Sulla libertà - "Ferraris"

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Roberto Radice1
La libertà
Il tema della libertà è in assoluto il tema, se non il più difficile, il più complesso da trattare. Faccio presente che nella discussione e nella espressione della mia relazione terrò conto
di un arco cronologico di 13 secoli, vale a dire dal VII- VIII sec. a.C. al VI sec. d.C. con
l'esclusione dei pensatori cristiani in quanto autori, secondo una tradizione che non condivido, non ispirati esclusivamente ai principi della pura ragione. Non si tratta di 13 secoli qualsiasi della storia dell'umanità, se si considera che l'intera storia dell'umanità sotto il profilo
della storia della civiltà e anche della scrittura, delle prime organizzazioni politiche, economiche, etc. si sviluppa tra i 6 e i 7000 anni.
Infatti con la storia della filosofia antica incomincia qualche cosa che prima non c'era.
Non è come fare la storia della caccia o della pesca che c'è sempre stata e che a un certo
punto comincia a essere narrata, perché la storia della filosofia incomincia quando gli uomini ne pronunciano il nome, perché non è una scienza utile, è una scienza teoretica che ha bisogno di essere definita nel momento in cui la si usa.
“Filosofia” vuol dire ricerca del sapere, amore della sapienza. Ma già in questa parola
così semplice c'è un contenuto concettuale, perché, se la scienza in questo caso non è la
scienza di un oggetto ma semplicemente l'amare l'oggetto a cui si tende, vuol dire che dentro
questa scienza non c'è la verità, altrimenti non si chiamava filosofia, si sarebbe chiamata
“sofia”, sofia vuol dire sapienza, filosofia è l'amore della sapienza e se uno ha l'amore per la
sapienza vuol dire che la sapienza non ce l'ha ma la sta rincorrendo.
Ma questo è vero fino a un certo punto perché ognuno dei protagonisti della filosofia era
sicuro di possedere la verità se no non avrebbe né scritto né detto niente. Ciò che fa diventare “amico della sapienza” è la concezione di non essere soli a fare questo mestiere e di non
essere i primi. Allora la coerenza e la consapevolezza di far parte di una tradizione è coessenziale, necessaria, per un filosofo. Uno non può improvvisarsi filosofo in un mercoledì se
prima, il martedì, faceva un altro mestiere; uno deve garantire accanto al proprio titolo di filosofo una sorta di adozione di alcuni padri, di alcuni modelli, di alcuni insegnanti, di alcuni
grandi pensatori del presente e del passato, dopo di che, fatto suo il bagaglio prodotto da
questi, può far parte di questa lunga tradizione che è la tradizione della filosofia. Voi capite
allora che essere storici della filosofia è in un certo modo come essere il bigliettaio del treno, quello che fa entrare molti personaggi nei convogli e poi li avvia verso questa storia che
è una storia lunga che è nata nell'ottavo/settimo secolo con Talete e che prima non c'era per1 Ordinario di Filosofia antica presso l’Università Cattolica di Milano. Conferenza tenuta il 12 aprile 2012
nell’Aula Magna del liceo scientifico “G. Ferraris” di Varese; la stesura del testo a cura dei professori Franco
Pavesi e Graziano Pesce.
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ché solo con Talete si pone il problema del metodo, di come bisogna avere la sapienza e
questo metodo viene identificato nella ragione e solamente nella ragione.
Quella filosofica non è l'unica sapienza: c'è la sapienza religiosa, c'è la sapienza estetica,
c'è la sapienza poetica (che tra l'altro c'erano già prima), ma solo con Talete si pone l'idea
che l'uomo debba indagare la natura basandosi solo sulla forza della sua ragione; non solo,
si pone l'idea che questa ricerca debba essere in qualche modo “dialettica”, nel senso che la
posizione del maestro possa o addirittura debba essere presa e confutata dall'allievo, come in
una specie di grande e infinita staffetta in cui ciascun corridore passa all'altro il testimone,
ma poi chi vince la corsa non è ciascun corridore ma la squadra intera.
Se voi volete avere un concetto che valga per tutto quello che ho detto il concetto in questione è quello di “tradizione”. La filosofia è il succedersi di tanti pensieri legati fra di loro a volte criticamente a volte in simpatia - che portano avanti la ricerca della verità. Ognuno
in sé è convinto di averla ma complessivamente quella che si chiama la “filosofia perenne”,
quella che attraversa tutta l'umanità, è sempre un po' più in là di dove si arriva.
