Giorgio Morganti La Grande Crisi può essere considerata uno spartiacque nella storia economica e sociale. Per farvi fronte tutti i paesi si videro obbligati a inventare nuove forme di politica economica diverse da quelle dell’ortodossia liberale. In questo capitolo incontreremo la posizione di Karl Polanyi e di Joseph Schumpeter e la loro analisi sulle cause del declino. Pur muovendo da posizioni culturali e politiche diverse, entrambi concordano sull’importanza delle cause sociali e politiche del declino del capitalismo liberale. Ed entrambi delineano l’emergere di un nuovo capitalismo più regolato dalle istituzioni politiche. L’800 fu il secolo d’oro del capitalismo liberale perché in cent’anni non ci fu una grande guerra, il mercato assicurò una forte crescita della produzione e degli scambi. Col tempo però emersero però quelle tensioni sociali e politiche che sono state analizzate nel capitolo precedente (la classe operaia aspirava al riconoscimento sociale ed all’integrazione politica). già negli ultimi decenni del secolo cominciano a manifestarsi le difficoltà del capitalismo liberale a tenere insieme crescita economica, integrazione sociale e rapporti pacifici tra gli stati. Sul piano economico sulle realtà più piccole pesava la concorrenza e queste chiedevano protezionismo industriale e agrario; ma questo significava frenare gli scambi internazionali ed intensificare la politica coloniale la quale sfociò nella prima guerra mondiale. Dopo la guerra nulla tornò come prima. Il conflitto comportò costi economici e sociali altissimi e nonostante i tentativi di ricostruire l’ordine prebellico, le condizioni economiche e sociali restarono estremamente instabili. Negli anni ’20 l’Europa è duramente provata, deve far ricorso a ingenti prestiti forniti dagli Stati Uniti, ma la ripresa economica è lenta, la disoccupazione resta elevata così come i conflitti sociali e politici. Dal punto di vista economico, il commercio internazionale stenta a riprendersi e a tornare ai livelli prebellici, mentre la produzione di manufatti cresce a ritmi elevati, trainata dalle innovazioni tecnologiche e organizzative e dal formarsi di grandi imprese. Il persistente protezionismo doganale ostacola gli scambi e non aiuta quindi a fronteggiare la tendenza alla sovrapproduzione dei beni industriali. Anche la domanda dei paesi meno sviluppati, afflitti dal calo dei prezzi agricoli e delle materie prime, è debole. In questa situazione, la dipendenza dai prestiti americani dell’economia europea (soprattutto quella tedesca gravata anche dai danni di guerra da ripagare) è molto elevata. Si trattava di una situazione ad alto rischio, perché l’interruzione dei flussi creditizi americani avrebbe potuto avere effetti a catena disastrosi sull’economia europea e mondiale Ed è proprio questo che si verificò inseguito al crollo della Borsa di New York nel 1929. La Grande Crisi trascinò tutta l’economia dei paesi sviluppati in una gravissima e prolungata depressione, con crollo della produzione, fallimenti a catena delle imprese e picchi di disoccupazione mai raggiunti in precedenza. La Grande Crisi si può considerare come uno spartiacque ideale nella storia economica e sociale. Questa situazione eccezionale portò tutti i paesi ad allontanarsi dall’ortodossia liberale nella politica economica interna e internazionale; la nuova prospettiva si basò sull’assunto che la mano dello stato è indispensabile sia nei buoni che nei cattivi momenti; esso può garantire una crescita economica continuata in un’atmosfera di armonia sociale; l’economia deve porsi al servizio dello stato e non viceversa. Su questo sfondo si colloca la riflessione di Karl Polanyi e Joseph Schumpeter. Mentre Durkheim e Veblen contribuirono a mettere a fuoco le conseguenze sociali del capitalismo liberale, Polanyi e Schumpeter si concentrarono sulla crisi di questa forma di organizzazione economica. Essi studiano i processi di cambiamento che si vanno sperimentando a partire dagli anni ’30: la formazione di un capitalismo più regolato, in cui lo spazio del mercato si riduce e l’economia viene reincorporata nella società. Anche questi due autori non vengono da percorsi intellettuali diversi e sono politicamente su posizioni opposte (Polanyi è un socialista e Schumpeter un liberista