La riduzione della frequenza cardiaca nel trattamento dell

RASSEGNE
La riduzione della frequenza cardiaca nel trattamento
dell’insufficienza cardiaca. Aspetti clinici e strategie terapeutiche
Maria Teresa La Rovere
Divisione di Cardiologia, Istituto Scientifico di Montescano
Fondazione Salvatore Maugeri, IRCCS - Pavia
Riassunto
La riduzione della frequenza cardiaca rappresenta un importante obiettivo della terapia dell’insufficienza cardiaca. Infatti
esiste una correlazione lineare fra elevata frequenza cardiaca a riposo e mortalità cardiovascolare nei pazienti con scompenso cardiaco e l’entità del beneficio ottenuto dalla terapia beta-bloccante è proporzionale all’entità della riduzione della
frequenza cardiaca. La riduzione della frequenza cardiaca risulta pertanto un meccanismo chiave attraverso cui i betabloccanti migliorano la disfunzione ventricolare sinistra e la prognosi. Il controllo diretto della frequenza cardiaca mediante farmaci ad azione bradicardizzante “pura” o mediante la stimolazione vagale presenta basi razionali e consolidate evidenze sperimentali. Uno studio attualmente in corso chiarirà il benefico clinico dell’inibizione diretta del nodo del seno in
pazienti con scompenso cardiaco sistolico.
Summary
Heart rate reduction is an imporant target of heart failure treatment. Increased heart rate is linearly related to cardiovascular mortality in patients with heart failure. Beta blockers improve cardiac function and prolong survival in patients with
heart failure. The extent of benefit of beta-blocker treatment in heart failure is closely related to heart rate reduction. Thus,
a major contributor to the clinical benefit of beta-blockers in heart failure appears the heart rate lowering effect of these
agents. Therapeutic attempts focused on direct control of heart rate by means of direct sinus node inhibition or direct
vagal stimulation have a good rationale and experimental evidence. An ongoing study will address the clinical benefit of
direct sinus node inhibition in patients with heart failure and left ventricular systolic dysfunction.
Parole chiave: Riduzione della frequenza cardiaca, Insufficienza cardiaca, Beta-bloccanti
Key words: Heart rate reduction, Heart failure, Beta-blocker treatment
L
a letteratura medica degli ultimi 30 anni ha progressivamente riconosciuto il ruolo della frequenza cardiaca come predittore di rischio di mortalità totale e cardiovascolare nella popalazione generale e nel contesto di numerose condizioni patologiche: dalla malattia coronarica, all’infarto miocardico, allo scompenso cardiaco.
In alcuni contesti la forza di questa associazione e le
evidenze sempre più consistenti sul ruolo patogenetico della frequenza cardiaca, hanno aperto la possibilità di considerare la frequenza cardiaca uno specifico target terapeutico1.
Aspetti clinici
Numerosi studi epidemiologici, che complessivamente coinvolgono una popolazione di oltre 100.000
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soggetti senza malattia cardiovascolare nota, prevalentemente di sesso maschile e seguiti per un tempo
variabile dai 5 ai 36 anni, forniscono una consolidata evidenza del contributo indipendente della frequenza cardiaca alla mortalità cardiovascolare: il
rischio di morte (inclusa la morte per malattia coronarica che è la causa di gran lunga più frequente)
aumenta, indipendentemente dal sesso e dalla razza,
in relazione all’aumentare della frequenza cardiaca
a riposo2.
In pazienti con infarto miocardico acuto la frequenza cardiaca è un predittore indipendente non solo di
aumentata mortalità intraospedaliera ma anche di
eventi fatali successivi alla dimissione nelle ampie
casistiche degli studi GUSTO3 e GISSI4. Nell’ampio
data-base elettrocardiografico degli studi GISSI è di
particolare interesse l’osservazione che, sebbene
l’uso del beta-bloccante (in un terzo dell’intera po-
Per la corrispondenza: [email protected]
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polazione) sia associato all’attesa bradicardizzazione, tuttavia la linearità della relazione fra frequenza
cardiaca pre-dimissione e mortalità a 6 mesi non
viene influenzata dalla presenza o meno di tale trattamento.
Nell’ambito dei pazienti con scompenso cardiaco la
frequenza cardiaca gioca un ruolo importante nella
stratificazione prognostica che, in questi pazienti,
implica anche la definizione e temporizzazione di
una indicazione trapiantologica. La frequenza cardiaca è, infatti, uno dei sette parametri che costituiscono lo Heart Failure Survival Score ottenuto e
validato da una analisi che testava il valore prognostico di 80 variabili cliniche5. La frequenza cardiaca
a riposo emergeva fra i parametri significativi anche
in presenza di parametri di emodinamica invasiva.
