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Corso di Laurea magistrale (ordinamento ex
D.M. 270/2004)
in Economia e Gestione delle Arti e delle
attività culturali
Tesi di Laurea
Godard e le altre arti: pittura,
musica e letteratura tra Passion
e Hélas pour moi
Relatore
Ch.ma Prof.ssa Valentina Carla Re
Correlatore
Ch.ma Prof.ssa Stefania Portinari
Laureando
Diana Florian
Matricola 845086
Anno Accademico
2013 / 2014
“L'arte ci attrae solo per ciò che rivela del nostro io più intimo”.
Jean-Luc Godard
INDICE
INTRODUZIONE
p.4
1. JEAN-LUC GODARD TRA VITA E CINEMA
1.1 I periodi di Jean-Luc Godard
p.8
p.13
p.25
2. CINEMA E PITTURA: PASSION
2.1 Una classificazione della pittura nel cinema
p.27
2.2 Cinema e pittura tra teorie e pratiche
p.29
2.3 La pittura nella storia del cinema
p.35
2.3.1 Cinema muto
p.35
2.3.2 Cinema d'avanguardia
p.38
2.3.3 Futurismo
p.39
2.3.4 Dadaismo
p.41
2.3.5 Surrealismo
p.43
2.3.6 Espressionismo tedesco
p.45
2.3.7 Cubismo
p.47
2.3.8 Avanguardie sovietiche
p.48
2.3.9 Cinema sperimentale e cinema d'artista
p.52
2.3.10 Modelli pittorici nel cinema d'autore
p.59
2.4 Godard pittore
p.68
2.4.1 La citazione pittorica nella filmografia di Godard
2.5 Passion
p.71
p.79
2.5.1 Sinossi
p.79
2.5.2 Analisi
p.80
2.5.3 “Passion”, le travail et l'amour. Introduction à un
scènario. Troisième état du scénario du film “Passion”
p.87
2.5.4 Scénario du film Passion
p.89
Apparato iconografico
p.94
1
3. CINEMA E MUSICA: PRÉNOM CARMEN
p.102
3.1 Le tipologie della musica da film
p.102
3.2 Teorie e critica della musica per il cinema
p.105
3.3 Cinema e musica: una visione storica
p.115
3.3.1 Cinema muto
p.115
3.3.2 Avanguardie storiche
p.122
3.3.3 Futurismo
p.123
3.3.4 Dadaismo
p.124
3.3.5 Espressionismo tedesco
p.127
3.3.6 Cubismo
p.128
3.3.7 Avanguardie sovietiche
p.130
3.3.8 Oltre il cinema d'avanguardia
p.133
3.3.9 L'avvento del sonoro
p.136
3.3.10 Gli stati Uniti: Hollywood
p.138
3.3.11 Europa
p.146
3.4 Godard e la musica: compositore di cinema
p.160
3.5 Prénom Carmen
p.169
3.5.1 Sinossi
p.170
3.5.2 Analisi: l'origine è Passion
p.172
3.5.3 Analisi di Prénom Carmen
p.178
Apparato iconografico
P.184
4. CINEMA E LETTERATURA: HÉLAS POUR MOI
p.188
4.1 Analogie e differenze tra cinema e letteratura
p.188
4.2 Le teorie
p.192
4.3 Letteratura e cinema: una visione storica
p.199
4.3.1 Cinema muto
p.201
4.3.2 Avanguardie storiche
p.206
4.3.3 Futurismo
p.207
4.3.4 Espressionismo tedesco
p.208
4.3.5 Dadaismo
p.209
4.3.6 Surrealismo
p.212
2
4.3.7 Cinema puro
p.213
4.3.8 Il cinema d'autore in Italia e in Francia
p.214
4.4 La citazione letteraria
p.223
4.5 Godard poeta
p.227
4.5.1 Le citazioni letterarie nella filmografia di Godard
p.236
4.6 Hélas pour moi
p.246
4.6.1 Sinossi
p.247
4.6.2 Analisi
p.248
4.6.3 Passion, Prénom Carmen, Hélas pour moi: la loro
storia
p.257
Apparato iconografico
p.260
BIBLIOGRAFIA
p.263
RISORSE ONLINE
p.270
FILMOGRAFIA DI JEAN-LUC GODARD
p.271
FILMOGRAFIA
p.273
3
INTRODUZIONE
Quando guardai per la prima volta il film d'esordio di Jean-Luc Godard, À bout de
souffle (Fino all'ultimo respiro, 1959), la sensazione provocatami fu di immenso
stupore: mentre le immagini scorrevano mi accorgevo di riconoscere tra i dialoghi una
frase di William Faulkner, una riproduzione di Pierre-Auguste Renoir (ritratto di Irene
Cahen d'Anvers), una melodia di Mozart e l'attore Humprey Borgart, immortalato in una
locandina di un suo film.
Dopo la visione di À bout de souffle, il mio interesse per Jean-Luc Godard si
diresse verso il suo ampio lavoro cinematografico, attività strettamente legata alla sua
vita privata e alle sue passioni. La personalità di cineasta, di critico e di uomo versatile e
dotto, conoscitore di diverse arti, si esprime attraverso l'uso della citazione, poiché
secondo Godard: «tutto in un film è citazione, non solo le frasi»1.
Il lavoro che segue nasce perciò dall'interesse verso le innumerevoli citazioni
presenti nei film di Godard. Personalmente, trovo affascinante l'uso che il regista fa
della citazione, poiché egli inserisce elementi che sono allo stesso tempo personali, in
quanto rispecchiano le sue passioni letterarie, musicali e pittoriche, e collettivi, in
quanto lo spettatore mediante le proprie conoscenze e il proprio bagaglio culturale è in
grado di cogliere tali citazioni. Queste citazioni non influenzano l'apparato narrativo, ma
appaiono come una bella cornice ad un'opera altrettanto bella, la quale se non avesse
tale cornice, forse, non apparirebbe allo stesso modo agli occhi di chi la osserva.
Nelle pagine che seguono si tratterà del rapporto tra il cinema godardiano e le tre
arti principali, dalle quali il regista attinge per le proprie citazioni: la pittura, la musica e
la letteratura. In base a queste tre arti sono stati scelti tre film che, a mio parere,
esprimono la concezione, e talvolta il punto d'arrivo, del rapporto tra Godard e le arti,
questi film sono rispettivamente: Passion, Prénom Carmen e Hélas pour moi. Le tre
pellicole scelte si collocano cronologicamente nel terzo periodo dell'autore (1975-),
precisamente nel decennio tra i primi anni Ottanta e i primi anni Novanta. Questi anni,
dal mio punto di vista, coincidono con un uso della citazione che diviene una sorta di
1
Intervista a “Le Figaro”, 30 agosto 1993; qui citato in Passion Godard. Il cinema (non) è il cinema,
Turigliatto Roberto (a cura di), Il Castoro, Milano 2011, p.24.
4
pura essenza, ovvero la sostanza primaria dell'opera cinematografica, in quanto la
citazione è ricercata e minuziosamente assemblata all'interno dei film.
In seguito alla presentazione di una breve biografia dell'autore, indispensabile per
una corretta comprensione della sua poetica, il presente elaborato verterà sull'analisi dei
film Passion, Prénom Carmen e Hélas pour moi e sull'uso della citazione che Godard vi
compie. I tre capitoli dedicati alle pellicole e alle rispettive arti sono introdotti da una
breve trattazione, che analizza il rapporto tra il cinema e la pittura, la musica e la
letteratura. La trattazione appare indispensabile in direzione di un’approfondita
comprensione del rapporto che lega le varie arti e di come queste abbiano sempre
influenzato il cinema e gli autori di cinema. Il suddetto campo di indagine è assai ampio
e per tale motivo si seguirà un percorso generale del legame tra il cinema e l'arte
corrispondente, sia dal punto di vista teorico, sia da quello storico-cronologico. Si
approderà poi alla filmografia di Jean-Luc Godard, al suo rapporto con le arti ed infine
si analizzerà l'opera cinematografica.
Con Passion, Jean-Luc Godard si fa pittore: se nei film degli anni Sessanta il
cineasta si limitava ad inserire immagini pittoriche nei propri film, con Passion (1982)
decide di ricostruire opere d'arte attraverso splendidi tableaux vivants. La differenza
nell'uso della citazione pittorica tra il primo periodo dell'autore (1960-1967) e il terzo
periodo viene esemplificata con una breve analisi di Pierrot le fou (1965), film in cui il
colore viene sapientemente utilizzato per esprimere le vicende dei personaggi e i loro
stati d'animo, mentre la pittura viene citata attraverso libri, riproduzioni di opere e
associazioni con i personaggi. Al contrario, con Passion Godard cita esplicitamente le
opere d'arte, non filma le riproduzioni ma la loro riproduzione e trasforma la citazione
pittorica in protagonista indiscussa del film. La storia, o meglio le storie, del film
accompagnano i tableaux vivants e le tematiche su cui verte la pellicola: la luce, unico
mezzo in grado di riprodurre le opere viventi; la vita di cinema e in fabbrica; infine
l'arte sublime classica dei dipinti più celebri di Delacroix, Watteau, Ingres, Goya, El
Greco, Rembrandt.
Se in Passion sono i tableaux vivants ad essere i protagonisti del film, con
5
Prénom Carmen (1983) Godard dedica l'intera opera alla musica, precisamente ai
Quartetti di Beethoven. Nelle opere degli anni Sessanta Godard si concentra sul suono,
più che con la musica in sé, secondo quel lavoro di rinnovamento dell’immagine che
stava realizzando attraverso il montaggio. La maggior parte dei film di questi anni sono
accompagnati da musiche appositamente create, ma che il cineasta taglia, sposta e
assembla con brani di musica classica e non solo. La purezza della citazione musicale
avviene, a mio parere, con Prénom Carmen, la cui colonna sonora è composta
unicamente dai Quartetti di Beethoven, che accompagnano l'intera vicenda, anch'essa
incentrata, come in Passion, tra vita e arte, tra il lavoro e la purezza.
Infine, nei film godardiani vi è la citazione letteraria tramite titoli di libri, frasi di
romanzi, che possono essere iscritte nell'immagine filmica o pronunciate direttamente
dai personaggi. Le citazioni letterarie sono per Godard un omaggio a poeti e scrittori da
lui amati e l'elogio che compie con Hélas pour moi (1993) è grandioso: i dialoghi sono
pura letteratura, ogni battuta è composta da frasi di libri e poesie che Godard mescola,
taglia e riscrive al punto che, talvolta, non si riconoscono neppure le fonti. Questo è
inoltre un film la cui vicenda è tratta liberamente dalla Storia del genere umano del
poeta Giacomo Leopardi e da Amphiytrion 38 di Jean Giroudoux. Godard perciò non
scrive i dialoghi e neppure la trama, ma piuttosto modella le fonti letterarie su di essi.
In Passion, Prénom Carmen e Hélas pour moi, le citazioni si presentano, a mio
parere, come il più meraviglioso omaggio che il cineasta potesse fare alle arti, poiché
egli sembra costruire le sue opere cinematografiche su di esse, sulle loro specificità.
Il fil rouge che accomuna i tre film in questione, oltre all'utilizzo supremo della
citazione, è il ruolo della storia, che a mio parere deve essere osservata non in senso
narrativo, come elemento proprio del film, ma in senso personale, come elemento
proprio dell'autore. Analizzando le tre pellicole ho potuto notare come esse siano
caratterizzate dalla ricerca comune di una storia da parte dei rispettivi protagonisti,
storia che probabilmente ricerca anche lo stesso Godard mentre realizza i suoi film. Per
questo ogni film ha al suo interno un alter-ego del regista, Jerzy in Passion, lo zio Jean
(interpretato dallo stesso Jean-Luc Godard) in Prénom Carmen, l'editore Klimt in Hélas
6
pour moi; personaggi che hanno un obiettivo in comune: cercare di realizzare una storia,
vera o fasulla che sia. Dunque, nelle analisi dei film, la trattazione verterà anche sul
ruolo della storia e su come essa viene messa in relazione con i temi fondanti del film e,
talvolta, con le stesse citazioni.
Gli omaggi sublimi e la ricerca di una storia diventano in Godard una sorta di
ossessione, magnifica direi, che dà vita alle tre opere, in cui i protagonisti del film sono
la pittura, la musica, la letteratura e, naturalmente, il cinema.
7
CAPITOLO I
JEAN-LUC GODARD TRA VITA E CINEMA
Rimpiango l'epoca della Nouvelle Vague, quando non avevamo nessuna
paura […]. Mi rendo conto di osare meno, ciò mi preoccupa, e mi dico che
si deve osare... Ma bisogna essere in tanti: durante la Nouvelle Vague
avevamo una forza terribile, eravamo tre o quattro, ma comunicavamo in
continuazione […]. Quando finivo di scrivere un articolo per i “Cahiers”, lo
mostravo a Rohmer e se mi diceva che andava bene ero più contento che se
oggi mi dicessero di aver fatto trecentomila spettatori. Avevamo una forza
straordinaria, che ho perso, come una stella che si raffredda.2
Così Jean-Luc Godard, in una conferenza del 1989, descrive il suo operato
durante gli anni della Nouvelle Vague3, affermando di aver oggi perduto quell'intensità
di quegli anni, in cui l'interazione con gli amici e colleghi dei “Cahiers” consentiva di
dire e fare senza timore, di sperimentare nuovi linguaggi, «un'originalità come quella
che avevamo noi non si è più vista in seguito»4 disse Godard. La condivisione era
l'aspetto che caratterizzava gli anni della Nouvelle Vague, difatti la critica e la pratica
filmica erano oggetti di condivisione tra i teorici e tra i cineasti che non temevano di
osare e di sperimentare.
In questi anni, quando Godard tratta il tema della Nouvelle Vague fa soprattutto
riferimento al periodo in cui i jeunes turcs, i “giovani turchi”, non sono ancora divenuti
registi, si riferisce all'attività critica e a quella di cinéphiles della Cinémathèque
Française di Henri Langlois5, in cui si ritrovano i giovanissimi François Truffaut, Jean2
3
4
5
Godard Jean-Luc, Le montagne, la solitude, la liberté in Jean-Luc Godard par Jean-Luc Godard (a
cura di) Bergala Alan, Cahiers du cinéma, Editions de l'Etoile, Paris 1998, vol. II; trad. it. Due o tre
cose che so di me, Mininimum Fax, Roma 2007, p.239 (estratto dalla conferenza tenuta alla FEMIS il
26 aprile 1989).
L'espressione “Nouvelle Vague”, che rimanda ad un momento particolare della storia del cinema
francese, compare sulla stampa a partire dal febbraio-marzo 1959 accompagnando l'uscita
commerciale dei film Le beau e Les Cousins di Claude Chabrol, Les Quatre cents coups di François
Truffaut e Hiroshima mon amour di Alain Resnais.
L'arte a partire dalla vita, intervista di Alain Bergala, 12 marzo 1985, qui citato in Godard Jean-Luc,
Due o tre cose che so di me. Scritti e conversazioni sul cinema, a cura di Orazio Leogrande,
Minimum Fax, Roma 2007, p.20.
Fondata nel 1934 da Henri Langlois e Georges Franju, nella Cinémathèque venivano proiettati non
solo i film classici ma anche quelli censurati dall'industria, definiti da Jean Cocteau “film maledetti”,
in quanto erano film che si ponevano contro i dogmi e le regole del cinema tradizionale (ad esempio
le pellicole di Jean Renoir, Roberto Rossellini, Jacques Becker, Alfred Hitchcock, Howard Hawks,
Fritz Lang, Anthony Mann, Jean Renoir, e Max Ophüls).
8
Luc Godard, Jacques Rivette, Claude Chabrol e Eric Rohmer. Essi difatti prima di
essere registi sono innanzitutto dei cinefili, conoscono la storia del cinema e in quanto
tale discutono e giudicano le scelte estetiche e tecniche del cinema tradizionale6. Ma dal
fare della critica tra amici al fare della critica con carta e penna non passa poi molto
tempo e a partire dal 1951 i cinque amici diventano collaboratori della rivista
cinematografica “Cahiers du cinéma”7.
La critica dei “Cahiers” degli anni Cinquanta si basava sul concetto di mostrare e
dimostrare fino al punto che si riesca poi a comprendere e a valutare 8; per Godard
questo è l'obiettivo primo del cinema al punto che il cineasta afferma, in un'intervista
del 1962, che fare critica sulla rivista di Bazin o Doniol-Valcroze era la medesima cosa
che girare un film: «Tutti, ai “Cahiers”, ci consideravamo futuri registi. Frequentare i
cineclub e la Cinemathèque era già pensare cinema e pensare al cinema. Scrivere era già
fare cinema, perché tra scrivere e girare c'è una differenza quantitativa, non
qualitativa»9.
Dunque la Nouvelle Vague è per Godard essenzialmente un tempo della critica, in
cui pure è già iscritto un tempo del cinema 10, in quanto esiste una continuità tra la
pratica cinematografica e quella letteraria. Questa continuità esplode tra il 1958 e il
1959, anni in cui quel gruppo circoscritto di critici composto da François Truffaut, JeanLuc Godard, Claude Chabrol, Jacques Rivette ed Eric Rohmer si trasforma in un gruppo
di cineasti, il cui lavoro contribuì a definire la corrente cinematografica della Nouvelle
Vague. Secondo Michel Marie tale gruppo di cineasti può essere raggruppato sotto una
vera e propria scuola artistica11, mentre Jean-Luc Godard ritiene che sia il gruppo stesso
l'essenza della corrente, «il gruppo dei “Cahiers” è tutto» 12. In qualunque modo si veda
la corrente è André Bazin che segna profondamente questo cinema attraverso le sue
6
7
8
Definito ironicamente dai giovani cinefili il “cinema di papà”.
La rivista “Cahiers du Cinéma” è stata fondata nel 1951 da André Bazin e Jacques Doniol-Valcroze.
Secondo Venzi Luca (a cura di), Nouvelle Vague: forme, motivi, questioni, Ente dello spettacolo,
Roma 2011, p.11.
9 Intervista rilasciata nella rivista “Cahiers du Cinéma”, 138, 1962. Qui citato in Michel Marie, La
Nouvelle Vague, Lindau, Torino 1998, pp.35-36.
10 Venzi Luca (a cura di), Nouvelle Vague: forme, motivi, questioni, Ente dello spettacolo, Roma, 2011,
p.11.
11 Michel Marie, La Nouvelle Vague, Lindau, Torino 1998, p.35-57.
12 Trois entretiens. Jean-Luc Godard, in “Cahiers du cinéma”, 138, 1962, qui citato in Venzi Luca (a
cura di), Nouvelle Vague: forme, motivi, questioni, Ente dello spettacolo, Roma 2011, p.16.
9
teorie13. Fondamentale è la riflessione sul rapporto tra realtà e immagine filmica:
quest'ultima è sia documentaria che finzionale allo stesso tempo. «Essa è un atto di
trascrizione automatica di un dato sensibile colto nel suo durare e, allo stesso tempo,
l'espressione visibile della sua elaborazione formativa» 14, e la ripresa è il luogo dove la
duplicità dell'immagine filmica si esprime. Il cinema perciò si trova tra la realtà (un dato
sensibile) e l'immaginario (l'espressione visibile della sua elaborazione formativa) e tra
registi che perseguono il concetto di realtà e quelli che invece sostengono l'immagine e
l'immaginario. Bazin riconosce questo suo concetto del rapporto tra realtà e immagine
nell'estetica del neorealismo italiano, in quanto la “corrente” ha costituito un'evoluzione
del linguaggio cinematografico, rompendo con gli aspetti stilistici del cinema classico e
con il procedimento tradizionale narrativo, per porre in evidenza la realtà che diventa
forma nell'immagine cinematografica. Bazin afferma questo suo pensiero con il film
neorealista Ladri di biciclette (regia di Vittorio De Sica, 1947) ritenendolo «uno dei
primi esempi di cinema puro, niente più attori, niente più storia, niente più messa in
scena, cioè, finalmente, nell'illusione estetica perfetta della realtà: niente più cinema»15.
A partire dal concetto baziniano di realtà e immagine, Jean-Luc Godard esplica la
sua opinione di immagine finzionale e documentaria sostenendo: «In linea generale, il
reportage è interessante solo se si inserisce nella finzione, ma la finzione è interessante
solo se si verifica nel documentario. La Nouvelle Vague, appunto, è caratterizzata in
parte proprio da questo nuovo rapporto tra la finzione e la realtà»16.
Così i cineasti della “nuova ondata” attingono alla realtà nelle istanze tecnicoformali esibite (dal rumore della macchina fino alla ripresa di veri passanti sulle strade
di Parigi che divengono comparse all'interno del film) e in quelle compositive-figurative
derivate (ad esempio l'uso della citazione e il richiamo extratestuale), che assumono un
proprio spessore in quanto ricondotte alla personalità di ogni singolo autore. Di matrice
baziniana è anche la politica degli autori, in cui l'opera cinematografica viene
13 I suoi scritti sono stati raccolti in quattro volumi (postumi alla morte avvenuta nel 1958) dal titolo
Qu'est-ce que le cinéma?, Éditions du Cerf, Parigi, pubblicati tra il 1958 e il 1962. In Italia è stata
pubblicata una traduzione parziale: Aprà Adriano (a cura di), Che cosa è il cinema?, Garzanti, Milano
1973.
14 Venzi Luca (a cura di), Nouvelle Vague: forme, motivi, questioni, Ente dello spettacolo, Roma 2011,
p.19.
15 Bazin André, Che cosa è il cinema?, Garzanti, Milano 1986, p.318.
16 Trois entretiens. Jean-Luc Godard, in “Cahiers du cinéma”, 138, 1962, qui citato in Venzi Luca (a
cura di), Nouvelle Vague: forme, motivi, questioni, Ente dello spettacolo, Roma 2011, p.24.
10
considerata come espressione della personalità del regista, il quale trasmette la propria
visione del mondo in piena libertà espressiva; la sceneggiatura, perciò, appare
secondaria rispetto alla regia, la mise en scène, da cui si colgono le peculiarità del suo
autore. Di conseguenza, i critici dei “Cahiers” si oppongono al linguaggio
cinematografico codificato, sopratutto quello hollywoodiano17, e ai vincoli imposti dal
cinema industriale e commerciale per esaltare uno stile personale del regista, che si
impegna a perseguire l'estetica del reale.
Prima della teoria di André Bazin, fu Alexandre Astruc, nel 1948, in un saggiomanifesto Naissance d'une nouvelle avant-garde: la caméra-stylo18 a sostenere l'idea
che il cinema potesse diventare mezzo di espressione personale del regista, tanto quanto
lo è una penna (stylo) per uno scrittore: «il cinema sta divenendo un mezzo
d'espressione, ciò che sono state tutte le arti prima di esso, in particolare la pittura e il
romanzo. Diventa a poco a poco un linguaggio, cioè una forma attraverso la quale un
artista può esprimere il suo pensiero, quanto astratto possa essere, o tradurre le sue
ossessioni esattamente come avviene nel campo del saggio o del romanzo»19.
Forse è la ricerca di uno stile personale che non ha permesso di far diventare la
Nouvelle Vague un movimento compatto, difatti le diverse direzioni prese negli anni
Sessanta dai suoi esponenti inducono semmai a vederla come una breve alleanza di
temperamenti differenti20. La “nuova ondata” giunse all'apice del suo successo tra il
1958 e il 1962, anni nei quali i cineasti aderenti alla corrente vengono accomunati dalla
medesima concezione di un cinema che, come disse Godard, doveva saper catturare la
bellezza dello «splendore del vero»21. I cineasti della Nouvelle Vague sono agevolati
nella ricerca del loro fine anche dalla nuova strumentazione cinematografica, introdotta
fra il 1958 e il 1960, che concilia le scelte estetiche della Nouvelle Vague: difatti la
macchina da presa diventa più leggera e compatta, permettendo ai cineasti di poter
filmare per strada o all'interno degli appartamenti parigini, offrendo la possibilità di
17 I critici dei “Cahiers” sostengono che anche nel cinema hollywoodiano ci siano dei cineasti che
possono essere consideri degli autori, ad esempio Godard dedica alcuni suoi scritti ai registi Nicholas
Ray, Frank Tashlin, Joseph Mankiewicz e Stanley Donen.
18 Pubblicato nella rivista “L'Ecran Français”.
19 Citato in Renzo Gilodi, Nouvelle vague: il cinema, la vita, Effatà Editrice, Torino 2007, p.65.
20 Secondo Bordwell David, Thompson Kristin, Storia del cinema e dei film. Dal dopoguerra a oggi.
Editrice Il Castoro, Milano 2003, p.196.
21 Citato in Farassino Alberto, Jean-Luc Godard, Il Castoro, Milano 2007, p.21.
11
registrare dialoghi in presa diretta ed inserire i rumori dell'ambiente nella colonna
sonora22. Le pellicole utilizzate sono ultrasensibili in quanto i cineasti prediligono una
luce naturale e, quando sono necessarie luci artificiali, scelgono di impiegare le photo
floods, lampade a luce diffusa che possono essere trasportate anche in interni reali e
regolate durante le riprese. I cineasti poi privilegiano attori non professionisti o
esordienti, i cui dialoghi non vengono prestabiliti per abbandonare la recitazione
all'improvvisazione, che conduce ad una maggiore libertà d'espressione sia per il regista
che per gli attori; l'autore-regista compone la sua troupe di poche persone e realizza i
film con un piccolo budget o autoprodotti in modo da conservare la creatività autoriale.
L'atto decisivo della Nouvelle Vague è la riscoperta degli ambienti e dei luoghi
reali inevitabilmente legati agli autori, accentuando così la forte dimensione
autobiografica delle opere. I film della Nouvelle Vague sono incentrati sulla vita
professionale urbana, mostrano le mode del momento, le auto sportive, i party notturni e
i caffè con l'immediatezza del cinema diretto. «Difatti i cineasti mirano a eliminare le
frontiere tra cinema professionale e amatoriale, così come quelle tra film di finzione e
film documentario»23.
Analizziamo ora l'estetica e la tecnica della Nouvelle Vague attraverso una breve
analisi di À bout de souffle (Fino all'ultimo respiro, 1959), primo lungometraggio di
Jean-Luc Godard e film-manifesto della corrente24. Godard porta la cinepresa in strada
per mostrare la Parigi degli Champs-Élysées, i cinema e i suoi caffè, gli alberghi per
turisti (Hôtel de Suède) in un'immagine che sembra celebrare la capitale francese.
