Dibattito seguito all’incontro sul libro La scuola fuori registro Cosimo Ascente: si tratta di un insieme di racconti che ci presentano uno spaccato di vita quotidiana. La lettura è piacevole. Per me è come uno specchio nel quale riflettersi senza barare, perché allo specchio, se non è deformante come piace a te, non puoi barare. Io ho trovato nel libro passaggi terribilmente reali. L’autore ha rappresentato bene cose che anche noi pensiamo ma che non riusciamo a scrivere. Nel libro ci sono i nodi fondamentali della scuola, di cui bisognerebbe parlare senza barare; perché, vedete, noi bariamo. Noi parliamo, parliamo, nei collegi, nei consigli ma non veniamo mai a capo di niente perché partiamo da presupposti sbagliati. Per esempio, io credo che uno dei presupposti essenziali sia la relazione educativa. La relazione è la chiave del nostro lavoro, non sufficientemente compresa e utilizzata con competenza. Pia Gardi: il libro mi ricorda La scuola raccontata al mio cane di Paola Mastrocola, un libro notevole che mette in evidenza il disagio degli insegnanti, in una scuola che è nuova soltanto nelle parole. Uno dei pregi di questi libri è quello di mettere a nudo questo disagio, perché l’insegnante oggi non sa più chi sia e che cosa debba fare (per esempio, si è lavorato tanto per ridurre ed eliminare il disagio degli studenti, ma chi pensa al disagio degli insegnanti?). Mario Gelsomino: io non ho letto il libro ma mi sembra che fa un’accusa agli insegnanti e un “favoreggiamento” di qualche persona verso gli alunni, questo ho capito io. Dominique Marino: io non lavoro nella scuola e, leggendo i giornali, si ha l’impressione che gli insegnanti siano tutti una massa di fannulloni, invece io vedo che molti sono persone competenti, capaci e responsabili. Molti insegnanti insegnano per il piacere di insegnare, e questa è una scelta nobilissima. Un’altra cosa si può riassumere nella domanda: che cosa si aspetta la società dalla scuola? Io sono diplomato perito meccanico, poi mi sono laureato in chimica. Negli anni Settanta si diceva: apre il quinto centro siderurgico, diventi perito, avrai la possibilità di lavorare. Allora, sia per mio padre, sia per me l’insegnante era una figura importante, da rispettare. Quel rispetto non c'è più perché si è perso il ruolo sociale dell’insegnante. Si è smarrito il ruolo dell’insegnante perché si è smarrita la funzione sociale della scuola: la scuola forma ragionieri e geometri che faranno i ragionieri e i geometri, o è una specie di camera di compensazione: tutti vanno a scuola, anche mio figlio ci va, per ora è così, poi si vedrà. Il libro La scuola fuori registro è importante perché, come è stato detto, è uno specchio nel quale possiamo specchiarci tutti. Sapete, il tentativo in atto è anche un altro, quello di ritornare a una scuola d’élite per pochi eletti, come era la scuola prima del Sessantotto. Non dimentichiamolo, un tempo la scuola era uno strumento che serviva alla società per perpetuarsi sclerotizzata. Il libro non è soltanto uno specchio per voi docenti, è uno specchio per tutta la società. L’autore ha raccolto e utilizzato elementi minimi, trascurabili, e li ha cuciti insieme per tessere delle storie. Ma con le piccole storie si può ricostruire e leggere un intero spaccato sociale. Iole Greco: io penso che una cosa importante nella scuola, e nell’educazione in generale, sia la coerenza. Poi, noi abbiamo parlato di studenti e di docenti ma non dei presidi. Per esempio, il ruolo del preside è importantissimo. Io ricordo che quando ero una giovane professoressa, una mattina sono arrivata in ritardo e ho trovato il preside sul cancello della scuola che mi ha rimproverato; da quella volta non ho più fatto ritardo. Oggi i presidi hanno cambiato ruolo, non li vedi mai, si occupano di tantissime cose, se gli porti un alunno che ha fatto qualche pasticcio, quasi quasi rimproverano te; io mi sento sola, perché, vedete, noi siamo stritolati tra l’incudine e il martello. Pia Gardi: Quello che diceva Dominique mi sembra importante, perché un altro fenomeno che va rilevato