conservatore), tuttavia ciò rende più interessante il fatto che le loro analisi presentino notevoli affinità, contribuendo a dare un ulteriore importante fondamento alla prospettiva d’indagine della sociologia economica. Karl Polanyi (1886 – 1964, ungherese) non si può considerare in senso stretto come un sociologo economico. Si mosse tra la storia economica, l’antropologia e la sociologia della vita economica: dalla Budapest di inizio secolo, dove si accosta al socialismo riformista, alla Vienna del dopoguerra, dove partecipa al dibattito sui fondamenti metodologici delle scienze sociali e a quelli su mercato e pianificazione. Costretto a emigrare in Inghilterra, entra in contatto con il socialismo laburista e si guadagna da vivere come insegnante tenendo corsi per gli operai. È in questo periodo che, accanto alla riflessione sul fascismo, comincia a lavorare al tema delle trasformazioni del capitalismo liberale e si avvicina agli studi di antropologia e di storia economica. La sua opera più nota è La grande trasformazione 1944, quando l’autore era ormai vicino a sessant’anni. Trasferitosi a New York, dove ottiene un incarico di insegnamento alla Columbia University, si dedicherà agli studi sull’organizzazione economica delle società primitive, arcaiche e antiche. Anche Polanyi è un istituzionalista: l’azione economica non è comprensibile in termini individualistici, ma è influenzata dalle istituzioni sociali. I suoi saggi in merito sono stati raccolti dopo la sua morte in due volumi: Economie primitive, arcaiche e moderne del 1969 e La sussistenza dell’uomo del 1977. Richiamandosi ai contributi dell’antropologia (Malinowski e Thurnwald) cerca di mostrare che il motivo del guadagno non è “naturale” per l’uomo. Le economie primitive non sarebbero comprensibili se si attribuissero ai loro protagonisti motivazioni utilitaristiche. Esse funzionano invece sulla base di complesse reti di obbligazioni condivise che motivano il comportamento Solo negli ultimi secoli, con il crescere dell’economia di mercato, il perseguimento del guadagno è diventato rilevante. È quindi un’istituzione, il mercato, che incentiva un’azione economica improntata alla ricerca del guadagno (quindi la naturale propensione dell’uomo al commercio, l’uomo economico di Smith, era il frutto di un fraintendimento storico che anticipava ciò che sarebbe avvenuto molto più tardi). Per Polanyi l’indagine economica non può essere separata dal contesto storico. Polanyi individua tre principi fondamentali di regolazione delle attività di produzione, distribuzione e scambio dei beni che chiama forme di integrazione dell’economia: reciprocità, Nelle società in cui prevalgono la reciprocità e la redistribuzione non vi è la ricerca del guadagno. Polanyi fa notare come nella società moderna continuino ad esistere tali forme di integrazione (reciprocità: genitori con figli e viceversa; redistribuzione: lo stato sociale mediante la tassazione e la spesa pubblica redistribuisce risorse e potere d’acquisto dai più ricchi ai più poveri Lo scambio di mercato è la forma di integrazione dell’economia che appare solo di recente nella storia dell’umanità che raggiunge il suo culmine nel corso dell’800: si produce sulla base dei prezzi per determinati beni e si remunera il lavoro sulla base di prezzi che si . In presenza di mercati regolatori dei prezzi si dice che sono mercati autoregolati. È solo in questo quadro che si può propriamente parlare di motivazioni utilitaristiche dell’azione economica. La grande trasformazione ha l’obiettivo di spiegare come siano emersi i presupposti istituzionali dello scambio di mercato e di come essi siano stati investiti da una progressiva trasformazione che sfocia nel superamento del capitalismo liberale, con la diffusione di forme moderne di redistribuzione legate allo stato. Prima dobbiamo parlare ancora di due aspetti della riflessione metodologica di Polanyi: - il concetto di sistema economico, tipico della tradizione della sociologia economica viene legato a quello di forma di integrazione; - le forme di integrazione non rappresentano “stadi” dello sviluppo (cioè non si avvicendano temporalmente) ma vi sono di solito più forme che si combinano in un sistema economico in cui una è prevalente. Polanyi introduce la distinzione tra economia: - formale: il termine economia è sinonimo di economizzare ed indica il processo razionale di allocazione di risorse scarse. Tale definizione è tipica dell’economia neoclassica e si riferisce alla logica formale del rapporto mezzi-fini, che può essere applicata a vari campi concreti; - sostanziale: il termine economia fa riferimento alla sussistenza umana e cioè che l’uomo dipende per la sua sopravvivenza dalla natura e dagli altri uomini (egli sopravvive in virtù di un’interazione istituzionalizzata fra se stesso e il suo ambiente naturale). Per Polanyi la fallacia economicistica tende a legare la sussistenza all’allocazione razionale delle risorse scarse da parte di soggetti che cercano di ottenere il massimo reddito dai mezzi di cui dispongono. Ma questo avviene soltanto laddove si sia affermato lo scambio di mercato. Per questo egli ritiene importante per le scienze sociali (storia, antropologia, sociologia economica) un concetto più ampio di economia che può permettere lo studio e la comparazione nel tempo e nello spazio di sistemi economici diversi. Questo libro parla della grande trasformazione che investe le società occidentali a partire dagli anni ’30, un cambiamento che porta al superamento del capitalismo liberale affermatosi nel ‘800. Ne uscirà ridimensionato lo spazio del mercato come forma di integrazione dell’economia, e lo stato tornerà ad assumere un ruolo più rilevante per la regolazione dell’economia e della società. Polanyi si pone due interrogativi: - quali siano le origini storiche del mercato autoregolato; - quali siano le conseguenze sociali ed economiche del mercato autoregolato tra gli ultimi decenni dell’800 e la Grande Crisi del ’29 dalla quale si avvierà la grande trasformazione. Polanyi ha già spiegato che l’esistenza di mercati nel commercio dei beni ha origini ben più antiche e non è decisiva per l’emergenza del nuovo sistema economico vediamo allora come si formano i mercati per la terra e per il lavoro. Essi non vengono creati per effetto del graduale sviluppo della naturale propensione allo scambio (com’era suggerito da Smith e dagli economisti classici) ma emergono come conseguenza di interventi politici e di misure amministrative. Questi interventi si sviluppano dal ‘400 all’800, e in forme differenziate nei diversi paesi: per quanto riguarda la terra si verificò l’eliminazione del controllo feudale, la secolarizzazione delle proprietà della chiesa, fino ad arrivare al riconoscimento giuridico della commerciabilità dei diritti di proprietà. Con la crescita delle città, quindi l’esigenza di mantenimento delle popolazioni urbane, si sviluppò la piena commercializzazione dei beni prodotti dalla terra e i proprietari terrieri furono spinti a incrementare la produzione per la vendita sul mercato. Polanyi si concentra soprattutto sulla formazione del mercato del lavoro prendendo in considerazione la storia inglese. In Inghilterra il lavoro restò a lungo sottoposto a una serie di restrizioni. Ancora nel 1795 fu introdotto il sistema di sussidi che limitava la dipendenza delle condizioni di vita dalla vendita della forza lavoro sul mercato (si tratta dell’introduzione di una sorta di reddito minimo da garantire ai poveri indipendentemente dai loro guadagni; se essi ricevevano un salario al disotto del livello previsto rispetto a uno standard che teneva conto del carico familiare, avevano diritto a un sussidio). A poco a poco questo sistema determinò un abbassamento dei salari e una crescita consistente dei sussidi Fu così che sotto la pressione degli imprenditori e della classe media, si arrivò nel 1834 all’abolizione del sistema dei sussidi e da quel momento cominciò a funzionare pienamente in Inghilterra un mercato del lavoro concorrenziale. Polanyi passa poi ad analizzare le conseguenze sociali dell’affermazione del sistema economico e gli effetti che ne discendono per l ‘economia, e che porteranno alla Grande Crisi della fine degli anni ’20. Il punto di partenza di questo nucleo centrale de La grande trasformazione è l’idea che il lavoro, la terra e la moneta vengono trasformati in merci, cioè in beni prodotti per essere comprati e venduti sul mercato. Ma non si tratta di merci come le altre, perché il lavoro è legato alla vita umana, così come la terra è un aspetto della natura e la moneta è