Godard porta in scena la realtà e la quotidianità anche nei dialoghi, ad esempio a Michel
(Jean-Paul Belmondo) è permesso di dire tutto: lo sentiamo canticchiare un motivo alla
radio, lo ascoltiamo insultare le autostoppiste o chiedere a Patricia (Jean Seberg) perché
non porta il reggiseno, infine a Michel è permesso anche di parlare allo spettatore e con
sguardo in macchina annuncia la finzione del cinema.
22 I primi film erano però postsincronizzati a causa degli elevati costi che gli autori della Nouvelle
Vague non potevano permettersi. Nei primi anni sessanta la sincronizzazione tra suono e immagine si
realizza grazie al nuovo magnetofono Nagra. È Godard in Une femme est une femme (1961) a
realizzare il primo film con suono in presa diretta della corrente. Il perfezionamento tecnico giungerà
alla fine degli anni Sessanta con la cinepresa Arriflex, con il suono in presa diretta.
23 Michel Marie, La Nouvelle Vague, Lindau, Torino 1998, p.82.
24 Gli altri film manifesto secondo Bordwell David, Thompson Kristin, Storia del cinema e dei film.
Dal dopoguerra a oggi. Editrice Il Castoro, Milano 2003, p.195, sono: Le beau e Les Cousins di
Claude Chabrol, Les Quatre cents coups di François Truffaut.
12
Nel film il cineasta distrugge ogni regola del montaggio classico: «privilegia un
montaggio sincopato tanto nelle sequenze di azione (la fuga in auto all'inizio del film)
quanto nei momenti di dialogo (quando Michel parla alla nuca di Patricia durante il loro
percorso in auto), […] opta in certi momenti per il piano-sequenza rettilineo (l'incontro
sugli Champs-Élysées) o circolare (la discussione finale nell'appartamento di rue
Campagne Première)»25, utilizza i jump cut ovvero tagli di alcuni fotogrammi all'interno
di una sequenza che provocano uno stile irregolare e fastidioso allo spettatore, infine
dilata le sequenze fino a tre o quattro volte la sua durata tradizionale (il lungo dialogo
iniziale tra Patricia e Michel nella camera d'albergo26). Il linguaggio è volutamente
frammentario e discontinuo: Godard analizza il cinema e si scaglia contro il linguaggio
e gli artifici del cinema classico per cercare una nuova forma di narrazione; ciò che
Godard tenta di fare è spezzare l'incantesimo dello spettacolo cinematografico
americano per porre lo spettatore in una posizione distaccata e critica davanti alla
rappresentazione. Nei film della “nuova ondata”, la narrazione è organizzata su eventi
casuali con frequenti digressioni e il finale è quasi sempre aperto, come quello di À bout
de souffle, in cui emerge l'ambiguità dei sentimenti di Patricia nei confronti dell'amato
Michel, che tradisce denunciandolo alla polizia.
1.1 I periodi di Jean-Luc Godard
«Esiste il cinema prima di Godard e il cinema dopo Godard»27. Ad affermarlo è
l'amico François Truffaut, ma vi è chiaramente un cinema prima di À bout de souffle e
dopo À bout de souffle. Il film, oltre ad essere l'esordio ufficiale di Godard come regista
e suo primo lungometraggio, può essere considerato l'origine, ovvero l'inizio, di un
progetto personale e cinematografico dell'autore. Con i suoi raccordi di montaggio
sconnessi, la novità linguistica e lo stile narrativo ellittico, À bout de souffle sembra aver
creato una frattura che non è possibile collegare con il passato, una frattura che è un
nuovo inizio per il cinema in generale e per quello godardiano in particolare.
25 Michel Marie, La Nouvelle Vague, Lindau, Torino, 1998, p.103.
26 La scena del dialogo dura 20 minuti.
27 Citato in Bordwell David, Thompson Kristin, Storia del cinema e dei film. Dal dopoguerra a oggi.
Editrice Il Castoro, Milano 2003, p.198.
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Il Godard cinefilo, assiduo frequentatore del cinema di Langlois, si avvicinò al
cinema e a coloro che divennero con lui i rappresentanti della Nouvelle Vague circa alla
fine degli anni Quaranta28. Il gruppo di amici si scambiano esperienze, si ritrovano tutti i
giorni nei cinema e, alcuni di loro, iniziano a sperimentare con la cinepresa. Godard è
giovanissimo, ha meno di vent'anni29, eppure ha una forte passione per il mondo del
cinema.
Prima di approdare ai “Cahiers”, Godard scrive a “La gazette du cinéma” 30 una
quindicina di articoli sotto lo pseudonimo di Hans Lucas, ovvero Jean-Luc in lingua
tedesca, recensendo film americani, sovietici e francesi. Nella rivista “Cahiers du
cinéma” Godard scrive il suo primo articolo nel gennaio del 1952, recensendo un film di
Rudolph Maté. La critica di questi anni non si limita a dare giudizi cinefili su film
minori e sottovalutati, nei suoi scritti critici emergono anche le sue idee sul cinema, il
quale «è uno sguardo a ogni istante talmente nuovo sulle cose da trafiggerle» 31. Godard
crea frasi critiche che trasforma in creazioni di se stesse, in quanto il cineasta si
riconosce in quella politica degli autori per cui anche le sue parole devono rientrare in
una costanza di uno stile ed essere così riconoscibili. Fino al 1956 Godard non scriverà
più, tra le varie vicende biografiche32 si inserisce una trasformazione culturale profonda
nel cineasta. Egli ritornerà ai “Cahiers” nel 1957 per poi passare al settimanale “Arts”,
ma la sua critica appare diversa e meno passionale. Godard difatti si sta concentrando su
un altro tipo di lavoro, quello di fare film. Nel 1957 lavora come addetto stampa alla
20th Century Fox prendendo il posto lasciatogli da Claude Chabrol; in omaggio a Jean
Cocteau nel 1958 produce Charlotte et son Jules e nello stesso anno Une historie d'eau,
quest'ultimo nato dalla collaborazione con François Truffaut, il quale l'anno seguente gli
28 Truffaut afferma di aver conosciuto Godard nel 1948 alla Cinémathèque di Avenue de Messine e al
cineclub del Quartiere Latino. Citato in Farassino Alberto, op.cit., p.17.
29 Jean-Luc Godard è nato a Parigi il 3 dicembre 1930 da una famiglia alto borghese originaria di
Ginevra. Il padre, Paul Godard, è un medico mentre la madre, Odile Monod, appartiene ad una ricca
famiglia di banchieri e di intellettuali. Godard frequenta le medie in Svizzera, il liceo a Parigi per poi
iscriversi a etnologia alla Sorbona, percorso di studi che non verrà mai terminato.
30 Rivista fondata nel 1950 da Godard, Rivette e Rohmer; è stata pubblicata per cinque numeri tra il
maggio e il novembre del 1950.
31 Citato in Farassino Alberto, Jean-Luc Godard, Il Castoro, Milano 2007, p.21.
32 Godard tra il 1952 e il 1954 torna in Svizzera per riottenere la cittadinanza e sottrarsi così al servizio
militare in Francia, che avrebbe significato combattere nella guerra d'Algeria (1954-1962). Nel 1954
lavora come manovale nella costruzione della diga della Grande Dixence e allo stesso tempo gira un
documentario, Opération béton, che verrà acquistata dall'azienda stessa.
14
offrirà la sua sceneggiatura per realizzare il primo lungometraggio di Godard, À bout de
souffle, conosciuto in Italia con il titolo Fino all'ultimo respiro.
Si apre così il primo periodo cinematografico dell'autore, il periodo più fecondo in
cui realizza ventidue film in un arco di tempo che va dall'anno 1960 al 1967. Il lavoro
godardiano in questo periodo risulta innovativo sia dal punto di vista tecnico, con l'uso
di un montaggio sconnesso, rapido, sincopato con raccordi sbagliati, sbalzi di
illuminazione tra un'inquadratura e l'altra causati da un'illuminazione quasi sempre
naturale, attori che si rivolgono direttamente al pubblico con sguardi in macchina che
stravolgono il senso narrativo tradizionale, sia dal punto di vista citazionale, con
evidenti richiami alla cultura popolare, ai film e ai divi hollywoodiani degli anni
Cinquanta.
Fin dal suo primo cortometraggio, À bout de souffle (1959), Godard compie una
serie di citazioni extratestuali: inserisce il poster del film di Humphrey Bogart, Il
colosso di argilla, la cui espressione viene imitata dal protagonista Michel 33, mostra sale
cinematografiche dove vengono proiettati Hiroshima mon amour di Resnais, Dieci
secondi con il diavolo di Aldrich, L'oro della California di Boetticher e altri ancora; a
queste vanno aggiunte le citazioni pittoriche (Picasso, Renoir), musicali (Bach, Mozart)
e letterarie (Faulkner, Rilke, Cocteau, Aragon, Sachs). Questi campi citazionali
caratterizzano tutto il primo periodo godardiano e ritorneranno nel terzo periodo (1975-)
facendosi più frequenti e più marcati in ogni suo film.
Nel film successivo, Le petit soldat (1960), Godard inizia a riflettere su un tema
che diverrà costante negli anni successivi, la guerra, ma ne parla attraverso un evento
attuale, la guerra d'Algeria; senza prendere posizioni politiche il cineasta adotta una
prospettiva di distanza critica e storica, mostrando gli orrori delle torture 34. La tematica
ritorna anche in Les Carabiniers (1963), in cui inserisce alcune scene di guerra tratte da
immagini di repertorio di documentari per rimarcare il realismo ricercato anche in Le
petit soldat35, Godard stesso afferma: «ho filmato la guerra in maniera oggettiva a tutti i
livelli, compreso quello della coscienza. […] Fare un film utilizzando immagini di
33 Il gesto di accarezzarsi le labbra con il pollice come la figura di Bogart nel poster avviene più volte
nel corso del film.
34 Per questo il film subirà la censura politica e verrà proiettato solo nel 1963.
35 «Volevo ottenere il realismo che mancava ad À bout de souffle, la concretezza» in Godard Jean-Luc,
Il cinema è il cinema, Garzanti, Milano 1981, p.179.
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repertorio non significa carpire la vita che dorme nei fortini delle cineteche, ma
spogliare la realtà della sua apparenza ridandole l'aspetto grezzo in cui basta a se
stessa»36.
La spersonalizzazione dell'individuo nella società moderna viene analizzato da
Godard attraverso la figura femminile. Il cineasta esamina la coscienza di essere donna
in una società neo-capitalistica e consumistica soprattutto in Vivre sa vie (Questa è la
mia vita, 1962) e in Deux ou trois chose que je sais d'elle (Due o tre cose che so di lei,
1967), in cui esplora la tematica della prostituzione e analizza le due figure alienate
delle rispettive protagoniste. Il primo film appare come una sorta di documentario
inchiesta sul problema della prostituzione37; nel secondo Godard esamina la
prostituzione nella società dei consumi, difatti la donna decide di prostituirsi per
permettersi il benessere del consumismo, dominante nella società degli anni Sessanta,
ma allo stesso tempo analizza i cambiamenti che stanno avvenendo a Parigi, ovvero la
lei (elle) del titolo del film, la quale si sta trasformando a seguito della risistemazione
urbanistica che sta avvenendo in quegli anni. Allo stesso tempo, la prospettiva
godardiana indaga ed analizza la società borghese e neo-capitalistica in Le Mépris (Il
disprezzo, 1963) e in Une femme mariée (Una donna sposata, 1964), in cui mostra un
sistema condizionato da falsi miti e valori, relazioni basate sulla dominazione e sulla
forza, sullo sfruttamento ed il denaro. Godard analizza la società e i suoi cambiamenti,
l'avanzare del potere dei media, della pubblicità e delle comunicazioni, che divengono
mezzi di trasmissione di messaggi, di cultura e di conoscenze. Ad esempio, Une femme
mariée narra la vita di una donna emancipata, sposata e con un amante, che lavora in
una rivista femminile ma che si ritrova inconsciamente ad accettare i feticci di una
società che annulla la sua persona e la sua personalità, investita dai continui richiami
pubblicitari su riviste femminili, da prodotti di bellezza e dal sesso che diventa oggetto
di consumo. In Le Mépris, film dal grande successo commerciale sia per la
trasposizione dal libro omonimo di Moravia, sia per la presenza della diva Brigitte
Bardot, sia per la citazione incarnata di Friz Lang che interpreta un regista (se stesso)
36 Fuoco su “Les Carabiniers”, “Cahiers du cinéma”, n.146, agosto 1963, qui citato in Godard JeanLuc, Due o tre cose che so di me. Scritti e conversazioni sul cinema, a cura di Orazio Leogrande,
Minimum Fax, Roma 2007, pp.56-57.
37 Prende spunto da un'inchiesta giornalistica del 1959 (Où en est… la prostitution?) di Marcel Sacotte.
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nelle riprese dell'Odissea. Godard analizza le «persone che si osservano e si giudicano,
poi sono a loro volta osservate e giudicate dal cinema»38, ovvero il cineasta indaga i
problemi di coppia dei protagonisti Paul e Camille sia dal loro punto di vista, che dal
punto di vista del cinema, in questo caso incarnato dal personaggio di Friz Lang.
Nei due lungometraggi del 1965, Alphaville, une étrange aventure de Lemmy
Caution e Pierrot le fou (Il bandito delle ore undici), Godard studia l'universo dei suoni
del linguaggio parlato. In Alphaville, film fantascientifico e noir, vi è il computer Alpha
60 che scandisce parole e cita poeti con una voce inumana e metallica e, in una Parigi
futura, i personaggi non comprendono alcuni termini a noi comuni, ad esempio Natacha
non conosce il significato di “amore” e “coscienza”, parole tratte da una poesia di Paul
Éluard che le viene letta. In Pierrot le fou, Godard analizza il colore, la musica, la
parola in una continua composizione e scomposizione delle forme del vocabolo (da un
neon ad un'insegna); estrapola parole dal fumetto, dalla pubblicità ma il soggetto rimane
anche in quest'ultimo film il cinema «e il suo modo di trattare le cose»39. Pierrot le fou
può considerarsi il film-sintesi del primo periodo godardiano, caratterizzato da un
linguaggio e da forme narrative libere, con espliciti riferimenti al contemporaneo,
all'attualità, alla pubblicità, e al mondo del cinema, dell'arte e della letteratura, che si
incrociano alla lettura della condizione moderna dei personaggi.
Con il cortometraggio L'amour en l'an 2000, realizzato per il film ad episodi dal
titolo L'amore attraverso i secoli, in cui Godard indaga (nuovamente) la tematica della
prostituzione in una Parigi futurista, termina il primo periodo cinematografico
godardiano, chiamato anche “Gli anni di Karina” 40 in riferimento alla prima moglie del
regista, Anna Karina. L'attrice danese appare la prima volta come protagonista in un
film di Godard nel 1960, Le petit soldat, nel quale probabilmente i due s'innamorano.
L'anno successivo, appena concluse le riprese di Une femme est une femme (La donna è
38 Il disprezzo, “Cahiers du cinéma”, n.146, agosto 1963; qui citato in Godard Jean-Luc, Due o tre cose
che so di me. Scritti e conversazioni sul cinema, a cura di Orazio Leogrande, Minimum Fax, Roma
2007, p.62.
39 L'arte a partire dalla vita, intervista di Alain Bergala, 12 marzo 1985, qui citato in Godard Jean-Luc,
Due o tre cose che so di me. Scritti e conversazioni sul cinema, a cura di Orazio Leogrande,
Minimum Fax, Roma 2007, p.22.
40 Definizione accettata dallo stesso Godard nella seconda edizione francese (1985) dell'antologia di
scritti critici e interviste Jean-Luc Godard par Jean-Luc Godard, ed. Cahiers du cinéma; qui
menzionato da Farassino Alberto, op.cit., p.98.
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donna, 1961)41, in cui è ancora lei la protagonista, Godard sposa Anna 42, la coppia
rimarrà sposata fino al 1968, anni nel corso dei i quali Anna Karina interpreta la
protagonista femminile di quasi ogni film del marito, film che sono anche i più celebri
di questi anni, da Vivre sa vie (1962), Bande à Part (1964), Pierrot le fou (1965) fino al
cortometraggio L'amour en l'an 2000 (L'amore attraverso i secoli, 1967) ultimo film
che interpreta prima del divorzio43.
Il periodo successivo sarà denominato gli “Anni Mao” (1967-1972) che vedranno
sostituirsi ad Anna Karina una nuova protagonista femminile dai capelli rossi, l'attrice
Anne Wiazemsky, che Godard sposa nel giugno del 1967, subito dopo la conclusione
delle riprese del primo film degli “anni Mao”, La Chinoise (La cinese), il quale non
presenta un adesione totale al maoismo, come avverrà nei film successivi, ma ne
osserva distaccatamente le caratteristiche, anticipando, allo stesso tempo, di qualche
mese le tematiche e gli slogans che campeggeranno nel maggio francese il movimento
sessantottesco. In questi anni Godard riflette sui rapporti tra linguaggio e politica, tra
arte (cinema) e attivismo politico, aderisce al marxismo-leninismo e utilizza il mezzo
cinematografico per trasmettere un'ideologia, per criticare la moderna civiltà dei
consumi. In Week-end (Week-end, un uomo e una donna dal sabato alla domenica,
1967) Godard riflette, in termini politici e teorici, sul senso del cinema nella società
moderna e ne annuncia la fine con un cartello posto nel finale del film. Godard assocerà
la fine del cinema alla sua fine di cineasta autonomo: «Abbandonare la nozione di
autore, così com'è, perché è lì che si vede il tradimento, il revisionismo integrale. La
nozione di autore è completamente reazionaria»44.
Durante gli “anni Mao”, difatti, Godard annulla il percorso svolto, nel periodo
precedente, di una politica dell'Autore per creare nel 1969, con Jean-Pierre Gorin45,
41 Primo film a colori e con suono diretto.
42 Il matrimonio avviene il 3 marzo 1961.
43 Anna Karina interpreta anche Alphaville, une étrange aventure de Lemmy Caution (Angente Lemmy
Caution, missione Alphaville, 1965) e Made in USA (Una storia americana, 1966) nel quale si
avvertono già le tensioni tra i coniugi, quest'ultimo sarà l'ultimo lungometraggio interpretato da Anna
prima di separarsi.
44 Jean-Luc Godard in “Tribune Socialiste”, 23 gennaio 1969; citato in Wikipedia.org:
http://it.wikipedia.org/wiki/Gruppo_Dziga_Vertov (ultima visualizzazione: 17 gennaio 2015).
45 Gorin è l'esponente principale del gruppo dopo Godard. I due si conoscono nel 1967 mentre Godard è
impegnato a documentarsi per il film La chinoise: «è stato l'incontro di due persone, l'una
proveniente dal cinema normale, l'altra un militante che aveva deciso che fare cinema fosse uno dei
suoi compiti politici per dare una base teorica al maggio parigino e allo stesso tempo per metterlo in
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Jean-Henri Roger e Armand Marco, il gruppo Dziga Vertov in cui il cinema godardiano
diventa collettivo. Con il gruppo, Godard rivaluta il modo di fare cinema, si avvicina ad
un cinema politico e rivoluzionario, e dichiara: «Abbiamo allora preso il nome Dziga
Vertov, non per mettere in pratica il suo programma, ma per prenderlo a portabandiera
in confronto a Ejzenstein che, all'analisi, era già un regista revisionista, mentre Vertov,
agli inizi del cinema bolscevico, aveva tutta un'altra teoria consistente nell'aprire gli
occhi e mostrare com'è il mondo in nome della dittatura del proletariato» 46. Il richiamo
al cineasta sovietico è puramente simbolico, Godard e Gorin se ne appropriano per
dimostrare che l'obiettivo della loro produzione è quello di riuscire a mostrare la verità
attraverso un cinema nuovo e rivoluzionario, in cui il cineasta diventa filosofo il cui
compito «sarà produrre la teoria del “cinema materialista” per lottare nel proprio campo
specifico contro l'ideologia borghese […], fare un cinema d'avanguardia e di rottura
contro le mistificazioni del cinema ufficiale e contro gli equivoci del cinema
progressista e militante»47. Il primo film firmato dal gruppo Dziga Vertov è British
Sounds (1969), un'indagine sui gruppi della sinistra rivoluzionaria inglese, seguito dai
film militanti Pravda (1969), un reportage sulla Cecoslovacchia dopo l'invasione
dell'Urss nel 1968, e Lotte in Italia (1970)48.
Nel 1970 il matrimonio con Anne Wiazemsky entra in crisi49, la donna lascia
l'appartamento dove viveva con Godard attribuendo la colpa a Gorin di averlo
allontanato da lei e dal suo cinema 50; allo stesso tempo anche il gruppo Dziga Vertov
inizia a disgregarsi. L'ultimo film che vede impegnato il sodalizio Godard-Gorin è Tout
va bien (Crepa padrone, tutto va bene, 1972), in cui vi è la firma dei due autori e non
del gruppo Dziga Vertov, ormai definitivamente sciolto 51. Il film ha un forte impatto
commerciale, sia per la partecipazione delle star internazionali Jane Fonda e Yves
Montand, sia per chi sostiene un ritorno del cineasta. Inoltre, Godard e Gorin accettano i
46
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50
51
pratica». Cit. in Godard Jean-Luc, Due o tre cose che so di me. Scritti e conversazioni sul cinema, a
cura di Orazio Leogrande, Minimum Fax, Roma 2007, p.141.
Citato in Farassino Alberto, Jean-Luc Godard, Il Castoro, Milano 2007, pp.120-121.
Farassino Alberto, Jean-Luc Godard, Il Castoro, Milano 2007, p.122.
Vi sono poi i film: Vento dell'est (1969), Vladimir et Rosa (1970), quest'ultimo è l'ultimo film
ufficiale attribuibile al gruppo.
Godard e la Wiazemsky divorzieranno nel 1979.
Baecque Antoine de, Godard, biographie, Grasset, Paris 2010, p.478, (traduzione nostra).
Durante le riprese del film, nel 1971 Godard è vittima di un grave incidente automobilistico che lo
costrinse a sospendere le riprese per qualche mese.
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codici produttivi e commerciali del sistema industriale, ma riconfermano l'esigenza
mao-vertoviana di situare il cinema nella loro collocazione storica e politica. Il film
inizia infatti con un cartello che ne dichiara la collocazione temporale, la volontà di
sintesi e forse anche di bilancio conclusivo di una stagione: “Maggio 1968 - Francia
19722”. Con questo film finiscono gli “anni Mao” del cineasta e giunge al termine
anche il rapporto con la moglie Anne Wiazemsky, che in questo film avrà il suo ultimo
ruolo.
Godard torna così a lavorare su se stesso, si riavvicina all'idea di un cinema
d'autore, di un cinema personale e accompagna questa sua ricerca di sé con un periodo
di silenzio, in cui per due anni52 Godard non girerà nessun film53. In un'intervista del
1985 Godard ammette la sua infelicità durante gli anni del gruppo Dziga Vertov:
«durante quegli anni […] ho smesso di fare molte cose senza rendermene conto:
leggere, vedere film. […] Lo ricordo come un periodo di assenza, ma che è durato così a
lungo che mi chiedo come sono riuscito a trascorrere dieci anni così»54.
Jean-Luc Godard fa ritorno nel 1975 con una nuova serie di pellicole, firmati con
Anne-Marie Miéville55, che diventa la sua compagna di vita e co-autrice dei suoi film.
La coppia rileva la casa di produzione Sonimage56, che ha sede a Grénoble, dove i due si
trasferiscono, lasciandosi la caotica Parigi alle spalle.
Si apre così il terzo periodo dell'autore (1975-), caratterizzato dalla scoperta
dell'immagine elettronica e del video, di cui Godard rimane affascinato: «le nuove
tecniche mi hanno sempre interessato, e la videocamera era davvero qualcosa che
permetteva di affrontare il cinema in un altro modo» 57. Nella seconda metà degli anni
52 Gli anni sono il 1973 e il 1974.
53 Questi anni coincidono anche con una serie di vicende personali piene di tensione: la fine del
matrimonio con Anne Wiazemsky, problemi di salute ricondotte all'incidente automobilistico del
1971 e la rottura con l'amico Truffaut (a causa dell'uscita del film La Nuit américaine [Effetto notte],
contestato duramente da Godard), seguite da lettere ricche di risentimento. Le lettere sono state
pubblicate in Autoritratto. Lettere 1945-1984 (Correspondance. Lettres recueillies par Gilles Jacob et
Claude de Givray, 1988), Toffetti Sergio (a cura di), Einaudi Torino, 1989.
54 L'arte a partire dalla vita, intervista di Alain Bergala, 12 marzo 1985, qui citato in Godard Jean-Luc,
Due o tre cose che so di me. Scritti e conversazioni sul cinema, a cura di Orazio Leogrande,
Minimum Fax, Roma 2007, p.45.
55 Appare la prima volta nei titoli di coda in veste di fotografa di scena in Tout va bien.
56 Dal nome evocativo e, aggiungo, tipicamente godardiano, “Son-image”, che significa “suonoimmagine”.
57 L'arte a partire dalla vita, intervista di Alain Bergala, 12 marzo 1985, qui citato in Godard Jean-Luc,
Due o tre cose che so di me. Scritti e conversazioni sul cinema, a cura di Orazio Leogrande,
Minimum Fax, Roma 2007, p.46.
20
Settanta, Godard abbandona i temi politici per riscopre i rapporti interpersonali, le
tematiche dei suoi film si incentrano su una sfera più intima del privato e della vita
famigliare, intrecciando la sua riflessione con quella sulla natura del mezzo
cinematografico e sull'immagine. Il ritorno del cineasta avviene con Numéro deux
(Numero due, 1975), che si presenta come il “film successivo” di À bout de souffle;
difatti è quest'ultimo che ha fatto approdare Godard nel mondo del cinema e allo stesso
modo anche Numéro deux appare come un film di un “debuttante”, l'esordiente Godard
dopo due anni di silenzio. Inoltre il paragone può essere sostenuto anche dall'uso delle
tecnologie, che nel 1959 per À bout de souffle apparvero assolutamente innovative per il
cinema dell'epoca, così come nel 1975 le nuove tecnologie video hanno permesso a
Godard di realizzare un film a colori con i medesimi costi di un film in bianco e nero
degli anni Sessanta. Il film sancisce il ritorno di Godard sul grande schermo anche per
l'uso dei temi della vita privata che entrano, a partire da questo film, tra le tematiche
godardiane predilette del terzo periodo. Il tema del quotidiano in Godard è un'attenta
osservazione degli elementi della società: «le donne, gli uomini, i bambini, il lavoro, la
cucina, i vecchi, la solitudine, e tutto questo a ritmi quotidiani. […] Con Numéro deux
partiamo da qui: è lui, il pubblico, a inventare quei ritmi quotidiani durante la sua
giornata»58.
