l`omeopatia e la vita di relazione del paziente: i limiti

L'OMEOPATIA E LA VITA DI RELAZIONE DEL PAZIENTE: I LIMITI.
Dott. Donato Virgilio
Si possono generalmente riconoscere due motivazioni che spingono un paziente a rivolgersi
all'Omeopata: perché ha fiducia nell’omeopatia avendola già' sperimentata o, se è un neofita, perché
è giunto all’ultima spiaggia per dei disturbi - cronici o cronicizzati - non risolti per via tradizionale.
Possiamo aggiungere una terza categoria di pazienti, purtroppo scarsamente rappresentativa in scala
percentuale, che si accosta in primis all'omeopatia: coloro, cioè, che avendo avuto notizia indiretta di
successi terapeutici e non volendosi esporre ai rischi degli effetti collaterali dell'alloterapia vogliono
sperimentare in prima persona l'efficacia dei misteriosi granuli di zucchero.
In ogni caso, denominatore comune di queste situazioni, con il medesimo valore in qualsiasi
forma di medicina più meno "intergrativa", è che alla base del rapporto paziente - curante ci sia la
fiducia nella persona; in tale rapporto interpersonale esistono da sempre differenti aspetti, tutti
collegati fra loro anche se di natura diversa. Il primo aspetto è puramente tecnico, razionale:
l'Omeopata che raccoglie l’anamnesi, prescrive analisi od accertamenti, somministra rimedi, sta
mettendo in opera una conoscenza puramente razionale che va di pari passo con le proprie
conoscenze scientifiche; il secondo aspetto è al contrario assolutamente personale, soggettivo: non è
fondato su ciò che il medico sa, ma su ciò che il medico "sente". Sono due aspetti complementari
dell'arte medica, e quindi della relazione tra terapeuta e paziente: questi, ha sicuramente fiducia nelle
capacità tecniche dell'omeopata, ma probabilmente si aspetta da lui anche qualcos'altro
(comprensione, sostegno, simpatia.).
E' il caso di dire che se questa seconda componente non esistesse la medicina potrebbe essere
più semplice e meccanicamente precisa, cioè più razionale e meno variabile: ma non sarebbe però
più sicura", in quanto la malattia non può essere qualcosa di solo fisico. Questa è stata forse la
grande illusione della medicina positivista dell'ottocento: l’omeopatia ci insegna invece che non esiste
la malattia in se e per sé, ma un perturbamento dell'equilibrio generale dell'individuo che si manifesta
attraverso sintomi e sindromi. La cura, di conseguenza, non può occuparsi solo di questi: il vecchio
aforisma ippocratico secondo il quale non estate la "malattia" ma il "malato" conosce bene questo
concetto di fondamentale importanza; una terapia che sia autenticamente tale, infatti, deve tener
conto dell'intera persona, del suo contesto sociale, della sua storia, della sua famiglia: in altre parole,
della compenetrazione fra il suo microcosmo psicofisico ed il macrocosmo-ambiente.
Questo é il nodo centrale di una domanda che ha sempre assillato gli omeopati: “fino a che
punto è lecito operare all'interno di questa simbiosi, sapendo che in taluni casi di sintomi
comportamentali il raggiungimento della <guarigione omeopatica> comporterebbe delle gravi
perturbazioni nei rapporti sociali dell’individuo?" Tali problemi si pongono soprattutto quando ci trova
di fronte a situazioni nelle quali, alla base di sintomatologie fisico-organiche esistono dei momenti
etiopatogenetici che appartengono alla sfera psichica e che si perdono nella notte dei tempi della vi ta
del paziente nel momento in cui questi viene alla visita.