è l’abbassamento del livello culturale generale della scuola. Oggi come tutti sanno il livello generale della scuola è molto basso, specialmente qui da noi, ma chi vuole, e se lo può permettere, già oggi i propri figli li manda nelle scuole private che spalancano le porte del futuro ai giovani. Vincenzo Palma: io mi sorprendo sempre molto quando sento parlare di insegnanti e di scuola perché sembra che gli insegnanti operino ciascuno come un’isola, senza un progetto comune con gli altri insegnanti che lavorano nella stessa classe. Perché si parla di corpo insegnante? Perché è un corpo, un sistema. Non dimentichiamolo mai. Nellina Madeo: vi dico tre cose. La prima mi è stata suggerita da America Oliva: neanche nella scuola media di primo grado possiamo accontentarci di puntare prevalentemente a una generica socializzazione, perché le basi della conoscenza e dell’applicazione allo studio si incominciano a costruire proprio lì; la seconda è legata alla questione posta da Gesù, cioè di lasciare che le sue parole rimangano nei discepoli, riportata nel libro e ripresa nella presentazione: non dimentichiamo mai che l’etimologia della parola “insegnare” porta in sé l’idea alta di “lasciare un segno”, ci si augura, positivo; la terza è un aneddoto: una anziana professoressa incontra un suo ex alunno e gli domanda: “Ti ricordi quello che vi dicevo sempre?” E lui: “Sì, che la scuola ha valore infinito”. Eustasio Santoro: secondo me il libro descrive una realtà molto vera, in quanto i professori gonfiando i voti vogliono coprire gli errori fatti nella fase di programmazione e di svolgimento delle lezioni; di questi errori si rendono conto solo alla fine del percorso. Considerate poi che ci sono professori che vengono in classe solo per firmare: non spiegano, non ci chiedono un impegno. Questo a noi sta bene, in un primo tempo, ma alla fine loro si rendono conto che ci sono magagne da coprire in qualche modo, e noi ci accorgiamo troppo tardi dell’imbroglio. Alfio Moccia: sarò breve. Questo libretto contiene una sofferenza dell’autore che vede “il meglio”, ma questo meglio non lo trova nella quotidianità. Questa sofferenza si vede osservando il versetto del vangelo che egli cita in esergo all’inizio di ogni racconto: l’esergo per lui è l’ideale a cui guardare. Lì egli vede la luce, la bussola che possono orientarci. Tra l’altro, l’autore pensa che la maggior parte della gente abbia smarrito quella bussola. Lui pone il versetto come bussola e cerca di leggere l’esperienza che racconta alla luce di quel versetto (svolgendo il singolo tema l’autore sembra suggerirci: siamo tutti fuori strada, ma guardate in alto, guardate al piccolo esergo…). Qui devo rifarmi a Pirandello: l’autore vede questo smarrimento e interviene con l’umorismo, che, per Pirandello, non è comicità (l’autore non ha scritto per far ridere), ma una riflessione che nasce dalla presa d’atto della realtà amara. Dirò poi che il nostro autore se la cava bene, perché egli non consiglia mai qual è la soluzione, lascia che sia il lettore ad intuirla. Solo, sotto sotto, egli suggerisce, sussurra: “Guarda sopra, guarda all’epigrafe”. Cosimo Mercuri: io sono stato colpito molto dalla lettera, contenuta in uno dei capitoli, rivolta dall’autore agli studenti. Quel testo riassume bene il suo pensiero. Un’altra cosa voglio però dire: si è detto che negli anni Ottanta era bravo il professore che conosceva la materia, negli anni Novanta quello che sapeva insegnare, nel decennio successivo è bravo il professore che sa tenere la classe; ebbene, io aggiungerei che oggi è bravo il professore che sa andare a caccia di finanziamenti. Rosa Filippelli: in effetti, nella scuola attuale si fanno un sacco di cose, ma quale efficacia hanno? A chi giovano tutte queste cose? Dominique Marino: non dimentichiamo la scuola classista. Qui ci troviamo di fronte a una esagerazione, ma il principio era giusto. L’obiettivo era quello di non lasciare indietro nessuno, uno scopo nobile che è stato tradito. Oggi occorre conciliare gli opposti. La scuola si trova a vivere tutte le