nella legge sul procedimento amministrativo. Ciò comporta l’invasione della riserva di competenza
statale alla formulazione di principi fondamentali, con tutti i rischi per la certezza e l’unitarietà della disciplina che tale
invasione comporta. La disposizione impugnata si inserisce nell’ambito dei poteri di vigilanza in caso di SCIA. In
particolare, si prevede che nei casi di SCIA relativi ad interventi specifici, decorso il termine di trenta giorni, possono
essere adottati provvedimenti inibitori e sanzionatori qualora ricorra una di diverse ipotesi, tra le quali il caso di
difformità dell’intervento delle norme urbanistiche o delle prescrizioni degli strumenti urbanistici generali, degli atti di
governo del territorio o dei regolamenti edilizi.
Secondo il TAR per la Toscana che ha sollevato la questione di legittimità costituzionale, la disposizione impugnata
sarebbe viziata in quanto consentirebbe all’Amministrazione di esercitare poteri sanzionatori per la repressione degli
abusi edilizi, anche oltre il termine di trenta giorni dalla presentazione della SCIA, in un numero di ipotesi più ampio
rispetto a quello previsto dai commi 3 e 4 dell’art. 19 della legge n. 241 del 1990.
Il contrasto tra la disciplina statale e quella regionale comporta pertanto ad avviso del TAR per la Toscana la non
manifesta infondatezza della questione di costituzionalità con riguardo alla violazione dei principi fondamentali in
materia edilizia, rientrante in quella più generale del governo del territorio, oggetto di competenza legislativa
concorrente ex art. 117 comma terzo della Costituzione, in quanto la disciplina statale dei titoli edilizi costituisce
norma di principio. Come si è visto per la Corte Costituzionale ritiene fondato tale profilo di illegittimità della norma.
Infatti, risulta ormai da pacifica giurisprudenza che nell’ambito della materia concorrente del governo del territorio,
prevista dal comma in questione, i titoli abilitativi agli interventi edilizi costituiscono oggetto di una disciplina che
assurge a principio fondamentale, e tale valutazione deve ritenersi valida anche per la denuncia di inizio attività (DIA)
e per la SCIA che,s eppure con la loro indubbia specificità, si inseriscono in una fattispecie il cui effetto è pur sempre
quello di legittimare il privato ad effettuare gli interventi edilizi.
Come precisa la stessa Corte Costituzionale, tale fattispecie ha una struttura complessa, non esaurendosi con al
dichiarazione o la segnalazione, ma sviluppandosi in fasi ulteriori, quali quella ordinaria di controllo
dell’Amministrazione ed una successiva in cui può effettuarsi l’autotutela amministrativa.
Risulta evidente – come si legge nella sentenza in commento – che anche le condizioni e le modalità di esercizio
dell’intervento della pubblica amministrazione, una volta che siano esauriti i termini in questione, devono considerarsi
il necessario completamento della disciplina di tali titoli abilitativi, in quanto l’individuazione della loro consistenza e
della loro efficacia non può prescindere, secondo i giudici della Corte Costituzionale, dalla capacità di resistenza
rispetto alle verifiche effettuate dall’Amministrazione successivamente alla maturazione degli stessi. In buona
sostanza, la disciplina di questa fase ulteriore risulta parte integrante di quella del titolo abilitativo e costituisce con
essa un tutt’uno inscindibile. Ne discende che anche per questa parte la disciplina in questione costituisce espressione
di un principio fondamentale della materia del governo del territorio. Da qui la dichiarazione di fondatezza della
questione di legittimità costituzionale della disposizione impugnata.
Consiglio di Stato, Sentenza n.1777/2014
Costruire ed installare pergolati e strutture amovibili su balconi e terrazzi privati è possibile anche senza chiedere
alcuna autorizzazione al Comune.
La sentenza del Consiglio di Stato chiarisce una questione da anni dibattuta, aprendo di fatto la strada a proprietari ed
inquilini che intendano sfruttare al meglio le superfici esterne delle proprie abitazioni e dei propri uffici.
Non occorre chiedere alcun “Nulla osta” alle amministrazioni locali – si legge nella sentenza – per “strutture di arredo,
installate su pareti esterne dell’unità immobiliare ad esclusivo servizio, costituite da strutture leggere e amovibili,
caratterizzate da elementi in metallo o in legno di esigua sezione, coperte da telo anche retrattile, stuoie in canna o
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PERMESSI EDILI, CAMBIA TUTTO: ADESSO PUOI COSTRUIRE SENZA AUTORIZZAZIONE
bambù o materiale in pellicola trasparente, prive di opere murarie e di pareti chiuse di qualsiasi genere, costituite da
elementi leggeri, assemblati tra loro, tali da rendere possibile la loro rimozione previo smontaggio e non demolizione
– dal momento che queste opere – non configurano né un aumento del volume e della superficie coperta, né la
creazione o modificazione di un organismo edilizio, né l’alterazione del prospetto o della sagoma dell’edificio cui è
connessa, in ragione della sua inidoneità a modificare la destinazione d’uso degli spazi esterni interessati, della sua
facile e completa rimovibilità, dell’assenza di tamponature verticali”.
Il permesso di costruire, in genere, è un atto amministrativo rilasciato dal Comune che trova la propria disciplina
nell’art. 10 del d.p.r. n. 380/2001 per cui: “Costituiscono interventi di trasformazione urbanistica ed edilizia del
territorio e sono subordinati a permesso di costruire: gli interventi di nuova costruzione; gli interventi di
ristrutturazione urbanistica; gli interventi di ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo edilizio in tutto o in
parte diverso dal precedente e che comportino aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, della sagoma, dei
prospetti o delle superfici o che comportino mutamenti della destinazione d’uso nonché gli interventi che causino
modificazioni della sagoma di immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 e
successive modificazioni”.
E proprio le tante modificazioni alla normativa avvenute nel corso degli anni hanno generato una certa confusione nei
cittadini chiamati ad interpretarle per esercitare i propri diritti senza commettere abusi. Alla luce dell’art. 10 del d.p.r.
n. 380/01, in via generale, le nuove costruzioni e gli interventi di ristrutturazione edilizia e urbanistica di un certo
rilievo sono quasi sempre soggetti al rilascio del “nulla osta”, ma ora, con la sentenza del Consiglio di Stato, si apre una
nuova strada per l’installazione di strutture prive di opere murarie e di pareti chiuse di qualsiasi genere, costituite da
elementi leggeri.
CHIUSURA BALCONE E REALIZZAZIONE DI UNA VERANDA: SENZA IL PERMESSO DI COSTRUIRE SI
ALLA DEMOLIZIONE
 la realizzazione di una veranda, anche se di modesta entità, essendo chiusa sui lati, costituisce una trasformazione
urbanistico-edilizia e determina un aumento della superficie utile e nuova volumetria. Si tratta dunque di una modifica
del precedente organismo edilizio. Pertanto, l’intervento va inteso come ristrutturazione edilizia (art. 3 lettera dpr
380/2001) ed è necessario il permesso di costruire
 occorre distinguere il concetto di pertinenza previsto dal diritto civile da quello inteso in senso urbanistico. Nel
caso in esame, il concetto di pertinenza non può essere applicato, in quanto la veranda assume una funzione
autonoma rispetto all’immobile. Dunque, gli interventi che, pur essendo accessori a quello principale, incidono
sull’assetto edilizio preesistente e determinano un aumento del carico urbanistico, devono ritenersi sottoposti a
permesso di costruire
 la disposizione comunale è relativa all’installazione di pareti o divisori mobili ed è riconducibile ad opere interne e
non alla chiusura di balconi esterni.
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Tar Lecce, Sentenza n.1601/2016
Il Tar Lecce si è espresso negativamente sul ricorso presentato dal proprietario di una veranda.Il ricorso era stato
improntato sulla natura dell’intervento realizzato e precisamente sulla:
 modesta entità, vista l’installazione di pareti mobili estraibili in alluminio e vetro su un terrazzino;
 l’opera di restauro e risanamento conservativo (art. 3 comma 1 lett., DPR n. 380/2001), non configurabile quale
“nuova costruzione”e quindi realizzabile senza permesso di costruire. Secondo l’art. 3 comma 1, lett. e.6 dpr 380/2001
infatti non va considerata nuova costruzione l’ opera pertinenziale con volumetria inferiore al 20% del volume
dell’edificio principale;
 l’installazione di pareti o divisori mobili, non hanno comportato alcuna modificazione alle pareti ed ai solai
preesistenti relativi all’unità immobiliare. Tali lavori, secondo il regolamento comunale, non erano soggetti al rilascio
della concessione o dell’autorizzazione del Sindaco.
Il Tar Lecce ha rigettato il ricorso con le seguenti motivazioni:
CAMBIO DESTINAZIONE D’USO IN ASSENZA DI PERMESSO DI COSTRUIRE: LA CASSAZIONE SI
ESPRIME SULLE SANZIONI PREVISTE DAL TESTO UNICO PER L’EDILIZIA
Corte di Cassazione, Sentenza n. 36563/2016
La Corte di Cassazione con sentenza in esame si è espressa sul ricorso presentato dal proprietario di un sottotetto,
richiamando l’art. 23-ter comma 1 del dpr 380/2001, secondo cui:
“Salva diversa previsione da parte delle leggi regionali, costituisce mutamento rilevante della destinazione d’uso ogni
forma di utilizzo dell’immobile o della singola unità immobiliare diversa da quella originaria, ancorché non
accompagnata dall’esecuzione di opere edilizie, purché tale da comportare l’assegnazione dell’immobile o dell’unità
immobiliare considerati ad una diversa categoria funzionale tra: residenziale; turistico-ricettiva; produttiva e
direzionale; commerciale; rurale”
L’accertamento del cambio di destinazione d’uso per difformità totale rispetto al titolo abilitativo dev’essere
effettuato sulla base dell’individuazione di elementi univocamente significativi, propri del diverso uso cui l’opera è
destinata e non coerenti con l’originaria destinazione della medesima (sottotetto in un condominio).
In tal caso la difformità totale è risultata inequivocabile in quanto sono state rilevate le seguenti opere:
 suddivisione del locale in più ambienti (compreso il bagno)
 creazione di una parete in cartongesso
 nuovo arredamento
 installazione di radiatori, prese per corrente, televisive e punti luce, nonché di porta blindata e videocitofono.
A riconferma del cambio di destinazione d’uso vi è stato anche il canone locatizio dell’immobile pari a 250 euro per 40
m², eccessivo e fuori mercato, se riferito ad un mero locale di servizio.
Pertanto la Corte di Cassazione ha condannato il proprietario del sottotetto (divenuto appartamento) alla pena di 10
giorni di arresto e 5.600 euro di ammenda.
NIENTE ABUSO EDILIZIO SENZA CEMENTO ARMATO O ACCIAIO
Corte di Cassazione, Sentenza n.17085/2016
Non commette abuso edilizio chi, anche senza un
progetto redatto da un tecnico abilitato e senza aver
presentato la comunicazione di inizio lavori in Comune,
realizza una struttura con pilastri, travi in legno e
pareti in muratura: il reato, infatti, scatta solo nei
confronti di chi utilizza cemento armato o altri
elementi strutturali in metallo. Le norme del testo
unico per l’edilizia [Artt. 64, 65, 71 e 72 DPR 380/2001] prevedono l’imputazione penale solo per chi realizza manufatti
“la cui tenuta statica sia assicurata tramite l’uso e l’applicazione di opere in cemento armato, oppure di elementi
strutturali in acciaio o in altri metalli con funzione portante”. Pertanto non può essere condannato chi abbia realizzato
una struttura portante con travi e pilatro di legno e pareti perimetrali in muratura, anche in assenza di un progetto
esecutivo redatto da un tecnico abilitato, senza che la direzione dei lavori sia stata assunta da un tecnico apposito e in
assenza della preventiva denuncia della realizzazione dell’opera al Comune.
Corte di Cassazione, Sentenza n. 10326 del 19 maggio 2016
L'accordo raggiunto tra il professionista e il Comune per la progettazione di lavori di urbanizzazione ha un suo valore
giuridico e, quindi può considerarsi valido, solo se il finanziamento legato all'esecuzione dei lavori sia approvato. In
caso contrario - precisa la Cassazione con la sentenza in esame - il professionista non può pretendere la parcella per il
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IL COMUNE HA DIRITTO DI NON PAGARE I PROGETTISTI SE L'OPERA NON È FINANZIATA
mancato avveramento di una condizione fondamentale quale per l'appunto quella della concessione del
finanziamento.
La vicenda - Nel caso concreto due architetti avevano ricevuto l'incarico di procedere alla progettazione degli impianti
di illuminazione di un noto Comune siciliano e avevano pattuito una
parcella pari a circa un miliardo di vecchie lire. I professionisti avevano
presentato in ritardo l'elaborato vista la complessità dell'opera e circostanza non secondaria - la cifra per la realizzazione dell'opera era
più che raddoppiata passando da 10 a 25 miliardi di vecchie lire. I
Supremi giudici, adeguandosi peraltro a quanto già stabilito dai giudici di
merito, hanno rilevato come nel contratto d'opera professionale sia
pienamente legittimo l'inserimento della cosiddetta clausola di
copertura finanziaria in base alla quale l'ente pubblico territoriale
subordina il pagamento del compenso al professionista incaricato della
progettazione di un'opera pubblica, alla concessione di un
finanziamento. Tale pattuizione, pertanto, non consente di derogare alle procedure di spesa (ex articolo 23 del Dl
66/1989 e successive modificazioni), che non possono essere differite al momento dell'erogazione del finanziamento.
In mancanza di quest'ultimo quindi il rapporto propriamente obbligatorio non è più riferibile all'ente ma intercorre ai
fini della controprestazione tra il privato e l'amministratore o funzionario che abbia assunto l'impegno.
L'accordo raggiunto tra il professionista e il Comune per la progettazione di lavori di urbanizzazione ha un suo valore
giuridico e, quindi può considerarsi valido, solo se il finanziamento legato all'esecuzione dei lavori sia approvato. In
caso contrario il professionista non può pretendere la parcella per il mancato avveramento di una condizione
fondamentale quale per l'appunto quella della concessione del finanziamento. Si legge testualmente nella sentenza
che «il mancato avveramento della condizione era ostativo all'esigibilità del compenso».
Conclusioni - La Corte, non ha nemmeno ravvisato una responsabilità del Comune per non aver agito
tempestivamente in quanto già nel merito era stato evidenziato che l'ente non «era rimasto inerte». Un'affermazione
questa che appare tanto più condivisibile alla luce dell'orientamento giurisprudenziale secondo cui la causa imputabile
alla parte che avrebbe un interesse contrario all'avveramento della condizione non è riscontrabile in un semplice
comportamento inattivo, salvo che questo non costituisca violazione di un preciso obbligo di agire imposto dal
contratto. Condizione questa che nell'accordo non era stata definita. In conclusione anche la Cassazione ha respinto la
richiesta dei professionisti accogliendo la tesi difensiva del Comune.
Corte di Cassazione, sez. III Civile, Sentenza n. 12527del 17 giugno2016
Con la scusa di una ristrutturazione, non si può avvicinare il proprio
immobile a quello del vicino violando le distanze minime dal confine
previste dalla normativa del codice civile. Tutte le volte, infatti, in cui
viene aumentata la volumetria di un immobile, bisogna valutare se,
anche a seguito dei lavori, vengono rispettate le distanze dalla proprietà
del vicino. A chiarirlo è la Cassazione con la sentenza in esame.
La Corte ricorda che tutte le volte in cui si è in presenza di un
ampliamento volumetrico non si può parlare né di ristrutturazione, né di
ricostruzione, bensì solo di nuova costruzione, e in quanto tale deve
sottostare alla normativa sulle distanze vigente al momento dell’edificazione. Le Sezioni Unite della Cassazione hanno
chiarito l’importante differenza tra ristrutturazione, ricostruzione e nuova costruzione. In particolare si ha:
 ristrutturazione: quando gli interventi comportano modifiche solo agli spazi interni e, pertanto, lasciano inalterati i
componenti essenziali dell’edificio quali i muri perimetrali, le strutture orizzontali e la copertura;
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RISTRUTTURAZIONE: LE DISTANZE DAL VICINO VANNO RISPETTATE
 ricostruzione: quando i componenti essenziali dell’edificio preesistente siano venuti meno a causa di un evento
naturale o per una volontaria demolizione e l’intervento consista nel loro esatto ripristino, senza alcuna variazione
rispetto alle originali dimensioni dell’edificio, e in particolare senza aumenti della volumetria;
 nuova costruzione: quando, invece, vi sia una variazione delle originarie dimensioni dell’edificio con aumento
della volumetria.
Solo nel caso di nuova costruzione, la regolarità del manufatto dovrà essere valutata anche alla luce del rispetto delle
norme sui limiti di distanze tra costruzioni. La ricostruzione dell’immobile non deve costituire quindi un modo per
eludere la normativa e consentirne l’edificazione ad una distanza difforme da quella stabilita dalla normativa.
Corte di Cassazione, Sentenza n. 17085/2016
Con la sentenza in esame, la Cassazione ha affermato che la sopraelevazione in legno e con pareti perimetrali in
muratura, pur essendo un abuso edilizio non configura una violazione delle norme che regolano i conglomerati
cementizi.
L’imputato di un manufatto (una soprelevazione di mq. 30 circa) aveva una struttura portante realizzata con travi e
pilastri di legno e pareti perimetrali costruite in muratura, non comportando la utilizzazione né di cemento armato né
di altri elementi strutturali in metallo.
Richiamando la giurisprudenza (Cass. pen., Sez. III, 17 aprile
2014, n. 17022), la Cassazione ha concluso che le disposizioni
delle quali è stata contestata la violazione riguardano, tuttavia,
solo la disciplina penale di manufatti la cui tenuta statica sia
assicurata tramite l’uso e l’applicazione di opere in cemento
armato ovvero di elementi strutturali in acciaio o in altri
metalli con funzione portante. La Cassazione ha preso atto che
la contestazione concerneva la realizzazione del manufatto, in
violazione degli artt. 64, 65, 71 e 72 del d PR n. 380 del 2001, in
assenza di un progetto esecutivo redatto da tecnico abilitato,
senza che la direzione dei relativi lavori sia stata assunta da
tecnico a ciò abilitato ed in assenza della preventiva denunzia
delle opere da realizzare al Comune ovvero all’Ufficio
provinciale del Genio civile.
La posizione della Cassazione parte dalla considerazione che, in tema di reati edilizi, spesso accade di imbattersi nella
consumazione necessaria o occasionale di ulteriori e diversi reati, venendo in rilievo una serie di fattispecie di reato,
collegate ai reati edilizi in senso stretto, che trovano occasione in questi ultimi e che riguardano la disciplina delle
opere eseguite in cemento armato. Occorre quindi individuare in primo luogo quali siano in concreto le opere per le
quali è richiesta la denuncia dei lavori al competente ufficio comunale e l’inoltro all’ufficio tecnico regionale e,
conseguentemente, per quali opere è necessaria l’iniziativa penale in caso di inosservanza dell’obbligo di denuncia.
L’ambito applicativo della normativa in esame riguarda tutte le opere in conglomerato cementizio armato normale,
precompresso (nel quale si imprime artificialmente una sollecitazione addizionale tale da assicurare l’effetto statico
voluto) e le strutture metalliche, che assolvano ad una funzione statica. Parte della giurisprudenza ha sostenuto che il
riferimento normativo al “complesso di strutture” in conglomerato cementizio contenuto nel D.P.R. n. 380/01,
comporta che un’opera, per essere sottoposta alla disciplina in oggetto, debba risultare dal concorso di una pluralità
di strutture e che restino fuori da tale normativa le opere costituite da una struttura unica, come ad esempio, il solaio
di una stalla o l’architrave di una porta.
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SOPRAELEVAZIONE IN LEGNO E CONGLOMERATO CEMENTIZIO: C’È ABUSO MA NON
VIOLAZIONE DI LEGGE
ABUSI EDILIZI: CON IL RIGETTO DELL'ISTANZA DI SANATORIA, IL PROVVEDIMENTO DI
DEMOLIZIONE RIACQUISTA EFFICACIA
Consiglio di Stato, Sez. VI, Sentenza n.3407 del 28 luglio 2016
La proposizione di un’istanza di sanatoria ordinaria non comporta la radicale e definitiva inefficacia dell’ordine di
demolizione, (cfr. Cons. di Stato, n. 1546/2014 e 4818/2013), ma fa conseguire all’atto uno stato di temporanea
quiescenza, fino alla definizione del procedimento, espressa o tacita, all´evidente fine di evitare, in caso di
accoglimento dell´istanza, la demolizione di un’opera che, benché realizzata in assenza o difformità dal titolo
edilizio, si accerti tuttavia essere conforme alla strumentazione urbanistica. Una volta rigettata l’istanza di sanatoria,
il provvedimento di demolizione riacquista la sua efficacia, determinando, così, la permanenza dell’interesse
all’impugnazione dello stesso.
RISTRUTTURAZIONE EDILIZIA: QUANDO VOLUMETRIA E SAGOMA SONO L'ANTICAMERA DEL
REATO
Corte di Cassazione, Sentenza n. 32086 del 25 luglio 2016
"La ristrutturazione attuata attraverso demolizione e ricostruzione dell'edificio preesistente impone il
mantenimento delle medesime volumetria e sagoma (art. 3, comma primo, lett. d), D.P.R. n. 380 del 2001),
diversamente dandosi luogo a "nuova costruzione", assentibile unicamente con permesso a costruire (nella specie
mancante) e non anche con denuncia di inizio attività".
Sulla base di tale principio la Corte di Cassazione, Settima Sezione Penale con l’ordinanza in commento ha dichiarato
inammissibile il ricorso proposto contro la sentenza della Corte d'appello che aveva confermato la condanna
dell'imputata alla pena di mesi sette di arresto ed euro 32.000 di ammenda per il reato di cui all'art. 44, lett. a) e b),
d.P.R. 380/2001.
La condanna è stata confermata in quanto l'imputata aveva disposto, quale proprietaria e committente, l'esecuzione
di opere edili di ristrutturazione in assenza del permesso di costruire ed in totale difformità dalla DIA., comportanti la
demolizione e la ricostruzione di un manufatto preesistente in violazione delle disposizioni del Piano Regolatore
Generale.
Corte di Cassazione, Sez. VI, Sentenza 14676 del 18 luglio 2016
L'edificabilità di un'area, ai fini dell'applicazione del criterio di determinazione della base imponibile, fondato sul
valore venale, deve essere desunta dalla qualificazione ad essa attribuita dal piano regolatore generale adottato dal
Comune, indipendentemente dall'approvazione di esso da parte
della Regione e dell'adozione di strumenti urbanistici attuativi.
Questo principio, già espresso dalle Sezioni Unite della Corte di
cassazione con la sentenza 30 novembre 2006 n. 25506, è stato
ribadito dalla suprema Corte nella sentenza in commento.
La Cassazione ricorda che il suddetto principio è stato
“costantemente ribadito dalla giurisprudenza di questa Corte (cfr.,
tra le molte Cass. Cass. sez. 5, 27 luglio 2007, n. 16174; Cass. sez. 5,
16 novembre 2012, n. 20137; Cass. sez. 5, 5 marzo 2014, n. 5161;
Cass. sez. 5, 27 febbraio 2015, a 4091), in un quadro di riferimento
segnato anche da pronuncia della Corte costituzionale (ord. 27
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AREE EDIFICABILI E CRITERIO BASE IMPONIBILE: L'EDIFICABILITÀ VA DESUNTA DAL PRG
COMUNALE
febbraio 2008, n. 41), che ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale della norma
d'interpretazione autentica dell'art. 2 lett. b) del digs. 504/1992, rappresentata dall'art. 36, comma 2 del d.l. n.
223/2006, come convertito nella legge a 248/2006”.
RAPPORTI DI VICINATO E VINCOLI DI INEDIFICABILITA
Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza n. 15458 del 26 luglio 2016
A tenore dell’art. 900 cod. civ., le luci sono costituite dalle finestre e dalle altre aperture sul fondo del vicino che
danno passaggio alla luce e all’aria, ma non permettono di affacciarsi sul fondo predetto; ne consegue che non
costituisce “luce” una rete metallica apposta all’aperto sul confine col fondo del vicino, la quale non svolga la
funzione di dare luce ed aria ad una fabbrica, ma serva solo alla protezione delle proprietà o – trattandosi di fondi
in dislivello – anche di tutela della incolumità delle persone.
Sussiste violazione delle prescrizioni dettate in materia di distanze minime tra fabbricati dall’art. 9 del d.m. 2 aprile
1968 n. 1444 sia qualora il regolamento locale preveda distanze inferiori a quelle minime prescritte sia qualora il
detto regolamento non preveda alcuna distanza tra fabbricati relativamente ad una o più zone territoriali
omogenee dal medesimo individuate. In tali casi, si determinerà l’inserzione automatica, nello strumento urbanistico,
della disciplina dettata dal detto art. 9 e tale disciplina si sostituirà ipso iure alle disposizioni regolamentari illegittime,
divenendo così parte integrante del regolamento comunale e immediatamente operante – in virtù della natura
integrativa del regolamento rispetto all’art. 873 cod. civ. – anche nei rapporti fra privati. In tal caso, non potranno
trovare applicazione né i criteri stabiliti dall’art. 873, né quelli di cui all’art. 17 primo comma legge n. 765 del 1967.
Quando lo strumento urbanistico comunale prevede un vincolo di inedificabilità assoluta con divieto di alterazione
dei volumi preesistenti, a tutela del carattere storico, artistico o di particolare pregio ambientale di una parte del
territorio, tale vincolo, per la sua funzione conformativa rispetto al territorio che mira a regolare, ha – per sua
natura – carattere inderogabile e non è soggetto a limiti temporali, potendo venir meno solo in forza delle diverse
previsioni di uno strumento urbanistico successivo.
Corte di Cassazione, sez. II Civile, Sentenza n. 19215 del 28 settembre 2016
Salvo che gli atti di acquisto dei singoli appartamenti non dispongano in modo
diverso, il suolo e le fondamenta di un palazzo rientrano tra i beni comuni, ossia
appartenenti a tutti i condòmini, e quindi al condominio. È quanto ricorda la
Cassazione con la sentenza in esame.
La Corte parte da quanto previsto dal codice civile il quale, nella prima parte,
stabilisce che: “Sono oggetto di proprietà comune dei proprietari delle singole unità
immobiliari dell’edificio (…) se non risulta il contrario dal titolo: tutte le parti
dell’edificio necessarie all’uso comune, come il suolo su cui sorge l’edificio, le
fondazioni, i muri maestri, i pilastri e le travi portanti, i tetti e i lastrici solari, le scale,
i portoni di ingresso, i vestiboli, gli anditi, i portici, i cortili e le facciate.”
Per suolo si deve intendere – secondo la pronuncia in commento – tutto ciò che non
rientra nell’edificio sovrastante. In particolare il suolo è quello su cui insiste
l’insieme della struttura, incluse le parti di mura perimetrali che non sono da
considerarsi comuni, come nel caso in cui queste siano destinate unicamente a delimitare e sorreggere un corpo
sporgente di proprietà individuale.
Pertanto in nessun caso l’edificio, o una parte di esso, può identificarsi come suolo, quali che siano le rispettive
individuazioni catastali, attribuite per ragioni di carattere fiscale. Ne consegue che, in materia condominiale nessuna
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E’ DA CONSIDERARSI “COMUNE”, SALVO RISULTI DIVERSAMENTE DAL TITOLO, IL SUOLO SU CUI
SORGE UN EDIFICIO
porzione dell’edificio, anche se di proprietà individuale e perciò corrispondente in catasto ad una particella diversa da
quella identificante l’area su cui sorge il fabbricato comune, può essere considerata come suolo. Ne deriva che il
suolo e le fondamenta sono oggetto di proprietà comune.
Secondo la giurisprudenza, la natura comune (cioè la condominialità) di un bene ricompreso nell’elenco del codice
civile può essere esclusa quando vi sia un atto scritto, da cui risulti in modo chiaro ed inequivocabile l’esclusione della
qualità di cosa comune, senza che sia a tal fine sufficiente il mero silenzio; oppure quando il bene abbia una
destinazione particolare (come nel caso in cui si tratti di un bene dotato di propria autonomia ed indipendenza e
pertanto non legato da una destinazione di servizio rispetto all’edificio condominiale.
L’esistenza del titolo contrario deve essere dimostrata dal condomino che vanti la proprietà esclusiva su un
determinato bene.
VIZI E DIFFORMITÀ DELL'OPERA: QUANDO SUSSISTE LA RESPONSABILITÀ DELL'APPALTATORE
Corte di Cassazione, Sez. II Civile, Sentenza n. 18522 del 21 settembre 2016
La Corte di Cassazione si è pronunciata sulla questione della responsabilità dell’appaltatore per difformità e vizi
dell’opera, ponendo in particolare alcuni criteri per la corretta quantificazione del danno risarcibile ex art. 1668 c.c.
La controversia in oggetto era stata promossa da un condominio nei confronti di una ditta appaltatrice, alla quale
erano contestati vizi nella realizzazione dei lavori oggetto della pattuizione. Con il ricorso in Cassazione, nello specifico,
si contestava la decisione della Corte d’Appello nella parte in cui riduceva l’importo del risarcimento comminato a
favore del condominio.
Il risarcimento del danno, infatti, figura tra i rimedi esperibili ai sensi dell’art. 1668, primo comma, c.c. ma
esclusivamente nell’ipotesi di colpa dell’appaltatore.
Tali rimedi, come affermato in più occasioni dalla Corte, devono essere tali da porre il committente in condizione di
conseguire la medesima utilità economica che avrebbe ottenuto se l’inadempimento dell’appaltatore non si fosse
verificato. Il risarcimento, dunque, da un lato deve corrispondere al «quantum necessario per l’eliminazione dei vizi e
delle difformità», ma dall’altro «non può tradursi nell’acquisizione di un’utilità economica eccedente».
Con la sentenza in esame, la Suprema Corte ha puntualizzato che il risarcimento a favore del committente deve
necessariamente comprendere anche i costi per le attività riparatorie e successive ulteriori per il rifacimento delle
parti danneggiate.
La sentenza d’appello, difatti, è stata cassata proprio nella parte in cui determinava il quantum del risarcimento senza
tener conto della inevitabile differenza tra i costi per la costruzione dell’opera appaltata ed i costi per il rifacimento di
quest’ultima, inevitabilmente superiori poiché comprensivi delle suddette attività preparatorie e successive.
CROLLO EDIFICIO E SUCCESSIVO INTERVENTO DI INTEGRALE DEMOLIZIONE E RICOSTRUZIONE
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Consiglio di Stato Sez. IV n. 2693 del 17 giugno 2016
Qualora un titolo ad aedificandum non venga eseguito a causa del crollo dell’edificio – ove anche dovuto a cause
esterne e non imputabili ai lavori intrapresi dal concessionario - esso perde efficacia e non può essere invocato per
legittimare, neanche parzialmente, un successivo intervento di integrale demolizione e ricostruzione dell’edificio
medesimo. Pertanto risulta evidente che, una volta verificatosi il crollo parziale di cui si è detto, l’interessato che
intendesse provvedere alla integrale ricostruzione dell’edificio, previa sua demolizione, avrebbe dovuto munirsi di
nuovo ed apposito titolo abilitativo, e non limitarsi a comunicare al Comune l’effettuazione dei necessari e urgenti
interventi di messa in sicurezza.
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DIRETTORE LAVORI NON RESPONSABILE PER VIZI PROGETTUALI SE NON AVEVA L'INCARICO DI
PREDISPORRE O VERIFICARE IL PROGETTO
Corte di Cassazione, sez. II Civile, Sentenza n. 18285 del 19 settembre 2016
La sentenza in esame, chiarisce che il direttore dei lavori esercita in luogo del committente quei medesimi poteri di
controllo sull’attuazione dell’appalto che questi ritiene di non poter svolgere di persona.
La connotazione precipuamente tecnica di tale obbligazione di sorveglianza lo obbliga a vigilare affinché l’opera sia
eseguita in maniera conforme al progetto, al capitolato e alle regole della buona tecnica, ma non lo rende per ciò
corresponsabile con l’appaltatore per i difetti dell’opera derivanti da vizi progettuali, salvo egli sia stato
espressamente incaricato dal committente di svolgere anche l’attività, aggiuntiva rispetto a quella costituente
l’oggetto della sua normale prestazione, di verificare la fattibilità e l’esattezza tecnica del progetto.
IMPRESA E DIRETTORE LAVORI COOBBLIGATI: RISPONDONO SOLIDALMENTE DEI DANNI
Corte di Cassazione, Sez. II Civile, Sentenza n.18521 del 21 settembre 2016
La Corte di Cassazione si è pronunciata con riferimento alla responsabilità solidale dell'appaltatore e del direttore dei
lavori per i danni derivanti dalla cattiva esecuzione dei lavori di cui al contratto di appalto.
In particolare, la Suprema corte ha ribadito il principio di diritto più volte affermato secondo il quale qualora,
nell’ambito dell’appalto, il danno subito dal committente sia conseguenza dei concorrenti inadempimenti
dell’impresa appaltatrice e del direttore dei lavori, “entrambi rispondono solidalmente dei danni”.
Per la sussistenza della solidarietà, è sufficiente che le azioni e le omissioni di ciascuno abbiano concorso in modo
efficiente a produrre l’evento, senza che, in proposito, rilevi la circostanza che le stesse azioni od omissioni
costituiscano autonomi e distinti fatti illeciti, o violazioni di norme giuridiche diverse.
La solidarietà tra coobbligati si fonda nel principio di cui all’articolo 2055 del Codice civile che, pure se dettato in
materia di responsabilità extracontrattuale, si estende all’ipotesi in cui taluno degli autori del danno debba rispondere
a titolo di responsabilità contrattuale.
VIA LIBERA ALLA SOPRAELEVAZIONE SOLO SE LA NUOVA OPERA E L’INTERO EDIFICIO SONO IN
GRADO DI RESISTERE A UN SISMA
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Corte di Cassazione, Sentenza n. 23256 del 15 novembre 2016
Il condomino ha il diritto di sopraelevazione, ma nel rispetto delle leggi antisismiche, la cui inosservanza può essere
vinta solo con la prova, incombente sul proprietario, che la struttura sottostante riesca a fronteggiare il rischio di
terremoti”. Questo è il principio di diritto espresso dalla Corte di Cassazione con la sentenza in esame, in merito alle
condizioni di sopraelevazione in terrazza.
La suprema Corte ricorda inoltre che “L'aspetto architettonico, cui si riferisce l'art. 1127, comma 3, c.c., quale limite
alle sopraelevazioni, sottende una nozione diversa da quella più restrittiva di decoro architettonico, contemplata dagli
artt. 1120, comma 4, 1122, comma 1, e 1122-bis c.c., dovendo l'intervento edificatorio in sopraelevazione comunque
rispettare lo stile del fabbricato e non rappresentare una rilevante disarmonia in rapporto al preesistente complesso,
tale da pregiudicarne l'originaria fisionomia ed alterare le linee impresse dal progettista, in modo percepibile da
qualunque osservatore. Il giudizio relativo all'impatto della sopraelevazione sull'aspetto architettonico dell'edificio va
condotto, in ogni modo, esclusivamente in base alle caratteristiche stilistiche visivamente percepibili dell'immobile
condominiale, e verificando l'esistenza di un danno economico valutabile, mediante indagine di fatto demandata al
giudice del merito, il cui apprezzamento sfugge al sindacato di legittimità, se, come nel caso in esame, congruamente
motivato.”
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APERTURA DI PARETI FINESTRATE
Corte di Cassazione, Sez. III, Sentenza n. 44319 del 19 ottobre 2016
L'apertura di "pareti finestrate" sulla facciata di un edificio, senza il preventivo rilascio del
permesso di costruire, integra il reato previsto dall'art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001, poiché si
tratta di un intervento edilizio comportante una modifica dei prospetti non qualificabile come
ristrutturazione edilizia "minore", e per il quale, quindi, non è sufficiente la mera denuncia di
inizio attività.
IL COMMITTENTE È RESPONSABILE DEI DANNI A TERZI IN SOLIDO CON L’IMPRESA
Corte di Cassazione, Sez. III, Sentenza n. 22884 del 10 novembre 2016
La cassazione, con la sentenza in commento, ha affrontato il problema relativo alla responsabilità del committente –
in caso di danni cagionati a terzi durante l’esecuzione di lavori edili – ove non provveda alla nomina del Direttore
Lavori.
La vicenda origina in Liguria e riguarda danni subiti da un appartamento durante le opere di ristrutturazione della
unità immobiliare sovrastante.
La corte d’appello di Genova aveva rilevato che, ove il committente decida di non nominare un direttore dei lavori per
le opere ove ciò è consentito, e l’impresa assuma in proprio la responsabilità della esecuzione dei lavori svolti, rimane
comunque sussistente un profilo di responsabilità del committente.
