CAPITOLO 10 L’IMPERO CAROLINGIO E L’EUROPA 1. LA NASCITA DELL’IMPERO CAROLINGIO 1.1 I franchi: dai Merovingi ai Carolingi Europa, Africa e Asia intorno al 750 Alla metà dell’VIII secolo il bacino mediterraneo presentava un quadro piuttosto articolato: a sud, sulla costa mediterranea dell’Africa restavano gli arabi musulmani che andavano creando regni indipendenti dal potere centrale degli Abbasidi a Baghdad; a ovest, in Andalusia, dominava in tutto il suo splendore il califfato omayyade di Cordova, che però non poteva espandersi a nord, bloccato dai franchi nel 732; a nord-ovest i franchi occupavano ormai tutta la Francia e l’Europa settentrionale fino al Reno; in Italia il re dei longobardi Liutprando esercitava il potere su tutti i ducati longobardi, era arbitro delle aree bizantine in Italia, influenzava la politica del papa e aveva stretto alleanza col potente maggiordomo dei franchi Carlo Martello; a est l’impero bizantino si difendeva dall’espansione araba ed era in piena lotta iconoclasta con il papato; l’espansione araba degli Omayyadi verso est era ormai giunta fino all’Indo e, proprio a metà del secolo, con l’avvento degli Abbasidi, che spostarono la capitale a Baghdad, si spingeva verso la Cina. La crisi del regno franco A dare una svolta al quadro internazionale intervenne il cambio ai vertici del regno dei franchi. Con la conversione al cristianesimo del re Clodoveo (481-511) i re merovingi avevano scelto di presentarsi come alleati e difensori della Chiesa. Politicamente, si ispiravano alle istituzioni imperiali romane. Il governo risiedeva nella corte costituita dai funzionari e dai compagni d’arme del re, che non restava fissa in una sede, ma seguiva il sovrano nei suoi spostamenti. Lo Stato era suddiviso in circoscrizioni sottoposte ai conti, alti funzionari e uomini di fiducia del re. Giuridicamente si era adottato il principio della territorialità delle leggi e la fusione dell’elemento barbaro con il mondo romano. Ma alla morte di Clodoveo nel 511, l’unità del regno si era frantumata in tre regni: Neustria a nordovest, Austrasia a nord-est negli odierni Belgio e Paesi Bassi, Burgundia (la futura Borgogna) a sud-est nella valle del Rodano, mentre l’Aquitania a sud-ovest era autonoma già da tempo. A partire dal VII secolo, il regno entrò in una profonda crisi di potere. La conflittualità all’interno della dinastia regnante dei Merovingi per la successione al trono, l’uccisione di sovrani giovani che lasciavano come eredi dei bambini incapaci di governare, la difficoltà di ricostituire l’unità del regno guadagnarono ai sovrani franchi l’appellativo di “re fannulloni”. A determinare il loro progressivo esautoramento furono i maggiordomi, maestri di palazzo, funzionari di origine aristocratica addetti all’amministrazione delle terre e del fisco reali, che di fatto si sostituirono ai re nella gestione del potere. La riunificazione del regno franco (VII secolo) Nel corso del VII secolo tra tutti i maggiordomi emersero quelli del regno d’Austrasia che dal loro capostipite Pipino di Landen erano definiti Pipinidi, ma passarono alla storia come Carolingi dal loro più illustre discendente, Carlo Magno (il cui nome in latino, la lingua in cui scrisse il suo biografo di corte, era Carolus). Il potere dei Pipinidi, basato sul prestigio militare, sull’alleanza con il papato e sul possesso di grandi proprietà terriere, frutto delle donazioni dei sovrani per i loro servigi, si consolidò quando Pipino II di Héristal (679-714) riuscì a riunificare il regno, impossessandosi della Neustria e della Borgogna, e rese ereditaria la carica di maestro di palazzo. Carlo Martello (717-741) Successore di Pipino di Héristal fu un suo figlio illegittimo, Carlo, che riuscì a fermare gli arabi a Poitiers, in Aquitania, nel 732. La vittoria col tempo fu esaltata nel mondo cristiano come un’impresa eroica che aveva salvato l’Europa dall’islam. In realtà si trattò di una vittoria di importanza modesta, perché gli arabi compivano semplici razzie e non miravano alla conquista della Gallia. Dopo la sconfitta, per altro, non interruppero le scorrerie, anche se non poterono più espandersi verso nord. Eppure per questa impresa, un secolo dopo la sua morte, Carlo ricevette il soprannome di Martello, “piccolo Marte”, con riferimento al dio pagano della guerra. La vittoria servì a rafforzare il suo potere, che egli rinsaldò ulteriormente alleandosi col papa, tanto che alla morte del re merovingio riuscì ad impedire che se ne eleggesse un altro per poter governare di fatto come un viceré. Successivamente consolidò la sua posizione alleandosi con il re longobardo Liutprando e affidandogli il figlio Pipino in adozione, una consuetudine piuttosto frequente quando si voleva ottenere una promozione sociale. Dida battaglia di Poitiers Solo una scorreria La spedizione araba guidata dal califfo di Cordova non mirava alla conquista, ma alla rapina e al saccheggio, come altre spedizioni precedenti, perché i conflitti interni al califfato impedivano una vera espansione. Per fermarla il duca d’Aquitania si alleò con il maggiordomo di Neustria Carlo Martello, benché suo nemico. Dopo aver saccheggiato Poitiers, gli arabi, intercettati in cammino verso Tours, appesantiti dai bagagli non poterono contare sulla consueta velocità di movimento. Il maggiordomo che divenne re Divenuto figlio di re proprio grazie all’adozione da parte di Liutprando, Pipino il Breve (741-768) fu legittimato dal vescovo Bonifacio attraverso l’unzione sacra con cui, secondo la bibbia, venivano consacrati i re di Israele. La consacrazione, che faceva discendere il potere direttamente da Dio, fu confermata tre anni dopo dal papa Stefano II, che si era recato personalmente presso il re a chiedere aiuto contro i longobardi. Il successore di Liutprando Astolfo (749-756), infatti, aveva intrapreso una nuova espansione. Pipino scese per due volte in Italia, sconfisse i longobardi, si impossessò dei territori bizantini finiti in mano longobarda già sotto Liutprando – esarcato di Ravenna, Pentapoli, ducato di Roma – e non li riconsegnò all’impero, ma proprio al papa. I bizantini furono praticamente messi fuori gioco e i longobardi persero persino il controllo dei ducati di Spoleto e Benevento che si allearono col papato. Memo La donazione di Sutri Liutprando nel 728 aveva già donato al Patrimonio di san Pietro un territorio, intorno al castello di Sutri, che apparteneva all’impero bizantino. Aveva così riconosciuto la sovranità territoriale della Chiesa su un possedimento giuridicamente bizantino. Dida La domanda retorica di Pipino Si dice che Pipino il Breve abbia ottenuto la corona regale ponendo al papa il quesito se dovesse essere re chi ne aveva il titolo o chi ne aveva il potere. Lo Stato della Chiesa e la falsa donazione Con la donazione di Pipino, l’Italia centrale dal Lazio alle coste adriatiche della Romagna entrava a far parte del Patrimonio di san Pietro, che diventava lo Stato della Chiesa e rappresentò da quel momento l’ostacolo maggiore all’unità della penisola fino al 1870, quando fu incluso nell’Italia finalmente unita. I papi si resero conto, però, che l’autorità di Pipino non era sufficiente a legittimare il loro potere temporale. Fu allora che probabilmente venne realizzato uno dei più famosi falsi della storia: la Donazione di Costantino. Improvvisamente, negli archivi pontefici fu ritrovato un documento secondo cui l’imperatore Costantino avrebbe donato al papa Silvestro (memo) la sovranità dell’Occidente, attribuendogli le prerogative del potere imperiale, il possesso di Roma e delle regioni limitrofe, oltre al primato della sede di San Pietro su tutte le chiese del mondo. La Donazione, per di più, vincolava in perpetuo tutti i successori di Costantino a rispettare le proprietà pontificie e l’autorità papale. Soltanto nel 1440 lo studioso umanista Lorenzo Valla avrebbe dimostrato che il documento era un falso. Memo Papa Silvestro I Il papa Silvestro I (314-321) ebbe un ruolo politico irrilevante, perché era Costantino a gestire non solo l’impero ma anche le attività della Chiesa. Quando però il papato divenne una potenza si volle dare a Silvestro un ruolo paritario con l'imperatore, se non addirittura superiore. 