Nello studio CIBIS è stata valutata la relazione fra
frequenza cardiaca basale e mortalità a 12 mesi. Sia
nel gruppo di trattamento che nel gruppo placebo si
osservava una relazione lineare fra il valore di frequenza cardica basale (in terzili: 울 72, fra 72 e 울 84
e > 84 bpm) e mortalità6.
In un altro modello predittivo “The Seattle Heart Failure Model Prediction of Survival in Heart Failure”7,
la frequenza cardiaca non appare più come fattore
prognostico. Non è chiaro quanto l’uso estensivo
della terapia beta-bloccante possa avere limitato il
potere predittivo della frequenza cardiaca poiché lo
Heart Failure Survival Score, sviluppato in epoca
pre beta-bloccante, mantine il suo potere discriminante indipendentemente dalla terapia8.
Non solo la mortalità, ma anche la frequenza delle
reospedalizzazioni è legata alla presenza di una frequenza cardiaca elevata9. Il ruolo critico della frequenza cardiaca verso le ospedalizzazioni è confermato anche da dati recenti che derivano dal braccio
placebo dello studio BEAUTIFUL10 in pazienti con
disfunzione ventricolare sinistra. Infatti, in questa popolazione esiste una linearità di rischio tra aumento
della frequenza cardiaca ed eventi, con un aumento
dell’8% della mortalità cardiovascolare per ogni incremento di 5 battiti della frequenza cardiaca e con
un incremento del 16% delle ospedalizzazioni per
scompenso cardiaco, sempre per ogni incremento di
5 battiti della frequenza cardiaca.
Un aspetto critico della relazione fra elevata frequenza cardiaca ed eventi cardiovascolari riguarda
la definizione del rischio addizionale determinato
dalla tachicardia in presenza di una cardiopatia nota.
Poiché la tachicardia secondaria ad attivazione sim-
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patica rappresenta uno dei primi meccanismi compensatori che entrano in gioco in presenza di disfunzione contrattile, la relazione fra frequenza cardiaca
e eventi potrebbe essere facilmente ascrivibile alla
relazione fra frequenza cardiaca e danno miocardico
conseguente alla cardiopatia di base. Tuttavia, numerose evidenze suggeriscono che, sebbene il meccanismo della tachicardia sia effettivamente riconducibile (e talora proporzionale) al danno funzionale, le conseguenze fisiopatologiche negative della
tachicardia siano tali da superare l’eventuale beneficio emodinamico e divenire esse stesse responsabili
dello sviluppo di morbilità e mortalità.
La frequenza cardiaca influenza vari aspetti della
funzione cardiaca. È un determinante del consumo
di ossigeno e della domanda metabolica11, 12, in presenza di stenosi critica coronarica l’aumento di frequenza cardiaca aumenta l’entità dell’ischemia miocardica e l’estensione dell’area infartuale13. Inoltre,
lo stress emodinamico, relato alla tachicardia, può
favorire la instabilizzazione di una placca coronarica vulnerabile14. Tuttavia, è importante riconoscere
che il determinante patogenetico degli effetti metabolici ed emodinamici della tachicardia è rappresentato dalla iperattivazione adrenergica che sottende la
tachicardia. Infatti, sebbene numerosi fattori possano influenzare la frequenza cardiaca (tra cui l’età, il
peso, il fumo di sigaretta, la temperatura corporea,
lo stiramento atriale), è indubbio che siano i fattori
nervosi, sia di natura centrale che riflessa, a giocare
un ruolo maggiore nel determinare la frequenza cardiaca a riposo. In condizioni di normalità la frequenza cardiaca a riposo è prevalentemente sotto il
controllo parasimpatico. Infatti, il blocco vagale mediante atropina produce un consistente incremento
della frequenza cardiaca mentre la somministrazione di propranololo produce soltanto una modesta
riduzione15. Le malattie cardiovascolari, in particolare l’infarto miocardico e lo scompenso cardiaco, si
associano spesso ad una alterazione dei meccanismi
nervosi di controllo, che risulta in una riduzione
della tonica inibizione dell’attività efferente simpatica, con conseguente sbilanciamento della fisiologica interazione simpato-vagale verso una cronica attivazione adrenergica.