In particolare la corte territoriale aveva rilevato che il committente ha “Affidato all’appaltatore l’esecuzione di
interventi di natura strutturale senza disporre di un progetto e senza nemmeno affidare ad un professionista abilitato
la direzione dei lavori, che pertanto sono stati eseguiti dall’impresa appaltatrice sotto la direzione e responsabilità
diretta concorrente degli stessi committenti”.
Il giudice di legittimità ha ritenuto che il giudizio di fatto espresso dal giudice di merito fosse adeguatamente motivato
e non fosse più suscettibile di esame in cassazione ed ha rigettato il ricorso.
Pur non statuendo direttamente in punto di diritto, rimane interessante la valutazione complessiva che emerge dalla
vicenda processuale: il committente mantiene un autonomo grado di responsabilità anche quando si affida
completamente alla impresa per l’esecuzione concreta delle opere.
SICUREZZA
DEL
Corte di Cassazione, sez. VI Penale, Sentenza n. 20068 del 13 maggio
2016
Della cattiva esecuzione dei piani per la sicurezza sono responsabili i soli
datori di lavoro/committente, l’imprenditore appaltatore e i c.d.
capocantieri (dirigenti o preposti), cui spetta la vigilanza anche nei
confronti delle condotte anomale (ma non assolutamente abnormi) del
lavoratore.
Ad affermarlo i Giudice della Corte di Cassazione, sesta sez. penale, con la
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INFORTUNI
SUL
LAVORO.
RESPONSABILITA’
COORDINATORE DELLA SICUREZZA
sentenza in esame.
Il fatto. Più lavoratori operano per la cementificazione di una strada. L’autista del mezzo impiegato, privo di ausilio
visivo di altro operaio – previsto in ogni caso di operazione complessa a terra dal Piano operativo per la sicurezza e dal
Piano di coordinamento per la sicurezza -, non si avvede la presenza di altro operaio calato a terra, il cui arto inferiore
viene tranciato di netto, fino a condurre all’imputazione chirurgica. Vengono condannati in appello – per lesioni
colpose EX art. 590, terzo comma, c.p. in concorso colposo EXart. 113 c.p. ed in violazione delle norme sulla
prevenzione degli infortuni – sia il coordinatore per la sicurezza dell’impresa committente sia il c.d. capocantiere
preposto all’attuazione delle misure di sicurezza per la ditta appaltatrice. Ricorrono in Cassazione. Il primo contesta
l’assenza di un obbligo normativamente specificato in capo al coordinatore cit. di vigilanza sulla concreta esecuzione
dei piani per la sicurezza, il secondo l’abnormità della condotta dell’offeso. La Cassazione accoglie solo in ordine al
primo.
Spetta al Coordinatore per la sicurezza solo l’”alta vigilanza nel cantiere”… Si affianca al committente e al datore di
lavoro/imprenditore per la predisposizione e l’osservanza delle misure previste nei piani per la tutela dei lavoratori. Il
committente si avvale del Coordinatore per la sicurezza nella fase di progettazione ed omologa figura per la fase di
esecuzione. Redigono i piani per la sicurezza, individuando le fonti di pericolo e le procedure per preservare la
sicurezza dei lavoratori. La Cassazione li definisce compiti di “alta vigilanza” EX art. 5 del d.lgs. n. 494/1996 – per
l’effetto superando le difformi valutazioni dei giudici dell’appello -.
…e non la concreta vigilanza. Il coordinatore cit. non deve concretamente vigilare sull’esecuzione dei piani per la
sicurezza in cantiere, dovendo limitare la funzione al coordinamento delle figure preposte alla sicurezza nonchè
all’esecuzione dei piani cit. nei documenti e nelle valutazioni dei rischi che ne costituiscono derivazione. Svolge attività
di coordinamento – eventualmente anche fra più imprese operanti – e non di concreta vigilanza nei luoghi del cantiere
e fra i lavoratori – spettante a committente, dirigenti, preposti e specifici delegati -. Nel caso specifico, la
responsabilità penale del coordinatore cit. è stata esclusa perché quel tipo di lavorazione pericolosa non era
specificamente prevista nei piani per il prevedibile sviluppo cantieristico. Era tuttavia genericamente prevista la
presenza di un ausilio visivo per le operazioni a terra, la cui assenza è addebitabile al committente, al datore di lavoro
ed ai preposti, invece omissivi sul punto nonostante gli obblighi di concreta vigilanza a questi spettanti.
I piani per la sicurezza “coprono” anche il comportamento non diligente del lavoratore (salvo condotta
assolutamente abnorme). La mancata diligenza del lavoratore non salva i responsabili. I piani devono “contenere”
anche le condotte poco attente dei lavoratori, quando costituiscono prevedibili sviluppi delle lavorazioni in cantiere.
Sulle cautele previste nei piani è in ogni caso mancata la concreta vigilanza dei preposti. Solo la condotta
assolutamente abnorme ed imprevedibile del lavoratore salva i responsabili.
LA RESPONSABILITÀ DEL COORDINATORE DELLA SICUREZZA NON TERMINA CON LA
CONCLUSIONE DELLE OPERE EDILI IN SENSO STRETTO
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Corte di Cassazione, Sentenza n.19208 del 9 maggio2016
Secondo la Corte di Cassazione non può essere esclusa la responsabilità penale di committente e coordinatore della
sicurezza per l’incidente mortale avvenuto sul cantiere temporaneo, in quanto tale cantiere non può considerarsi
concluso nel caso in cui non siano ultimate tutte le attività necessarie al completamento dell’opera. Con la Sentenza
in commento è stato chiarito che non può essere pronunciata sentenza di non luogo a procedere per omicidio
colposo, dal momento che, a tutela della massima sicurezza dei lavoratori, la legge non autorizza a ritenere che il
cantiere temporaneo o mobile debba considerarsi concluso, con conseguente esaurimento della posizione di garanzia
del coordinatore per l’esecuzione e del committente, allorché siano terminate le sole opere edili in senso stretto.
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CATASTO
Corte di Cassazione sentenza n. 7665 del 18 aprile 2016
La cognizione sulle liti in materia di atti amministrativi relativi allarevisione delle microzone catastali, in base all’art. 1,
comma 335, della legge n. 311/04, spetta al giudice amministrativo e non al giudice tributario. Con la sentenza n.
7665 del 18 aprile 2016, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione fanno dunque chiarezza, rettificando una singolare
pronuncia che era arrivata dal Consiglio di Stato.
IL FATTO
Un contribuente aveva ricevuto un atto di nuovo classamento di immobile, adottato in esito alla revisione delle
microzone catastali intervenuta nel comune di Lecce. In occasione del ricevimento di questo atto, il contribuente, in
proprio e quale rappresentante del Codacons, impugnava tutti gli atti deliberativi formati a monte dell’intervenuto
riclassamento nonché, nello specifico, il nuovo accertamento catastale recato nell’atto stesso. L’impugnazione era
proposta davanti al Tar.
L’avvocatura dello Stato aveva eccepito il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, sostenendo che la
materia avrebbe dovuto essere devoluta alle Commissioni tributarie.
Il Tar ha accolto il ricorso.
La sentenza è stata impugnata davanti al Consiglio di Stato, al quale veniva reiterata l’eccezione del difetto di
giurisdizione del giudice amministrativo. Con pronuncia il Consiglio di Stato ha accolto l’eccezione dell’Avvocatura,
affermando la giurisdizione delle Commissione tributarie anche con riguardo agli atti amministrativi generali
riguardanti la materia catastale. Secondo i giudici amministrativi, l’art. 74 della legge n. 342/00, che impone la
notifica di tutte le rendite catastali all’intestatario degli immobili, nel richiamare l’art. 2 del D.Lgs. n. 546/92, va
qualificato come norma attributiva di giurisdizione.
Secondo questa tesi, dunque, una volta che la rendita viene notificata, qualsiasi contestazione sul procedimento di
determinazione della stessa ricade nella competenza dei giudici tributari.
LA DECISIONE DELLA CORTE DI CASSAZIONE A SEZIONI UNITE
Le Sezioni Unite, sollecitate in sede di regolamento di giurisdizione, hanno cassato la sentenza del Consiglio di Stato,
riportando la controversia nell’alveo della giustizia amministrativa. In primo luogo, la Cassazione ricorda quali sono i
presupposti della revisione delle microzone, che non sono rappresentati né dalla richiesta del comune, né dalla
generica evoluzione del mercato immobiliare. Deve, infatti, essere accertato uno scostamento significativo del valore
degli immobili sulla base dei criteri stabiliti nella determinazione direttoriale del febbraio 2005. Osservano, inoltre, le
Sezioni Unite che il richiamo all’art. 2 del D.Lgs. n. 546/92, contenuto nell’art. 74, è limitato alle controversie già
appartenenti alle Commissioni tributarie. Tali sono quelle promosse dai singoli possessori con riferimento
all’intestazione e alle delimitazione di specifiche particelle catastali.
Rilevano ancora le Sezioni Unite che le Commissioni tributarie, per loro natura, hanno solo il potere di decidere in via
incidentale della legittimità degli atti amministrativi, con l’intermediazione necessaria dell’impugnazione di un
provvedimento impositivo avente un destinatario specifico, e non una collettività indistinta di soggetti. Qualora le
Commissioni lo ritengano necessario, è possibile disporre la sospensione del processo, in attesa della definizione del
giudizio amministrativo, al fine di evitare contrasto di giudicati.
Rimane, invece, nella cognizione dei giudici tributari l’impugnazione del singolo classamento che ha rappresentato
l’occasione
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REVISIONE DELLE MICROZONE CATASTALI
TECNICO LEGALI
IL CTU CHE DEPOSITA IN RITARDO COMMETTE REATO
Corte di Cassazione, Sentenza n.51051 del 29 dicembre 2015.
Risponde di rifiuto d'atti d'ufficio il consulente tecnico del tribunale che, nonostante le sollecitazioni del giudice,
non deposita la sua relazione. Lo ha affermato la sesta sezione penale della Cassazione, con la sentenza in esame,
confermando la condanna inflitta dalla Corte d'Appello di Messina alla pena di mesi 4 di reclusione oltre al pagamento
delle spese processuali nei confronti di un CTU, ritenuto colpevole del reato di rifiuto integrato da condotta omissiva
di atti di ufficio nell'ambito di un giudizio civile contenzioso, per non aver depositato la propria relazione integrativa,
nonostante la "diffida" ad adempiere. Se è vero che non qualsiasi ritardo dell'ausiliare è da qualificarsi come reato, è
anche vero, che c'è un limite di "ragionevole comporto" o di tempo di indugio tollerato, oltre il quale il ritardo
diventa penalmente sanzionabile, salvo che non sia giustificato da una causa di forza maggiore.
Il ritardo, hanno affermato infatti i giudici della S.C., "oltre ad essere connotato e preceduto senza che venga fornita
dall'agente giustificazione alcuna, da sollecitazioni ad adempiere da parte dell'ufficio che dell'opera del consulente si
sarebbe dovuto avvalere, deve risultare connotato dal superamento di ogni tempo di ragionevole tolleranza ed
essere rimesso, nella sua determinazione, alla stima del giudice del procedimento in cui l'opera avrebbe dovuto
prestarsi".
In mancanza di un termine fissato per legge, l'opera dell'ausiliare si considera utilmente resa, in sostanza, solo quando
arriva in tempo per rispondere alle ragioni di giustizia. Dal momento in cui tale linea di demarcazione viene superata,
consegue l'integrazione della lesione penalmente rilevante del bene giustizia.
Per cui essendosi reso il CTU "destinatario silente di una pluralità di atti di invito al deposito" e quindi consapevole del
proprio contegno omissivo senza fornire alcuna plausibile giustificazione al diniego di adempimento, il ricorso è
rigettato e il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali.
LA SERVITÙ PUÒ ESSERE COSTITUITA ANCHE SENZA SPECIFICAZIONE DEI DATI CATASTALI
Corte di Cassazione, Sez. II, Sentenza n.5208 del 16 marzo 2016.
La costituzione di servitù può avvenire attraverso l'individuazione dei confini precisi. La Suprema Corte, con la
sentenza in esame, ha ribadito che, nella costituzione di una servitù, i dati catastali hanno valenza tributaria e
sussidiaria e non sono necessari alla individuazione del cespite, anche nel caso di cessione immobiliare.
L'individuazione degli immobili, negli atti di trasferimento e/o di costituzione di servitù, avviene attraverso
l'individuazione dei confini che devono essere punti oggettivi di riferimento, in ragione dei quali individuare la
collocazione geografica del bene.
Corte di Cassazione, sez. II Civile, Sentenza n. 469 del 14 gennaio 2016.
“In tema di contratto di opera professionale, la previsione di un termine di durata del rapporto non esclude di per sé
la facoltà di recesso AD NUTUM [recesso libero, senza che sia dovuta alcuna giustificazione] previsto a favore del
cliente dal primo comma dell’art. 2237 cod. civ. dovendo verificarsi in concreto in base al contenuto del regolamento
negoziale se le parti abbiano inteso o meno vincolarsi in modo da escludere la possibilità di scioglimento del contratto
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IL CLIENTE PUÒ SEMPRE RECEDERE DAL CONTRATTO DI OPERA PROFESSIONALE, AMMESSO CHE
IN ESSO NON VI SIANO SPECIFICHE DISPOSIZIONI
prima della scadenza pattuita”. Questo il principio di diritto formulato dalla Corte di Cassazione, con la sentenza in
commento.
La suprema Corte ha respinto il ricorso di un medico che richiedeva un risarcimento dal cliente che aveva interrotto il
rapporto contrattuale di consulenza prima della scadenza stabilita di due anni, affermando che nei contratti stipulati
con i professionisti il cliente può recedere dal contratto prima della scadenza, a meno che il regolamento negoziale –
il documento in cui vengono esplicitati gli accordi tra le parti – esprima chiaramente la volontà delle parti di vincolarsi
in maniera tale da escludere lo scioglimento del contratto prima della scadenza stabilita.
Secondo i giudici, “la deroga pattizia alla facoltà di recesso deve essere verificata alla luce del contenuto del contratto
e non sono legittimi automatismi interpretativi”. Nel caso in questione, secondo il giudici, l’esame del regolamento
negoziale, in relazione alla particolare natura della prestazione professionale consistita in anamnesi, diagnosi,
informazione, consulenza e assistenza volta alla ricerca di cure per malattie rare, esclude che il cliente, con
l’apposizione del termine, avesse rinunciato alla facoltà di recesso.
In sostanza, nel fare riferimento al più intenso ÍNTUITUS PERSONAE, cioè la particolare rilevanza delle qualità
personali dei soggetti contraenti, la sentenza ha considerato la peculiarità della prestazione convenuta ovvero le
esigenze che il cliente intendeva soddisfare, confermando la natura fiduciaria del rapporto, che peraltro costituisce
un naturale requisito del contratto di opera professionale.
C.T.U.: CRITERI PER LA LIQUIDAZIONE DEL COMPENSO IN CASO DI IMMOBILI DIVERSI TRA LORO
Corte di Cassazione, Sentenza n.5325 del 17 marzo 2016
Qualora la consulenza tecnica in materia di estimo abbia ad oggetto una pluralità di immobili, il compenso del
consulente viene legittimamente determinato raggruppando le unità immobiliari aventi analoghe caratteristiche ed
applicando, sul valore dei singoli gruppi, la percentuale reputata congrua entro i limiti, minimo e massimo, stabiliti dal
d.m. 30 maggio 2002. Lo ha chiarito il giudice di legittimità con la pronuncia in esame.
INTERVENTI SU SUOLO O SU IMMOBILI DI PROPRIETÀ DELL’AMMINISTRAZIONE COMUNALE
Consiglio di Stato, Sez. VI, Sentenza n.498 dell’ 8 febbraio 2016.
Ogni trasformazione edilizia del territorio necessita di essere previamente assentita dall’amministrazione
comunale, anche quando sia quest’ultima proprietaria del suolo ovvero della costruzione oggetto di ristrutturazione
ma l’iniziativa dell’intervento faccia capo a soggetti terzi. Altro è il caso delle opere realizzate a iniziativa della stessa
amministrazione comunale proprietaria, in cui l’approvazione dell’opera con delibera di Consiglio comunale (ovvero
della Giunta, nei casi previsti dalla legge) assorbe ex se - ai sensi dell’art. 7 D.P.R. n. 380 del 2001 - l’ordinario
procedimento abilitativo delle opere edilizie.
Corte di Cassazione, Sentenza n.2438 del 08 febbraio 2016.
"L'obbligo di consegnare il certificato di agibilità grava ex lege sul venditore, in base all'art. 1477, terzo comma, cod.
civ., e a ciò consegue che il rifiuto del promissario acquirente di stipulare la compravendita definitiva di un immobile
privo dei certificati di abitabilità o di agibilità e di conformità alla concessione edilizia, pur se il mancato rilascio
dipende da inerzia del Comune - nei cui confronti peraltro è obbligato ad attivarsi il promittente venditore - è
giustificato, poiché l'acquirente ha interesse ad ottenere la proprietà di un immobile idoneo ad assolvere la funzione
economico-sociale e a soddisfare i bisogni che inducono all'acquisto, e cioè la fruibilità e la commerciabilità del bene".
È questo il principio ribadito dalla Corte di Cassazione nella sentenza in esame sulla cui base è stata decisa la vicenda
nella quale al momento della stipula del contratto definitivo, il promittente venditore non era in grado di consegnare il
certificato di agibilità e, pertanto, ad avviso della Corte risultava legittimo il rifiuto di stipulare dei promissari
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COMPRAVENDITA IMMOBILIARE, OBBLIGO DI CONSEGNARE IL CERTIFICATO DI AGIBILITÀ
acquirenti, ne gravava su questi ultimi l'onere di allegare la circostanza negativa che il certificato non potesse essere
rilasciato, come erroneamente ritenuto dalla Corte d'appello, essendo nell'interesse esclusivo del promittente
venditore, ai fini della valutazione della gravità dell'inadempimento, l'allegazione del fatto positivo e contrario, e cioè
che il certificato potesse essere rilasciato.
Nella medesima sentenza, inoltre, la Suprema Corte con riferimento al risarcimento del danno ha affermato che la
Corte territoriale ha erroneamente escluso che l'accertata mancata consegna del certificato di abitabilità
dell'appartamento integrasse inadempimento contrattuale, ponendo a carico degli acquirenti l'onere di dimostrare
che il certificato non potesse essere ottenuto.
Sulla base del medesimo principio sopra riportato, infatti, la Corte di Cassazione ha evidenziato come la consegna del
certificato di abitabilità dell'immobile oggetto del contratto, ove questo sia un appartamento da adibire ad
abitazione, pur non costituendo di per sè condizione di validità della compravendita, integra un'obbligazione
incombente sul venditore ai sensi dell'art. 1477 cod. civ., attenendo ad un requisito essenziale della cosa venduta,
in quanto incide sulla possibilità di adibire legittimamente la stessa all'uso contrattualmente previsto.
Il venditore-costruttore ha dunque l'obbligo di consegnare all'acquirente dell'immobile il certificato, curandone la
richiesta e sostenendo le spese necessarie al rilascio, e l'inadempimento di questa obbligazione è ex se foriero di
danno emergente, perché costringe l'acquirente a provvedere in proprio, ovvero a ritenere l'immobile tal quale, cioè
con un valore di scambio inferiore a quello che esso diversamente avrebbe, a prescindere dalla circostanza che il bene
sia alienato o comunque destinato all'alienazione a terzi.
Sulla base dei principi richiamati e di quelli in tema di inadempimento contrattuale, la Suprema Corte ha
conseguentemente ritenuto non dubitabile che l'onere di allegazione e di prova della perdurante possibilità di
procurare il certificato gravi sulla parte che è tenuta alla consegna.
Nel caso di specie, la parte promittente venditrice non ha dimostrato di poter onorare l'impegno, e quindi - conclude
la Corte - sussiste l'inadempimento e, con esso, il relativo danno.
Corte di Cassazione, Sez.II, Sentenza n.4445 del 7 marzo 2016
Per la successione ereditaria: ai fini della determinazione della legittima rilevano anche le donazioni anteriori alla
sorgere della qualità di erede legittimario, così il figlio può chiedere la riduzione delle donazioni anteriori alla sua
nascita e il coniuge la riduzione delle donazioni precedenti rispetto al matrimonio.
«Secondo la giurisprudenza di questa Corte, in materia di successione necessaria, ai fini della determinazione della
porzione disponibile e delle quote riservate ai legittimari, occorre avere riguardo alla massa costituita da tutti i beni
che appartenevano al de cuius al momento della morte – al netto dei debiti – maggiorata del valore dei beni donati
in vita dal defunto, senza che possa distinguersi tra donazioni anteriori o posteriori al sorgere del rapporto da cui
deriva la qualità di legittimario (Sez. 2, Sentenza n. 1373 del 20/01/2009, Rv. 606117; Sez. 2, Sentenza n. 1122 del
23/02/1982, Rv.419000).
L’equiparazione delle donazioni anteriori al sorgere del rapporto da cui deriva la qualità di legittimario a quelle
posteriori risponde alla ratio della riunione fittizia che ha lo scopo di determinare la quota della quale il defunto
poteva disporre e, correlativamente, la quota di riserva spettante al legittimario.
Non diversa, ai fini della determinazione della quota di riserva (art. 556 cod. civ.), è la posizione del coniuge rispetto a
quella dei figli. E invero, come il figlio sopravvenuto può chiedere la riduzione di tutte le donazioni compiute in vita
dal padre, anche di quelle compiute prima della sua nascita in favore della madre o di altro coniuge ormai non più
tale; allo stesso modo il coniuge sopravvenuto rispetto ai figli può chiedere la riduzione di tutte le donazioni compite
dal de cuius in favore dei figli, anche di quelle precedenti il matrimonio poste in essere in favore dei figli nati da altro
coniuge o nati fuori dal matrimonio».
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SUCCESSIONE EREDITARIA: AI FINI DELLA DETERMINAZIONE DELLA LEGITTIMA RILEVANO ANCHE
LE DONAZIONI ANTERIORI AL SORGERE DELLA QUALITÀ DI LEGITTIMARIO
CHI RECEDE ALLA VIGILIA DEL ROGITO RIFONDE I CANONI DI LOCAZIONE CHE IL VENDITORE NON
HA POTUTO INCASSARE
Corte di Cassazione, Sentenza n. 4718 del 10 marzo 2016.
Le Corte di Cassazione, la sentenza in commento, ha stabilito che la parte interessata all’acquisto dell’immobile, che
non si presenta presso lo studio del Notaio per la stipula del rogito, dovrà risarcire al promittente venditore anche
l’importo pari ai canoni di locazione che quest’ultimo avrebbe potuto incassare qualora non fossero mai state avviate
le trattative. Secondo la Corte, infatti, il risarcimento non deve coprire solo il danno emergente ma anche il lucro
cessante, che va commisurato ai canoni non percepiti.
IL CTU NON PUO’ ACCETTARE NESSUN DOCUMENTO DALLE PARTI
Tribunale di Lamezia Terme, sentenza del 30.03.2016
La parte in causa non può tirare fuori, al momento dell’espletamento della CTU (la consulenza tecnica preventiva) un
documento che non ha depositato prima in tribunale. È possibile, infatti, presentare le prove decisive per il giudizio
solo nei termini concessi dal giudice per le richieste istruttorie e non più dopo. Lo ha precisato il Tribunale di
Lamezia Terme con una recente sentenza del 30.03.2016
Nella decisione in commento si ricorda, giustamente, che la prova documentale deve essere offerta al giudice nel
rispetto delle cosiddette “preclusioni processuali” ossia – per i non addetti ai lavori – entro i termini che vengono
assegnati, di volta in volta, dalla legge e dal giudice. Per esempio, per quanto
riguarda proprio l’esibizione di documenti, essi vanno allegati con le note
istruttorie che, normalmente, vengono depositate entro 60 giorni dopo la prima
udienza (entro i primi 30 giorni invece vanno depositate le note che precisano e
integrano la domanda introduttiva del giudizio).
Pertanto va considerata tardiva e illegittima la produzione di una prova che
avvenga solo durante l’espletamento della consulenza tecnica d’ufficio per mero
comportamento (errato) del Ctu che acquisisca i documenti offertigli da una sola
parte.
Le parti quindi non possono mostrare al consulente del giudice prove documentali
ulteriori rispetto a quelle che hanno già dato al proprio avvocato e che questi, a sua
volta, ha depositato nel fascicolo di parte entro i 60 giorni successivi alla prima
udienza .
E ciò anche se l’altra è d’accordo.
Né il Ctu può, a sua volta, chiedere l’esibizione di nuove prove, dovendo egli formulare la propria perizia sulla base dei
documenti già offerti dalle parti.
TAR Lazio sentenza n. 4018/2016
L'autorità pubblica deve rendere disponibile l'informazione ambientale detenuta a chiunque ne faccia richiesta, senza
che questi debba dichiarare il proprio interesse. Con la sentenza n. 4018/2016 depositata il 4 aprile, il Tar Lazio ha
accolto il ricorso proposto da una condomina contro il silenzio serbato dall'ARPA Lazio sulla propria istanza di accesso
a documenti rilevanti in tema di accertamento delle immissioni sonore provocate dall’impianto di condizionamento
all’interno del condominio.
“In primo luogo”, hanno evidenziato i giudici, “occorrere premettere che, secondo il disposto dell'art. 3, comma 1, del
D.Lgs. n. 195/2005, “l'autorità pubblica rende disponibile... l'informazione ambientale detenuta a chiunque ne faccia
richiesta, senza che questi debba dichiarare il proprio interesse.Da ciò deriva che l'accesso alle informazioni
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CONDIZIONATORE: L’ARPA E L’OBBLIGO DI INFORMAZIONE SUL RUMORE
ambientali ha una portata ben più ampia rispetto a quello ai sensi degli artt. 22 e ss. della legge n. 241/1990”.
Inoltre “la ricorrente è residente all’interno dello stesso condominio e gli accertamenti risultano eseguiti proprio nella
abitazione ove abita la ricorrente”.
Dunque, il Tar Lazio ha sostenuto che , “È evidente che si tratta di "informazioni ambientali" e che la odierna
ricorrente risulti portatrice di un interesse giuridicamente qualificato all’ottenimento della richiesta documentazione”.
Va poi considerato che “l'oggetto della richiesta di accesso è puntualmente indicato, per cui allo stesso non osta
l'impedimento di cui all'art. 5, comma 1, lett. c), del d.lgs. n. 195/2005, rappresentato dalla sua eccessiva genericità.
Né può ritenersi che tale istanza sia irragionevole rispetto alle finalità di cui all'art. 1: si tratta di atti recanti
informazioni ambientali relative all'adozione di misure, di competenza dell'interpellata ARPA Lazio.
Pertanto, ha concluso il Tar, “il ricorso è fondato e deve essere accolto, con obbligo di ostensione, mediante visione ed
estrazione di copia, dei suindicati documenti, oggetto dell'istanza di accesso, in capo ad ARPA Lazio, entro il termine di
30 giorni, decorrente dalla comunicazione in via amministrativa o, se anteriore, dalla notificazione della presente
sentenza”.
PARCHEGGIARE SULLA PROPRIETA’ DEL VICINO FA SCATTARE L’USUCAPIONE
Corte di Cassazione, Sentenza n. 8220 del 22 aprile 2016
Chi lascia l’auto sul parcheggio condominiale del palazzo vicino e lo fa per 20 anni ne diventa proprietario
attraverso l’usucapione.
Si può diventare proprietari di un’area altrui destinata a parcheggio tramite usucapione: chi infatti utilizza tale spazio
per oltre 20 anni comportandosi come se fosse il proprietario (ad esempio, lasciandovi la propria auto e impedendo
l’accesso ad altri con sbarre o lucchetti) diventa, anche per la legge, effettivo titolare dell’immobile
Corte di Cassazione, Sentenza n. 10222 del 18 maggio 2016
E’ illegittima la rettifica del Fisco che ridetermina il valore di un immobile oggetto di compravendita, fondato su “stime
precedenti” per zone limitrofe, non supportate da alcun elemento concreto. E’ quanto dichiarato dalla Corte di
Cassazione con la sentenza in esame, precisando che dinanzi al giudice tributario il Fisco si pone sullo stesso piano del
contribuente e, quindi, la perizia del geometra dell’Agenzia del territorio costituisce una perizia tecnica di parte e non
d’ufficio.
Le Entrate hanno rettificato il valore di compravendita di un terreno edificabile sul presupposto di una stima
redatta dall'agenzia del Territorio. Quindi ha liquidato le maggiori imposte di registro, ipotecaria e catastale, oltre
interessi e sanzioni.
La pretesa veniva impugnata dinanzi al giudice tributario che per entrambi i gradi di merito, confermava la legittimità
del provvedimento.
I contribuenti ricorrevano così per Cassazione lamentando, in estrema sintesi che il giudice di appello, non si era
pronunciato sull'eccezione di nullità dell'avviso di rettifica per totale assenza di motivazione, oltre che in ogni caso,
aver fondato la decisione solo sulla valenza della stima redatta dall’ufficio.
La Cassazione ha innanzitutto ricordato che l'amministrazione finanziaria, dinanzi al giudice si pone sullo stesso piano
del contribuente, con la conseguenza che la relazione di stima di un immobile, redatta da un organo interno
all'amministrazione stessa, costituisce una relazione tecnica di parte e non una perizia d'ufficio. Ad essa, pertanto, va
attribuito il valore di atto pubblico soltanto per quel che concerne la sua provenienza e non anche per il contenuto
estimativo.
Il giudice poi potrebbe anche fondare la propria decisione esclusivamente sulla perizia stessa, ma è comunque tenuto
a spiegare le ragioni per le quali il documento di parte sia più corretto e convincente rispetto alle altre risultanze
istruttorie.
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VALORE DEGLI IMMOBILI ANCORATO A STIME PRECISE
In altre parole, è stato affermato che la valutazione dell'ufficio non ha più valore rispetto ad una redatta da un tecnico
privato e pertanto va considerata dal giudice al pari delle altre prove prodotte.
Nella specie, a fronte di un avviso di rettifica e liquidazione che faceva generico riferimento a “precedenti stime”,
nonché di un quadro istruttorio privo di qualsivoglia elemento dimostrativo, come ad esempio atti negoziali similari,
valutazioni di soggetti indipendenti, informazioni sulle condizioni di edificabilità, ecc, il giudice avrebbe dovuto
concludere per l'incongruità del valore per assenza di adeguata prova.
I contribuenti, in giudizio, avevano prodotto numerosi elementi di riscontro (una relazione tecnica di parte,
l'accertamento comunale ai fini Ici, atti similari), in realtà completamente trascurati dal collegio di merito.
I giudici di legittimità in conclusione hanno evidenziato che era stato fatto mal governo delle regole sull'onere della
prova a carico dell'Ufficio e della conseguente valutazione dei mezzi istruttori eventualmente prodotti dalle parti.
La decisione appare particolarmente importante poiché richiama l'attenzione sulla necessità che le commissioni
tributarie non si limitino a confermare la legittimità di una pretesa solo su una valutazione redatta dall'Ufficio stesso,
trascurando così elementi talvolta più concreti e verosimili prodotti dai contribuenti.
Corte di Cassazione, Sentenza n. 11158 del 30 maggio 2016
Chi ha maturato un’usucapione di una servitù e poi ne faccia rinuncia per iscritto impedisce al suo avente causa
nella proprietà del fondo dominante di far valere l’usucapione rinunciata dal dante causa. Ciò anche se l’acquirente
del fondo non abbia saputo nulla di questa rinuncia e se la rinuncia all’usucapione non sia stata trascritta nei Registri
immobiliari.
Nel grado d’appello della controversia in esame, il giudice aveva invece ritenuto non opponibile, all’avente causa del
soggetto che aveva maturato l’usucapione di una servitù di passaggio, il fatto che quest’ultimo vi avesse rinunciato, in
quanto l’acquirente stesso nulla aveva saputo di tale rinuncia e l’atto di rinuncia non era stato trascritto nei Registri.
La Cassazione ha analizzato la situazione del soggetto che, dopo avere esercitato il possesso ultraventennale della
servitù e con ciò aver maturato l’usucapione della servitù stessa, esprima al proprietario del fondo servente (e cioè il
fondo gravato dalla servitù usucapita) la volontà di non avvalersi della causa di acquisto del diritto reale minore
maturatasi a titolo originario a favore del proprio fondo (il cosiddetto fondo dominante). In questa situazione,
secondo la Cassazione, la rinuncia per iscritto all’usucapione della servitù di passaggio fatta dal proprietario del fondo
dominante rileva dunque di per sé, non potendo la sua efficacia negoziale essere fatta dipendere né dall’avvenuta
comunicazione al successivo acquirente né dall’osservanza dell’onere di trascrizione dell’atto di rinuncia nei Registri
immobiliari.
Tra l’altro, nel caso specifico, la soluzione della tematica analizzata è stata resa ancor più facile dal fatto che, al
momento della formulazione della rinuncia alla servitù, non esisteva alcun avente causa del fondo dominante (in
quanto il fondo in questione venne alienato assai successivamente all’atto di rinuncia all’usucapione) né si rendeva
plausibile la trascrizione di alcun atto di rinuncia, in quanto mai era stato nemmeno trascritto alcun atto in cui fosse
stata accertata la maturazione dell’usucapione della servitù.
L’usucapione è l’acquisto del diritto di proprietà di un bene o di un diritto reale (come la servitù) mediante il
«possesso» del diritto in questione protratto per un certo periodo di tempo. Per avere il «possesso» occorre
esercitare un potere corrispondente a quello che potrebbe esercitare il proprietario o il titolare di un altro diritto reale
sul bene stesso (quindi non è possibile che ottenga l’usucapione chi corrisponde canoni d’affitto, pur in assenza di
contratti scritti, in quanto così facendo egli si autoqualifica semplice detentore e non possessore dell’immobile).
Per condurre all’usucapione, il possesso, protratto per il tempo richiesto dalla legge, deve essere continuato (e cioè
deve consistere in una permanente manifestazione della signoria sulla cosa), non interrotto (ad esempio, con azione
giudiziale del proprietario o il riconoscimento dell’altrui diritto da parte del possessore o per perdita del possesso per
oltre un anno), pacifico (cioè non ottenuto con violenza fisica o morale) e non clandestino, quindi non acquistato e
mantenuto nascostamente.
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USUCAPIONE, CHI COMPRA SUBISCE LA RINUNCIA
Il possesso altresì deve essere inequivoco (e cioè non devono sorgere dubbi sui suoi connotati e sulla sua effettività)
ed esclusivo sul bene o sulla sua porzione che si intende usucapire.
PAGA "ORARIA" PER IL CTU SE LE ATTIVITÀ NON RIENTRANO NEI PARAMETRI TABELLARI
Corte di Cassazione, Sentenza n.8148 del 22 aprile 2016
Il Consulente tecnico d'ufficio che svolge un'attività non riferibile ai parametri tabellari
va remunerato a tempo, quindi in base alle ore di lavoro se non è possibile,
analogicamente, far rientrare le sue operazioni in quelle tipiche.
Inoltre, il criterio della liquidazione tabellare si può cumulare con quello delle vacazioni
se sono compiute plurime attività che prevedono uno o l'altro criterio di liquidazione.
Lo ha disposto la Corte di Cassazione, sezione sesta civile, nella sentenza in commento
che ha rigettato il ricorso della parte che riteneva spropositato il compenso liquidato dal
Tribunale al C.T.U. per la consulenza espletata in un procedimento di volontaria
giurisdizione.
Il compenso sarebbe stato, a detta di parte ricorrente, liquidato in misura eccessiva rispetto al valore dell'opera svolta
dall'ausiliaria, di scarsa qualità e priva di pregio.
Inoltre, invece di applicare congiuntamente il criterio delle vacazioni e quello tabellare, parte ricorrente sostiene che
avrebbe dovuto applicare il solo tabellare posto che l'attività rimessa al C.T.U. non presenta alcuna complessità e
varietà tali da esorbitare nell'ambito di una perizia psicologica.
Motivi che, per gli Ermellini, risultano infondati.
In primis, rammentano i giudici, è sicuramente preclusa in sede di legittimità la censura relativa all'asserito scarso
pregio della consulenza e va rilevato come il Tribunale abbia ampiamente e correttamente risposto alle stesse censure
sollevate nei confronti del provvedimento di liquidazione dell'onorario.
Comunque, anche nel merito la doglianza sarebbe priva di fondamento: il Collegio evidenzia che il criterio della
liquidazione tabellare è cumulabile rispetto a quello delle vacazioni nel caso in cui, in risposta ai quesiti sottoposti al
consulente, siano state compiute plurime attività che prevedano uno o diversi criteri di liquidazione tabellare e altre
che siano prive di riferimento a qualsiasi parametro tabellare e rispetto alle quali appare, pertanto, illogica e quindi
non percorribile una estensione analogica delle ipotesi tipiche di liquidazione, sicché rispetto ad esse si rende
necessaria la liquidazione a vacazioni.