1.2 Il sistema vassallatico Un sistema di potere Il potere dei Carolingi si basava sulle conquiste di Pipino d’Héristal, sul legame con la chiesa di Roma e sull’immenso patrimonio fondiario che serviva al re per garantirsi un esercito fedele. All’epoca di Carlo Martello, infatti, i guerrieri franchi erano ormai diventati proprietari terrieri che non rispondevano più all’eribanno (chiamata alle armi) del re, proprio mentre cresceva l’importanza della cavalleria, a cui si poteva accedere solo con un reddito molto alto: dotarsi dell’equipaggiamento da cavaliere e mantenere il cavallo comportava, infatti, spese notevoli. Per ottenere la partecipazione della nuova aristocrazia guerriera alle campagne militari, i re ricorsero allora a legami di fedeltà personale basati su un patto chiamato vassallaggio o vincolo vassallatico. La commendatio tardo-antica Il vincolo vassallatico nasceva sia dalla tradizione dei guerrieri germanici di giurare fedeltà ai comandanti quando entravano a far parte di un comitatus (memo) sia dall’accomandazione (commendatio) di età tardo romana. Già nell’ultima fase dell’impero romano, infatti, di fronte all’indebolimento del potere centrale, al protrarsi di invasioni e razzie e all’inasprirsi della pressione fiscale, molti piccoli e medi proprietari terrieri in difficoltà avevano cominciato ad affidarsi (in latino commendari, o se commendare) a un signore (senior) più ricco e potente per riceverne protezione, cedendogli in cambio la proprietà della propria terra, pur mantenendone il possesso. Si creava così un rapporto personale definito commendatio, che sanciva la sottomissione del più debole, il commendato, in cambio della protezione da parte del più forte, il signore (dal termine deriva l’italiano “raccomandazione”, che garantisce appunto la protezione di un potente). Memo Il comitatus A partire dal I secolo d.C., i capi militari poterono reclutare guerrieri, definiti compagni (comites), per costituire il comitatus, il “seguito”, a cui fornivano armi ed equipaggiamento e il necessario per vivere anche in tempo di pace. Diocleziano usò il comitatus, costituito dai reparti migliori di fanteria pesante e cavalleria, come esercito mobile che lo accompagnava negli spostamenti. Dalla commendatio al vassallaggio La commendatio non si esaurì con la caduta dell’impero e anzi, a contatto con la cultura germanica, si rafforzò e si estese, trasformandosi nel vincolo vassallatico. Il commendato divenne il vassallo, non più un uomo in difficoltà economiche, ma anzi un proprietario così ricco da potersi permettere un lungo e costante allenamento, un’armatura completa da cavaliere, il mantenimento e l’addestramento di un cavallo. Il vincolo vassallatico, tipico di una società guerriera tribale, fondata sui vincoli di fedeltà tra il capo e i suoi uomini, legava quindi un guerriero germanico al re o a un signore più potente e lo obbligava a intervenire al suo fianco in caso di guerra. In cambio il vassallo otteneva il vantaggio di partecipare alla spartizione del bottino ricavato dalle spedizioni militari, acquisiva la dignità di familiare del signore, ne otteneva la protezione e il beneficio, cioè la concessione gratuita di terre per tutta la durata del servizio militare, in genere fino alla morte, e accresceva il suo prestigio. La nuova aristocrazia germanica, infatti, basava, come quella romana, la propria ricchezza sulla proprietà terriera, ma il prestigio sul rapporto privilegiato e personale con il re o con un signore di più alto rango. Il sistema vassallatico garantì una fitta rete di relazioni che caratterizzò l’intera area latinogermanica altomedievale e determinò la struttura feudale della società degli ultimi due secoli del primo millennio. Scheda cultura e identità L’arma vincente di Carlo Un esercito di cavalieri L’esercito franco sotto i Carolingi si fondava su gruppi di guerrieri a cavallo, militari di professione, che potevano contare su vasti seguiti armati e si raccoglievano intorno a un signore, al quale erano sottoposti tramite il legame vassallatico. La cavalleria fu l’arma vincente dell’esercito franco che si scontrava con guerrieri barbari ancora appiedati. Si stima che l’esercito di Carlo Magno potesse contare, nel periodo di massima estensione dell’impero, su 35.000 cavalieri e 100.000 fanti. La cavalleria era in grado di accorrere rapidamente nelle zone di confine per contrastare gli attacchi dei popoli provenienti soprattutto da est, dalle steppe asiatiche. A decidere la guerra in Europa rimase per secoli proprio la cavalleria, fino a quando, a partire dal XV secolo, divenne impotente di fronte a nuove armi e soprattutto ai cannoni. Cavalcatura comoda Alla cavalleria tradizionale, già in uso presso greci e romani, i franchi apportarono importanti innovazioni, a partire dalla staffa, usata a suo tempo dai parti, famosi invincibili cavalieri. La staffa è un anello di metallo con base piatta che, legato con una cinghia alla sella, pende a ciascun fianco del cavallo, permettendo così al cavaliere di poggiarvi i piedi e di far leva per dare maggiore forza e slancio al braccio quando lancia un’asta o brandisce la spada. Una sella profondamente arcuata aiutava poi il cavaliere franco ad aderire al corpo del cavallo senza perdere l’equilibrio durante il combattimento. Agli zoccoli dei cavalli furono inchiodati ferri, a forma di U, che consentivano all’animale di correre più velocemente anche su terreni sassosi o paludosi. I cavalli, di grossa taglia e robusti, erano, per altro, ben addestrati a lanciarsi nel fragore della battaglia. Armatura preziosa L’armatura da cavaliere era molto costosa: il suo valore equivaleva a quello di venti buoi. Era costituita da una corazza, un elmo, uno scudo, una lunga lancia di legno con punta di ferro che il cavaliere teneva stretta orizzontalmente sotto l’ascella per disarcionare l’avversario, una spada corta e una lunga anche un metro (che col tempo avrebbe raggiunto i tre metri e mezzo) e a volte un arco. Al costo dell’armatura bisognava aggiungere il prezzo esorbitante del cavallo. Senza contare che il cavallo andava mantenuto e accudito da scudieri; per di più, il cavaliere non usava il prezioso cavallo