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E' la visita dell'Ute a Napoli alla ricerca dei tesori del barocco effettuata nel 2010.
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Il Meridione d’Italia in Epoca Borbonica
Per quasi tutto il XVI e XVII secolo il meridione d’Italia era rimasto stretto nella morsa della miseria e della
fame. La corona di Madrid aveva esercitato il suo gretto potere con avidità ed incapacità facendo precipitare
sempre più il territorio verso il degrado assoluto. Uno stuolo di Viceré si era alternato alla reggenza del regno
rendendosi protagonista di tassazioni strozzanti, ruberie, furti di opere d’arte e vessazioni di ogni genere.
Napoli, in particolare, essendo vicina allo Stato pontificio, subiva le arroganze della corona e del clero. Ogni
tentativo di ribellione era stroncato nel sangue e aveva come conseguenza imposizione di gabelle e
umiliazioni al limite di ogni sopportazione.
Dal punto di vista artistico, però, specie durante il periodo barocco, la città seppe reagire all’asfissia imposta
dai governanti con espressioni di grandi qualità in tutti i campi, dall’architettura, alla scultura, alla pittura, al
teatro, alla letteratura, costituendo il polo culturale più importante dell’impero spagnolo.
Nel 1731 arrivò in Italia, Carlo di Borbone figlio di secondo letto di Filippo V re di Spagna e di Elisabetta
Farnese. Non potendo aspirare al trono di Spagna, spettante ai figli di primo letto del re, egli fu nominato
prima, duca di Parma e Piacenza, possedimento dei Farnese, poi, alla morte dell’ultimo pretendente
Asburgico, nel 1735, Re delle Due Sicilie.
Carlo improntò subito la sua politica ad una maggiore autonomia sia dalla corona spagnola sia dal governo
temporale della Chiesa, impegnandosi fortemente per abbattere i privilegi feudali della nobiltà Borbonica. Il
Sovrano appoggiato da ministri “illuminati”, come il toscano Bernardo Tanucci e il giurista e filosofo
napoletano Gaetano Filangeri, rinnovò l’amministrazione e il fisco, attuando anche importantissime riforme
di carattere sociale. Sviluppò l’industria, favorendo il sorgere di cantieri navali, e il commercio, trasformando,
così, il porto di Napoli in uno dei più moderni e attivi del periodo.
Napoli divenne inoltre un importante centro di cultura: sorsero nuove facoltà universitarie, si fondarono
musei, si favorì lo sviluppo delle arti, del teatro, della letteratura.
Con l’apertura degli scavi di Ercolano nel 1738 e di Pompei nel 1748 la città diventò tappa obbligatoria per i
turisti del “gran tour”.
Nel 1738 Carlo sposò Maria Amalia di Sassonia, figlia del sovrano di Polonia, di soli 13 anni. Sebbene fosse un
matrimonio combinato dalla madre Elisabetta Farnese, desiderosa di dare una sposa nobile al figlio, la loro
fu un’unione felice allietata dalla nascita di dieci figli.
Carlo fu un sovrano molto amato dai Napoletani perché seppe entrare in sintonia col popolo attuando quelle
profonde riforme religiose amministrative e sociali di cui la gente aveva bisogno.
Maria Amalia assecondò l’opera rinnovatrice del sovrano favorendo soprattutto lo sviluppo dell’artigianato,
attività che per secoli aveva costituito e caratterizzato il tessuto produttivo del napoletano.
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Tra le più importanti attività artigianali: l’arte del presepe, la lavorazione del corallo, dei metalli preziosi,
della porcellana, della seta e dell’intarsio del legno.
Quando nel 1759, Ferdinando VI, ultimo figlio di primo letto di Filippo V, abdicò in suo favore, Carlo divenne
re di Spagna col nome di Carlo III, e dovette trasferirsi a Madrid lasciando il Regno delle due Sicilie ormai
autonomo e indipendente.
Napoli, in particolare, era diventata, in Europa, un faro di progresso illuminato oltre che una città ricca di
fascino e di opere d’arte di grande pregio.