un simbolo del potere di acquisto. Non si tratta dunque di vere merci ma di merci fittizie per cui il loro trattamento come semplici beni economici sui mercati autoregolati porta a conseguenze distruttive per la società. Il processo di formazione del mercato del lavoro si accompagna alla progressiva distruzione delle forme di protezione tradizionale (parentela, vicinato): gli individui e le loro famiglie furono sradicati dal contesto ambientale e sociale in cui vivevano e costretti a spostarsi per ricercare occasioni di lavoro. Nella fase iniziale della rivoluzione industriale la forte instabilità di guadagni ha portato alla formazione di sacche di disoccupazione e di nuova povertà nelle periferie delle città industriali, condizioni di lavoro e di vita degradate. Quindi con il mercato del lavoro si creò anche una miseria moderna, fino ad allora sconosciuta alle società tradizionali. Conseguenze sociali non meno pesanti si manifestano anche dal punto di vista della natura. Il libero scambio dei prodotti, accompagnato dal miglioramento dei trasporti, mise in crisi quote crescenti di produttori agricoli, specie nel continente europeo, presto inondato dal grano americano. I contadini dovettero abbandonare le campagne alla ricerca di un lavoro e si determinò la distruzione della società rurale. Insomma, è vero che i mercati del lavoro, della terra e della moneta sono essenziali per un’economia di mercato, ma la società non può a lungo sopportare i costi che le vengono imposti da tali modalità di funzionamento dell’economia. Ed è proprio per questo che cominciano a manifestarsi dei meccanismi di autodifesa della società. Conseguenze sociali non meno pesanti si manifestano anche dal punto di vista della natura. Il libero scambio dei prodotti, accompagnato dal miglioramento dei trasporti, mise in crisi quote crescenti di produttori agricoli, specie nel continente europeo, presto inondato dal grano americano. I contadini dovettero abbandonare le campagne alla ricerca di un lavoro e si determinò la distruzione della società rurale. Insomma, è vero che i mercati del lavoro, della terra e della moneta sono essenziali per un’economia di mercato, ma la società non può a lungo sopportare i costi che le vengono imposti da tali modalità di funzionamento dell’economia. Ed è proprio per questo che cominciano a manifestarsi dei meccanismi di autodifesa della società. .Nel corso degli ultimi decenni dell’800 si manifesta una sorta di doppio movimento: da un lato si estendono i mercati su tutta la superficie del globo, dall’altro una rete di provvedimenti e misure politiche si integrano in potenti istituzioni destinate a controllare l’azione del mercato relativamente al lavoro, alla terra e alla moneta. Sul fronte del lavoro: sviluppo del movimento operaio, delle organizzazioni sindacali, dei partiti socialisti, nuova legislazione nel campo sociale e del lavoro (regolamentazione dell’orario di lavoro, del lavoro minorile e femminile, assicurazione contro gli infortuni, le malattie, la disoccupazione, la vecchiaia, ecc.). Dal punto di vista dell’agricoltura: a partire dal 1870 si diffondono interventi di protezione tariffaria e di sostegno all’agricoltura. Contadini, proprietari terrieri, ed anche esercito e alto clero, cercano di difendere, con motivazioni diverse ma convergenti, la società tradizionale minacciata dal mercato. Anche il mercato della moneta subisce l’onda protezionista: importante diventa il ruolo delle banche centrali nei vari paesi che controllano l’offerta del credito mitigando gli eventuali effetti negativi derivanti da transazioni internazionali (la crescita dei prestiti attutiva la deflazione dovuta alla riduzione della moneta a causa dei forti pagamenti internazionali). Tuttavia, il nuovo protezionismo ha effetti diversi sulla società e sull’economia di mercato: dal lato della società, attenua i costi e le tensioni legate al diffondersi del mercato; dal lato dell’economia, genera vincoli crescenti che intralciano il funzionamento dei mercati autoregolati nel campo dei fattori produttivi (si riduce la flessibilità e cresce il costo del lavoro, mentre le tariffe doganali limitano gli scambi commerciali). Tuttavia, il nuovo protezionismo ha effetti diversi sulla società e sull’economia di mercato: dal lato della