Qualsiasi Omeopata può affermare di essersi trovato di fronte ad almeno un paziente che ha
strutturato un modello comportamentale (in modo più o meno inconscio) conseguente ad un trauma morale, affettivo, psicologico, sessuale - avvenuto tanti, troppi anni addietro, ed a seguito del quale si
è avuta una svolta nel carattere esteriore del paziente, svolta che sarà tanto più significativa se
coincide con la fascia di eta' compresa fra i 15 ed i 20 anni, nella quale è massimo il dualismo tra
pulsioni positive e negative, fra il voler essere ed il voler avere, tra il male ed il bene, e dove basta
poco a spostare il baricentro dall'uno all'altro lato. Questi cambiamenti nel modo di rispondere alle
sollecitazioni ambientali comportano un modo diverso - dal preesistente - di porsi nel mondo, e di
conseguenza variano i rapporti interpersonali, il modo di agire, di giudicare e di essere giudicati. In
altre parole nel giro di alcuni anni ci si può trovare di fronte a tutt'aItra persona da quella che sarebbe
potuta essere abolendo il momento etiopatogenetico.
Tale mutamento comportamentale è sicuramente accompagnato da un corteo sintomatologico
(dapprima funzionale ma poi sfociante nell’organico) che costituisce la base della medicina
psicosomatica e che - essendo causa di malessere - porta il paziente a più consulti, a più schemi di
terapia (allopatica. come da tradizione...) sino ad approdare, ultima spiaggia, dall'omeopata. Il quale
può eliminare il mosaico polisindromico percorrendo a ritroso nel tempo il cammino di malattia del
soggetto, sino anche a d arrivare a colpire la causa originaria del problema: ma questo significa
anche che se per ogni sintomo che eIiminiamo ne troviamo la causa, questa contemporaneamente ha
anche interagito con gli atteggiamenti sociali del paziente; il che vuoI dire altresì che spesso ci
imbattiamo in malattie croniche che lentamente trasformano il modus vivendi del soggetto attraverso
una storia pluriennale di sedimentazioni e stratificazioni successive di aggravamenti e ricadute.
All'interno di tutto ciò può essersi creata una famiglia, allevati dei figli, si sono consolidati ruoli
interpersonale specifici, può essersi determinato un certo tipo di ruolo sociale: con l'Omeopa tia,
riequilibrando il disordine indotto dal momento etiopatogenetico primitivo, si corre realmente il rischio
di dover rimettere tutto ciò in discussione.
Si tratta però di un rischio che deve essere corso, se non altro per rispetto agli di anni di
sofferenza patiti dal paziente, pur nella consapevolezza che bene o male è meglio evitare che uno
sconvolgimento grossolano delle reazioni del soggetto possa giungere a livelli di guardia, oltre i quali
potrebbero essere rimessi in gioco tutta una serie di valori, di rapporti e di situazioni che, se da un lato
è giusto far reinventare al paziente, dall'altro non è corretto manipolare dall'esterno in maniera troppo
rigida e schematica. Tutto ciò è tanto più grave quanto più tempo è passato fra l'origine dei sinto mi ed
il momento della visita, specie se come dicevo – l’eziologia incide nell’eta' fra i 15 ed i 20 anni.
Dovremmo a questo punto rifarci a quanto anticipato nell'introduzione, e cioè se l'omeopata ha
il diritto di interferire nel prosieguo della vita di relazione del paziente, sapendo che i rimedi da lui
somministrati possono agire sulla simbiosi individuo/ambiente. Personalmente l'opinione che potrei
esprimere, basandomi sulle mie esperienze e sull'etica professionale, mi induce ad osservare il
problema sono un differente punto di vista, che si basa su alcuni presupposti che ritengo degni di
nota.
Il paziente che si rivolge al medico omeopata, così, come a qualsiasi altro specialista, deve
avere necessariamente dei problemi di salute: se tali problemi sono superficiali, ovvero
derivano da un minimo perturbamento dell'equilibrio della sua forza vitale, la questione si
esaurisce da sé in poche sedute, con rimedi per lo più a basse diluizioni che recuperano in
breve il disordine causale, senza grossi riflessi sullo psichismo; se invece tali problemi sono
complessi e di lunga data, immancabilmente il disordine dell’energia vitale arriverà a creare
delle ripercussioni sul comportamento del paziente, tanto più gravi quanto più i sintomi sono
profondi e cronicizzati.