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Architettura
Carlo di Borbone volle trasformare Napoli su modello delle altre capitali europee arricchendola di edifici
maestosi e possenti. Di questo periodo è la realizzazione del Teatro S. Carlo, il più grande nell’Europa del
tempo. Il teatro fu progettato da Antonio Medrano, che nello stesso periodo seguì anche i lavori della
maestosa Reggia di Capodimonte dove il sovrano fece pervenire le preziose collezioni dei Farnese, ereditate
dalla madre, che costituiscono ora il vanto del Museo.
Nel 1751 Carlo decise di realizzare una reggia che potesse competere in grandezza e splendore con quella di
Versailles. La scelta del luogo dove farla sorgere cadde su Caserta, poiché essendo la città equidistante sia
dal Vesuvio che dal mare, sembrava più sicura e protetta.
Per realizzarla il Sovrano chiamò il più famoso architetto del tempo, Luigi Vanvitelli, che in quel periodo
lavorava al Santuario della Madonna a Loreto e a Roma, dove ricopriva la carica di Architetto di S. Pietro.
Luigi Vanvitelli era figlio di Gaspar van Wittel un pittore olandese che, giunto a Roma nel 1674, aveva
ottenuto grande fama come vedutista, scegliendo in seguito di trasferirsi definitivamente in Italia e di
italianizzare il suo cognome in Vanvitelli.
Luigi Vanvitelli aveva iniziato la sua carriera come pittore, seguendo le orme paterne. In seguito si formò alla
scuola del grande Barocco romano di Bernini e Borromini, divenendo ben presto uno dei più richiesti
architetti del suo tempo.
La reggia di Caserta è costituita da un’enorme struttura rettangolare che ingloba nel suo interno due corpi
di fabbricato che si intersecano a croce formando quattro cortili uguali di oltre 3.800 metri quadrati
ciascuno. A una regolare ed equilibrata impostazione esterna corrisponde una rigorosa sistemazione degli
ambienti interni equamente distribuiti tra funzionalità ed eleganza.
La facciata principale presenta un avancorpo centrale sormontato da un frontone. All’interno un ampio
vestibolo ottagonale adorno di 20 colonne, da cui si diparte lo Scalone d’Onore con due rampe di scale
ciascuna introdotta da un possente leone. Nella parte centrale è collocata una statua del Sovrano.
La doppia rampa introduce alla Cappella Palatina, al Teatro Regio e agli appartamenti reali, tutti riccamente
decorati con dipinti e stucchi e illuminati da ampie vetrate secondo lo stile Rococò.
Il sovrano chiese che il progetto comprendesse, oltre al palazzo, un parco lussureggiante e la sistemazione
dell’area urbana circostante. La nuova Reggia doveva essere simbolo del nuovo Stato borbonico: manifestare
potenza e maestosità ma anche essere efficiente e razionale. Pertanto su progetto dello stesso Vanvitelli fu
progettato un acquedotto che avesse non solo la funzione di alimentare le fontane del parco ma anche
quello di approvvigionare di acqua la comunità di S. Leucio sede delle seterie di Corte.
I lavori per l’acquedotto iniziarono nel marzo del 1753. L’acqua, prelevata dalle falde del Monte Taburno,
giungeva a Caserta attraverso un condotto, quasi tutto interrato, di circa 38 km. Rimane ancora
miracolosamente in piedi, il pregevole ponte che congiunge il monte Logano col monte Garano. Esso si
innalza su una potente struttura a tre ordini di arcate su modello degli acquedotti Romani.
Il parco
Il parco della reggia si estende per circa 3 km di lunghezza e 120 ettari di superficie. In corrispondenza del
centro della facciata posteriore del palazzo, si dipartono due lunghi viali paralleli tra i quali si interpongono
una serie di splendide fontane ornate da gruppi scultorei raffiguranti allegorie della religione, del
matrimonio, della giustizia, dell’impegno umano. In fondo al parco troneggia una grande cascata da cui una
notevole mole di acqua precipita in un bacino arricchito dalla doppia fontana di “Diana e Atteone”,
progettata dal Vanvitelli e realizzata dai suoi collaboratori.