da combattimento per il trasporto durante la marcia, e doveva quindi averne a disposizione almeno un altro. Dida per img all’interno della scheda Cavaliere di ferro Tra il XII e il XIII secolo sotto la corazza il cavaliere portava l’usbergo, una tunica di cuoio su cui venivano cuciti anelli o scaglie di ferro, a costituire una cotta di maglia metallica che pesava una dozzina di chili e doveva essere oliata spesso dagli scudieri per conservare elasticità. Sul capo portava un elmo di forma conica che si prolungava con un nasale a protezione del naso. Anche il cavallo venne protetto da una copertura di maglia di ferro. Fine scheda 2. CARLO MAGNO 2.1 Gli esordi Cambio al vertice Alla morte di Pipino il Breve, nel 768, il regno, in base al principio della spartizione tra i figli del re, fu suddiviso tra Carlo, il primogenito, che ottenne la Francia settentrionale, l’Aquitania (conquistata dal padre Pipino) e la bassa valle del Reno – quindi un regno piuttosto frammentato e lontano dalla sede del papato – e Carlomanno cui toccò la Francia meridionale e l’alta valle del Reno, territori più compatti, centrali e sicuri. Lo scontro tra i fratelli appariva inevitabile. Mentre i Carolingi erano alle prese con la successione al trono, il nuovo re longobardo Desiderio (756-774), tentò di riconquistare parte dei territori perduti, ma, per evitare lo scontro con i due fratelli franchi, diede loro in moglie le sue due figlie. Carlo re dei franchi e dei longobardi Carlomanno però morì improvvisamente solo tre anni dopo, nel 771, e Carlo, che avrebbe ottenuto in seguito l’appellativo di Magno, eliminò tutti gli eredi del fratello (la vedova, figlia di Desiderio, si era rifugiata coi figli presso il padre a Pavia), per diventare a soli trent’anni l’unico re del grande regno franco riunificato. Il caso volle che il nuovo papa Adriano I fosse avverso ai longobardi e allora Desiderio si affrettò ad attaccare subito il papato, prima che ricevesse aiuti da Carlo. Ma già nel 773 il re franco, che aveva ripudiato la sua sposa longobarda, si presentava in Italia, assediava Pavia, la capitale del regno, e dopo un anno se ne impossessava, faceva prigioniero Desiderio e costringeva il figlio ed erede Adelchi a rifugiarsi a Costantinopoli, da cui sperò invano di essere aiutato a riconquistare il trono. Fu Carlo invece ad assumere il titolo, oltre che di re dei franchi, anche di re dei longobardi. scheda tra storia e letteratura Ermengarda creatura manzoniana Figura storicamente irrilevante la figlia di Desiderio data in sposa a Carlo per motivi politici e per gli stessi motivi da lui ripudiata, di cui la storia non si è preoccupata neppure di ricordare il nome. Nell’immaginazione romantica di Alessandro Manzoni, la principessa assunse, invece, i connotati dell’eroina vittima della storia, fragile e appassionata, degna di un aristocratico nome longobardo che lo scrittore decise per lei. Ermengarda, sorella di Adelchi, divenne così protagonista della tragedia Adelchi, pubblicata nel 1822. Benché ben documentata, l’opera forzava in chiave risorgimentale alcuni aspetti della vittoria di Carlo Magno su Desiderio. Il cattolico Manzoni intendeva infatti presentare i longobardi, che contrastavano la Chiesa, come dominatori stranieri, oppressori di un «volgo disperso», in cui il cattolico Carlo risvegliava il «misero orgoglio del tempo che fu». In questi dominatori i lettori non stentavano a riconoscere personaggi assai simili a quegli austriaci che nell’Ottocento governavano sul Lombardo Veneto. Anche Adelchi nella tragedia assumeva le caratteristiche di un principe amante della pace, ma costretto a combattere per difendere il trono, che finiva vittima della guerra. Nella realtà storica, invece, la fusione tra longobardi e romani ormai avanzata si sarebbe forse potuta completare, aprendo ai longobardi la possibilità di costituire un regno nell’intera penisola, se la Chiesa non l’avesse impedita, consegnando gran parte dell’Italia ai potenti stranieri franchi. Creare un mito Arte e letteratura hanno esaltato nei secoli la figura di Carlo Magno trasformandola in un mito. Considerato ora come il rifondatore dell’antico impero romano, ora come il padre dell’Europa, ora come l’artefice della rinascita culturale in Occidente e il creatore della scuola pubblica, in verità Carlo, pur avendo meriti indiscutibili, non incise nella storia quanto pretende la tradizione. Fu però indubitabilmente un grande condottiero: dei suoi quarantasei anni di regno, solo tre o quattro li trascorse senza combattere. La sua sete di conquiste e insieme il suo senso della politica lo spinsero a presentare l’espansione del regno come una necessità per diffondere il cristianesimo contro i popoli infedeli e se stesso alla stregua di un re dell’Antico Testamento che, guidato dalla mano di Dio, si poneva a capo degli eserciti per sterminare i nemici della vera fede. In realtà il suo espansionismo era dettato sia dalla necessità di rendere sicuri i confini, minacciati a ovest dagli arabi e a est da popolazioni barbare, sia dal bisogno di ampliare il territorio del regno per poter distribuire terre all’aristocrazia militare e legarla al trono. Dida Un re fascinoso La figura di Carlo Magno ha sempre esercitato un fascino straordinario. Alto quasi due metri (come confermarono nel 1861 le analisi sui suoi resti), ed eccezionalmente vigoroso, emanava un’energia vitale prorompente, in battaglia come nella vita privata. Ebbe quattro mogli legittime, sposate per motivi politici, sei mogli private, con cui conviveva per amore, ma i cui figli non potevano succedere al padre, e infinite concubine. Il suo mito era tale che ancora nel 1918 l’imperatore d’Austria e Ungheria si considerava il suo ultimo erede. L’assetto dell’Italia tra VIII e IX secolo Tutta l’Italia settentrionale fino alla Toscana era ora sotto il controllo dei franchi. Carlo non distrusse però il regno longobardo, legò a sé l’aristocrazia longobarda con vincoli vassallatici e affidò il regno, che dopo qualche anno sarebbe diventato il Regno italico, al figlio Pipino, il quale mantenne in parte l’ordinamento giuridico longobardo, anche se a capo dell’amministrazione pose funzionari franchi. Anche il ducato di Spoleto passò a un duca franco, ma nel XII secolo sarebbe stato inglobato nello Stato pontificio, mentre quello di Benevento restò indipendente finché fu travolto dall’invasione normanna nell’XI secolo. Venezia, alcune zone di Campania, Calabria e Puglia e le isole erano ancora sotto il controllo dei bizantini, ma la Sicilia e la Sardegna sarebbero presto finite sotto gli arabi. La disgregazione del regno longobardo allontanava inesorabilmente persino la speranza di costituire uno stato italiano. 