Nel caso di specie, la consulenza non è apparsa al Tribunale riconducibile a quella psicologica trattandosi di un mero
accertamento ricognitivo e fattuale in ordine alle abitudini di vita, all'attività lavorativa svolta, alle condizioni
dell'abitazione, alla situazione personale del minore, sotto il profilo della cura e dell'educazione, alla predisposizione di
un piano programmatico per l'esercizio del diritto di visita.
Si tratta di valutazioni che sfuggono all'ambito della consulenza psicologica vera e propria, che ha contraddistinto,
invece, la parte della consulenza dedicate all'affidamento dei figli. Il ricorso va pertanto rigettato.
Corte di Cassazione, Sentenza n. 9023 del 05 maggio 2016
Nelle consulenze tecniche d'ufficio, il giudice può legittimamente ridurre i compensi al Ctu laddove la prestazione
non venga completata nel termine stabilito, così come può scegliere di aumentare fino al doppio le somme
liquidate, ma in tal caso è tenuto a motivare specificamente la scelta chiarendo quali sono i presupposti di
importanza, complessità e difficoltà che consentono tale aumento. Tale principio pacifico è stato ribadito dalla
sentenza della Corte di Cassazione in commento, la quale pronunciandosi sul ricorso di una società avverso il decreto
di liquidazione del compenso del nominato CTU (relativamente alla causa promossa dalla stessa avverso
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COMPENSI RIDOTTI DI 1/3 PER IL CTU RITARDATARIO
un'amministrazione comunale) ha colto l'occasione per chiarire le modalità di applicazione del Testo unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia (D.P.R. 115/2002).
La vicenda : Nella fattispecie, la s.r.l. ricorreva innanzi alla S.C. avverso l'ordinanza con la quale il tribunale, in sede di
opposizione, aveva in parte accolto la domanda di parte attrice contro il decreto di liquidazione del compenso
spettante al CTU incaricato, giustificando tuttavia il raddoppio del compenso operato dal giudice istruttore.
Davanti ai giudici di Piazza Cavour, in particolare, parte ricorrente lamenta la violazione dell'art. 52, co. 1 e 2, del
D.P.R. n. 115 del 2002, oltre che vizio di motivazione, per avere il Tribunale raddoppiato l'importo calcolato a
percentuale, applicando l'aumento massimo previsto, senza motivare sul pregio dell'opera, e senza applicare la
riduzione del quarto degli onorari, in considerazione del ritardo con il quale la relazione è stata depositata.
Il motivo è integralmente accolto dalla Cassazione, la quale evidenzia che da parte del giudice dell'opposizione non è
stato in alcun modo motivato il raddoppio degli onorari, con riferimento ai presupposti che ne consentono
l'applicazione ai sensi della norma citata; questa, infatti, giustifica sì l'aumento, fino al doppio, ma solo in presenza
di prestazioni di eccezionale importanza, complessità e difficoltà.
La stessa norma, inoltre, stabilisce che, se la prestazione non è completata nel termine originariamente stabilito o
entro quello prorogato per fatti sopravvenuti e non imputabili all'ausiliario del magistrato, per gli onorari a tempo non
si tiene conto del periodo successivo alla scadenza del termine e gli altri onorari sono ridotti di un terzo.
Alla luce di questo quadro normativo, per la S.C., l'ordinanza impugnata va quindi censurata sia in relazione
all'aumento del compenso sia in relazione alla mancata riduzione dello stesso per il ritardo.
Nel caso di specie, peraltro, ricorre pacificamente l'ipotesi di ritardo e gli onorari percentuali vanno ridotti di un
quarto, percentuale applicabile ratione temporis in quanto la norma è stata riformata ai sensi della L. 18 giugno
2009, n. 69.
I precedenti: La pronuncia del resto, si pone in continuità con i precedenti indirizzi giurisprudenziali, in base ai quali la
Corte ha sottolineato come la facoltà di aumentare i compensi del CTU fino al doppio, costituisce esercizio di un
potere discrezionale da parte del giudice, come tale insindacabile in sede di legittimità, soltanto però se
congruamente motivato (cfr. Cass. n. 20235/2009).
Inoltre, ai fini dell'operata maggiorazione, assumono rilievo alcuni elementi del giudizio, come: l'oggetto e il valore
della controversia, la natura (e l'importanza) dell'accertamento, oltre al tempo e all'impegno profusi nel ruolo
dall'ausiliare del giudice. L'omissione dell'esercizio di tale potere discrezionale da parte del giudice, invece, non è
sottoposta all'obbligo di motivazione, giacché, in tal caso, è implicita la valutazione negativa sull'opportunità di
avvalersene, oltre che insindacabile in sede di legittimità (cfr. Cass. n. 6414/2007).
TABELLE MILANESI DI LIQUIDAZIONE DEL DANNO: IL GIUDICE NON
DEVE TENER CONTO DEGLI AGGIORNAMENTI SUCCESSIVI
presso la Generali.
Il Tribunale in primo grado rigettava la domanda con compensazione delle spese di lite, reputando che non fosse stata
fornita dimostrazione della dinamica del sinistro, mentre la Corte di Appello, in riforma della sentenza di primo grado,
reputando che a favore della DE CUIUS operava, in qualità di trasportata, la presunzione di responsabilità del
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Corte di Cassazione, Sentenza n. 9367 del 10 maggio 2016
Con la sentenza in esame, la Corte di Cassazione si pronuncia in merito alla
questione se il giudice debba tener conto, nell'applicare le tabelle milanesi, gli
aggiornamenti successivi dei relativi importi.
Il caso: i parenti di una signora deceduta in conseguenza di un sinistro stradale
convenivano in giudizio dinanzi al Tribunale i responsabili del sinistro e le
Generali s.p.a., per ottenere il risarcimento dei danni subiti per la morte della
loro congiunta, avvenuta in occasione di un sinistro stradale fra l'autovettura su
cui si trovava trasportata e l'autovettura condotta dai convenuti ed assicurata
conducente dell'altro veicolo, in difetto di prova liberatoria, nel marzo 2013 provvedeva a liquidare il danno richiesto
dagli eredi applicando le tabelle milanesi (di determinazione dei danni non patrimoniali) del 2011.
Uno dei coeredi propone ricorso per Cassazione avverso la decisione della Corte territoriale, lamentando, tra i vari
motivi di doglianza, vizio di omessa, insufficiente, erronea e contraddittoria motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5, in
relazione alla statuizione con cui la Corte di Appello di Bologna ha erroneamente applicato le tabelle di liquidazione
del danno di Milano 2011.
Infatti, secondo il ricorrente, la Corte di Appello avrebbe dovuto procedere alla liquidazione del danno sulla base delle
tabelle operanti dal gennaio del 2013, in luogo di quelle del 2011: la Corte territoriale quindi avrebbe violato il
principio giurisprudenziale per cui la liquidazione tabellare debba essere effettuata sulla base delle tariffe in vigore al
momento dell'emissione della sentenza:
 la sentenza impugnata è stata deliberata il 22 marzo 2013 e pubblicata il 10 aprile 2013, mentre le tabelle
aggiornate sono state pubblicate solo due giorni prima, cioè il 20 marzo;
 il Collegio della Corte milanese, quindi, teoricamente ed astrattamente avrebbe potuto averne conoscenza e
avrebbe potuto e dovuto riconvocarsi e dare rilievo alla tabella aggiornata, da ritenersi JUS SUPERVENIENS,
procedendo ad una nuova deliberazione che ne tenesse conto.
La Corte di Cassazione respinge il ricorso secondo il seguente ragionamento:
1. quanto alla natura delle "tabelle milanesi", le stesse una volta deliberate, non assumono il valore di normativa di
diritto in via diretta, in quanto esse non sono espressione di una fonte di produzione di norme di diritto;
2. l'unica norma che viene in rilievo quando se ne fa applicazione è, invece, l'art. 1226 c.c., e pertanto le suddette
Tabelle rilevano come semplici parametri per la valutazione equitativa del danno non patrimoniale alla persona e,
dunque, per l'individuazione di un elemento di una norma giuridica, qual è quella dell'art. 1226 c.c.;
3. il mutamento della tabella, e quindi i successivi aggiornamenti, non integrando un jus superveniens per non
essere le tabelle fonte del diritto, bensì soltanto un mutamento di un parametro per l'applicazione dell'art. 1226 c.c.,
non possono fondare un obbligo per il giudice a prenderli in esame come diritto vigente;
4. peraltro, osserva ancora la Corte, considerato che le variazioni delle tabelle non sono pubblicistiche, non esiste nè
un criterio certo in via di fatto nè a maggior ragione in via di disciplina legale idoneo a giustificare il se ed il quando
della conoscenza da parte del giudice della modificazione della tabella.
Corte di Cassazione, sez. II Civile, Sentenza n. 12633 del 17 giugno 2016
In materia condominiale, le norme relative ai rapporti di vicinato, tra cui quella relativa alle distanze delle tubazioni
(di cui all'art. 889cod. civ.), trovano applicazione rispetto alle singole unità immobiliari soltanto in quanto
compatibili con la concreta struttura dell’edificio e con la particolare natura dei diritti e delle facoltà dei singoli
proprietari; pertanto, qualora esse siano invocate in un giudizio tra condomini, il giudice di merito è tenuto ad
accertare se la loro rigorosa osservanza non sia nel caso irragionevole,
considerando che la coesistenza di più appartamenti in un unico
edificio implica di per sé il contemperamento dei vari interessi al fine
dell’ordinato svolgersi di quella convivenza che è propria dei rapporti
condominiali. Ma
la deroga al rispetto delle distanze postula
l’impossibilità di posizionare, nel caso di specie, altrimenti le tubazioni –
attesa la (necessaria) contiguità della unità immobiliari comprese
nell’edificio condominiale. Tale presupposto è stato correttamente
escluso nella specie in cui, come si è detto, la installazione delle
tubazioni a distanza illegale non era dovuta a una situazione strutturale obiettiva dell’edificio ovvero a necessità che
rendevano irragionevole il rispetto del distanze ma alla esigenza soggettiva del condomino di rendere commerciabile
sul mercato l’immobile.
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RAPPORTI DI VICINATO DISTANZE DELLE TUBAZIONI
L’art. 1122 cod. civ., nel testo ratione temporis applicabile, disciplina l’ipotesi in cui il condomino, realizzi opere e
innovazioni nella proprietà esclusiva, consentendogli l’esercizio dei poteri dominicali sempreché non arrechi
pregiudizio alle parti comuni (e comunque nel rispetto dell’altrui proprietà esclusiva del vicino). Il condomino ha il
diritto di godere e disporre dell’appartamento, apportandosi modifiche o trasformazioni che ne possano migliorare
l’utilizzazione, peraltro con il limite di non ledere i diritti degli altri condomini.
LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE NON PUÒ CONCLUDERE CONTRATTI A DISTANZA
Corte di Cassazione, Sez. III Civile, Sentenza n. 12540 del 17 giugno 2016
In caso di contratti per i quali sia prevista per legge la necessaria stipulazione in forma scritta, il requisito di forma è
certamente soddisfatto, sia in caso di scambio tra proposta e accettazione scritte sia, a maggior ragione, laddove il
consenso sia espresso in tale forma da entrambe le parti in relazione ad un unico documento di comune
elaborazione, a nulla rilevando che la sottoscrizione dell’unico documento contrattuale sia eventualmente avvenuta
in tempi e luoghi diversi, purché non risulti espressamente revocato il consenso prestato dal precedente
sottoscrittore prima della sottoscrizione dell’altro.
I contratti conclusi dalla pubblica amministrazione richiedono la forma scritta "ad substantiam" e devono inoltre di
regola essere consacrati in un unico documento, ad eccezione dell’ipotesi di contratti conclusi con ditte commerciali,
prevista dall’art. 17 del r.d. n. 2240 del 1923, in cui è ammessa la conclusione a distanza, a mezzo di corrispondenza,
nella forma di scambio di proposta e accettazione tra assenti: tale requisito di forma è dunque soddisfatto in caso di
cd. elaborazione comune del testo contrattuale, e cioè mediante la sottoscrizione di un unico documento contrattuale
il cui contenuto sia stato concordato dalle parti, anche laddove la sottoscrizione di tale unico documento non sia
contemporanea ma avvenga in tempi e luoghi diversi.
Consiglio di Stato, Sez. VI, Sentenza n. 3403 del 28 luglio 2016
Il “criterio dei 18 mesi”, di cui all’art. 6 della Legge n. 124 del 2015, sulla base del principio “tempus regit actum”, non
può trovare applicazione nella fattispecie in discussione, che riguarda un provvedimento adottato nel 2012. Semmai,
come il Comune non manca di segnalare, può essere utile rammentare che in materia edilizia l'art. 39 del d.P.R. n.
380 del 2001 fissa in dieci anni il termine - ragionevole - entro il quale la |Regione può annullare provvedimenti
comunali che autorizzano interventi edilizi non conformi a prescrizioni degli strumenti urbanistici o dei regolamenti
edilizi o comunque in contrasto con la normativa urbanistico-edilizia vigente al momento della loro adozione.
Potrebbe dunque trovare tuttora applicazione, se del caso, quale “parametro temporale” di legittimità e congruità
dell’azione amministrativa di annullamento in via di autotutela in materia, il “criterio decennale”, riferito all’esercizio
del potere comunale di autoannullamento in relazione a un permesso assentito nell’ottobre del 2008 e annullato nel
maggio del 2012. In ogni caso, anche a volere tenere conto del “criterio dei 18 mesi” introdotto nel 2015 quale
elemento orientativo al fine di valutare, sotto il profilo della ragionevolezza del termine, la legittimità di un atto di
annullamento in autotutela adottato sotto la disciplina previgente, resta il fatto che, avuto anche riguardo alla
rappresentazione non veritiera dello stato dei luoghi da parte del privato richiedente, la circostanza che tra il rilascio
del “permesso commissariale” e l’adozione del provvedimento comunale di annullamento in via di autotutela siano
trascorsi tre anni e otto mesi non è in grado di inficiare il provvedimento impugnato in primo grado (cfr., sulla
ragionevolezza del tempo, di circa quattro anni –gennaio 2009 / marzo 2005- entro il quale è stato disposto
l’annullamento in autotutela di un permesso di costruire assentito in modo illegittimo, la già citata sentenza Cons.
Stato, sez. IV, n. 3150 del 2012). Il profilo di censura attinente alla omessa analisi della possibilità di adottare atti
diversi dall’annullamento in via di autotutela (ad esempio, la convalida), sembra poi travalicare i limiti del controllo
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ANNULLAMENTO IN AUTOTUTELA: IL "CRITERIO DEI 18 MESI" INTRODOTTO DALLA LEGGE N.
124/2015 E IL PRINCIPIO DEL "TEMPUS REGIT ACTUM”
giudiziale di legittimità demandato a questo giudice amministrativo sconfinando nel merito delle opzioni riservate
all’autorità amministrativa.
Corte di Cassazione, Sentenza n. 17739 del 07 settembre 2016
Poiché le spese per la consulenza tecnica d'ufficio rientrano fra tutti gli altri costi del processo suscettibili di
regolamento ai sensi degli articoli 91 e 92 c.p.c., il giudice di merito che statuisca su di esse, compensandole in tutto o
in parte separatamente dal resto, adotta null'altro che una variante verbale della tecnica di compensazione espressa
per frazioni dell'intero ai sensi dell'articolo 92 c.p.c., ammissibile anche in presenza di una parte totalmente vittoriosa.
È questo il principio di diritto precisato dalla Corte di Cassazione, sezione sesta civile, nella sentenza in esame
pronunciandosi su una questione riguardante la compensazione delle spese di c.t.u.
I ricorrenti incidentali deducono che la Corte d'Appello avrebbe erroneamente ritenuto legittima la compensazione
delle spese di c.t.u. fra tutte le parti in misura di un terzo per ciascuna: tale decisione è ritenuta violare il consolidato
principio in base al quale la parte interamente vittoriosa non deve sopportare le spese di causa neppure parzialmente,
sia in quanto, sotto il profilo del vizio motivazionale, essa non considera che la consulenza tecnica per sua stessa
natura è utilizzata per accertare questioni d'interesse comune alle parti. Tuttavia, evidenziano gli Ermellini, la
giurisprudenza di Cassazione ha visto contrapporsi due contrastanti orientamenti. Il primo indirizzo afferma che viola
l'articolo 91 c.p.c., la disposizione del giudice che pone parzialmente a carico della parte totalmente vittoriosa il
compenso liquidato a favore del consulente tecnico d'ufficio, perché neppure in parte essa deve sopportare le spese
di causa, né rileva che siano state compensate tra le parti le spese giudiziali (Cass. nn. 6301/07 e 14925/10).
Nel medesimo senso si è anche affermato che disposta la compensazione, per giusti motivi, delle spese giudiziali, il
giudice del merito non può disporre la ripartizione per quote uguali, tra la parte totalmente vittoriosa e quella
soccombente, delle spese liquidate in favore del consulente tecnico d'ufficio, perchè tale statuizione, ponendo una
parte delle predette spese a carico della parte totalmente vittoriosa, viola il principio dell'articolo 91 c.p.c., che
esclude la possibilità di condanna di questa parte al pagamento, anche parziale, delle spese di causa (Cass. nn.
6432/02, 3237/00 e 6228/92).
In senso opposto, invece, si è detto che compensando le spese processuali, il giudice può ripartire le spese della
consulenza tecnica d'ufficio in quote uguali tra la parte soccombente e la parte totalmente vittoriosa, senza violare, in
tal modo, il divieto di condanna di quest'ultima alle spese di lite, atteso che la compensazione non implica condanna,
ma solo esclusione del rimborso, e, altresì, che la consulenza tecnica d'ufficio, quale ausilio fornito al giudice da un
collaboratore esterno, anziché mezzo di prova in senso proprio, è un atto compiuto nell'interesse generale della
giustizia e, dunque, nell'interesse comune delle parti (Cass. n. 1023/13).
Quindi, il giudice di merito, nell'ambito di una pronuncia di compensazione delle spese, può legittimamente disporre
la ripartizione per quote uguali delle spese di c.t.u. fra parte soccombente e parte totalmente vittoriosa, senza con ciò
violare il divieto di condanna di quest'ultima alle spese (articolo 91 c.p.c.), dato che la compensazione delle spese
processuali è soltanto esclusione del rimborso, e dunque negazione della condanna: e ciò, spiegano i giudici, tanto più
ove si consideri che la consulenza tecnica d'ufficio è strutturata, nel processo civile, essenzialmente quale ausilio
fornito al giudice da un suo collaboratore esterno all'ordine giudiziario, piuttosto che quale mezzo di prova in senso
proprio, costituendo, dunque, un atto necessario del processo che l'ausiliare compie nell'interesse generale della
giustizia e, correlativamente, nell'interesse comune delle parti (Cass. nn. 17953/05, 21701/06 e 2858/99).
La Sesta sezione sceglie, dunque, di aderire a questo secondo indirizzo, ritenendo senz'altro corretta l'equiparazione
delle spese di c.t.u. a tutti gli altri costi del processo suscettibili di regolamento ai sensi degli articoli 91 e 92 c.p.c.. Il
principio di soccombenza copre, nei limiti della prima parte dell'articolo 91 c.p.c., comma 1, tanto le spese interne
quanto quelle esterne al rapporto di patrocinio.
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LE SPESE PER IL CTU SI POSSONO COMPENSARE
Ciò che, invece, non appare condivisibile, concludono i giudici, è che la compensazione (s'intende, interna) delle spese
di c.t.u. esponga la parte interamente vittoriosa ad un inammissibile pagamento delle spese processuali, in violazione
dell'opposto principio (non revocato in discussione) elaborato dalla giurisprudenza.
APERTURA DI PARETI FINESTRATE
Corte di Cassazione, Sez. III, Sentenza n. 44319 del 19 ottobre 2016
L'apertura di "pareti finestrate" sulla facciata di un edificio, senza il preventivo rilascio
del permesso di costruire, integra il reato previsto dall'art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001,
poiché si tratta di un intervento edilizio comportante una modifica dei prospetti non
qualificabile come ristrutturazione edilizia "minore", e per il quale, quindi, non è
sufficiente la mera denuncia di inizio attività.
LIQUIDAZIONE DELL'ONORARIO AL CTU: IL CRITERIO DELLE VACAZIONI VA APPLICATO SOLO IN
VIA RESIDUALE
Corte di Cassazione, Sez. II Civile, Sentenza n. 21549 del 25 ottobre 2016
La Corte di Cassazione ha affermato che nella determinazione degli onorari spettanti ai consulenti va applicato il
criterio delle vacazioni, anziché quello a percentuale, non solo quando manca una specifica previsione della tariffa, ma
altresì quando, in relazione alla natura dell'incarico ed al tipo di accertamento richiesti dal giudice, non sia
logicamente giustificata e possibile un'estensione analogica delle ipotesi tipiche di liquidazione secondo il criterio della
percentuale.
FISCALI
Corte di Cassazione, Sentenza n. 916 del 20 gennaio 2016.
L’accertamento del reddito con metodo sintetico non impedisce al contribuente di dimostrare che il maggior
reddito determinato o determinabile sinteticamente è costituito in tutto o in parte da redditi esenti o soggetti a
ritenute alla fonte a titolo di imposta, a condizione che l’entità di tali importi e la durata del loro possesso risultino
da idonea documentazione, specie se gli incrementi patrimoniali siano gli effetti di una donazione.
La vicenda è quella di una lavoratrice dipendente raggiunta da un avviso di accertamento con cui, l’ufficio, ai fini Irpef,
aveva rideterminato, presuntivamente, il reddito complessivo sulla base di alcuni indici di capacità contributiva,
segnatamente il possesso di taluni beni immobili.
Investita della questione, la Commissione tributaria regionale confermava la decisione di primo grado favorevole alla
ricorrente e, per l’effetto, decretava la nullità degli avvisi impugnati.
In particolare, i giudici di merito respingevano l’appello dell’ufficio, argomentando sull’idoneità probatoria dei
documenti prodotti dalla parte che, nel confutare l’assunto erariale, aveva dedotto che i beni, a lei intestati, gli erano
stati donati dalla madre, dunque “con disponibilità finanziarie tassate e/o intassabili legalmente”.
Il giudizio approda in Cassazione su ricorso dell’Amministrazione finanziaria articolato in un solo motivo: violazione e
falsa applicazione dell’articolo 38, commi 4, 5 e 6, del Dpr 600/1973, e degli articoli 2697, 2727 e 2729 del codice
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LA DONAZIONE NON DOCUMENTATA LEGITTIMA L’ACCERTAMENTO SINTETICO
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civile, avendo i giudici di appello omesso ogni indagine sul necessario assolvimento dell’onere probatorio da parte
della contribuente sulla asserita liberalità.
Decisione – Ulteriori osservazioni
I giudici di legittimità accolgono le doglianze dell’ufficio ricordando che l’articolo 38 del Dpr 600/1973 ha disciplinato il
metodo di accertamento sintetico del reddito prevedendo, nel testo vigente ratione temporis (cioè tra la legge
413/1991 e il Dl 78/2010), “da un lato (comma 4), la possibilità di presumere il reddito complessivo netto sulla base
della valenza induttiva di una serie di elementi e circostanze di fatto certi, costituenti, indici di capacità contributiva,
connessi alla disponibilità di determinati beni o servizi ed alle spese necessaria per il loro utilizzo e mantenimento (in
sostanza, un accertamento basato sui presunti consumi); dall'altro (comma 5), contempla le “spese per incrementi
patrimoniali”, cioè quelle - di solito elevate - sostenute per l'acquisto di beni destinati ad incrementare durevolmente il
patrimonio del contribuente”. Tuttavia, osserva la Corte, il contribuente, per sconfessare le ragioni del Fisco, può
sempre dimostrare, attraverso idonea documentazione, che il maggior reddito determinato o determinabile
sinteticamente è costituito in tutto o in parte da redditi esenti o da redditi soggetti a ritenute alla fonte a titolo di
imposta, anche se l’articolo 38, comma 6, nel testo vigente ratione temporis, prevede espressamente che “l'entità di
tali redditi e la durata del loro possesso devono risultare da idonea documentazione”.
In sostanza, la prova documentale contraria ammessa per il contribuente non riguarda la sola disponibilità di redditi
esenti o di redditi soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta, ma anche l’entità di tali redditi e la durata del
loro possesso, che costituiscono circostanze sintomatiche del fatto che la spesa contestata sia stata sostenuta
proprio con redditi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta (Cassazione, sentenze 25104/2014 e
23826/2015).
Laddove l’incremento patrimoniale sia la conseguenza di un atto di liberalità, osservano i giudici, la prova “deve essere
documentale e la motivazione della pronuncia giurisdizionale deve fare preciso riferimento ai documenti che la
sorreggono ed al relativo contenuto” (cfr Cassazione, sentenze 24597/ 2010 e 6397/2014).
La Ctr ha errato nel reputare sufficiente, ai fini della decisione, la dedotta liberalità operata dalla madre, dovendo,
invece, “valutare se detta “donazione” fosse idoneamente documentata e, soprattutto, fornisse la prova della
permanenza nel tempo del possesso dei relativi redditi”: diversamente, in assenza di documentazione idonea,
concludono i giudici, la pretesa erariale è da ritenere legittima.
Da qui, in accoglimento del ricorso, la cassazione della sentenza impugnata e il rinvio al giudice di merito affinché
provveda al riesame della vicenda processuale, secondo il predetto principio di diritto.
Tali conclusioni si giustificano anche con il fatto che l’Amministrazione finanziaria è dispensata “da qualunque ulteriore
prova rispetto ai fatti, indici di maggiore capacità contributiva, individuati dal redditometro stesso e posti a base della
pretesa tributaria fatta valere”, mentre è “a carico del contribuente l’onere di dimostrare che il reddito presunto sulla
base del redditometro non esiste o esiste in misura inferiore” (Cassazione, pronuncia 3316/2209).
La logica, infatti, che sta alla base dell’accertamento sintetico è quella secondo cui a ogni spesa sostenuta corrisponde
un reddito che la finanzia e che quindi, attraverso la valutazione di alcune uscite di denaro o alla disponibilità di
determinati beni e servizi, sia possibile risalire, indirettamente, alle relative entrate; tali conclusioni portano alla
necessità di un approfondito esame da parte del giudice sugli elementi addotti dal contribuente in ordine all’effettiva
provenienza delle somme utilizzate per far fronte a delle spese apparentemente non congrue e, quindi, sintomatiche
di evasione di imposta. Indagine, questa, che interessa anche la fase istruttoria preliminare all’emissione dell’avviso di
accertamento, visto l’attuale obbligo, per gli uffici, di preventiva audizione del contribuente.
Tuttavia, occorre rilevare che, nell’ambito della nuova disciplina dell’istituto in esame, è scomparsa la disposizione,
contenuta nel previgente comma 5 dell’articolo 38 del Dpr 600/1973, secondo cui, ai fini dell’accertamento sintetico,
le spese per incrementi patrimoniali (ad esempio, per l’acquisto di un immobile piuttosto che di un’autovettura) si
presumevano sostenute, salvo prova contraria, con i redditi conseguiti, in quote costanti, nell’anno in cui sono state
effettuate e nei quattro precedenti. Le nuove disposizioni nulla dicono al riguardo, anche se l’assenza di uno specifico
riferimento alle spese per acquisti patrimoniali non può indurre a ritenere che le stesse siano estranee al nuovo
accertamento sintetico; ciò, in quanto nell'espressione “spese di qualsiasi genere sostenute nel corso del periodo
d'imposta”, contenuta nella nuova formulazione dell’articolo 38, ricadono, evidentemente, tanto le spese correnti
quanto quelle per incrementi patrimoniali.
Corte di Cassazione, Sentenza n. 15620 del 27 luglio 2016
Come noto, il regime Iva delle cessioni immobiliari è diversamente disciplinato a seconda che si tratti di fabbricati
abitativi o strumentali (distinzione che deve essere operata facendo riferimento alla classificazione catastale dei
fabbricati, a prescindere dal loro effettivo utilizzo – circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 27/2006) ovvero di terreni.
Con specifico riferimento alle cessioni di fabbricati abitativi (vale a dire le unità immobiliari urbane classificate o
classificabili nelle categorie del gruppo A, eccetto gli A/10), l’articolo 10, comma 1, n. 8-bis del Dpr 633/1972 (nel dato
testuale attualmente vigente) prevede che le medesime sono, in linea di principio, esenti da imposta, fatta eccezione
per le seguenti ipotesi:
cessioni di fabbricati abitativi operate dall’impresa costruttrice o ristrutturatrice, quando i lavori di costruzione o
ristrutturazione sono ultimati non oltre cinque anni prima della data di cessione
cessioni di fabbricati abitativi operate dall’impresa di costruzione o ristrutturazione oltre cinque anni dopo la
conclusione dell’intervento o della costruzione, in presenza di opzione per l’imponibilità espressamente manifestata in
atto dal cedente
cessioni di alloggi sociali, da chiunque effettuate, in presenza di opzione per l’imponibilità espressamente manifestata
in atto dal cedente.
La fattispecie esaminata dalla suprema Corte con la sentenza 15620/2016 ha a oggetto la cessione di un fabbricato
abitativo non di lusso (non qualificabile come un alloggio sociale), posta in essere da un soggetto diverso dall’impresa
di costruzione o ristrutturazione.
Detta operazione (che oggi sconterebbe un regime Iva di esenzione), in base alla disciplina normativa applicabile ai
fatti di causa (articolo 10, comma 8-bis, Dpr n. 633/1972 nel testo vigente prima delle modifiche apportate
dall’articolo 35, comma 8, lettera a), del Dl 223/2006) rientrava fra le operazioni imponibili e, pertanto, comportava la
necessità di individuare l’aliquota d’imposta applicabile, tenuto conto del fatto che le cessioni immobiliari Iva
imponibili scontano l’imposta attraverso tre diverse aliquote: il 4%, se oggetto di cessione è un’abitazione “prima
casa” (n. 21 della tabella A, parte II, allegata al Dpr n. 633/1972); il 10%, se oggetto di cessione è un’abitazione non di
lusso diversa dalla “prima casa” (n. 127-undecies della tabella A, parte III, allegata al Dpr n. 633/1972); l’aliquota
ordinaria in tutte le altre ipotesi.
Con la sentenza in epigrafe, la Corte di cassazione è dunque chiamata a delineare l’esatto ambito di applicazione
dell’aliquota agevolata del 10%, operante in relazione alle cessioni di fabbricati abitativi non di lusso, privi dei requisiti
per essere considerati “prima casa”.
In proposito, la suprema Corte ha evidenziato che l’aliquota ridotta del 10% si applica sia alla vendita di una o,
contestualmente, di due o più case di abitazione non di lusso da parte di qualsiasi soggetto Iva, sia alla vendita da
parte del costruttore di fabbricati o di loro porzioni (comprensivi, oltre che di unità abitative non di lusso, anche di
locali commerciali, quali negozi o uffici).
In entrambe le ipotesi, tuttavia, affinché operi la cennata agevolazione, è necessario che sia provato, dopo la vendita,
l’effettivo e concreto impiego abitativo dell’unità immobiliare compravenduta, elemento che non può dirsi integrato
dal mero dato catastale dell’immobile compravenduto.
Secondo la Corte, infatti, il n. 127-undecies della tabella A, parte III, allegata al Dpr n. 633/1972, si deve interpretare
conformemente alla sua “ratio legis”, che è quella di favorire l’acquisto della proprietà del cespite da destinare a
esigenze abitative e, indirettamente, di incentivare lo sviluppo dell’edilizia abitativa.
Ne consegue che, in mancanza di detta prova da parte dell’acquirente, è legittimo il recupero a tassazione operato
dall’Amministrazione finanziaria, mediante applicazione dell’aliquota Iva ordinaria (in senso conforme: Cassazione n.
11169/2014).
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CASE NON DI LUSSO: L’IVA È AL 10% SE È PROVATO L’IMPIEGO ABITATIVO
CARTELLE DI PAGAMENTO: NOTIFICA VIA RACCOMANDATA
Corte di Cassazione, Sentenza n.23182 del 12 novembre 2015.
La Corte di Cassazione si è recentemente espressa sulla legittimità della notifica della cartella esattoriale inviata a
mezzo posta raccomandata con avviso di ricevimento (A/R). Attraverso l’ordinanza in esame, viene ribadita la
validità dell’utilizzo del servizio postale diretto per l’invio di cartelle
di pagamento ai contribuenti. Nel caso in oggetto, la cartella era stata
inviata direttamente dall’agente di riscossione (ai sensi dell’art. 26
DPR 602/1973) attraverso il servizio postale, senza avvalersi di agenti
di notificazione.
L’ordinanza precisa che: «In tema di riscossione delle imposte, la
notifica della cartella esattoriale può avvenire anche mediante invio
diretto, da parte del concessionario, di lettera raccomandata con
avviso di ricevimento, in quanto la seconda parte del comma 1
dell’art. 26 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, prevede una modalità
di notifica, integralmente affidata al concessionario stesso e all’ufficiale postale, alternativa rispetto a quella della
prima parte della medesima disposizione e di competenza esclusiva dei soggetti ivi indicati». I giudici sottolineano
però che la notifica è valida solo con la ricezione della comunicazione, anche senza alcuna certificazione:
«La notifica si perfeziona con la ricezione da parte del destinatario, alla data risultante dall’avviso di ricevimento,
senza necessità di un’apposita relata, visto che è l’ufficiale postale a garantirne, nel menzionato avviso, l’esecuzione
effettuata su istanza del soggetto legittimato e l’effettiva coincidenza tra destinatario e consegnatario della cartella,
come confermato implicitamente dal penultimo comma del citato art. 26, secondo cui il concessionario è obbligato a
conservare per cinque anni la matrice o la copia della cartella con la relazione dell’avvenuta notificazione o con
l’avviso di ricevimento, in ragione della forma di notificazione prescelta, al fine di esibirla su richiesta del contribuente
o dell’amministrazione».
Corte di Cassazione, Sez.II, Sentenza n.4445 del 7 marzo 2016
Per la successione ereditaria: ai fini della determinazione della legittima rilevano anche le donazioni anteriori alla
sorgere della qualità di erede legittimario, così il figlio può chiedere la riduzione delle donazioni anteriori alla sua
nascita e il coniuge la riduzione delle donazioni precedenti rispetto al matrimonio.
«Secondo la giurisprudenza di questa Corte, in materia di successione necessaria, ai fini della determinazione della
porzione disponibile e delle quote riservate ai legittimari, occorre avere riguardo alla massa costituita da tutti i beni
che appartenevano al de cuius al momento della morte – al netto dei debiti – maggiorata del valore dei beni donati
in vita dal defunto, senza che possa distinguersi tra donazioni anteriori o posteriori al sorgere del rapporto da cui
deriva la qualità di legittimario (Sez. 2, Sentenza n. 1373 del 20/01/2009, Rv. 606117; Sez. 2, Sentenza n. 1122 del
23/02/1982, Rv.419000).
L’equiparazione delle donazioni anteriori al sorgere del rapporto da cui deriva la qualità di legittimario a quelle
posteriori risponde alla ratio della riunione fittizia che ha lo scopo di determinare la quota della quale il defunto
poteva disporre e, correlativamente, la quota di riserva spettante al legittimario.
Non diversa, ai fini della determinazione della quota di riserva (art. 556 cod. civ.), è la posizione del coniuge rispetto a
quella dei figli. E invero, come il figlio sopravvenuto può chiedere la riduzione di tutte le donazioni compiute in vita
dal padre, anche di quelle compiute prima della sua nascita in favore della madre o di altro coniuge ormai non più
tale; allo stesso modo il coniuge sopravvenuto rispetto ai figli può chiedere la riduzione di tutte le donazioni compite
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SUCCESSIONE EREDITARIA: AI FINI DELLA DETERMINAZIONE DELLA LEGITTIMA RILEVANO ANCHE
LE DONAZIONI ANTERIORI AL SORGERE DELLA QUALITÀ DI LEGITTIMARIO
dal de cuius in favore dei figli, anche di quelle precedenti il matrimonio poste in essere in favore dei figli nati da altro
coniuge o nati fuori dal matrimonio».
AGEVOLAZIONE ACQUISTO PRIMA CASA
Corte di Cassazione, Sentenza n.2777 dell’11 febbraio 2016
Non può essere concessa l'agevolazione “prima casa” al contribuente che abbia dichiarato di voler trasferire entro
18 mesi la residenza nel Comune dove è ubicato l'immobile oggetto di acquisto agevolato e poi non abbia
effettivamente trasferito la residenza. Ciò anche se il contribuente spiega (senza averne però fatto menzione nel
contratto d'acquisto) che, in quel Comune, in effetti svolge l’attività lavorativa e, quindi, ricorre comunque uno dei
presupposti che la legge alternativamente richiede per permettere un acquisto agevolato. È quanto deciso dalla
Cassazione nella sentenza in esame.