Nel 1759 quando Carlo partì per Madrid, i lavori della reggia non erano ancora compiuti.
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Nel 1773 morì Vanvitelli e gli successe il figlio Carlo, anche lui valido architetto che continuò l’opera
seguendo i dettami del padre, tra problemi e difficoltà.
Scultura
I più efficaci esempi della scultura napoletana del settecento si trovano riuniti nella celebre Cappella dei
Sansevero di Sangro detta “La Pietatella” che ospita un cospicuo numero di statue settecentesche di grande
valore artistico.
Nel 1749, Don Raimondo di Sangro, Principe di S. Severo, decise di far restaurare la cappella di S. Maria Della
Pietà, attigua al palazzo di famiglia, e trasformarla in un mausoleo onde esaltare il nobile lignaggio della sua
casata. A tal fine fece realizzare una serie di monumenti funebri che rappresentassero allegoricamente le
nobili virtù dei suoi avi.
Il Principe progettò personalmente l’ambiente iconografico della Cappella affidando l’esecuzione a
maestranze specializzate, mentre per la realizzazione dei monumenti funebri si avvalse della collaborazione
dei più grandi artisti del tempo, provenienti da tutta Italia.
Si tratta di straordinarie opere in marmo bianco realizzate con estrema bravura e ricchezza di particolari
tanto da rappresentare, da sole, un’antologia della scultura meridionale settecentesca.
Il veneto Antonio Corradini realizzò “La Pudicizia” la figura di una donna ricoperta da capo a piedi da un
sottilissimo velo dalla impalpabile struttura. Essa rappresenta la madre stessa del principe: Donna Cecilia
Gaetani di Aragona.
Del genovese Francesco Queirolo è lo straordinario gruppo marmoreo de “Il Disinganno”, una delle sculture
più belle mai realizzate. Ricavata da un unico blocco di marmo, rappresenta una figura maschile interamente
ricoperta da una fittissima rete di cordicelle annodate che rivela l’estro e la straordinaria abilità tecnica
dell’artista. Si fa riferimento al padre del Principe Antonio che, rimasto vedovo, si liberò del titolo di tutte le
sue sostanze per abbracciare il sacerdozio.
Giuseppe Sammartino, su bozzetto del Corradini, realizzò il famosissimo “Cristo Velato”, l’opera più
possente e straordinaria della cappella.
Su di un materasso di marmo bianco, poggiato, a sua volta, su uno zoccolo di porfido rosso, giace il corpo
esanime di Cristo interamente coperto da un sudario, di una impalpabile leggerezza e trasparenza che,
aderendo al corpo, ne evidenzia ogni particolare anatomico e mostra i segni del martirio della Croce. Qui il
virtuosismo tecnico tardo barocco raggiunge la sua più alta rappresentazione.
Del Sammartino sono anche molte delle statue che ornano il Foro Carlino una costruzione realizzata nel
1759 su progetto del Vanvitelli.
Pittura
Durante il XV e XVI secolo nonostante Napoli fosse la città più popolosa d’Italia e uno dei porti più importanti
del mediterraneo, non ci fu mai una scuola di pittura né una committenza e un mecenatismo tale da
mantenerla in vita.
I pittori emigravano a Roma dove erano continue le richieste di opere d’arte da parte degli ordini religiosi, le
grandi casate patrizie e i collezionisti privati che iniziavano a riempire di dipinti di ogni genere le loro gallerie.
Determinante per la nascita di una scuola di pittura napoletana fu il soggiorno in città di Caravaggio (16071610) che con le sue opere riuscì a coinvolgere un cospicuo numero di seguaci che costituirono proprio a
Napoli una corrente caravaggesca di grande importanza che si sviluppò, poi, lungo tutto il secolo con
un’interrotta sequenza pittori di grandissimo piano.
Ma le tendenze innovative di Caravaggio vengono presto offuscate, a Roma, dalla magniloquenza dell’arte
barocca di Pietro da Cortona e Gian Lorenzo Bernini tutta volta all’esasperata ostentazione del potere della
Chiesa.