2.2 Carlo Magno in azione Il massacro dei sassoni in nome di Cristo Dalla conquista dei longobardi fino alla morte, Carlo Magno non smise di estendere il suo dominio. Il primo popolo contro cui si accanì con grande ferocia per tredici anni (dal 772 al 785) fu quello dei sassoni, costituito da tribù germaniche ancora pagane stanziate sulla sponda destra del fiume Reno. Contro di loro, per costringerli alla “vera fede”, il re operò violenze, distruzioni, deportazioni di massa e massacri, cui del resto i sassoni, convinti anch’essi della propria fede e fidando nella protezione dei loro dei, risposero con altrettanta crudeltà, ma con mezzi assai inferiori. Alla fine riuscì a domarli e a colonizzare le loro terre distribuendole all’aristocrazia franca. Ma solo nell’804, dopo trent’anni di massacri, ottenne la completa sottomissione di questo popolo fiero e combattivo. La storia però vendicherà la loro sconfitta, perché sarà proprio una dinastia sassone a succedere molto presto a quella carolingia sul trono imperiale. Dida Un popolo profondamente religioso I sassoni, il cui nome deriva dalla loro arma tipica, il sax o scramasax, un grande coltello, erano molto legati alle proprie tradizioni religiose: veneravano alberi, tra cui l’Irminsul, la quercia sacra, che rappresentava il sostegno del cosmo e, quando Carlo la fece abbattere, per i sassoni fu come la fine del mondo. Tanto grande fu lo sterminio voluto da Carlo in nome dell’evangelizzazione che lo stesso consigliere del re, il monaco Alcuino, definì i missionari inviati da Carlo praedones più che praedicatores. Alla conquista del nord-est La conquista del Nordeuropa, dal mar Baltico a nord al Danubio a sud, si concluse con la sottomissione di diversi popoli, condotta a volte con ferocia anche maggiore di quella contro i sassoni: i frisoni stanziati nell’odierna Olanda; gli slavi stanziati in Boemia, la regione danubiana; gli àvari, il popolo originario delle steppe dell’Asia centrale stanziato in Pannonia, che, respinti fuori dai confini, scomparvero dalla storia. Carlo creò nella regione la Marca Orientale, l’Ostmark, da cui deriva il nome dell’Austria, Österreich, “Stato dell’Est”. La regione cuscinetto al confine con gli arabi Sul fronte sudoccidentale andavano consolidati ed estesi i confini con la Spagna araba, da cui partivano frequenti incursioni dirette al regno dei franchi. Anche qui la lotta fu più che ventennale e si protrasse con alterne vicende dal 776 all’801, ma Carlo non poté permettersi i massacri operati sui sassoni. Anzi fu lui a subire una sconfitta. Nel 778, dopo una fallimentare spedizione in difesa di Saragozza, attaccata e conquistata dagli arabi prima che Carlo potesse salvarla, mentre l’esercito franco ritornava, attraverso i Pirenei, la sua retroguardia fu vittima di un’imboscata e massacrata dai baschi, una popolazione iberica stanziata nella regione che da essi prendeva il nome di Guascogna, posta sui due versanti, spagnolo e francese, dei Pirenei. Alla fine Carlo riuscì a strappare agli arabi, che i franchi chiamavano mori, solo alcune regioni settentrionali della penisola iberica, perché persino le popolazioni cristiane di Spagna preferivano restare sotto il governo dei musulmani, assai più tollerante e illuminato di quello dei franchi. Conquistata la Catalogna con l’importante centro portuale di Barcellona, Carlo la trasformò nella Marca Hispanica, cioè in un territorio cuscinetto presidiato dall’esercito a difesa del confine meridionale del regno franco. La regione presenta ancora caratteristiche di lingua e tradizioni vicine a quelle francesi. Storia di parole Mori I franchi chiamavano gli arabi “mori”, termine che deriva da mauri, il popolo stanziato lungo la costa del Marocco, con cui i franchi li confondevano. Infatti, gli arabi erano penetrati in Spagna dalle coste africane portandosi dietro anche i berberi nordafricani. Moro è passato poi a indicare un individuo di pelle scura, morello invece è un cavallo dal mantello tendente al nero. Da moro deriva anche moresco con cui si definisce in particolare lo stile particolare dell’arte araba di Spagna e d’Africa. Marca Il termine germanico di marka indicava in origine l’aera incolta o boscosa che separava due zone abitate. Scheda cultura e identità Il corno di Orlando e la nascita dell’epopea carolingia Un massacro di poco conto Il 15 agosto del 778 a guidare i soldati che chiudevano la marcia dell’esercito franco di ritorno dalla Spagna verso la Francia era Rolando o Orlando, governatore della marca di Bretagna forse imparentato con Carlo. Quando i baschi, nascosti sulle alture coperte di boschi, attaccarono la retroguardia, che, appesantita dai bagagli e dalle pesanti armature, sfilava per uno stretto sentiero montuoso, ebbero facilmente la meglio, favoriti dal loro equipaggiamento leggero. Secondo la leggenda, Orlando si rifiutò eroicamente di suonare il corno con cui avrebbe potuto chiamare in soccorso il grosso dell’esercito. Fu un massacro. L’episodio, che Carlo preferiva tacere e che lo stesso biografo imperiale Eginardo minimizzò, si rivestì invece molto presto di connotati epici. La trasfigurazione epica Sulla vicenda sorsero presto molte leggende. Il luogo dello scontro, che in realtà era ignoto, venne individuato al passo di Roncisvalle, un passaggio obbligato lungo il Cammino di Santiago di Compostela. Sulla via transitavano i pellegrini diretti alla tomba di san Giacomo, nel nord-ovest della Spagna, uno dei luoghi più venerati e ancora oggi meta di pellegrinaggi. I racconti edificanti, di vite di santi e miracoli, che i pellegrini si scambiavano nelle lunghe veglie la sera davanti al fuoco, dovettero confondersi con i racconti di un episodio storico marginale, ma che poteva facilmente essere inserito nella lotta contro i musulmani, insediati poco lontano dal Cammino di Santiago. Orlando, con la sua spada chiamata Durlindana, dono del re, e col suo corno, con cui in punto di morte avrebbe finalmente chiamato Carlo in soccorso, divenne allora protagonista di canti epico-cavallereschi che rinnovavano l’antico genere epico. Vennero a lungo cantati nelle corti d’Europa, tramandati oralmente dai cantastorie nelle piazze, nelle cattedrali, nei castelli, nelle soste dei pellegrini, finché, nell’XI secolo, furono raccolti e trascritti in una delle nuove lingue volgari che avevano ormai soppiantato il latino a livello popolare. Un anonimo cantore li raccolse nel primo dei poemi del nuovo genere, la Chanson de Roland (“Canzone di Orlando”). La tradizione orale aveva trasfigurato l’episodio nello scontro tra Carlo, difensore della fede cristiana, e gli arabi musulmani, che nella leggenda avevano preso il posto dei baschi. L’imperatore, che all’epoca aveva solo 35 anni, era stato trasformato in un vecchio venerabile con barba (che in realtà forse non portava neppure) e capelli bianchi, segno di grande saggezza. La spedizione in Spagna, durata pochi mesi, era diventata una guerra lunga sette anni e l’imboscata finale un’epica battaglia. Il cavaliere ideale Orlando divenne il modello del perfetto cavaliere che combatteva fedelmente fino alla morte per il suo signore in terra e per il Signore Iddio in cielo. Il poema dava voce così agli ideali cavallereschi in cui la società dell’XI secolo si riconosceva ancora, malgrado quel mondo fosse ormai lontano: il senso dell’onore, la fedeltà fino al sacrificio estremo, l’eroica fede cristiana. Al poema si sarebbe ispirato, secoli dopo, Ludovico Ariosto per il suo Orlando Furioso, capolavoro della nostra letteratura. Ma la tradizione orale continua ancora oggi con le ultime sporadiche rappresentazioni dei Pupi Siciliani, le marionette cavalleresche create e messe in scena dai pupari. Fine scheda. 