Detto questo, il problema della libertà è un problema molto difficile da risolvere, per la
filosofia in assoluto, per la filosofia antica in modo particolare. Perché? Perché libertà è un
termine sfuggente, difficile da inquadrare in una categoria logica.
E allora per renderci conto di questo noi potremmo adottare la più semplice, la più rozza
delle interpretazioni del termine e dire - tanto per cominciare – che “libera è quella persona
che può fare tutto quello che vuole”.
Questa prima definizione certamente non la dimenticherete. Ma, vedete, nella frase che
abbiamo usato c'è una parola che è pesante da digerire ed è la parola “fare” o, se volete, la
parola “potere”.
Allora se questo concetto di libertà è il primo che troviamo, ci si impone subito un altro
problema che è il problema dell'esecuzione della libertà., perché, vedete, se io vi propongo
una frase un po' bislacca del tipo “se io sono libero posso fare tutto quello che voglio e io
voglio andare a Milano ieri”, potrò mai essere libero di andare a Milano ieri? Evidentemente
no, perché sfiderei le leggi della logica. Tutto quello che posso fare lo posso fare “dopo”,
non lo posso fare “prima” perché il passato è definito. Comunque sia ci sarebbe una categoria di cose che non potrei fare: le cose logicamente impossibili.
Una libertà del tipo “poter fare tutto quello che si vuole” si trova solamente nel campo
della favola,nel campo della fantascienza; la serie di film “Ritorno al futuro” rispondeva
proprio a questa possibilità, quella di poter fare qualcosa non in direzione del futuro ma in
direzione del passato.
Questa è la prima formula di definizione di libertà, ma già subito nella formulazione il
problema della libertà si trasforma in un altro problema che è il problema della esecuzione
della libertà. Certamente non tutto può essere fatto, le cose illogiche non si possono fare se
non ambientandole nel campo della fantasia. Non vi mancheranno certo gli esempi: una volta si chiamavano favole, adesso si chiamano fantascienza, ma potrebbero essere film, romanzi, serie televisive. Solo lì si può fare tutto, non fuori. Per es. io potrei dire “io posso
fare tutto tranne le cose impossibili ma a me piacerebbe buttare dalla finestra il mio vicino
perché suona i dischi a volume alto fino alle tre di notte”. Questa volontà, questa libertà è
una libertà che si esercita e si sviluppa in quali campi? Si svolge nel campo della pazzia perché uno che agisce così è una persona che si pone al di fuori di ogni contesto razionale e
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dunque la sua volontà sarebbe la volontà di un pazzo.
C'è poi quella libertà che è una libertà ragionevole, quella che mediamente tutti noi ci
mettiamo davanti e che è la possibilità di fare cose reali: ad es. noi siamo liberi di andare a
Palermo o a Londra, ma non siamo assolutamente liberi di andare a Palermo a piedi perché
anche se fossimo dei grandi camminatori c'è un pezzo di mare da attraversare.
Non esiste quindi un problema della libertà senza il problema della esecuzione della libertà. La libertà assoluta non esiste, almeno in condizioni normali, all'interno di una logica
di buon senso (ma siamo solo all'inizio del nostro discorso).
Ma anche dire “sono libero perché posso fare tutto quello che voglio” ha un altro limite,
perché non basta essere libero di scegliere tutto quello che ci passa per la testa. Bisogna vedere se quello che ci passa per la testa è a sua volta “libero”. Il problema si approfondisce, si
complica.
Anche dopo aver sottolineato che il problema della libertà si lega a quello della esecuzione e che nell'ambito dell'esecuzione la libertà non può essere assoluta perché ci sono delle
cose illogiche, impossibili, esiste ancora un problema più pesante che è questo. Perché se
anche dicessi “faccio tutto quello che voglio, dunque sono libero”, direi una mezza verità,
perché possono esserci condizionamenti tali, per es. in certi comportamenti compulsivi, o
dettati da certe fobie, per es. in stati di necessità o di alterazione mentale, per es. in stati di
incompetenza, in cui “quello che mi passa per la testa” non è libero ma è determinato da altre cose. Ad es.: se io sono ubriaco fradicio non sono libero anche se tutte le possibilità di
espletare le mie azioni mi sono aperte, perché mancherebbe quel grado di consapevolezza
proprio di una scelta razionale che è tipico dell'uomo.