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La necessità di un rinnovo profondo dell’arte decorativa parte proprio, a fine 600, da un rappresentante della
scuola napoletana, Luca Giordano, che con la sua pittura meno celebrativa e retorica, fresca e luminosa fatte
di colori tenui e pennellate rapide, aprirà la strada alla grande pittura del settecento veneziano da Canaletto
a Tiepolo.
Ricchi degli insegnamenti di Luca Giordano, i pittori napoletani nella prima parte del 700, furono
richiestissimi dalle corti italiane ed Europee per la loro bravura e la scenografica composizione dei loro
dipinti e dei loro affreschi.
Francesco Solimena allievo di Luca Giordano, fu il pittore che meglio ha incarnato la cultura tardo barocca
della prima metà del secolo per il suo stile teatrale e solenne, per le composizioni affollate di figure, per la
luce vivida che accende i colori ed esalta la drammaticità delle scene. Nella sua lunga e prolifera carriera egli
dipinse e affrescò le più importanti chiese di Napoli. Richiesto da tutte le corti europee, egli divenne il più
ricco e famoso pittore del tempo. Nel 1728 Carlo di Borbone lo volle per decorare alcune sale della reggia di
Caserta.
Dalla scuola del Solimena uscirono tra gli altri: Francesco De Mura e Domenico Giaquinto.
Entrambi lavorarono, oltre che a Napoli, a Roma alla corte sabauda di Torino. Giaquinto fu anche chiamato in
Spagna da Carlo III per la decorazione del Palazzo Reale di Madrid.
La loro pittura è fortemente decorativa, scenografica e ricca di personaggi secondo lo stile del Solimena. Pur
tuttavia l’impostazione cromatica di entrambi è tipicamente settecentesca, più schiarita e luminosa e le
composizioni più dolci ed aggraziate secondo lo stile rococò.
La porcellana
Nel 1743 Il re Carlo e la moglie M. Amalia fondarono all’interno della reggia di Capodimonte “La Real
Fabbrica della Porcellana di Capodimonte”.
La porcellana, scoperta in Germania agli inizi del secolo, era un composto ottenuto impastando polvere di
caolino con acqua e polvere di feldspato, un materiale legante. La cottura in forni ad altissima temperatura
dava consistenza al prodotto, fissava le decorazioni e ne conferiva il caratteristico aspetto luminoso.
Purtuttavia la porcellana di Capodimonte, poiché non esistevano nel sud dell’Italia giacimenti di caolino,
veniva prodotta impastando diverse qualità di argilla con polvere di marmo, feldspato, quarzo e altro
materiale prezioso; Il risultato era un prodotto traslucido di un bianco perlaceo, che renderà questa
manifattura unica e diversa da tutte le altre prodotte in Europa.
La fabbrica restò attiva dal 1743 al 1759 producendo servizi di piatti, vasellame artistico, statuine varie e
persino tabacchiere.
Opera di grande valore è il Salottino della Regina M. Amalia realizzato dal grande artigiano Giovanni Battista
Natali nella reggia di Portici, allora sede della Corte.
L’opera consiste in un ambiente rettangolare interamente adornato, secondo la moda del tempo da
cineserie rimandanti a favole amorose irreali e fantastiche. L’unicità del salottino è dovuta al fatto che le
decorazioni non sono realizzate in stucco o in legno dorato ma in pura porcellana bianca. Il salottino, dopo
alterne vicende, nel 1959, fu smontato e ricomposto nel museo di Capodimonte.
Quando nel 1759 la regina lasciò Napoli per diventare Regina di Spagna, condusse con sé a Madrid tutto
l’organico della fabbrica, cosicché l’attività di Capodimonte proseguì nella fabbrica del Buon Retiro, accanto
al palazzo reale.
Era inoltre fiorente, nel settecento, la lavorazione delle famose "riggiole”, piastrelle riccamente decorate in
ceramica maiolicata di cui si ha un esempio straordinario nel “Chiostro grande delle Clarisse" nel Monastero
di S Chiara.