Nel 1979 la coppia Godard-Miéville si trasferisce a Rolle, un piccolo paese sulle
sponde del lago di Ginevra, in Svizzera, Paese natale di entrambi. Qui, nel 1982,
Godard avvia la sua casa di produzione, la JLG Films e gli ambienti della cittadina sul
lago diventano set dei suoi film59. Durante gli anni svizzeri, Godard dà vita a opere di
indubbia magnificenza, in cui la ricerca della purezza è accompagnata a quella di
un'essenzialità dell'immagine: Sauve qui peut (la vie), (Si salvi chi può, la vita, 1980), è
il film che dà l'inizio ai meravigliosi anni Ottanta godardiani, in cui citazioni, riferimenti
e omaggi ai maestri della musica, dell'arte, della letteratura e della poesia si intrecciano
a temi della quotidianità, della commedia e della rappresentazione narrativa. Di questi
58 Fare i film che sono possibili dove ci si trova, intervista a cura di Yvonne Baby, “Le Monde”, 25
settembre 1975; qui citato in Godard Jean-Luc, Due o tre cose che so di me. Scritti e conversazioni
sul cinema, a cura di Orazio Leogrande, Minimum Fax, Roma 2007, p.152.
59 Nel 1980 Godard pubblica il libro Introduzione alla vera storia del cinema, in cui raccoglie le lezioni
tenute a Montréal alla fine degli anni Settanta, lezioni in cui commentava un proprio film per poi
metterlo in relazione con due o tre film classici del passato attraverso un rapporto di tipo estetico.
21
anni sono i lungometraggi Passion (1982), in cui ricostruisce con tableaux vivants
quadri celebri della pittura europea che contrappone al tema della quotidianità del
lavoro in fabbrica e a quello di cinema; Prénom Carmen (1983) in omaggio alla sua
passione di sempre, cioè il quartetto d'archi di Beethoven; e Je vous salue, Marie (1984)
in cui indaga il tema più profondo della religione e della divinità narrando la storia della
nascita di Cristo. Tra un film e l'altro Godard crea delle video-sceneggiature, ovvero
delle sceneggiature in video nelle quali appaiono, sotto forma di “appunti”, i materiali di
ricerca legati alla realizzazione di un film, rappresentati con materiali visivi, sonori e
schizzi audiovisivi60.
Verso la metà degli anni Ottanta, dopo la trilogia del “sublime” 61, Godard
attraversa un periodo di incertezza nel suo lavoro, in quanto la sua ricerca relativa ad
alcune tematiche pare non andare oltre. Perciò, ripiega la sua ricerca verso il passato, o
più precisamente verso la nostalgia di un presente del passato, in cui il cinema sembra
avviarsi in direzione di una morte certa. Godard inizia a lavorare per una resurrezione e
una redenzione dell'immagine, riporta alla memoria gli anni della Nouvelle Vague e nei
film di questo periodo ritornano le forme del suo cinema precedente, applicate con una
diversa coscienza della storia e del tempo. Il passato del primo periodo del cineasta
sembra riaffiorare in molti film a partire da Détective (1985), in cui ritorna l'attore
feticcio della Nouvelle Vague, Jean-Pierre Léaude; Grendeur et décadence d'un petit
commerce de cinéma (1986) e King Lear (Re Lear, 1987), una sorta di saggio su
William Shakespeare in cui Godard compare come attore nella parte del fool, un pazzo
che però crede ancora nel cinema.
Gli anni Novanta sono caratterizzati da immagini di una forte bellezza estetica, in
cui il senso della memoria si fa più persistente ma senza diventare, come in precedenza,
una rievocazione nostalgica del passato: nel 1990 Godard annuncia il suo film dal titolo,
evocativo, Nouvelle Vague, il quale, nonostante il titolo ingannevole, non è un film
omaggio alla corrente o un autobiografia del regista, ma un elogio alle immagini e al
cinema stesso, come il successivo Hélas pour moi (Peggio per me, 1993), in quanto i
60 Tra questi vi è la video-sceneggiatura senza titolo per il film Sauve qui peut (la vie), quella del film
Passion (“Passion”, le travail et l'amour. Introduction à un scènario. Troisième état du scénario du
film “Passion” e Scénario du film “Passion”) e per Je vous salue, Marie (Peite note à propos du film
“Je vous salue, Marie” ).
61 Definizione di Farassino Alberto, Jean-Luc Godard, Il Castoro, Milano 2007, p.186.
22
personaggi non hanno battute, ma dialogano con frasi tratte da libri, romanzi, poesie.
Come nei film della Nouvelle Vague anche in quelli dell'ultimo decennio del Novecento
Godard inserisce qualsiasi citazione, ma se in precedenza regnava la confusione, ora le
citazioni convivono in armonia insieme a giudizi sulla realtà e a contemplazioni sulle
storie, che i personaggi cercano di ricostruire, storie che possono essere personali, di
una coppia oppure storie di cinema o di un film in corso di elaborazione.
In questi anni Godard si dedica anche alla scrittura letteraria, perseguendo quel
desiderio che aveva fin da bambino di pubblicare un romanzo da Gallimard62, senza
però abbandonare le sue radici cinematografiche. Realizza “libri fatti di cinema”, in cui
trascrive le frasi dei propri film non in forma di sceneggiatura, ma in forma di poesia: le
frasi si susseguono l'una all'altra prive di punteggiatura, senza didascalie e senza
indicazione sul personaggio che le pronuncia 63. L'insieme di frasi-citazioni non vengono
poste su carta con l'intenzione di creare un'associazione tra le immagini del film e le
parole, ma Godard decide di “citare su carta le citazioni letterarie” di cui il film è
composto; a riguardo crea anche un indice con i poeti e i letterati da cui ha attinto, ma
tale indice non segue l'ordine delle citazioni e addirittura alcuni autori non compaiono
neanche. Godard confonde, ancora una volta, il lettore-spettatore e lo invita a non porsi
come primo problema quello dell'origine di tali citazioni, in quanto quelle frasi sono i
materiali di un nuovo discorso il cui autore è ormai un altro: Godard stesso64.
In ambito cinematografico, gli eventi politici che avvengono in questo decennio
portano Godard ad interrogarsi, nuovamente, sulla storia e sugli avvenimenti del
presente, ad esempio in Allemagne année 90 neuf zéro (1992), titolo che è un esplicito
riferimento al film di Roberto Rossellini Germania anno zero; Godard riflette sullo stato
tedesco dopo la demolizione del muro di Berlino, mostrando le immagini più belle della
Germania e dei film tedeschi. In Les enfants jouent à la Russie (I bambini giocano alla
Russia, 1993) rappresenta i rapporti tra l'occidente e la cultura russa, riflette sul cinema
e sulla letteratura sovietica; For Ever Mozart (1996) appare invece come il film che
62 Citato in Godard Jean-Luc, Due o tre cose che so di me. Scritti e conversazioni sul cinema, a cura di
Orazio Leogrande, Minimum Fax, Roma 2007, p.267
63 I libri usciti postumi ai propri film (editi P.O.L, Paris), sono: JLG/JLG. Phrases (1996); Forever
Mozart. Phrases (1996); Les enfants jouent à la Russie. Phrases (sortie d'un film), (1998); Allemagne
neuf zéro. Phrases (sortie d'un film), (1998); Éloge de l'amour (2001).
64 Secondo Farassino Alberto, Jean-Luc Godard, Il Castoro, Milano 2007, p.250.
23
riassume tutte le ultime direzioni sulla storia, sulle guerre, sul ruolo dell'arte e sugli stati
post-comunisti; è incentrato sulla guerra di Sarajevo, evento che ebbe un forte impatto
politico, sociale ed emotivo nell'Europa degli anni Novanta. In For Ever Mozart Godard
decide di non mostrare la guerra come in Les carabiniers, ma va oltre e decide di
rappresentarla con i suoni, i rumori e con immagini confuse: «Non volevo mostrare la
guerra. Mostravo delle persone fatte prigioniere e volevo che si sentisse che c'era
qualcosa di più vasto di loro. Questo senso della guerra come qualcosa di più vasto dei
personaggi, qualcosa che sta fuori campo, si avverte grazie a un rumore di mitraglia che
spezza la colonna sonora, o con qualche carro armato che raffigura la pesantezza
dell'acciaio»65.
La tematica della storia del cinema intrecciata a quella dell'umanità, ma anche
quella delle storie di cinema che si raccontano nella finzione cinematografica e che
devono anche documentare i fatti reali, si ritrovano illustrate e teorizzate nei video
Historie(s) du cinéma, un progetto che Godard ha in mente fin dagli anni Settanta e che
inizia con Vento dell'est, in cui collega tra loro episodi, anche sconosciuti o minori,
determinanti per la storia del cinema. Così, allo stesso modo, nel 1988 inizia il suo
progetto lungo dieci anni, Historie(s) du cinéma66, in cui confluiscono citazioni
pittoriche, musicali, letterarie, cinematografiche e sequenze di film di altri autori, con
l'obiettivo di realizzare quella visione personale di Godard sulla storia del cinema,
storia che è nella sua memoria.
L'opera video viene trasposta nel 1998 in quattro volumi dal medesimo titolo e
pubblicati dalla casa editrice Gallimard, realizzando quel desiderio giovanile di Godard
di pubblicare un libro nella nota casa editrice francese, ma soprattutto di creare un'opera
senza precedenti, in cui la letteratura e l'immagine si fondono insieme 67, dove le parole
non sono le didascalie delle immagini e le immagini non sono un'illustrazione delle
parole. La continuità tra la pratica cinematografica e quella letteraria che Godard
sosteneva negli anni ai “Cahiers” può dirsi realizzata e, a mio parere, conclusa con
l'opera monumentale in volumi e in video Historie(s) du cinéma.
65 Farassino Alberto, Jean-Luc Godard, Il Castoro, Milano 2007, p.233.
66 Quattro puntate televisive distribuite da CanalPlus (1988-1998) con due episodi ciascuno.
67 Il libro è composto da fotogrammi tratti dall'opera originale che appaiono spesso indecifrabili ma che
si uniscono a caratteri verbali.
24
CAPITOLO II
CINEMA E PITTURA: PASSION
Fin dalla sua nascita, il cinema deve alcuni tra i suoi maggiori prodotti anche
all'iconografia pittorica di tutta la storia dell'arte. Su questo argomento esiste una
letteratura molto ampia ma allo stesso tempo non del tutto specializzata, soprattutto in
relazione alla ricerca delle fonti e al tentativo di condurre un'analisi comparata delle
inquadrature corrispondenti. Il campo di indagine è quindi estremamente vasto e
pertanto in questo capitolo si intende seguire un percorso generale del legame tra
cinema e pittura, analizzandolo sia dal punto di vista tecnico, sia da quello storico e
cronologico per approdare, infine, alla filmografia di Jean-Luc Godard. Si seguirà un
percorso che naturalmente convoglia al regista, sia per ragioni di tipo cronologico sia
per interessi che ovviamente sono di tipo personale.
Nel rapporto tra cinema e pittura interessa soprattutto la convivenza tra le due
all'interno di un sistema di rappresentazione complessivo, dove lo spettatore sia in grado
di riconoscere il pittorico nel filmico, ma allo stesso tempo si trovi immerso in un
sistema dove le determinazioni stilistiche di ciascun modello influenzano il significato e
l'effetto finale ottenuto. Nella classificazione che segue, il nostro interesse verte
nell'analizzare la pittura all'interno del sistema di rappresentazione filmica, in quanto
oggetto o modello.
Antonio Costa nel testo Cinema e Pittura analizza le diverse tipologie di
interazione del modello pittorico con quello filmico: il caso più elementare di questo
rapporto è quando vi è la presenza di una rappresentazione statica (nonché la pittura
come dipinto o la riproduzione di esso su un libro) all'interno del flusso di
rappresentazione dinamica (la scena filmica). In questo caso si parlerà di «pittura
diegetica»68, che non ha bisogno di essere identificata perfettamente per creare un
effetto, ma basta semplicemente che lo spettatore la distingua come pittura. Ad esempio,
in Life Lessons (Lezioni dal vero, 1989) di Martin Scorsese, il film è incentrato sul
rapporto sentimentale tra un pittore e la sua modella; in questo caso il lavoro del pittore
viene mostrato senza essere ricondotto a ragioni semplicemente illustrative.
68
Costa Antonio, Cinema e Pittura, Loescher, Torino 1991, p.146.
25
La pittura diegetica non è l'unica soluzione. È importante considerare quando
viene impiegato il mezzo pittorico per ottenere un risultato di tipo cromatico,
illusionistico o luministico, ovvero quando vengono costruiti effetti speciali scenografici
tramite l'utilizzo del mezzo pittorico. Per questo motivo il caso verrà indicato con il
termine «effetto dipinto»69. Allo spettatore contemporaneo dinanzi ad un film primitivo,
come il caso della cinematografia Méliès, risulta difficile immergersi nella diegesi; in
questo caso l'effetto dipinto significa contestualizzare i procedimenti tecnico-linguistici,
cioè lo spettatore moderno riesce a cogliere l'epoca o il luogo in cui l'opera
cinematografica è stata prodotta. L'effetto dipinto nel cinema contemporaneo può essere
creato attraverso la produzione di un oggetto (effetto pop art), oppure attraverso la sua
riproduzione pittorica nel tentativo di creare un effetto di rottura del principio di
proporzionalità e di verosimiglianza. Vi sono casi in cui l'effetto dipinto è volutamente
marcato, gli effetti scenografici sono ben visibili e presenti, atti a divenire veri e propri
simboli del cinema d'autore (nel cinema di Fellini o di Hitchcock). Altro caso, più
specifico, è il richiamo alla pittura attraverso particolari stilistici propri di tale modello,
come gli elementi cromatici utilizzati per raggiungere meglio quella materialità
dell'effetto dipinto. In Deserto rosso (1964) si è intervenuti materialmente dipingendo
pareti di rosso, boschi di bianco e spiagge di rosa per realizzare la volontà del regista di
descrivere «i colori dei sentimenti»70. Michelangelo Antonioni difatti cerca di dare una
chiave psicologica dei personaggi attraverso l'alterazione dei colori nelle composizioni
delle inquadrature, con l'obiettivo di comunicare gli stati d'animo dei personaggi e non
evocare semplici impressioni cromatiche.
Si ha l'«effetto quadro»71 quando un film cita una pittura in modo esplicito o
riprendendone gli elementi caratterizzanti, come gli effetti luministici, cromatici,
spaziali o temporali. L'«effetto quadro» produce un effetto di tempo sospeso, di spazio
definito e di selezione cromatica, mentre il piano cinematografico crea una variabilità
cromatica accompagnata da una percorribilità dello spazio e del tempo. Esempio è la
filmografia di Pier Paolo Pasolini, come in Accattone (1961) dove la frontalità
69
70
71
Costa Antonio, Cinema e Pittura, Loescher, Torino 1991, p.152. Nel testo Antonio Costa usa anche
il termine “effetto pitturato” come sinonimo di “effetto dipinto”.
Di Carlo Carlo, Il colore dei sentimenti, in Antonioni Michelangelo, Il deserto rosso, Cappelli,
Bologna 1964, p.22.
Costa Antonio, Cinema e Pittura, Loescher, Torino 1991, p.156.
26
dell'inquadratura introduce una domanda sull'effetto realistico, o in Mamma Roma
(1962) con la citazione del Cristo morto del Mantegna. Senza omettere La Ricotta
(1963), che verrà preso in analisi nelle pagine seguenti, testimonianza esemplare di
come l'«effetto quadro» compaia nei due rifacimenti della pittura manierista tramite
tableaux vivants delle Deposizione di Gesù di Rosso Fiorentino e Pontormo; inoltre il
film realizzato in bianco e nero si anima con i colori dei due quadri nell'esatto momento
dell'avvio della ricostruzione, in questo modo lo spettatore si trova immerso totalmente
nei dipinti.
2.1 Una classificazione della pittura nel cinema
Nel corso degli anni sono state proposte diverse classificazioni per definire la
dinamica degli scambi e delle interazioni tra cinema e pittura. Verranno ora elencati i
generi dove tali relazioni prendono vita, secondo una suddivisione proposta da Antonio
Costa72 e riadattata secondo le esigenze di questo capitolo.
Tra i film sulla pittura vengono catalogati i documentari d'arte che possono essere
specializzati su un ciclo di affreschi, su un pittore, su una scuola o uno stile 73. Si
possono inserire tra i documentari d'arte il film Carpaccio (1948) di Umberto Barbaro e
Roberto Longhi, dedicato al pittore veneziano e composto da una serie di riproduzioni
fotografiche in bianco e nero animate da un uso di movimenti di macchina atto a porre
una particolare attenzione verso determinati punti focali e una dinamicità dei nodi
narrativi. Longhi e Barbaro fecero un altro documentario, nello stesso anno,
Caravaggio, ad oggi perduto. I due film possono essere considerati come i primi
esperimenti divulgativi sulla storia dell'arte e con le loro proposte andranno ad innovare
e valorizzare il genere del documentario d'arte. Luciano Emmer fu il primo a girarne
uno con l'uso di fotografie, con l'obiettivo di creare un film dall'effetto drammatico e
psicologico. In La leggenda di S.Orsola (1948) scompone i dipinti in elementi tematici,
come la bocca o le mani, tramite particolari tecniche di montaggio, per poi ricomporle
infine in una storia. In Il dramma di Cristo/Giotto (1948), Emmer utilizza il montaggio
per dare maggiore enfasi alla funzione narrativa della pittura. Alain Resnais con Van
72
73
Costa Antonio, Cinema e Pittura, Loescher, Torino 1991.
Costa Antonio, Cinema e Pittura, Loescher, Torino 1991, p.11.
27
Gogh (1948) privilegia invece l'aspetto psicologico e biografico, come nei suoi filmdocumentari successivi. Pur con diversi metodi e finalità, questi documentari sono
accomunati dall'intento di far rivivere, attraverso i mezzi specifici del cinema, lo spaziotempo della pittura.
Vi sono poi L'Hypothèse du tableau volé (1978) di Raúl Ruiz o F for Fake (F
come Falso, 1975) di Orson Welles, che pur non essendo veri e propri documentari
rientrano nella categoria di film sulla pittura, poiché usano una forma espressiva tra il
racconto e il saggio e analizzano i problemi della rappresentazione avvicinandosi ad una
funzione critica e teorica. Tra questi vi è anche Passion di Jean-Luc Godard, film che
narra le vicende di una troupe cinematografica impegnata nella realizzazione di
tableaux vivants e confronta il lavoro della pittura con quello del cinema. Passion verrà
preso in analisi con maggior dettaglio nelle pagine dedicate al cineasta.
Altro genere, identificato da Costa, è un ibrido tra i documentari sulla pittura e i
film di finzione sui pittori, dove vi è il tentativo di fissare l'evento della pittura in fase di
costruzione ma allo stesso tempo riflettere sul modo di essere dell'artista. Tra i film più
celebri da annoverare troviamo Le mystère Picasso (Il mistero di Picasso, 1955) di
Henti-Georges Clouzot e A Bigger Splash (1975) di Jack Hazan, che tratta della vita
quotidiana e del lavoro dell'artista pop David Hockney.
Vi sono poi i film sulle biografie di pittori, sottogenere del film biografico. In
questo caso sono le stesse opere pittoriche degli artisti a divenire “protagonisti”
indiscussi della scena attraverso un insieme di tableaux vivants e quadri. Questo genere
implica un riferimento cronologico tra gli eventi biografici dell'artista e la figurazione
pittorica, che appare talvolta forzata. È possibile ricordare due film su Van Gogh
impostati secondo questo genere: Lust for Life (Brama di vivere, 1956) di Minnelli e
Vincent & Théo (1990) di Altman. Infine, altro esempio è Andrej Rublëv (1966) di
Andrej Tarkovskij, un film biografico sui rapporti tra l'artista e la società del proprio
tempo e tra l'artista e il potere, oltre ad essere un film che si avvicina a temi teorici sulla
pittura.
Tra il genere dei film storici vi sono tutti quei film che rievocano età passate e
dove l'impiego di fonti pittoriche è il metodo più utilizzato per richiamare il clima
dell'epoca, l'opera pittorica diventa quindi attestazione di storicità. Tra i primi esempi
28
abbiamo La Kermesse héroïque (La kermesse eroica, 1935) di Jacques Feyder, dove la
pittura fiamminga insieme alle fastose scenografie e agli effetti pittorici sono posti in
rilievo rispetto alla narrazione. L'uso della pittura dei Macchiaioli viene utilizzata ne Il
Gattopardo (1963) di Luchino Visconti per rappresentare la relativa epoca
dell'Ottocento italiano.
Infine, oltre ai generi sopra ricordati dove il rapporto con la pittura è chiaro e
innegabile, vi sono numerosi film che non possono essere inseriti in un determinato
genere, poiché non hanno le caratteristiche distintive di ogni genere, ma sono
accomunati dall'uso di citazioni pittoriche. Ad esempio in Pasolini si possono cogliere
numerose citazioni: in Mamma Roma (1962) vi è la ricostruzione tramite inquadratura e
prospettiva de Il Cristo morto del Mantegna, senza parlare de La ricotta (1963), in cui
viene riproposto le due Deposizione di Rosso Fiorentino e del Pontormo facilmente
riconoscibili. Ovviamente usi, funzioni e significati della citazione dipendono
strettamente dal contesto in cui vengono inserite e dall'enfasi posta nei vari film
sull'inquadratura o sulla sequenza.
2.2 Cinema e pittura tra teorie e pratiche74
Dopo aver delineato una tipologia di film che richiamano gli aspetti della pittura,
verrà trattato ora il rapporto tra cinema e pittura nella letteratura critica. Una posizione
di rilievo nella storia delle teorie del cinema è occupata dalle teorie emerse nel corso
degli anni sul rapporto tra cinema e arti figurative.
Tra la letteratura critica più illustre troviamo i saggi di André Bazin, il quale
afferma che il cinema «compie e trascende tutto ciò che le altre arti avevano in
precedenza tentato di realizzare»75, ma la consapevolezza di tale frase poté essere
compresa solo dopo molti anni. La critica cinematografia nacque nel momento in cui il
cinema riuscì a staccarsi dalla dipendenza degli schemi concettuali delle arti
74 Tale sottocapitolo è bastato principalmente sulle teorie principali tra cinema e pittura analizzate da
Antonio Costa nel suo libro Il cinema e le arti visive, Einaudi, Torino, 2002; e nella voce Pittura in
Enciclopedia
del
cinema
Treccani.it
(a
cura
di)
Costa
Antonio,
2004,
http://www.treccani.it/enciclopedia/pittura_%28Enciclopedia-del-Cinema%29/
(ultima
visualizzazione 21 novembre 2014).
75 Bazin André, Che cosa è il cinema?, Garzanti, Milano 1986; qui citato in Costa Antonio, Il cinema e
le arti visive, Einaudi, Torino 2002, p.10.
29
tradizionali. Decisivi furono gli apporti di grandi teorici che condussero le loro
riflessioni favorendo lo sviluppo di nuovi modi di collocare il cinema in rapporto al
sistema delle arti.
Uno dei primi teorici che indagò le differenze tra cinema e pittura fu il poeta
Vachel Nicholas Lindsay con il testo The art of the moving pictures (1915). La prima
parte del libro è incentrata sugli aspetti essenziali che hanno dato il successo al cinema,
come l'azione, il sentimento e la magnificenza. Secondo Lindsay, per superare la
struttura compositiva delle arti visive tradizionali, il cinema deve fare leva sulla
dimensione temporale propria del mezzo cinematografico. Nei capitoli successivi egli
studia il cinema come sculpture-in-motion, painting-in-motion e architecture-inmotion76, precisando però che il movimento di cui parla è tale da mutare la natura stessa
delle arti tradizionali citate: dalle sue notazioni risulta evidente che l'idea di movimento
che viene sviluppata riguarda non solo il contenuto dell'immagine, ma il tipo di
relazioni che si stabiliscono tra le immagini 77. A partire da questo concetto, Lindsay
definisce il cinema come un tipo di scrittura iconica (writing-picture), vicina a quella
dei geroglifici e degli ideogrammi. Gli stessi concetti saranno analizzati anche nella
riflessione teorica di Sergej M. Ejzenštejn un decennio dopo.
Rudolf Arnheim nel suo libro Film als Kunst (1932) tenta di trasporre il cinema
all'interno della teoria dell'arte della Gestaltpsychologie, per cercare di dimostrare che
nel cinema «anche i processi visivi più elementari non producono immagini
meccanicamente registrate del mondo esterno, ma organizzano il materiale grezzo
fornito dai sensi secondo i princìpi di semplicità, regolarità ed equilibrio»78. Secondo
Arnheim, l'artisticità del cinema discende da quelle caratteristiche in grado di
differenziare l'immagine cinematografica rispetto alla realtà percepita, che sono
incentrate sull'effetto di illusione: «Il cinema dà contemporaneamente l'impressione d'un
avvenimento reale e d'un quadro»79.
Lo storico dell'arte Carlo Ludovico Ragghianti analizza il cinema come arte
figurativa, sostenendo la tesi nella quale il cinema deve essere studiato con gli strumenti
76 Vachel Lindsay Nicholas, The art of the moving pictures (1915), The Modern Library, New York
2000, pp.65-104.