E allora, come vedete, la frase “fare tutto quello che si vuole” non è sinonimo di libertà,
perché non è detto che quello che si vuole sia veramente libero. Sarà capitato anche a voi di
arrabbiarvi talmente tanto da essere trascinati da un impeto d'ira, ecco in quel momento non
potete dire “sono stato libero di” perché a dominare nella vostra interiorità non eravate “voi”
ma una passione che non vi dava tregua.
Allora ben due tentativi di affrontare questo problema della libertà, intesa grossolanamente come “fare tutto quello che si vuole” ci hanno portato a cogliere l' estrema complessità della questione perché “fare tutto quello che si vuole” non porta alla libertà.
La filosofia nel suo sviluppo millenario - ma già in maniera precoce - aveva inventato un
sistema per affrontare certe questioni, non era esplicito però era ben funzionante per problemi particolarmente difficili o per concetti difficili da definire.
Questo sistema era caro a Platone e lo usava abbastanza spesso.
Platone diceva che ci sono dei concetti che da soli non si capiscono ma che contrapposti
a qualcos'altro sono comprensibili. Facciamo un esempio semplice. Pensate alla salute.
Quando uno gode di buona salute, alla salute non ci pensa mai, non si accorge nemmeno di
averla, fa le cose di tutti i giorni, mangia e beve regolarmente, ma, se un giorno ha mal di testa, allora sì che si rende conto di che cosa è la salute, se fa indigestione, capisce che non
può continuare a mangiare all'infinito. Insomma ci si rende conto di “come-si sta-quando-si
sta-bene” quando si verifica il contrario. La filosofia per dire questo dice che questo concetto si semantizza con quest'altro.
Cosa vuol dire?
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Vuol dire che questo concetto assume significato, diventa comprensibile, solo se lo pongo in relazione al suo opposto. La dialettica a cui ricorre Platone è in certo senso un sistema
per semantizzare concetti complessi: l'unità si capisce bene quando c'è la molteplicità, il
bene si comprende in rapporto al male e così via.
Useremo anche noi allora questo stesso metodo per provare a chiarire il concetto di libertà che preso nella sua forma più semplice ci sfugge sempre, perfino nella formulazione che
tutti sottoscriveremmo, quella che dice “si è liberi quando si è liberi di far quel che si
vuole”. Abbiamo convenuto che si tratta di una formula rozza, grossolana, falsa. Detta così
non funziona. La storia della filosofia semantizza la libertà con i suoi contrari. Questo comporterà che a seconda dei contrari scelti varierà il significato del concetto di libertà. Ad es.
se io voglio capire la salute e la contrappongo alla malattia la salute ha un senso, ma se io la
contrappongo a un orologio essa perde ogni senso.
Vedremo allora che i filosofi quando affrontano questo concetto così evanescente ma anche così potente finiscono col variare il significato di libertà. In realtà noi non abbiamo studiato la libertà, abbiamo studiato il suo contrapposto.
Vi faccio notare che non dirò nulla sulla libertà politica dei greci, niente, non perché abbia un motivo personale, ma perché la forma più elevata di libertà che la storia occidentale
ha prodotto era la democrazia di Atene; ora, nella democrazia di Atene, per una sessantina
d'anni, tutti decidevano tutto. Ma mentre questa straordinaria forma di libertà era ben praticata e ben consapevole, ad Atene c'erano gli schiavi e mentre gli ateniesi praticavano questo
genere di libertà costosissimo gli stessi ateniesi andavano saccheggiando tutte le città vicine.
Allora io non posso impegnare me e impegnare voi su un concetto di libertà che è sublime
ma che si basa una realtà storica che è la negazione della libertà
Io voglio indagare la libertà nella sua purezza razionale, cioè per concetti astratti. Ecco
perché non parlerò di libertà politica, perché la libertà politica è un concetto spurio, avveniva in un settore a danno di altri settori e quindi non ci è utile per affrontare filosoficamente il
discorso.
Andiamo a vedere quali sono nella storia della filosofia antica (13 secoli) gli opposti su
cui si semantizza la libertà, quegli opposti che danno poi il significato alla libertà. Cercate di
capire bene quello che sto dicendo. Noi studiamo una cosa che non è quella che ci interessa,
ma da questa cosa viene fuori quell'altra.