2.3 Il Sacro Romano Impero Alla ricerca di un imperatore Nonostante Carlo avesse costruito un impero vastissimo, le probabilità che diventasse il nuovo imperatore d’Occidente non erano alte: all’epoca era inconcepibile, infatti, pensare a un imperatore diverso da quello bizantino, unanimemente riconosciuto quale erede degli imperatori romani. Fu solo la concomitanza di più fattori a permettere al re franco di essere incoronato imperatore. Innanzitutto all’epoca il trono imperiale era considerato vacante, perché vi sedeva una donna, l’imperatrice Irene. Originariamente solo reggente del figlio minorenne Costantino VI, la potente basilissa (“imperatrice”, in greco), malvolentieri sopportava un potere dimezzato, quindi aveva fatto accecare il figlio e, dopo averlo spodestato, dal 797 governava in prima persona. Sul fronte opposto, il papa premeva per avere nei franchi un sostegno e un alleato fidato da utilizzare come braccio armato di una Chiesa priva di esercito. Carlo non era però ancora del tutto affidabile: si era guardato bene dal consegnare al papato tutta l’Italia non longobarda, come il pontefice sperava; poi colse l’occasione dell’elezione di un nuovo pontefice per favorire un candidato estraneo alla cerchia degli aristocratici romani che intendevano riallacciare i rapporti con la corte bizantina. Quando questi accusarono il nuovo papa Leone III di condotta immorale e lo sottoposero a processo, nel novembre dell’800 Carlo scese in Italia e lo aiutò a difendersi dalle accuse, facendo pesare di fatto la propria autorità. Il papato non intendeva però restare in balia di un re. dida Irene La basilissa Irene, seguace dell’ortodossia, fautrice di una politica filo-papale, contraria all’iconoclastia, protettrice dei monaci, ben disposta verso i franchi, prese il potere nel 780 come reggente e in prima persona dal 797, dopo aver fatto accecare il figlio nella stessa sala in cui lo aveva partorito. Ma, siccome era inconcepibile che una donna detenesse il titolo imperiale, fu costretta a firmare i documenti ufficiali con un nome maschile. Con Carlo tentò un accordo prima progettando il matrimonio del figlio Costantino con la figlia di Carlo, Rotrude, che però fallì. Secondo lo storico bizantino Teofane sarebbe poi stato lo stesso Carlo ad aspirare alla mano di Irene, per unire i due imperi sotto un’unica corona. Le forme di un’incoronazione Fu proprio il papa Leone III, la notte di Natale dello stesso anno 800, durante una solenne cerimonia in San Pietro, a incoronare imperatore Carlo, ponendogli una corona d’oro sul capo mentre inginocchiato pregava davanti alla tomba di san Pietro. La folla dei fedeli che gremiva la basilica allora acclamò per tre volte: «A Carlo, piissimo augusto, coronato da Dio, grande e pacifico imperatore dei romani, vita e vittoria!». L’incoronazione riesumava l’impero d’Occidente che l’acclamazione a Carlo “augusto” presentò come erede della tradizione di Roma: Augusto era infatti il titolo del primo imperatore romano e dei suoi successori, ma dalla deposizione di Romolo Augustolo nel 476 non era più stato portato da nessuno in Occidente. L’aggettivo “piissimo”, poi, aggiungeva al titolo di augusto anche il carattere cristiano del nuovo impero. Carlo però si presentava solo come “imperatore franco e cristiano” e non come “imperatore dei romani”, titolo che spettava tradizionalmente all’imperatore d’Oriente: tentava in questo modo di non irritare troppo Bisanzio. Scheda Cultura e identità I vantaggi della corona Un’idea da papa Sull’incoronazione di Carlo esistono varie versioni, che rispondono a contrastanti finalità di propaganda. Nella versione del Libro pontificale, redatto nell’ambiente della curia papale, l’iniziativa fu presa da Leone III e confermata poi dal popolo. Il papa avrebbe così affermato che il potere spirituale della Chiesa era superiore a quello temporale dell’impero. La Chiesa ottenne sicuramente una serie di vantaggi: da un lato, il suo destino si separava definitivamente da quello dell’impero d’Oriente e si poneva sotto la protezione della più grande potenza occidentale; i territori dell’Occidente venivano sottratti all’impero di Bisanzio; si attribuiva al papa il diritto di legittimare i sovrani germanici, che ancora, sia pure solo formalmente, erano sudditi dell’imperatore bizantino. Da questo momento i pontefici avrebbero tenacemente sostenuto la propria supremazia sull’imperatore, pretendendo di trasmettergli il potere, ma anche di revocarglielo. Forse fu proprio per affermare l’autonomia del potere imperiale che, quando nell’813 Carlo si affiancò alla guida dell’impero il figlio Ludovico il Pio (813-840), non volle per lui la consacrazione papale, ma solo l’acclamazione dei franchi. Il popolo sovrano Fonti di ambiente franco, come gli Annali del regno dei franchi, sottolineano che Leone III si inginocchiò, subito dopo l’incoronazione, per il tradizionale rito dell’adorazione dell’imperatore. Il rito, istituito da Diocleziano e perfezionato da Costantino, consisteva in una riverenza fino a terra (proscinesi), effettuata mentre si inviava un bacio in direzione dell’imperatore. Negli Annali di Moissac, anch’essi franchi, la proclamazione dell’imperatore appare addirittura come frutto dell’iniziativa di tutto il popolo, franchi e romani, laici ed ecclesiastici, mentre la funzione del papa è solo quella di ratificare la designazione popolare. Il disappunto di essere incoronato Il biografo ufficiale di Carlo Magno, Eginardo, invece, sottolinea che il re si mostrò spiazzato e irritato dal gesto di Leone III: «In un primo momento ne fu così contrariato da assicurare che quel giorno, benché fosse un’importante festività, non avrebbe mai messo piede in chiesa se solo avesse potuto prevedere i propositi del papa. Egli sopportò, poi, con grande pazienza l’invidia degli imperatori romani [d’Oriente], indignati per l’assunzione da parte sua di questo titolo.» (Eginardo, Vita di Carlo Magno). In realtà le ragioni della reazione di Carlo non sono chiare. È difficile innanzitutto credere che Leone III, una personalità piuttosto debole, abbia deciso autonomamente di incoronare Carlo. È più probabile che l’irritazione mostrata dall’imperatore e sottolineata dal suo biografo fosse un’abile messinscena per evitare la reazione di Bisanzio contro un re che formalmente era ancora un suddito dell’imperatore, come tutti i re germanici. Con l’incoronazione papale, che per di più scardinava il cerimoniale bizantino in cui il patriarca di Costantinopoli incoronava l’imperatore solo dopo l’acclamazione popolare, Carlo vedeva invece riconosciuta la propria autorità da Dio stesso tramite il suo rappresentante sulla terra e si sottraeva così all’autorità dell’imperatore bizantino. È probabile, quindi, che l’incoronazione fosse stata concordata tra Carlo e Leone e che la reazione del novello imperatore fosse studiata. Come Cesare Occorre considerare, però, anche il fatto che Eginardo aveva come modello lo storico latino Svetonio, che interpretava il rifiuto della corona da parte di Cesare come disprezzo per la ricchezza e gli onori. Il modello sarebbe servito a legittimare Carlo che reagiva proprio come il fondatore