77 Citato in Costa Antonio, Il cinema e le arti visive, Einaudi, Torino 2002, pp.212-213.
78 Arnheim Rudolf, Film als Kunst (1932), tr. it. Il film come arte, Feltrinelli, Milano 1982, p.14.
79 Arnheim Rudolf, Film als Kunst (1932), tr. it. Il film come arte, Feltrinelli, Milano 1982, p.35.
30
propri della storia dell'arte. Ragghianti mise in pratica la sua teoria realizzando una serie
di documentari sulle arti figurative, dove il tema principale poteva spaziare dall'opera
pittorica, scultorea, architettonica oppure concentrarsi sull'artista stesso. Ragghianti
definisce i documentari con il termine “critofilm” d'arte, ovvero una critica d'arte
esercitata attraverso il linguaggio cinematografico. Primo esempio di “critofilm” è
Deposizione di Raffaello del 1948; da allora, fino al 1964, Ragghianti realizzò altri
diciannove documentari sull'arte, nei quali il ruolo del cinema si trasforma in strumento
di analisi e di divulgazione. Ragghianti supera il problema delle differenti basi tecniche
del cinema e della pittura appellandosi ai princìpi dell'estetica crociana. Basandosi sulla
distinzione tra arte e tecnica, Ragghianti sostiene che la forma artistica compiuta, cioè
risolta in espressione, richieda di essere analizzata in quanto tale 80. Ovvero, se non
appaiono rilevanti per l'esito artistico le differenze tra pittura e scultura nel campo delle
arti plastiche, così non possono essere rilevanti quelle tra pittura e cinema. Per esplicare
la sua tesi, Ragghianti utilizza come esempi Georg Wilhelm Pabst e Charlie Chaplin,
con l'obiettivo di dimostrare la validità del suo metodo sia nei film che presentano
espliciti riferimenti alla pittura (Pabst), sia in quei film in cui la lontananza dal modello
pittorico è massima (Chaplin). Ragghianti sceglie come esempi alcune sequenze
filmiche, che descrive mettendo in evidenza la coerenza che emerge tra procedimenti
filmici e procedimenti grafico-figurativi: nell'analisi del film Kameradschaft (La
tragedia della miniera, 1931) di Pabst, Ragghianti ritiene che «i valori luministici di
molte scene rammentano, nel modo di costruire con pura luce, le figure di Rembrandt»,
mentre richiamano il pittore a Jean-François Millet «le forme in cui si vanno a ritrovare
le pose naturalmente monumentali dell'operaio e del lavoro»81; l'analisi dello stile
chapliniano che ritiene sia impostato sull'antinaturalismo dei gesti e dell'incedere, viene
definito da Ragghianti coerente e in linea con se stesso e parla di «trasformazione
decorativa del moto»82 per poi accomunare l'esaltazione del movimento dello stile di
Chaplin al “linearismo funzionale”, una critica coniata dallo storico dell'arte
rinascimentale Bernard Berenson.
Di grande rilievo è il contributo del cineasta e teorico russo Sergej Mikhailovich
80 Citato in Costa Antonio, Il cinema e le arti visive, Einaudi, Torino 2002, p.219.
81 Ragghianti Carlo Ludovico, Arti della visione , volume I, Einaudi, Torino 1975, p.13.
82 Ragghianti Carlo Ludovico, Arti della visione , volume I, Einaudi, Torino 1975, p.19.
31
Ejzenštejn, il quale basò il suo lavoro creativo e teorico su un'idea-guida che più volte
venne espressa e commentata dal cineasta e attuata nei suoi film: «il cinema come stadio
contemporaneo della pittura»83. Questa idea-guida è riscontrabile nei film Ivan Groznyj
(Ivan il terribile, 1944) e Ivan Groznyj II: Bojarskij zagovor (La congiura dei boiardi,
1946), nei quali emergono i tentativi di collegare il linguaggio cinematografico con la
tradizione pittorica dell'arte russa. «Nella sua vasta produzione teorica, Ejzenštejn cerca
costantemente di collocare la relazione tra pittura e cinema in una storia e in una teoria
della rappresentazione»84. Come osserva Pietro Montani, per Ejzenštejn il cinema
poteva servire a risolvere vecchi problemi, ma anche a individuare problemi non
perfettamente focalizzati in passato85. A partire dalle analisi di opere pittoriche realizzate
da Ejzenštejn, egli è in grado di indagare e analizzare problemi della sfera pittorica
attraverso il linguaggio cinematografico e viceversa. La sua teoria del montaggio può
essere considerata come una teoria generale dell'arte ed è per tale motivo che tra la
pittura e il cinema vi è una scambiabilità, che chiarisce ed esemplifica i problemi
generali della rappresentazione. «I fondamenti teorici su cui si basa il metodo del
cineasta sono vari e vanno dall'adesione al materialismo dialettico alle più eclettiche
suggestioni»86; ne spiegheremo ora tre tra quelle connesse ai legami con la pittura. Il
primo fondamento si basa sulla teoria formalista dell'arte, che ha avuto delle influenze
soprattutto sulla concezione del montaggio ideata da Ejzenštejn. Tale teoria si basa sulla
concezione dell'arte come procedimento, costruzione e artificio, in cui le leggi che
regolano la composizione artistica sono le medesime per le varie forme espressive,
perciò anche per il cinema, purché venga mantenuto il rispetto delle caratteristiche
specifiche dei materiali di base di ogni arte. Il secondo fondamento si basa sulla
concezione dell'organicità dell'opera d'arte: un nesso simile a quello dei sistemi organici
regola nell'opera d'arte i rapporti tra il tutto e le parti. Da questo nesso il cineasta cerca
di chiarire il modello “polifonico” dell'opera d'arte, modello che trova la sua
attualizzazione nel cinema, cioè la possibilità di un nesso organico tra varie materie
83 Citato in Costa Antonio, Il cinema e le arti visive, Einaudi, Torino 2002, p.251.
84 Citato in Enciclopedia del cinema Treccani.it, Pittura, (a cura di ) Antonio Costa, 2004,
http://www.treccani.it/enciclopedia/pittura_%28Enciclopedia-del-Cinema%29/
(ultima
visualizzazione 21 novembre 2014).
85 Montani Pietro, La soglia invalicabile della rappresentazione. Sul rapporto pittura-cinema in
Ejzenštejn, in “Cinema & Cinema”, XIV, 1987, n.50, p.47-52.
86 Citato in Costa Antonio, Il cinema e le arti visive, Einaudi, Torino 2002, p. 253.
32
dell'espressione, tra la dimensione statica (spaziale) e quella dinamica (temporale). La
concezione organica dell'opera trova il suo compimento nella nozione di estasi: il
momento di estasi (uscita dalla rappresentazione) è costituito dalle fasi di trapasso da
una dimensione a un'altra, da una forma statica ad una dinamica. Il terzo fondamento va
ricercato nella concezione di “immaginità”: Ejzenštejn è affascinato dall'immagine
concettuale, ovvero la figura del pensiero, la quale si oppone all'immagine figurativa,
cioè plastica. Eppure il riferimento privilegiato all'universo pittorico sottintende un'idea
di espressione capace di fondere “immaginità” e “figuratività”; secondo il cineasta è il
cinema l'unica arte che può realizzare questa fusione.
I rapporti tra cinema e pittura sono stati approfonditi anche da Eric Rohmer in una
serie di articoli dal titolo Le celluloïd et le marbre (1955)87. Nelle riflessioni sulla
pittura, il critico e cineasta francese ritiene che l'artisticità del cinema debba derivare
non dalla sua subordinazione ad arti precedenti, ma dalla sua natura fotografica e
riproduttiva; attraverso il cinema l'arte è in grado di recuperare la sua relazione con
l'oggetto, rapporto che si era indebolito con la nascita recente della pittura novecentesca.
Rohmer sostiene una supremazia del cinema nel sistema delle arti, dalla quale emerge
un'esigenza di misura e di equilibrio, che costituirà il principio dell'estetica del critico
che ritornerà ad indagare i rapporti tra pittura e cinema nel saggio L'organisation de
l'espace dans le 'Faust' de Murnau (1977)88. Nel saggio Rohmer definisce i tre spazi del
cinema e in cui la sua analisi si articola: lo spazio pittorico, architettonico e filmico.
L'analisi è sbilanciata nello spazio pittorico: l'analisi dello spazio architettonico non fa
altro che ribadire il primato del modello pittorico in Murnau, mentre quella dello spazio
filmico tende a dimostrare la conquista d'una forma pienamente cinematografica,
nonostante il primato della composizione spaziale (la dimensione pittorica) rispetto allo
sviluppo temporale (dimensione specifica del lavoro del montaggio)89.
Il tema delle relazioni tra cinema e pittura è tornato ad interessare gli studiosi tra
gli anni Ottanta e Novanta del Novecento, in seguito alla decadenza dei modelli
linguistico-narratologici che avevano controllato gli studi semiologici tra gli anni
87 trad. ita. La celluloide e il marmo.
88 Edizione italiana: Rohmer Eric, L'organizzazione dello spazio nel “Faust” di Murnau, Marsilio,
Venezia 2004.
89 Citato in Costa Antonio, Il cinema e le arti visive, Einaudi, Torino 2002, p.271.
33
Sessanta e la prima metà degli anni Ottanta. Molto probabilmente tali modelli sono
entrati in crisi perché strutturalmente portati ad ignorare gli aspetti propriamente visivi
dell'espressione cinematografica; inoltre, una spinta è stata data anche dal cinema
stesso, che iniziò a spostare la propria attenzione su tale tema. Negli anni Ottanta si
affermarono perciò gli studi di due critici francesi, Pascal Bonitzer e Jacques Aumont, i
cui scritti avranno un'ampia influenza sugli autori successivi.
Gli interessi di Pascal Bonitzer non sono incentrati in un confronto diretto tra
cinema e pittura, né tanto meno sui problemi posti dalle relazioni evidenti o sui
confronti tra le diverse basi tecniche e linguistiche proprie dei due mezzi. Bonitzer cerca
le relazioni nascoste tra cinema e pittura e cerca di lavorare su di esse. Nel saggio
Décadrages, Cinéma et peinture (1985), il critico francese inizia ad analizzare il celebre
quadro di Diego Velázquez, Las meninas (1656), con lo scopo di evidenziare la
funzione di sospensione di senso, di enigma, di domanda senza risposta, che emerge
dalla relazione che si stabilisce tra ciò che viene mostrato nel dipinto e il “fuori campo”.
Quest'ultimo è un termine cinematografico che Bonitzer impiega nella sfera pittorica per
analizzare opere organizzate secondo i modelli dello spazio filmico dei pittori Leonardo
Cremonini, Francis Bacon, Jacques Monory. Con questo approccio Bonizer dimostra
l'esistenza di una serie di peculiarità comuni tra l'organizzazione dello spazio e forme
simboliche della pittura e del cinema: ad esempio in quei cineasti-pittori (Antonioni,
Duras, Straub e Huillet) in grado di creare inquadrature dalla “suspance non narrativa”;
oppure nel campo della pittura è attraverso il trompe-l'œil e l'anamorfosi che si stabilisce
l'esistenza di una relazione tra il cinema dei pittori e l'arte figurativa.
Con il testo L'occhio interminabile, cinema e pittura (1989) Jacques Aumont si
distanzia dalla tesi della derivazione del cinema dalla pittura, ma anche quella di
qualsiasi parentela tra le due, per porre il proprio interesse su ciò che della pittura muore
o si trasforma con il cinema. A differenza di Bonitzer, che preferisce focalizzarsi su una
possibile ipotesi di corrispondenza tra le tendenze del cinema contemporaneo e le
esperienze pittoriche, Aumont indica invece i punti di massimo distacco tra i due mezzi.
Il libro di Aumont offre un contributo che concilia le esigenze storiche del mezzo e delle
forme artistiche con la prospettiva teorica, elaborando una teoria della forma filmica e di
quella pittorica.
34
2.3 La pittura nella storia del cinema
Antonio Costa nel libro Il cinema e le arti visive ritiene che, dall'avvento del
cinema in poi, il sistema delle arti non sia stato più lo stesso 90. Da una sottomissione al
modello pittorico che caratterizzava il primo cinema, si passò a un suo uso spregiudicato
da parte dei pittori delle avanguardie storiche che in esso videro la possibile via per un
superamento dell'arte tradizionale91. «L'immaginazione degli artisti opera nello spazio
cinematografico con piena libertà, ipotizzandolo come uno spazio trasformabile in
direzioni differenti ed estremamente flessibile»92. Le opposizioni e le caratteristiche
rivoluzionarie
tipiche
delle
avanguardie
storiche
si
riversano
nel
mezzo
cinematografico, opponendosi fermamente al cinema ufficiale attraverso la negazione
della rappresentatività, della narratività lineare per la creazione di nuove forme di
produzione e di linguaggi, dando vita ad una nuova forma di visione che prende il nome
di cinema d'avanguardia.
2.3.1 Cinema muto
Fin dagli albori, l'iconografia pittorica della storia dell'arte è intervenuta nel
mezzo cinematografico con irruenza. Il cinema delle origini aveva, tra i vari problemi
da contrastare, la necessità di risolvere difficoltà di tipo visivo e fu la pittura il
principale mezzo di supporto alla risoluzione. La produzione cinematografica ha fin da
subito ripreso la pittura del passato sia per trasmettere citazioni figurative, sia per
ricorrere a soluzioni compositive e luministiche che derivano da opere celebri. Si iniziò
così ad adottare elementi delle altre arti per potenziare il proprio spessore artistico,
soprattutto nei primi anni di vita del cinematografo, quando la sua autonomia artistica
ed espressiva era ancora di dubbia rilevanza.
Apriamo questo macro-tema sul cinema e la pittura dalle origini più remote del
mezzo partendo dall'ideatore dello spettacolo cinematografico: Louis Lumière. I suoi
primi spettacoli erano basati su pure riproduzioni della realtà fenomenica e della vita
90 Costa Antonio, Il cinema e le arti visive, Einaudi, Torino 2002, p.6.
91 Per maggiori approfondimenti si consiglia: Perniola Mario, L'alienazione artistica, Mursia, Milano
1971, pp.191-266.
92 Bertetto Paolo, Il cinema d'avanguardia, 1910-1930, Marsilio, Venezia 1983, p.17.
35
quotidiana; come l'uscita degli operai dalla fabbrica, l'arrivo di un treno in stazione o lo
scorrere delle persone tra le vie di Parigi.
Lo stesso Godard, nel 1966, nel discorso per l'inaugurazione della retrospettiva
Lumière ideata da Henri Langlois affermò:
Quello che interessava a Méliès era l'ordinario nello straordinario, a
Lumière invece interessava lo straordinario nell'ordinario. Louis Lumière,
passando per gli impressionisti, era quindi un discendente di Flaubert, ed
anche di Stendhal, avendone portato lo specchio lungo le strade. Capite ora
perché questo grande inventore rifiutasse di parlare di avvenire. Perché il
cinema era anzitutto arte del presente, e perché in seguito sarebbe divenuto
ciò che avvicina la vita all'arte93.
Questa affermazione emerge anche nell'anno successivo nel film dello stesso
Godard La Chinoise, nel quale è lo stesso personaggio interpretato da Jean-Pierre Léaud
che esplica: «Lumière era un “pittore”, l'ultimo pittore impressionista, un
contemporaneo di Proust»94. In realtà la frase risulta molto più complessa di quanto
possa essere percepita inizialmente. Essa non intende affermare che con
l'impressionismo si abbia la fine della pittura nello stesso momento in cui il cinema
prende vita, ma pone l'attenzione su Lumière che con la nascita del cinema ha decretato
la fine del legame tra la rappresentazione realistica e la pittura per raccoglierla
definitivamente in eredità. Vi si afferma quindi una continuità temporale tra le due arti,
una riconsiderazione globale del comune “destino visivo” della pittura e del cinema, un
destino che Godard ha sempre affermato anche attraverso le sue opere
cinematografiche, dove l'immagine riveste molto spesso il ruolo di protagonista pur
mantenendo un legame con la parola95.
Di tutt'altro pensiero è Jacques Aumount96, il quale ritiene invece che nel cinema e
nelle riprese di Louis Lumière, a prescindere che potesse conoscere o meno i pittori
impressionisti a lui contemporanei, non vi è nessun richiamo di temi, composizioni e
soggetti pittorici degli impressionisti. Ogni possibile citazione, conclude, è attribuibile
93 Godard Jean-Luc, Due o tre cose che so di me. Scritti e conversazioni sul cinema, a cura di Orazio
Leogrande, Minimum Fax, Roma 2007, p.95.
94 Citato in Aumont Jacques, L'occhio interminabile. Cinema e pittura, Marsilio, Venezia 1998, p.7.
95 Tale concetto viene espresso da Angelo Moscariello, Cinema e pittura. Dall’effetto-cinema nell’arte
figurativa alla “cinepittura digitale”, Progedit, Bari 2011, pp. 11-12.
96 Aumount tratta di queste affermazioni di Godard in: L'occhio interminabile. Cinema e pittura,
Marsilio, Venezia 1998, pp.7-9.
36
esclusivamente ad una eredità figurativa e l'unico nesso tra immagini pittoriche e la
filmografia Lumière sono riscontrabili su temi di carattere generale e quasi sempre
banale: le vedute Lumière si avvicinano più a vedute da cartolina che a veri e propri
quadri e non vi sono caratteristiche tipicamente artistiche.
Durante il periodo del muto, si tratta di un arco di tempo che va dal cinematografo
dei Lumière (1895) fino al 1927, anno che segna la nascita del sonoro con il film The
Jazz Singer (Il cantante di jazz), l'immagine fotografica in bianco e nero 97 suggeriva un
raffronto tra cinema e incisione. Questa concetto viene espresso nel testo di Bruno
Rehlinger del 193898, nel quale egli traccia diversi tentativi di associazione tra film e
incisione o film e grafismo ritenendo che, nonostante sia cosciente delle differenze
essenziali, l'esito di questa associazione non riguardi tanto il piano tecnico, quanto
invece quello estetico; il film difatti allude alla sfera spirituale mentre l'incisione ne
rappresenta la scrittura.
Ma l'argomentazione che più ci interessa trattare all'interno del legame tra cinema
e arte negli anni del muto è il rapporto tra le fonti iconografiche e la ricostruzione
narrativo-spettacolare delle vicende filmiche, che è riconducibile nel film di carattere
storico e nel kolossal storico-religioso. In Italia le produzioni storiche furono assai
limitate, da ricordare vi sono Quo vadis? (1913) di Enrico Guazzoni e Gli ultimi giorni
di Pompei (1913) di Eleuterio Rodolfi. Per entrambi i film, ambientati nell'epoca
romana, i registi assumono come modello iconografico per le scenografie, le
architetture, i costumi e per le acconciature, la pittura che va dal neoclassicismo fino
all'Ottocento; nessun richiamo invece alla iconografia romana, che sarebbe stata quella
più adatta nei confronti della storicità delle vicende. Il 1914 fu l'anno del successo
internazionale del film di Giovanni Pastrone, Cabiria. Il celebre kolossal, che vide la
partecipazione di Gabriele D'Annunzio per le didascalie, è stato forse l'unico film
storico del cinema muto italiano, per il quale la raccolta di una immensa
documentazione iconografica è servita solamente all'autore per trasfigurare e scremare
le immagini più che per utilizzarle come fonti artistiche e storiche. Queste fonti vennero
97 Il Technicolor in tricromia fu lanciato nel 1932 con il cartone animato Flow-ers and trees, che
inaugurava la serie delle Silly Sympho-nies di Walt Disney.
98 Qui citato in Aumont Jacques, L'occhio interminabile. Cinema e pittura, Marsilio, Venezia 1998,
p.112.
37
mescolate alle scenografie e agli allestimenti, che invece appartenevano al teatro
d'opera, in modo ostentato creando nel pubblico un forte senso di attrazione e stupore
verso questo nuovo modo di messa in scena.
Per la messa in scena di film di carattere storico-religioso, fu cospicuo il numero
di registi che richiamarono opere pittoriche di artisti rinascimentali, nel tentativo di dare
al proprio lavoro un carattere artisticamente elevato. Tuttavia sono pochi i risultati
eccellenti a causa degli stessi autori che non furono in grado di dare rilievo espressivo
alle infinite possibilità offerte dalla pittura. Tra i più noti vi è Cecil Blount de Mille che,
con il suo senso plastico e il gusto di una messa inquadro artisticamente estesa ha fatto
spesso uso di citazioni pittoriche. Per esempio, La crocifissione del Tintoretto appare in
The King of Kings (Il Re dei Re, 1927) e diviene immagine ispiratrice per
un'inquadratura dell'analoga sequenza della crocifissione tratta dal film. Ma se per il
Tintoretto le figure si fondono organicamente nella scena, nell'inquadratura di De Mille
esse si degradano e si sgranano. Per i registi del cinema storico-religioso, quindi,
risultava del tutto naturale ricorrere ai pittori come Piero della Francesca, Leonardo o
Paolo Uccello per studiare i tagli delle scene; a Mantegna, Tintoretto e a Tiepolo per gli
scorci; a Giotto, Masaccio, Caravaggio e Magnasco per lo studio di atmosfere
drammatiche. La raffigurazione pittorica ha influenzato anche il modo di recitare e di
atteggiarsi degli attori, i quali traevano ispirazione dalle opere pittoriche per riprodurre
le posture ed interpretare al meglio film ambientati in epoche passate.
2.3.2 Cinema d'avanguardia
Negli anni del cinema muto vi erano anche altre esperienze mutuate dallo
sperimentalismo delle avanguardie cinematografiche, dove l'utilizzo del pittorico non
era dovuto tanto all'uso di immagini già esistenti nella storia dell'arte, ma piuttosto
all'intervento diretto degli artisti, i quali videro nel mezzo cinematografico una via di
fuga dalle arti tradizionali e dalle sue ideologie. L'unità del cinema d'avanguardia si
basa sul rifiuto esplicito del cinema ufficiale mediante un processo di negazione del
cinema-merce, della narratività convertita in puro prodotto industriale, per abbracciare
la ricerca di un cinema “puro”, ossia la forma essenziale del cinema stesso. Le
38
avanguardie artistiche del primo Novecento vivono in una costante tensione tra la spinta
a superare l'arte e la necessità di elaborare un lessico capace di essere chiaro e
comprensibile verso le condizioni di vita che, in quell'epoca, erano in continuo
mutamento. L'obiettivo principale degli artisti-cineasti delle avanguardie storiche è il
superamento dell'arte e il cinema è il mezzo con il quale il suo raggiungimento è più
immediato, in quanto strumento moderno e “privo” di arte. Difatti molte volte l'interesse
dei pittori verso il mezzo cinematografico era dovuto all'assenza di un valore artistico
del cinema in quel determinato periodo storico in concomitanza con l'assenza di una
storia e di una tradizione; caratteristiche che sono invece intrinseche nelle altre arti. In
questo contesto emergono per primi gli artisti surrealisti e futuristi, i quali
sperimentarono le arti figurative delle loro correnti con il mezzo cinematografico,
facendo spiccare inquadrature intrinseche delle caratteristiche e dell'estetica propria di
tali correnti.
Verranno ora presi in analisi i movimenti primari delle avanguardie storiche nel
tentativo di dare un quadro generale, ma allo stesso tempo significativo, di ogni corrente
cinematografica. Si tratta di uno scenario che appare sfaccettato e per tale motivo deve
essere osservato nel suo complesso; difatti in questo contesto le singole opere e i singoli
autori citati verranno inseriti in un discorso ampio sull'arte in generale e sul cinema in
particolare.
2.3.3 Futurismo
Il Manifesto del cinema futurista, firmato da Marinetti, Corra, Settimelli, Ginna,
Balla e Chiti, appare nel 1916, relativamente tardi rispetto alla pubblicazione degli altri
manifesti, che si aggirano intorno agli anni dieci del Novecento. Prima della
pubblicazione del Manifesto, Ginna e Corra con le loro sperimentazioni di cinema
astratto (“musica cromatica”) e Aldo Molinari con Mondo baldoria (1914) possono
essere definiti gli anticipatori del cinema d'avanguardia degli anni Venti.
L'apporto di Arnaldo Ginna e Bruno Corra (nomi d'arte suggeriti da Giacomo
Balla dei fratelli Arnaldo e Bruno Corra) al tema del cinema e della pittura è legato
essenzialmente alla tecnica; i due artisti approfondiscono le ricerche sui rapporti tra
39
musica e colore utilizzando la tecnica della coloritura diretta della pellicola da cui è
stata tolta l'emulsione. Purtroppo delle loro sperimentazioni non vi sono copie a noi
pervenute, ma da un loro testo del 1912 (Il pastore, il gregge e la zampogna) si è venuti
a conoscenza che furono quattro i film (“cinepitture”) prodotti nel 1911 con la tecnica
della coloritura. Il primo, Accordo di colore, viene descritto dai due fratelli come: «lo
svolgimento tematico di un accordo di colore tolto da un quadro di Segantini – quello in
cui si vedono delle case in fondo e, sul davanti, una donna coricata in un prato –, l'erba
del prato tutta commista di fiorellini, è resa, per mezzo del complementarismo, con un
brulicare svariato di colori, il prato è vivo, vibra tutto, sembra coperto da una
esaltazione di armonia, vi si vede la forza creatrice della Primavera materiata in un
febbrile zampillo di luci –, questo accordo cromatico ci impressionò e lo svolgemmo
integralmente in centottanta metri di film» 99. Si intuisce che la pellicola del film era
stata realizzata con la sovrapposizione di puntini di colore, tecnica che riprende le
caratteristiche principali della pittura puntinista e di quella del suo esponente principale
Segantini. Il secondo film «è uno studio di effetti tra quattro colori a due a due
complementari, rosso, verde, azzurro e giallo»100. Il terzo, composto sempre con la
medesima tecnica «è una traduzione e riduzione del Canto di Primavera di
Mendelssohn intrecciato con un tema preso da un Valzer di Chopin» 101. Infine, il quarto
viene presentato come «una traduzione di colori della famosa e meravigliosa poesia di
Stéphane Mallarmé intitolata Les Fleures»102.
Con le loro cinepitture, Ginna e Corra gettano le premesse per quelle ricerche
dell'avanguardia storica che si svilupparono nel corso degli anni Venti e Trenta con
risultati di grande significato tecnico-espressivo.
Ginna, con Corra, Balla, e Marinetti, nel 1916 realizzarò Vita futurista, purtroppo
anch'esso andato in parte perduto. Il film, girato in un caffè a Firenze, vede come attori
gli stessi protagonisti del Futurismo che si divertono a importunare la clientela. Ma in
questo caso, nonostante sia il film futurista più conosciuto, il mezzo filmico viene
utilizzato sopratutto per documentare una rivoluzione da attuare nella concretezza della
99 Il testo dei fratelli Ginna e Corra è riprodotto in Verdone Mario (a cura di), Manifesti futuristi e scritti
teorici di Arnaldo Ginna e Bruno Corra, Longo, Ravenna 1984, pp.162-163.
100 Ivi.
101 Ivi.
102 Ivi.
40
vita quotidiana.
Altra pellicola significativa e pervenuta ai giorni nostri è Thaïs (1917) di Anton
Giulio Bragaglia, che appare di fondamentale importanza per le magnifiche scenografie
ad opera del pittore Prampolini, che segnano e anticipano quelle scenografie tipiche del
cinema espressionista tedesco. Si tratta di scenografie composte da forme geometriche
realizzate con forti contrasti di bianco e nero che creano un'illusione sullo spazio. Ma
l'integrazione del pittorico nel filmico si rivela ancora debole, le scenografie e il corpo
dell'attrice restano semplicemente accostati, a differenza di Das Cabinet des Dr.