Sono tre gli opponenti della libertà di cui ci occuperemo.
Il primo concetto è “la necessità”. Studieremo la necessità perché opposta alla necessità
c'è la libertà. Quindi tutte le cose che diremo della necessità con il segno “non” davanti diventano libertà. La necessità interessa tutti i filosofi della natura a cominciare dai presocratici, interessa i sofisti, interessa Platone - al quale per altro interessa tutto – e interessa anche
gli stoici.
Quindi il primo nemico, il primo opponente della libertà sarà la necessità; ne verrà fuori
un certo tipo di libertà che vedremo più avanti.
Secondo tipo di di opponente che cambia il significato di libertà è “ignoranza”; interessa
i filosofi ellenistici, interessa Socrate, Platone, Aristotele, ma comunque sia è una libertà diversa rispetto alla prima, la libertà come quella cosa che si oppone all'ignoranza è diversa rispetto a quella libertà che si oppone alla necessità.
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La terza cosa riprende quel discorso generale che abbiamo fatto all'inizio, cioè quella
frase rozza e insignificante sul “fare tutto quello che voglio”, ma la ripropone in una veste
filosofica che la rende possibile. Il terzo antagonista della libertà è “ l'impotenza”.
Allora avremo una libertà che è non-necessità, una libertà che è una non-ignoranza, una
libertà che è non-impotenza. In quest'ultima parte rientra il neoplatonismo e ancora lo stoicismo.
Il primo antagonista della libertà è la necessità, quella necessità che si trova nella natura.
Nella natura non c'è libertà perché ogni causa antecedente determina un effetto conseguente;
come in un infinito gioco al biliardo, il colpo inferto alla prima boccia mette in moto altre
bocce, meccanicamente, senza possibilità di interruzione. A questa necessità è legato anche
il fatto che la natura sia conoscibile, perché se la catena di causa ed effetto si interrompesse
non potremmo condurre nessun ragionamento, perché i nostri ragionamenti sono la connessione logica di argomentazioni del tipo dato A viene B, dato B viene C etc. etc.
In natura non può esserci libertà anche perché nei primi filosofi l'uomo non compariva
nel paesaggio naturale, i primi filosofi non si ponevano il problema di chi fosse l'uomo, lo
davano per ovvio, si chiedevano solamente la ragione di quel che vedevano e loro vedevano
solo la natura e se per caso nella natura vedevano un contadino che passava, non lo distinguevano strutturalmente dalla natura che vedevano. I primi filosofi non si sono mai posti il
problema dell'uomo perché lo sentivano come parte dell'universo stesso, senza alcun statuto
speciale che lo distinguesse dagli altri animali, può sembrare assurdo ma è così. I primi filosofi non hanno avuto un'etica vera e propria, applicavano l'etica della tradizione, l'etica di
Omero, l'etica di Esiodo perché si sentivano parte connaturata della natura. Non avendo una
posizione diversa da quella della natura e constatando che nella natura non c'è mai libertà,
perché il sole sorge sempre ad oriente e tramonta sempre a occidente, le stagioni si susseguono sempre allo stesso modo, le maree avvengono ogni 29 giorni, il passaggio dei pesci
avviene in un certo tempo così come le migrazioni degli uccelli, e vedendo che nella natura
tutto è regolato almeno entro certi limiti, il problema della libertà non si poneva. Questo lo
possiamo considerare come il grado zero della libertà, grado zero in cui il problema della libertà non sorge perché l'uomo non costituisce un problema e senza l'uomo non c'è libertà.
Il problema della libertà si pone in primo luogo come la volontà che alcuni filosofi ebbero di uscire dalla natura.
Il primo che ha voluto uscire dalla natura è stato Socrate.
Socrate a un certo punto della sua vita rinuncia a studiare la natura perché ritiene questa
indagine inutile. A lui interessava la sapienza che ha a che fare con l'uomo. La natura non è
opera dell'uomo e quindi su di essa ognuno può dire quello che vuole. Socrate viveva in città e se uno vive in città non è molto attratto dalla natura come invece accadrebbe se vivesse
nella foresta del Mato Grosso. Ma se i primi filosofi erano pastori o vuoi perché da questo
sapere dipendeva anche la sopravvivenza del villaggio. Socrate apparteneva a un altro ambiente; era il primo cittadino pensante e dalla sua testimonianza viene quella definizione assolutamente idonea alla nostra civiltà e a noi che siamo qui, e cioè che l'uomo è un animale
politico. Aristotele che è il massimo esponente di questa mentalità dirà che “fuori dalla città
non incontrerai mai un uomo, ma solo una bestia o un Dio”, perché le bestie o gli dei sono
gli unici esseri che sanno vivere da soli, mentre l'uomo è l'unico essere che non sa vivere da
solo.