In relazione agli effetti deleteri della frequenza cardiaca non deve essere dimenticato il quadro della
“tachicardiomiopatia”, termine utilizzato per descrivere il quadro di disfunzione ventricolare sinistra
conseguente ad una tachiaritmia ad elevata frequen-
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za, reversibile con l’interruzione dell’aritmia16.
Molteplici ragioni rendono importante la comprensione degli effetti della frequenza cardiaca nei
pazienti con scompenso cardiaco. Innanzitutto, definire il livello “soglia” di frequenza cardiaca che
compromette la funzione miocardica del paziente
scompensato potrebbe permettere di ottimizzare il
trattamento. Inoltre, per i pazienti – sempre più
numerosi – che vengono sottoposti a pacing non è
nota la frequenza ottimale di pacing. Un gruppo di
13 pazienti sottoposto a pacing è stato randomizzato per due mesi a differenti frequenze di stimolazione: 60,75,90 bpm17 ed è stato valutato l’impatto
sulla frazione di eiezione, picco di consumo di ossigeno e test dei 6 minuti. La frequenza di stimolazione più elevata induceva un importante deterioramento clinico, che si quantificava in una riduzione
significativa della frazione di eiezione e del picco di
VO2. La riduzione della performance risultava meno
rilevante, seppur presente, nel passaggio da 60 a 7075 battiti, valore che potrebbe essere considerato
come cut-off.
Strategie terapeutiche
In relazione alle implicazioni terapeutiche, un aspetto fondamentale è la distinzione fra la dimostrazione di una associazione biologica fra un determinato
fattore di rischio e la prognosi a distanza e la dimostrazione pratica che il marker suddetto possa essere utilizzato per identificare i pazienti che possano
beneficiare di uno specifico trattamento. La relazione lineare fra riduzione della frequenza cardiaca e
miglioramento della prognosi, osservata in numerosi trials clinici in pazienti con scompenso cardiaco,
sostiene fortemente il concetto che la frequenza cardiaca eserciti effetti negativi nel cuore scompensato18. Infatti, i farmaci ad azione inotropa, che nonostante benefici effetti emodinamici incrementano la
frequenza cardiaca, hanno invece prodotto un incremento della mortalità nel trattamento a lungo termine. Ad es. il milrinone, un inibitore delle fosfodiesterasi, nello studio PROMISE, in pazienti con scompenso cardiaco severo, determinava un incremento
del 34% della mortalità cardiovascolare in un follow-mediano di 6 mesi, rispetto al gruppo di controllo19.
Anche per farmaci non dotati di uno specifico effetto sulla frequenza cardiaca, quali gli ace-inibitori,
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la riduzione di mortalità si associava ad una riduzione della frequenza cardiaca18. Una interessante sottoanalisi dello studio GESICA20 mostra come, nei
pazienti con frequenza cardiaca basale superiore a
90 bpm, l’amiodarone riduce la mortalità per tutte
le cause rispetto ai soggetti di controllo. È evidente,
però, che il peso della relazione tra riduzione della
mortalità e riduzione della frequenza cardiaca sia
sostenuto in massima parte dai beta-bloccanti.
Nello studio CIBIS, l’ampiezza della riduzione di
frequenza cardiaca, dopo i primi due mesi di trattamento, correla in modo lineare con la riduzione del
rischio di morte e risulta il predittore di sopravvivenza più significativo21.
I differenti aspetti della relazione fra frequenza cardiaca e mortalità risultano in parte contraddittori fra
i vari studi: in alcuni trials è predittiva la frequenza
basale, in altri la variazione di frequenza dopo un
certo periodo di trattamento ed in altri ancora solo la
frequenza raggiunta a terapia ottimizzata. Una recente metanalisi22 che comprende un insieme di
circa 19.000 pazienti dimostra che la relazione tra
variazioni di frequenza cardiaca e riduzione del
rischio relativo di morte ha una significatività di tipo
borderline, mentre molto significativa risulta la relazione tra il valore assoluto di frequenza cardiaca
raggiunto in corso di terapia con beta-bloccante e la
riduzione della mortalità annualizzata. Ampiamente
significativo risulta anche l’impatto della riduzione
di frequenza cardiaca sul miglioramento della funzione ventricolare sinistra, valutata in termini di frazione di eiezione. Se il target della terapia beta-bloccante nello scompenso debba essere rappresentato
dalla riduzione di frequenza cardiaca o dalla dose di
farmaco rappresenta l’oggetto di una ampia controversia23.