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Realizzato nel 1739 da Domenico Antonio Vaccaro, il Chiostro è lungo 82 m e largo 78, con 72 pilastri di
forma ottagonale interamente rivestiti di piastrelle policrome decorate nei colori del giallo del verde e
dell’azzurro. Sui parapetti tra un pilastro e l’altro, sono raffigurate scene di vita quotidiana La chiesa fu
gravemente danneggiata durante i bombardamenti del 1943, ma il chiostro è rimasto miracolosamente
integro.
I tessuti
Carlo, su consiglio del ministro Tanucci, pose le basi per creare a Napoli una fabbrica di tessuti moderna e
qualitativamente competitiva con le più famose di Olanda e Francia. Dopo la sua elezione a re di Spagna, il
suo progetto fu perfezionato e portato a termine dal figlio Ferdinando IV che, nel 1778, istituì a S. Leucio
accanto alla reggia di Caserta la “Reale comunità di San Leucio” un esempio straordinario di efficienza
tecnologica e organizzazione sociale.
Su progetto dell’architetto Francesco Collecini furono costruite delle casette per gli operai secondo le più
avanzate regole urbanistiche dell’epoca tutte fornite di acqua corrente e servizi igienici. Fu garantita per la
prima volta, ai figli degli operai, l’istruzione gratuita e obbligatoria dall’età dei sei anni con l’insegnamento di
tutte le materie tradizionali compresa la matematica, la letteratura e la geografia.
Sorse la prima scuola di formazione maschile e femminile che dava anche la possibilità ai giovani di
soggiornare all’estero per perfezionare le proprie competenze. Le paghe erano eguali per tutti,
indipendentemente dal sesso e dalla gerarchia dei lavori. Era abolita la proprietà privata, e ciascun
lavoratore doveva versare una parte del suo guadagno in una “cassa di carità” istituita per aiutare le famiglie
in caso di bisogno. Inoltre era garantita assistenza agli anziani e agli infermi e un periodo di riposo per le
puerpere.
Per ottenere produzioni tessili qualitativamente all’avanguardia, alle maestranze locali furono affiancati
maestri artigiani provenienti da tutta Europa che volentieri arrivavano a Napoli attirati non solo da un lavoro
sicuro, ma dalle vantaggiose condizioni sociali che S. Leucio offriva.
La colonia crebbe rapidamente, furono costruite nuove palazzine e introdotti macchinari e telai,
tecnicamente avanzati, per la produzione delle sete. I tessuti di S. Leucio erano richiestissimi da tutte le corti
europee per la bellezza dei disegni, i colori e la lucentezza della seta.
Le seterie di S. Leucio continuarono a produrre tessuti fino all’Unità d’Italia (1861) quando il regno di Napoli
passò nelle mani dei Savoia.
Il Presepe
A Napoli l’amore per il presepe, affonda le radici nella sua stessa storia. Si hanno notizie di rappresentazioni
della Natività sin dagli inizi del 1300. Nel 1500 si cominciarono ad abbozzare statuine in legno o in terracotta
destinate principalmente a chiese o conventi.
Nel primo ventennio del 600 il presepe si sviluppò notevolmente arricchendosi di personaggi e di ambienti
diversi dalla semplice capanna. Le figure incominciarono ad essere realizzate con il viso e gli arti in terracotta
ma con un’anima di fil di ferro coperta di stoppa affinché i personaggi potessero assumere più facilmente
delle pose plastiche. I manichini quindi venivano rivestiti e addobbati secondo la moda barocca, con abiti
confezionati con stoffe preziose, di eccellente fattura e curati in ogni piccolo particolare.
Fu solo, però, nel 1700 che si sviluppò la vera teatralità del presepe napoletano: nel Presepe trovarono
posto, oltre che personaggi e ambienti della quotidianità, spettacolari paesaggi talvolta arricchiti da colonne
e resti archeologici. Ben presto la moda si diffuse fuori dai luoghi di culto e nobili e ricchi borghesi facevano a
gara per allestire nelle loro dimore impianti scenografici sempre più ricercati. Pertanto tutti gli scultori del
tempo si cimentarono in quest’arte incoraggiati dallo stesso Sammartino che diede vita, in quegli anni, ad
una vera e propria scuola di artisti di presepi.