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Allora vedete che la libertà si semantizza contro la necessità, vale a dire incomincia ad
avere senso occuparsi della libertà e porsi il problema di essa nella misura in cui ci si difende dalla natura.
L'apogeo di questa difesa sarà Platone, quando nel “Fedone” dirà la famosa metafora del
soma- sema, del corpo-cadavere che è un modo un po' lugubre di presentare il problema ma
è molto efficace: per noi ( sott. Socrate e Platone) essere in un corpo non è una fortuna, è
una disgrazia, perché essere in un corpo depotenzia, ottunde, le nostre capacità cognitive.
Noi siamo la nostra ragione. E qui inizia tutto il discorso che caratterizza la nostra civiltà.
Già prima di Socrate i filosofi usavano la ragione per dirimere le questioni intorno alla realtà
ma solo con Socrate, Platone e Aristotele si ha coscienza di questo fatto. Un conto è saper
dividere un campo quadrato in due triangoli, un altro conto è conoscere le leggi del quadrato
e del triangolo; un conto è il geometra che misura la terra, un conto è studiare le figure geometriche, per far questo ci vuole un grado di coscienza più profondo, più elevato, bisogna
saper riconoscere gli uomini come esterni alla natura. L'uomo acquista la possibilità di essere libero ed è quindi cosciente della propria libertà solo rifiutando - ma con violenza,
come nel caso di Platone - la natura.
Perché Platone era violentemente contro la natura? Badate, non è che fosse un antiecologista, è che stava conquistando uno spazio che allora non c'era. Vedete la filosofia è una
scienza che, mentre si inventa un concetto, si inventa le parole, perché se voi inventate una
cosa assolutamente nuova ma non avete neanche la parola per dirla, non potete nemmeno
comunicarla. Platone quando doveva dire “basta con la natura!” perché nella natura c'è la
necessità e nella necessità c'è l'anti-umano inventa il dualismo anima contro corpo, ed era
giusto farlo perché quello era un momento eroico, si stava inventando un mondo mentale che poi è il nostro mondo -.
La prova di questo è che nel momento in cui contro la necessità si crea il mondo delle
idee, il mondo del pensiero, il mondo dell'anima pensante, le regole che valgono per la natura non valgono più per l'uomo. C'è stato un periodo della sofistica in cui due pensatori (Ippia
e Antifonte) hanno affermato che la natura fosse il bene assoluto, dal momento che per natura siamo tutti uguali, mentre le leggi emanate dagli stati producono distinzioni e differenze. Prendete due stati nemici: se si incontrano in guerra, i loro cittadini si ammazzano a vicenda, ma se voi non sapeste che quell'uomo viene dallo stato con cui siete in guerra sareste
in tutto e per tutto identici. Questo vuol dire che la natura unisce ciò che la legge storica
dell'uomo divide e contrappone. La legge positiva ci porta allo scontro, la legge di natura ci
porta all'unione. Poco tempo dopo un altro sofista - Callicle - propone di applicare sempre le
leggi di natura. La natura dice che il più forte sopprime il più debole – la cosiddetta legge
della giungla – il leone rincorre la gazzella più debole. Anche tra gli umani dovrebbe essere
lo stesso, sostiene Callicle. Se i migliori eliminano i più deboli si migliora la specie. Queste
idee che Platone mette in bocca a Callicle erano piuttosto diffuse in Grecia. Nel Novecento
le ha riprese Nietzsche e poi le ha messe in pratica Hitler. Così se io dovessi applicare le regole che ci sono in natura nell'ambito delle società umane farei disastri, perché la natura tollera benissimo che uno scompaia, perché la natura non ha l'individuo come obiettivo ma la
specie.
Allora Platone aveva tutte le ragioni per inventare un dualismo e tutte le ragioni per combattere la necessità della natura e creare spazio alla sfera del soprasensibile che era poi la
sfera tipicamente umana.