Dell'agevolazione “prima casa” può beneficiare, anzitutto, colui che già risiede o lavora nel Comune in cui è ubicata
l'abitazione oggetto di acquisto agevolato. Chi non si trovi in una di queste situazioni, può comunque domandare il
beneficio, a condizione che si impegni a trasferire, entro 18 mesi, la residenza nel Comune in cui si trova la casa
oggetto di acquisto agevolato.
Nel caso esaminato dalla Cassazione, il contribuente aveva dunque espresso questo impegno di trasferimento della
sua residenza, ma non aveva poi dato esecuzione al proposito (adducendo un evento di forza maggiore impediente
detto trasferimento). Raggiunto da un avviso di decadenza dall'agevolazione notificato dall'agenzia delle Entrate, il
contribuente si è quindi difeso adducendo la circostanza che, nel Comune in questione, svolgeva la sua attività e che,
perciò, l'agevolazione “prima casa” era comunque di spettanza.
La Cassazione articola il ragionamento in due tronconi. Dapprima ritiene irrilevante, perché giudicata non suffragata
da idonea prova la ragione di “forza maggiore” che avrebbe impedito il trasferimento della residenza al contribuente
in questione. Sul punto va notato dunque che, se l'evento di “forza maggiore” fosse stato ritenuto provato, la
Cassazione l'avrebbe ritenuto rilevante, quando invece la sentenza 2616/2016 (commentata ieri da «Il Sole 24 Ore»)
ha escluso in radice che la “forza maggiore” sia un'esimente idonea ad evitare la decadenza per mancato
trasferimento di residenza.
Venendo poi al fulcro della tematica giunta al suo giudizio, la Suprema corte ha affermato che se nel contratto è
dichiarato un dato presupposto per l'ottenimento di una agevolazione e poi tale presupposto viene meno, il
contribuente non può addurre la ricorrenza di un altro presupposto, non dichiarato nel contratto d'acquisto, in base
al quale l'agevolazione comunque gli competerebbe. «Deve senz'altro escludersi che la medesima agevolazione originariamente invocata in ragione dell' esistenza di uno specifico presupposto - possa poi essere recuperata in
ragione di un differente presupposto una volta che si sia accertato inesistente quello su cui si confidava».
Corte di Cassazione, Sentenza n. 1178 del 22 gennaio 2016
Non possono beneficiare delle agevolazioni prima casa le abitazioni ritenute di lusso e tra queste rientrano anche gli
immobili di ampia metratura, ovvero a partire da 240 metri quadri esclusi i balconi, le terrazze, le cantine, le soffitte,
le scale e il posto auto. A chiarirlo la Corte di Cassazione, con la sentenza in esame relativa ad un avviso di
accertamento con quali l’Agenzia delle Entrate intendeva recuperare le somme dovute a fronte di una erronea
interpretazione estensiva dell’art. 6 del dm 2/8/69 che aveva portato contribuente ad escludere dal calcolo della
superficie utile al fine dell’attribuzione all’immobile della qualità di lusso, parti non comprese nell’elenco tassativo
della norma.
Si trattava in particolare di maggiori imposte di registro, ipotecaria e catastale dovute, con applicazione d’interessi e
sanzioni, in relazione ad atto registrato il 12 giugno 2003, con il quale il contribuente aveva acquistato ad uso di
abitazione un immobile beneficiando delle agevolazioni prima casa. Tale beneficio non spettava, secondo il parere
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SCONTI PRIMA CASA, ESCLUSI SU AMPIE METRATURE
dell’Agenzia, trattandosi di un immobile di lusso, ai sensi dell’art. 6 del d.m. 2 agosto 1969, in quanto avente
superficie utile complessiva superiore a 240 mq.
Motivo fondato, secondo la Corte di Cassazione, la quale ha ritenuto che, come sostenuto dall’Agenzia, nel calcolo
della superficie utile complessiva dovessero rientrare anche due disimpegni realizzati a servizio sia dei locali cantina
che di altri locali, in particolare del locale taverna e del locale lavanderia, esclusi dal contribuente insieme alla
superficie di alcuni locali del piano seminterrato, concretamente adibiti a cantina.
PRIMA CASA, NEL CALCOLO DELLA SUPERFICIE ANCHE I VANI DI PORTE E FINESTRE
Corte di Cassazione, Sentenza n.4333 del 4 marzo 2016.
I vani di porte e finestre non possono essere esclusi dal computo
della superficie utile per la qualifica dell’immobile di lusso,
parametro discriminante per l’ottenimento del beneficio prima
casa. Lo affermano i Giudici della Corte di Cassazione nella
sentenza in commento, con cui viene accolto il ricorso dell’Agenzia
delle Entrate, e, dunque, confermato l’avviso di liquidazione nei
confronti di un contribuente che aveva acquistato un immobile
ritenuto dal Fisco come abitazione di lusso, perché con una
superficie utile superiore al limite di 240 mq.
In precedenza, tuttavia, l’avviso di liquidazione in questione era
stato annullato in Appello in quanto, secondo i Giudici regionali, dal computo della superficie utile andavano stralciati i
metri quadri di vani di porte e finestre, ritenuti non abitabili. La Cassazione ha però riformulato tale tesi: secondo i
Supremi Giudici i vani di porte e finestre rientrano nel calcolo della superficie utile; restando esclusi solo i balconi, le
cantine, le terrazze, le soffitte, le scale e il posto macchine.
Nella sentenza, la Corte ha inoltre rinnovato il concetto che le norme di agevolazione fiscale, in quanto di
carattere eccezionale, sono “di stretta interpretazione […] non essendo consentito all’interprete il ricorso al criterio
analogico per estenderne l’applicazione oltre i casi e le condizioni delle stesse espressamente considerati”. Il calcolo
della superficie utile, inoltre, è dettagliato esplicitamente dalla legge, senza dunque che sia necessario ricorrere a
nozioni o elementi interpretativi definiti “extratestuali”.
CONTRATTO PRELIMINARE CON IMPEGNO AD INDICARE NEL CONTRATTO DEFINITIVO UN
PREZZO DI VENDITA INFERIORE A QUELLO PATTUITO.
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Cassazione civile, sez. II, Sentenza n. 11749 del 11 luglio 2012
Contratto preliminare con impegno ad indicare nel contratto definitivo un prezzo di vendita inferiore a quello pattuito.
Condizioni per la nullità dell’intero contratto.
L’effetto di propagazione, sull’intero contratto preliminare, della nullità della clausola contenente l’impegno delle
parti di indicare nel definitivo, in violazione della disciplina dell’imposta di registro, un prezzo inferiore a quello
realmente pattuito, non può derivare dal semplice rafforzamento dell’atteso comportamento contra legem mediante
la previsione negoziale di un diritto alla risoluzione attivabile dalla parte rimasta fedele alla clausola.
Occorre diversamente la prova, a cura della parte colpita dallo squilibrio indotto dalla nullità parziale e che invochi la
nullità dell’intero contratto, che il mantenimento dello stesso dopo la depurazione non sia più giustificato dal senso
originario dell’operazione. E ciò per essere la clausola di occultamento in tale rapporto di interdipendenza e di
inscindibilità con le altre pattuizioni che queste non possono sussistere in modo autonomo.
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L’ACQUISTO DELLA NUDA PROPRIETÀ DI UN IMMOBILE NON DETERMINA NESSUN INCREMENTO
PATRIMONIALE DEL CONTRIBUENTE ACCERTABILE ATTRAVERSO IL MECCANISMO DEL
REDDITOMETRO
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Corte di Cassazione, Sezione Tributaria, Sentenza n.930 del 20 gennaio 2016
Un contribuente dopo aver acquistato la nuda proprietà di un immobile subisce
un accertamento sintetico da parte dell'Agenzia delle Entrate a fronte di
incrementi patrimoniali derivanti dall'acquisto di alcuni immobili.
Il contribuente impugna tale avviso di accertamento prima dinanzi alla
Commissione tributaria provinciale con esito negativo, e poi dinanzi alla
Commissione tributaria regionale che respinge l'appello precisando che il
contribuente non aveva dimostrato di aver versato solo il prezzo della nuda
proprietà, e non anche dell'usufrutto, poiché dall'atto di compravendita si
evinceva, genericamente, che parte acquirente aveva versato il prezzo alla parte
venditrice senza specificare le modalità di tale pagamento.
Il contribuente impugna la sentenza della Commissione Tributaria regionale dinanzi alla sezione tributaria della Corte
di Cassazione. Nel ricorso in Cassazione tra i motivi posti a fondamento delle sue ragioni il contribuente lamenta
l'illegittimità della sentenza impugnata laddove la stessa ha posto a suo carico l'onere probatorio rivolto alla
dimostrazione di non aver sostenuto il costo dell'usufrutto.
La Cassazione ha accolto il ricorso del contribuente precisando che quest'ultimo si era limitato esclusivamente
all'acquisto della nuda proprietà dell'immobile provvedendo contestualmente alla costituzione di un usufrutto a
favore di un terzo. A parere dei giudici è stato possibile accertare con chiarezza che il contribuente aveva acquistato
la sola nuda proprietà, mentre nessuna certezza vi era in ordine al fatto che lo stesso aveva acquistato anche
l'usufrutto.
La Cassazione, inoltre, si sofferma sul meccanismo di funzionamento del redditometro che si fonda sul presupposto
della necessaria equivalenza fra le spese sostenute ed il reddito del contribuente.
Questo in altri termini vuol dire che, salvo prova contraria del contribuente, occorre accertare che l'ammontare delle
spese sostenute in un anno sia finanziato e giustificato dal reddito del medesimo periodo; di conseguenza l'ammontare
delle spese sostenute dal contribuente concorre integralmente alla determinazione del reddito complessivo. (Circolare
dell'Agenzia delle Entrate n. 6/E del 19.2.2015) .
L'Agenzia delle Entrate ha risposto ad un quesito e cioè cosa succede quando un contribuente per l'acquisto utilizza
risparmi degli anni precedenti senza far ricorso ad istituti di credito, in questi casi il contribuente deve dimostrare di
aver disposto di somme accantonate in anni precedenti oppure no?
Tale circolare all'art. 12 stabilisce che "in sede di contraddittorio il contribuente può sempre fornire la prova, in
relazione alle spese per investimenti sostenute nell'anno, della formazione della provvista in anni precedenti ovvero
della sua effettiva disponibilità ed utilizzo per l'effettuazione dello specifico investimento individuato. Se si è costituita
nelle annualità precedenti la provvista non rileva ai fini della determinazione sintetica nell'anno d'imposta oggetto del
controllo. Ovviamente, questo non esclude la possibilità per l'Agenzia delle Entrate di attivare, per le annualità
precedenti in cui si è formata la provvista, autonomi controlli avvalendosi dello strumento accertativo più idoneo, di
tipo analitico, induttivo o sintetico."
Per quanto riguarda, invece, le spese certe sui quali fondare l'atto impositivo la Cassazione ha già precisato in
precedenti interventi che se l'accollo di un debito non rappresenta una spesa certa sul quale fondare l'atto impositivo
(Cass. 25473/2015), invece rappresenta una spesa certa l'acquisto di un immobile effettuato con il meccanismo della
compensazione fra debiti e crediti (Cass. 19647/2009).
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OMESSO VERSAMENTO RITENUTE FISCALI: REATO NON RETROATTIVO
Corte di Cassazione, Sez.III, Sentenza n.7884 del 26 febbraio 2016
La Corte di Cassazione, con la sentenza in esame ricorda come la riforma dei reati tributari entrata in vigore da pochi
mesi per effetto del D.Lgs. n. 158/2015 ha esteso il nuovo reato di omesso versamento di ritenute (previsto
dall’articolo 10-bis del decreto legislativo n. 74 del 2000), oltre che alle ritenute certificate, alle «ritenute dovute
sulla base della stessa dichiarazione», riformulando pertanto la rubrica: «omesso versamento di ritenute dovute o
certificate>.
La prova del mancato versamento della ritenuta potrebbe, quindi, ora prescindere dalle certificazioni rilasciate al
sostituito, potendo bastare che essa risulti dalla dichiarazione. Inoltre, la soglia di punibilità viene triplicata,
passando da 50.000 a 150.000 euro, per ciascun periodo d’imposta.
Tuttavia, la Corte precisa che la norma sul nuovo reato di omesso versamento di ritenute, trattandosi di una norma
più sfavorevole per l’eventuale imputato, non può avere applicazione retroattiva per i processi in corso.
Corte di Cassazione, Sezione Unite, Sentenza n.5078 del 16 marzo 2016
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno
messo definitivamente fine, con la sentenza in
esame, alla querelle sull'applicabilità o meno
dell'imposta sul valore aggiunto alla Tariffa di Igiene
Ambientale (TIA), senza alcun rinvio alla Corte di
Giustizia Ue.
I gestori dei rifiuti che hanno indebitamente
fatturato e incassato l'IVA sulla Tia ora non avranno
più alcuna scusa: dovranno rimborsare tutti i contribuenti che ne facciano richiesta.
Perfettamente in linea con altre pronunce di legittimità (e di merito) gli Ermellini hanno infatti stabilito che alla tariffa
per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani (di cui all'art. 49 del D. Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22 - c.d. “Decreto Ronchi”)
non si applica l'IVA giacché essa ha natura squisitamente tributaria.
Va ricordato, al riguardo, che la tariffa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani (usualmente denominata Tariffa di
Igiene ambientale), che sostituì a decorrere dal 1 gennaio 1999 la cd. Tarsu, fu introdotta per coprire i costi, sostenuti
dai Comuni, dei servizi relativi alla gestione dei rifiuti urbani e di qualunque natura o provenienza, giacenti tanto sulle
strade e tanto sulle aree pubbliche o soggette ad un uso pubblico. Tale tariffa è composta, come noto, da una quota
che è determinata in ragione delle componenti essenziali del servizio stesso, quali gli investimenti nelle opere ed i
costi generali di gestione, e da un'altra che essendo legata alle quantità di rifiuti conferiti, al servizio fornito e all'entità
dei costi di gestione è sostanzialmente variabile.
Nella sentenza gli Ermellini hanno ricordato che già a suo tempo la Corte costituzionale, con sentenza n. 238/2009,
nel giudicare infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 3 bis del D.L. n. 203/2005 (convertito con
modificazioni nella legge n. 248/2005), nella parte in cui devolveva alla giurisdizione del giudice tributario le
controversie in materia di tariffa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani, aveva ritenuto che quest'ultimo prelievo
presentasse tutte le caratteristiche del tributo e costituisse sostanzialmente una mera variante delle Tarsu. A
conclusioni analoghe pervenne lo stesso Giudice delle leggi nella successiva sentenza n. 64/2010.
Secondo le SS.UU. della Cassazione, che hanno richiamato in sentenza un suo precedente orientamento conforme (n.
3293 del 2 marzo 2012), la <<tariffa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani … non è assoggettabile ad IVA, in
quanto essa ha natura tributaria, mentre l'imposta sul valore aggiunto mira a colpire una qualche capacità
contributiva che si manifesta quando si acquisiscono beni o servizi versando un corrispettivo … non quando si paga
un'imposta, sia pure destinata a finanziare un servizio da cui trae beneficio il medesimo contribuente>>.
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TARIFFA RIFIUTI: NIENTE IVA SULLA TIA PERCHÉ È ILLEGITTIMA
Gli Ermellini, inoltre, soffermandosi sugli elementi autoritativi che caratterizzano la Tia, hanno affermato - ad ulteriore
conferma della natura tributaria di quest'ultima - che tra il gestore affidatario da parte dell'ente del servizio di raccolta
e smaltimento dei rifiuti e l'utente fruitore mancherebbe un rapporto di volontarietà e che i costi sarebbero
predeterminati soltanto dal soggetto pubblico. Insomma, mancherebbe il necessario rapporto sinallagmatico posto a
base dell'assoggettamento ad Iva di prestazioni di servizi (e di cessioni di beni).
Non può che essere accolta favorevolmente la decisione del Supremo consesso che ha messo definitivamente fine ad
una annosa questione che ha visto molti contribuenti costretti a rivolgersi ai Giudici per il riconoscimento del diritto al
rimborso di una “tassa sulla tassa”.
Insomma, nubi all'orizzonte si intravedono per i gestori affidatari del servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti da
parte degli enti pubblici che potrebbero vedersi sommersi in poco tempo da richieste dei contribuenti, ora più che mai
fondate, di ripetizione dell'IVA indebitamente addebitata in fattura. Al riguardo, sarebbe auspicabile che i gestori
procedessero d'ufficio senza “attendere” le richieste di cittadini e imprese che, nella maggior parte dei casi, non
sarebbero neppure in grado di quantificare agevolmente l'Iva non dovuta corrisposta negli anni.
REDDITOMETRO: ESCLUSI I BENI STRUMENTALI
Corte di Cassazione n. 7146 del 12 aprile 2016.
Non si considerano sostenute dalla persona fisica e quindi non
rilevano ai fini degli indici redditometrici le spese per i beni e
servizi afferenti esclusivamente ed effettivamente all’attività
di impresa o all’esercizio di arti e professioni, sempre che tale
circostanza risulti da idonea documentazione.
IL CASO
Un contribuente impugnava un avviso di accertamento di tipo
sintetico con cui l’Agenzia delle Entrate rideterminava il reddito
alla luce di alcuni indici di capacità contributiva, ovvero spese
per incrementi patrimoniali per immobili e mobili nonché la
disponibilità di un’abitazione principale e un’automobile. La Ctr
della Puglia, accogliendo solo parzialmente l’appello dell’Agenzia delle Entrate, rideterminava il reddito accertato,
facendovi rientrare anche le rate pagate per l’acquisto dell’autovettura. Nel successivo ricorso per Cassazione il
contribuente denunciava, tra l’atro, la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38 e del D.M. 10
settembre 1992 nonchè degli artt. 115 e 116 c.p.c., in quanto la Ctr non avrebbe dovuto considerare il costo
d’acquisto dell’autovettura trattandosi di bene d’impresa (autocarro – bene strumentale) in relazione al quale non si
applica la presunzione del D.M. per cui si considerano nella disponibilità della persona che utilizza i beni stessi o ne
sopporta i relativi costi. In altri termini, trattandosi di bene al servizio esclusivo dell’attività di impresa, il costo di
acquisto non poteva essere considerato tra gli indici di capacità contributiva propri della persona fisica.
Corte di Cassazione, Sentenza n.7371/2016
Pagano l'Irap anche gli studi professionali associati, anche se strutturati in forma di società semplice. Lo ha precisato
la sentenza n.7371/2016 della Corte di Cassazione (sezioni unite). La suprema Corte ha ricordato che “Presupposto
dell'imposta regionale sulle attività produttive è l'esercizio abituale di un'attività autonomamente organizzata diretta
alla produzione e allo scambio ovvero alla prestazione di servizi, sicché ove l'attività sia esercitata da società e enti
soggetti passivi dell'imposta a norma dell'art. 3 del d.lgs. n. 446 del 1997, ivi incluse le società semplici e le associazioni
senza personalità giuridica costituite fra persone fisiche per l'esercizio in forma associata di arti e professioni, essa, in
quanto esercitata da soggetti, strutturalmente organizzati per la forma nella quale l'attività è svolta, costituisce ex
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VERSAMENTO DELL’IRAP PER I PROFESSIONISTI
lege, in ogni caso, presupposto d'imposta, senza necessità di accertamenti sulla sussistenza dell'autonoma
organizzazione”. Secondo la Cassazione la struttura degli studi associati rende “evidente l’esistenza di
un’organizzazione di mezzi e persone, volte al raggiungimento di uno scopo”.
Corte di Cassazione, Sentenza n. 21164 del 19 ottobre 2016
Poiché l’attività degli studi associati costituisce ex lege presupposto per l’assoggettamento a Irap – escludendosi in
tale ipotesi la necessità di ogni accertamento in ordine alla sussistenza dell’autonoma organizzazione – non assume
alcun rilievo la diversità delle competenze e professioni esercitate dagli associati. L’unica prova contraria rilevante non
è l’assenza di un apparato organizzativo, ma proprio l’assenza di una associazione.
Sono le conclusioni raggiunte nella sentenza in esame, nella quale la Corte di cassazione è tornata a pronunciarsi –
dopo la nota sentenza delle sezioni unite 7371/2016 – sulla questione dell’assoggettamento a Irap degli studi
associati, affrontando la particolare fattispecie dello studio composto da professionisti esercenti attività differenti.
Viene così ribadito ulteriormente l’orientamento ormai consolidato della giurisprudenza di legittimità sulla
questione[1].
La vicenda processuale
Il contenzioso esaminato dalla Corte suprema trae origine dal ricorso proposto da uno studio associato[2], composto
da esercenti la professione di avvocato e di commercialista, avverso il silenzio rifiuto dell’Amministrazione finanziaria
in relazione a una istanza di rimborso dell’Irap versata per gli anni d’imposta 1999-2003.
La Ctr del Friuli Venezia Giulia ha confermato la decisione di primo grado della Ctp di Gorizia, favorevole all’ufficio,
ritenendo non spettante il rimborso richiesto poiché l’esercizio in forma associata di una professione liberale “è
circostanza di per sé idonea a fra presumere un’autonoma organizzazione di strutture e mezzi, ancorché l’onere
economico non sia di particolare importanza, nonché dell’intento di avvalersi della reciproca collaborazione e
competenza, sì da potersi ritenere che il reddito prodotto non sia frutto esclusivamente della professionalità di
ciascun componente con la conseguenza che legittimamente il reddito dello studio associato viene assoggettato
all’Irap, a meno che il contribuente non dimostri che il reddito suddetto sia derivato dal solo lavoro professionale dei
singoli associati, prova che nel caso in esame non risulta concretamente fornita”.
La sentenza della Ctr è stata impugnata avanti la Corte di cassazione dallo studio associato, che ha ribadito – come nei
gradi precedenti – che, nel caso di specie, ciascun professionista ha svolto la propria attività senza avvalersi degli altri
associati, poiché gli stessi possiedono qualifiche professionali ben diverse tra loro, con conseguente
«autorganizzazione» individuale dell’attività di ciascuno.
La modesta entità dei beni impiegati e l’assenza di collaborazione di terzi avrebbero poi dovuto condurre il giudice a
escludere la sussistenza dell’autonoma organizzazione.
La motivazione della sentenza di secondo grado, a parere del ricorrente è, quindi, solo apparente, poiché non emerge
il motivo per il quale le competenze degli associati sarebbero interscambiabili né la ragione per cui la documentazione
prodotta in giudizio non è idonea a provare il contrario.
La decisione
La Corte di cassazione ha respinto le eccezioni del ricorrente studio associato in ordine ai vizi della motivazione,
ritenuta non meramente apparente, ma tale da consentire di comprendere in modo chiaro e univoco il percorso logico
seguito dai giudici dell’appello.
Nel merito, i giudici di legittimità hanno poi affermato l’infondatezza del ricorso alla luce delle statuizioni contenute
nella sentenza n. 7371 delle sezioni unite dello scorso 14 aprile, secondo cui l’attività degli studi associati “in quanto
esercitata da tali soggetti, strutturalmente organizzati per la forma nella quale l’attività è svolta, costituisce ex lege, in
ogni caso, presupposto d’imposta, dovendosi perciò escludere la necessità di ogni accertamento in ordine alla
sussistenza dell’autonoma organizzazione”.
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STUDIO PROFESSIONALE ASSOCIATO: IL PRESUPPOSTO IRAP È “EX LEGE”
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Non è quindi, necessario, procedere a una valutazione dell’entità dei beni impiegati o dell’utilizzo di lavoro altrui, ai
fini della verifica della sussistenza dell’autonoma organizzazione, poiché tale requisito è in ogni caso presente
nell’ipotesi di esercizio dell’attività “in forma associata”[3].
Nella esposta prospettiva – a parere della Corte suprema – “nessun rilievo può assumere la diversità delle competenze
e professioni esercitate dagli associati, così come la diversità e autonomia della fonte dei rispettivi redditi degli
associati, dal momento che l’unica prova contraria rilevante rimane non già l’assenza di un apparato organizzativo (in
realtà sempre implicito nella struttura associativa dello studio) ma proprio l’assenza di una associazione”.
Nel caso esaminato, tale prova “non risulta nemmeno ipotizzata, essendo anzi in radice contraddetta dalla stessa
imputazione del ricorso e del debito d’imposta all’ente collettivo in cui si identifica per l’appunto lo studio associato”.
[1] La questione ha costituito oggetto anche della recente risposta a un’interrogazione parlamentare, nella quale il
rappresentante del governo ha evidenziato che il requisito dell’autonoma organizzazione assume rilevanza solo nelle
ipotesi in cui l’attività sia esercitata in forma individuale e non in forma associata, posto che in quest’ultimo caso lo
stesso si ritiene comunque sussistente. Sul punto, oltre all’intervento delle sezioni unite, viene richiamato
l’orientamento consolidato della Cassazione, sezioni semplici (cfr tra le altre, sentenze 11327/2016, 4578/2015,
25313/2014 e ordinanze 27007/2014, 23002/2011, 13716/2010).
[2] Legale, tributario e commerciale.
[3] Nel solco delle sezioni unite, la Corte di cassazione, con la recente ordinanza n. 19975 del 5 ottobre 2016, ha
ribadito il medesimo principio anche in relazione a un’associazione professionale tra soggetti svolgenti l’attività di
musicisti.
L'Irap per i professionisti iscritti all'Albo
La Corte di Cassazione non ha condiviso le conclusioni dei giudici di merito, (cfr. Cassazione Sez. V Civile Tributaria n.
3678 16.02.2007, Cassazione Sez. V Civile Tributaria
n.3675 16.02.2007, Cassazione n. 24.11.2008 n. 27959,
Cassazione n. 21989 16.10.2009 Cassazione
22873/2011) affermando che l'esercizio di un'attività
autonomamente
organizzata
non
richiede
necessariamente che la stessa funzioni anche senza il
professionista iscritto all'albo.
Ammettere infatti l'esonero IRAP per i professionisti
iscritti all'albo potrebbe entrare in contrasto con
quanto statuito dalla Corte Costituzionale 156/2001,
che ammette l'imponibilità IRAP per i lavoratori
autonomi allorquando si riscontri un'autonoma
organizzazione. D'altra parte, si potrebbe osservare
che l'esercizio di un'attività per la quale è richiesta l'iscrizione ad un albo richiede sovente l'esercizio di funzioni non
delegabili a terzi e di cui il professionista si assume sempre la responsabilità in prima persona (ad esempio l'attività di
custode giudiziario, l'attività di un chirurgo etc.). In tali casi, l'attività esercitata è intrinsicamente legata alla
professione e qualsiasi organizzazione non potrebbe aumentare né agevolare il lavoro del professionista se non
marginalmente. In tali casi è innegabile che l'accertamento della mancanza dell'autonoma organizzazione parrebbe
derivare implicitamente dalla tipologia e specificità delle attività riservate esercitate dal professionista iscritto
all'ordine quando le stesse costituiscano parte significativa del volume d'affari.
Tale tesi è confortata dalla recentissima Ordinanza della Cassazione 4246/16, inerente la non imponibilità ai fini IRAP
per la parte di ricavo derivante dall’attività di amministratore, sindaco di società espletata senza particolari mezzi e
collaboratori.
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LA ENSIONE DI INABILITÀ È PIGNORABILE
Tribunale di Padova con ordinanza del 14 gennaio 2016
Il Tribunale di Padova con ordinanza del 14 gennaio 2016 ha stabilito che la pensione di inabilità è pignorabile. Si
tratta infatti di una prestazione di natura previdenziale che può essere attaccata dai creditori tranne che per
l'ammontare corrispondente alla misura massima mensile dell'assegno sociale, aumentato della metà.
Diverso è, invece, il caso dell'indennità di accompagnamento e della pensione di invalidità totale: queste, infatti,
sono prestazioni assistenziali e non possono essere pignorate.
Del resto l'articolo 545, comma 2, del codice di
procedura civile esclude del tutto la pignorabilità solo
per un tal genere di prestazioni, data la loro finalità di
garantire il minimo necessario per la sopravvivenza
e reintegrare essenziali espressioni di vita menomate
dalla malattia.
Proprio sulla base di queste argomentazioni il giudice
veneto ha quindi rigettato il reclamo proposto da una
donna avverso la decisione con la quale il giudice
dell'esecuzione aveva ritenuto che la pensione di
invalidità e l'indennità di accompagnamento siano
caratterizzate da una finalità di natura assistenziale in
relazione allo stato invalidante e che, di conseguenza, le stesse debbano essere ricondotte tra i sussidi impignorabili
regolamentati dal codice di rito. Resta salva solo l'espropriabilità per causa di alimenti ai sensi dell'articolo 545,
comma 1, c.p.c..
OMESSO VERSAMENTO DELLE RITENUTE
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Corte di Cassazione,Sentenza. n. 17103 del 26 aprile.2016
La pena detentiva breve prevista per il reato di omesso versamento dei contributi che supera 10 mila euro può essere
sostituita con quella pecuniaria. Come noto, l’omesso versamento di ritenute sulle retribuzioni dei lavoratori, quando
supera la soglia di 10mila euro, non è stato depenalizzato dalla recente riforma Dlgs 8/2016, art. 3 co. 6, per cui
l’illecito resta nell’ambito della sanzione penale; ma ciò nonostante l’imprenditore che non abbia versato le ritenute
può ugualmente beneficiare della commutazione della pena da detentiva a pecuniaria. La Cassazione precisa che la
sostituzione delle pene detentive brevi è rimessa a una valutazione discrezionale del giudice da effettuarsi in base a
una serie di elementi tra cui le modalità del fatto per il quale è intervenuta condanna, la personalità del condannato,
le condizioni di vita individuale, familiare e sociale dell’imputato. Non c’è però alcun accenno alle sue condizioni
economiche. Pertanto, il beneficio di pagare la sanzione pecuniaria può essere concesso anche a persona in condizioni
economiche disagiate, nonostante i dubbi circa la solvibilità. Dubbi che si fanno consistenti proprio in relazione alla
tipologia di reato contestato. Secondo la Cassazione, non c’è ragione per mettere in discussione il principio secondo
cui il beneficio della sostituzione della pena detentiva breve possa essere concesso anche ai soggetti in difficoltà
economiche che il giudice ritenga in qualche modo in condizioni di adempiere. Per la Cassazione il “cambio” di pena va
dunque garantito anche a chi è economicamente in difficoltà, purché il giudice ritenga che sia in qualche modo in
condizioni di adempiere, facendo salva ovviamente l’ipotesi di conversione nel caso sia accertata in seguito
l’impossibilità di far fronte al pagamento che può essere anche rateizzato Come previsto dall’art. 660 cod. proc. pen.
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AMMESSO IL CUMULO TRA IL CRITERIO DI LIQUIDAZIONE TABELLARE E QUELLO DELLE
VACAZIONI
Corte di Cassazione, sez. VI Civile, Sentenza n. 8148 del 22 aprile 2016
In tema di liquidazione dei compensi al CTU, il criterio della liquidazione tabellare è cumulabile rispetto a quello delle
vacazioni nel caso in cui, in risposta ai quesiti sottoposti al consulente, siano state compiute plurime attività che
prevedano uno o diversi criteri di liquidazione tabellare e altre che siano prive di riferimento a qualsiasi parametro
tabellare e rispetto alle quali appare illogica e quindi non percorribile una estensione analogica delle ipotesi tipiche di
liquidazione sicché rispetto ad esse si rende necessaria la liquidazione a vacazioni.
BENEFICI PRIMA CASA: VERANDE E PENSILINE SI COMPUTANO COME AREA COPERTA
Corte di Cassazione, Sentenza n. 10190 del 18 maggio 2016
Confermando l’interpretazione formulata dai giudici tributari, la Corte Suprema ha rigettato il ricorso dell’Agenzia
delle Entrate contro l’annullamento dell’atto di recupero della agevolazioni fiscali per l’acquisto della prima casa, con
addebitandole le spese processuali.
L’Agenzia delle Entrate aveva emesso l’atto di liquidazione per decadenza dei benefici fiscali, ritenendo sussistente la
qualifica di immobile di lusso, sul rilievo di una superficie utile complessiva superiore a 200 mq e un’area scoperta di
pertinenza della superficie di oltre sei volte quella coperta, per esclusione da quest’ultima della superficie di due
verande con tenda e di una pensilina per il riparo dell’auto.
In relazione ai manufatti in questione, il contribuente ne eccepiva il computo nella superficie coperta rilevando che il
posto auto era protetto da tettoia in ferro coperta con plastica e che le due verande presentavano ciascuna una
struttura, caratterizzata da un’intelaiatura in ferro, infissa nel pavimento ed al muro dell'edificio, e pertanto tale da
presentare i caratteri di solidità ed immobilizzazione della costruzione essendo ininfluente a contrastare tale concetto
sia il materiale usato sia quello di copertura che la possibilità di essere rimossa.
I giudici tributari hanno preliminarmente evidenziato che nel calcolo della proporzione di oltre sei a uno tra area
scoperta di pertinenza ed area coperta, ai fini della qualificazione dell’immobile di lusso, il concetto di copertura deve
intendersi nella sua accezione "letterale". Nello specifico, sulla base delle caratteristiche dei manufatti in questione, i
giudici ne rilevavano la natura di strutture permanenti e non amovibili se non senza modificare la struttura ed il profilo
dell’edificio. Da ciò la computabilità come area coperta, e l’esclusione della qualifica di immobile di lusso, venendo
meno la condizione a tal fine prevista dalla norma, di un’area scoperta di pertinenza di oltre sei volte quella coperta,
con conseguente riconoscimento del diritto alle agevolazioni fiscali per l’acquisto della "prima casa"
Corte di Cassazione, Sentenza n. 17206 del 27 aprile 2016
Quando effettua una dichiarazione di successione il privato ha un preciso obbligo di dichiarare il vero nelle
autocertificazioni che vanno ad essa allegate. Tale atto, infatti, determina una serie di effetti pubblicistici di natura
fiscale che gli conferiscono natura di atto pubblico. Qualsiasi dichiarazione contenente indicazioni difformi dalla
realtà integra quindi gli estremi del delitto di falsità ideologica in atto pubblico.
Per la Cassazione, del resto, la dichiarazione di successione non ha vita propria rispetto alle conseguenze
pubblicistiche che produce e non è possibile guardare ad essa senza considerare la sua presentazione e l'attività che
in essa svolge il pubblico ufficiale, ovverosia indipendentemente dalla natura e dalla funzione pubblica che essa
assolve.
Così, con la sentenza in esame , i giudici di legittimità hanno rigettato le argomentazioni a tal proposito poste dai
ricorrenti avverso la sentenza con la quale gli stessi erano stati condannati per falso ideologico, per aver attestato
falsamente di essere gli eredi di una povera ultranovantenne deceduta qualche tempo prima che aveva lasciato un
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FINGERSI EREDI È REATO
conto corrente in attivo e una casa nella capitale. I finti congiunti (portanti lo stesso cognome della defunta) avevano
non solo confezionato un testamento olografo falso, ma si erano spinti a pubblicarlo presso un notaio, nel frattempo
prosciugando il conto corrente della vecchietta e installandosi nell'abitazione.
Dalla vicenda nasceva un contenzioso penale (ad opera dell'altra squadra di eredi veri) e tra le varie contestazioni
(violazione di domicilio, falsità materiale, ecc.) spiccava proprio quella del falso ideologico in atto pubblico. Nel ricorso,
in particolare, i falsi eredi si erano difesi tentando di suddividere la natura della dichiarazione di successione in due:
nella fase procedimentale che precede l'intervento certificativo e/o autoritativo del pubblico ufficiale essa non
avrebbe le caratteristiche di cui all'art. 2699 c.c. ma natura private con conseguente impossibilità di configurare in
questo segmento temporale il reato di falso. La natura pubblicistica, invece, verrebbe in rilievo solo nella fase
successiva.
Ma per gli Ermellini non è così: la dichiarazione di successione, per i motivi sopra visti, è sempre un atto pubblico. Il
ricorso dei falsi eredi, per questo e per altri motivi, va rigettato e la condanna confermata.
BONUS PRIMA CASA: OK PIÙ SCAMBI MA SEMPRE TRA ABITAZIONI PRINCIPALI
Corte di Cassazione, Sentenza n. 10900 del 26 maggio 2016
In tema di agevolazioni tributarie per l’acquisto della prima casa, ai sensi del comma 4, ultimo periodo, della nota
2 bis dell’articolo 1 della Tariffa, Parte prima, allegata al Dpr n. 131 del 1986, il contribuente che, venduto l’immobile
nei cinque anni dall’acquisto, abbia acquistato, entro un anno da tale alienazione, un altro immobile, procedendo
poi alla sua vendita e all’acquisto infrannuale di un ulteriore immobile, può mantenere l’agevolazione solo se
fornisce la prova che l’acquisto sia seguito dalla effettiva realizzazione della destinazione ad abitazione propria degli
immobili acquisiti nelle singole transazioni in virtù del concreto trasferimento della residenza anagrafica nell’unità
abitativa correlata. I benefici fiscali sono subordinati al raggiungimento dello scopo per il quale vengono concessi: in
caso di vendita infraquinquennale di un immobile comprato con l’agevolazione cd. prima casa, il mantenimento
dell’agevolazione è accordato se il contribuente entro il successivo anno proceda all’acquisto di altro immobile da
adibire alla propria abitazione principale.