dell’impero. Non concordava con tutti gli altri resoconti la bizantina Cronografia di Teofone che si limitava a raccontare così l’evento: Leone «restituendo a Carlo il favore che aveva ricevuto [di essere scagionato dalle accuse di condotta immorale], lo coronò basiléus dei romani». Poche parole per liquidare l’incoronazione come semplice restituzione di un favore. Dida Un modello da superare Carlo Magno non ebbe contrasti col papa, ma non poté impedire che la conflittualità tra impero e papato emergesse successivamente e durasse fino a quando Napoleone Bonaparte, nell’anno 1800, esattamente 1000 anni dopo l’incoronazione di Carlo, tolse di mano al papa la corona imperiale ponendosela da solo sul capo e dicendo «Dio me l’ha data, guai a chi me la tocca». Solo allora il potere laico si sottrasse alla sottomissione all’autorità ecclesiastica. Un impero sacro e romano Il nuovo impero sarebbe stato definito “Sacro romano impero” solo nell’XI secolo, tuttavia le sue caratteristiche erano già definite al momento della sua fondazione. Carlo nei sigilli imperiali presentava il proprio impero come renovatio Romani imperii, “restaurazione dell’impero romano” a cui aggiungeva un carattere sacro. L’impero era sacro innanzitutto perché abitato da una popolazione quasi interamente cattolica, poi perché era legittimato dal papa e infine perché compiti prioritari dell’imperatore erano la difesa della Chiesa e la diffusione della fede. Fondamentale poi era il legame fra trono e altare, che avrebbe condizionato tutta la storia di questo impero: all’imperatore spettava il potere politico su un territorio vastissimo e il monopolio della difesa militare di tutti i cristiani cattolici; il papato non solo aveva il potere temporale sull’Italia centrale, ma esercitava anche un’influenza su tutta la società tramite l’aristocrazia religiosa costituita dai vescovi, a capo delle diocesi formate da una rete di parrocchie, e dagli abati, posti a capo dei monasteri. La presenza della Chiesa così era diffusa sull’intero territorio, anche nelle campagne dove ancora sopravvivevano culti pagani. Deteneva inoltre il monopolio della cultura e dell’istruzione. Quanto diverso dall’impero di Roma! Anche se pretendeva di essere l’erede di Roma, l’impero di Carlo era profondamente diverso. Intanto aveva due anime – una franco-germanica e una romano-cattolica – e due centri nevralgici. Carlo Magno aveva infatti voluto porre la propria residenza preferita ad Aquisgrana, situata nella valle del Reno, dove aveva fatto costruire il palazzo imperiale e una magnifica cappella palatina, mentre Roma rimaneva la sede del papato e capitale spirituale e morale dell’impero. L’asse portante dell’impero correva quindi lungo la linea nord-sud, da Aquisgrana a Roma, mentre quello romano era stato un asse mediterraneo est-ovest. E se l’impero romano aveva come centro l’Italia e il Mediterraneo, che a buon diritto i romani definivano mare nostrum, al contrario l’impero carolingio era continentale, escluso dal Mediterraneo diviso tra arabi e bizantini, anche perché non aveva neppure una flotta; il suo baricentro era invece nel cuore dell’Europa, lungo il Reno tra Gallia e Germania, e l’Italia centro-settentrionale costituiva solo il suo confine meridionale. Neanche i confini dei due imperi, infatti, coincidevano: all’impero di Carlo mancavano l’Italia meridionale ancora sotto i bizantini, la penisola iberica e l’Africa settentrionale, dominio degli arabi, la Britannia e l’Irlanda, in mano ai barbari. In compenso comprendeva territori della Germania rimasti fuori dai confini romani. Diverso in tutto Al nuovo impero mancava soprattutto quel carattere universale che i romani avevano realizzato. Giuridicamente era un insieme composito di popoli diversi per lingua, cultura e istituzioni, la cui precaria unità era garantita solo dal carisma di Carlo e dalla presenza capillare della Chiesa sul territorio. Scomparso l’apparato burocratico statale romano, mancavano le strutture amministrative, mentre vigeva ancora la concezione franca dello stato come patrimonio del re, estranea al mondo romano. L’impero romano, poi, era fondato su una fitta rete di centri urbani legati tra loro che facevano capo a Roma, prima, e a Costantinopoli, poi, mentre Aquisgrana non era una vera capitale (la corte, secondo la tradizione franca, continuava a essere itinerante) e le città fondate da Carlo erano solo avamposti militari a difesa dei confini. Sotto il profilo economico, l’impero carolingio restava un mondo rurale, con traffici commerciali limitati al livello locale e una rete stradale – ancora quella romana – ormai in dissesto. Culturalmente, poi, quanto Roma era aperta sul piano religioso e culturale in genere, tanto quello carolingio aveva una precisa identità cristiana e cattolica, e si contrapponeva decisamente ad arabi islamici e bizantini iconoclasti. Anche la lingua latina, comune ai due imperi, in realtà in epoca carolingia era usata ormai quasi solo dall’amministrazione e dalla chiesa, mentre si andavano diffondendo le lingue volgari nazionali. Dida Un’anticipazione di Europa Con l’impero di Carlo Magno l’Europa si definì per la prima volta come unità politica. Gli stessi contemporanei ne riconoscevano il merito a Carlo e i poeti gli attribuivano titoli come “faro d’Europa” e “padre dell’Europa”. Carlo tuttavia non progettava un’unità europea, quanto un impero universale cristiano, e la storia successiva si diresse, in effetti, verso la creazione di stati nazionali e non verso uno stato europeo. Ma l’idea di un organismo unificante era nella mente degli europei e ha condotto alla nascita dell’Unione Europea attuale. Tra scontri … Per Costantinopoli l’incoronazione di Carlo fu una provocazione e un’usurpazione del titolo imperiale: l’imperatore non poteva accettare che un sovrano barbaro fosse suo pari e mettesse in discussione l’unicità dell’impero romano. Finché governò Irene, per qualche tempo la stessa Chiesa progettò tra i due sovrani un matrimonio che evitasse lo scontro, ma non se ne fece niente, anche perché quando Carlo nell’802 arrivò a Bisanzio, una congiura di palazzo capeggiata dal logoteta Niceforo (un ufficiale addetto all’amministrazione finanziaria, supremo rappresentante dell’autorità imperiale) aveva eliminato l’imperatrice, forse proprio per evitare un matrimonio inaccettabile. Niceforo (802-811), esponente del partito iconoclasta, contrario all’alleanza coi franchi, si proclamò imperatore, ma dovette impegnarsi contro i bulgari, che attaccavano l’impero da nord, e contro i musulmani guidati dal califfo Harun al-Rashìd (786-809), perciò evitò lo scontro diretto con Carlo Magno. …e alleanze Carlo invece intrecciò proprio col califfo abbaside e con il mondo islamico rapporti tali da garantire la difesa dei cristiani che abitavano nell’impero arabo e dei luoghi sacri del cristianesimo. Era stato lo stesso patriarca di Gerusalemme che, ritenendo l’impero bizantino troppo debole, aveva affidato a Carlo Magno, perché le difendesse, le chiavi del Sacro Sepolcro insieme al vessillo della città. L’impero arabo e quello carolingio, del resto, erano sufficientemente lontani per non sentirsi in concorrenza e avevano nemici comuni: l’impero bizantino e il califfato omayyade di Cordova. L’ultima vittoria Libero di agire in Occidente, Carlo poté occupare, tra l’806 e l’810, Veneto, Istria e Dalmazia. Per di più nell’812 l’imperatore Michele I, il fratello di Niceforo che gli era succeduto l’anno prima, riconobbe a Carlo il titolo di “imperatore e augusto”, ma non quello di “imperatore dei Romani” che mantenne per sé. In cambio volle la restituzione di Venezia, che cominciava a diventare importante per i rapporti anche commerciali con l’Occidente ed era l’ultima base bizantina in Italia settentrionale. La traslatio, il “trasferimento”, dell’impero di Roma da Oriente a Occidente era ormai compiuta e fu l’ultimo successo di Carlo Magno, che morì due anni dopo, nell’814. Il suo impero si estendeva per un milione di chilometri quadrati, dalla Spagna all’Italia centrosettentrionale, dal Baltico al Danubio: equivaleva quasi all’estensione dell’impero bizantino e nessun altro regno poteva contare in Europa su un’estensione così vasta. Era dai tempi dell’impero romano che in Occidente non esisteva uno stato tanto esteso. Dida Venezia sulla via di un grande futuro Sulle isole della laguna già al tempo di Attila si erano rifugiati gli abitanti di Aquileia, ma la città moderna nacque nell’809 quando la sede della confederazione delle isole si spostò dall’isola di Malamocco a quella più difesa di Rialto dove si costruirono monasteri e i primi edifici pubblici che sarebbero diventati poi il palazzo ducale o la basilica di San Marco. La città fu a lungo contesa da longobardi, bizantini e franchi, ma preferì fare atto di sottomissione a Bisanzio, più lontana e meno pericolosa per l’indipendenza della città che divenne leader nei commerci tra Oriente e Occidente e raggiunse una ricchezza e una potenza notevoli. 3. L’ORGANIZZAZIONE DELL’IMPERO 3.1 Una diversa struttura amministrativa Un impero senza capitale né fisco… L’impero creato da Carlo riuniva popoli diversi per etnia e tradizioni, ma accomunati da un’unica religione, quella cattolica, e tenuti insieme dal carisma e dalla fama di grande condottiero del sovrano che poteva controllare e tenere a bada con legami personali i suoi vassalli e il loro seguito. Egli era investito di imperium, che gli permetteva di promulgare leggi e punire i trasgressori (potere civile) e di mobilitare guerrieri e guidarli in guerra (potere militare). Il fulcro del potere era il palatium, che indicava sia la sede del sovrano, posta nelle sue diverse residenze sparse per tutto l’impero, sia la corte, composta dal re e da dignitari e funzionari, tra cui i comites palatini, i “compagni di palazzo”, cioè i famosi paladini, i più fedeli vassalli del re che costituivano la sua guardia del corpo e si spostavano con lui da una sede all’altra. L’impero carolingio non aveva infatti una capitale. Se Aquisgrana era la sede preferita di Carlo, gli spostamenti della corte erano necessari per attingere alle rendite delle centinaia di villae che costituivano il patrimonio familiare del re, su cui si fondava tutto il suo potere e la sua forza economica. Carlo, infatti, che non poteva contare su una rete amministrativa come quella di Bisanzio, in grado di gestire un sistema fiscale, per mantenere la corte era costretto a prelevare proventi, per lo più in natura, dalle sue proprietà personali. Dida per img paladino I paladini erano i “conti palatini” che proteggevano il re: per questo oggi il termine “paladino” indica un difensore, in particolare di un’ideale: si dice, ad esempio, “il paladino della giustizia”. Il più famoso paladino di Francia era Rolando, Orlando in italiano, protagonista dei canti epico cavallereschi. … suddiviso in contee… I problemi di organizzazione di un territorio così vasto richiedevano una nuova struttura politica e amministrativa, che Carlo Magno fondò sui vassalli legati a lui da vincoli di fedeltà personale. Li trasformò, infatti, in una classe dirigente fedele anche all’impero, lasciò in vita gli antichi tre regni franchi (Neustria, Austrasia e Burgundia), l’Aquitania e il regno longobardo, di cui manteneva il titolo di re, e alcuni ducati in Baviera e nei territori longobardi, che assegnò a suoi vassalli nominati duchi. Quindi suddivise i vari regni e ducati che costituivano il territorio imperiale in contee, in numero che gli storici calcolano tra 250 e 500, ampie di norma quanto una nostra provincia e affidate a conti, scelti tra i suoi maggiori vassalli e compagni d’armi. A loro delegò alcuni dei propri poteri sia civili che militari: il banno, cioè il potere di comandare, stabilire leggi (potere legislativo), costringere a rispettare le norme (potere esecutivo), imporre tributi e punire i trasgressori, amministrare la giustizia (potere giudiziario), arruolare truppe per rifornire l’esercito imperiale (potere militare). A coadiuvarli pose visconti (vicecomites) e scabini, giudici di professione. Tuttavia Carlo rese l’impero un’entità superiore che univa le diverse realtà, senza annullarne l’identità. … raggruppate in marche… Le contee erano in genere poste in zone centrali e protette, mentre nelle zone di frontiera o in quelle di recente acquisizione, che presentavano problemi di difesa, le contee venivano raggruppate in marche, assegnate a un marchese, un vassallo particolarmente affidabile e abile sia nell’amministrazione sia nel comando militare. Il marchese disponeva di numerose truppe, godeva di maggiore autonomia e di più ampi poteri rispetto ai conti e aveva il diritto di trattenere per sé una quota delle entrate pubbliche ricavate dal territorio a lui affidato. La marca d’Austria e quelle di Germania fronteggiavano il mondo slavo, quella ispanica la Spagna islamica, mentre la regione italiana che conserva ancora oggi l’antico nome di Marche era l’avamposto meridionale contro longobardi e bizantini. … e controllate dai missi dominici Conti e marchesi non erano proprietari delle terre che amministravano e non potevano trasmetterle in eredità perché alla loro morte tornavano al sovrano. Inoltre, a controllare il loro operato e a frenarne le tendenze autonomistiche, il re istituì i missi dominici, gli “inviati del signore”, funzionari itineranti, scelti nei ranghi dell’aristocrazia perché si potessero porre alla pari con conti e marchesi. Si muovevano in coppia, un conte e un vescovo, attraverso le contee loro affidate, e facevano conoscere le nuove leggi ed eseguire le disposizioni imperiali, amministravano la giustizia nelle cause di competenza del sovrano, indicevano censimenti, ispezionavano lo stato delle rendite pubbliche: rappresentavano, insomma, il potere centrale del re di contro al decentramento amministrativo. Compiti e privilegi della Chiesa nell’impero Un ruolo di controllo svolgeva anche la Chiesa. Infatti Carlo si arrogò il diritto di nominare i vescovi all’interno dell’impero, che erano perciò sottoposti alla sua autorità ancor più che a quella papale, e li incaricò di sorvegliare l’operato dei vassalli; si assicurò che ogni contea avesse una sede vescovile e concesse sempre più frequentemente immunità, cioè privilegi – ad esempio esenzione dalle tasse e dal controllo dei funzionari – che sottraevano molte chiese vescovili e abbazie al controllo