società, attenua i costi e le tensioni legate al diffondersi del mercato; dal lato dell’economia, genera vincoli crescenti che intralciano il funzionamento dei mercati autoregolati nel campo dei fattori produttivi (si riduce la flessibilità e cresce il costo del lavoro, mentre le tariffe doganali limitano gli scambi commerciali). La Grande Crisi del ’2 per Polanyi segna il tramonto del sistema economico basato sui mercati autoregolati e porta al superamento del capitalismo liberale. Per lo studioso ungherese non sono stati né la grande guerra, né l’avvento del socialismo in Russia e nemmeno quello dei regimi fascisti in Europa a provocare la crisi del capitalismo liberale bensì fu il conflitto tra il funzionamento del mercato e le esigenze della vita sociale. È il nuovo protezionismo istituzionale innescato dall’autodifesa della società che irrigidisce e alla fine blocca il funzionamento dei mercati. I regimi fascisti, il New Deal americano, il socialismo russo, sono tutte esperienze che nascono dal fallimento del capitalismo liberale; in esse vi è un tentativo di reintrodurre quelle forme di regolazione sociale e politica che erano saltate con il sistema economico dei mercati autoregolati che faceva dipendere la società dall’economia. Ma in che misura le nuove forme di regolazione possono essere compatibili con la persistenza del mercato e con quella della libertà? I regimi fascisti, il New Deal americano, il socialismo russo, sono tutte esperienze che nascono dal fallimento del capitalismo liberale; in esse vi è un tentativo di reintrodurre quelle forme di regolazione sociale e politica che erano saltate con il sistema economico dei mercati autoregolati che faceva dipendere la società dall’economia. Ma in che misura le nuove forme di regolazione possono essere compatibili con la persistenza del mercato e con quella della libertà? Per Polanyi la fine della società di mercato non significa in alcun modo l’assenza di mercati. L’idea di fondo è che il mercato non sia necessariamente in contraddizione con obiettivi e strumenti di programmazione economica. Il socialismo riformista di Polanyi lo porta a condividere l’idea che in una società veramente democratica il problema dell’industria si risolverebbe per mezzo dell’intervento programmato degli stessi produttori e consumatori. Anche la libertà non scomparirebbe: ci sono libertà cattive la cui scomparsa non sarebbe che vantaggiosa (la libertà di sfruttare gli altri uomini o quella di realizzare guadagni non commisurati ai benefici collettivi) e libertà buone cresciute insieme al mercato che continuano ad avere un elevato valore (libertà di coscienza, di parola, di riunione, di associazione, di scelta del proprio lavoro) ma che è sbagliato pensare che esse dipendano solo dall’esistenza dei mercati autoregolati. Polanyi conclude dicendo che nella società umana non vi è una determinante unica e che la fine del capitalismo liberale non comporta necessariamente quella del mercato e delle libertà. Anche la libertà non scomparirebbe: ci sono libertà cattive la cui scomparsa non sarebbe che vantaggiosa (la libertà di sfruttare gli altri uomini o quella di realizzare guadagni non commisurati ai benefici collettivi) e libertà buone cresciute insieme al mercato che continuano ad avere un elevato valore (libertà di coscienza, di parola, di riunione, di associazione, di scelta del proprio lavoro) ma che è sbagliato pensare che esse dipendano solo dall’esistenza dei mercati autoregolati. Polanyi conclude dicendo che nella società umana non vi è una determinante unica e che la fine del capitalismo liberale non comporta necessariamente quella del mercato e delle libertà. Joseph Schumpeter (1883 – 1950) è certo più noto come economista che come sociologo, ma è opportuno includerlo nel nostro percorso perché nel suo studio dei fenomeni economici si è sempre posto al di fuori degli schemi convenzionali. Egli diede un contributo importante alla sociologia economica per l’interpretazione del declino del capitalismo liberale e delle nuove forme di organizzazione dell’economia. Per Schumpeter, il cambiamento economico deve essere posto al centro dell’indagine ma ciò lo spinge inevitabilmente a misurarsi con il ruolo delle istituzioni. Schumpeter diede particolare importanza al problema della definizione