Dall’analisi dei dati precedentemente esposti emerge un importante quesito fisiopatologico in merito ai
meccanismi sottostanti i benefici clinici dei betabloccanti nello scompenso sistolico: la riduzione
della frequenza cardiaca è un meccanismo chiave
attraverso cui i beta-bloccanti migliorano la disfunzione ventricolare sinistra e la prognosi oppure la
riduzione della frequenza cardiaca è solo un epifenomeno dell’efficacia del beta-blocco? Una possibile risposta a questo interrogativo è fornita da un
modello sperimentale di scompenso da insufficienza
mitralica nel cane24. A tre mesi dall’induzione di
insufficienza mitralica, in condizione di scompenso
cardiaco stabilizzato, gli animali da esperimento
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vengono randomizzati a terapia beta-bloccante
oppure, a terapia beta bloccante+pacing alla frequenza rilevata precedentemente all’instaurazione
della terapia beta-bloccante. Un terzo gruppo di animali viene utilizzato come controllo degli effetti
deleteri della tachicardia in quanto non viene sottoposto ad induzione dell’insufficienza mitralica, ma
al solo pacing alla stessa frequenza di stimolazione
del gruppo di animali scompensati. All’analisi della
contrattilità in vivo, attraverso la relazione stressvolume, in entrambi i gruppi di animali, dal momento iniziale al momento in cui viene sviluppato lo
scompenso, si osserva una riduzione della contrattilità che, però, recupera negli animali che sono stati
sottoposti a beta-blocco, a differenza di quelli che,
nonostante la terapia con beta-blocco, mantengono
una frequenza cardiaca elevata a causa del pacing.
Infine, l’analisi negli animali di controllo (non sottoposti all’intervento di induzione di insufficienza
mitralica ma solo al pacing) evidenziava un trend di
riduzione sia della frazione di eiezione che della
contrattilità, ma non significativo in quanto il numero di animali era abbastanza limitato. Una ulteriore
conferma all’ipotesi che l’effetto bradicardizzante
dei beta-bloccanti di per sé rappresenti il meccanismo più importante degli effetti sulla funzione ventricolare sinistra, deriva da uno studio clinico in cui
soggetti con scompenso cardiaco sistolico, già in
terapia beta-bloccante, venivano sottoposti a pacing
a due differenti frequenze di stimolazione: 80 e 60
bpm25. Nei soggetti sottoposti a pacing ad elevata
frequenza di stimolazione si osservava un rimodellamento sfavorevole con incremento dei volumi
ventricolari e riduzione della frazione di eiezione,
mentre i volumi ventricolari si riducevano e la frazione di eiezione incrementava nei soggetti sottoposti alla frequenza di pacing di 60 bpm.
Al di là del beta-blocco, altre modalità terapeutiche,
sia farmacologiche che non, sono state valutate sia
in termini sperimentali che clinici, in soggetti con
disfunzione ventricolare sinistra e scompenso cardiaco.
Una possibilità di riduzione della frequenza cardiaca non mediata dal beta-blocco è rappresentata da
farmaci ad azione bradicardizzante “pura”, ad esempio l’ivabradina, un inibitore selettivo della corrente I(f) che esercita una modulazione dell’attività del
nodo del seno26. In un modello sperimentale di scompenso, la somministrazione a dosi crescenti di ivabradina riduceva progressivamente la frequenza car-
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diaca cui si associava un aumento della frazione di
accorciamento del ventricolo sinistro27. Il trattamento a lungo termine produceva anche modificazioni
strutturali, dovute ad una riduzione della quantità del
collagene e della noradrenalina plasmatica. Pertanto,
il miglioramento della funzione ventricolare era interpretabile non solo come conseguente alla semplice riduzione della frequenza cardiaca di per sè, ma
anche a modificazioni della matrice extracellulare
e/o della funzione dei miociti secondarie alla riduzione a lungo termine della frequenza cardiaca. Gli
effetti della somministrazione acuta di ivabradina
sono stati valutati in un gruppo di 10 pazienti con
scompenso cardiaco avanzato (classe NYHA III),
frazione di eiezione marcatamente depressa (21 ±
7%) e frequenza cardiaca basale superiore a 80
bpm28. I pazienti, sotto monitoraggio emodinamico
protratto per 24 ore, sono stati sottoposti ad infusione endovenosa di ivabradina della durata di 3 ore.