Gli individui con sintomi che si riflettono sul proprio comportamento - sia individuale che sociale
- sono perfettamente a conoscenza del loro stato di disagio, e tale stato deve essere loro
sicuramente di peso, altrimenti non si farebbero visitare; peraltro, è probabile che alcuni di
questi individui non sappiano nemmeno fino in fondo quali siano realmente tutti i loro disturbi,
dove affondino le radici e quali interconnessioni abbiano tra di loro.
Poniamo il caso di una persona che soffra da dieci anni di cefalea, cefalea che spesso la rende
distratta ed insofferente sul lavoro, motivo per cui viene più volte licenziato: questi si aspetta di
guarire dalla cefalea, e di conseguenza recuperare sul piano lavorativo, dell'immagine e del
sociale; la sua terapia comporterà dei cambiamenti di status rispetto agli ultimi cinque - dieci
anni, e ne sarà - forse –soddisfatto.
Un paziente che è in trattamento "long term" con l'omeopatia da più anni ha la possibilità di
rendersi conto in prima persona dei mutamenti comportamentali cui va eventualmente
incontro, e quindi è in grado di valutare se tali nuove situazioni gli sono congeniali o meno, e
muoversi di conseguenza.
Sicuramente, il caso di un giovane è decisamente atipico sotto questo aspetto, in quanto un
modulo comportamentale reattivo anomalo maturato da adolescente e solidificatosi nel tempo
per diversi anni durante il periodo della maturazione dell'individuo, necessariamente fa perdere
di vista i possibili termini di confronto tra il "prima" ed il “poi”, vertendo ormai quasi
completamente sul "durante", ovvero sul sintomo casuale e contingente, che viene di volta in
volta vissuto come momento alienante e comunque negativo.
Di conseguenza, il decorso verso la guarigione - se pur difficoltoso e di lunga durata - conduce
verso orizzonti che per il paziente sono nebulosi, difficilmente inquadrabili, proprio per
l’evidente impossibilità a poter ipotizzare, a 35 anni, come sarebbe potuta essere la vita
adesso se diciotto anni prima non ci fosse stata quella determinata causa violenta, con tutte le
conseguenze del caso. Gli eventuali, sviluppi futuri possono invece essere sufficientemente
previsti dall'Omeopata, conoscendo le patogenesie dei rimedi proposti e le conseguenze della
loro somministrazione ad elevate potenze nei casi in esame: per questi motivi sono
dell’opinione che - in certi casi selezionati - sia lecito non somministrare il presunto simillimum,
onde non estremizzare delle reazioni che già un buon simile abbiamo visto poter provocare.
In ultima analisi, ritengo che compito dell’Omeopata, in tali casi, dovrebbe essere quello di
accompagnare paziente alla soglia della "guarigione" totale, assoluta, e di farlo per gradi, a piccoli
passi, facendo in modo che il paziente si renda edotto in tempo reale di quello che gii sta
succedendo, delle variazioni comportamentali che subisce, del nuovo modo di leggere se stesso nel
libro della vita, sia pubblica che privata, e quindi ad essere interpretato dal mondo sotto un'altra luce.
L’Omeopata, come qualsiasi altro curante, dovrebbe agire secondo scienza e coscienza: la
scienza della Medicina e delle Materie Mediche, ma anche la coscienza di uomo che cura gli uomini,
uomini che hanno il diritto del libero arbitrio che può essere esercitato solo come diritto di scelta.
Se con l’omeopatia abbiamo il potere di accompagnare i nostri pazienti verso il momento delle
scelte lasciamo che siano essi a compierle: noi non abbiamo né il diritto né tanto meno il dovere di
effettuarle per loro conto, tramite una prescrizione piuttosto che un'altra. Spesso, nell’economia
generale di un individuo, un buon miglioramento può essere più redditizio di una totale guarigione.
Meditiamo, Colleghi, meditiamo…