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La Sicilia
Architettura
L’architettura Barocca in Sicilia si era già manifestata negli ultimi decenni del 600 sull’eco del grande barocco
romano ma si affermò in modo originale e definitivo solo nei primi decenni del 700 dopo il rovinoso
terremoto del 1693, che colpì la parte sud orientale dell’isola procurando la morte di migliaia di persone e la
distruzione di interi paesi e città.
In seguito al sisma la ricostruzione fu rapidamente avviata dal Viceré del tempo, Giuseppe Lanza, Duca di
Camastra, il quale fece arrivare in Sicilia da ogni parte d’Italia uno stuolo di architetti, ingegneri, scultori,
scalpellini che in poco tempo, avvalendosi nei lavori delle maestranze locali, riuscirono in pochi anni a far
rinascere il territorio devastato.
In molti casi si preferì ricostruire in zone più alte per realizzare nuove città più moderne e funzionali, (Noto,
Ragusa). In altre città si abolirono interi quartieri semi distrutti per dare posto a strade più larghe e ad edifici
e chiese riccamente decorate secondo lo stile imperante. (Catania, Scicli, Modica)
La struttura urbanistica scelta fu prevalentemente quella a scacchiera con perfetta simmetria tra direttive
orizzontali e verticali, con costruzioni basse e intervallate da grandi piazze, che avrebbero costituito un sicuro
rifugio, facilmente raggiungibile in caso di terremoto.
Gli architetti, quasi tutti formatisi a Roma alla scuola di Fontana e Bernini, realizzarono città simili a spazi
teatrali con palazzi e chiese dalle pareti ondeggianti ricche di cornicioni dalle straripanti decorazioni che
aprivano gallerie prospettiche di grande effetto. Questo nuovo stile architettonico trovò subito il favore della
spagnoleggiante aristocrazia isolana e del clero e si diffuse rapidamente cambiando il volto delle antiche
città.
Il barocco siciliano, però, grazie anche alle influenze locali, si distaccò ben presto dallo stile del continente
per assumere caratteristiche ben precise sia nella realizzazione degli edifici religiosi che delle numerose
dimore patrizie.
Le chiese siciliane accentuano le linee del barocco tradizionale e esibiscono costruzioni dalle geometrie
complesse con facciate riccamente decorate e precedute da ampie cancellate in ferro battuto (Chiesa della
Collegiata - Catania).
Il campanile di solito non è staccato dalla chiesa ma conglobato nella facciata, generalmente poggiato su un
alto timpano. L’introduzione di ampie e sontuose scalinate servì agli architetti per attenuare i dislivelli e
creare ampie visioni scenografiche. (S Giorgio a Modica, Chiesa di S. Francesco -Noto).
I palazzi furono progettati quasi tutti con un ingresso laterale sormontato da un arco per l’ingresso per le
carrozze e, all’interno, un cortile con ampi scaloni che conducevano ai piani nobili. Molto usato il bugnato
ornato da grottesche, putti, decorazioni di frutti, fiori ed elementi fantastici. Straordinario esempio del
barocco siciliano Palazzo Biscari a Catania,, Palazzo Beneventano a Scicli, Palazzo Nicolaci a Noto con
cornicioni e balconi dalla fantasia esuberante, Villa Palagonia a Bagheria con più di 200 statue di nani e
mostri.
Catania semidistrutta dal sisma fu interamente ricostruita, con strade larghe parallele da Nord a Sud e da Est
a Ovest arricchite da slarghi e piazze.
Nel 1730, chiamato dal vescovo della città, arrivò a Catania Gian Battista Vaccarini, l’architetto più
importante del periodo. Egli, ricco delle idee architettoniche di Bernini e Borromini, le applicò alla città in
modo esasperato creando facciate ora concave ora convesse arricchite da colonne, architravi spezzati,
decorazioni di ogni tipo, creando uno stile che fu subito imitato dagli architetti nella ricostruzione di molte
città Siciliane.