e alla giurisdizione di conti e marchesi, ma le sottoponevano comunque al controllo degli advocati, agenti laici scelti dal sovrano. Infine impose a ogni comunità rurale il pagamento annuale della decima a favore delle pievi (G), le parrocchie di campagna: era l’unica imposta pubblica estesa a tutto l’impero, che sosteneva la diffusione capillare delle chiese. Glossario Pieve Le pievi, che si diffusero nelle campagne in età carolingia, derivano il loro nome dal latino plebs, “plebe, popolo”, e indicavano le circoscrizioni ecclesiastiche all’esterno della città e la chiesa parrocchiale della circoscrizione stessa. Erano più estese rispetto alle parrocchie di città. Placiti e capitolari per governare Il potere centrale si manifestava soprattutto attraverso l’emanazione di nuove leggi che correggevano e modificavano le leggi e gli usi dei popoli assoggettati. Si continuarono a tenere le grandi assemblee della tradizione franca, dette placiti (letteralmente “pareri, sentenze”), in cui tutto il popolo, di solito due volte all’anno in estate e in autunno, si riuniva per deliberare. Carlo però convocava ai placiti solo l’aristocrazia e l’alto clero (abati e vescovi), gli unici in diritto di approvare le leggi, i cosiddetti capitolari. Erano editti redatti in una lunga serie di articoli, capitula, compilati dai consiglieri del re, quasi tutti ecclesiastici perché erano i soli a sapere scrivere e a conoscere il latino e le tradizioni giuridiche di Roma. I capitolari non eliminavano le antiche consuetudini e non costituirono un codice organico di leggi. Carlo ne emanò una sessantina, ma dopo la sua morte l’attività legislativa diminuì e l’ultimo capitolare fu emanato nell’884. Misure economiche fallimentari L’imperatore intervenne anche nell’economia: favorì la diffusione di monete d’argento, di due grammi, più adeguate a scambi commerciali di modesto valore; pose limiti all’usura e fissò il prezzo massimo dei prodotti di prima necessità nei periodi di carestia. Ma siccome non riuscì a far approvare all’aristocrazia leggi che punissero i trasgressori, i provvedimenti restarono sulla carta e i grandi proprietari terrieri al momento del raccolto continuarono a fare incetta di prodotti, per poi rivenderli a prezzi assai maggiori quando scarseggiavano. 3.2 La rinascita carolingia Un’idea nuova di Europa Se il progetto politico di Carlo si reggeva fondamentalmente sul suo carisma e non ebbe lunga durata dopo la sua morte, l’opera di rinnovamento generale impressa dal sovrano incise invece profondamente nella coscienza dei popoli europei e lasciò in eredità all’Europa la sintesi tra mondo romano-cristiano e mondo germanico, che egli aveva realizzato. Per questo, da più parti si sostiene che Carlo Magno può essere considerato il “padre dell’Europa”. Avvalendosi del legame con la Chiesa, egli accomunò i popoli sotto un’unica fede, elaborò una legislazione comune attraverso i capitolari, che, pur non costituendo un codice organico, erano validi per tutto l’impero, valorizzò le tradizioni del mondo classico e quelle germaniche, uniformò le regole ecclesiastiche, unificò il sistema monetario, favorì la rinascita della cultura attraverso il recupero di quella classica, progettò un destino comune dell’intera Europa, anche se sarebbero occorsi secoli perché si realizzasse e ancora oggi non si può dire compiuto. Scuole riservate Nell’età antica la cultura era alla base della formazione della classe dirigente e distingueva un romano da un barbaro; con l’avvento dei regni barbarici, la nuova classe dirigente guardava con sospetto e senso d’inferiorità a un sapere estraneo, che rischiava di corrompere la purezza di costumi e le tradizioni germaniche. Con la fusione operata dai carolingi nacque un ceto intellettuale nuovo, costituito soprattutto da chierici, perché, scomparsa la scuola pubblica romana, la cultura era diventata monopolio della chiesa. Intorno a Carlo si creò un circolo di intellettuali, soprattutto inglesi, perché proprio in Inghilterra e Irlanda erano fioriti monasteri che si occupavano della trasmissione del sapere. Inglese era, in particolare, Alcuino da York, che organizzò la Schola Palatina, la scuola del palazzo di Aquisgrana, il centro culturale più importante dell’Europa occidentale, e fissò un programma di studio fondato sulle arti del trivio (grammatica, retorica e dialettica) e del quadrivio (aritmetica, geometria, astronomia e musica), che costituivano già in epoca tardo-antica le sette arti liberali, cioè degne di un uomo libero, non finalizzate al guadagno. Carlo Magno, che a quanto riferisce Eginardo era in grado di leggere ma non di scrivere, appoggiò la rinascita della cultura, la diffusione di una rete di istituzioni scolastiche, presso i monasteri e le cattedrali sparse nell’impero, destinate alla formazione del clero e dei funzionari imperiali. Ma questa operazione di politica culturale che viene chiamata “rinascita carolingia” era finalizzata anche a dare una nuova immagine dell’impero, soprattutto agli occhi del colto e raffinato impero bizantino. Anche per questo ad Aquisgrana Carlo Magno fece innalzare, come abbiamo detto, un palazzo dotato di una magnifica Cappella Palatina, costruita sul modello della chiesa bizantina di San Vitale a Ravenna. La lingua scissa Nelle scuole si insegnava il latino, che rimaneva l’unica lingua in grado di accomunare le diverse genti dell’impero e che aveva alle spalle una lunga tradizione. Il popolo utilizzava invece nuove lingue definite volgari, proprio perché parlate dal volgo, nate dall’incontro di antichi dialetti, latino e lingue germaniche. Ma proprio l’uso in ambito colto di una lingua non più parlata dalla gente comune determinò uno scollamento della cultura ufficiale, alta e scritta, dalla cultura popolare orale, fatta di leggende e tradizioni antiche, disprezzate dai dotti come manifestazioni inferiori, basate su superstizioni e ignoranza. Un’illustre minuscola I principi fondanti della nuova civiltà non erano il valore militare e l’onore, come per i greci, o il legame con la tradizione, come per i romani, o il coraggio per i germani, ma la preghiera e il lavoro, visto come disciplina e dedizione al bene comune e non come schiavitù. Per questo Carlo diffuse la Regola benedettina, che dava rilievo al lavoro manuale, svolgeva un ruolo di sviluppo economico nelle zone più disagiate, si occupava della copiatura di testi classici e della trasmissione della cultura. Nei monasteri si diffusero gli scriptoria, luoghi di trascrizione, in cui si impose tra l’altro una nuova grafia, la minuscola carolina, con lettere tondeggianti e ben delineate, che soppiantò gli altri tipi di scrittura molto difficili da leggere e da scrivere. La scrittura finalmente fu utilizzata nuovamente per scopi civili e amministrativi, oltre che religiosi. La diffusione della Regola benedettina uniformò la Chiesa nella direzione voluta da Carlo Magno. Dida Elegante e chiara La minuscola carolina, chiara, elegante e facilmente leggibile divenne il modello degli stampatori di sei secoli dopo, cosicché è alla base della nostra scrittura. Le Bibbie fatte scrivere in minuscola carolina da Alcuino sono tra i manoscritti più belli giunti fino a noi.