Caligari (Il gabinetto del dottor Caligari, 1919), film che analizzeremo in seguito, dove
vi è un intervento sulla scenografia, sul corpo dell'attore stesso e sulla sua gestualità.
In conclusione, come afferma Rondolino nel suo testo sulla storia del cinema:
In altre parole sia Bragaglia sia Ginna e i suoi amici fiorentini utilizzavano
ancora il cinema come un mezzo di riproduzione fotografica in movimento
di una realtà precostituita; il loro interesse precipuo era rivolto a questa
realtà piuttosto che alla nuova realtà che poteva scaturire dal mezzo
espressivo correttamente e originalmente impiegato. Da mezzo di
riproduzione il loro cinema non era ancora giunto al livello di mezzo di
produzione.103
2.3.4 Dadaismo
Anche all'interno della corrente dadaista, gli artisti utilizzarono il mezzo
cinematografico nel tentativo di realizzare i punti di un programma che si può
racchiudere in questi due slogan di Tristan Tzara, fondatore del Dadaismo insieme a
Hugo Ball: «C’è un grande lavoro distruttivo, negativo da compiere» e «L’arte non è
una cosa seria, dico sul serio» 104. Il Dadaismo sviluppò una poetica basata sul caso e
parallelamente sull'idea di opera globale, cioè sul superamento di ogni tecnica artistica
per un nuovo rapporto tra arte e vita. Gli artisti dada si avvicinarono al cinema in quanto
esso risultava il mezzo più efficace per sviluppare quella poetica del caso che si basava
103 Rondolino Gianni, Storia del cinema (vol. 1), Utet, Torino 1997, p.158.
104 Tzara Tristan, Sept manifestes Dada, Lampisteries, Pauvert, Paris 1963; trad. it. Manifesti del
dadaismo e Lampisterie, Torino 1975; qui citati in Costa Antonio, Il cinema e le arti visive, Einaudi,
Torino 2002, p.174.
41
sull'uso incondizionato di qualsiasi tecnica e sul reimpiego di oggetti di uso comune in
diversi contesti ambientali; allo stesso modo il cinema consentiva l'integrazione di
diversi linguaggi espressivi e il superamento dei linguaggi artistici tradizionali.
Per quanto concerne il cinema legato alla corrente dada, il film più significativo è
Retour à la raison (1923) di Man Ray, dove l'artista non impressiona immagini
attraverso la cinepresa, ma attraverso il “contatto” di oggetti con caratteristiche comuni
ed infine espone la pellicola alla luce. L'oggetto viene impressionato nella pellicola per
poi apparire su sfondo nero. La tecnica riprende quella dei rayogrammi che Man Ray
già utilizzava in fotografia. Il film può essere associato alla tecnica dell'assemblaggio,
come un ready-made, procedimento tipico del movimento dadaista, in quanto vi si
uniscono elementi casuali (spilli, pepe, sale) con altri che appaiono invece raffinati e
ricercati (l'ornamento di una tenda sul corpo nudo di una modella). Inoltre, gli strappi
reali della pellicola createsi durante la proiezione del film possono essere ricondotti agli
strappi del tessuto narrativo dello stesso.
Molti considerano come manifesto del cinema dada Entr'acte (1924), diretto da
René Clair e scritto dal pittore Francis Picabia. Nel film appaiono numerosi artisti legati
alla corrente, come ad esempio Man Ray, Marcel Duchamp ed Erik Satie, che ne curerà
le musiche. La pellicola venne presentata in una delle numerose serate della corrente
dadaista al Théâtre des Champs Elysées nel dicembre del 1924, dove l'accoglienza
risultò fin da subito positiva. Il film era stato concepito per essere proiettato come
prologo o durante l'intervallo di uno spettacolo del balletto di Rolf de Maré e ciò ne
spiega il titolo, che per l'appunto in francese significa proprio “intervallo”. Nella prima
parte si possono vedere Picabia e Satie che, dopo aver caricato un cannone, sparano in
direzione dello spettatore; successivamente appaiono Marcel Duchamp e Man Ray
intenti nel gioco degli scacchi per poi, con l'utilizzo della tecnica della dissolvenza
incrociata, veder apparire nella scacchiera Place de la Concorde, in un gioco di
relazione tra oggetti e spazi urbani. Dopo una serie di episodi esilaranti, appare Börlin
vestito da cacciatore tirolese che colpisce, con un fucile, un uovo che è sospeso grazie
ad un getto d'acqua; da questa sequenza esce poco dopo un piccione che si posa sul suo
cappello. L'immagine di Börlin si sdoppia, ma appare Picabia che a sua volta gli spara,
uccidendolo. Al suo funerale, grottesco ed esilarante, durante il corteo funebre accade
42
un incidente che fa “scappare” la bara, che alla fine si apre e ne esce Börlin, vivo, che
farà scomparire tutti i presenti tramite una magia. Appare la scritta Fin, lo schermo si
lacera e ricompare Picabia; dopo un vero intervallo lo spettacolo riprende con scritte
pubblicitarie e a colori. Entr'acte richiama l'idea dada che l'arte debba essere libera e il
cinema è il mezzo per superare il valore estetico e le barriere tra arte e vita. Ma c'è un
forte richiamo anche al cinema primitivo, in particolare a quello di Méliès, ai suoi
trucchi e alla sua spettacolarizzazione filmica.
Anémic cinéma (1926) di Marcel Duchamp è anch'esso uno dei film, che può
essere ricondotto all'obiettivo dada di superamento del concetto di arte. Duchamp, padre
dell'arte contemporanea, aveva già realizzato nelle due versioni del 1911 e 1912 il film
Nu descendant un escalier, con l'utilizzo delle cronofotografie di Etienne Marey, ovvero
una sequenza di fotografie di un corpo in movimento. «Le aveva utilizzate, secondo un
principio fondamentale della sua poetica, come una sorta di proiezione nella dimensione
della pittura di un fenomeno (il movimento che si sviluppa nella quarta dimensione, il
tempo, considerata letteralmente “invisibile”)»105. In Anémic cinéma vediamo nove
dischi rotanti con spirali alternati a nove dischi con scritte tracciate, fatte in modo tale
che si possano creare altre spirali; esse furono realizzate in precedenza come oggetti in
movimento e in seguito trasferite su pellicola cinematografica con l'obiettivo di
ricercare un'illusione tra la profondità-rilievo data dalle spirali e l'effetto superficie dato
dalle scritte. L'intento di superare la pittura e l'arte da parte di Duchamp è reso possibile
grazie
alla
macchina
cinematografica,
che
unisce
il
movimento
circolare
dell'apparecchio con la profondità che si appiattisce in superficie e viceversa.
2.3.5 Surrealismo
Il cinema surrealista nasce dalle ceneri del cinema dada e fin dall'inizio fu
caratterizzato da una predilezione per l'arte figurativa in opposizione alla musica e al
cinema astratto. La tradizione cinematografica surrealista pone particolare attenzione a
quei caratteri tipici del cinema popolare e di consumo, come l'erotismo o il
105 Haas (de) Patrick, Cinéma intégral. De la peinture au cinéma dans les années vingt, Transédition,
Paris 1985; qui citato in Costa Antonio, Il cinema e le arti visive, Einaudi, Torino 2002, p.174.
43
meraviglioso, e ai generi legati ai serials con la mitizzazione dei relativi protagonisti 106.
«L'idea stessa di cinema diventa per gli artisti quasi più importante dei film surrealisti
stessi, proprio per le analogie che individua tra le configurazioni filmiche e quelle
oniriche
e
tra
le
associazioni
libere
[…]
e
le
tecniche
del
montaggio
cinematografico»107. L'incontro tra il cinema e la corrente surrealista appare come una
necessità reciproca nata per chiarire le proprie identità. Gli autori surrealisti
privilegiavano i contenuti e le immagini diventano puro supporto di un messaggio
antiborghese, anarchico, anticlericale oppure diventano addirittura esaltazione
dell'individualismo, dell'amore o della morte.
Tra le prime produzioni surrealiste troviamo La coquille et le clergyman (1927) di
Germaine Dulac, un film che richiama le associazioni inconsce di un universo
visionario, privo di regole e di consequenzialità. Ma sono Un chien andalou (Un cane
andaluso, 1929) e L'âge d'or (1930) di Luis Buñuel e Salvador Dalí, in cui si trovano le
principali peculiarità della corrente. Nei due film non si trova tanto la pittura, ma
semmai soluzioni cinematografiche di procedimenti teorici redatti in sede pittorica,
come il Manifesto del Surrealismo di André Breton, o metodi per la costruzione della
forma pittorica, come il metodo teorizzato da Dalí della paranoia critica.
La sequenza iniziale di Un chien andalou si apre con l'immagine di un uomo che
guarda la luna velata da una nuvola; in quella successiva appare la stessa nuvola che
«taglia» in due il tondo della luna, subito dopo appare un rasoio tenuto in mano
dall'uomo della scena iniziale che, con lo stesso, “taglia” l'occhio di una donna. Queste
due scene sono racchiuse tra due frasi temporali che le accompagnano: “C'era una
volta” e “Otto anni dopo”. Due frasi che sono tipiche dei canoni del cinema narrativo,
ma che appaiono invece più affini alla pittura di Dalí o di Magritte, i quali, pur
organizzando prospetticamente lo spazio e lavorando in modo accademico, sono in
grado di far emergere incongruenze e accostamenti, creando shock e spaesamento nello
spettatore. In questo caso è il montaggio che viene utilizzato per creare incongruenze tra
106 Il serial nasce nel 1908 in Francia con il personaggio di Nick Carter di V. Jasset per raggiungere il
successo nel 1923 con Fantômas; l'obiettivo era quello di costruire e fidelizzare il pubblico del
cinema e allo stesso tempo di raggiungere una forma più distesa di narrazione basata sulla suspance e
sulla presenza di enigmi. Il divismo legato agli attori cinematografici si affermò negli anni dieci
grazie al legame tra cinema e mass media (giornali, riviste, radio, rotocalchi).
107 Costa Antonio, Il cinema e le arti visive, Einaudi, Torino 2002, p.180.
44
le scene, mentre, per definizione teorica, la funzione predominante è quella di creare
una comprensione grazie alla vicinanza di varie sequenze. A questo proposito, Antonio
Costa osserva:
Ecco evidenziata quindi l'analogia del procedimento compositivo, nel
rispetto delle procedure specifiche delle due arti: la pittura realizza
l'incongruità e lo shock dell'accostamento agendo essenzialmente su una
sintassi spaziale (simultaneità), mentre il cinema realizza lo stesso effetto
agendo su una sintassi basata sulla messa in successione.108
Infatti, il libero accostamento di immagini prese da contesti diversi ed unite
secondo i percorsi suggeriti dall'inconscio e senza alcun controllo logico-razionale, è
accomunato al deliberato proposito di colpire lo spettatore e di aprire un nuovo tipo di
percezione estetica. Il procedimento pittorico e quello cinematografo in questo film
emergono senza che l'uno prenda il sopravvento sull'altro.
È però con L'âge d'or che gli artisti surrealisti iniziano a considerare Buñuel come
il regista che è stato in grado di rappresentare la corrente surrealista in modo totale.
Rispetto all'opera precedente, L'âge d'or è una storia, composta da varie scene collegate
tra loro, di due giovani innamorati che sono però ostacolati da varie Istituzioni. I temi
del film sono quelli tipici del movimento: l'attacco alle istituzioni borghesi, quali la
Chiesa, l'Esercito, lo Stato, la famiglia, che rifiutano l'affermazione dell'individuo e
della sua natura, ad esempio le pulsioni sessuali. Dal punto di vista estetico, l'opera è un
fiorire continuo di invenzioni stilistiche di natura pittorica, come le scene voyeuristiche
tipiche di Dalí, ad esempio quella che mostra la giovane coppia infilarsi le dita in bocca
l'uno all'altra per vederle poco dopo mutilate.
2.3.6 Espressionismo tedesco
In Germania lo stile espressionista, che negli anni Venti si era già affermato in
altre arti, riuscì ad influenzare e ad interagire con il mezzo cinematografico in modo
esemplare; il cinema espressionista adottò le caratteristiche proprie sia dello stile
pittorico, sia di quello teatrale. L'espressionismo si manifestò nel 1908, principalmente
108 Costa Antonio, Il cinema e le arti visive, Einaudi, Torino 2002, p.184.
45
nel campo della pittura e del teatro, opponendosi al realismo dell'impressionismo
francese nel tentativo di far emergere le emozioni più vere e intrinseche nascoste sotto
la superficie della realtà. I tratti comuni dello stile pittorico espressionista si basano su
ampie campiture di colori luminosi, non realistici e contornati di nero; le figure
allungate dai volti di un colore verde livido con espressioni grottesche e angosciate; gli
edifici venivano dipinti incurvati e distorti con il suolo vertiginosamente inclinato 109.
Questi effetti di deformazione non erano facilmente ottenibili nelle scene di un film, per
tale motivo fu il teatro a fornire un modello più diretto di messa in scena e di recitazione
stilizzata che si adattasse al cinema espressionista. Negli anni dieci il ricorso allo stile
espressionista nei teatri divenne sempre più usuale: gli allestimenti scenici erano di
grandi dimensione e con l'assenza di sfumature di colore; la recitazione era fatta di
gestualità, posture ed espressioni facciali talvolta esagerate. Lo scopo era quello di
riuscire ad esprimere le emozioni dei personaggi nel modo più diretto possibile,
attraverso anche l'uso di finali aperti.
Manifesto paradigmatico del cinema espressionista è Das Cabinet des Dr.
Caligari (1919) di Robert Wiene, dove il richiamo allo stile pittorico di quel tempo e
alle esperienze del teatro espressionista è percepibile in tutti gli elementi della messa in
scena. In un testo del 1926 Hermann Warm, scenografo di Das Cabinet des Dr.
Caligari, afferma la frase che meglio esprime il concetto principale della corrente:
«l'immagine cinematografica deve diventare grafica»110. L'obiettivo principale
dell'espressionismo cinematografico era un lavoro estetico e stilistico della messa in
scena; ogni inquadratura cinematografica diviene una composizione visiva e viene
concepita per esprimere i sentimenti dei personaggi nel tentativo di fondere tutti gli
elementi (recitazione, illuminazione, costumi, scenografia). Tuttavia un film non è come
un'opera pittorica e la trama deve procedere, così molto spesso nei film espressionisti la
narrazione subisce dei rallentamenti nel momento in cui gli elementi della messa in
scena si dispongono in modo tale da catturare l'attenzione dello spettatore. Das Cabinet
des Dr. Caligari è contraddistinto da un montaggio semplice con inquadrature fisse che
creano una bidimensionalità che rievoca il mondo distorto e malato del protagonista
109 Bordwell David, Thompson Kristin, Storia del cinema e dei film. Dalle origini al 1945. Editrice Il
Castoro, Milano 2003, pp.160-161.
110 Citato in Kurtz Rudolf, L'espressionismo e il film, Longanesi, Milano 1981.
46
Franz. Il film è ambientato in scenografie dalla geometria non euclidea, con spigoli
appuntiti, superfici stilizzate, ombre marcate, strade dagli angoli spigolosi che diventano
vicoli ciechi e arredi deformati, come la sedia dallo schienale allungato di Francis. L'uso
della stilizzazione nelle scenografie permetteva di collegare elementi diversi della messa
in scena: ad esempio i costumi di Jane presentano le stesse geometrie delle scenografie.
La messa in scena era legata anche all'illuminazione, la quale molto spesso proveniva da
fonti laterali o frontali con l'obiettivo di formare quelle ombre che servivano poi per
creare effetti deformanti nella scena. I personaggi recitano col volto pesantemente
truccato, si pensi agli occhi cerchiati di nero di Cesare (il sonnambulo), e allo stesso
modo il criterio fondante del cinema espressionista, l'esagerazione, era trasposto anche
nell'interpretazione degli attori, la quale era volutamente enfatizzata in modo tale da
poter entrare in perfetta armonia con gli altri elementi. Das Cabinet des Dr. Caligari è il
film che meglio diffuse lo stile espressionista: è prevalente in tutto il suo svolgimento il
richiamo ad una pre-stilizzizazione pittorica, ad elementi la cui espressività è di tipo
grafico e linearistico, con il tentativo di annullare gli effetti realistici della fotografia per
una maggiore espressività e soggettività dei personaggi.
Se nelle correnti precedenti la pittura cercava di risolvere i propri “problemi"
attraverso l'uso del mezzo cinematografico, nel caso dell'espressionismo è il cinema che
cerca di risolversi nella pittura. In questo esempio cinematografico appena citato, la
pittura appare allo stato puro, lo schermo sembra che sia stato trattato come la tela di un
dipinto con l'intenzione di voler trasferire l'espressionismo pittorico sullo schermo
stesso.
2.3.7 Cubismo
Il Cubismo è una corrente pittorica basata sulla scomposizione di figure e di
oggetti in forme geometriche, secondo più punti di vista, con l'obiettivo di ricercare la
tridimensionalità in un supporto bidimensionale. Da questa premessa è chiaro come le
caratteristiche proprie del Cubismo trovarono compimento nel mezzo cinematografico.
È Le ballet mécanique (1924) di Fernand Léger il film più celebre del cinema
cubista. In quest'opera gli oggetti e gli spazi comuni subiscono un effetto di astrazione e
47
di straniamento in seguito ad interventi sul linguaggio filmico, come le distorsioni,
inversioni, iterazioni, giocando sul senso del movimento. «In questo modo, Léger
sviluppa nella temporalità filmica quello stesso lavoro analitico sulla successività e sulla
durata compiuto dal cubismo nella spazialità del quadro»111. La narrazione è
abbandonata per lasciare posto al ritmo e al movimento di corpi e oggetti, all'uso di
ripetizioni, rallentamenti e accelerazioni; le azioni acquistano così significati del tutto
diversi come la fissità della donna che sale le scale, proposta da Léger una decina di
volte nella stessa sequenza.
In uno scritto, databile probabilmente alla fine degli anni Venti, Léger affermava
in merito al suo Le ballet mécanique:
La storia del film d'avanguardia è molto semplice. È una reazione diretta
contro i film basati su uno scenario e sul divo. È la fantasia e il gioco contro
l'ordine commerciale degli altri. Ma non è tutto. È la rivincita dei pittori e
dei poeti. In un'arte come questa in cui l'immagine deve essere tutto e dove
essa è sacrificata a un aneddoto romanzesco, bisognava difendersi e provare
che le arti dell'immaginazione, relegate alla funzione di accessorio,
potevano, da sole, con i loro propri mezzi, costruire dei film senza scenario
considerando l'immagine mobile come personaggio principale112.
Il film di Léger è perciò un'esaltazione dell'oggetto, del suo dinamismo e della sua
plasticità nel tentativo di (ri)conferire quel valore che nella pittura cubista aveva perduto
tramite la sua scomposizione.
2.3.8 Avanguardie sovietiche
Come accadde in Europa, anche in Russia gli scambi tra pittura e cinema erano
molto stretti e, negli anni Venti, Futurismo, Costruttivismo e Produttivismo erano le
correnti pittoriche dell'avanguardia che più influenzarono i cineasti sovietici. L'esigenza
di superamento dell'arte si scontra con una maggiore necessità di individuare nel cinema
un'espressione, definita da leggi e regole, che possa comportare un riconoscimento dei
processi formali. Questa tensione è facilmente avvertibile sia nei manifesti teorici, sia
nei lavori dei registi sovietici Dziga Vertov e di Sergej Michajlovič Ėjzenštejn.
111 Costa Antonio, Cinema e Pittura, Loescher, Torino 1991, p. 67.
112 Citato in Rondolino Gianni, Storia del cinema (vol. 1), Utet, Torino 1997, p.160.
48
Nel campo delle arti visive, la costante ricerca di un arte che fosse socialmente
utile sfociò nella comparsa del Costruttivismo intorno alla seconda metà degli anni
Dieci: gli artisti costruttivisti credono che l'arte debba perseguire una funzione di tipo
sociale; l'opera d'arte veniva paragonata ad una macchina e alla logica dell'assemblaggio
delle parti, idea che venne poi messa in relazione per indicare l'assemblaggio delle
inquadrature tipiche di questo cinema. L'arte doveva essere comprensibile a tutti e per
questo doveva adempire a scopi educativi e propagandistici a favore di una società
comunista. In questi anni anche il teatro fu influenzato dal Costruttivismo: ad esempio,
nella messa in scena dell'opera Le cocu magnifique (Il magnifico cornuto, 1922, di F.
Crommelynck) sia le scenografie che i costumi curati da Vsevolod Mejerchol'd
mettevano da parte il piacere estetico per prediligere una loro funzionalità carica di
significati sociali, gli attori recitavano con tute da lavoro e il set sembrava un enorme
macchinario.
La corrente costruttivista, perciò, influenzò più campi delle arti: ad esempio in
pittura, Malevič dipingeva forme geometriche e auspicava la supremazia assoluta della
sensibilità plastica fondando l'avanguardia artistica del Suprematismo; Mejerchol'd
portò nel teatro la "biomeccanica", dove l'analogia tra attori e macchina portava a un
uso della recitazione basata su precisi e controllati movimenti del corpo; infine Tatlin
creava, con la tecnica dell'assemblaggio cubo-futurista, sculture realizzate con materiali
del “nuovo mondo moderno”, come l'alluminio. Le macchine regalavano un fascino su
questa nuova generazione di artisti al punto da arrivare a fondare un'estetica antitradizionale basata sulla velocità, sul movimento, sulla ripetizione, sulle forme
geometriche. In questi anni di radicali mutamenti per le arti, un nuovo gruppo di
cineasti113 si affacciava al mondo del cinema.
Il tentativo di risolvere il problema della forma cinematografica rifacendosi al
modello della forma pittorica rivela la difficoltà, teorica e non solo, del mezzo
cinematografico. Le riflessioni teoriche di Sergej Michailovič Ejzenštejn si basano sulla
ricerca di una soluzione al problema della convivenza conflittuale tra l'astrazione dello
schema compositivo e il realismo del materiale cinematografico 114. La possibilità di
113 Tra i più celebri vi sono i registi Lev Kulešov, Sergej Ejzenštejn, Dziga Vertov, Vsevolod Pudovkin.
114 Per approfondimenti si veda la teoria formulata da Ejzenštejn nel 1924, Il montaggio delle
attrazioni. Secondo tale teoria si indica il montaggio come chiave di volta per l'organizzazione delle
49
esprimere le qualità artistiche del cinema venne concepito attraverso il concetto del
montaggio; Ejzenštejn sosteneva come esso fosse il principio formale generale presente
anche nel teatro, nella poesia e nella pittura. «Sempre secondo il cineasta sovietico, il
montaggio poteva essere concepito come una sorta di collisione tra elementi dove le
sequenze venivano poste in conflitto l'una con l'altra con l'obiettivo di produrre una
nuova sintesi che le oltrepassasse. Il montaggio sottoponeva così lo spettatore al
conflitto tra i vari elementi spingendolo poi a creare un concetto nuovo, che avesse un
senso dal punto di vista sociale e politico»115.
Pur non possedendo richiami espliciti con la pittura, il film Bronenosec Potëmkin
(La corazzata Potёmkin,1926) di Ejzenštejn è l'esempio più calzante del principio del
montaggio sovietico, concetto che verrà sviluppato e analizzato nel dopoguerra da
registi e teorici di cinema, soprattutto legati alla corrente della Nouvelle Vague francese
e naturalmente anche da Jean-Luc Godard. Le strategie di montaggio emergono fin dalle
prime inquadrature di Bronenosec Potëmkin: si prenda, ad esempio, la scena in cui uno
dei marinai, che parteciperà poi all'ammutinamento contro gli ufficiali zaristi, esprime
tutto il suo disaccordo gettando a terra con forza uno dei piatti che stava lavando.
Questo gesto viene mostrato da Ejzenštejn attraverso dieci inquadrature diverse con
l'obiettivo di enfatizzare e dilatare l'azione sullo schermo 116. Il montaggio, inoltre,
poteva allo stesso tempo essere in grado di creare collegamenti spaziali in conflitto tra
loro, costringendo lo spettatore a mettere in relazione ciò che aveva appena visto; così,
prendendo in analisi lo stesso esempio, Ejzenštejn crea uno spazio non omogeneo
cambiando la posizione del marinaio ad ogni cambio di inquadratura. Ma non vi era
solo il montaggio ad esprimere la tensione dinamica tra gli elementi: anche all'interno
delle stesse inquadrature potevano esserci contrasti, come ad esempio tra forme, colori,
volumi o strutture. Riferendoci alla scena già esaminata appare eloquente il contrasto tra
la maglia del marinaio a bande orizzontali e le linee verticali presenti sul muro dietro il
personaggio. Un altro esempio deriva dalla contrapposizione nella medesima
attrazioni, queste ultime sono intese come provocazioni sensoriali che orientano lo spettatore nei
confronti dei fatti rappresentati e se ben collegate tra loro sono in grado di orientare l'emozione dello
spettatore in una determinata direzione.
115 Citato in Bordwell David, Thompson Kristin, Storia del cinema e dei film. Dalle origini al 1945.
Editrice Il Castoro, Milano 2003, p.195.
116 Questo procedimento del montaggio viene definito overlapping editing, si tratta nello specifico
quando un'inquadratura può ripetere in parte o per intero l'azione dell'inquadratura precedente.
50
inquadratura di personaggi che si muovono in direzioni opposte; ad esempio in una
ripresa dall'alto del battello viene mostrato contemporaneamente sulla parte superiore
dell'inquadratura degli uomini che si muovono da sinistra verso destra, e sul ponte in
basso un gruppo che si muove nella direzione opposta. Inoltre, altra caratteristica
essenziale, che ritroveremo anche nelle correnti cinematografiche del Neorealismo
italiano e della Nouvelle Vague, è l'esigenza di esprimere un certo realismo che
condusse Ejzenštejn a scegliere attori non professionisti, le cui caratteristiche fisiche
avrebbero suggerito allo spettatore la classe sociale di appartenenza.
Il riferimento alla pittura, in senso generale, ne Bronenosec Potëmkin è espressa
dallo stesso regista in un celebre saggio Sulla struttura delle cose117. Ejzenštejn
riferendosi alla composizione del suo film ne definisce la scomposizione secondo la
formula della “legge organica”, cioè secondo i princìpi della sezione aurea, nonché la
legge organica che regola il mondo intero. Per affermare questa sua tesi, il cineasta
prende la costruzione “mediante i princìpi della sezione aurea” del canto III del poema
Russlan e Ludmila di Puškin e del quadro La bojarina Morozova (1887). Quest'ultimo è
uno dei capolavori dell'artista ambulante Vasilij Surikov, ed è uno dei quadri che meglio
rappresenta l'arte russa realista e storico-popolare della seconda metà dell'Ottocento e
che influenzerà il regista per la realizzazione delle sue opere successive.