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Sua è la ricostruzione del Duomo di Catania e la progettazione della piazza antistante con la famosa fontana
dell’Elefante e il Palazzo Comunale armoniosamente concepiti in un alternanze di toni dal nero al grigio
dovuti al colore della pietra lavica adoperata per la costruzione degli edifici.
Una delle strade più rappresentative del Barocco Catanese è Via dei Crociferi, dove, più che in ogni altro
posto, urbanistica, architettura e scultura si fondono in una visione prospettica globale e scenografica che ha
inizio con un arco a tutto tondo e si conclude con l’ingresso poderoso di Villa Cerami. All’interno un
susseguirsi di Chiese e conventi arricchiti da grate e balconcini di stile spagnoleggiante.
Parallelamente a Ragusa e Noto operò il brillante architetto Rosario Gagliardi che sperimentò uno stile
scenografico volto a creare stupore e meraviglia. Sua è la realizzazione del maestoso Duomo di San Giorgio a
Ragusa Ibla che troneggia con la sua possente mole su una imponente scalinata di 250 gradini.
La facciata, col campanile incorporato, è scandita da colonne e da pilastri che assecondano l’ondeggiare delle
pareti animate, a loro volta, da finestre e balaustre elegantemente decorate.
Egli ebbe la felice intuizione di spostare il sito della chiesa a sinistra della grande piazza per rendere visibile
attraverso, un ardito gioco prospettico, l’enorme cupola progettata al centro della navata e realizzata, però,
soltanto un secolo dopo.
Noto, subito dopo il terremoto fu ricostruita, a circa 8 Km più a nord rispetto al sito originario.
Alla sua realizzazione parteciparono decine di architetti tra cui Rosario Gagliardi e un nugolo di artigiani
scultori e scalpellini che in poco tempo fecero di Noto “la perfetta città barocca” come i critici amano
definirla. Le vie della città sono intervallate da originali piazzette e ardite scalinate che raccordano terrazze e
dislivelli. Le decorazioni sono armoniosamente inserite nelle pareti curvilinee degli edifici religiosi e dei
palazzi creando scenografiche prospettive. Imponente il Duomo che si erge sulla sommità di un’ampia
scalinata a tre rampe che occupa l’intera piazza sottostante.
L’interno maestoso, a tre navate, racchiude opere d’arte di immenso valore riportate dalla Noto antica.
Scultura
La scultura barocca in Sicilia si identifica con la straordinaria arte in stucco di Giacomo Serpotta, senza
dubbio, il più grande scultore italiano del 700, prima del Canova.
La lavorazione dello stucco, usato fin dall’antichità, raggiunse il suo momento d’oro nel periodo barocco e
poi in quello Rococò come elemento di decorazione sia nei luoghi di culto che nei sontuosi palazzi dell’alta
aristocrazia europea. Nelle chiese veniva adoperato per arricchire le pale di altare con pannelli in basso e
alto rilievo, colonnine tortili, nuvole, angeli etc. Nelle dimore patrizie serviva a decorare soffitti, vetrate,
ambienti particolari, sovrapporte, cornicioni diventando così, al pari dell’elemento scultoreo, parte
integrante nella progettazione di interni.
Con Serpotta, lo stucco, dalla categoria artigianale a servizio dell’architettura e della scenografia, passò ad
espressione possente di pura arte. Infatti l'uso dello stucco per Serpotta non fu un espediente tecnico, ma
un’intima necessità dell’artista che, attraverso questa materia plasmabile riuscì ad esprimere la visione della
sua arte fatta di movimento, eleganza e gioia di vivere. Il suo segreto fu anche quello di unire al composto
tradizionale la polvere di marmo che rendeva le superfici traslucide e levigate.
Giacomo Serpotta iniziò la sua carriera come scultore realizzando due statue per il duomo di Palermo e una
statua di Carlo di Borbone per la piazza del Duomo a Messina. Ma la sua fama è legata principalmente alla
realizzazione di alcuni oratori nella città di Palermo.