Corte di Cassazione, Sentenza n. 1463 del 27 gennaio 2016
Con la sentenza in commento, la Corte di Cassazione ha chiarito che in caso di
dichiarazione dei redditi congiunta ad essere responsabili di quanto dichiarato
sono entrambi i coniugi e con la denuncia a processo non c’è prescrizione
neppure per il coniuge condebitore estraneo al giudizio, la pendenza della lite
ne determina l’interruzione permanente.
Responsabilità solidale
I coniugi hanno la facoltà di scegliere la dichiarazione dei redditi congiunta, ai
sensi dell’articolo 17 della legge 114/1977, ma si tratta di una libera scelta che
implica l’accettazione della responsabilità solidale tra i due relativa ad
eventuali debiti fiscali e quindi anche delle conseguenze sostanziali e processuali che possono derivare da una
possibile notifica di cartella esattoriale dell’imposta sul reddito iscritta a ruolo a carico di una delle due parti.
Precisiamo inoltre che nel caso in cui si scelga la dichiarazione dei redditi congiunta, il Fisco considererà le
due persone sposate per i 5 anni successivi dalla data di presentazione del modello 730, anche se nel frattempo i due
dovessero separarsi o divorziare.
Accertamento fiscale - La sentenza della stessa Corte di Cassazione n. 27005/2007 ha infatti precisato che l’insorgenza
della responsabilità solidale del coniuge co-dichiarante non richiede che l’avviso di accertamento venga notificato ad
entrambi, ma è sufficiente la notifica dell’atto ad uno solo dei due.
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DICHIARAZIONE DEI REDDITI CONGIUNTA: RESPONSABILITÀ SOLIDALE E PRESCRIZIONE
Questo significa che in caso di controlli fiscali entrambi sono tenuti a pagare, anche nel caso in cui la violazione del
coniuge riguardi dei redditi occulti di cui l’altro sia completamente estraneo. In questo caso l’unica scappatoia per
il coniuge inconsapevole è quella di difendersi in giudizio, impugnando entro i termini stabiliti dalla legge l’atto con cui
per la prima volta viene a conoscenza della pretesa tributaria.
INVIO DICHIARAZIONE DEI REDDITI: IL RITARDO RICADE SUL CONTRIBUENTE
Corte di Cassazione, Sentenza n. 11832 del 9 giugno 2016
Molti contribuenti si affidano alla figura professionale del
commercialista per il completamento della dichiarazione dei
redditi, incaricando costui del relativo invio all'Agenzia delle
Entrate. Se il commercialista, però, non invia la suddetta
dichiarazione o agisce in ritardo, la colpa ricadrà sul cliente.
Quest'ultimo sarà l'unico tenuto a rispondere del mancato
invio o del ritardo, in quanto è gravato dall'obbligo di
controllare l'operato del professionista cui si è rivolto.
L'assunto è stato affermato dalla Corte di Cassazione con la
sentenza in esame. Il contribuente, quindi, se incarica il
commercialista
all'adempimento
dell'invio
telematico,
conferendogli apposito mandato, deve provvedere al controllo effettivo che l'atto sia stato adempiuto in modo
regolare e soprattutto nei termini previsti. Si sottolinea che grava sul contribuente la prova che il non avvenuto
deposito secondo le modalità previste sia attribuito al comportamento dell'incaricato commercialista.
Eventuale esclusione della responsabilità e cancellazione delle multe
Il contribuente è esonerato dalla responsabilità solo se l'errore del commercialista o dell'intermediario abilitato
dipenda da un intento fraudolento, ma tale esclusione non è automatica. Il cliente, infatti, per sottrarsi lecitamente
alle sanzioni di natura fiscale deve procedere alla denuncia del professionista e presentare la relativa copia della
querela all'Agenzia delle Entrate; solo successivamente sarà possibile il verificarsi della cancellazione delle sanzioni che
hanno in un primo momento colpito la sua persona nella qualità di contribuente. Il contribuente può essere punito in
quanto sia consapevole del comportamento sanzionato; non si fa riferimento all'esclusivo stato doloso, ma si reputa
sufficiente la colpa, ossia, un comportamento qualificabile come negligente.
Un obbligo esclusivamente personale
Gli obblighi di natura tributaria aventi ad oggetto la presentazione della dichiarazione nonché la tenuta delle scritture
contabili presentano carattere meramente personale. A tal fine, il conferimento dell'incarico ad un professionista, non
indica che tali obblighi siano stati regolarmente assolti. Il punto centrale è rappresentato sempre dal comportamento
del contribuente che nel caso di incarico affidato ad altri, deve esercitare un'attività di controllo e di vigilanza, in
quanto la sua colpa non viene automaticamente meno. Si configura un'ipotesi di esclusione della responsabilità solo
se il professionista con intento fraudolento cerchi di nascondere il mancato adempimento o neghi l'avvenuta esistenza
dell'incarico posto in essere per volontà del cliente.Per escludere ogni profilo di negligenza, bisogna provare di aver
controllato l’operato del consulente o di essere stato vittima di un comportamento fraudolento da parte sua.
Corte di Cassazione, Sez. V tributaria, Sentenza n. 11307 del 31 maggio 2016
La caparra penitenziale, convenuta con il preliminare di compravendita, trattenuta dal contribuente in seguito al
recesso del promissario acquirente, è assoggettabile ad imposizione diretta, in quanto la prestazione principale
rimasta ineseguita per sua natura avrebbe generato redditi tassabili per un soggetto privato, con il conseguimento
di una plusvalenza ai sensi dell’art. 67 del TUIR (DPR 917/1986).
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TASSAZIONE DELLA CAPARRA PENITENZIALE
Quanto al momento in cui la tassazione della caparra deve avvenire la medesima sezione tributaria della Suprema
Corte (Sent. n. 15276/2000) ha avuto modo di precisare che la registrazione del contratto preliminare di
compravendita non comporta la tassazione proporzionale con l’imposta di registro delle somme costituite a titolo di
caparra confirmatoria. La tassazione di tali somme, infatti, compete al momento del loro trasferimento, vale a dire che
al verificarsi delle ipotesi di inadempimento contrattuale che legittimano l’appropriazione da parte del prenditore, che
fino a quella data rimangono quindi di competenza del debitore.
PRIMA CASA: AGEVOLAZIONI ALLARGATE PER MARITO E MOGLIE
Corte di Cassazione, Sentenza n.13334 del 28 giugno 2016
L'agevolazione prima casa può essere ottenuta, dopo l'acquisto dell'immobile da parte di marito e moglie, in una
molteplicità di casi:
1. se entrambi risiedono nel comune dove è ubicata l'abitazione in oggetto;
2. se i due andranno a risiedervi entro 18 mesi dalla data del rogito.
3. se, risiedendo i due coniugi in due comuni diversi:
a. l'immobile acquistato sia ubicato in uno dei due comuni;
b. nel tal comune la famiglia abbia la sua residenza;
c. si tratti di un acquisto compiuto in regime di comunione dei beni.
Questa linea estensiva delle agevolazioni prima casa è stata confermata dalla sentenza in commento, che ha ribadito
dei concetti già più volte affermati in sede di giurisprudenza di legittimità.
Per giungere a questo tipo di interpretazione "allargato", la Cassazione ricorre al concetto di residenza della famiglia,
definendolo "soggetto autonomo rispetto ai coniugi".
Quindi, una volta provato che la casa oggetto di acquisto agevolato è destinata ad ospitare appunto la "residenza
della famiglia", secondo i giudici non avrebbe importanza che uno dei coniugi abbia altrove la propria residenza.
CHI EDIFICA ENTRO UN ANNO SU UN TERRENO DI PROPRIETÀ NON PERDE IL BONUS PRIMA
CASA
Corte di Cassazione, Sentenza n. 13550 del 01 luglio 2016
I Giudici della Cassazione hanno posto in evidenza che "la previsione dell'acquisto, entro un anno dall'alienazione
dell'immobile agevolato, di un terreno sul quale il contribuente intende costruire la propria abitazione principale,
integra semplicemente un dies ad quem, senza che sia invece fissato il dies a quo, con la conseguenza che l'esonero
dalla causa di decadenza deve "restare ferma anche nell'ipotesi in cui il contribuente fosse già in precedenza
proprietario del terreno, essendo solo necessario che su tale terreno venga realizzato, entro un anno dalla vendita del
precedente immobile, un fabbricato utilizzabile come abitazione principale".
In tal modo, la Corte ha accolto il ricorso, cassando la pronuncia impugnata. È infatti vero che quel contribuente che
entro un anno dall'alienazione dell'immobile voglia realizzare sul suo terreno un fabbricato dando "concreta
attuazione al proposito di adibirvi effettivamente la propria abitazione principale", abbia con ciò soddisfatto l'onere di
legge.
Corte di Cassazione, Sentenza n. 11942 del 10 giugno 2016
In tema di accertamenti da indagini finanziarie, l'articolo 32, comma 1, del Dpr 600/1973 implica un'inversione
dell'onere della prova, ponendo a carico del contribuente il compito di dimostrare chi sia il reale beneficiario dei
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I MOVIMENTI BANCARI NON SUFFICIENTEMENTE GIUSTIFICATI E NON TRANSITATI NELLE
SCRITTURE CONTABILI SONO CONSIDERATI ALLA STREGUA DI COMPONENTI POSITIVI DI
REDDITO NON DICHIARATI
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prelievi bancari, altrimenti considerati come ricavi non contabilizzati; sbaglia quindi il giudice di merito che
attribuisce rilevanza probatoria a circostanze solamente asserite (come il far fronte a esigenze di cassa) ponendo, poi,
a carico dell'amministrazione finanziaria l'onere di verificarne la veridicità .
Il caso : Una società esercente la vendita all'ingrosso di prodotti per pasticceria e gelateria riceveva un avviso di
accertamento, con il quale venivano effettuati diversi rilievi: in particolare, venivano ripresi a tassazione alcuni importi
relativi a due prelevamenti bancari, che venivano qualificati come ricavi non contabilizzati, in virtù della presunzione di
cui all'articolo 32 del Dpr 600/1973. Infatti, l'ufficio aveva considerato inverosimile, in quanto antieconomica, la
condotta della società che aveva effettuato i prelevamenti su un conto con saldo a debito, riversando poi gli importi
sul conto cassa che, al contrario, presentava un saldo di gran lunga attivo.
Giunto in contenzioso, l'atto veniva parzialmente annullato dalla Ctp di Caserta.
La Commissione tributaria regionale della Campania, poi, rigettava l'appello principale dell'ufficio e accoglieva quello
incidentale della società.
Con il successivo ricorso per cassazione, l'Agenzia delle Entrate denunciava, tra l'altro, violazione dell'articolo 32,
nonché omessa o comunque insufficiente e contraddittoria motivazione della pronuncia impugnata, per aver ritenuto
giustificati i prelevamenti sulla base di una (solo) asserita urgente necessità di cassa, ribaltando in tal modo sull'ufficio
l'onere della prova attraverso il concreto accertamento della consistenza di cassa.
La pronuncia : La Cassazione, con la sentenza in esame, ha accolto il ricorso dell'Agenzia delle Entrate.
Dopo aver ricordato che, in tema di indagini finanziarie, spetta al contribuente fornire la prova della destinazione dei
prelievi bancari attraverso l'indicazione del beneficiario, i giudici di legittimità hanno censurato il punto della sentenza
di merito che ha attribuito all'amministrazione finanziaria l'onere di verificare la generica giustificazione fornita dal
contribuente ovvero la composizione qualitativa della cassa per accertare l'esistenza di mezzi di pagamento non
immediatamente liquidabili, tale da giustificare l'immissione di disponibilità finanziarie prelevate da un conto con
saldo negativo.
Censurata anche la motivazione della sentenza impugnata "nella parte in cui non dà risposta alla argomentazione
presuntiva dell'Ufficio circa la destinazione dei prelievi bancari a pagamenti di acquisti "in nero", desunta dalla natura
palesemente antieconomica di una operazione di prelevamento di somme di denaro dal conto corrente, avente
l'effetto di aggravare l'esposizione bancaria della società, al fine di riversare le medesime somme sul conto cassa
avente un saldo attivo già elevato".
Osservazioni: Il contenzioso in tema di indagini finanziarie si incentra soprattutto sulla ripartizione e sull'assolvimento
dell'onere probatorio posto a carico delle parti.
I prelevamenti non sufficientemente giustificati e non transitati nelle scritture contabili sono considerati quali
componenti positivi di reddito, non dichiarati dal soggetto verificato; la ripresa a tassazione, ai fini Irpef e Iva, si fonda
sull'assunto secondo cui un prelevamento privo di dati giustificativi costituisce "un investimento" (ovvero un costo
sostenuto in nero) caratterizzante l'attività commerciale, a sua volta produttivo di un ricavo non dichiarato.
L'assimilazione con i ricavi avviene qualora il contribuente non ne riesca a dimostrare la destinazione o l'utilizzo; a tal
fine, secondo l'orientamento rigoroso della giurisprudenza di legittimità, non è sufficiente indicare il beneficiario,
perché, per vincere la presunzione, andrebbe altresì spiegata e provata la causa del rapporto fondamentale
sottostante al documento bancario ovvero per quale motivo sia stato versato il denaro (cfr Cassazione, pronuncia
17250/2013).
In via generale, secondo un orientamento ormai consolidato, nel processo tributario, nel caso in cui l'accertamento
effettuato dall'ufficio finanziario si fondi su verifiche di conti correnti bancari, è compito del contribuente, a carico del
quale si determina una inversione dell'onere della prova, dimostrare che gli elementi desumibili dalla movimentazione
bancaria non siano riferibili a operazioni imponibili, mentre l'onere probatorio dell'amministrazione è soddisfatto, per
legge, attraverso i dati e gli elementi risultanti dai conti predetti (cfr Cassazione, pronunce nn. 4589/2009 e
4153/2016). Invero, il Dpr 600/1973, articolo 32, come il Dpr 633/1972, articolo 51, impone di considerare ricavi sia i
prelevamenti sia i versamenti su conto corrente, salvo che il contribuente non provi che i versamenti sono registrati in
contabilità e i prelevamenti sono serviti per pagare determinati beneficiari, anziché costituire acquisizione di utili.
Posto che in materia sussiste inversione dell'onere della prova, alla presunzione di legge (relativa) va contrapposta una
prova, non un'altra presunzione semplice ovvero una mera affermazione di carattere generale (cfr Cassazione nn.
25365, 20858, 16720, 13819 e 6743, tutte del 2007; 19330 e 14675 del 2006; 18016/2005; 7267/2002 e 9103/2001).
Quindi, è necessario fornire una prova adeguata e rigorosa (cfr Cassazione nn. 25884/2013, 2895/2013 e 16650/2011),
non essendo sufficienti mere asserzioni, tanto più se determinano l'effetto di ribaltare l'onere di verifica a carico
dell'ufficio: per questo motivo, è stata censurata la sentenza della Ctr sia sotto il profilo della violazione di legge sia
per carenza di motivazione.
AREE EDIFICABILI E CRITERIO BASE IMPONIBILE: L'EDIFICABILITÀ VA DESUNTA DAL PRG
COMUNALE
Corte di Cassazione, Sez. VI, Sentenza 14676 del 18 luglio 2016
L'edificabilità di un'area, ai fini dell'applicazione del criterio di determinazione della base imponibile, fondato sul
valore venale, deve essere desunta dalla qualificazione ad essa attribuita dal piano regolatore generale adottato dal
Comune, indipendentemente dall'approvazione di esso da parte della Regione e dell'adozione di strumenti
urbanistici attuativi.
Questo principio, già espresso dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione con la sentenza 30 novembre 2006 n.
25506, è stato ribadito dalla suprema Corte nella
sentenza in commento.
La Cassazione ricorda che il suddetto principio è stato
“costantemente ribadito dalla giurisprudenza di questa
Corte (cfr., tra le molte Cass. Cass. sez. 5, 27 luglio 2007,
n. 16174; Cass. sez. 5, 16 novembre 2012, n. 20137; Cass.
sez. 5, 5 marzo 2014, n. 5161; Cass. sez. 5, 27 febbraio
2015, a 4091), in un quadro di riferimento segnato anche
da pronuncia della Corte costituzionale (ord. 27 febbraio
2008, n. 41), che ha dichiarato inammissibile la questione
di legittimità costituzionale della norma d'interpretazione
autentica dell'art. 2 lett. b) del digs. 504/1992,
rappresentata dall'art. 36, comma 2 del d.l. n. 223/2006,
come convertito nella legge a 248/2006”.
DONAZIONE A VALORE PIENO
Corte di Cassazione, II Sez. civile, Sentenza n.14747 del 19 luglio 2016
Al fine di stabilire se l’atto di disposizione compiuto in vita dal de cuius sia lesivo della quota riservata ai legittimari, la
donazione con riserva di usufrutto deve essere calcolata come donazione in piena proprietà.
Ai fini della riunione fittizia, in altre parole, il valore dei beni donati in vita dal defunto, va determinato con riferimento
al momento dell’apertura della successione, per effetto della quale l’usufrutto che il donante si era riservato viene a
consolidarsi con la nuda proprietà.
Corte di Cassazione, Sentenza n.13605 del 4 luglio 2016
A fronte di un’alta percentuale di scostamento tra reddito dichiarato e coefficienti presuntivi, le condizioni di salute
non rilevano se non determinanti secondo gli accertamenti effettuati dall’Inps. È quanto affermato dalla Corte di
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L’INFORTUNIO “LIEVE” NON GIUSTIFICA LE “GRAVI” DISCORDANZE REDDITUALI
cassazione con l’ordinanza in esame. Quindi, il contribuente che patisce un infortunio non evita le rilevazioni del
Fisco, soprattutto se il reddito dichiarato e i coefficienti degli studi di settore risultano palesemente discordanti.
Dati del processo: nella vicenda in oggetto, il ricorso presentato da un contribuente, che impugnava un avviso di
accertamento relativo a vari tributi, è stato accolto dalla Commissione tributaria provinciale, ma la decisione è stata
capovolta in appello.
Nel conseguente ricorso per cassazione, il contribuente deduce come vizi della sentenza impugnata l’omessa
considerazione della perizia prodotta, decisiva per il giudizio, dalla quale emergeva l’aggravamento delle proprie
condizioni di salute, un infortunio occorsogli e mancati pagamenti da parte di una società, che avrebbero
notevolmente ridotto il conseguimento nell’anno di ricavi e, quindi, la congruenza con quanto dichiarato nello studio
di settore.
Motivi della decisione: ma, anche in sede di legittimità, la sentenza impugnata trova conferma, atteso che il non
indifferente scostamento tra reddito dichiarato e coefficienti presuntivi è stato determinante per orientare il giudizio
della Corte suprema.
A tal fine, occorre premettere che, a norma dell'articolo 62-sexies, comma 3, del Dl 331/1993, gli accertamenti in base
agli articoli 39, comma 1, lettera d), del Dpr 600/1973, e 54 del Dpr 633/1972, possono essere fondati anche
sull’esistenza di gravi incongruenze tra i ricavi, i compensi e i corrispettivi dichiarati e quelli fondatamente desumibili
dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta ovvero dagli studi di settore elaborati ai
sensi del citato articolo 62-bis.
La disposizione richiamata autorizza, pertanto, l’ufficio finanziario, allorché ravvisi siffatte “gravi incongruenze”, a
procedere all’accertamento induttivo anche fuori delle ipotesi previste e, in particolare, anche in presenza di una
tenuta formalmente regolare della contabilità (Cassazione, pronunce 5977/2007, 8643/2007 e 23096/2012).
Tale indirizzo è stato, poi, ulteriormente ribadito dalle Sezioni unite, le quali hanno rimarcato che la necessità che lo
scostamento del reddito dichiarato rispetto agli studi di settore testimoni una “grave incongruenza”, espressamente
prevista dall’articolo 62-sexies del Dl 331/1993, ai fini dell’avvio della procedura finalizzata all’accertamento, deve
ritenersi implicitamente confermata, nel quadro di una lettura costituzionalmente orientata al rispetto del principio
della capacità contributiva, dall’articolo 10, comma l, della 1egge 146/1998 (sentenza 26635/2009).
Esiti conclusive: ciò posto, nel caso di specie, la Cassazione ha ritenuto immune da vizi logici il percorso argomentativo
della Commissione regionale, dato che un maggior reddito non avrebbe potuto essere accertato dall’ente impositore
nel caso in cui i ricavi fossero risultati conformi ai parametri (cfr Cassazione, pronuncia 20414/2014).
Corte di Cassazione, Sentenza n. 12795 del 21 giugno 2016
Gli avvisi di accertamento in rettifica o d'ufficio devono essere notificati a pena di decadenza, entro il 31 dicembre
del quinto anno successivo a quello in cui la dichiarazione o il versamento sono stati o avrebbero dovuto essere
effettuati. I soggetti di cui all'art. 63 D.lgs 507/93 presentano al Comune entro il 20 gennaio successivo all'inizio
dell'occupazione o detenzione, denuncia unica dei locali ed aree tassabili siti nel territorio del Comune.
E' quanto ha stabilito la Corte di Cassazione, Sezione V Civile, con la sentenza in esame, mediante la quale ha rigettato
il ricorso e confermato quanto già deciso dalla Commissione Tributaria Regionale dell'Abruzzo.
La pronuncia traeva origine dal FATTO che con sentenza n.145/2011, la Commissione Tributaria Regionale
dell'Abruzzo, rigettava l'appello proposto dalla società EFFE EFFE s.r.l. avverso la sentenza della Commissione
Tributaria Provinciale di Teramo n. 228/01/2010 che aveva confermato l'avviso di accertamento Tarsu per l'anno
2003, emesso dal Comune di HHHH. La società impugna la sentenza della Commissione Tributaria Regionale
deducendo due motivi: con il primo motivo, violazione dell'art. 7 D.lgs 546/1992 «non essendo prevista dalla
normativa di riferimento alcuna dichiarazione periodica in tema di Tarsu», così come rilevato dalla CTR che ha
concluso che per tale ragione "l'omissione e l'infedeltà vengono a confondersi". Con il secondo motivo, errata
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AVVISI DI ACCERTAMENTO TARSU/TIA: LA CASSAZIONE FISSA IL TERMINE INIZIALE PER LA
DECADENZA
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applicazione del termine triennale di decadenza dell'azione accertatrice dovendo la denuncia essere effettuata entro il
20 gennaio successivo all'inizio dell'occupazione e non già entro il venti gennaio dell'anno successivo a tale inizio.
La Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi, mediante la citata sentenza n. 12795/2016 ritiene infondati i motivi e
rigetta il ricorso. La Corte precisa che la questione controversa concerne la determinazione del termine iniziale per la
dichiarazione da parte del contribuente, da cui computare il termine di decadenza del Comune per la notifica
dell'avviso di accertamento Tarsu/Tia. L' art. 1, comma 161 Legge 27.12.2006, n. 296 prevede che «gli enti locali,
relativamente ai tributi di propria competenza, procedono alla rettifica delle dichiarazioni incomplete o infedeli o
parziali o dei ritardati versamenti, nonché all'accertamento d'ufficio delle omesse dichiarazioni o degli omessi
versamenti, notificando al contribuente, anche a mezzo posta con raccomandata con avviso di ricevimento, un
apposito avviso motivato. Gli avvisi di accertamento in rettifica o d'ufficio devono essere notificati a pena di
decadenza, entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui la dichiarazione o il versamento sono stati o
avrebbero dovuto essere effettuati». Tale disciplina aumenta a cinque anni il termine di decadenza, essendo stato
abrogato dall'art. 1, comma 172 1. 296/2006, con decorrenza 1.7.2007 il previgente art. 71, c.1. D.lgs 507/93 che
prevedeva il termine triennale di decadenza.
Il comma 171 del medesimo art. 1 legge n. 296/2006 prevede, inoltre, che le nuove disposizioni, tra cui la nuova
procedura di accertamento e i relativi termini si applicano anche ai rapporti di imposta precedenti al 1 gennaio 2007,
data di entrata in vigore della legge finanziaria. L' art. 70 , comma 1, D.lgs 507/93 recita «i soggetti di cui all'art. 63
presentano al comune entro il 20 gennaio successivo all'inizio dell'occupazione o detenzione, denuncia unica dei locali
ed aree tassabili siti nel territorio del Comune».
Il Comune ritiene, invece, che il termine sia quello del "20 gennaio dell'anno successivo all'inizio dell'occupazione".
Occorre, al riguardo differenziare il caso in cui la detenzione o occupazione del locali è in corso fin dall'inizio del
periodo di imposta e, comunque, prima del 20 gennaio, dal caso in cui tale situazione si sia verificata in epoca
successiva. Nel primo caso il termine di decadenza decorre dall'anno corrente, nel secondo caso dal 20 gennaio
dell'anno successivo.
La chiara interpretazione del dettato normativo non consente di ritenere che, in ogni caso, il termine del 20 gennaio
debba riferirsi all'anno successivo a quello in cui la denuncia o il versamento dell'imposta dovevano essere effettuati.
Pertanto, a fronte del chiaro dato normativo, le occupazioni iniziate tra il 1 e il 19 gennaio devono essere dichiarate
entro il 20 gennaio immediatamente successivo, cioè dello stesso anno, mentre le occupazioni successive al 20
gennaio vanno dichiarate entro il 20 gennaio dell'anno successivo.
Tale termine costituisce un non irragionevole spartiacque, nella applicazione del. C.d. doppio binario, anche se per le
occupazioni iniziate il 19 gennaio il termine sarà di un solo giorno, mentre per quelle iniziate il 21 gennaio sarà di 364
giorni. Ove si accedesse alla tesi del Comune, non illogica ma priva di supporto normativo, le medesime conseguenze
si verificherebbero nel caso di occupazione iniziata il 31 dicembre rispetto a quella iniziata il 1 gennaio dell'anno
successivo. Ove il legislatore avesse inteso postergare il momento dichiarativo all'anno successivo l'avrebbe
espressamente previsto, come ad esempio, in tema di lei dall'art. 10, comma 4, D.lgs 504/92 recita "i soggetti passivi
devono dichiarare gli immobili posseduti nel territorio dello Stato, con esclusione di quelli esenti dall'imposta di cui
all'articolo 7,su apposito modulo entro il termine di presentazione della dichiarazione dei redditi relativa all'anno in
cui il possesso ha avuto inizio", cioè l'anno successivo a quello oggetto di imposizione.
Nel caso di specie non vi è prova che l'occupazione fosse iniziata fin dall'inizio dell'anno e quindi il termine per potere
avanzare la pretesa impositiva da parte del'Ente, relativamente alla tassa per il 2003, era il 31.12 .2008 e deve, quindi
considerarsi tempestivo l'accertamento notificato il 27.12.2008.
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RIMBORSO IRAP TERMINE DECADENZA SENZA OVERRULING
Corte di Cassazione, Sentenza n. 15530 del 27 luglio 2016
Con la sentenza in esame, la Sesta sezione civile della Corte di
Cassazione accoglie il ricorso dell'Agenzia delle Entrate e rigetta
l'originaria domanda del professionista che aveva richiesto il rimborso
dell'irap versata nel 1999, motivando il ricorso sulla base del deposito
della sentenza della Corte costituzionale n. 156/01, che di fatto ha
escluso la debenza del tributo per il contribuente che non ha
un'autonoma organizzazione.
Nel decidere sul merito della questione, la Corte di Cassazione esclude
che il termine di decadenza per la domanda di rimborso possa
decorrere dal 21 maggio 2001, data in cui la sentenza n. 156 è stata depositata e la Consulta ha sancito che serve il
presupposto dell'autonoma organizzazione ai fini dell'imposizione Irap.
Il termine di decadenza per la presentazione dell'istanza di rimborso dell'Irap erroneamente versata, in assenza dei
presupposti, è di 48 mesi dalla data del versamento non dovuto.
Pertanto, secondo la sentenza in esame, se il professionista ha presentato la sua domanda di rimborso in data 19
maggio 2004 è escluso che il termine di decadenza per tale domanda possa decorrere dalla data del 21 maggio 2001.
Escluso l'overruling : la Suprema Corte stabilisce che non si può prorogare tale termine, in applicazione del principio di
overruling, fino alla data della sentenza della Consulta, ossia il 2001, e il termine di decadenza per il rimborso si deve
considerare decorso dalla data di versamento del tributo.
Sono in errore le commissioni tributarie se ritengono che sia applicabile l'overruling, dal momento che
l'applicazione di tale principio si può verificare solo al ricorrere delle seguenti condizioni:
- il repentino cambio di giurisprudenza ha impedito alla parte di agire o difendersi perché faceva affidamento
sull'orientamento da tempo consolidato;
- la parte può essere tenuta indenne dalle conseguenze del cambio di giurisprudenza solo quando il revirement è su
una regola del processo stesso,
- non si può riconoscere alle sentenze costituzionali interpretative di rigetto un effetto retroattivo.
Corte di Cassazione, sez. Tributaria, sentenza n. 18453 del 21 settembre 2016
In presenza di fabbricato inagibile o inabitabile al contribuente spetta la
riduzione ICI (e IMU) anche nel caso in cui non abbia presentato la
comunicazione di legge, ricorrendo i presupposti di fatto.
Secondo la Corte, nella vicenda di cui si tratta, lo stato di inagibilità risulta
confermato dal CTU nominato dalla CTR del Piemonte sezione 36 in analogo
giudizio tra le parti. Quindi l’elemento fattuale per avere la riduzione
dell’imposta esiste. In ordine all’aspetto normativo l’articolo 8 comma 1 del
decreto 504 del 1992 prevede che l’inagibilità sia accertata dall’ufficio
tecnico comunale con perizia a carico del proprietario, che allega idonea
documentazione alla dichiarazione. In alternativa, il contribuente ha facoltà di presentare dichiarazione sostitutiva ai
sensi della legge 4 gennaio 1968, n. 15, rispetto a tale condizione.
Nel caso specifico la società contribuente non aveva presentato la prevista documentazione.
E’ tuttavia provato che lo stato di grave inagibilità fosse noto al Comune, considerato che lo stesso Comune, scaduta la
concessione edilizia, non aveva concesso alcun permesso edificatorio cosicché nessun intervento edilizio poteva
essere eseguito. Secondo la Corte va fatto riferimento al principio di collaborazione e buona fede che deve
improntare i rapporti tra ente impositore e contribuente (L. n. 212 del 2000, art. 10, coma 1), di cui è espressione
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NEL CASO DI IMMOBILI INAGIBILI SPETTA LA RIDUZIONE IMU SENZA DENUNCIA
anche la regola secondo la quale al contribuente non può essere richiesta la prova dei fatti documentalmente noti
all’ente impositore (L. n. 212 del 2000, art. 6, comma 4).
Pertanto deve ritenersi che nessun altro onere probatorio gravasse nella fattispecie sul contribuente (cfr. anche Cass.
23531/2008).
CESSIONE DI TERRENO EDIFICABILE: PER IL FISCO RILEVA LA LOTTIZZAZIONE
Corte di Cassazione, Sezione V, Sentenza n. 17823 del 9 settembre 2016
La pronuncia riguarda la tassazione delle plusvalenze realizzate mediante la cessione di aree lottizzate edificabili,
acquisite già come tali, da parte del futuro cedente, per donazione. Secondo quanto stabilito dai giudici di legittimità,
il valore normale dei terreni (o dei fabbricati ivi costruiti), acquisiti gratuitamente, da assumere come prezzo di
acquisto ai fini del calcolo della plusvalenza, va determinato con riferimento alla data di inizio della lottizzazione (o
delle opere ovvero alla data di inizio della costruzione), ai sensi dell’articolo 82, comma 2, secondo periodo, del DPR n.
917/1986 (nella formulazione applicabile ratione temporis).
VERSAMENTI INGIUSTIFICATI SUL CONTO PARI A COMPENSI NON DICHIARATI
Corte di Cassazione, Sentenza n. 16697 del 9 agosto 2016
Per i lavoratori autonomi, è stata dichiarata illegittima la disposizione sulle movimentazioni bancarie non
giustificate, secondo cui si presumeva che i prelevamenti dovessero considerarsi compensi non dichiarati, da
recuperare a tassazione. Non è così, invece, per i versamenti operati su propri conti correnti, per i quali resta
invariata la presunzione legale posta a favore dell’Erario. Inoltre, essendo presunzione legale, non è necessario che
soddisfi i requisiti di gravità, precisione e concordanza.
Quindi, sottolinea la sentenza in commento, è il contribuente che deve dimostrare che gli elementi desumibili dalla
movimentazione bancaria non sono riferibili ad operazioni imponibili, fornendo una prova analitica, con indicazione
specifica della riferibilità di ogni versamento bancario, in modo da dimostrare come ciascuna delle operazioni
effettuate sia estranea a fatti imponibili.
Corte di Cassazione, Sentenza n. 23397 del 17 novembre 2016
Ogni credito contributivo o erariale ha di solito prescrizione quinquennale, che può essere interrotta con l’invio di
comunicazioni, atti notificati al debitore volti a sollecitare il pagamento. La Cassazione a Sezione Unite con la sentenza
in esame ha statuto un importante principio di diritto proprio sulla prescrizione che potrebbe avere rilevanza anche ai
fini della valutazione della rottamazione dei ruoli. In breve il principio di diritto enunciato è il seguente: la mancata
impugnazione di un qualunque atto impositivo non comporta l’allungamento del termine prescrizionale, al contrario
del diritto di credito contenuto in una sentenza passata in giudicato, che invece si prescrive in dieci anni.
La vicenda giuridica trae origine dall’ opposizione di un’intimazione di pagamento relativa ad una cartella per omessi
versamenti di contributi previdenziali Inps, proposta avanti al tribunale. Il giudice di 1^ grado ha dichiarato
inammissibile per tardività l’opposizione, mentre la Corte di appello ha ritenuto prescritto il credito vantato dall’ente
con la cartella di pagamento. I giudici dell’Appello quindi hanno precisato che l’intimazione di pagamento era stata
notificata oltre i cinque anni dalla notifica della predetta cartella.
L’Inps ha proposto ricorso per Cassazione dolendosi di un’interpretazione errata della norma, atteso che la cartella di
pagamento era divenuta definitiva per assenza di impugnazione e pertanto trovava applicazione il termine
prescrizionale ordinario decimo anno. I giudici di legittimità hanno quindi rimesso la decisione alle Sezioni Unite. E’ da
ravvisarsi, infatti, un contrasto giurisprudenziale sul punto, legato all’interpretazione dell’articolo 2953 del Codice
civile che disciplina gli effetti del giudizio sulle prescrizioni brevi.
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PRESCRIZIONE DELLE CARTELLE ESATTORIALI
In breve il nodo giurisprudenziale riguardava l’operatività o meno della “conversione” del termine di prescrizione
breve in ordinario decennale, dopo la mancata impugnazione di atti di riscossione riferiti alle sanzioni amministrative,
ai contributi previdenziali o altra entrata tributaria. I dubbi ruotano intorno al fatto se tale omessa impugnazione fosse
idonea a trasformare il termine da breve a decennale.
La Cassazione a Sezioni Unite ha innanzitutto affermato che la prescrizione di dieci anni prevista dall’articolo 2953 del
c.c. decorre dal passaggio in giudicato della sentenza e che l’eventuale conversione della prescrizione breve in quella
decennale trova il proprio fondamento proprio nella sentenza stessa. Ne consegue che tutti gli altri titoli che
legittimano la riscossione coattiva mediante ruolo, compresa la cartella di pagamento e l’accertamento esecutivo, non
sono da ritenersi idonei ad acquistare efficacia di giudicato. In conclusione, quindi, la Cassazione ha affermato il
principio secondo cui la scadenza del termine perentorio stabilito per opporsi o impugnare un atto produce solo
l’effetto sostanziale della irretrattabilità del credito, ma non determina anche la conversione del termine di
prescrizione breve in ordinario di dieci anni.
LO STUDIO ASSOCIATO PAGA L’IRAP
Cassazione civile, Sez. V, Sentenza n. 21164 del 19 ottobre 2016
Il presupposto dell’imposta regionale sulle attività produttive è l’esercizio abituale di un’attività autonomamente
organizzata diretta alla produzione e allo scambio ovvero alla prestazione di servizi; ma quando l’attività è esercitata
dalle società e dagli enti, che siano soggetti passivi dell’imposta a norma dell’art. 3 del D.Lgs. n. 446 del 1997,
comprese quindi le società semplici e le associazioni senza personalità giuridica costituite fra persone fisiche per
l’esercizio in forma associata di arti e professioni – essa, in quanto esercitata da tali soggetti, strutturalmente
organizzati per la forma nella quale l’attività è svolta, costituisce, in ogni caso, presupposto d’imposta, dovendosi
perciò escludere la necessità di ogni accertamento in ordine alla sussistenza dell’autonoma organizzazione.