Il secondo antagonista della libertà è l'ignoranza e questo ci porta all'esempio richiamato
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in precedenza quando si diceva “non si è liberi quando si pensa di poter fare tutto quello che
ci passa per la testa, perché bisogna vedere se tutto quello che ci passa per la testa è a sua
volta libero”. Questo pone una serie di problemi veramente difficili da risolvere.
Va be' uno può dire: come faccio ad accorgermi se quello che mi passa per la testa è libero o non è libero?
Io me ne accorgo se scelgo come “me stesso” non una parte qualsiasi di me, ma la parte
che ragiona, anzi, quella parte che ragiona e che dura nel tempo dello sviluppo, perché io
posso aver attraversato mille fasi diverse della mia esistenza ma in tutte c'è qualcosa che non
è cambiata ed è la consapevolezza di me stesso. Io mi ricordo come “mie” delle esperienze
di tanti anni fa e se comunque mi facessero vedere una mia fotografia di quando avevo 14
anni io certamente non mi riconosco e se vi facessi vedere le fotografie di quando siete nati
nessuno di voi si riconoscerebbe. Ma la memoria, la consapevolezza, la durata di me stesso
nel tempo, questa non me la dimenticherò mai. La coscienza dell'io accompagna tutti i miei
atti e questa coscienza dell'io non può non essere razionale,tant'è vero che se agissi travolto
da una passione e venissi sotto posto a giudizio per i miei atti, un giudice direbbe che sono
incapace di intendere e di volere e quindi che non sono responsabile dei miei atti e che di
conseguenza non posso essere condannato. Perché una cosa di questo genere? Perché come
ho detto non esiste una volontà senza la capacità di intendere.
Una persona fuori di sé, poniamo per un tumore al cervello, e che fa una strage non è
colpevole perché gli manca la capacità di valutare quello che ha fatto. Dunque non tutto
quello che ho in testa è libero, per sapere se lo è devo valutarlo secondo ragione. Se c'è la
ragione allora ci sono io. Se non c'è la ragione potrei esserci o non esserci. Sotto la passione
nessuno è libero.
E' questa la grande intuizione dei filosofi ellenisti, quelli che vivevano ai tempo di Alessandro Magno, fine IV sec. a.C., epicurei, stoici e scettici. Queste scuole filosofiche dicono:
“non preoccuparti della libertà contro la necessità della natura, preoccupati della libertà di te
stesso in rapporto a te stesso e sappiti regolare; e se tu sei preso dalla mattina alla sera da
istinti, trascinato di qua e di là, prima dall'ira poi dalla passione, poi dalla fame e poi dalla
vanagloria etc., tu non sarai mai libero”. Pensate a quelle persone vittime della passione per
il gioco (video poker, etc): secondo voi sono persone libere? Certamente no e lo avevano già
capito i filosofi antichi come funziona il meccanismo coercitivo delle passioni sull'uomo e
quindi la libertà che l'ellenismo propone è una libertà totalmente interiore ed è quel tipo di
libertà che noi chiameremmo “libertà da”. Vale a dire è libera quella persona che dipende il
meno possibile dagli agenti esterni, quella persona che è autonoma, indipendente, in una parola, “autarchica” ( che può disporre di se stesso). Ecco una nuova definizione di libertà: la
libertà non è più fuori, nel confronto con la natura, la libertà trova il suo spazio nell'interiorità e dobbiamo fare un'azione per renderci liberi. Non si nasce liberi, si diventa liberi. E non
si diventa liberi a costo zero, si diventa liberi pagando un prezzo altissimo che consiste nel
cercare di enucleare, tirar fuori, dalla nostra confusa interiorità tutti quegli elementi che
sono passionali, privilegiando quegli elementi che sono razionali, perché se c'è la ragione ci
sono io, se no, no. Questa è “libertà da”, sopratutto dalle passioni, e si traduce nelle formule
affascinanti delle filosofie ellenistiche, come quella che avrebbe potuto dire anche Epicuro e
che fa più o meno: “se uno è goloso ciò dipende dal pasticcere che sta sotto casa sua”. E se
addirittura fosse il figlio del pasticcere, quando mai sarà libero? Che è come dire “quanto
più hai bisogno degli altri tanto meno sei libero”.