dei confini tra economia e sociologia economica . Per Schumpeter : - la teoria economica è caratterizzata da un insieme di proposizioni analitiche di cui viene argomentata la validità a determinate condizioni (egli difende come Menger e Weber la validità dell’economia neoclassica; - la storia economica è importante per comprendere i fatti storici e quindi per capire come i fatti economici e quelli non-economici si combinino tra loro nell’esperienza concreta; - la sociologia economica contribuisce allo studio dell’influenza dei fattori non economici, cioè quelli istituzionali, sulle attività economiche e la loro variazione nel tempo e nello spazio. Il punto di partenza dell’analisi di Schumpeter si individua chiaramente nell’insoddisfazione per i limiti della prospettiva economica tradizionale, giudicata incapace di uscire da una visione statica dell’equilibrio economico. Per Schumpeter la crescita è un fenomeno graduale, fatto di continui aggiustamenti partendo dalla combinazione dei fattori dell’economia tradizionale mentre lo sviluppo implica invece una discontinuità e quindi l’introduzione di nuove combinazioni (può riguardare cinque dimensioni: creazione di prodotti; introduzione di nuovi metodi di produzione; apertura di nuovi mercati; scoperta di nuove fonti di approvvigionamento di materie prime o semilavorati; riorganizzazione di un’industria, es. creazione di monopolio). Egli riconosce che lo sviluppo può derivare da motivi extraeconomici (crescita della popolazione, improvvisi rivolgimenti sociali e politici) ma il suo interesse si concentra però sullo sviluppo legato all’azione degli imprenditori: siano essi proprietari dei mezzi di produzione oppure manager, l’importante è che la sua attività sia innovativa e non routinaria (solo alla prima si collega per Schumpeter il concetto di imprenditore); non è necessario un rapporto continuativo con una singola impresa, essi possono lanciare innovazioni in un azienda e poi spostarsi in altra, e così via; non devono appartenere ad una specifica classe sociale, chiunque può aspirare a diventarlo dal basso grazie al credito concesso dalle banche. L’imprenditore che vuole realizzare un’innovazione: deve misurarsi con carenze di informazioni e condizioni di maggiore incertezza; deve combattere e vincere le resistenze che vengono dai suoi schemi mentali consolidati e quelle che vengono dall’ambiente sociale; deve superare gli impedimenti giuridici e politici e la disapprovazione sociale e delle altre imprese minacciate dall’innovazione. È per questo che l’imprenditore innovatore deve avere una personalità che non può essere riconducibile al semplice calcolo razionale richiamato dalla teoria tradizionale. In un successivo testo del 1928 egli chiarisce meglio i legami dell’imprenditore-innovatore con un particolare retroterra sociale e istituzionale distinguendo tra: padrone di fabbrica che unisce insieme compiti amministrativi, tecnici, commerciali; è proprietario dei mezzi di produzione (fase iniziale dell’economia di mercato); capitano d’industria, proprietario di capitale azionario, che innova operando soprattutto attraverso il controllo finanziario sulle aziende, o manager di formazione tecnica, distaccato dagli interessi capitalistici ma che è spinto ad innovare dal suo orientamento alla buona prestazione professionale (fase più evoluta del capitalismo); fondatore di imprese, si tratta della figura specifica dell’imprenditore puro, che intrattiene con le imprese solo rapporti temporanei. In questo lavoro Schumpeter analizza le trasformazioni del capitalismo liberale e gli effetti della Grande Crisi nella prospettiva della sociologia economica perché si mette in evidenza come il funzionamento dell’economia capitalistica determini un cambiamento della cultura e delle istituzioni che a sua volta fa inceppare i meccanismi di autoregolazione dei mercati (passaggio da capitalismo non regolato a capitalismo regolato). Egli si dichiarò d’accordo con la previsione di Marx, ma per motivi diversi: il capitalismo non sarebbe sopravvissuto, ma non per fattori di natura economica, bensì per le reazioni culturali e sociali che il suo funzionamento provocava. • Perché il declino non ha cause economiche? Schumpeter si preoccupa inizialmente di contrastare la tesi che l’evoluzione