VALE LA CLASSE CATASTALE PER LA TASSAZIONE DI BENI CEDUTI
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Corte di Cassazione, Sentenza n.22765 del 9 novembre 2016
La Suprema Corte ha accolto il ricorso dell’Agenzia delle entrate avverso la sentenza della CTR, in relazione alla
controversia concerne l’impugnazione dell’avviso di liquidazione, con il quale in dipendenza di un atto di
compravendita, l’ufficio ha provveduto al recupero delle imposte suppletive di trascrizione e catastali, in
considerazione del fatto che l’atto ricomprendesse oltre la vendita di terreni anche la vendita di fabbricati strumentali.
Nel caso di specie, al momento del trasferimento del bene, appartenente alla categoria catastale D/2 (albergo),
erroneamente era stata applicata la tassazione in misura fissa, in conseguenza dei permessi rilasciati dal comune di
Genova per la ristrutturazione e il cambio di destinazione dell’ex albergo.
Quindi, non essendovi alcuna certezza né sulla effettiva ultimazione dei lavori né sul futuro ottenimento della nuova
classificazione catastale, l’unico criterio oggettivo per individuare con certezza la eventuale strumentalità del bene,
non può che essere la classe catastale di appartenenza, che nella specie, nel periodo in contestazione era D/2.
Pertanto, la CTR ha errato a privilegiare l’elemento sostanziale rappresentato dall’esistenza di un progetto per la
ristrutturazione del complesso alberghiero e la sua programmata trasformazione in un complesso abitativo (senza
alcuna certezza sul buon esito della futura realizzazione), rispetto al dato giuridico oggettivo e certo della effettiva
classe catastale di appartenenza al momento del trasferimento del bene.
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USUFRUTTO, INTERESSI MUTUO DETRAIBILI
Corte di Cassazione, sez. Tributaria, sentenza n. 22191 del 3 novembre 2016
La Corte di Cassazione, con la sentenza in esame, ha fornito chiarimenti in merito alla disposizione contenuta nell'art.
13-bis, primo comma, del TUIR (ora art. 15 TUIR) riguardante la detraibilità degli interessi passivi derivanti da mutui
ipotecari accesi per l’acquisto dell’abitazione principale.
Nel caso di specie giunto alla Cassazione, un contribuente ha acquistato la nuda proprietà di un immobile e ha
costituito un diritto di usufrutto vitalizio sullo stesso bene a favore del convivente, il quale ha acceso un mutuo
ipotecario.
Nella vicenda in essere viene manifestata la necessità del contribuente di ottenere una risposta da parte dei Giudici di
legittimità circa la corretta interpretazione da dare al menzionato articolo 15, dunque se, alla luce del criterio di
interpretazione letterale nonché logico-sistematico della norma in esame, emerge che gli interessi passivi, oneri
accessori e quote di rivalutazione dipendenti da clausole di indicizzazione pagati a soggetti residenti nel territorio dello
Stato o di uno Stato membro della Comunità europea – in pendenza di mutui garantiti da ipoteca su immobili contratti
per l'acquisto dell'unità immobiliare da adibire ad abitazione principale entro un anno dall'acquisto stesso – la
locuzione acquisto dell'unità immobiliare non possa essere interpretata in senso restrittivo, ma comprenda, anche,
l'acquisto di un diritto reale parziale sull'immobile e segnatamente dell'usufrutto, cui è connesso il pieno godimento
dell'unità immobiliare da destinare ad abitazione principale.
Sulla base di tale richiesta chiarificatoria, i Giudici della Corte, affermano che considerata la ratio legis, il riferimento
all’“acquisto dell’unità immobiliare”, rapportato all’esigenza dell’abitazione, deve intendersi come un acquisto di un
diritto reale in grado di soddisfare l’esigenza abitativa, sia che si tratti di usufrutto, uso o abitazione.
L'art. 13-bis del d.P.R. n. 917/1986 dispone, infatti, che dall’IRPEF lorda si detrae il 19% degli “gli interessi passivi, e
relativi oneri accessori, [...] in dipendenza di mutui garantiti da ipoteca su immobili contratti per l’acquisto dell’unità
immobiliare da adibire ad abitazione principale entro un anno dall’acquisto stesso...”.
L’espressione “acquisto dell’unità immobiliare”, a parer dei Supremi giudici, induce a ritenere la necessità di un
significato ben più ampio.
La norma in esame, infatti, non si limita ad applicare le agevolazioni fiscali all'acquisto della proprietà di un'unità
immobiliare se questa non è destinata all'abitazione dell'acquirente, tanto da poter considerare che la norma non
intende agevolare l'acquisto di un bene, ma agevolare quella situazione di fatto e giuridica che soddisfa l'esigenza
dell'uomo all'abitazione.
Alla luce dei chiarimenti forniti dalla sentenza in commento, l’usufruttuario che ha acceso il mutuo ipotecario può
beneficiare della detrazione IRPEF del 19% degli interessi passivi. Fermo restando che per fruire del beneficio fiscale
l’intestatario del mutuo deve coincidere con il possessore dell’unità immobiliare acquistata a titolo di proprietà o di
altro diritto reale (usufrutto, uso o abitazione).
LAVORO
Corte Cassazione, Sentenza n. 8243/16
Il calcolo del risarcimento non segue le regole ordinarie civilistiche, ma le tabelle e i parametri dell’Inail.
Il lavoratore che subisce il mobbing o un infortunio sul lavoro ottiene il pagamento del danno biologico da parte
dell’Inail, ma i criteri di calcolo di tale indennizzo non seguono i criteri generali civilistici (di norma, si usano le tabelle
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INFORTUNIO SUL LAVORO: VALGONO I CRITERI DI LIQUIDAZIONE DELL’INAIL
del danno biologico del Tribunale di Milano); al contrario si fa riferimento a parametri, tabelle e regole proprie
dell’Inail.
Il tutto, ovviamente, nel rispetto di quanto stabilisce la
Costituzione Art. 38 Cost secondo cui i lavoratori hanno
diritto, in caso di infortunio, malattia o invalidità, a
ricevere mezzi adeguati alle loro esigenze di vita.
È quanto chiarito dalla Cassazione con la sentenza n.
8243/16 del 26.04.2016.
In caso di infortuni sul lavoro e malattie professionali
l’Inail determina quindi il danno biologico facendo
riferimento alle tabelle delle invalidità obbligatorie in
sede previdenziale (“Tabella delle menomazioni”;
“Tabella indennizzo danno biologico”; “Tabella dei
coefficienti”).
Tali tabelle sono regolamentate dal decreto ministeriale Dm 12 luglio 2000, e successivi aggiornamenti. In effetti
quando agisce contro l’Inail il lavoratore chiede la tutela assicurativa prevista dal suddetto decreto ministeriale e
dunque la rendita per invalidità superiore al 15% o l’indennizzo per il danno biologico superiore al 5%.
Pertanto la quantificazione effettuata con le regole generali civilistiche non può essere applicata dinanzi all’Inail
perché, in base a quanto stabilisce la normativa Art. 13, co. 2, lett. a) d.lgs. n. 38/2000 le menomazioni che
scaturiscono da lesioni all’integrità psicofisica sono valutate sulla base della specifica tabella delle menomazioni che
comprende anche gli aspetti relazionali.
LOCAZIONE
CHI RECEDE ALLA VIGILIA DEL ROGITO RIFONDE I CANONI DI LOCAZIONE CHE IL VENDITORE NON
HA POTUTO INCASSARE
Corte di Cassazione, Sentenza n. 4718 del 10 marzo 2016.
Le Corte di Cassazione, la sentenza in commento, ha stabilito che la parte interessata all’acquisto dell’immobile, che
non si presenta presso lo studio del Notaio per la stipula del rogito, dovrà risarcire al promittente venditore anche
l’importo pari ai canoni di locazione che quest’ultimo avrebbe potuto incassare qualora non fossero mai state avviate
le trattative. Secondo la Corte, infatti, il risarcimento non deve coprire solo il danno emergente ma anche il lucro
cessante, che va commisurato ai canoni non percepiti.
Corte di Cassazione sentenza n.16553/2016
Con una sentenza n. 6553/2016, la Cassazione ha detto che non sempre si può dare disdetta dell’affitto in caso di
trasferimento in un’altra città, neanche se ciò è determinato da motivi lavorativi. Il lavoro infatti non sempre è
sufficiente per essere considerato uno dei “gravi motivi” che, ai sensi della legge sulla locazione [Art. 3, co. 6 legge
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AFFITTO: POSSIBILE LA DISDETTA ANTICIPATA SOLO PER GRAVI MOTIVI
431/1998], consentono di recedere anticipatamente dal contratto ancora non scaduto. Specie quando la città del
nuovo posto di lavoro non è così distante da quella ove si trova l’appartamento in affitto.
IL CONTRATTO DI AFFITTO HA SEMPRE UNA DURATA PREFISSATA DALLA LEGGE, CUI LE PARTI
NON POSSONO DEROGARE.
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Il contratto più usato è quello con durata di 4 anni, con
rinnovo automatico, alla prima scadenza, di altri 4 anni
(salvo alcune specifiche ragioni che consentono la
disdetta dopo i primi 4 anni); alla scadenza degli 8 anni, il
contratto si rinnova tacitamente (per uguale periodo),
salvo disdetta.
In alternativa c’è il contratto a 3 anni con rinnovo
automatico di altri 2 anni (salvo le stesse ragioni di
disdetta anticipata, previste per il contratto 4+4). Anche
qui, alla scadenza dei 5 anni il contratto si rinnova
tacitamente per uguale periodo, salvo disdetta.
Nel contratto di locazione, il proprietario di casa e
l’inquilino possono liberamente stabilire dei motivi al
verificarsi dei quali si può disdettare anticipatamente il contratto. Quindi, prima della firma della scrittura, l’inquilino
può far inserire una clausola in cui gli si attribuisca il diritto di recedere dall’affitto in caso di trasferimento per
lavoro o per altre specifiche ragioni, in base alle sue esigenze.
La legge, infatti, non pone limiti al potere delle parti di “personalizzare” il contratto inserendo delle cause di recesso
anticipato (cosiddetto recesso convenzionale).
Se il contratto, però, non dovesse indicare alcun motivo di recesso anticipato, la legge consente sempre la possibilità
di dare disdetta dell’affitto qualora ricorrano gravi motivi, anche se ciò non è indicato nella scrittura privata.
Ovviamente la dizione della norma è generica.
Cosa si intende per gravi motivi? La spiegazione è stata più volte fornita dalla giurisprudenza che ha fissato dei criteri
guida. Si deve trattare di cause:
 sopravvenute: ossia non prevedibili prima della firma del contratto (per esempio, il dipendente che sa già di
essere trasferito in un’altra località di lì a breve non potrebbe invocare il grave motivo di recesso anticipato);
 incolpevoli: la colpa o la volontà del trasferimento non deve essere determinata dall’inquilino. Così se è questi
che vuol cambiare città per tentare nuove opportunità di lavoro non potrebbe invocare il diritto al recesso
anticipato. Diverso potrebbe essere il caso del dipendente obbligato, in quanto licenziato e necessitato a trovare
opportunità di nuova occupazione;
 oggettive: la gravosità della prosecuzione del rapporto “deve avere una connotazione oggettiva, a prescindere
dalla valutazione unilaterale effettuata dal conduttore in ordine alla convenienza o meno di continuare il rapporto
locativo. Rispetto poi alle locazioni abitative, la gravosità della prosecuzione va valutata non (solo) sotto il profilo
economico ma anche tenendo conto delle esigenze di vita del conduttore medesimo.
È pacifico in giurisprudenza che tra le esigenze oggettive e sopravvenute vi siano anche quelle del trasferimento del
lavoro in altra sede, soprattutto quando ciò non dipende dalla volontà del lavoratore. Ma è necessario che la distanza
sia rilevante (nel caso di specie, non è stata ritenuta tale quella che divide Pisa e Firenze, di circa 90 km).
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Corte di Cassazione, III Sez., Sentenza n.8637 del 3 maggio 2016
La scoperta, successiva alla stipulazione del contratto di locazione, di vizi non riconoscibili che rendono l'abitazione
pericolosa e non a norma, rendendone impossibile il godimento, legittima il conduttore a non pagare i canoni di
locazione.
È irrilevante per escludere la responsabilità del proprietario la circostanza che i vizi siano stati scoperti durante
l'esecuzione di lavori ad opera del conduttore.
La Suprema Corte accoglie così il ricorso di un uomo che aveva stipulato contratto di locazione con una società
Immobiliare, dichiarando all'atto di immissione in possesso, di conoscere lo stato dell'immobile e concordando con la
locatrice di eseguire lavori di adattamento e miglioria a proprie spese, previa consenso scritto.
Il conduttore riscontrava tuttavia che nell'immobile erano presenti 4 cavi elettrici posti ad una profondità inferiore a
quella regolamentare di almeno 50 cm., privi di alcuna protezione e preesistente all'esecuzione dei lavori, anzi,
scoperta grazie ad essi, così evitandosi possibili e gravi incidenti, e nel contempo rendendone impossibile la
prosecuzione.
Poiché il conduttore ometteva di versare i canoni di locazione a seguito della scoperta dei vizi, si vedeva risolvere il
contratto per suo grave inadempimento dal Tribunale e condannato al pagamento dei canoni non corrisposti. In sede
di gravame la sua impugnazione veniva rigettata in quanto il giudice evidenziava che al conduttore non era consentito
astenersi dal versamento del canone in presenza di una riduzione o diminuzione del godimento dell'immobile
addebitabile al locatore, ma soltanto nell'ipotesi di mancanza tout court della controprestazione, ipotesi non
ricorrente nella specie.
Riteneva la Corte territoriale che le problematiche lamentate dal conduttore erano insorte nel corso di lavori non
espressamente autorizzati dalla proprietà e frutto di una sua libera scelta, da cui l'impredicabilità di una causa di
legittima sospensione dell'obbligazione di pagamento del canone.
Diversa, invece, la conclusione a cui giunge la Cassazione a seguito del ricorso del conduttore, integralmente accolto.
Per gli Ermellini l'esecuzione dei lavori in epoca successiva alla stipula del contratto doveva ritenersi del tutto
irrilevante, attesa la preesistente situazione di pericolosità dell'immobile.
D'altronde, nessuna prova (oggettivamente impossibile) era stata fornita dalla locatrice in ordine alla conformità a
norme di legge e regolamentari della descritta situazione elettrica.
Tutti i lavori oggetto della DIA (e puntualmente elencati) consistenti, sostanzialmente, nella demolizione e
ricostruzione delle partizioni interne dell'unità immobiliare, risultavano autorizzati dalla locatrice.
Il problema elettrico era emerso nel corso dell'esecuzione delle opere, la cui gravità era tale da indurre il direttore dei
lavori alla loro immediata sospensione, attesa la situazione di "grave pericolo con rischio di folgorazione", che si era
creata.
Appare evidente che il vizio lamentato non era stato provocato da (né aveva alcuna attinenza con) l'ambito
dell'esecuzione dei lavori, a cui chiaramente preesisteva: altrettanto chiaramente, quel vizio non appariva in alcun
modo accertabile e riconoscibile dal conduttore al momento della sottoscrizione del verbale di consegna.
Pertanto, prosegue il Collegio, l'evidente situazione di assoluta inutilizzabilità del locale rendeva legittima la
sospensione del pagamento dei canoni di locazione, peraltro adottata all'esito di infruttuose missive indirizzate alla
proprietà affinché intervenisse per la risoluzione del problema; emerge, infatti, un grave inadempimento del
proprietario nella consegna della cosa locata, affetta da un vizio così grave, per la comprovata impossibilità
totale dell'uso dell'immobile.
La Corte di legittimità ha più volte affermato il principio di diritto secondo il quale la sospensione del canone è
pienamente legittima in tutte le ipotesi (quale quella di specie) di impossibilità totale del godimento del bene.
Sarà compito del giudice rinvio, concludono gli Ermellini, valutare l'opportunità di disporre accertamenti volti
alla determinazione dell'an e del quantum del danno subito dal conduttore, disponendo altresì la restituzione delle
somme eventualmente (e indebitamente) corrisposte al locatore.
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LEGITTIMO NON PAGARE L'AFFITTO SE LA CASA NON È A NORMA
LOCAZIONE: LA PRELAZIONE SPETTA AL CONDUTTORE DELL'IMMOBILE LOCATO ANCHE SE
L'OFFERTA IN PRELAZIONE RIGUARDA UNA PLURALITÀ DI IMMOBILI
Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza n. 12536 del 17 giugno 2016
Laddove il locatore comunichi al conduttore una concreta offerta di acquisto
dell’immobile locato ricevuta da terzi, invitandolo ad esercitare o meno la prelazione
ai sensi dell’art. 38 della legge n. 392 del 1978, e la comunicazione sia completa delle
indicazioni relative alle condizioni contrattuali e contenga quindi tutti gli elementi
necessari per la valutazione della convenienza dell’eventuale esercizio della suddetta
prelazione, anche eventualmente con riguardo al solo immobile locato, questa deve
essere esercitata dal conduttore nel termine previsto dalla legge a pena di
decadenza, e ciò anche laddove l’offerta ricevuta dal locatore si riferisca ad una pluralità di immobili e sia
condizionata all’acquisto contestuale di tutti tali immobili, laddove il conduttore ritenga comunque che la vendita
abbia natura cumulativa e non escluda quindi la sua facoltà di esercizio della prelazione stessa, in tal caso
eventualmente limitando tale esercizio al solo immobile locato.
Corte di Cassazione, Sentenza n. 13011 del 23 giugno 2016
In tema di locazioni di immobili ad uso diverso da quello abitativo, ogni pattuizione che abbia ad oggetto non già
l'aggiornamento del corrispettivo ai sensi dell'art. 32 della legge 27 luglio 1978, n. 392, ma veri e propri aumenti del
canone, deve ritenersi nulla ex art. 79, primo comma, della stessa legge, e il conduttore può chiedere la
restituzione, entro sei mesi dalla riconsegna dell'immobile, di quanto versato in eccesso.
Questo è quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, terza sezione civile, nella sentenza in esame.
La vicenda origina dalla domanda proposta dalla locatrice di un immobile ad uso ufficio, volta ad ottenere lo sfratto
per morosità nel pagamento di canoni (relativi agli ultimi sei mesi del 2008 e a due mesi del 2009), la risoluzione per
grave inadempimento e la conseguente condanna al pagamento del relativo importo. La domanda è accolta in primo
grado e confermata dalla Corte d'Appello, mentre il contratto viene dichiarato risolto e la conduttrice condannata al
rilascio e al pagamento dei canoni richiesti.
Ciononostante, la conduttrice lamenta, in sede di legittimità, la violazione degli artt. 112 e 345 c.p.c., sostenendo che
la Corte territoriale aveva sbagliato nel considerare nuova in appello, e già nuova in primo grado per essere stata
proposta con le note conclusive, la domanda proposta dalla convenuta riguardante la declaratoria di inefficacia
dell'aumento del canone effettuato unilateralmente dalla locatrice nel corso del rapporto. Questo, in violazione
dell'art. 32, l. n. 392 del 1978, sarebbe stato anche ben superiore agli adeguamenti Istat.
I giudici precisano che le argomentazioni volte a sostenere la prospettazione della illegittimità dell'aumento del
canone già in primo grado al fine di negare carattere di novità al motivo di appello, diventano irrilevanti alla luce della
decisione delle Sezioni Unite n. 26243 del 2014.
Secondo quanto stabilito dal Collegio, infatti, la domanda di accertamento della nullità di un negozio proposta per la
prima volta in appello è inammissibile ex art. 345, primo comma, cod. proc. civ., salva la possibilità per il giudice del
gravame (obbligato comunque a rilevare di ufficio ogni possibile causa di nullità, ferma la sua necessaria indicazione
alle parti ai sensi dell'art. 101, secondo comma, cod. proc. civ.) di convertirla ed esaminarla come eccezione di nullità
legittimamente formulata dall'appellante, giusto il secondo comma del citato art. 345, principio che opera anche
riguardo alle controversie in materia di locazione. Nel caso di specie si verte proprio in un'ipotesi di nullità del
negozio, posto che secondo la giurisprudenza consolidata della Corte di legittimità, in tema di locazione di immobili
adibiti ad uso diverso da quello abitativo, ogni pattuizione avente ad oggetto non già l'aggiornamento del corrispettivo
ai sensi dell'art. 32 della legge 27 luglio 1978, n. 392, ma veri e propri aumenti del canone, deve ritenersi nulla ex art.
79, primo comma, della stessa legge, in quanto diretta ad attribuire al locatore un canone più elevato rispetto a quello
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LOCAZIONI: VIETATO L'AUMENTO DEL CANONE OLTRE GLI ADEGUAMENTI ISTAT
legislativamente previsto, senza che il conduttore possa, neanche nel corso del rapporto, e non soltanto in sede di
conclusione del contratto, rinunciare al proprio diritto di non corrispondere aumenti non dovuti.
Tale nullità opera anche per le pattuizioni che intervengono nel corso del rapporto: infatti, il diritto a non erogare
somme in misura eccedente il canone legalmente dovuto sorge al momento della conclusione del contratto, persiste
durante tutto il corso del rapporto, e può essere fatto valere, in virtù di espressa disposizione legislativa, dopo la
riconsegna dell'immobile locato, entro il termine di decadenza di sei mesi.
Pertanto, il primo motivo di ricorso va accolto e consegue l'assorbimento del secondo motivo che era stato avanzato
dalla ricorrente.
Corte di Cassazione, Sentenza n.13346 del 28 giugno 2016
Il contribuente perde il diritto all’agevolazione prima casa se invoca, come causa del trasferimento di residenza
oltre i termini di legge, la mancata consegna dell’immobile da parte dell’affittuario. Una tale circostanza non
configura una causa di forza maggiore che si verificherebbe, ad esempio, nel caso in cui un sisma renda impossibile il
trasferimento di residenza per l’inagibilità dell’immobile agevolato. In tale ipotesi il diritto all’agevolazione sarebbe
mantenuto perché si tratta di una causa assolutamente imprevedibile e sopravvenuta.
Il fatto: il caso riguarda il ricorso proposto da un contribuente avverso l’avviso di liquidazione notificato dall’Agenzia
delle Entrate, contenente la revoca dei benefici prima casa in materia di imposte di registro, per non aver trasferito la
residenza nel comune in cui si trovava l’abitazione acquistata entro i prescritti diciotto mesi.
Il ricorso era accolto sia in primo sia in secondo grado. In particolare, la Ctr aveva accolto le doglianze di parte in
quanto, sebbene la richiesta di trasferimento di residenza fosse stata inoltrata entro i diciotto mesi, era stata rifiutata
dal Comune perché l’immobile acquistato era “abitato dall’affittuario”. Questi, infatti, pur avendo disdetto il contratto
di locazione, aveva ritardato il rilascio dell’immobile tanto che, decorsi i diciotto mesi, il contribuente aveva trasferito
la residenza nello stesso comune presso la casa dei genitori. Alla luce di tali fatti, i giudici d’appello hanno ritenuto che
al contribuente dovesse comunque essere riconosciuto il beneficio dell’agevolazione perché “era stato per
impossibilità che non aveva potuto effettuare ciò che voleva nei termini”.
Avverso la sentenza della Ctr, l’Agenzia delle Entrate interponeva ricorso per cassazione affidato a un unico motivo di
impugnazione.
La Corte, ritenendo fondati i motivi dell’Amministrazione finanziaria, ha accolto il ricorso e cassato la sentenza.
La decisione: oggetto del contendere è la corretta applicazione dell’agevolazione prima casa, disciplinata dall’articolo
1, nota II-bis della tariffa, parte I allegata al Dpr 131/1986, applicabile ratione temporis.
Tra i requisiti previsti per godere dell’aliquota agevolata ai fini dell’imposta di registro, la norma prevede che
l’acquirente, qualora residente in un comune diverso da quello di ubicazione dell’immobile, trasferisca qui la propria
residenza entro il termine di diciotto mesi dall’acquisto.
Sul punto, l’Agenzia delle Entrate ha censurato la decisione dei giudici d’appello nella parte in cui hanno
erroneamente ritenuto che il contribuente avesse diritto all’agevolazione nonostante il ritardo nel trasferimento della
residenza rispetto alla data di acquisto dell’immobile.
A parere della parte pubblica a nulla valgono le doglianze del contribuente, che ha invocato il mancato rilascio
dell’immobile da parte del conduttore quale causa di forza maggiore. Infatti, un’interpretazione letterale della norma
induce a dar rilievo esclusivo al dato oggettivo della mancanza della residenza anagrafica nel comune dell’immobile
entro i termini prescritti, a nulla valendo i motivi per cui è stato impossibile rispettare la condizione.
Secondo i supremi giudici, il motivo è fondato perché, in primo luogo, l’obbligo di trasferimento di residenza
costituisce un elemento costitutivo della fattispecie. Trattasi, peraltro, di una disposizione di favore perché consente
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LOCAZIONE. QUALORA L’IMMOBILE NON SI LIBERI NEI DICIOTTO MESI SUCCESSIVI
ALL’ACQUISTO, IL BONUS SARÀ FRUIBILE ANCHE CON IL TRASFERIMENTO DELLA RESIDENZA NEL
COMUNE DI UBICAZIONE DELLO STESSO
al contribuente di vedersi riconosciuta l’agevolazione anche con il semplice trasferimento della residenza nel comune
di ubicazione dell’immobile e non, necessariamente, presso la prima casa.
Da ciò deriva l’irrilevanza del verificarsi di un evento che ha impedito di abitare l’immobile, che la Ctr ha posto a base
della sua erronea decisione, perché appunto la fattispecie contempla quale elemento costitutivo che la prima casa si
trovi nel comune di residenza o che, in alternativa, il trasferimento avvenga entro il termine di diciotto mesi
dall’acquisto.
Chiarito come nel caso di specie non possa essere invocata una “causa di forza maggiore”, i giudici di piazza Cavour
fanno, al contempo, rilevare che, in effetti, il diritto all’agevolazione possa essere mantenuto “anche nei casi in cui il
trasferimento di residenza nel Comune non sia stato tempestivo per causa di forza maggiore”.
Per forza maggiore la Corte ritiene che, in generale, debba trattarsi di causa “imprevedibile e sopravvenuta che non
dipende da un comportamento addebitabile anche solo a titolo di colpa”.
In tal senso appare, ad esempio, condivisibile quanto affermato dall’Agenzia delle Entrate con la risoluzione n.
35/2002, che ha ammesso la causa di forza maggiore con riferimento ai Comuni dell’Umbria colpiti dal sisma. Allo
stesso modo, la causa di forza maggiore potrebbe essere legittimamente invocata a seguito del terremoto che ha
coinvolto l’Emilia Romagna nel 2012, a causa del quale sarebbe stato impossibile trasferire tempestivamente la
residenza per mancanza di abitazioni agibili.
CONDOMINIO
Corte di Cassazione, Sentenza n. 1549 del 27 gennaio 2016
In tema di azioni giudiziarie legate alla lesione del diritto di veduta a seguito di nuova costruzione da parte di uno dei
condòmini, deve ritenersi che la legittimazione a fare accertare l'illegittimità delle opere spetti ai diretti interessati.
Nei consegue che in assenza di finestre condominiali che
possano consentire l'affermazione di una lesione del
comune diritto di veduta, tale azione debba essere
intrapresa dai singoli condòmini e non dall'amministratore,
ai sensi dell'art. 1130-1131 C.C.. e nemmeno a seguito di
apposita delibera assembleare.
Questa, in breve sintesi, la decisione della Suprema Corte di
Cassazione resa con la sentenza in esame. In breve i fatti: un
condomino appone un pergolato e lo aggancia ad un muro
condominiale:
gli
altri
condòmini,
per
mezzo
dell'amministratore ed a seguito di apposita assemblea,
decidono di fargli causa. Dopo che il primo grado li vedeva
soccombenti, nel giudizio di appello le cose cambiavano: il pergolato andava rimosso perché lesivo delle norme
dettate in materia di distanze nelle costruzioni e di diritto di veduta.
Da qui il ricorso di Cassazione del condomino originario convenuto: il pergolato non poteva essere considerato
equiparabile ad una costruzione e comunque la lesione del diritto di veduta non poteva essere fatta valere in giudizio
dall'amministratore, dovendo essere contestata direttamente dei condòmini interessati.
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LESIONE DEL DIRITTO DI VEDUTA IN ASSENZA DI FINESTRE CONDOMINIALI
Il ricorso, come si suole dire, è stato accolto solo parzialmente. Quanto al concetto di costruzione – valevole ai fini del
rispetto della normativa sulle distanze indicata dall'art. 873 c.c. e dai regolamenti edilizi locali – la Corte di Cassazione
non ha avuto dubbi nell'affermare che i pergolati oggetto della contesa “in quanto realizzazioni stabilmente ancorate
al suolo, non potevano che essere inquadrate nel novero concettuale di costruzione e, quindi, come tale lesiva dei
diritti azionati in giudizio” (Cass. 27 gennaio 2016 n. 1549).
Per quanto riguarda l'azione a tutela del diritto di veduta, l'esito del ricorso è stato favorevole al condomino.
L'amministratore, dato lo specifico stato dei luoghi, non avere legittimazione ad agire per quella ragione.
Si legge in sentenza che “la legittimazione ad agire per la specifica tutela dei diritti di veduta non può che
appartenere ai singoli condomini. In assenza di ogni altra allegazione quanto alla possibilità di coesistenza di vedute
di singoli condomini e di vedute quali, ad esempio, quelle delle finestre delle scale del condominio, il diritto di
veduta a favore delle singole unità abitative è proprio del titolare della proprietà di ciascun singola appartamento e,
pertanto, non del Condominio, ma del singolo condomino-proprietario”.
CONDOMINIO, L'ALTERAZIONE DEL DECORO ARCHITETTONICO PUÒ RIGUARDARE ANCHE UNA
FACCIATA INTERNA
Corte di Cassazione, Sentenza n.1718 del 29 gennaio 2016.
Con la sentenza in esame, la seconda sezione civile della Corte di
Cassazione precisa che l'alterazione del decoro architettonico di un
edificio condominiale può riguardare anche una facciata interna. Il
fatto che nella sentenza n.1297/1998 della Cassazione sia stato
“escluso il carattere lesivo di una veranda realizzata da un condomino
sulla terrazza a livello del proprio appartamento nella parte retrostante
del fabbricato” non implica che sempre e in ogni caso sia legittima la
creazione di verande in corrispondenza di facciate interne.
La Corte suprema ricorda che per «decoro architettonico del
fabbricato», ai fini della tutela prevista dall'art. 1120 c.c., deve
intendersi l'estetica dell'edificio, costituita dall'insieme delle linee e delle strutture ornamentali che ne
costituiscono la nota dominante ed imprimono alle varie parti di esso una sua determinata, armonica fisionomia,
senza che occorra che si tratti di edifici di particolare pregio artistico.
Corte di Cassazione, Sentenza n. 109 del 7 gennaio 2016 .
I Bed & Breakfast non possono essere aperti in un condominio senza l’autorizzazione
dell’assemblea condominiale: è il nuovo orientamento della giurisprudenza, espresso
dalla Seconda sezione civile della Corte di Cassazione con la sentenza in esame. In
sostanza il condominio può imporre una regola a tutela del decoro e della tranquillità
dell’edificio che vieti l’apertura di un’attività di B&B.
Ricordiamo che non molto tempo fa, la stessa Corte di Cassazione aveva dato, con la
sentenza n. 24707/2014, il via libera alla possibilità per i condomini di ospitare a
pagamento soggetti terzi, stabilendo che l’attività di affittacamere o B&B non
comportasse un mutamento di destinazione d’uso delle unità immobiliari, che quindi
rimaneva di tipo abitativo. Ora però i giudici sembrano aver cambiato orientamento
stabilendo che tale tipo di attività deve invece essere considerata assolutamente
contrapposta alle finalità abitative dell’immobile.
Il caso in esame riguardava una S.r.l. che aveva adibito il proprio appartamento sito in
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BED AND BREAKFAST VIETATI IN CONDOMINIO
condominio ad attività di affittacamere, nonostante il regolamento condominiale prevedesse che i singoli
appartamenti potessero essere adibiti esclusivamente ad uso di abitazione privata o come ufficio privato
professionale. Il condominio aveva contestato alla S.r.l. l’esercizio di un’attività alberghiera, vietata dal regolamento.
Sia i giudici di merito che la Corte di Cassazione hanno dato ragione al condominio, nonostante in precedenza altri
condomini avessero destinato gli appartamenti ad attività commerciali. La Corte di Cassazione ha infatti ritenuto
irrilevante la condotta tenuta in passato da altri condomini poiché essa non ha alcuna influenza sull’interpretazione
del regolamento condominiale.
COSTRUIRE UNA PORTA SULLE SCALE COSTITUISCE UNA LESIONE DEL DIRITTO DI
COMPROPRIETÀ
Corte di Cassazione, Sentenza n.4664 del 9 marzo 2016.
Le scale del palazzo appartengono a tutti i condomini fino
all’ultimo gradino: pertanto, il titolare dell’ultimo piano o del
terrazzo non ne può blindare l’accesso all’ultimo tratto che
conduce alla sua proprietà, con un cancelletto o una
porticina posta all’altezza del pianerottolo. Lo potrebbe fare
solo se riuscisse a dimostrare, che lui è l’unico ed esclusivo
proprietario dell’ultima rampa di scale. È quanto chiarito
dalla Cassazione con la sentenza in esame. Le scale sono di
tutti e non possono essere limitate In base all Art. 1117 del
codice civile, si presumono di titolarità di tutti i condomini –
salvo prova contraria – le strutture essenziali dell’edificio
come le scale anche se sono poste a servizio soltanto di alcune porzioni dello stabile: insomma, tutti i gradini sono
condominiali in assenza di atto di proprietà (cosiddetto titolo) che dimostri l’opposto. Così, se anche una rampa di
scale serve per accedere a un piano sul quale gli altri condomini non hanno alcun diritto, essa non può essere chiusa al
“traffico”, ma resta a questi aperta. Allo stesso modo, però, tutti dovranno condividere le relative spese di
manutenzione ordinaria e straordinaria secondo i millesimi e l’uso. L’intera scala, infatti, va ritenuta un bene
condominiale. Pertanto, qualora il proprietario dell’ultimo piano abbia posto una recinzione o una porta all’ultimo
tratto di gradini sarà tenuto a rimuoverla.
Corte di Cassazione, Sentenza n.3875 del 26 febbraio 2016.
Sul condominio e, per esso, sull'amministratore, incombe un generale obbligo di controllo, venendosi a trovare
sostanzialmente nella posizione di custode dei beni condominiali.
A tal proposito giova ricordare che, in virtù dell'art. 1117 c.c., sono oggetto di proprietà comune dei proprietari delle
singole unità immobiliari dell'edificio, anche se aventi diritto a godimento periodico e se non risulta il contrario dal
titolo: 1) tutte le parti dell'edificio necessarie all'uso comune, come il suolo su cui sorge l'edificio, le fondazioni, i muri
maestri, i pilastri e le travi portanti, i tetti e i lastrici solari, le scale, i portoni di ingresso, i vestiboli, gli anditi, i portici, i
cortili e le facciate; 2) le aree destinate a parcheggio nonché i locali per i servizi in comune, come la portineria, incluso
l'alloggio del portiere, la lavanderia, gli stenditoi e i sottotetti destinati, per le caratteristiche strutturali e funzionali,
all'uso comune; 3) le opere, le installazioni, i manufatti di qualunque genere destinati all'uso comune, come gli
ascensori, i pozzi, le cisterne, gli impianti idrici e fognari, i sistemi centralizzati di distribuzione e di trasmissione per il
gas, per l'energia elettrica, per il riscaldamento ed il condizionamento dell'aria, per la ricezione radiotelevisiva e per
l'accesso a qualunque altro genere di flusso informativo, anche da satellite o via cavo, e i relativi collegamenti fino al
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BENI CONDOMINIALI E RISARCIMENTO DEL DANNO: DIMOSTRANDO IL RAPPORTO CAUSAEFFETTO L'OBBLIGAZIONE DIVENTA SOLIDALE
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punto di diramazione ai locali di proprietà individuale dei singoli condomini, ovvero, in caso di impianti unitari, fino al
punto di utenza, salvo quanto disposto dalle normative di settore in materia di reti pubbliche.
Ciò posto, in considerazione del dovere di custodia degli anzidetti beni comuni, se dagli stessi derivi un danno a
terzi, il Condominio potrebbe essere ritenuto responsabile dello stesso e, pertanto, obbligato al risarcimento
conseguente, salvo che provi il caso fortuito, ex art. 2051 c.c.