Anche se realizzato nel periodo del cinema sonoro, da ricordare vi è anche la
trilogia di film Ivan Groznyj (Ivan il Terribile, 1944), dove Ejzenštejn attinge al
repertorio figurativo russo di fine Ottocento, nel caso specifico ai “pittori ambulanti”
(Repin, Vasnzov, Serov, Surikov, Antokolskij), conosciuti per le loro opere di carattere
storico-nazionalista. Attraverso la sceneggiatura, scritta dallo stesso Ejzenštejn ed in
versi, appare già il tentativo di recuperare il pathos della tradizione nazional-popolare
dei canti epici dell'Ottocento russo. Ejzenštejn prese questo come periodo di riferimento
per la composizione epica di Ivan Groznyj, attingendone sia per le fonti iconografiche
dei protagonisti del film, sia per la concezione strutturale-melodrammatica. Da una
ricerca accurata sui quadri degli artisti “ambulanti” risulta facilmente intuibile la
similitudine tra le opere pittoriche e la costruzione ejzenštejniana del film 118. Ad
117 Citato in De Santi Piermarco, Cinema e pittura in “Art e Dossier”, n.16, 2008, p. 34.
118 Si veda per l'analisi del film Ivan Groznyj: De Santi Piermarco, Cinema e pittura in “Art e Dossier”,
2008, n.16, pp.30-35.
51
esempio il dipinto La bojarina Morozova di Surikov è richiamato in numerose sequenze
di Ivan Groznyj ed è evidente come il regista ne abbia preso spunto per alcune
caratteristiche dei personaggi, per esempio per il monaco Filippo, la principessa
Starizkaja, l'Innocente e la zarina. Oltre alle fisionomie e agli atteggiamenti dei
personaggi, Ejzenštejn ha citato anche i costumi e le acconciature del quadro. Altre
citazioni di personaggi si colgono nel dipinto L'Arcidiacono (1877) di Repin, nel quale
ritroviamo le figure dell'arcivescovo Pimen e del monaco Filippo; infine è dal dipinto di
Vasnezov Ivan il terribile (1897) che il regista rimanda alla figura del protagonista per
fisicità e gesti. Per Ivan Groznyj II: Bojarskij zagovor119 (La congiura dei boiardi,
1946), Ejzenštejn si rifà al dipinto Ivan il terribile e suo figlio Ivan il 16 novembre 1581
di Repin per mettere in scena la scoperta della morte del figlio, Vladimir, al posto dello
zar Ivan da parte della principessa Starizkaja. Ancora ritroviamo Surikov con La zarina
visita un convento (1912) in una delle sequenze finali del film, con la differenza che, in
questo caso, il regista decide di capovolgere in chiave maschile le figure femminili del
dipinto: la zarina diventa il principe Vladimir e le monache si trasformano nei
congiurati incappucciati.
2.3.9 Cinema sperimentale e cinema d'artista
Nel passare dal cinema delle avanguardie al cinema definito sperimentale e
d'artista è indispensabile porre una premessa e un chiarimento terminologico, dal
momento che stabilire i legami tra le avanguardie storiche e le avanguardie del secondo
dopoguerra ci permette di definire in modo più soddisfacente anche l'area in cui il
cinema d'artista diventa qualcosa di nuovo e innovativo rispetto alle esperienze delle
avanguardie storiche.
Vittorio Fagone, critico d'arte e vicino alle tematiche del cinema, pone una
distinzione tra varie espressioni di uso consueto e che sono emerse a partire dalle
avanguardie storiche120.
119 Secondo film della trilogia di Ivan Groznyj. La terza parte non venne mai realizzata a causa della
morte del regista.
120 Fagone Vittorio, L'immagine video. Arti visuali e nuovi media elettronici, Feltrinelli, Milano, 1990,
p.50.
52
I confini di tale classificazione sono molto labili, vi si trova il cinema
d'avanguardia, che viene così definito perché composto da cineasti che con i loro lavori
si sono posti in una posizione opposta rispetto al cinema commerciale e di
intrattenimento (ad esempio. Man Ray, L'Herbier, Vertov, Buñuel). Colloca in questo
contesto anche quei cineasti nordamericani che si sono ispirati alle esperienze delle
avanguardie storiche e che fanno parte delle cosiddette neoavanguardie (ad esempio
Maya Deren, Stan Brakhage, Gregory Markopoulos). Per questi artisti il centro
d'interesse è il cinema e le avanguardie pittoriche o letterarie vengono utilizzate per
esprimere la propria posizione verso il cinema corrente.
Il termine cinema sperimentale viene ricondotto alle esperienze di pittori che
hanno utilizzato il cinema per ottenere maggiore dinamicità delle immagini astratte,
sono perciò i pittori stessi che sperimentano attraverso il nuovo mezzo tecnologico (ad
esempio Duchamp, Richter, Eggeling). I rapporti che si stabiliscono tra il cinema e la
pittura nell'esperienza sperimentale sono principalmente incentrati sul mezzo pittorico,
ed è quest'ultimo che “sperimenta” e ricerca nuove possibilità di espressione attraverso
l'opportunità di sfruttare le potenzialità tecnologiche del mezzo cinematografico.
Infine con il termine cinema d'artista, Fagone fa riferimento ad una produzione
che acquista la sua autonomia nella seconda metà degli anni Sessanta, dove gli artisti
utilizzano il mezzo cinematografico per esplorare le possibilità offerte verso una
costruzione dell'immagine. Si tratta di un termine che risulta dalla fusione tra le due
espressioni precedentemente analizzate ed è certamente il termine che più si adatta alle
nuove correnti cinematografiche (ad esempio Andy Warhol, Michael Snow).
Le avanguardie cinematografiche europee dominanti nell'epoca del muto vengono
soppiantate negli anni della Seconda guerra mondiale da un nuovo centro artistico
situato negli Stati Uniti. Come per le avanguardie storiche, anche i cineasti sperimentali
sono maggiormente legati al mondo delle arti visive anziché al cinema commerciale e
percepiscono le influenze delle avanguardie storiche, soprattutto dalle correnti del
Surrealismo e del Dadaismo. Tra la fine degli anni Quaranta e i primi anni Sessanta
quattro sono le tendenze principali che dominano il cinema: la narrativa sperimentale, il
film lirico, l'antologia sperimentale e il film astratto. Ci soffermeremo ora su ognuna di
53
esse delineandone le caratteristiche secondo i princìpi dettati da David Bordwell e
Kristin Thompson121.
I film astratti erano già apparsi negli anni Venti nelle opere Lichtspiel Opus 1 di
Ruttmann e Diagonal Symphonie di Eggeling. Nel Dopoguerra molti artisti americani
(molto spesso si trattava di artisti legati alle arti visive, ma che lavoravano anche
sperimentando sul mezzo cinematografico) continuarono le ricerche delle avanguardie
storiche; tra questi annoveriamo Harry Smith, che dipingeva direttamente su pellicola
creando immagini astratte che riecheggiavano i temi del surrealismo e del dada. Questi
film fatti a mano, conosciuti con i titoli No. 1, 2, 3 e 5, erano accompagnati quasi
sempre da musiche a cui Smith cambiava la colonna sonora in base anche alle serate
delle proiezioni; i film potevano essere accompagnati da musicisti o anche da una radio.
Norman McLaren lavorò e sperimentò con forme di animazione diverse, dalla
pixillation, dove vi era l'inserimento di attori veri in sequenze animate, all'animazione
ottenuta con ritagli di carta. Tra i suoi lavori ricordiamo Neighbours (1952), dove vi è la
sperimentazione della tecnica dell'animazione di attori; e Canon (1964), dove McLaren
include nell'opera filmica animazione di sagome ritagliate, cartoon, oggetti e persone
con l'obiettivo di tradurre le forme musicali in forme visive. Ricordiamo poi Douglass
Crockwell che per i film The Long Bodies (1947) e Glens Falls Sequence (1946)
utilizzò ritagli, blocchi di cera con venature di colore e pittura fotogramma per
fotogramma. Nei primi anni Cinquanta Robert Breer, artista vicino all'arte cinetica,
passa alla produzione di film sperimentali, distinguendosi per la sua tecnica di
combinazione tra pure astrazioni pittoriche e l'uso astratto di oggetti familiari,
componendole in una serie di fotogrammi diversi tra loro. Da questo nasce REcreation
(1956), dove immagini astratte sono accompagnate con immagini di utensili, giocattoli,
foto e disegni.
In Europa il cinema sperimentale astratto si basava sulla costruzione di immagini
a partire da schemi rigorosi e rigide regole di forma; i registi traevano ispirazione dalla
pittura formalista e dalla scuola del montaggio sovietico degli anni Venti. Tra questi vi è
Kurt Kren, che lavorava con inquadrature da pochissimi fotogrammi, che però riusciva a
donare una maggiore intensità alle immagini abbinando ad ogni fotogramma materiali
121 Bordwell David, Thompson Kristin, Storia del cinema e dei film. Dal dopoguerra a oggi, Editrice Il
Castoro, Milano 2003, pp.251-265.
54
capaci di evocare forti associazioni. Ad esempio nel film 2/60 48 Köpfe auf dem Szondi
Test (1960) scompone una serie di immagini fotografiche tratte da un test psicologico
nel tentativo di creare un effetto sullo schermo di teste che ruotano e mutano di
sembianza122.
La narrativa sperimentale riprende dalle avanguardie degli anni Venti, soprattutto
quelle del Surrealismo e dell'Impressionismo francese, la tendenza allo “psicodramma”,
con l'obiettivo di esplorare ed esprimere ossessioni personali e impulsi erotici. Gli
psicodrammi sono basati molto spesso su racconti di fantasia attraverso un linguaggio
molto stilizzato e raccontati sotto forma di sogni. Ad esempio, Ian Hugo con Bells of
Atlantis (1952) crea un mondo sottomarino attraverso l'uso di sovraimpressioni,
immergendo lo spettatore in un mondo onirico. Il regista Kenneth Anger ricorre al
sogno per giustificare impulsi erotici, toccando anche il tema dell'omosessualità, come
quelli del protagonista del film Fireworks (1947)123.
Mentre il film astratto e la narrativa sperimentale erano l'evoluzione di generi nati
nelle avanguardie storiche, nacquero allo stesso tempo espressioni del tutto nuove. Tra
queste vi è il film lirico, dove il regista ha come obiettivo il tentativo di esprimere
un'emozione o un sentimento personali senza ricorrere alla struttura narrativa. Stan
Brakhage (tra i maggiori esponenti del New American Cinema 124) fu tra i primi a
definire il genere con i film Flesh of Morning (1956), Nightcats (1956) e Loving (1956),
dove l'atto del vedere soggettivo del regista è dato da movimenti di macchina bruschi,
fotogrammi isolati e un uso della luce che con i suoi riflessi ci permette di esplorare
superfici e colori dell'immagine. «Brakhage concepiva l'artista come un visionario che
percepisce e sente con maggior profondità degli altri, e per tale motivo mirava a
catturare su pellicola una visione spontanea, un senso di spazio e di luce non inquinato
dalla conoscenza e dal condizionamento sociale»125. Questa visione di Brakhage
122 Tra i registi di film astratti ricordiamo anche Marie Menken, John e James Whitney, Jordan Belson,
Dieter Rot, Peter Kubelka, Shirley Clarke che non è possibile approfondire ma che godono della
stessa importanza degli autori citati per la cinematografia sperimentale astratto.
123 Tra i registi di narrativa sperimentale ricordiamo James Broughton, Sidney Peterson, Jean Genet,
Christopher Maclaine, Karel Zeman, Jan Lenica, Maya Deren.
124 Il New American Cinema è un movimento cinematografico statunitense che nasce su stimolo di Jonas
Mekas nei primi anni Sessanta. Si basa su l'idea di un cinema libero dalle convenzioni hollywoodiane
dove l'espressione personale dell'autore deve essere libera di esprimersi in ogni spontanea creatività.
125 Bordwell David, Thompson Kristin, Storia del cinema e dei film. Dal dopoguerra a oggi, Editrice Il
Castoro, Milano 2003, p.262.
55
nell'immaginazione creativa è stata ricondotta da alcuni critici alla pittura
dell'Espressionismo astratto e più precisamente allo stesso Pollock; difatti il movimento
si basava sulla creatività spontanea e intuitiva dell'artista a tal punto che Pollock
lasciava sgocciolare la vernice in modo del tutto casuale e istintivo.
Come per il genere precedente, anche la tendenza all'antologia sperimentale non
aveva precedenti tra le avanguardie storiche. Questo genere consiste nella raccolta e
nell'assemblaggio di materiali da fonti diverse con l'obiettivo di creare associazioni
metaforiche, molto spesso accompagnate da toni satirici o scioccanti. Il film
esemplificativo di questo genere è quello dello scultore Bruce Conner A Movie (1958),
dove vengono contrapposte emozionanti scene di western con sequenze di cinegiornali,
che espongono le imprese temerarie e i disastri sulla natura provocati dall'uomo. In A
Movie, e come in altre opere successive, il montaggio risulta dinamico e scandito da
frequenti tagli e da ripetizioni di frammenti di scene attuate con lo scopo di creare
un'interruzione della visione al fine di sollecitare lo spettatore facendolo soffermare sul
medium utilizzato per la fruizione delle immagini. In questo modo, Conner cerca di
rivoluzionare la figura dello spettatore cinematografico, prendendo le distanze da
un'altra corrente di cinema sperimentale dello stesso periodo, che vede in Andy Warhol
il massimo esponente126.
Le opere appena citate possono essere considerate come le prime tappe di un
cammino artistico che sfocerà nelle opere rivoluzionarie delle neoavanguardie degli
anni Sessanta del cinema underground e del New American Cinema. Difatti un nuovo
genere si faceva strada creando le proprie radici in un terreno diverso da quello
dell'Europa degli anni Venti.
Nelle “neoavanguardie” il richiamo alle esperienze delle avanguardie storiche
convive con il bisogno di rispondere ai mutamenti dei media, dello sviluppo dei
consumi culturali, delle emergenti richieste dei movimenti di massa. Ma le stesse spinte
delle avanguardie storiche si ripresentarono anche nelle avanguardie del Dopoguerra: la
tendenza costante alla negazione e all'opposizione verso ogni forma istituzionale della
pittura si combinano all'esigenza di stampo sperimentale verso nuove grammatiche e
126 Nel genere dell'antologia sperimentale citiamo poi i registi Isidore Isou e Maurice Lemaître.
56
nuove sintassi dell'immagine visiva.
Nel
campo
delle
arti
figurative
si
assiste
alla
tendenza
della
de-
istituzionalizzazione della pittura, per abbracciare nuovi mezzi alternativi con cui fare
arte, come l'happening, la performance e la land art. Il cinema diviene il mezzo
principale impiegato per documentare gli eventi, ma allo stesso tempo diviene forma
alternativa in opposizione alla pittura e alle arti tradizionali. Nei primi anni Sessanta i
confini tra le forme artistiche si fecero sempre più sottili ed emerse la tendenza ad
accorpare pittura, cinema, musica e performance umana in un unico mezzo, quello del
cinema stesso. Il mezzo cinematografico difatti riuscì ad esprimere le rivolte individuali
nei diversi campi della musica, della letteratura e delle arti visive. Quando nel 1959 il
pittore Alfred Leslie e il fotografo Robert Frank adattarono la commedia di Jack
Kerouac, The Beat Generation, per il film Pull My Daisy la fusione delle diverse
esperienze artistiche fu definitivamente sancita. Il film ha come attori protagonisti poeti,
musicisti, artisti e ballerini della Beat Generation, che si ritrovano attorno ad un tavolo
per cenare trasformando la serata in una scena comica ed estremamente spontanea.
Il salto dal cinema beat a quello underground è breve. Gli anni Sessanta sono
difatti un'epoca di transizione per il cinema americano, dove le correnti nascono e si
influenzano a vicenda, ma si ritrovano tutte in una caratteristica comune: le modalità
produttive, esecutive e distributive di questi film sono condotte seguendo canali
differenti da quelli del cinema dominante e hollywoodiano.
Il cinema underground127 è un genere che nasce indipendentemente da ogni
struttura commerciale ed industriale, è personale, non narrativo, né rappresentativo e
vive delle esperienze e delle influenze del New American Cinema.
È l'affermazione dell'infinito diritto dell'artista alla ricerca, l'apertura al
potere smisurato della fantasia, l'introduzione nel cinema della complessità
sotterranea dell'inconscio, del sogno, del desidero, dell'allucinazione, la
proiezione del cinema sull'oscuro, sull'invisibile. È un cinema che privilegia
la funzione poetica e quella espressiva nei confronti di quella comunicativa
e che inventa i propri moduli e i propri percorsi al di fuori delle convenzioni
e delle tradizioni filmiche ufficiali128.
127 Tra gli autori underground ricordiamo Brakhage, Anger, Warhol, Mekas, Rice e Jack Smith.
128 Bertetto Paolo (a cura di), Introduzione alla storia del cinema: autori, film, correnti, Utet, Torino
2008, p.318.
57
Nel campo della ricerca formale si impone il lavoro di Stan Brakhage, che con la
sua consistente e vasta produttività cinematografica (tra il 1952 e il 1999 ha girato circa
duecentocinquanta film) basata sul rigore teoretico e l'impegno visionario nel cinema
d'avanguardia, è considerato il principale protagonista americano del secondo
Dopoguerra. Eros, vita animale, nascita e morte sono i temi predominanti, perlopiù
incentrati sulla sua vita quotidiana. Brakhage dipinge su pellicola a partire dal 1961;
inizialmente colorava a mano le pellicole per ridurne i costi, e ne privilegia l'uso anche
per alcuni film degli anni Ottanta. Anticipation of the Night (1958) è un'opera dove la
realtà viene frantumata e assemblata secondo canoni stilistici, che si rifanno alla tecnica
narrativa di Joyce e secondo i risultati formali del cubismo. In Brakhage il cinema si
afferma come un'esperienza di visione totale, scandita da ritmi, ripetizioni, costruzioni
del movimento, composizioni visive creando una messa in scena di grande complessità
e coordinati con un montaggio raffinato. A volte, inserisce frammenti di pellicola a
colori in un fotogramma in bianco e nero come nel film Dog Star Man (1961); altre
volte utilizza la pellicola come supporto per creare collages materici, ad esempio in
Mothlight (1963) vi incolla ali di farfalla, fiori e foglie.
Ma l'artista che meglio ha rappresentato un modello di cinema underground è
l'esponente di spicco della pop art, Andy Warhol. Le opere dell'artista si basano su
riproduzioni di immagini fabbricate dai media come oggetto del fare estetico, passando
attraverso l'adozione della tecnica della serializzazione e della moltiplicazione delle
immagini. Andy Warhol utilizza poi il mezzo filmico per riprendere la temporalità in
oggetti urbani e comuni, come in Empire (1965) dove per otto ore, dal tramonto all'alba,
riprende il grattacielo dell'Empire State Building catturando ogni variazione di colore
della luce sulle finestre del grattacielo; o nella quotidianità come in Sleep (1964), dove
Warhol riprende un uomo che dorme per oltre sei ore; o ancora in Kiss dove vengono
ripresi cinquanta minuti di baci. È un progetto cinematografico basato sulla temporalità,
che Warhol recupera dalle sue sperimentazioni bidimensionali (pittoriche e grafiche) sui
processi di serializzazione e sulla presenza umana. Il cinema underground di Warhol
riprende in modo più o meno esplicito i miti e le immagini più celebri di Hollywood, è
un richiamo costante di citazioni e figure che vengono dissacrate. «Se con la ripetizione
seriale Andy Warhol intensifica la presenza dell'immagine per arrivare a svuotarla di
58
significato, con il cinema egli cerca di afferrare la realtà fenomenica per mettere in luce
come proprio nel momento in cui si crede di aver compreso il valore di ciò che si sta
guardando, l'incantesimo finisce e l'immagine si svuota»129.
Un impiego ossessivo dell'immagine fissa è la caratteristica di un altro esponente
della pop art: Michael Snow, pittore e cineasta canadese, produce nel 1967 Wavelenght,
film in cui lavora sullo spazio e sul tempo. Con la cinepresa, Snow percorre lo spazio di
una stanza passando da una visione d'insieme ad un dettaglio di una fotografia appesa
ad una parete. Con lo zoom è possibile attraversare lo spazio, ma anche il tempo e la
durata; nasce così una relazione tra spazio e tempo, profondità e superficie, realtà ed
illusione.
Ma è anche la pop art e l'arte contemporanea in senso generale ad entrare nello
schermo cinematografico, per esempio con The April Fools (Sento che mi sta
succedendo qualcosa, 1969), il regista Stuart Rosenberg gioca la carta dell'ironia nel
tentativo di cercare una spiegazione logica alle opere di arte contemporanea per
definizione strane e incomprensibili. Cosi Jack Lemon, durante un party di alta classe,
scambia per una cabina telefonica un'opera d'arte pop che in realtà riproduce una cabina
telefonica. Ancora, F for Fake (1975), diretto ed interpretato da Orson Welles, è un film
che mostra l'incertezza dell'arte contemporanea che si trova in un filo sottile tra ciò che
è autentico e ciò che invece è contraffatto. Il protagonista, dopo una serie di eventi
rocamboleschi, entra a far parte del mondo degli artisti, divenendo lui stesso un'opera
d'arte. Come nei film della Nouvelle Vague, le opinioni dei personaggi saranno messe in
rilievo durante le discussioni delle dinamiche di scambi tra arte e cinema, tra arte e vita.
F for Fake è una riflessione dell'autore sulla sua arte, variando tra il tema dell'arte e
della contraffazione e giungendo ad una identificazione tra il personaggio-falsario de
Hory e lo stesso regista.
2.3.10 Modelli pittorici nel cinema d'autore
Paolo Bertetto offre una definizione di cinema d'autore, descrivendo gli elementi
che uniscono questo gruppo di cineasti che, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, nel
129 Pellanda Marina, Tra pittura e cinema: la storia interminabile delle immagini, Cavallino, Venezia
2007, p.117.
59
periodo che va dall'esaurirsi del neorealismo italiano alla nascita delle nouvelle vagues,
sono emersi per le loro opere che rispecchiano la personalità del loro autore. Gli
elementi individuati sono:
Il lavoro del regista si estende a tutte le fasi di lavorazione del film […] con
una particolare attenzione al momento della sceneggiatura che spesso è da
questi firmata o co-firmata; i film d'autore si caratterizzano per una
complessità di contenuti, spesso di non facile lettura, che liberano il cinema
di ogni residuo commerciale, facendone del film un oggetto culturale […];
anche sul piano dello stile, i film d'autore si caratterizzano per una
particolare originalità espressiva […] che muove il cinema nell'ambito di
territori inesplorati, al di fuori di ambiti di rappresentazione che hanno
dominato il cinema classico; la complessità dei contenuti e l'originalità delle
forme espressive impone un nuovo tipo di spettatore, la cui funzione
principale […] è legata ad un accrescimento culturale […]; il film d'autore è
tale anche perché inserito in un'opera complessiva, quella formata dagli altri
film dello stesso autore, di cui riecheggia e ripropone forme e contenuti che
appunto lo rendono riconoscibile e identificabile.130
Queste definizioni ci accompagnano ora all'introduzione di alcuni esempi di
cinema d'autore in Italia e all'estero. L'istanza “autoriale” acquistò negli anni che
seguirono la Seconda guerra mondiale un valore nuovo e di notevole importanza, nata
come reazione al silenzio imposto dal regime sulle questioni culturali, sociali e
politiche. Il cinema d'autore diventò così il simbolo di una recuperata capacità critica, di
una rinnovata attività interpretativa, dopo un ventennio di sottomissione ad una regia
intesa come mestiere al servizio dei regimi. Dopo la Seconda guerra mondiale, lasciate
la povertà e le dittature alle spalle, l'Europa iniziò la sua ripresa economica, politica e
culturale. Un chiaro segnale di questa ripresa in atto fu data sia dagli artisti che dai
cineasti, i quali intuirono la possibilità di continuare le sperimentazioni iniziate dalle
avanguardie storiche nei primi decenni del secolo. «Emerse così un cinema d'arte
internazionale che spesso rifiutava le tradizioni popolari per identificarsi con la
sperimentazione e l'innovazione di “arti alte” come letteratura, musica, pittura e teatro.
Il film artistico del Dopoguerra segna, per certi aspetti, il ritorno degli impulsi formali
degli anni Venti, già esplorati dagli impressionisti, dall'Espressionismo tedesco e dalla
scuola del montaggio sovietico. A questi ultimi tre movimenti alcuni cineasti del
130 Bertetto Paolo (a cura di), Introduzione alla storia del cinema: autori, film, correnti, Utet, Torino
2008, p.186.
60
Dopoguerra continuarono a farne riferimento; per esempio il neorealismo italiano
seguiva i cineasti sovietici nella scelta di attori non professionisti in ruoli importanti,
mentre alcuni registi scandinavi mostravano inclinazioni espressioniste»131. In senso
generale, i cineasti del cinema moderno del Dopoguerra cercarono di essere il più
possibile fedeli alla realtà di quanto non fecero i loro predecessori delle avanguardie
storiche; impegnandosi a denunciare gli orrori della guerra, delle dittature e
dell'antagonismo sociale. Per accompagnare questo “realismo obiettivo”, i cineasti
usarono un tipo di narrazione più aperta, dove spesso i nodi narrativi non venivano
sciolti ed in genere il commento narrativo veniva lasciato al fruitore finale, nonché lo
spettatore, creando un senso di ambiguità per cui le interpretazioni rimanevano molto
spesso aperte.
Queste caratteristiche si ritrovano nella “corrente” del Neorealismo, che si
sviluppò in Italia tra il 1945 e il 1951132. Il neorealismo apportò soluzioni narrative e
stilistiche che ebbero grande successo nel cinema moderno internazionale: dalle riprese
in esterni con doppiaggio in studio, all'uso di attori non professionisti, alle ellissi
temporali, ai finali aperti ed infine alle trame fondate sulla casualità133. Parleremo ora di
alcuni registi che in qualche modo sono stati toccati ed influenzati dalla corrente
neorealista.