del capitalismo implichi un aumento della disoccupazione. La crescita dei disoccupati negli anni ’30 è risultata molto elevata, ma si è trattato di un fenomeno temporaneo, legato alla fase di recessione che di solito segue, nel ciclo economico, una fase di prosperità legata ad un periodo di innovazione. Il fenomeno è stato però aggravato da fattori contingenti: 1. - la coincidenza di una crisi agraria indotta da nuovi metodi di produzione che aumentano la produttività, a fronte di restrizioni doganali che limitano gli scambi; 2. gli effetti deflattivi legati alla politica monetaria e al ripristino del sistema aureo; 3. - i pagamenti di guerra; 4. - il livello dei salari, diventati più rigidi; 5. - l’accresciuta pressione fiscale. Per Schumpeter è essenziale il processo di distruzione creatrice che porta a rivoluzionare il sistema produttivo con i cicli di innovazione. Nel corso dello sviluppo l’impulso al formarsi di nuove combinazioni si basa meno sugli imprenditori individuali e tende a istituzionalizzarsi all’interno delle imprese più grandi che soppiantano quelle più piccole (perché hanno più risorse finanziarie, organizzative, di ricerca, di controllo del mercato). Nel breve periodo ciò può portare a prezzi alti e a restrizioni della produzione, ma a medio e lungo termine si diffondono vantaggi legati alla qualità e ai costi, che migliorano per effetto dell’innovazione. Quindi, dal punto di vista dinamico, la concorrenza di tipo oligopolistico o monopolistico, creando nuovi beni, nuove tecniche, nuove fonti di approvvigionamento e metodi di organizzazione è lo stimolo imperioso che a lungo andare espande la produzione e riduce i prezzi. Le restrizioni e i profitti imprenditoriali di tipo monopolistico sono il prezzo necessario, ma temporaneo, da pagare perché possa esserci l’innovazione e perché i suoi effetti benefici possano poi diffondersi a tutto il sistema e giungere fino ai consumatori. Le cause culturali e sociali del declino Passiamo così alla seconda parte dell’argomentazione di Schumpeter che riguarda l’analisi delle cause culturali e sociali del declino del capitalismo liberale: 1) l’indebolimento della borghesia: le grandi imprese burocratizzate soppiantano sempre più le piccole e medie aziende per cui l’imprenditore individuale perde la sua funzione sociale, ma ciò finisce per indebolire la borghesia che in passato era alimentata dal continuo formarsi di nuovi imprenditori di successo. Altro fattore è la disintegrazione della famiglia borghese 2) la distruzione degli strati sociali che sostenevano la borghesia: si tratta del ruolo dell’aristocrazia che nei paesi europei era sopravvissuta alla distruzione del feudalesimo assumendo un ruolo essenziale per la formazione della classe dirigente; 3) il diffondersi di un’atmosfera sociale ostile al capitalismo liberale: da parte di gruppi costituiti dagli intellettuali che alimentano la critica delle istituzioni del capitalismo e riescono a ottenere un seguito di massa (giornalisti, avvocati, leader politici 4) le politiche anticapitalistiche: una serie di misure legislative e amministrative che si diffondono nei vari paesi: si tratta di interventi dello stato o della contrattazione collettiva; politiche della spesa pubblica in deficit per sostenere la domanda e ovviare alle crisi cicliche; politiche redistributive del reddito attraverso la pressione fiscale; misure antitrust per contrastare le imprese monopolistiche; diffusione di imprese pubbliche; legislazione assistenziale e del lavoro; crescita della contrattazione sindacale nel mercato del lavoro. Tutte queste politiche, che hanno avuto un’accelerazione dopo la Grande Crisi del ’29, segnano un allontanamento sempre più marcato dal “capitalismo del laissez faire” e si avvicinano sempre più a forme di pianificazione socialista. Schumpeter vede nel capitalismo americano del New Deal, e poi in quello che si sarebbe affermato dopo la guerra in America e in Europa, una sorta di capitalismo laburista, in cui le imprese private sono sottoposte a oneri fiscali e regolativi crescenti. Egli è dubbioso sul fatto che un capitalismo che abbia eroso le basi istituzionali su cui si poggiava possa continuare ad esprimere un elevato dinamismo economico e intravede l’imporsi di una soluzione apertamente socialista .