contraddizioni della società e deve trovare una risposta. Cosimo Ascente: noi dobbiamo recuperare un senso, un ruolo. Oggi la scuola non è solo “competenza”. Il problema è quello di creare un ambiente di apprendimento sano e vitale. Per esempio, le professioni a cui preparava la vecchia scuola non ci sono più, allora la funzione della scuola deve essere un’altra, non può essere solo quella di formare geometri o ragionieri. Ma qual è la nuova funzione? Giuliano Albrizio: è giunto il momento di fare intervenire l’autore. Tommaso Cariati: vi dico due o tre cose. Io, come è stato detto, ho iniziato l’avventura di scrivere questo libro perché spesso, dopo una riunione del collegio dei docenti o dopo un consiglio di classe, me ne tornavo a casa con un senso di delusione, di spreco, di inutilità, di amarezza. La scrittura mi ha aiutato a riflettere, a comprendere meglio (da questo punto di vista, direi che il processo che mi ha portato a mettere insieme l’opera è stato terapeutico) e, come stiamo vedendo stasera, a innescare un dibattito. Del resto, quando si scrive non si trascrive semplicemente ciò che già si conosce, ma scrivendo si scoprono cose che prima si ignoravano. Perciò la scrittura è un vero e proprio strumento di ricerca e di conoscenza. La seconda cosa importante per un autore è capire fino a che punto quello che per lui è risultato terapeutico è efficace anche per il lettore. Ebbene, mi pare che in tal senso alcuni indizi siamo emersi proprio questa sera: è stato detto che il libro si lascia leggere, cattura fino alla fine. È già qualcosa. Io fin dall’inizio ho scelto di scrivere il singolo racconto nella misura di una pagina (perché doveva circolare fotocopiato ed essere passato di mano in mano): forse anche questo aiuta nella lettura. La terza cosa che voglio dirvi riguarda la collocazione letteraria del libro. Vedete, io ho scritto un libro sulla scuola, ma per me si tratta di una raccolta di racconti. La scuola è la materia che io ho scelto di utilizzare, e questo è legittimo perché non ci sono argomenti privilegiati per fare letteratura. Ebbene, il libro Ehi prof! di Frank McCourt, noto romanziere irlandeseamericano, che è un libro sulla scuola, è soltanto questo? Quel libro è un’opera letteraria. Ma chi ci dice che cosa sia letteratura e che cosa non lo sia? I critici col tempo ci daranno la risposta a questa domanda. Ecco, in tempi di crisi, e di crisi della narrativa (e della critica letteraria) forse è normale tornare a interrogare un poco ingenuamente, più da vicino, diciamo da neorealisti, la realtà che ci circonda. Il mio intento, comunque, non so se e quanto tradito, era proprio quello di scrivere pagine di letteratura. Ai posteri l’ardua sentenza. Chiara Marra: vorrei riprendere quanto detto da Alfio e proporvi un brano tratto dall’ultimo capitolo del libro dove, secondo me, troviamo indicata in modo più chiaro quale soluzione l’autore adotta nel suo lavoro quotidiano di insegnante: «Allora, fare scuola è indicare un sentiero da seguire, tracciato da altri e nel quale anch’io cammino. Fare scuola è “anticipare il senso sorprendente e promettente della vita”, è introdurre la persona, bambino, ragazzo o giovane, mistero insondabile, nel mistero al quadrato che è la vita, che si svela, e mai totalmente, soltanto man mano che in essa ci si immerge e si sprofonda, dato che, secondo Kierkegaard, la vita deve essere sì vissuta guardando avanti, ma può essere compresa solo guardando indietro. Fare scuola è accompagnare il discente, nel rispetto della sua originalità, del suo mistero, dei suoi tempi, dei suoi stili, dei suoi carismi, correggendolo, quando occorre, dolcemente ma con fermezza, e assumendosi, per dirla con Giussani, il rischio legato al coinvolgimento pieno nella relazione con lui, nella trama di relazioni della comunità educante. Fare scuola è tessere e ritessere relazioni comunitarie autentiche e responsabili, anche nel franamento più disastroso, nella notte più buia, e proporre sempre, con profezia, il radicamento e la ricerca critica di senso. Se non questa, quale scuola?».