Trattiamo ora il regista che con il film Ossessione (1943) ha decretato la nascita
del filone neorealista del cinema italiano. Parliamo di Visconti ed in particolare del film
Senso (1954), ponendo particolare attenzione agli aspetti figurativi della sua opera, nella
quale emerge da parte del regista la necessità di storicizzare la rappresentazione, questo
avviene con un lavoro di ricerca sostenuto da fonti pittoriche e storiche di fine
Ottocento. Il primo riferimento alla pittura viene rappresentato nella scena in cui la
protagonista del film, Livia Serpieri, va a fare visita al suo amante Franz Mahler,
ufficiale austriaco, negli alloggi dei soldati: per l'ambientazione della camerata Visconti
trae ispirazione dal dipinto La toelette del mattino (1898) di Telemaco Signorini. In
131 Bordwell David, Thompson Kristin, Storia del cinema e dei film. Dal dopoguerra a oggi, Editrice Il
Castoro, Milano 2003, p.77.
132 Il movimento si sviluppò intorno a un circolo di critici cinematografici che ruotavano attorno alla
rivista Cinema, fra cui Michelangelo Antonioni, Luchino Visconti, Gianni Puccini, Giuseppe De
Santis e Pietro Ingrao.
133 Si veda Roma città aperta (1954) di Roberto Rossellini; Ladri di biciclette (1948) di Vittorio de Sica;
La strada (1954) di Federico Fellini, Ossessione (1943) di Luchino Visconti.
61
qualche scena successiva, che vede Livia apprendere da un giornalaio dello scoppio
della Terza Guerra d'Indipendenza e rifugiarsi così a Palazzo Serpieri, Visconti trae
come modello di riferimento per i costumi della scena dal quadro del pittore
macchiaiolo Silvestro Lega, La visita (1868). In seguito, dopo vari tentativi di
allontanamento da parte di Franz, Livia cede alle lusinghe dell'ufficiale e si abbandona
tra le sue braccia, i due amanti si baciano all'interno della villa di Aldeno in una scena
dove appare la ricostruzione esatta de Il bacio (1859) di Francesco Hayez. Il significato
della scena sembra però in contrapposizione con il quadro: nel film si celebra il
momentaneo ricongiungimento della coppia; mentre il dipinto di Hayez è dominato
dalla figura bramosa che bacia la sua dama prima di una partenza, che viene motivata da
Hayez come un'allusione all'esilio politico. Per le scene della battaglia di Custoza,
Visconti trae ispirazione per l'ambientazione dalle opere dell'artista macchiaiolo
Giovanni Fattori, come L'Accampamento militare (1861) e Il campo italiano durante la
battaglia di Magenta (1862). Nonostante i dipinti siano a soggetto militare, Visconti
decide di porre l'attenzione non sulle imprese militari, ma sulle sensazioni e le emozioni
dei soldati. Infine, al dipinto di Telemaco Signorini intitolato Non potendo aspettare (La
lettera) del 1867, è ispirata la scena in cui Livia raggiunge Franz nel suo appartamento;
dal suddetto quadro viene ripreso il colore rosso vivo della parete e i dipinti affissi ad
esso, mentre annulla le gesta dei personaggi: se nel dipinto vi è una donna intenta a
scrivere una lettera su un tavolino, nel film accanto al tavolino vi è Livia, la quale verrà
umiliata da Franz. Ricordiamo poi il film Il Gattopardo (1963), nel quale i riferimenti
sono rivolti ancora una volta ai macchiaioli italiani di fine Ottocento: da L'elemosina di
Lega alla Dama al giardino di d'Ancona per il richiamo alle figure femminili; da
Pescivendole a Lerici di Signorini a La filatrice di Cabianca utilizzati per la sequenza
di Palermo.
Nell'opera cinematografica del regista Michelangelo Antonioni è riscontrabile un
nesso con l'arte Informale in quanto, come per la corrente, anche per il regista la materia
segna in modo indelebile il suo stile. Antonioni trasforma la natura e i paesaggi in
tessiture che si possono vedere nei cieli vuoti e nelle vedute urbane prive di presenza
umana dell'Eclisse (1962); o nelle sabbie di Professione: reporter (1975); o ancora,
nelle nebbie di Identificazione di una donna (1982). «I punti in comune tra l'Informale e
62
il cinema di Antonioni sono l'appartenenza alla grande linea fenomenologica del
Novecento, al suo immanentismo radicale come fondazione dell'interrogativo
epistemologico e rifiuto della metafisica; la conseguente domanda epistemologica sul
rapporto tra materia e forma; radicalità del confronto con la materia per la costruzione di
nuove significazioni; rapporto problematico con la memoria e con la storia;
improvvisazione e ispirazione tratta direttamente dal confronto con i materiali»134.
L'informale ha un'influenza anche in Deserto rosso (1964), dove il colore diviene parte
predominate dell'immagine filmica ed è motivo di riflessione sullo stato d'animo dei
personaggi, lo spaesamento di Giuliana viene difatti espresso attraverso la resa
cromatica dell'ambiente industriale in cui vive, dove smalti colorati ricoprono natura ed
edifici, le inquadrature inoltre appaiono simili per composizioni e colori ai quadri di
Morandi. In Deserto rosso vi sono anche numerose inquadrature composte da fasce
rosse o blu, tipico richiamo all'arte Informale e alle opere di Rothko o di Lucio Fontana.
«Quello che è stato fatto in pittura da Piero della Francesca fino a Pollock (per citare
altri due artisti cari al regista), Antonioni decide di farlo nel cinema: ovvero creare
nuove immagini mai viste prima che vadano oltre la percezione razionale»135.
L'impulso neorealista trovò uno sviluppo in una forma di modernismo radicale
delle opere di Pier Paolo Pasolini, come in Accattone (1961) o Mamma Roma (1962),
ma da cui ben presto ne prese le distanze per abbracciare l'idea di evocare e citare
grandi opere del passato. Nei primi film di Pasolini vi sono composizioni che ricordano
dipinti rinascimentali e vi è l'uso di composizioni musicali classiche accostate a scene
girate per strada. Con Il Decameron (1971) Pasolini ricrea Il Giudizio Universale (13041306) di Giotto e ridipinge alcuni particolari della Storia della vera croce di Piero della
Francesca per le sequenze de Il vangelo secondo Matteo (1964). Da non dimenticare è
la citazione al Cristo morto (1485) del Mantegna, più volte citato in numerosi altri film
da Bronenosec Potëmkin (1926) di Ejzenštejn fino a 2001: A Space Odyssey (2001:
Odissea nello spazio, 1968) di Kubrik, che viene riprodotto nella scena finale di
Mamma Roma (1962).
Pier Paolo Pasolini è colui che con La Ricotta (del 1963 ed episodio tratto dal film
134 De Vincenti Giorgio, Il concetto di modernità nel cinema, Lampi di Stampa, Milano 2000, p.212.
135 Moscariello Angelo, Cinema e pittura. Dall'effetto cinema nell'arte figurativa alla cinepittura
digitale. Progedit, Bari 2011, p.102.
63
RoGoPaG) ricostruisce con i tableaux vivants la Deposizione di Cristo (1521) di Rosso
Fiorentino e la Deposizione (1526-28) del Pontormo, «riproducendo i quadri in una
sequenza dal montaggio ritmico sempre più serrato, riprendendo le figure in piani e
particolari che comprimono la profondità di campo dell'immagine ed esaltano la qualità
pittorica delle linee, delle forme e dei colori»136. Il film tratta di un regista (Orson
Welles) occupato nelle riprese di un film sulla Passione di Cristo, passione che incrocia
in un certo senso anche la vita di Stracci, che interpreta Gesù, il quale morirà anch'egli
in croce. Non è certamente un caso che molti critici ritengano come lo stesso Godard (il
quale partecipa al film con l'episodio Le nouveau monde [Il nuovo mondo]) abbia preso
ispirazione per il suo film Passion dalla “passione” di Pasolini. In Passion Godard fa
pronunciare la stessa frase che Stracci disse in La Ricotta, che è l'invocazione al Cristo:
«Quando sarai nel Regno dei Cieli ricordami al Padre tuo», forse in omaggio al regista e
alla sua passione di Cristo.
Gli inizi cinematografici di Bernardo Bertolucci si ebbero nei primi anni Sessanta,
quando gli venne proposto il lavoro di assistente nel primo film diretto da Pier Paolo
Pasolini, Accattone (1961). Il grande successo venne raggiunto da Bertolucci con il film
Ultimo tango a Parigi (1972), tralasciando ora lo scandalo provocato dal film in quegli
anni, risulta interessante soffermarci sugli indizi pittorici che il regista ha inserito nei
titoli di testa. Mentre compaiono i credits, scritte in bianco su sfondo nero, nella parte
che rimane disponibile sulla sinistra dello schermo emerge un quadro di Francis Bacon,
Lucien Freud (Double portrait of Lucien Freud and Frank Auerbach) del 1964,
raffigurante un uomo solitario sdraiato su un letto disfatto. Dopo qualche minuto il
quadro scompare per lasciare posto, questa volta nella parte destra dello schermo, ad un
altro quadro di Bacon, Study for portrait (Isabel Rawsthorne) (1964), che rappresenta
questa volta una donna, sempre sola e seduta nel centro di una stanza. Appena prima
dell'incipit i due ritratti di Bacon si affiancano sullo schermo; si apre la prima scena
dove viene mostrato il protagonista maschile Paul (Marlon Brando), che vaga per la
città e la protagonista femminile Jane (Maria Schneider), che sopraggiunge con una
camminata veloce. «Bertolucci crea a partire dai quadri di Bacon un'isotopia tematica e
figurativa fondamentale nel film: l'incontro di un uomo e di una donna che vengono
136 De Santi Piermarco, Cinema e pittura in Art e Dossier, 2008, p.21.
64
connotati fin dai ritratti nelle loro rispettive solitudini»137. «Oltre alle citazioni dirette
dei quadri, Ultimo tango a Parigi presenta anche una forte continuità valoriale, tematica
e figurativa con l'opera di Bacon»138. «Ad esempio, Bertolucci offre una sua
interpretazione alla poetica del pittore intessendo il film di tematiche care al pittore,
come l'autodistruzione, la solitudine e l'incomprensione assieme ad un vitalismo di
passioni e corpi quasi “in decomposizione”»139. Nel film, questo si ottiene soprattutto
all'interno dell'appartamento dei due amanti attraverso un isolamento delle figure nello
spazio che si muovono su campiture di colore vivido e saturo, come il rosso cupo della
moquette, avvolti da un luce naturale che trasmette riflessi dai toni dell'arancione. Gli
spazi esterni all'appartamento sono luoghi di delimitazione e nitidezza delle forme
avvolti da colori desaturati, da una luce artificiale e dai cromatismi bluastri.
Qualche anno dopo, Bertoluccci pone un forte richiamo alla pittura con
Novecento (1976), nel quale riproduce un'icona da chiunque riconoscibile, Il quarto
Stato (1901) di Pelizza da Volpedo ponendolo come sfondo ai titoli di testa. La
disposizione dei contadini nel dipinto dà l'impressione di una rappresentazione
drammatica: una chiamata alla ribalta del trio di testa, nel quale il braccio teso della
donna invita all'applauso. Bertolucci la contrappone alla scena iniziale dove una lenta
panoramica segue un partigiano che attraversa un prato prima di essere ucciso. «La
massa rappresentata dai contadini nel dipinto viene messa in contrasto con l'individuo,
solo e disarmato»140.
Per quanto concerne il cinema d'autore straniero, è doveroso trattare di Stanley
Kubrick, il quale ebbe un rapporto molto stretto con le arti figurative. «Secondo il
regista solo l'arte è l'unico repertorio affidabile per chi desidera ricreare immagini di un
passato lontano»141. Le ricerche artistiche e culturali condotte da Kubrick si
manifestano, con una certa frequenza, nei suoi film attraverso l'uso di citazioni
pittoriche. Questo processo ci ricorda il già citato Visconti per l’attenzione che i due
registi hanno in comune verso un'autenticità meticolosa delle ricostruzioni di ambienti e
137
138
139
140
Dusi Nicola, Il cinema come traduzione, Utet Università, Torino 2003, p.269.
Dusi Nicola, Il cinema come traduzione, Utet Università, Torino 2003, p.271.
Casetti Francesco, Bernardo Bertolucci, Il Castoro, Milano 1975, pp.77-86.
Kline Thomas Jefferson , I film di Bernardo Bertolucci: cinema e psicanalisi, Gremese, Roma 1993,
p.108.
141 De Santi Piermarco, Cinema e pittura in “Art e Dossier”, n.16, 2008, p.58.
65
situazioni. Kubrick però se ne differenzia in quanto il suo lavoro non si basa sull'eredità
neorealista; il cineasta tende ad utilizzare il potenziale evocativo dell’arte per
manifestare l'indecifrabilità che a volte il mondo del cinema rappresenta.
In 2001: A Space Odyssey (1968) Kubrick usufruisce della caratteristica primaria
della pittura, ovvero il colore, con l'unico scopo di eludere e di dare rappresentazioni
realistiche agli elementi filmici, ma fa assumere ad essi diversi significati. Ad esempio, i
paesaggi richiamano la serie delle Dune di Mondrian e i loro colori mentali, mentre le
vedute di Friedrich, caratterizzate da toni chiari, vengono usufruite per i paesaggi
desertificati del film. Le Skylight series del pittore pop Allen Jones riconducono i
corridoi di luce; mentre l'Optical art viene evocata nelle sequenze in cui la navicella
viaggia nello spazio.
Una rivisitazione dell'iperrealismo pittorico e della pop art viene condotta da
Kubrick con A Clockwork Orange (Arancia meccanica, 1971), nel quale vi è un
richiamo alle ossessioni sessuali, aggressive e consumistiche tipiche dell'uomo e del
mondo contemporaneo. Lo stesso film può essere associato ad una vera e propria opera
pop per i colori vivaci e antinaturalistici. Lo scopo è quello di sottolineare le sensazioni
e l'emotività del protagonista Alex, molto spesso rese dal linguaggio pubblicitario: ad
esempio l’occhio abbondantemente truccato del ragazzo, che Kubrick spesso pone in
risalto, sembra la pubblicità di un rimmel. Le citazioni pittoriche all'interno dell'opera
sono molteplici, si possono riconoscere alcuni richiami alla scultura di Henry Moore, ai
lavori di Allen Jones e a quelli di Segal; in un appartamento si riconoscono opere di arte
contemporanea come il fallo di gesso, associabile a Princess di Brancusi, e un dipinto
che richiama Great american nude di Wesselmann.
L'opera cinematografica che può essere considerata come un quadro del
Settecento è Barry Lyndon (1975), in quanto nel film vi è una ricostruzione tramite
tableaux vivants di opere di pittori quali Reynolds, Gainsborough, Hogarth, Stubbs,
Füssli, Longhi e Traversi. Nel film, ogni elemento è realizzato con lo scopo di
ricostruire ambienti, costumi ed atmosfere avendo come unica fonte d'ispirazione i
quadri del Settecento.
Vi è un rapporto tra le inquadrature del regista Wim Wenders e i quadri di Edward
Hopper, rapporto che si nota sia per scelta del taglio compositivo sia per una scelta di
66
luce che conduce ad un iperrealismo, di cui entrambi sono accomunati. La malinconia,
tipica dei quadri di Hopper, che esprime la solitudine dell'uomo nell'ambiente urbano, la
si trova anche in numerose inquadrature di Wenders. Così si riconosce perfettamente
l'angolo urbano della tavola calda dipinta in Nighthawks (1942) nel film Don't Come
Knocking (Non bussare alla mia porta, 2005) in un'inquadratura dove il protagonista è
ripreso appoggiato ad un lampione su un marciapiede deserto e davanti ad un bar.
Werner Herzog in Nosferatu: Phantom der Nacht (Nosferatu, il principe della
notte, 1979), rifacimento del celebre Nosferatu di Murnau, richiama nelle inquadrature
la pittura romantica e il gusto del sublime di Friedrich, autore di paesaggi che suscitano
contemplazione nell'osservatore e che creano un senso di impotenza dell'uomo di fronte
alla magnificenza della natura. Il dipinto Monaco in riva al mare (1808) viene «citato
nella scena in cui Lucy si trova anch'essa di fronte al mare in una spiaggia deserta;
ancora il Viandante davanti a un mare di nebbia (1818) è rievocato nella sequenza in
cui il protagonista contempla la valle al tramonto dall'alto di un monte»142.
Infine, anche l'autore dei film western americani più conosciuti, John Ford, non è
rimasto impassibile all'effetto della pittura: nel film She Wore a Yellow Ribbon (I
cavalieri del Nord-Ovest, 1949), in omaggio alla cavalleria Usa, le sequenze delle
cariche richiamano composizioni spaziali del pittore Frederic Remington. Anche nei
film successivi Ford sceglie di attingere dalle opere dei pittori che, a fine Ottocento,
avevano scelto di rappresentare la conquista del West attraverso enormi paesaggi
americani, accompagnati sullo sfondo dagli uomini che hanno costruito la storia degli
Stati Uniti.
142 Moscariello Angelo, Cinema e pittura. Dall'effetto cinema nell'arte figurativa alla cinepittura
digitale. Progedit, Bari 2011, p.105.
67
2.4 Godard pittore143
L'estetica del neorealismo italiano e il cinema artistico degli anni Cinquanta venne
assorbito da un gruppo di giovani registi francesi che ne svilupparono l'esperienza.
Questa nuova generazione fu battezzata Nouvelle Vague, ed era in gran parte composta
da giovani critici della rivista “Cahiers du Cinéma”. La maggior parte degli appartenenti
ai “Cahiers” (François Truffaut, Jean-Luc Godard, Jacques Rivette, Claude Chabrol e
Eric Rohmer) esordirono come registi di cortometraggi, mentre la realizzazione di
lungometraggi avverrà per tutti nel periodo dal 1958 al 1959.
Si deve per gran parte alla Nouvelle Vague l'immagine del giovane cineasta che
sfida,
con un
cinema
personale,
le
convenzioni
commerciali
dell'industria
cinematografica. I principali esponenti della corrente erano fedeli alla politica degli
autori e convinti che il regista dovesse esprimere la sua personale visione del mondo,
una visione che sosteneva che un film non dovesse coincidere mai con la sua
sceneggiatura, o la sua scenografia, o con i suoi attori, bensì con l’uomo che l’ha girato.
Il regista diviene così un vero e proprio “scrittore di cinema”, che utilizza
consapevolmente il mezzo cinematografico per comunicare con lo spettatore attraverso
non solo la semplice trama, ma anche con determinate scelte stilistiche, che rendono
possibile riconoscere dai primi fotogrammi di una pellicola il suo autore. Ritroviamo,
come analizzato in precedenza, anche nella Nouvelle Vague le medesime caratteristiche
del cinema d'autore, un cinema personale, coagulato in un movimento compatto nello
stile, come lo erano l'Espressionismo tedesco o la scuola del montaggio sovietico, in
quanto gli autori condividono alcuni princìpi di base: i cineasti strutturano le trame su
eventi casuali e digressioni, intensificando la tendenza ai finali aperti; girano i film in
ambienti reali con attrezzature leggere, con attori poco noti e troupe ridotte; gli autori
delle Nouvelle Vague furono inoltre i primi a riferirsi sistematicamente alle tradizioni
cinematografiche precedenti, le citazioni sono spesso incrociate o riferite molte volte
anche ai colleghi stessi appartenenti ai “Cahiers du Cinéma”.
A mio parere, il più provocatorio ed interessante esponente della Nouvelle Vague
143 Jean-Luc Godard è stato spesso associato alla figura del pittore, tra i tanti ricordiamo: Louis Aragon,
Qu'est-ce que l'art, Jean-Luc Godard?, “Les Lettres Française”, n.1096, 9-15 settembre, 1965;
Jacques Aumont, “Godard pittore, ovvero il penultimo artista”, in L'occhio interminabile. Cinema e
pittura, Marsilio, Venezia 1991;
68
è Jean-Luc Godard, in quanto egli mescola convenzioni della cultura popolare con
riferimenti alla filosofia o all'arte d'avanguardia abbandonandosi così a notevoli
digressioni di stile. Godard attacca i sensi dello spettatore, mettendo in discussione
l'idea di cinema e i modi della sua fruizione. Per il regista la sperimentazione diventa
l'unico modo per affrontare i problemi della società contemporanea in modo nuovo,
fuori dagli schemi contenutistici del “vecchio” cinema. Le direzioni di ricerca
godardiana, quella verso una chiarificazione e un approfondimento dei temi ideologici e
quella verso una sempre più rigorosa sperimentazione dei moduli stilistici, si sviluppano
parallelamente, ma esse non sono nient'altro che due aspetti di una medesima ricerca,
ovvero la ricerca di verità e di realtà. «Lo studio teorico ed estetico di Godard si rivolge
a “quel che c'è tra gli oggetti e che diventa a sua volta oggetto e a ciò che non
guardavamo neppure come irreale”144, non per giungere alla rappresentazione del
visibile ma per rendere visibile la realtà e i suoi fenomeni, ovvero gli ambienti, le luci,
le presenze, le forme e i movimenti che rimangono “invisibili” prima che intervenga lo
sguardo del cineasta a ricercarne non il riflesso nella ricostruzione di una messinscena,
non il riflesso della vita, bensì “la vita stessa fatta film, vista da dietro lo specchio in cui
il cinema la capta”, Godard appare come un pittore che tenta di catturare sulla tela i
colori, i volumi, i contorni, le luci che evocano il senso e l'essenza del reale nella sua
complessa densità e nelle sue dinamiche contraddittorie»145. L'effetto estetico nella
composizione delle inquadrature appartiene all'immaginario «ma quest'immaginario non
è il riflesso della realtà, è la realtà di questo riflesso. […] Per tutto ciò che si vede,
bisogna considerare tre cose: la posizione dell'occhio che guarda, quello dell'oggetto
visto, e quello della luce che lo illumina» 146, affermazione che pronuncia il personaggio
Kirilov nel film La Chinoise, ma che chiarifica perfettamente il pensiero di Godard.
Non va sottaciuto il valore che assume la citazione o l'autocitazione, come in
quest'ultimo caso, nello studio della poetica godardiana. L'assunto essenziale di questo
lavoro ruota intorno allo studio delle citazioni che Godard estrapola dal mondo delle arti
144 Lo afferma Godard nell'articolo Au-delà des étoiles. Nicholas Ray. Amère victoire, in “Cahiers du
cinéma”, n.79, gennaio 1958; qui citato in Chiesi Roberto, Jean-Luc Godard, Gremese Editore, Roma
2003, p.5.
145 Chiesi Roberto, Jean-Luc Godard, Gremese Editore, Roma 2003, pp.5-6.
146 Citato in Jean-Luc Godard, La Cinese, in Rondolino Gianni (a cura di), Cinque film, Einaudi, Torino
1972, p.331.
69
visive. Difatti, da sempre Jean-Luc Godard ebbe l'aspirazione di potersi servire della
cinepresa come il pittore si serve del pennello. La volontà di farsi pittore risale ai primi
anni Sessanta, quando iniziò ad inserire nelle sue opere cinematografiche riferimenti
alle arti figurative; il suo obiettivo era quello di cercare di ottenere un'inquadratura che
fosse come una pennellata, di catturare la luce giusta e cercare di prendere la distanza
corretta dal soggetto da filmare; voleva raffigurare l'aria e l'atmosfera, superare i vincoli
della narrativà e della sceneggiatura147; diventare come un pittore che dipinge la realtà
che gli sta difronte. La realtà di Jean-Luc Godard viene trasmessa attraverso le
caratteristiche principali della corrente della Nouvelle Vague: è una realtà coniugata nel
presente e calata nella vita delle strade, «dove la concretezza degli elementi preesistenti
può diventare parte integrante della messa in scena»148; i film sono uniti da un lavoro
preliminare di sceneggiatura con l'improvvisazione del momento nel set. Come ammise
lo stesso Godard: «ho sempre fatto così; cioè cerco una situazione e poi la scrivo» 149.
Ma nei suoi film non vi è solo il reale, nelle sue immagini troviamo anche tracce di
letteratura, musica, arti figurative e plastiche. Egli stesso aggiunse: «Ho voglia di
rendere tutto, di mischiare tutto, di dire tutto nello stesso tempo. Se dovessi definirmi,
direi di essere un “pittore in lettere”»150; «ossia un cineasta che usa i grigi, il bianco e il
nero, i cromatismi delle immagini filmiche come un pittore, ma anche i disegni delle
lettere stampate sulle pagine di saggi e romanzi, i suoni delle parole di narrazioni e versi
di poemi e poesie, i dettagli ritagliati dai quadri, i brani musicali, le immagini e
sequenze provenienti da film altrui, eletti e via via rielaborati in un processo di
reinvenzione che continua di film in film, di video in video, nell'inquieta volontà di
contemperare tutte le forme espressive (lirica, narrazione, saggistica, storiografia,
polemica politica, civile e sociale, autobiografia, diaristica)»151. Barthelémy Amengual
ha potuto osservare a proposito del metodo godardiano dell'uso della citazione: «Come
gli artisti pop, Godard assembla tutti quei materiali che gli sembrano in grado di creare
147 Godard affermò nel suo libro Introduzione alla vera storia del cinema (p.58): «mi ha sempre dato
estremamente fastidio essere obbligato a fare quello che la gente, nel cinema o nella vita, chiama
“raccontare una storia”; cioè, partire dall'ora zero, fare un inizio e quindi arrivare ad una fine».
148 Chiesi Roberto, Jean-Luc Godard, Gremese Editore, Roma 2003, p.8.
149 Godard Jean-Luc, Introduzione alla vera storia del cinema, Editori Riuniti, Roma 1983 p.34.
150 Sylvain Regard (a cura di), La vie moderne, “Le Nouvel Observateur”, n.100, 12-18 ottobre 1966; qui
cit. in Chiesi R., op.cit., p.9.
151 Chiesi Roberto, Jean-Luc Godard, Gremese Editore, Roma 2003, p.9.
70
relazioni frastornanti e ingiuriose. È vero che sono spesso materiali residuali. Ma
Godard attinge anche alle opere d'arte e dello spirito»152.
Questa trattazione, meramente introduttiva, sul gusto per la citazione presente in
Godard e in tutti i suoi film può temporaneamente concludersi con una frase del regista
che racchiude in senso generale l'argomentazione: «Nella vita, la gente cita ciò che le
piace. Noi pure abbiamo il diritto di citare ciò che ci piace. Per questo nei miei film
faccio vedere gente che fa delle citazioni: solo, faccio in modo che ciò che essi citano
piaccia anche a me. […] Se si ha voglia di dire una cosa, non c'è che una soluzione:
dirla»153.
