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Polanyi, La grande trasformazione
La grande crisi iniziata nel 1929 rappresenta un autentico spartiacque nella storia del XX secolo. In
un’opera esemplare Karl Polanyi ne indaga il significato psicologico e politico per gli uomini e le
istituzioni dell’epoca.
L’autore
Karl Polanyi (1886-1964), economista e antropologo di origine ungherese, scrisse La grande
trasformazione tra il 1940 e il 1943 negli Stati Uniti, dove era stato costretto a emigrare. Il libro è
uno dei contributi più significativi per la conoscenza dell’economia del XX secolo. Non si tratta di
un saggio storico in senso stretto, perché a scriverlo non fu uno storico di professione, ma di una
geniale sintesi di antropologia economica, che si serve di un amplissimo ventaglio di scienze umane
per rispondere ad alcuni inquietanti interrogativi: che cosa è il fascismo e perché è riuscito a
imporsi?
La trasformazione delle istituzioni economiche liberali
La “grande trasformazione” a cui si riferisce il titolo è quella toccata alle istituzioni economiche
liberali dopo la crisi del 1929. La “grande depressine” segnalava infatti il crollo dell’economia di
mercato e il fallimento dell’ottimismo della scuola economica liberale, convinta dell’autonoma
capacità del mercato di autoregolamentarsi e che su questa capacità si fondasse la stabilità
dell’economia mondiale. Il crollo di Wall Street nel famoso “giovedì nero” mise in luce
l’artificiosità dell’economia di mercato e la sua incapacità di garantire quello che aveva sempre
promesso: l’equa distribuzione delle ricchezze e il benessere economico.
Questa critica del capitalismo e dei suoi fondamenti ideologici viene condotta da Polanyi grazie a
un’analisi comparata di società diversissime tra loro: da quelle primitive da lui conosciute in virtù
dei suoi studi antropologici, a quelle feudali, all’Inghilterra della prima rivoluzione industriale.
Questo complesso percorso analitico diventa la premessa per un’indagine sulla storia della società
liberale che per Polanyi si reggeva su quattro istituzioni fondamentali. «La prima era il sistema di
equilibrio del potere che per un secolo impedì che tra le grandi potenze scoppiassero guerre lunghe
e devastatrici. La seconda era la base aurea internazionale che simboleggiava un’organizzazione
unica dell’economia mondiale. La terza era il mercato autoregolantesi che produceva un benessere
economico senza precedenti. La quarta era lo stato liberale».
Il ruolo fondamentale del mercato
Tra di esse, però, solo la terza rappresentava “la fonte e la matrice” dell’intero sistema e per questo
è la crisi del 1929, più ancora della Grande guerra, a segnare la fine dell’età liberale e la
conclusione dell’Ottocento.
La crisi generale del capitalismo metteva in luce la necessità di ripristinare degli strumenti di
protezione sociale contro il dominio del mercato: un ritorno in sostanza alla “solidarietà umana”
contro il mito fallace del benessere collettivo garantito dalla diffusione del mercato, nella
convinzione che quest’ultima non sia l’unica forma possibile per organizzare la produzione e la
distribuzione dei mezzi di sussistenza; anzi dall’analisi comparata di altre esperienze storiche
l’economia di mercato appare un’eccezione. Un’eccezione non solo negativa per aver schiacciato
tutta la società al dominio del mercato, ma perché il suo crollo ha generato un sistema politico
autoritario e violento: il fascismo.
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