L’ivabradina riduceva in modo significativo la frequenza cardiaca fino ad un massimo del 27% a 4 ore
in assenza di modificazioni dell’indice cardiaco, ma
con un incremento dello stroke volume fino ad un
massimo del 51% a 4 ore. Dati relativi all’efficacia
della somministrazione cronica, in soggetti scompensati, non sono ancora disponibili ma saranno
presentati a breve i risultati dello studio SHIFT che
ha arruolato pazienti con scompenso cardiaco cronico in classe NYHA II-IV, in terapia ottimizzata, e
frequenza a riposo superiore a 70 bpm, nonostante il
beta-blocco29. I dati dello studio BEAUTIFUL30,
condotto su pazienti coronaropatici con sola disfunzione ventricolare sinistra, non mostrano una significativa differenza in termini di mortalità e morbilità
cardiovascolare rispetto alla popolazione di controllo. Differenze significative si osservavano, invece,
nel sottogruppo di pazienti con frequenza cardiaca
superiore a 70 bpm, in termini di ospedalizzazione
per infarto fatale e non-fatale e procedure di rivascolarizzazione.
Poiché l’attivazione adrenergica rappresenta un meccanismo che, inizialmente compensatorio, sostiene
poi la progressione dello scompenso, una logica
ipotesi è che un incremento – strumentalmente indotto – dell’attività vagale possa ripristinare un più
fisiologico bilancio nervoso e quindi attenuare gli
effetti maladattativi dell’iperattività simpatica.
L’ipotesi è stata testata inizialmente a livello sperimentale in un modello di scompenso cardiaco postinfartuale nel ratto31. Gli animali da esperimento
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venivano instrumentati con un device che stimolava
il nervo vago di destra e veniva eseguita una valutazione emodinamica e del profilo neuroormonale, sia
in condizioni di base che dopo sei settimane di trattamento attivo o placebo. Un terzo gruppo di animali, non scompensati né stimolati, rappresentava il
gruppo di controllo. Nel corso delle sei settimane di
osservazione, negli animali di controllo e negli animali scompensati ma non stimolati, non si osservava alcuna modificazione significativa della frequenza cardiaca che, invece, si riduceva già dopo una settimana di trattamento e continuava a decrescere
nelle settimane successive negli animali sottoposti a
stimolazione vagale. La riduzione della frequenza
cardiaca si associava ad un beneficio emodinamico
e del profilo neuroormonale con una riduzione della
pressione tele-diastolica e un incremento del dP/dt,
che risultavano rispettivamente aumentata e depresso dopo l’induzione dell’infarto miocardico ed una
riduzione della norepinefrina e del peptide natriuretico atriale.
La stimolazione vagale è risultata fattibile, sicura e
ben tollerata anche nell’uomo32. La prima esperienza clinica è stata condotta su 8 pazienti, severamente compromessi, con frazione di eiezione media del
24%, di cui 7, precedentemente candidati a trapianto cardiaco, erano stati sospesi dalla lista per controindicazioni o rifiuto. Sette pazienti erano in terapia con beta-bloccante. La procedura di impianto,
effettuata in anestesia locale, consisteva nell’isolamento del nervo vago a livello del quale veniva posizionato un elettrodo stimolatore, mentre lo stimolatore veniva posizionato a livello toracico. I pazienti
venivano ricontrollati ad 1, 3 e 6 mesi dall’inizio
della stimolazione. Accanto ad un importante miglioramento della classe NYHA e della qualità della
vita, si osservava anche una significativa riduzione
dei volumi ventricolari con un trend di incremento
della frazione di eiezione.
Fra le modalità non farmacologiche di controllo
della frequenza cardiaca è importante ricordare il
ruolo del training fisico. Una recente metanalisi
degli studi che hanno valutato l’efficacia del training fisico controllato in pazienti con scompenso
mostra effetti positivi, sia in termini di mortalità
totale che in termini di morte o ospedalizzazioni33.
Uno degli effetti del training fisico è la riduzione
della frequenza cardiaca, sia attraverso un meccanismo di inibizione simpatica sia mediante un potenziamento dell’attività vagale.
In conclusione, dati clinici e sperimentali sostengono che la riduzione della frequenza cardiaca sia un
meccanismo rilevante nello spiegare gli effetti positivi del trattamento beta-bloccante sulla prognosi dei
pazienti con scompenso cardiaco. Altre modalità di
riduzione della frequenza cardiaca, sostenute da un
consistente razionale sperimentale, sono in attesa di
conferma e di validazione in studi clinici adeguati.
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