Ma allora cosa devo fare? chiederebbe un discepolo al suo maestro Epicuro e il saggio
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Epicuro risponderebbe: “diminuisci la distanza che c'è tra i tuoi desideri e quello che effettivamente puoi fare, meno desideri, meno fatica devi fare, meno complicazioni avrai, sarai
più indipendente dalle cose e dalle persone. Affezionati al minor numero possibile di persone”. E aggiunge qualche considerazione interessante sul peso che grava su di noi come il più
insostenibile, il peso della morte che è comunque sempre il nostro orizzonte. Dice Epicuro:
“non preoccuparti perché quando c'è la nostra morte non ci siamo noi”; perché preoccuparsi
di dover morire? Quando uno è morto non soffre più, e questo è già un bel vantaggio; inoltre
noi soffriamo perché pensiamo, morendo, di dover lasciare i nostri affetti, ma chi ci ha obbligato a vincolarci ad altri? Non avere tutti questi affetti! Gli stoici diranno che anche la
misericordia è una passione e quindi il saggio non ha misericordia per nessuno, già ha le sue
grane, vuoi che vada a prendersi anche quelle degli altri?
Se io non desidero niente non sarò mai deluso, se non dipendo da nessuno posso vivere
come voglio, perché non sentirò il bisogni di fare una cosa diversa da quella che ho deciso
di fare. Diminuisci gli affetti, diminuisci i bisogni, diminuisci gli impegni, non ficcare il
naso nelle cose degli altri. Questa regola non è sciocca, c'è molta saggezza nei testi di Epicuro! Resta tuttavia da chiedersi una cosa: se io diminuisco bisogni, affetti e impegni non
finisco con il morire anziché vivere? Tanto varrebbe suicidarsi subito!
Qual è il discorso paradossale e nello stesso tempo logico di questa situazione? E' che si
vuole far dipendere la libertà dell'uomo dal numero dei vincoli in cui risiede. Se ho tanti impegni saranno loro a dominare me, se io riduco gli impegni evitando ogni contatto con gli
altri finisco col negare quella che per Aristotele era l'essenza stessa dell'uomo, la sua politicità, il suo essere per natura un animale socievole che non può fare a meno di sviluppare relazioni con i suoi simili. Però attraverso l'identificazione di se stesso con la parte intelligente
che è in noi e col desiderio di liberarci da tutte le passioni e di tutti i desideri diversi o contrari alla ragione, io ottengo un concetto di libertà molto importante. La libertà non è più
“contro” qualcosa, è qualcosa di sostanziale che si trova nell'intimità dell'uomo. Attraverso
l'ellenismo noi capiamo cosa vuol dire “sentirsi liberi”, e non “essere liberi”. Vi assicuro che
è molto più difficile “sentirsi liberi” che “essere liberi”, e per sentirsi liberi ci vuole la
filosofia o almeno un po' di filosofia.
L'ultimo opposto della libertà mi riesce sempre un poi' difficile da spiegare: la libertà che
si semantizza contro l'impotenza.
Il ragionamento che faccio è questo: ma se sono libero in quanto posso fare tutto quello
che voglio e tuttavia sono in grado di fare molto poco di quel tutto, sono ancora libero? Se
per es. sono in un letto d'ospedale vincolato a tubi e macchine, in queste condizioni sono ancora libero? Cosa posso fare? Niente. Che senso ha parlare di libertà quando le condizioni
della sua attuazione vengono meno? Come posso parlare di libertà se sono in uno stato di
impotenza? Questa è l'ultima domanda che vi faccio. Nell'ellenismo abbiamo parlato di “ libertà da “ossia da qualsiasi forma di dipendenza o di pressione sociale trovando l'esperienza
della libertà nel guscio/fortezza dell'interiorità. Ma è sufficiente questo discorso? No, non lo
è.
L'ultimo significato di libertà è quello più sofisticato perché riguarda la “libertà di”, la libertà di fare per cui non sarò mai libero se sono impotente. Possono attraversarmi la mente
migliaia di desideri ma saranno desideri infantili, desideri fantastici, e siccome fatalmente
per tutti noi, prima o poi, arriverà il momento dell'impotenza – ma anche già adesso la nostra potenza non è infinita e dipende da tanti fattori (salute, tipo di lavoro, reddito, paese in
cui si vive), allora come si affronta questo problema della “libertà di”?