Gli oratori erano anche le sedi istituzionali di rappresentanza delle varie confraternite, le quali, essendo
semplici aggregazioni di fedeli senza vincoli religiosi, avevano bisogno di un luogo di culto ove poter pregare
o espletare i loro doveri comunitari.
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Le Confraternite non possedevano grandi ricchezze e quindi non potevano permettersi marmi o materiali
preziosi. Esse trovarono nello stucco un materiale facilmente reperibile e poco costoso e in Serpotta l’artista
poliedrico e fantasioso che sapeva realizzare, con tale materiale, maestose e preziose rappresentazioni.
D’altra parte il Serpotta nell’oratorio usufruiva di uno spazio autonomo tutto a sua disposizione per
organizzare, con mirabile regia, una festosa e organica rappresentazione scenica.
Tutte le figure, infatti, concorrono a creare un’unità stilistica, un accordo armonioso quasi naturale sia dal
punto di vista dell’eleganza formale sia da quello della narrazione iconografica prescelta.
Tutte le sue realizzazioni, siano esse festoni o angeli o figure muliebri, testimoniano, oltre che la sua squisita
arte di modellatore, una capacità di ricreare, all’interno dello spazio, un’atmosfera gioiosa e vibrante.
Il suo primo capolavoro fu la realizzazione dell’ Oratorio del Rosario di S. Cita a Palermo, eretto a ricordo
della protezione miracolosa della Madonna nella Battaglia di Lepanto del 1571.
Lungo le pareti, le fasce in stucco rappresentano i Misteri del SS. Rosario mentre le finestre sono incorniciate
da figure allegoriche rappresentanti le Virtù; il tutto in un tripudio di putti che piangono, ridono, giocano,
leggono, si arrampicano esprimendo sempre, con vivacità di linguaggio, la gaiezza e l’ingenuità dell’infanzia.
Al centro uno splendido bassorilievo che ricorda la battaglia di Lepanto e, seduti sulle cornicine, due figure di
ragazzi macilenti che simboleggiano gli orrori della guerra. Qui il decoratore diventa lo scultore a tutto
tondo, con figure autonome sporgenti e rientranti dai cornicioni e dalle nicchie che arricchiscono le pareti
dell’Oratorio.
Serpotta dal 1699 al 1717, si dedicò alla decorazione dell’Oratorio dei Santi Lorenzo e Francesco, dove,
secondo i critici, la sua arte raggiunge la vetta più alta.
La costruzione risalente alla fine del 500 rimarca lo schema tipico dell’oratorio con la doppia funzione
liturgica e sociale e il netto contrasto architettonico tra l’esterno semplice e lineare e l’interno fortemente
decorato.
Nel 1609, durante il suo soggiorno in Sicilia, Caravaggio dipinse, su incarico delle confraternite, la bellissima
pala di altare Natività con i Santi Lorenzo e Francesco e la decorazione fu realizzata in funzione di questo
splendido dipinto che, perfettamente conservato per più di tre secoli, fu rubato nel 1969 e non più trovato.
Nella decorazione di questo ambiente il Serpotta raggiunge uno splendido equilibrio tra la ricchezza
inventiva dei primi anni e la consolidata tecnica esecutiva della maturità.
E’ un’opera straordinaria, di squisita fattura ricca di immagini e figure, dove agli otto pannelli in bassorilievo
rappresentanti la vita dei due santi, si accostano statue muliebri a tutto tondo raffiguranti le virtù. Il tutto
arricchito da stuoli di putti festanti impegnati nelle più varie attività.
Naturalmente per le sue realizzazioni il Serpotta si avvaleva di uno stuolo di artigiani e collaboratori tra cui il
fratello Giuseppe e il figlio Procopio il quale più di tutti seppe continuare la sua opera dopo la morte del
padre che avvenne nel 1732.
Per quanto riguarda la pittura la Sicilia, pur gravitando nell’area borbonica, non produsse, nel 700, figure di
grande rilievo. I pittori, imbrigliati, nell’imitazione di modelli barocchi non seppero raggiungere espressioni
autonome e originali degne di nota.1
19 gennaio 2015
Pinuccia Roberto Indovina
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