A tal proposito, prima di entrare nel merito della questione, poniamo l'attenzione su due importanti aspetti. Il primo
relativo alla possibile responsabilità personale dell'amministratore, il secondo sull'esigibilità del danno anche nei
confronti di un solo condomino.
Come accennavamo, in considerazione del più generale obbligo dell'amministratore di controllo, venendosi lo stesso a
trovare sostanzialmente nella posizione di custode (ex art. 2051 c.c.) dei beni condominiali, in quanto tale, potrebbe
anche essere chiamato a rispondere personalmente degli eventuali danni, nel caso emergesse una propria
responsabilità individuale (In tal senso: Cass. civ., 16.10.2008, n. 25251. Nello stesso senso si veda anche: Cass. civ.,
30.09.2014, n. 20557; Cass. civ., 9.07.2009, n. 16126).
D'altro canto, in siffatti casi, si consideri ad esempio il danno provocato da scale (parte comune dell'immobile)
danneggiate o pericolanti, la cui custodia ovviamente spetta al Condominio, l'obbligazione derivante, una volta
accertato e quantificato il danno, risulta esigibile nei confronti anche del singolo condomino per l'intero, e ciò pure
nella vigenza della nuova normativa.
In altri termini, contrariamente a quanto accade per le altre obbligazioni condominiali, per le quali vige il principio di
parziarietà, nel senso che i singoli condòmini rispondono esclusivamente pro-quota, per le obbligazioni derivanti da
risarcimento del danno ex art. 2051 c.c., gli stessi possono essere chiamati a rispondere con l'intero loro patrimonio,
trattandosi di una obbligazione solidale.
Detto principio è stato di recente ribadito dalla Suprema Corte, chiamata a giudicare in merito ai danni provocati ad
un magazzino posto al piano scantinato e ai locali adibiti a esercizio commerciale, da infiltrazioni di acqua e ristagni
provenienti da beni condominiali.
In quella occasione è stato ricordato come l'applicabilità dell'art. 2055 c.c. (che opera un rafforzamento del credito
evitando al creditore di dover agire coattivamente contro tutti i debitori pro quota) ai danni da cosa condominiale in
custodia trova una prima conferma, innanzi tutto, in alcuni precedenti della Suprema Corte, come Cass. n. 6665/09,
che ha ritenuto il condomino danneggiato quale terzo rispetto allo stesso condominio cui è ascrivibile il danno stesso
(con conseguente inapplicabilità dell'art. 1227 c.c., comma 1); Cass. n. 4797/01, per l'ipotesi di danni da omessa
manutenzione del terrazzo di copertura cagionati al condomino proprietario dell'unità immobiliare sottostante; Cass.
n. 6405/90, secondo cui i singoli proprietari delle varie unità immobiliari comprese in un edificio condominiale, sono a
norma dell'art. 1117 c.c. (salvo che risulti diversamente dal titolo) comproprietari delle parti comuni, tra le quali il
lastrico solare, assumendone la custodia con il correlativo obbligo di manutenzione, con la conseguenza, nel caso di
danni a terzi per difetto di manutenzione del detto lastrico, della responsabilità solidale di tutti i condòmini, a norma
degli artt. 2051 e 2055 c.c..
Ciò posto, è stato stabilito il principio per cui: "Il custode non può essere identificato né nel condominio, interfaccia
idoneo a rendere il danneggiato terzo rispetto agli altri condomini, ma pur sempre ente di sola gestione di beni
comuni, né nel suo amministratore, essendo questi un mandatario dei condomini. Solo questi ultimi, invece, possono
considerarsi investiti del governo della cosa, in base ad una disponibilità di fatto e ad un potere di diritto che deriva
loro dalla proprietà piena sui beni comuni ex art. 1117 c.c. Se ne deve trarre, pertanto, che il risarcimento del danno
da cosa in custodia di proprietà condominiale non si sottrae alla regola della responsabilità solidale ex art. 2055, 1
comma c.c., individuati nei singoli condomini i soggetti solidalmente responsabili" (Cass. civ, 29/01/2015, n. 1674).
Tanto premesso, la Corte di Cassazione, Sez. VI, con la sentenza in esame, ha rigettato il ricorso proposto da una
signora, al fine di ottenere il risarcimento del danno, a seguito di una caduta dalle scale del Condominio,
asseritamente intrise da materiale viscido e oleoso.
La domanda attorea è stata respinta sia in primo che in secondo grado e, nondimeno, anche dal Supremo Collegio.
Per motivare detta decisione, la Corte, evidenzia come è stato accertato – con una valutazione non sindacabile nel
giudizio di legittimità, in considerazione della circostanza per cui la ricostruzione dei fatti è esercizio di un tipico
potere devoluto al giudice di merito – che la danneggiata ha dimostrato di essere caduta sui gradini della scala
condominiale ma che, tuttavia, mancherebbe la prova certa in merito alle modalità della caduta stessa, difettando a
tal uopo la prova relativa alla presenza sui gradini del materiale scivoloso che avrebbe indotto la caduta stessa.
A tal proposito, infatti, sussiste: "l'obbligo del danneggiato di provare l'esistenza del nesso di causalità, anche
nell'ipotesi di cui all'art. 2051 del codice civile".
Dall'istruttoria, nel caso di specie, emerge come la sola evenienza idonea a confermare la tesi della danneggiata
proviene dal figlio della stessa, teste nel procedimento, il quale ha riferito in merito ad una sostanza del genere di
quello che esce dai sacchetti dei rifiuti.
Ebbene, afferma la Corte, "tale circostanza, ove pure fosse stata vera, sarebbe stata tale da escludere ogni
responsabilità del Condominio, dato il carattere imprevedibile della medesima", pertanto, conclude ribadendo il
principio per cui, per pacifica giurisprudenza: "anche l'applicazione delle regole di cui all'art. 2051 cod. civ. presuppone
sempre che il danneggiato dimostri il fatto dannoso ed il nesso di causalità tra la cosa in custodia ed il danno e che,
ove la cosa in custodia sia di per sé statica e inerte, il danneggiato è tenuto a dimostrare altresì che lo stato dei luoghi
presentava un'obiettiva situazione di pericolosità, tale da rendere molto probabile, se non inevitabile, il danno
(sentenza 5 febbraio 2013, n. 2660)" (Cass. civ. Sez. VI, 26.02.2016, n. 3875).
Corte di Cassazione, Sentenza n. 8492 del 29 aprile 2016
Il lastrico solare non è sempre e automaticamente un bene comune.
Tra gli elementi determinati per l'accertamento della proprietà
esclusiva è necessario analizzare anche le cosiddette clausole di stile.
La clausola inserita nel contratto di compravendita di un appartamento
in condominio, secondo la quale l'immobile è stato venduto "(…) a
corpo, con tutti i diritti e le servitù inerenti, le pertinenze, accessori,
accessioni, impianti, usi, azioni e ragioni, nello stato di fatto e di diritto
in cui esso si trovava e così come dalla parte venditrice si possiede e si
ha diritto", non configura necessariamente una clausola di stile, ma
può essere interpretata nel senso di affermare la proprietà esclusiva del lastrico solare.
È quanto emerge dalla sentenza della Corte di Cassazione in commento, che ha rigettato la richiesta della proprietaria
dell'appartamento al secondo piano, diretta ad ottenere il riconoscimento della proprietà comune del lastrico e
l'eliminazione delle opere che ne impedivano l'uso. La clausola sopra riportata è stata interpretata nel senso di
escludere la natura comune del bene; decisiva, tra gli altri elementi considerati, anche la pratica edilizia avviata presso
il Comune, che attesta l'autonomia del lastrico solare rispetto al resto dell'edificio.
Nel caso esaminato dalla sentenza in commento, in particolare, la condomina si lamentava del fatto che il
venditore-costruttore aveva trasformato la destinazione dei locali posti all'ultimo piano in abitazione, asservendogli
anche l'intero lastrico solare; aveva altresì posto dei cancelli sulle scale, impedendo l'accesso al piano attico agli altri
condòmini.Dal canto suo, il costruttore si era difeso richiamando l'atto di acquisto, che escludeva la natura comune
del lastrico. Per la condòmina invece si tratterebbe di una mera clausola di stile, priva di effetti giuridici.
Sappiamo che le cosiddette "clausole di stile" sono quelle espressioni generiche che compaiono spesso nei contratti o
negli atti notarili, con la funzione di colmare eventuali omissioni o imprecisioni, ma che, proprio per la loro eccessiva
ampiezza o indeterminatezza, sono considerate prive di qualsiasi significato giuridico (Cass. civ., n. 3398/1984).
Ora, la Cassazione, nel confermare la decisione del giudice del merito, ha anzitutto chiarito che il lastrico solare non è
sempre e automaticamente un bene comune. È vero che il lastrico è ricompreso tra i bene condominiali indicati
dall'art. 1117 c.c. Ma l'elenco contenuto in quell'articolo non è tassativo, ma solo esemplificativo. I beni indicati
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PROPRIETÀ ESCLUSIVA DEL LASTRICO SOLARE
nell'art. 1117 c.c. si presumono comuni; si tratta però di una presunzione semplice, derivante sia dall'attitudine
oggettiva che dalla concreta destinazione degli stessi al servizio comune, che può essere superata con la prova
contraria, valutando il titolo o la diversa destinazione di fatto del bene. I Supremi giudici ricordano anche che
l'accertamento da parte del giudice di merito, relativo al fatto che un determinato bene, per la sua struttura e
conformazione e per la funzione cui è destinato, rientri tra quelli condominiali oppure sia di proprietà esclusiva di uno
dei condomini, costituisce una valutazione in fatto, sottratta al giudizio della Cassazione ove adeguatamente motivata.
Ora, nel caso di specie gli Ermellini hanno ritenuto che l'atto di acquisto della ricorrente, correttamente interpretato, è
idoneo a superare la presunzione ex art. 1117 c.c.; dunque, va escluso che l'ultimo piano (appartamento e lastrico
solare a piano) del fabbricato sia un bene condominiale.
Tanto emerge alla luce: delle indicazioni fornite dalla consulenza tecnica d'ufficio, delle pratiche edilizie svolte presso il
Comune, della situazione di fatto esistente al momento dell'acquisto della ricorrente e di cui la ricorrente stessa era
pienamente consapevole. La clausola contrattuale richiamata dalla ricorrente non è una semplice clausola di stile, ma
è invece espressiva della volontà delle parti di escludere, dalla comproprietà condominiale, quelle porzioni di
fabbricato di cui si discute. Legittimamente, dunque, il venditore-costruttore ha modificato la destinazione degli
immobili dell'ultimo piano, così come legittimo è il cancello fatto installare per impedire l'accesso alla scale che
portano all'annesso lastrico solare.
Si tratta di un'interpretazione della clausola corretta, perché rispondente ai dati di fatto esaminati e coerente con i
principi in tema di interpretazione contrattuale.
È interessante segnalare come tra gli elementi determinati per l'accertamento della proprietà esclusiva del lastrico
solare figurano anche le pratiche edilizie che il venditore-costruttore aveva svolto in Comune per rendere autonomo il
bene dal resto dell'edificio. Anche la pratica edilizia, dunque, ben può essere valutata come titolo idoneo a superare la
presunzione di condominialità del lastrico solare e, più in generale, delle parti indicate nell'art. 1117 c.c.
Corte di Cassazione Sentenza n.12235 del 14 giugno 2016
In sede di condominio, chi è diventato condomino soltanto dopo il
passaggio dal riscaldamento centralizzato agli impianti autonomi può
far annullare la delibera adottata dall'assemblea laddove contraria al
regolamento. E ciò perché non si può ritenere che l'acquirente, in
questo modo, deve accettare le modifiche agli impianti e debba vedersi
preclusa l'azione di nullità quando allega un interesse ad accertare
l'invalidità della decisione: il fatto che gli impianti autonomi consumano
e inquinano di più integra un valido interesse ad agire. Questo è il
principio di diritto espresso con l sentenza in esame in merito alla
nullità della delibera che vietava il riscaldamento centralizzato.
I fatti di causa
Una società immobiliare con citazione impugnava innanzi al Tribunale di
Milano la delibera assembleare del Condominio con la quale era stato autorizzato il distacco (del condominio)
dall'impianto centralizzato di riscaldamento di acqua calda. In particolare, l'attrice precisava che con la delibera in
esame, si era deciso di procedere al distacco con l'invito ai condomini di munirsi dell'impianto autonomo; peraltro, lo
stesso regolamento di condominio, disciplinava che non si poteva rinunciare ai servizi comuni nonché il divieto di
distacco. Inoltre, veniva ribadito che la realizzazione degli impianti autonomi (ventuno camini), potevano causare un
maggiore inquinamento atmosferico in quanto non dotati di impianti di depurazione dei fumi. Per le ragioni esposte,
la società attrice precisava che la delibera era da considerarsi nulla e pertanto chiedeva la condanna del condominio al
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MODIFICHE ALL'IMPIANTO DI RISCALDAMENTO CENTRALIZZATO. CHI ACQUISTA DOPO LA
DELIBERA PUÒ FAR VALERE LA VIOLAZIONE DEL REGOLAMENTO
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riallaccio del servizio centralizzato (atteso anche il grave danno per l'ambiente e la salute). Costituendosi in giudizio, il
condominio contestava in toto le pretese della società attrice; in particolare, eccepiva che l'impianto di riscaldamento
andava sostituito perché logoro e obsoleto e che i costi per la sua conservazione erano ingenti e insostenibili. In primo
grado, il Tribunale adito dichiarava la nullità della delibera impugnata con condanna del condominio al riallaccio del
servizio termico. In grado di Appello, veniva riformata la sentenza, in quanto, a parere della Corte territoriale, la
società attrice era carente di legittimazione ad impugnare (diventata condomina tre anni dopo l'approvazione della
delibera). Avverso tale pronuncia, veniva proposto ricorso per cassazione.
Il regolamento di condominio e il regolamento contrattuale. L'art. 1138, primo comma, c.c. recita: "quando in un
edificio il numero dei condomini è superiore a dieci, deve essere formato un regolamento, il quale contenga le norme
circa l'uso delle cose comuni e la ripartizione delle spese, secondo i diritti e gli obblighi spettanti a ciascun condomino,
nonché le norme per la tutela del decoro dell'edificio e quelle relative all'amministrazione". Quindi, la funzione di tale
regolamento è quella di disciplinare l'uso delle cose comuni, prevedere i criteri di ripartizione delle spese (al
regolamento infatti devono essere allegate le tabelle millesimali), fissare le norme a tutela del decoro dell'edificio
nonché quelle inerenti l'amministrazione della cosa comune. Quanto al procedimento di formazione del regolamento
nei complessi immobiliari con più di dieci partecipanti (ma non è infrequente anche i quelli più piccoli) solitamente è il
costruttore che al momento della vendita delle singole unità immobiliari inserisce nell'atto di compravendita il
regolamento di condominio. Questo regolamento è detto contrattuale (o negoziale) in quanto accettato e sottoscritto
da tutti i condomini; tuttavia, può accadere che il costruttore non lo inserisca nei contratti e che debbano essere i
condomini in sede assembleare a votarlo per dotarsene. In queste circostanze, ogni condomino potrà prendere
l'iniziativa per la formazione e/o la revisione del regolamento esistente (art. 1138, secondo comma, c.c.). In tal caso
parliamo del regolamento di natura assembleare che per essere valido dovrà riportare il voto della maggioranza degli
intervenuti all'assemblea che rappresentino almeno 500 millesimi.
La differenza e gli effetti dei regolamenti. La differenza fra i tre tipi di regolamento non è solo nominale ma può
estendersi al contenuto: così, mentre il regolamento assembleare può contenere norme, a volte, esclusivamente, a
dare attuazione al contenuto dell'art. 1138, primo comma, c.c., quello contrattuale - essendo per l'appunto un
accordo negoziale tra tutti i partecipanti al condominio - potrà limitare i diritti di ogni condomino sulla proprietà
esclusiva. Premesso ciò, quanto al rispetto delle norme, giova ricordare che in presenza di un regolamento
assembleare, esso sarà obbligatorio per tutti i condomini nonché per i loro aventi causa (in sostanza gli acquirenti
dell'appartamento) e gli eredi; mentre, per il regolamento c.d. contrattuale, in questo caso, trattandosi di un vero e
proprio contratto esso avrà effetto solo tra le parti (art. 1372 c.c.) Difatti, per opporre il regolamento al neo
condomino, quindi, è necessario che ricorrano, alternativamente, due circostanze: a) o il regolamento deve essere
allegato o quanto meno richiamato ed espressamente accettato nell'atto d'acquisto dell'unità immobiliare; b) oppure
al momento della vendita della prima unità immobiliare (cioè quando nasce il condominio) lo stesso deve essere
trascritto nei pubblici registri immobiliari.
Il ragionamento della Corte di Cassazione. Secondo la corte, non rileva il fatto che la società fosse diventata
condomina tre anni dopo l'approvazione della delibera, atteso che la precedente dante causa era contraria
all'adozione della previsione regolamentare di natura contrattuale (regolamento negoziale). Quindi, atteso che la
delibera aveva inciso nella sfera giuridica della precedente dante causa, a parere dei giudici, anche il successore a
titolo particolare (acquirente) aveva titolo e interesse a impugnare la delibera adottata in epoca anteriore al suo
acquisto. Difatti, la nuova condomina, al momento dell'acquisto era del tutto ignara del distacco, sicché l'interesse ad
impugnare emergeva in maniera chiara dal tenore della propria azione per la nullità della delibera. Sul punto, i giudici
di Piazza Cavour hanno avuto modo di precisare che agire per il ripristino del vecchio impianto non è atto emulativo se
il singolo proprietario ne ha interesse: l'interesse economico ed ecologico bastano a conferire la legittimazione ad hoc.
Le conclusioni. Alla luce di tutto quanto innanzi esposto, la Suprema Corte di Cassazione, con la pronuncia in
commento ha accolto parzialmente le domande della società ricorrente; per l'effetto, ha cassato con rinvio ad altro
giudice che dovrà stabilire se si deve tornare o meno all'impianto centralizzato.
CONDOMINIO: FRAZIONAMENTO DI UN APPARTAMENTO IN 2 UNITÀ IMMOBILIARI
Corte di Cassazione, Sentenza n. 13184 del 24 giugno 2016
Dopo i due gradi di giudizio è la Corte di Cassazione a sancire
definitivamente che è legittimo, in un condominio, il frazionamento di
un appartamento in 2 unità immobiliari, in assenza di alcun
pregiudizio per le parti comuni (e comunque nel rispetto dell'altrui
proprietà esclusiva del vicino).
Tra i motivi della decisione c'è la censura verso il procedimento
presuntivo con cui la sentenza della Corte d'Appello aveva tratto dalla
duplicazione degli appartamenti la conseguenza della utilizzazione di un
numero verosimilmente maggiore di persone che sarebbero ospitati od
ospitabili.
In un altro motivo la Cassazione denuncia il ragionamento meramente presuntivo compiuto dai Giudici laddove
avevano fatto in modo apodittico riferimento al deprezzamento dell'immobile in caso di raddoppio dei condomini,
non potendo al riguardo utilizzarsi le nozioni di fatto di comune esperienza.
In sostanza, al fine di verificare la legittimità dell'intervento edilizio compiuto dell'appartamento, occorre accertare se
tale realizzazione abbia determinato o sia comunque in concreto, seppure potenzialmente, in grado di arrecare
pregiudizio all'utilizzazione e al godimento delle cose comuni che ai sensi dell'art. 1102 cod. civ. spetta ai
comproprietari.
E' ribadito, quindi, il concetto legale che il singolo condomino ha il diritto di godere e disporre del proprio
appartamento, apportandovi modifiche o trasformazioni che ne possano migliorare l’utilizzazione, con il limite di
non ledere i diritti degli altri condomini.
Inoltre la Cassazione ha accolto il ricorso del proprietario dell’appartamento frazionato, annullando la sentenza della
Corte di Appello, anche per il fatto che il frazionamento non comporta modifiche alle tabelle millesimali, visto che la
riforma del condominio (legge 220/2012), in merito a incremento di unità abitative, prevede la revisione delle tabelle
millesimali quando viene alterato per più del 20% il valore proporzionale dell’unità immobiliare, a seguito delle mutate
condizioni di una parte dell’edificio.
Corte di Cassazione, Sentenza n. 33547 del 01 agosto 2016
La Corte di Cassazione, seconda sezione penale, ha confermato, a
carico dell’amministratore di un condominio, la condanna per reato
di appropriazione indebita, per avere lo stesso trasferito alcune
somme condominiali nel proprio conto corrente, onde ottenere un
tasso di interesse maggiore.
La Corte Suprema, in particolare, respinge entrambe le censure
sollevate dall’amministratore ricorrente. La prima delle quali poggia,
a suo dire, sull'erronea convinzione che l’interversione del possesso –
nel reato contestato – si determini allorquando l’autore del reato, già
appropriatosi della cosa, non provveda alla sua restituzione. In realtà
– precisano gli ermellini - la consumazione del reato ex art. 646 c.p. non richiede la costituzione in mora del suo autore
né un vero e proprio inadempimento all'obbligo restitutorio, essendo la soglia di rilevanza penale anticipata al
momento appropriativo in sé considerato (nella specie, all'indebito prelievo di somme dalle casse del condominio).
Quanto alla censura circa l’ingiusto profitto, la circostanza che le somme in questione sarebbero state investite
nell'interesse del condominio, anziché utilizzate ai fini privati dell’imputato, risulta sprovvista di qualsiasi riscontro
fattuale.
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SOMME CONDOMINIALI TRASFERITE APPROPRIAZIONE INDEBITA
Al contrario, in fase di merito è stato accertato che le somme in questione sarebbero state spostate da un conto
corrente condominiale ad uno privato dell’amministratore, caratterizzato da una maggiore fruttuosità in ragione del
tasso di interesse praticato.
Detta operazione – conclude la Corte con la sentenza in commento – ben lungi dal costituire semplicemente
un’attività posta in essere in nome e per conto del condominio, ancorché in eccedenza del mandato ricevuto, implica
l’impossessamento del denaro da parte dell’imputato
E’ DA CONSIDERARSI “COMUNE”, SALVO RISULTI DIVERSAMENTE DAL TITOLO, IL SUOLO SU CUI
SORGE UN EDIFICIO
Corte di Cassazione, sez. II Civile, Sentenza n. 19215 del 28 settembre 2016
Salvo che gli atti di acquisto dei singoli appartamenti non dispongano in modo
diverso, il suolo e le fondamenta di un palazzo rientrano tra i beni comuni, ossia
appartenenti a tutti i condòmini, e quindi al condominio. È quanto ricorda la
Cassazione con la sentenza in esame.
La Corte parte da quanto previsto dal codice civile il quale, nella prima parte,
stabilisce che: “Sono oggetto di proprietà comune dei proprietari delle singole unità
immobiliari dell’edificio (…) se non risulta il contrario dal titolo: tutte le parti
dell’edificio necessarie all’uso comune, come il suolo su cui sorge l’edificio, le
fondazioni, i muri maestri, i pilastri e le travi portanti, i tetti e i lastrici solari, le scale,
i portoni di ingresso, i vestiboli, gli anditi, i portici, i cortili e le facciate.”
Per suolo si deve intendere – secondo la pronuncia in commento – tutto ciò che non
rientra nell’edificio sovrastante. In particolare il suolo è quello su cui insiste
l’insieme della struttura, incluse le parti di mura perimetrali che non sono da
considerarsi comuni, come nel caso in cui queste siano destinate unicamente a delimitare e sorreggere un corpo
sporgente di proprietà individuale.
Pertanto in nessun caso l’edificio, o una parte di esso, può identificarsi come suolo, quali che siano le rispettive
individuazioni catastali, attribuite per ragioni di carattere fiscale. Ne consegue che, in materia condominiale nessuna
porzione dell’edificio, anche se di proprietà individuale e perciò corrispondente in catasto ad una particella diversa da
quella identificante l’area su cui sorge il fabbricato comune, può essere considerata come suolo. Ne deriva che il
suolo e le fondamenta sono oggetto di proprietà comune.
Secondo la giurisprudenza, la natura comune (cioè la condominialità) di un bene ricompreso nell’elenco del codice
civile può essere esclusa quando vi sia un atto scritto, da cui risulti in modo chiaro ed inequivocabile l’esclusione della
qualità di cosa comune, senza che sia a tal fine sufficiente il mero silenzio; oppure quando il bene abbia una
destinazione particolare (come nel caso in cui si tratti di un bene dotato di propria autonomia ed indipendenza e
pertanto non legato da una destinazione di servizio rispetto all’edificio condominiale.
L’esistenza del titolo contrario deve essere dimostrata dal condomino che vanti la proprietà esclusiva su un
determinato bene.
Corte di Cassazione, Sentenza n.19212 del 28 settembre 2016
Le clausole del Regolamento condominiale di natura contrattuale, che impongono limitazioni ai poteri ed alle
facoltà spettanti ai condomini sulle parti di loro esclusiva proprietà, sono vincolanti per gli acquirenti dei singoli
appartamenti, qualora, indipendentemente dalla loro trascrizione nell'atto di acquisto siano menzionate nel
contratto (seppur non materialmente trascritte). Sicché le stesse devono ritenersi, in tal caso, riconosciute ed
accettate. E’ quanto enunciato dalla Corte di Cassazione, accogliendo il ricorso di due avvocati che, in qualità di
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REGOLAMENTO CONDOMINIALE VINCOLANTE SE MENZIONATO
condomini proprietari di due unità immobiliari adibite a studi legali, avevano evocato in giudizio la proprietaria
dell’appartamento limitrofo, nonché la società conduttrice dello stesso.
Premesso, difatti, che il Regolamento condominiale dell’edificio prevedeva che i singoli appartamenti dovessero
essere adibiti esclusivamente allo svolgimento di libere attività professionali, la condomina convenuta aveva invece
locato il suo appartamento ad una società che lo aveva destinato a centro estetico; attività che aveva comportato la
diffusione di musica ad alto volume e l’utilizzo “in maniera smodata” delle strutture dell’edificio. Sicché i ricorrenti
chiedevano venisse accertato la legittimità del cambio di destinazione d’uso e la condanna alla immediata cessazione
delle attività predette.
La Suprema Corte, nell'accogliere la relativa censura, ha dato atto che nell'atto di acquisto dell’immobile poi adibito
a centro estetico, vi fosse un riferimento, seppur generico, al Regolamento condominiale comprensivo di obblighi e
divieti per i condomini. E tanto bastava a renderlo vincolante per l’acquirente, anche in mancanza di trascrizione.
La trascrizione serve normalmente a risolvere conflitti tra diritti reciprocamente incompatibili, facendo prevalere
quello il cui atto di acquisto sia stato inserito prioritariamente nel registro immobiliare. Ma una tale situazione di
conflitto non si verifica quando una proprietà viene espressamente acquistata come limitata da diritti altrui, per i quali
una precedente trascrizione non è quindi indispensabile, in quanto il bene non è stato trasferito come libero, né
l’acquirente può pretendere che lo diventi a posteriori per il meccanismo della “inopponibilità”.
Per cui – conclude la Cassazione– la Corte d’appello ha errato decidendo nel senso della necessità di trascrizione del
Regolamento condominiale e della inopponibilità della clausola limitativa de qua, essendo il Regolamento comunque
richiamato nel contratto di acquisto.
ALLE SPESE PER IL RIPRISTINO DEI PANNELLI DECORATIVI SULLA FACCIATA PARTECIPANO TUTTI I
CONDOMINI
Corte di Cassazione, II Sez. Civile, Sentenza n. 23258, del 15 novembre 2016
Ai sensi dell'art. 1117 c.c., sono oggetto di proprietà comune, tra le altre, le parti dell'edificio necessarie all'uso
comune, come il suolo su cui sorge l'edificio, le fondazioni, i muri maestri, i pilastri e le travi portanti, i tetti e i lastrici
solari, le scale, i portoni di ingresso, i vestiboli, gli anditi, i portici, i cortili e le facciate.
Con particolare riferimento alle facciate, intese quali fisionomia, prospetto ed aspetto esterno dell'edificio, per
esplicita previsione normativa, esse rientrano senza dubbio nel concetto di bene comune, al pari degli eventuali
elementi ornamentali che sulla stessa possono insistere. Pertanto, quando gli anzidetti elementi sono inseriti nel
prospetto della facciata come elemento decorativo, s'intendono comuni e, alle spese per il loro eventuale ripristino,
partecipano tutti i condòmini, in relazione ai rispettivi millesimi di proprietà.
La vicenda giudiziaria di cui si è occupato il Supremo Collegio, vedeva protagonisti un gruppo di condòmini che si
lagnavano della circostanza per la quale il condominio aveva ritenuto spettasse solo ad alcuni dei partecipanti, farsi
carico della spesa per il restauro e la messa in sicurezza di alcuni "pannelli decorativi" posti sulla facciata dell'edificio
condominiale, piuttosto che a tutti i singoli proprietari degli appartamenti in condominio, in virtù delle rispettive
quote millesimali.
Logica conseguenza di ciò è che, alle spese necessarie alla manutenzione e alla ristrutturazione dei beni comuni,
devono contribuire tutti i singoli proprietari degli appartamenti in condominio.
Corte di Cassazione, Sentenza n. 22016 del 31 ottobre 2016
Ove una unità immobiliare goda di un manufatto inserito nel muro condominiale, destinato a smaltire i propri fumi,
qualora il vicino provveda a interromperlo e renderlo inutilizzabile può essere chiesta con successo tutela possessoria.
Le vicende relative alle canne fumarie e alle loro diramazioni sono frequenti in condominio poiché spesso, durante
lavori di ristrutturazione delle unità, si finisce per intercettarle o danneggiare (emblematico il caso, finito dinanzi al
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LA CANNA FUMARIA INSERITA NEL MURO CONDOMINIALE E’ TUTELABILE IN VIA POSSESSORIA
Tribunale di La Spezia, di una canna fumaria ostruita dall’inserimento di una cassaforte a muro al piano soprastante,
con invasione di fumi all’interno della unità immobiliare che alla stessa canna aveva collegato un caminetto).
AMBIENTE
Consiglio di Stato, sez. VI, Sentenza n. 4225/2015
Il Consiglio di Stato sez. VI con la sentenza in esame è intervenuto in tema di bonifica dei siti inquinati per escludere
la responsabilità del proprietario non colpevole in merito alle attività di rimozione, messa in sicurezza e bonifica
dell'area contaminata.
La disciplina nazionale che regola la responsabilità per danno ambientale si basa sul principio comunitario del ''chi
inquina paga'' (cfr. art. 191 del Trattato sul funzionamento dell'Unione Europea e la Direttiva 2004/35/CE) da
interpretarsi, ad avviso del Consiglio di Stato, come necessaria esistenza di un nesso di causalità tra condotta
dell'operatore ed evento dannoso ai fini dell'attribuzione della relativa responsabilità. Questo esclude, a parere dei
giudici, la possibilità di attribuire al proprietario del sito ''una responsabilità oggettiva imprenditoriale''.
Sul tema, in questa direzione, sono intervenute l'Adunanza Plenaria con ordinanza n.21 del 25 settembre 2013 e la
Corte di Lussemburgo con sentenza del 4 marzo 2015 resa nella causa C-534/13.
La prima ha escluso il potere dell'Amministrazione di imporre al proprietario non colpevole dell'inquinamento
l'obbligo di adottare misure di sicurezza di emergenza e di bonifica, salvi gli effetti previsti dall'art. 253 del D.Lgs.
152/2006.
La seconda ha risolto positivamente il quesito interpretativo relativo alla compatibilità tra i principi comunitari di
prevenzione e riparazione del danno ambientale e una normativa nazionale che ''non consenta all'autorità
Amministrativa d'imporre l'esecuzione di misure di sicurezza di emergenza e bonifica al proprietario non responsabile
dell'inquinamento''.
Di conseguenza, ad avviso del Consiglio di Stato la legge n.549/1995 (''Misure di razionalizzazione della finanza
pubblica'') nella parte in cui (art.3 comma 32) fissava la responsabilità solidale del proprietario dell'area inquinata, è
da ritenersi implicitamente abrogata per ragioni di ''oggettiva incompatibilità con la sopravvenuta normativa primaria
in tema di distribuzione degli oneri per il caso di deposito non autorizzato di rifiuti''.
Partendo dall'esame delle disposizioni del D.Lgs. 152/2006 (cd. Codice dell'Ambiente) il Consiglio di Stato ha
individuato, in tema di responsabilità per danno ambientale, alcuni principi applicativi:
· il proprietario dell'area è tenuto alle misure di prevenzione (art. 245 comma 2) ossia alle ''iniziative per contrastare
un evento, un atto o un'omissione che ha creato una minaccia imminente per la salute o per l'ambiente, intesa come
rischio sufficientemente probabile che si verifichi un danno sotto il profilo sanitario o ambientale in un futuro
prossimo, al fine di impedire o minimizzare il realizzarsi di tale minaccia''( art.240 comma 1 lettera i);
· gli interventi di riparazione, messa in sicurezza e bonifica gravano sul responsabile dell'inquinamento (art.244 comma
2);
· nel caso in cui il responsabile non sia individuabile o non provveda (o non provveda spontaneamente il proprietario)
gli interventi necessari sono adottati dalla pubblica amministrazione competente (art. 244 comma 4);
· le spese sostenute dalla pubblica amministrazione potranno essere recuperate sulla base di un provvedimento
motivato (che deve giustificare l'impossibilità di accertare l'identità del responsabile) agendo in rivalsa verso il
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TERRENI INQUINATI E BONIFICA
proprietario che risponderà nei limiti del valore di mercato del sito a seguito dell'esecuzione degli interventi medesimi
(art. 253 comma 3);
· a garanzia del diritto di rivalsa, il sito è gravato di un onere reale e di un privilegio speciale immobiliare (art. 253
commi 1 e 2).
In Italia sono moltissime le terre inquinate di rifiuti tossici e pericolosi, scarichi industriali e ospedalieri,amianto e
veleni vari sotterrati. Il dramma della Terra dei Fuochi racconta una brutta storia in cui a pagarne le conseguenze
sono l’ambiente e più ancora la salute della gente, la salute di chi respira l’aria di quei luoghi e mangia i cibi prodotti su
quei terreni contaminati. Nonostante i proclami degli scorsi anni, la mappatura dei terreni inquinati ed i fondi stanziati
per le bonifiche, il sistema dello smaltimento illecito dei rifiuti non si è fermato.
Un inquinamento che ha fatto registrare in proporzione anche i tumori oltre il decesso di tanti bambini.
ALTRE CATEGORIE
IPOTECA ILLEGITTIMA SE SUPERIORE A UN TERZO DEL VALORE DELL’IMMOBILE
Corte di Cassazione sentenza 6533/2016 del 5.04.2016
È abuso del diritto iscrivere l’ipoteca sui beni del debitore per un valore che supera di un terzo il credito. Lo ha detto la
Cassazione cambiando così parere rispetto al passato con la sentenza 6533/2016 del 5.04.2016. nel caso in cui il
creditore iscriva un’ipoteca su un immobile del debitore e, successivamente, il credito alla base di tale iscrizione venga
annullato dal giudice (perché illegittimo), il proprietario del bene ha diritto a un risarcimento del danno tutte le volte
in cui l’ipoteca supera di un terzo il valore dell’immobile stesso.
Corte di Cassazione, Sentenza n. 8282/16
Le multe per chi parcheggia l'auto sulle strisce blu senza pagare il ticket sono valide solo a condizione che il Comune
abbia istituito, nelle vicinanze delle strisce blu, aree di sosta non a pagamento (strisce bianche) oppure che la zona sia
stata dichiarata, con apposita ordinanza comunale, di valore storico o di particolare pregio ambientale: solo in questo
caso, infatti, non sussiste più l’obbligo di istituire l’alternanza di strisce blu e strisce bianche, come stabilito dalla
sentenza n. 8282/16 della Corte di Cassazione. Pertanto, la multa elevata all’automobilista che ha lasciato l’auto sulle
strisce blue senza pagare il ticket è nulla se nelle strette vicinanze del luogo ove l’automobilista ha parcheggiato non
sono presenti aree di sosta gratuite ossia senza dispositivi di controllo della durata di sosta e, nello stesso tempo, il
Comune non riesce a dimostrare che la zona interessata rientra tra quelle individuate come di particolare valore
storico o di particolare pregio ambientale.
Questo significa che l’onere della prova, nella causa innanzi al giudice di Pace per l’impugnazione della
contravvenzione, è così ripartito: all’automobilista spetta dimostrare – documentazione fotografica alla mano – che le
strisce blu non sono intervallate da strisce bianche anche in strade limitrofe e non necessariamente sulla stessa via; se
il trasgressore riesce a fornire tale prova, il Comune che non voglia perdere la causa deve esibire l’ordinanza comunale
con cui l’area ove l’auto è stata parcheggiata viene catalogata tra quelle di maggior pregio storico o ambientale.