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L'hanno affrontato in due: uno è Plotino e che non vi spiegherò perché non sono tanto capace di spiegarlo anche se ho tradotto la sua opera principale “Le Enneadi” per la Mondadori e aggiungo che dopo averlo tradotto l'ho capito ancora meno di prima di tradurlo (meno si
traduce più si capisce), però vi assicuro che se un giorno vi capitasse di aprire “Le Enneadi”
a caso vi darebbe l'impressione di essere scritto da un extraterrestre, da uno che vive in un
altro mondo e che dice delle cose sorprendenti per il tempo in cui le dice e questo le rende
un testo misterioso e affascinante. Vi sintetizzo semplicemente una frase di Plotino: “non
sono venuto qui perché voi diventiate buoni, non sono venuto qui a parlare con voi perché
diventiate saggi, io sono venuto qui a parlarvi perché voi diveniate Dio”. Questa era la proposta filosofica di Plotino. Si tratta di una proposta potente, perché ci dice che non si diventa liberi se si fa qualcosa, ma se si diventa onnipotenti . Siccome solo Dio è potente, io, in
quanto filosofo, devo tendere a diventare Dio. Non serve parlare della libertà in astratto, perché la potenza di realizzare la libertà rimarrebbe, comunque, sterile. Vi Invito alla lettura del
testo di Plotino. È un’opera non facile e non sempre comprensibile, ma per molti aspetti illuminante. La seconda soluzione circa la libertà è quella stoica. Questa è più semplice da comprendere. Anche per essi l’unica forma di autentica libertà consiste nell’essere onnipotenti.
Tutto ciò che abbiamo detto sulla poesia, l’irrealtà, i sogni, diventa possibile per gli stoici.
Chi è onnipotente può fare tutto. Se si diventa Dio, si può fare tutto. Gli stoici non avevano
la levatura mentale di Plotino, ma comunque affrontavano il discorso in modo rigoroso. Dicevano: l’unica persona davvero libera è il saggio, perché il saggio vuole ciò che il destino
impone. Non è semplice, ma la piena libertà consiste nel fare coincidere il nostro volere con
ciò che accade. Si tratta di accettare liberamente il destino. In questo modo si diventa onnipotenti in quanto, essendo il destino onnipotente, io faccio coincidere il mio volere con
quello del destino. Solo così realizzo la mia stessa onnipotenza e, dunque, la mia libertà. Se
mi capita una disgrazia (es. mi fratturo una gamba), non mi è accaduta veramente una disgrazia, ma è accaduto solo ciò che il Destino ha voluto. Diventerà magari un bene. Andando all’ospedale, magari incontrerò una persona che mi renderà felice. La apparente disgrazia, può essere una fortuna. Ogni cosa va interpretata sempre dal punto di vista universale.
Se riesci a universalizzare la tua posizione personale, ogni accadimento, anche se apparentemente negativo per te, sarà un bene per la dimensione universale e cosmica. In tale prospettivi, crei un equilibrio interiore che ti garantisce una stabilità. L’autentico saggio crea in sé
una ”cittadella interiore”, secondo l’espressione di Marco Aurelio, per cui tutto ciò che accade esteriormente non lo può in nessun modo ferire. Ciò infonde serenità. Quest’uomo è onnipotente, perché il suo mondo è la sua stessa anima e coincide con il proprio equilibrio.
Concludo, sintetizzando quanto fin qui esposto. Per gli Stoici fare ciò che si vuole non è sinonimo di libertà. Innanzitutto sussiste il problema dell’esecuzione di ciò che si vuole. Inoltre non è affatto detto che ciò che si desidera coincida con l’autentica libertà. Per essere davvero libero, debbo eliminare dalla mia vita l’ignoranza, combattendo contro tutto ciò che
non è ragionevole o che è del tutto indifferente, irrazionale o passionale. Mi rimane la ragione e un’autarchia rispetto al mondo esterno. Questa è la libertà degli ellenisti. Ultimo nemico è l’impotenza. Io rimango impotente e incapace di essere autenticamente libero, se non
mi trascendo secondo due modalità: o diventando Dio, oppure accettando il Destino. Gli
stoici proponevano un esempio. Noi siamo come un cane legato ad un carro che viene trascinato per strada. Se ci opponiamo alla corsa del carro, saremo lacerati. Se lo assecondiamo
saremo felici e saggi. Questa è l’idea di libertà che intendo sottoporre alla vostra personale
riflessione.
© PRISMI on line 2013
2013
pagina 9
prismi.liceoferraris.it
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