La Cassazione ha stabilito che è nulla la multa per sosta in zona a pagamento senza l’esposizione del relativo 'grattino'
se il Comune non fornisce la prova che la zona interessata possa in qualche modo rientrare in quelle individuate come
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MULTA SULLE STRISCE BLU, ECCO COME FARE OPPOSIZIONE
di particolare valore storico o di particolare pregio ambientale e se nelle immediate vicinanze non ha provveduto a
istituire un’adeguata area destinata a parcheggio senza custodia o senza dispositivi di controllo della durata di sosta.
I CONTRIBUTI VERSATI ALLA CASSA VANNO RESTITUITI IN CASO DI CANCELLAZIONE
Corte di Appello di Roma, Sentenza 2219/2014
Il professionista iscritto alla Cassa che non ha maturato il diritto alla pensione, e cessi l’iscrizione all’ordine
professionale, ha diritto alla restituzione dei contributi soggettivi da lui versati. Così ha deciso la Corte di Appello di
Roma sentenza 2219/2014.
Nel caso in esame, un’avvocatessa, dopo essersi cancellata dall’Albo degli Avvocati, agiva in giudizio al fine di ottenere
la declaratoria di illegittimità della delibera 13 novembre 2004 assunta dal Comitato dei Delegati con la quale, in
modifica dell’art. 4 del Regolamento della Cassa, era stata negata la possibilità della restituzione dei suddetti
contributi. In primo grado, veniva riconosciuto il diritto alla restituzione dei contributi soggettivi versati alla Cassa nel
periodo 1 gennaio 1998 – 27 dicembre 2001.
La Cassa Nazionale Di Previdenza E Assistenza Forense proponeva gravame avverso la decisione di primo grado ma la
Corte d’Appello di Roma ha respinto l’appello.
In particolare, la Corte ha richiamato l’art. 21 della Legge n. 576/1980 secondo cui “coloro che cessano dalla iscrizione
alla cassa senza avere maturato i requisiti assicurativi per il diritto alla pensione hanno diritto di ottenere il rimborso
dei contributi di cui all’art. 10…”.
Conseguentemente, la Corte ha rilevato che tale norma ha derogato al principio solidaristico – che vuole il versamento
dei contributi finalizzato al conseguimento di un interesse collettivo senza la relazione di sinallagmaticità tra
contribuzione ed erogazione previdenziale, – e che tale norma disciplina una materia oggetto di riserva di legge alla
quale l’ente Cassa è vincolato, senza che un proprio regolamento interno possa prevederne l’abrogazione o la deroga.
Secondo la Corte, la Cassa Forense può solo adottare “provvedimenti di variazione delle aliquote contributive,
riparametrazione dei coefficienti di rendimento o modificazione di ogni altro criterio di determinazione del
trattamento pensionistico nel rispetto del principio del pro-rata in relazione alle anzianità maturate, nonché
l’eventuale opzione per l’adozione del regime contributivo”.
La “non rimborsabilità dei contributi legittimamente versati” esula dunque da questi confini, essendo le fonti di
rango primario le uniche abilitate ad incidere in materia previdenziale.
In conclusione, è stata ritenuta legittima la richiesta di restituzione dei contributi da parte del professionista.
Corte di Cassazione, Sezioni Unite, Sentenza n. 13144 del 25 giugno 2015
L'attività di consulenza ed in genere l'esercizio di una professione intellettuale fino a qualche anno fa era riservato al
professionista individuale iscritto all'albo. Al diritto del professionista di pagamento del compenso, come è noto, si
applica la speciale prescrizione presuntiva triennale prevista dall'art. 2956 del codice civile come segue:
Si prescrive in tre anni il diritto:
1) dei prestatori di lavoro, per le retribuzioni corrisposte a periodi superiori al mese;
2) dei professionisti, per il compenso dell'opera prestata e per il rimborso delle spese correlative;
3) dei notai, per gli atti del loro ministero; 4) degli insegnanti, per la retribuzione delle lezioni impartite a tempo più
lungo di un mese.
Nel caso di specie la corte d'appello aveva respinto l'eccezione di prescrizione presuntiva sollevata da parte
opponente in quanto la richiesta di pagamento della parcella proveniva da una società di professionisti e non da un
professionista individuale. In proposito la corte territoriale aveva ragionato per analogia a quanto recepito da costante
giurisprudenza in tema di privilegio generale ex art. 2751 bis c.c., n. 2, secondo il quale il termine "professionisti" va a
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LA PRESCRIZIONE PRESUNTIVA DEL DIRITTO AL COMPENSO VALE SOLO PER I CREDITI DEI
PROFESSIONISTI ESERCENTI IN FORMA INDIVIDUALE
designare i singoli professionisti e non anche le società, indipendentemente dallo svolgimento da parte di queste
ultime di una attività intellettuale analoga a quella svolta dai primi. La Corte di Cassazione assegna alle Sezioni Unite il
caso al fine di determinare se al mutato quadro normativo, che ha esteso gradatamente la possibilità di esercizio di
attività intellettuale a forme diverse dall'esercizio individuale, consegua una nuova intepretazione dell'art 2956 del
codice civile. L'ordinanza interlocutoria affida il caso alle Sezioni Unite affinché "...riflettano sul se e sui margini in cui
la nuova figura di professionista siccome destinata a connotarsi anche in forma societaria sia per le professioni
protette sia per le professioni non protette si riverberi sulla nozione di professionista di cui all'art. 2956 c.c., n. 2)" La
Corte di Cassazione a Sezioni Unite si esprime con la sentenza in esame, esprimendo il seguente principio di diritto:
"la prescrizione presuntiva triennale del diritto dei professionisti, per il compenso dell'opera prestata e per il rimborso
delle spese correlative (art. 2956 c.c., n. 2), trova la sua giustificazione nella particolare natura del rapporto di
prestazione d'opera intellettuale dal quale, secondo la valutazione del legislatore del 1942, derivano obbligazioni il cui
adempimento suole avvenire senza dilazione, o comunque in tempi brevi, e senza il rilascio di quietanza scritta. Ne
consegue, in un regime nel quale il contratto d'opera professionale sia caratterizzato dalla personalità della
prestazione, non solo che ad una società può essere conferito soltanto l'incarico di svolgere attività diverse da quelle
riservate alle professioni c.d. protette, ma anche che deve necessariamente essere utilizzato uno strumento diverso dal
contratto d'opera professionale e che perciò alla società non può essere opposta la prescrizione presuntiva triennale".
Corte di Cassazione, V sez., Sentenza n. 10794 del 25 maggio 2016
Con la sentenza in esame, la quinta sezione della Corte di
Cassazione ha ritenuto legittima l’iscrizione ipotecaria per
debiti tributari da parte di Equitalia sugli immobili
conferiti in fondo patrimoniale dal contribuente.
Sul punto, recente giurisprudenza di legittimità aveva
affermato l’applicabilità dell’art. 170 c.c.– secondo il
quale “l’esecuzione sui beni del fondo e sui ritti di essi non
può aver luogo per debiti che il creditore conosceva essere
stati contratti per scopi estranei ai bisogni della famiglia”
– anche all’iscrizione ipotecaria ex art. 77 D.P.R. 602/73,
concludendo quindi per l’illegittimità di quest’ultima sui
beni del fondo patrimoniale (Cass. 1652/2016; Cass.
5385/2013) .
Secondo tale orientamento, l’ipoteca ha natura di atto funzionale all’esecuzione forzata: da ciò discenderebbe la sua
illegittimità in applicazione dell’art. 170 c.c. che vieta espressamente “l’esecuzione” sui beni del fondo e sui frutti di
essi nonché, in base a tale orientamento, anche “tutti i possibili effetti dell’esecutività del titolo e pertanto anche
l’ipoteca iscritta sulla base dell’esecutività del titolo medesimo“.
Con la pronuncia in commento, la Suprema Corte ha sostenuto una tesi diametralmente opposta, rilevando che
suddetta premessa non possa più essere condivisa, soprattutto alla luce della sentenza n. 19667/2014 delle Sezioni
Unite, che ha escluso che l’iscrizione ipotecaria ex art. 77 d.P.R. cit. possa essere considerata un atto
dell’espropriazione forzata: essa dovrebbe infatti essere ritenuta “un atto riferito ad una procedura alternativa
all’esecuzione forzata vera e propria“.
Di conseguenza, venuta meno la qualificazione dell’iscrizione ipotecaria come atto dell’esecuzione, viene altresì meno
l’applicabilità dell’art. 170 c.c., “tanto più ove si consideri che, ponendo la norma una eccezione alla regola della
responsabilità patrimoniale ex articolo 2740 cc, la stessa è da ritenersi soggetta a interpretazione tassativa”: è perciò
legittima l’ipoteca iscritta da Equitalia sui beni del fondo patrimoniale per debiti tributari complessivamente non
inferiori ad € 20.000.
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LEGITTIMA ISCRIZIONE IPOTECARIA DI EQUITALIA SU BENI DEL FONDO PATRIMONIALE
CONTRO L’USUCAPIONE IL TITOLO D’ACQUISTO NON SEMPRE BASTA
Corte di Cassazione, Sentenza n. 9959 del 16 maggio 2016
Con la sentenza in esame, la seconda sezione civile della Corte di Cassazione ha chiarito che non è esentato dalla
PROBATIO DIABOLICA chi pretende che venga accertata la sua proprietà di un bene, del quale tuttavia non abbia il
possesso.
Come noto, chi afferma di essere il proprietario di un bene non solo dovrà provare che è divenuto tale in base ad un
valido titolo di acquisto, ma dovrà anche provare che ha ricevuto il diritto da chi era effettivamente proprietario: per
far questo, sarà necessario provare che il vecchio proprietario aveva ricevuto il diritto da chi era effettivamente
proprietario e così di seguito, in una catena di prove che dovrebbe giungere al primo ed incontestabile proprietario da
cui è sorto a titolo originario il diritto di proprietà in contestazione nel processo. Proprio per l’enorme difficoltà di
questo tipo di prova, si parla della c.d. “PROBATIO DIABOLICA“.
Invero, l’azione di accertamento della proprietà esime colui il quale propone l’azione dall’onere della PROBATIO
DIABOLICA e lo subordina solo a quello di allegare e provare il titolo del proprio acquisto. Tale azione non mira
infatti alla modifica di uno stato di fatto, bensì solo all’eliminazione di uno stato di incertezza circa la legittimità del
potere di fatto sulla cosa di cui l’attore è già investito.
Diversamente, nel caso in cui l’attore non abbia il possesso del bene o lo abbia acquistato acquistato con violenza o
clandestinità, ovvero sulla cui legittimità sussista uno stato di obiettiva e seria incertezza, in relazione alle particolarità
del caso concreto, la Suprema Corte ha rilevato che parte attrice ha l’onere di offrire la stessa prova rigorosa e
“diabolica” richiesta per la rivendica, “non ricorrendo in tali ipotesi la presunzione di legittimità del possesso, che
giustifica l’attenuazione del rigore probatorio qualora l’azione di accertamento della proprietà sia proposta da colui
che sia nel possesso del bene“.
Di conseguenza, secondo la Corte di legittimità, in presenza di tale incertezza, sia per l’azione di rivendicazione che
per l’azione di accertamento della proprietà esperita dal non possessore, grava su parte attrice il rigoroso onere
probatorio.
Nel caso di specie, ha pertanto errato il Giudice di secondo grado impostando la decisione sul mancato assolvimento
degli oneri probatori da parte del convenuto. La Corte ha quindi cassato la sentenza impugnata, rinviando ad altra
sezione della medesima Corte d’Appello.
Corte di Cassazione, Sentenza n. 11158 del 30 maggio 2016
Chi ha maturato un’usucapione di una servitù e poi ne faccia rinuncia per iscritto impedisce al suo avente causa
nella proprietà del fondo dominante di far valere l’usucapione rinunciata dal dante causa. Ciò anche se l’acquirente
del fondo non abbia saputo nulla di questa rinuncia e se la rinuncia all’usucapione non sia stata trascritta nei Registri
immobiliari.
Nel grado d’appello della controversia in esame, il giudice aveva invece ritenuto non opponibile, all’avente causa del
soggetto che aveva maturato l’usucapione di una servitù di passaggio, il fatto che quest’ultimo vi avesse rinunciato, in
quanto l’acquirente stesso nulla aveva saputo di tale rinuncia e l’atto di rinuncia non era stato trascritto nei Registri.
La Cassazione ha analizzato la situazione del soggetto che, dopo avere esercitato il possesso ultraventennale della
servitù e con ciò aver maturato l’usucapione della servitù stessa, esprima al proprietario del fondo servente (e cioè il
fondo gravato dalla servitù usucapita) la volontà di non avvalersi della causa di acquisto del diritto reale minore
maturatasi a titolo originario a favore del proprio fondo (il cosiddetto fondo dominante). In questa situazione,
secondo la Cassazione, la rinuncia per iscritto all’usucapione della servitù di passaggio fatta dal proprietario del fondo
dominante rileva dunque di per sé, non potendo la sua efficacia negoziale essere fatta dipendere né dall’avvenuta
comunicazione al successivo acquirente né dall’osservanza dell’onere di trascrizione dell’atto di rinuncia nei Registri
immobiliari.
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USUCAPIONE, CHI COMPRA SUBISCE LA RINUNCIA
Tra l’altro, nel caso specifico, la soluzione della tematica analizzata è stata resa ancor più facile dal fatto che, al
momento della formulazione della rinuncia alla servitù, non esisteva alcun avente causa del fondo dominante (in
quanto il fondo in questione venne alienato assai successivamente all’atto di rinuncia all’usucapione) né si rendeva
plausibile la trascrizione di alcun atto di rinuncia, in quanto mai era stato nemmeno trascritto alcun atto in cui fosse
stata accertata la maturazione dell’usucapione della servitù.
L’usucapione è l’acquisto del diritto di proprietà di un bene o di un diritto reale (come la servitù) mediante il
«possesso» del diritto in questione protratto per un certo periodo di tempo. Per avere il «possesso» occorre
esercitare un potere corrispondente a quello che potrebbe esercitare il proprietario o il titolare di un altro diritto reale
sul bene stesso (quindi non è possibile che ottenga l’usucapione chi corrisponde canoni d’affitto, pur in assenza di
contratti scritti, in quanto così facendo egli si autoqualifica semplice detentore e non possessore dell’immobile).
Per condurre all’usucapione, il possesso, protratto per il tempo richiesto dalla legge, deve essere continuato (e cioè
deve consistere in una permanente manifestazione della signoria sulla cosa), non interrotto (ad esempio, con azione
giudiziale del proprietario o il riconoscimento dell’altrui diritto da parte del possessore o per perdita del possesso per
oltre un anno), pacifico (cioè non ottenuto con violenza fisica o morale) e non clandestino, quindi non acquistato e
mantenuto nascostamente.
Il possesso altresì deve essere inequivoco (e cioè non devono sorgere dubbi sui suoi connotati e sulla sua effettività)
ed esclusivo sul bene o sulla sua porzione che si intende usucapire.
INDENNITÀ DI MATERNITÀ LA DEROGA AL TETTO MASSIMO DEL MASSIMALE EROGATO È
DISCREZIONALE E VA MOTIVATA SOLO SE ADOTTATA
Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Sentenza n. 9757 del 12 maggio2016
Relativamente all'indennità di maternità nelle libere professioni, il legislatore, innovando la disciplina previgente, ha
rimodulato - con il comma 3-bis dell'art. 70 del D.Lgs. n. 151 del 2001- la tutela riconosciuta in caso di maternità,
stabilendo un tetto massimo, seppur elevabile su iniziativa delle singole Casse. In sostanza il Legislatore, a fronte
della maggiore capacità reddituale delle donne, nelle libere professioni, ha ritenuto che il sostegno economico della
serenità della donna e della salute della madre e del figlio nel delicato periodo della maternità, sia sufficientemente
garantito attraverso un trattamento parametrato non in base alla diminuzione del reddito o della capacità reddituale
della iscritta ovvero delle spese sostenute, bensì in ragione al minimo di retribuzione ai fini contributivi per i lavoratori
dipendenti iscritti all'assicurazione generale obbligatoria. Il potere derogatorio riconosciuto alle singole Casse di
aumentare il massimale, ha natura discrezionale essendo preordinato al contemperamento tra l'interesse soggettivo
dell'iscritta in maternità e l'interesse generale alla tollerabilità della contribuzione a carattere solidaristico e
all'equilibrio finanziario della gestione dell'ente previdenziale.
Corte di Cassazione, Sentenza n. 7201 del 13 aprile 2016
In tema di pagamento dei compensi del professionista che ha prestato la propria opera in favore del condominio, è
legittima la delibera adottata a maggioranza dall'assemblea condominiale che a tal fine definisce un accordo
transattivo.
Questa, in estrema sintesi, la decisione rassegnata dalla Corte di Cassazione con la sentenza in esame.
Nel caso di specie un ingegnere aveva promosso una causa contro un condominio per vedersi riconosciuti i compensi
professionali per l'opera prestata in relazione ad una pratica edilizia (nella specie contributi per eventi sismici).
Nel corso della lite era intervenuta una transazione tra il suddetto professionista ed il condominio; a decidere
sull'accordo era stata l'assemblea, accordando al tecnico una determinata somma di denaro. Uno dei condòmini non
ci stava ed impugnava quella decisione: a suo modo di vedere la delibera DE QUO doveva considerarsi illegittima in
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COMPENSI DEL PROFESSIONISTA, LEGITTIMA LA TRANSAZIONE DELIBERATA A MAGGIORANZA
DALL'ASSEMBLEA
quanto l'assemblea non aveva competenza a decidere a maggioranza in merito ad un simile accordo che – sempre
secondo il condomino – doveva essere assunto con il consenso di tutti i condòmini.
La controversia sulla validità del deliberato è giunta fin nelle aule della Corte di Cassazione. Gli ermellini hanno
rigettato il ricorso.
Si legge in sentenza che “in tema di condominio negli edifici, ai sensi dell'art. 1135 c.c., l'assemblea può deliberare a
maggioranza su tutto ciò che riguarda le spese d'interesse comune e, quindi, anche sulle transazioni che a tali spese
afferiscano, essendo necessario il consenso unanime dei condomini, ai sensi dell'art. 1108 c.c., comma 3, solo quando
la transazione abbia ad oggetto i diritti reali comuni”.
Si tratta di un pronunciamento che riprende quanto già affermato dal Supremo consesso nel gennaio del 2014 (sent.
n. 821).
La Corte ha specificato che l'unanimità dei consensi serve solamente quando la transazione ha ad oggetto diritti reali
sui beni comuni (es. riconoscimento della proprietà esclusiva di una parte dell'edificio. In tal caso, dice la Corte,
afferendo l'accordo ad un diritto sui beni e non ad un atto di gestione dei medesimi, ai sensi dell'art. 1108 c.c., è
necessario che tutti i condòmini prestino il loro consenso all'accordo.
La sentenza riguarda il compenso di un ingegnere, ma il principio espresso ha validità generale rispetto a tutti i
professionisti che prestano la loro opera in favore del condominio. Così, ad esempio, deve ritenersi legittima la
deliberazione adottata a maggioranza ed avente ad oggetto una transazione con il precedente amministratore in
merito ai pagamenti dei compensi per l'attività svolta.
È utile rammentare che la transazione di una lite (sorta o insorgenda) dev'essere sempre deliberata dall'assemblea
con il voto favorevole della maggioranza dei presenti ed almeno 500 millesimi.
IL NOTAIO È TENUTO AD INFORMARE IL CLIENTE SULLE CONDIZIONI PREGIUDIZIEVOLI
SCATURENTI DALL'ATTO
Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza n. 8703 del 3 maggio 2016
La preparazione e stesura di un atto pubblico di trasferimento immobiliare, ad opera di un notaio, implica LA
PREVENTIVA VERIFICA DELLA LIBERTÀ E DISPONIBILITÀ DEL BENE E, PIÙ IN GENERALE, DELLE RISULTANZE DEI
REGISTRI IMMOBILIARI, L'INFORMATIVA AL CLIENTE SUL SUO ESITO, SALVO L'ESPRESSA DISPENSA DEGLI
INTERESSATI DALLA SUDDETTA VERIFICA. Detti obblighi derivano dall'incarico conferitogli dal cliente e, quindi, fanno
parte dell'oggetto della prestazione d'opera professionale, che resta una prestazione di mezzi e comportamenti e non
di risultato.
Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza n. 8468 del 28 aprile 2016
Tutti gli acquisti di beni fatti da uno dei due coniugi, in regime di comunione legale (e, quindi, stipulati dopo il
matrimonio), rientrano automaticamente nella comunione, e quindi appartengono a entrambi i soggetti, anche se
l’altro non viene menzionato nel contratto di acquisto.
La conseguenza è che tutte le cause che possono incidere sul diritto in questione, oggetto del bene, devono vedere
presenti entrambi i coniugi a cui, individualmente, va notificato l’atto di citazione.
Nella pronuncia in commento, la Corte offre due chiarimenti particolarmente importanti per le coppie. Innanzitutto
viene detto che, in regime di comunione dei beni, ove uno dei coniugi acquisti un immobile o effettui la costruzione di
un edificio su suolo comune ad entrambi, tanto il primo bene quanto il secondo, diventano, “pro quota”, di proprietà
di entrambi i coniugi. Il secondo punto riguarda il cosiddetto “litisconsorzio necessario”: questo concetto processuale
implica che, ogni volta in cui un bene è cointestato a più soggetti, le cause attinenti a tale bene devono essere
necessariamente proposte nei confronti di tutti i comproprietari (viceversa la sentenza sarebbe “inutile” e non
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COMUNIONE LEGALE TRA CONIUGI
avrebbe valore). È l’ipotesi, ad esempio, di un bene cointestato a padre e figlio: in tal caso, se vi è un giudizio in
tribunale sulla titolarità della cosa, andranno chiamati in causa sia il genitore e il figlio.
Proprio a riguardo del litisconsorzio necessario tra coniugi, la Corte ha chiarito che, in tema di comunione legale di
beni tra coniugi, qualora uno solo di essi abbia acquistato o venduto un bene immobile rientrante nella comunione, il
coniuge rimasto estraneo alla formazione dell’atto deve ritenersi “litisconsorte necessario” (ossia, deve essere
presente in giudizio) in tutte le controversie aventi ad oggetto il diritto oggetto del trasferimento. Al contrario è
escluso tale litisconsorzio in tutte le cause volte ad ottenere una decisione che incida sulla “validità o sulla efficacia del
contratto”.
Corte di Cassazione, II Sez. Penale, Sentenza n. 28767 dell’11 luglio 2016
Colpevole del reato di truffa aggravata il proprietario che ha venduto un appartamento tacendo il fatto che lo stesso
fosse gravato da ipoteca giudiziale a favore dell banca. La circostanza che, successivamente al trasferimento
dell'immobile, il proprietario si sia attivato per cancellarla per evitare che il compratore potesse subire un
pignoramento, può essere valutata solo ai fini della determinazione della pena. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione,
seconda sezione penale, nella sentenza in esame, che
ha confermato le statuizioni civili nei confronti di due
coniugi per concorso in truffa aggravata ex art. 61 n. 7
cod. pen., nonostante il reato dovesse essere
considerato estinto per prescrizione.
Si contesta agli imputati di avere venduto un
appartamento tacendo il fatto che sullo stesso gravava
un'ipoteca giudiziale a favore della Banca. I dati catastali dell'immobile avevano subito delle variazioni a causa del
cambio di destinazione d'uso prima della trascrizione dell'ipoteca e non erano stati correttamente riportati nei registri
immobiliari. In ogni caso quando gli imputati seppero dell'esistenza della procedura esecutiva procedettero alla
cancellazione dell'ipoteca evitando che gli acquirenti subissero la conseguente esecuzione.
Tuttavia, quest'ultimo rilievo non è idoneo a escludere l'elemento psicologico del reato in contestazione, e non si può
ritenere che gli imputati siano semplicemente caduti in errore credendo che l'ipoteca gravasse solo sul seminterrato
dell'immobile e non sul bene venduto.
Uno dei coniugi, infatti, oltre che marito della titolare del bene, è un imprenditore geometra, quindi un tecnico
esperto del settore, che si era interessato della procedura di frazionamento catastale e del cambio di destinazione
d'uso dello stesso, nonché del mandato conferito all'agenzia immobiliare e dei contatti con gli acquirenti; situazioni
queste che sono pienamente indicative della circostanza che gli imputati non potevano ignorare (anche solo per
errore) l'esistenza del vincolo reale gravante sull'immobile venduto.
Il fatto che gli imputati si siano attivati in epoca successiva alla stipulazione del contratto alla cancellazione del vincolo
ipotecario può avere rilevanza esclusivamente nell'ottica di determinazione della pena.
Ciononostante, il reato è da considerarsi prescritto poichè il momento consumativo del reato non si ricollega, come
afferma la Corte d'Appello, al momento del danno subito dalle persone offese che si sarebbe protratto fino al
pagamento dell'ultima rata del mutuo.
La Cassazione rammenta che nell'ipotesi di truffa contrattuale il reato si consuma nel momento in cui si realizza
l'effettivo conseguimento del bene da parte dell'agente e la definitiva perdita dello stesso da parte del raggirato,
situazione che nel caso di specie non può che essere ritenuta coincidente con il pagamento del prezzo del bene
venduto.
Non ritiene il Collegio, quindi, che ci si trovi in presenza di una truffa contrattuale a c.d. "consumazione prolungata"
come apoditticamente affermato nella sentenza di primo grado e successivamente confermato nella sentenza
d'Appello. Il momento consumativo deve, sostanzialmente, ricollegarsi al conseguimento del profitto da parte degli
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IMMOBILI: SE IL VENDITORE TACE SULL'IPOTECA È TRUFFA AGGRAVATA
imputati (ottenuto al momento della stipula del contratto e della conseguente ricezione del corrispettivo economico).
L'intervenuta estinzione del reato per prescrizione, in presenza di un sentenza di condanna nel merito, impone la
conferma delle statuizioni civili
BONIFICO ONLINE, LA BANCA PAGA I DANNI
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Corte di Cassazione, Sentenza n. 10638 del 23 maggio 2016 e Sentenza n.15408 del 26 luglio 2016
Con due diverse pronunce la Cassazione è di recente intervenuta per riaffermare alcuni princìpi a tutela del
consumatore quale utente del sistema bancario.
Nella prima controversia il cliente aveva chiamato in giudizio dinanzi al tribunale di Milano (in unico grado) la banca
lamentando l’intrusione nel suo home banking avendo disconosciuto una disposizione di bonifico eseguita con
addebito sul suo conto corrente. Il giudice milanese aveva ritenuto non provati i fatti costitutivi considerando anche
ininfluente il fenomeno del phishing, non essendo stato nemmeno provato che il cliente avesse subìto il furto dei dati
personali attraverso internet. La mancanza di prova del nesso di causalità tra il danno e l’attività di trattamento dei
dati personali pur ritenuta pericolosa conduceva al rigetto nel merito e al successivo ricorso di legittimità.
La Cassazione (sentenza 23 maggio 2016 n.10638) giunge ad affermare un diverso principio precisando che in tema di
ripartizione dell’onere della prova, al correntista abilitato a svolgere operazioni online che agisca per l’abusiva
utilizzazione delle sue credenziali informatiche, spetta soltanto la prova del danno come riferibile al trattamento del
suo dato personale, mentre la banca risponde, quale titolare del trattamento, dei danni conseguenti al fatto di non
aver impedito a terzi di introdursi illecitamente nel sistema telematico mediante la captazione dei codici d’accesso
del correntista, ove non dimostri che l’evento dannoso non gli sia imputabile perché discendente da trascuratezza,
errore o frode del correntista o da forza maggiore.
Tale ricostruzione è coerente, peraltro, anche con gli obblighi previsti in capo al prestatore del servizio di pagamento
in base ai quali se l’utente nega di aver autorizzato un’operazione, l’onere di provarne la genuinità ricade
essenzialmente sullo prestatore medesimo. E nel contempo obbliga quest’ultimo a rifondere con sostanziale
immediatezza il correntista in caso di operazione disconosciuta, tranne ove vi sia un motivato sospetto di frode, e
salva la possibilità di dimostrare che l’operazione di pagamento era stata autorizzata, con il diritto di chiedere e
ottenere dall’utilizzatore la restituzione dell’importo rimborsato.
Nel secondo caso il cliente aveva acquistato obbligazioni in adesione ad un’offerta pubblica per un prestito
obbligazionario sul mercato russo con capitale garantito. Il cliente contestava con esiti negativi dinanzi al tribunale e
poi presso la corte d’appello a Milano la clausola contrattuale in base alla quale la banca aveva cessato di
corrispondere gli interessi essendo emerso che la Russia versava in condizioni di default in relazione al suo debito
estero.
La Suprema corte (sentenza 26 luglio 2016, n. 15408) ha accolto il ricorso del cliente in quanto per la clausola
predisposta unilateralmente dalla banca e che palesemente penalizza la posizione contrattuale del risparmiatoreinvestitore la corte di appello avrebbe dovuto verificare che la stessa fosse stata negoziata separatamente ed
effettivamente.
La motivazione della corte milanese viene ritenuta apodittica in quanto si limita ad affermare l’alea implicita nel
contratto non consentendo di verificare non solo la reale volontà delle parti, ma anche la capacità di tale clausola di
alterare significativamente il sinallagma contrattuale a favore del predisponente.
In particolare, secondo i giudici di legittimità, a fronte di una clausola che attribuisce l’unilaterale potestà di
sospendere l’erogazione di interessi avrebbe dovuto essere verificata l’esistenza di un eventuale meccanismo di
riduzione degli stessi e/o di facoltizzazione del risparmiatore al rimborso anticipato del capitale.
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ANCHE LA PERSONA AFFETTA DA DISABILITÀ DEVE POTER ACCEDERE AGEVOLMENTE AL
SERVIZIO DI BANCOMAT
Corte di Cassazione, sez. III Civile, Sentenza n. 18762 del 23 settembre 2016
La Corte di Cassazione, Terza Sezione Civile, con la Sentenza in esame, ha chiarito
che la situazione di inaccessibilità a luogo privato aperto al pubblico (nella
specie, un locale adibito all'utilizzazione di un bancomat), dovuta alla presenza di
una barriera architettonica, legittima la persona disabile a ricorrere, anche nei
confronti di privati, alla tutela antidiscriminatoria ex art. 3 della legge n. 67 del
2006.
ESERCIZI COMMERCIALI: DISTANZE MINIME E CONCORRENZA
Consiglio di Stato, Sez. V, Sentenza n. 4695 dell’11 novembre 2016
Le norme sulle distanze tra gli esercizi commerciali vanno rispettate nel caso di apertura di nuovi esercizi capaci di
alterare il rapporto esistente tra negozi dello stesso genere nella zona in cui vengono insediati, ma non trovano
applicazione nel caso in cui si tratti di un semplice trasferimento di esercizio preesistente, in quanto non può
ipotizzarsi nessuna alterazione della finalità considerata, posto che nulla cambia nel rapporto tra le strutture di
vendita già operanti.
Corte di Cassazione, sez. II Civile, Sentenza n. 23521 del 18 novembre 2016
Tutte le volte in cui acquistiamo un bene che presenta dei difetti di qualità o di funzionamento abbiamo diritto allo
scioglimento del contratto (cosiddetta «risoluzione contrattuale») con restituzione dei soldi pagati, oppure alla
riduzione del prezzo. L’IMPORTANTE È CONTESTARE IL DIFETTO DEL BENE, AL VENDITORE, ENTRO 60 GIORNI
DALL’ACQUISTO.
Questa tutela non ci spetta, però, se, al momento della vendita, eravamo a conoscenza di tali vizi o essi erano
facilmente riconoscibili.
Questo principio trova ampia applicazione nel caso di vendita scontata di merce in esposizione. La merce tolta dagli
imballaggi e messa in bella mostra in vetrina, sui manichini o, comunque, all’interno del negozio per essere testata,
provata o solo visionata dalla clientela è soggetta a una maggiore usura rispetto a quella che, invece, rimane in
magazzino nelle scatole. Un’usura spesso generata solo dalla polvere o dalla luce che potrebbe impoverire il colore (si
pensi a un mobile d’arredo esposto tutto il giorno alla luce). Ebbene, proprio il fatto che la merce sia in esposizione e
venga scontata impedisce all’acquirente di recriminare, in un momento successivo, la presenza di eventuali difformità
rispetto allo stesso bene “da catalogo” rimasto inutilizzato. Il cliente deve infatti immaginare che l’esposizione al
pubblico del prodotto abbia potuto comportare dei piccoli danneggiamenti: vizi che oltre a poter essere facilmente
notati con un’attenta analisi del prodotto prima dell’acquisto, sono resi evidenti anche dalla presenza dello sconto.
Dunque, in tutti i casi in cui la merce in esposizione presenti dei difetti non è possibile sciogliere il contratto se tali
difetti erano conosciuti dall’acquirente o conoscibili con l’ordinaria diligenza.
Ma che succede se la merce viene spedita a domicilio dell’acquirente? Si pensi sempre al caso di un armadio, venduto
coi saldi proprio perché presente nella vetrina del mobilificio. In questo caso, per valutare la conoscenza o la
conoscibilità del difetto da parte dell’acquirente non si considera il momento in cui questi ha visto il prodotto nei locali
commerciali del venditore, ma quando gli viene consegnato a casa. È da questo momento – e non da quello
precedente della visione in negozio – che, se nota difetti o difformità, può far valere le sue contestazioni entro 60
giorni.
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Pag.92
L'ESISTENZA DI VIZI NELLA MERCE VENDUTA E IL TEMPO DELLA CONSEGNA
La sentenza in commento, infatti, ritiene – conformemente all’interpretazione costante della giurisprudenza – che la
«facile riconoscibilità» dei vizi della cosa venduta debba essere valutata «con riferimento non al momento della
conclusione del contratto, bensì a quello in cui il compratore abbia ricevuto la merce», poiché solo in questo
momento, e non prima, egli può «esaminare lo stato in cui essa si trova».
COGNOME DELLA MADRE AI FIGLI: IL SÌ DELLA CORTE COSTITUZIONALE
Pag.93
Via libera all’assegnazione del cognome della madre ai figli. Secondo la Corte Costituzionale, infatti, l’automatica
attribuzione del cognome del padre al figlio è illegittima: se i genitori sono d’accordo, sarà possibile dare il doppio
cognome al bambino. Se non c’è accordo, una proposta di legge in discussione dal 2014 prevedrebbe l’assegnazione
dei cognomi per ordine alfabetico.
Illegittimo dare automaticamente al figlio il cognome del padre
La nota della Corte Costituzionale, pubblicata l’8 novembre scorso in attesa del deposito della sentenza, stabilisce
chiaramente "l’illegittimità della norma che prevede l’automatica attribuzione del cognome paterno al figlio legittimo,
in presenza di una diversa volontà dei genitori".
Se entrambi i genitori vogliono dare al loro figlio il doppio cognome o il cognome della madre, dunque, saranno liberi
di farlo. Almeno in teoria. Perché attribuire automaticamente il cognome del padre è incostituzionale, ma non esiste
una legge che regoli l’argomento.
Cosa dice la legge sull’assegnazione del cognome
La legge, appunto, non si esprime sull’attribuzione del cognome paterno o materno.
Un disegno di legge che fornisce ai genitori la possibilità di assegnare al figlio entrambi i cognomi è stato approvato
dalla Camera dei Deputati nel 2014, due anni fa. Il Senato, però, non si è ancora espresso e da allora la legge non ha
più visto la luce. La sentenza della Corte Costituzionale potrebbe ora fare da catalizzatrice e spingere il Senato ad
approvare finalmente la norma.
Cosa succede se padre e madre non sono d’accordo
Ma cosa è previsto invece nel caso in cui i genitori non siano d’accordo su quale dei due cognomi scegliere?
La sentenza della Corte Costituzionale sembra suggerire che, stando così le cose, in caso di mancato accordo dei
genitori la situazione resterebbe quella "ordinaria": il bambino terrebbe il cognome del padre come stabilito dall’uso.
La Corte, intervenendo sul ricorso ricorso di una coppia italo-brasiliana che si era vista negare l’assegnazione del
doppio cognome al figlio, si è infatti limitata a stabilire che non è legittimo assegnare d’ufficio quello del padre. La
questione della scelta del cognome in caso di mancato accordo dovrà essere decisa dal Parlamento.
L’assegnazione dei cognomi per ordine alfabetico
La proposta di legge passata dalla Camera al Senato nel 2014 prevedrebbe, nel caso in cui i due genitori non siano
d’accordo sul cognome da dare al figlio, l’assegnazione per ordine alfabetico. Un criterio diverso da quello attuale e
certamente più democratico, ma per ora ancora da approvare ufficialmente. Le donne, sembrerebbe, dovranno
attendere ancora un altro po’ per vedere il loro cognome, in tutti i casi, affiancato all’anagrafe a quello del marito.
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