2.4.1 La citazione pittorica nella filmografia di Godard
Nella filmografia di Jean-Luc Godard sono innumerevoli i richiami alla pittura o
al colore; per facilitazione ne citeremo alcuni, che introducono ed esemplificano le
caratteristiche del cinema godardiano, per, infine, approdare a due film cardine in cui
cinema e pittura si fondono insieme. ll primo film che prenderemo in analisi è Pierrot le
fou, che si colloca cronologicamente nel primo periodo di lavoro del regista (19601967); Passion è la seconda pellicola su cui ci soffermeremo più a lungo nell'analisi ed
essa si colloca nel terzo periodo (1975-) 154. Passion è il film che conclude, a mio parere,
lo studio tra il cinema e la pittura svolto da Godard in questi anni e per tale ragione ho
ritenuto fosse più adeguato citare i film cronologicamente girati in anni precedenti al
152 Amegual Barthelémy, Jean-Luc Godard, in Etudes Cinématographiques, n.57-61, 1967; qui citato in
Allegri Luigi, Ideologia e linguaggio nel cinema contemporaneo: Jean-Luc Godard, Università di
Parma, Centro studi e archivio della comunicazione, Parma 1976, p.72.
153 Godard Jean-Luc, Il cinema è il cinema, I Garzanti, Milano 1981, p.177.
154 Il primo periodo dell'attività del regista va dal 1960 al 1967 ed è caratterizzato da una spiccata vena
creativa che culminerà nell'esperienza del Sessantotto. In questo primo periodo Godard privilegia i
contenuti prodotti dalle immagini contemporanee, come la pubblicità, i fumetti, le riviste, manifesti di
attori. Tra questi troviamo i film Alphaville, une étrange aventure de Lemmy Caution, Pierrot le fou,
Deux ou trois chose que je sais d'elle. Dal 1966 Godard si avvicina alla teoria marxista e utilizza il
cinema per mettere in atto una critica verso la civiltà dei consumi. Ricordiamo tra questi La chinoise,
Week-end. Il secondo periodo che va dal 1967 al 1972 è segnato dalla sperimentazione di un cinema
collettivo, rifiutando il ruolo dell'autore, da queste premesse nel 1969 Godard fonda il gruppo Dziga
Vertov. In questi anni ricordiamo i film Lotte in Italia e Tout va bien. Dopo una pausa di tre anni, che
coincide con la fine del movimento, il terzo periodo di Godard si apre nel 1975. Questo periodo è
segnato dall'approdo del regista alle tecnologie elettroniche e al video improntante ad una
sperimentazione, in cui il video viene usato per una critica alle immagini. In questo periodo sono da
annoverare: Numéro deux, Sauve qui peut (la vie), Prénom Carmen, Je vous salue Marie, Nouvelle
Vague, Hélas pour moi.
71
1982, che è l'anno del film Passion.
Tra questi vi è Une femme est une femme film del 1962 immerso tra la Op-art e il
collage. Godard decide di porre come base cromatica il rosso e il blu saturi, colori che
verranno ripresi anche in Pierrot le fou dove il rosso richiama il sangue, il blu richiama
la morte, il suicidio. Godard utilizzerà i due colori cardine in una scena dove Angela
(Anna Karina), mentre canta con addosso un abito blu, verrà avvolta da una luce rossa.
Ma Une femme est une femme è anche un film astratto; Angela, in un dialogo, afferma:
«Vorrei essere qualcosa di giallo e di astratto» e l'utilizzo della pellicola in technicolor
(primo esperimento con il colore per Godard) permette allo spettatore di vedere questi
colori, dal suo ombrello ai suoi abiti rossi e blu fino ai titoli di testa multicolore.
In Une femme mariée, del 1964, Godard pone delle statue di Maillol in
contrappunto con il corpo scultoreo di Charlotte (Macha Méril). L'avvicinamento verso
l'arte pop avviene attraverso temi cari alla corrente, come la pubblicità in ambienti
esterni o la stampa periodica negli ambienti casalinghi. Spesso i protagonisti vengono
ritratti vicino a manifesti pubblicitari, altre volte le riviste sfogliate mostrano pubblicità
di reggiseni, mutandine, calze e sottovesti, un richiamano alla mercificazione e al sesso.
Il cineasta denuncia la comunicazione di massa che entra in modo prepotente nella vita
reale e tra le relazioni umane.
Queste inquadrature “pop” si trovano anche in Vivre sa vie (1962), nel quale il
tema principale è la spersonalizzazione dell'individuo, tipico tema anche della cultura
popular. Diversamente in Les Carabiniers (1963) la pubblicità appare quando MichelAnge (non è casuale come il nome del protagonista richiami all'artista Michelangelo) e
Venus posano, tenendosi davanti l'immagine pubblicitaria di un paio di mutande e di un
reggiseno. In questo film Godard tenta di recuperare un certo contrasto che
caratterizzava il cinema muto: pone particolare attenzione al trucco degli attori e al
trattamento fotografico dei materiali d'archivio che inserisce nel montaggio. La critica
non coglie questa impostazione e attacca violentemente il film accusandolo di
abborracciamento e disinvoltura tecnica155. Godard risponde fornendo tutte le
precisazioni tecniche che dimostrano il suo controllo nel procedimento e il suo
perfezionismo nell'associazione del suono:
155 Si veda per maggiori approfondimenti il testo di Marie Michel , La nouvelle vague: une école
artistique, Nathan, Paris 1997 (trad.it. Marie Michel, La Nouvelle Vague, Lindau, Torino 1998).
72
Abbiamo girato per quattro settimane durante un inverno che ci spingeva al
rigore e, dalla sceneggiatura al missaggio, tutto si è svolto in effetti sotto
questo segno. Il suono in particolare, grazie agli ingegneri Hortion e
Maumont, è stato particolarmente curato. […] Quanto agli attacchi sbagliati,
ce n'è uno, superbo, emozionante, eisensteiniano, in una scena in cui una
delle inquadrature sarà del resto presa direttamente dal Potёmkin. Si vede in
campo totale un sottufficiale dell'esercito regio togliere il berretto a una
giovane partigiana bionda come il grano del suo kolchoz. Nell'inquadratura
successiva, in primo piano, si rivede lo stesso gesto. E allora? Che cos'è un
attacco se non il passaggio da un'inquadratura all'altra? Questo passaggio
può essere fatto senza urti – è l'attacco messo praticamente a punto in
quarant'anni dal cinema americano e dai suoi montatori che, da un
poliziesco ad una commedia e da una commedia a un western, hanno
instaurato e affinato il principio dell'attacco preciso sullo stesso gesto, la
stessa posizione, per non rompere l'unità melodica della scena; un attacco
puramente manuale, insomma, un procedimento di scrittura. Ma si può
anche passare da un'inquadratura all'altra non per una ragione di scrittura,
ma per una ragione drammatica; ecco allora l'attacco di Ejzenštejn che
oppone una forma all'altra, legandole indissolubilmente con la stressa
operazione. […] Insomma, l'attacco è una sorta di rima, e non c'è bisogno di
fare tanto rumore per impadronirsi di una scala. Basta sapere quando, dove,
perché e come.156
Il riferimento a Ejzenštejn, fondamentale per l'estetica di Les Carabiniers, pone
l'accento sulla riscoperta del montaggio operata all'epoca dagli autori della Nouvelle
Vague, come Resnais, Rivette, Rozier e naturalmente lo stesso Godard. Il tema del
montaggio verrà in seguito sviluppata ed approfondita nell'analisi del film Passion.
Nel film del 1966 Made in USA sono presenti invece i tipici oggetti “pop”,
caratterizzati da colori accesi e vivaci come scritte al neon, i fumetti o i manifesti
pubblicitari. Inoltre in una scena, dove la protagonista si trova in un deposito di
manifesti cinematografici, vi è il richiamo esplicito alla serializzazione, accomunato
anche dal taglio decentrato dell'inquadratura e dall'impianto delle sequenze.
Con La Chinoise (1967) Godard ritorna, questa volta, alla cultura pop attraverso il
colore: i materiali figurativi diventano inserti, sfondi o contrappunti della vicenda o
delle parole degli attori. Vi si trovano fumetti, campagne pubblicitarie, copertine di libri,
ritratti di personaggi celebri in una storia che narra delle vicende di giovani
rivoluzionari maoisti.
156 Jean-Luc Godard, Feu sur Les carabiniers, Cahiers du Cinéma, n.146, agosto 1963. Trad. it. Fuoco
sui carabinieri, in J.-L. Godard, Il cinema è il cinema, Grazanti, Milano 1981, pp.212-213.
73
Sia in Je vous salue Marie (1984), dove il blu rievoca la purezza, il cielo e Dio,
che in Sauve qui peut (la vie) del 1980, Godard cerca di elaborare il cinema per ritrovare
la pittura. In quest'ultimo film in particolare, Godard inserisce quadri di Hopper, un
nudo di Bonnard e parla di luce e di colore, temi fondanti che saranno sviluppati due
anni dopo in Passion.
Prima di addentrarci però nell'analisi di questo film, ho ritenuto fondamentale
porre un'ulteriore analisi su un'opera che a mio parere esprime le qualità e i temi che
ritroveremo anche in Passion e che ci permette così di giungere ad un quadro completo
ed esaustivo delle teorie e delle pratiche di Godard: Pierrot le fou (1965).
Il film, meglio conosciuto in Italia come Il bandito delle ore undici, si posiziona
cronologicamente nel primo periodo (1960-1967) della carriera cinematografica di JeanLuc Godard e viene considerato il lavoro che riassume e conclude tutta la filmografia
godardiana precedente157. Pierrot le fou è la pellicola che segna l'arrivo della pittura
sullo schermo. Godard utilizza colori con tonalità primarie, dense e dal cromatismo
piatto, eliminando qualsiasi illusionismo ottico.
Il film si apre con un'inquadratura su Ferdinand (Jean-Paul Belmondo) immerso
nella vasca da bagno (Fig.1), che legge dalla Storia dell'arte di Élie Faure un brano di
Velázquez che recita: «alla fine della sua vita non dipingeva più le cose definite ma
quello che c'è fra le cose [...]» 158. Ferdinand, marito di un'italiana molto ricca, ben presto
abbandona la moglie per Marianne (Anna Karina), affascinante donna conosciuta anni
prima e che lo chiama scherzosamente Pierrot. Marianne lo immischia nel traffico di
armi e, dopo aver commesso un omicidio, i due si stabiliscono in riva al mare in
Provenza; cercando di liberarsi delle loro identità vivono isolati dal resto del mondo,
passando le giornate leggendo libri e fumetti. Ma la quiete viene interrotta ben presto da
una banda di gangster capeggiata da un nano, della quale Marianne faceva parte prima
di fuggire con Ferdinand. Dopo aver ucciso il nano, Marianne scappa lasciando che i
gangster catturino e torturino Ferdinand. Dopo un po' di tempo, Ferdinand, rimasto solo,
157 Secondo il giudizio di Louis Aragon, Qu'est-ce que l'art, Jean-Luc Godard?, in Les Lettres
Françaises, n.1096, 9 settembre 1965. Tesi sostenuta anche da Farassino Alberto, Jean-Luc Godard,
Il Castoro, Milano 2007, p.69 e da Allegri Luigi, Ideologia e linguaggio nel cinema contemporaneo:
Jean-Luc Godard, Università di Parma, Centro studi e archivio della comunicazione, Parma 1976,
p.119.
158 Citato in Farassino Alberto, Jean-Luc Godard, Il Castoro, Milano 2007, p.70.
74
trova lavoro come marinaio nel porto di Tolone. Qui ritrova Marianne che lo coinvolge
nuovamente nella sua vita di criminale e, dopo uno scontro a fuoco con la banda,
Marianne tradisce Ferdinand-Pierrot e fugge con Fred, il capo banda e amante della
donna. Ferdinand-Pierrot, in preda alla rabbia e alla gelosia, li insegue e li raggiunge
sull'isola dove si erano rifugiati. Dopo una sparatoria Fred e poi Marianne muoiono per
mano di Ferdinand. Il film si conclude tragicamente con il suicidio di Ferdinand, che
decide di farla finita legandosi intorno alla testa della dinamite. Un attimo prima
dell'esplosione si coglie però nell'uomo un ripensamento, ma Ferdinand non riesce a
spegnere la miccia in tempo e muore; nel frattempo si sentono le voci dei due
protagonisti che sussurrano versi di L'eternité di Rimbaud.
Le citazioni pittoriche sono presenti in tutto il film: per l'intero viaggio Ferdinand
porta con sé e ripercorre La storia dell'arte di Élie Faure in edizione economica,
avvicinandosi al mondo dell'arte attraverso una lettura di piccoli saggi e immagini
riprodotte. Per esemplificare l'uso della citazione del libro di Faure in Pierrot le fou,
Godard disse: «mi ero imbattuto in un vecchio libro di Élie Faure che già conoscevo e
che parlava di Velázquez e diceva che agli inizi come alla fine della sua carriera […]
egli dipingeva quello che era tra le cose, e io mi accorgo che.. a poco a poco.. il cinema
non è le cose, ma ciò che si trova tra le cose, quel che c'è tra qualcuno e un altro, tra te e
me, e poi sullo schermo è quel che c'è tra le cose» 159. Il medesimo concetto venne
ripreso anche all'interno dello stesso film, quando Belmondo imitando Simon ripete:
«non è la gente che bisogna descrivere, ma quello che c'è tra la gente». In ogni caso, il
libro di storia dell'arte sarà il supporto ad altri riferimenti espliciti: nel film le immagini
pittoriche vengono inserite con piccole cartoline di riproduzioni che si pongono alle
spalle del personaggio, altre volte invece vi sono riprese di immagini che occupano tutto
lo schermo.
Sono numerosi i riferimenti espliciti che Godard pone tra l'identità dei personaggi
e le figure pittoriche: nella stanza di Marianne vi sono appese riproduzioni di
Modigliani, Picasso e di Renoir; non casualmente Renoir è anche lo stesso cognome
della donna. Ma il personaggio di Marianne è legato in modo indissolubile al pittore,
difatti in alcune scene vengono rievocati una serie di figure pittoriche a partire da una
159 Godard Jean-Luc, Introduzione alla vera storia del cinema, Editori Riuniti, Roma 1983, p.139.
75
successione di inquadrature. Per esempio, in una scena si parte da una inquadratura su
Marianne per poi passare al viso della Bambina presso il covone (1888), un richiamo
esplicito alla donna-bambina che diviene impersonificazione di Marianne. In un'altra
sequenza, Marianne poggiata su un muretto bianco rievoca la Bagnante (1880), il cui
volto viene richiamato in una scena successiva.
La serie dei Renoir si sviluppa parallelamente alla serie dei Picasso, altro richiamo
di fondamentale importanza all'interno del film. In una scena in camera di Marianne,
dove vi è la donna nell'atto di ordinarsi i capelli davanti ad uno specchio, vicino a lei,
appesa al muro, si vede la riproduzione di Fanciulla allo specchio (1932) di Picasso.
Ma è nei confronti del protagonista maschile, Pierrot-Ferdinand, che il richiamo a
Picasso è reso ancora più esplicito: nella scena dove Marianne conficca le forbici al
collo del nano, sempre appesi al muro, si vedono Jacqueline coi fiori (1954) e Ritratto
di Sylvette sulla poltrona verde (1954); a queste due raffigurazioni corrispondono due
foto di donne nude che si trovano nella camera vicina e che si vedranno poco dopo.
Nell'intervallo tra le due scene si vede, mentre viene pronunciata la battuta: «Tenera è la
notte, è un romanzo d'amore», la riproduzione de Gli innamorati (1923). «Ancora, nella
sequenza che si svolge nell'appartamento di Marianne, lei si sposta da una stanza
all'altra cantando una canzone160 sulla precarietà dell'amore “senza domani”, l'amore che
Ferdinand e lei stessa stanno vivendo»161. Subito dopo vi è l'inquadratura sul viso di
Marianne mentre pronuncia la frase «Si vedrà» accompagnata dalla colonna sonora Au
clair de la lune, mon ami Pierrot..., che si unisce alle citazioni pittoriche di Paul
travestito da Pierrot (1925) di Picasso in primo piano; La blusa rumena (1940) di
Matisse (Fig.2-3); per poi tornare a Paul travestito da Pierrot, questa volta in
primissimo piano e, infine, per concludere con il volto della Bagnante (Fig. 4-5). Nel
frattempo i dialoghi dei due protagonisti vengono associati ai dipinti, la voce di lei si
ascolta mentre scorre l'immagine di una riproduzione maschile e viceversa. Marianne
annuncia a Ferdinand che è arrivata sua moglie, ecco allora che La blusa rumena può
essere un richiamo alla moglie di Ferdinand e, dunque, la serie delle quattro citazioni
può essere una rappresentazione metaforica della situazione amorosa di Ferdinand, che
160 La canzone è Jamais je ne t'ai dit que je t'aimerait toujours di Duhamel e Bassiak.
161 Liandrat-Guigues Suzanne, Leutrat Jean-Louis (tr. it. di Arecco S.), Godard alla ricerca dell'arte
perduta, Le Mani, Recco, 1998, p.53.
76
si trova in mezzo alle due donne. Nella stanza in cui avviene l'uccisione del nano da
parte di Marianne vi sono Jacqueline coi fiori e Ritratto di Sylvette sulla poltrona verde
(Fig.6). Il primo quadro è diviso in due parti separate da una diagonale, come se fossero
due pezzi di carta tagliati da una forbice, la parte superiore è blu mentre quella inferiore
è rossa. I colori non sono casuali, ma sono un esplicito richiamo ai due protagonisti: il
rosso a Marianne, in quanto indossa un vestito rosso ed è un richiamo al delitto che
commette; mentre il blu è legato a Ferdinand, dove un posacenere di tale colore
annuncia l'imminente tortura che l'uomo subirà nella medesima stanza.
Ma anche lo stesso film è pienamente intrinseco di caratteri pittorici: lo schermo
diviene una campitura su cui si distendono forme e colori in composizioni spesso quasi
astratte. Vengono esaltati i colori e la luminosità dei paesaggi, gli abiti dei protagonisti,
le luci dei semafori e dei neon che compongono le città, il rosso del sangue che decreta
la morte di Marianne. La stessa morte tragica di Pierrot-Ferdinand è fatta di colori, egli
prima di suicidarsi si colora il viso con della vernice blu e si lega intorno al capo tubi
gialli e rossi di dinamite; blu che richiama ancora a Picasso e al suo periodo blu degli
Arlecchini e appunto dei Pierrot.
Questa esigenza in Godard di esprimere le vicende dei personaggi e i loro stati
d'animo attraverso l'uso del colore mi ricorda un'altra esigenza emersa nei primi anni del
cinema: quella di colorare l'immagine fotografica in bianco e nero. I viraggi e le
tinteggiature per imbibizione vennero presto in uso creando immediatamente una
convenzione: in giallo erano virate le sequenze diurne, in azzurro quelle notturne, in
verde le scene di campagna, in rosso la passione e il pericolo. Questa associazione tra i
colori e i sentimenti era presente fin dalla nascita della storia del cinema e troviamo
un'evoluzione simile anche in Godard, che nel suo film utilizza i colori rosso e blu per
collegarli ai due protagonisti, rispettivamente, Marianne e Pierrot-Ferdinand. Come
analizzato nella sezione del cinema d'autore, anche Antonioni si serviva del colore per
tramettere le sensazioni dei protagonisti: il regista cercava nei suoi film di dare,
attraverso l'alterazione dei colori, una chiave psicologica ai personaggi. Per affermare
questo mio pensiero, lo stesso Godard in un'intervista rispondeva a chi sosteneva che
nel suo film ci fosse troppo sangue: «non è sangue, è solo del rosso» 162. Si tratta di
162 Citato in Moscariello Angelo, Cinema e pittura. Dall'effetto cinema nell'arte figurativa alla
cinepittura digitale. Progedit, Bari 2011, p.19.
77
un'affermazione che si riferisce al fatto che nel suo film erano i colori prescelti (rosso,
blu) a suggerire gli sviluppi della vicenda e non quest'ultima a richiedere i colori.
Luigi Allegri definisce Pierrot le fou come un film surrealista «per l'intenzione
che lo muove, per i moduli espressivi che pone in essere, anche per singoli episodi e
particolari soluzioni linguistiche»163. L'affermazione di Allegri trova un riscontro nella
trattazione studiata in precedenza sul cinema surrealista; come già analizzato il
surrealismo si opponeva con disprezzo all'arte e alla cultura borghesi, per una
predilezione dei prodotti popolari o di scarto, alimentando così atteggiamenti
provocatori e rivoluzionari con l'unico obiettivo di colpire lo spettatore nel tentativo di
aprire una nuova concezione estetica attraverso la libera associazione di immagini.
Questa operazione straniante viene messa in atto anche da Godard attraverso l'uso di
ellissi narrative che rendono difficile la fruizione partecipativa, sia con certi stilemi,
come lo sguardo in macchina, oppure con la sdrammatizzazione ottenuta attraverso
l'inversione delle consuetudini di ripresa (ad esempio il falso tentativo di suicidio di
Ferdinand mentre sta arrivando il treno ripreso con un campo lungo privo di
“emozione”). Inoltre ricordiamo ancora il discorso “surreale” dell'uomo del porto, che
racconta a Ferdinand l'assurda storia di una sua ossessione, che appare come una di
quelle apparizioni di matrice surrealista e che riportano alla memoria alcuni film di
Buñuel; questa digressione sul piano narrativo viene fatta per l'esigenza di rallentare
l'azione e scaricarla delle sue componenti di coinvolgimento. Come per il cinema
surrealista, anche in Pierrot le fou vi è la predilezione per i prodotti popolari e il film è
fortemente marcato dalla cultura di massa, che rammenta però, a mio avviso,
un'avanguardia artistica del Secondo dopoguerra, la pop art. Si pensi ai dialoghi della
festa iniziale composti da slogans pubblicitari e frasi fatte; la cultura pop è riscontrabile
anche nei colori, marcati, decisi e resi dalle tonalità fondamentali del rosso e del blu,
accostati e non mischiati, che ricordano dipinti di Rosenquist e Wesselmann.
163 Allegri Luigi, Ideologia e linguaggio nel cinema contemporaneo: Jean-Luc Godard, Università di
Parma, Centro studi e archivio della comunicazione, Parma 1976, p.119.
78
2.5 Passion
Se in Pierrot le fou Godard privilegia la pittura a cavallo del secolo
(impressionismo, fauvismo, cubismo), che più crudamente pone il problema del
materiale e crea una riflessione che ruota intorno al tempo; in Passion (1982), come
definito da Jacques Aumont164, vi si trova l'«istoria», ovvero le grandi macchine
rappresentative e i soggetti grandiosi.
Il film è preceduto da un cortometraggio “Passion”, le travail et l'amour.
Introduction à un scènario (troisième état du scénario du film “Passion”) del 1981, e
seguito da un mediometraggio Scénario du film “Passion” (1982); i due video saranno
trattati in modo più specifico alla conclusione dell'analisi del film Passion.
2.5.1 Sinossi165
La scia di un jet squarcia un cielo azzurro accompagnato da Concerto per la mano
sinistra di Ravel (Fig.7). Nella prima serie di inquadrature vi sono i protagonisti del
film che compiono delle azioni: Isabelle (Isabelle Huppert) che spinge un carrello nella
fabbrica e successivamente la si vede mentre lavora a una macchina; Michel Boulard
(Michel Piccoli) nonché il proprietario della fabbrica con la moglie Hanna (Hanna
Schygulla) mentre si vestono; il regista polacco Jerzy (Jerzy Radziwilowicz) in
automobile. La trama si incentra sulle vicende che avvolgono il regista che sta girando
un film dal titolo Passion, il quale si basa sulla costruzione di quadri celebri. Il primo
che ci appare è La Ronda di notte (1642) di Rembrandt. Hanna, che possiede un hotel
dove la troupe del film alloggia, diventa l'amante di Jerzy, nel frattempo il marito
Boulard non ha soldi per pagare un creditore e in fabbrica scatta uno sciopero. Intanto
appaiono i tableaux vivants di Le fucilazioni del 3 maggio 1808 (1814), Maja desnuda
(1797-1800) e La famiglia di Carlo IV (1800-01) di Goya (Fig.8-9-10). Mentre Hanna e
Jerzy si scambiano tenerezze, nello studio vi è la messa in scena de Il bagno turco di
Delacroix. Poco dopo appare il finanziatore italiano che reclama i suoi soldi, così il
produttore del film, Laszlo (Laszlo Szabo) inizia ad elencare i prezzi di ogni macchina
164 Aumont Jacques, L'occhio interminabile. Cinema e pittura, Marsilio, Venezia 1998, p.155.
165 Di supporto alla sinossi sono stati usati i testi: Farassino Alberto, Jean-Luc Godard, Il Castoro,
Milano 2007 e Chiesi Roberto, Jean-Luc Godard, Gremese Editore, Roma 2003.
79
impiegata nel set cinematografico. Nel frattempo un altro tableau vivant compare sullo
schermo, è La bagnante di Valpinçon (1808) di Ingres (Fig.11). Laszlo cerca di trovare
acquirenti per il film, ma è fortemente preoccupato in quanto il film non possiede una
vera storia; nel frattempo Jerzy si interroga sul suo futuro: se tornare in Polonia e quale
donna scegliere tra Hanna e Isabelle. Quest'ultima, che è stata licenziata da Boulard a
causa anche delle pressioni della moglie, si rifiuta di lasciare la fabbrica e il suo lavoro,
finisce così per essere cacciata in malo modo. Nel frattempo, nello studio
cinematografico si mette in scena L'ingresso dei crociati a Costantinopoli (1840) di
Delacroix (Fig.12-13). Regista e produttore continuano a discutere sul perché nessuno
comprerà mai il film e il motivo principale è ancora una volta la mancanza di una storia
che, secondo Laszlo, il pubblico cerca. Jerzy decide così di abbandonare il film, ma
tecnici e comparse si ribellano e malmenano il regista. Anche Hanna picchia il marito e
Jerzy viene colpito da una coltellata che era destinata invece a Boulard, Sarah
innamorata di lui lo salva ma è Isabelle che si prenderà cura del regista e, una volta che
Hanna tornerà da Jerzy, lui la respingerà. Nel set intanto si ha La lotta di Giacobbe con
l'Angelo (1860) di Delacroix. Laszlo annuncia di aver trovato un finanziatore, ma che è
necessario trasferirsi in California, ma Jerzy rifiuta di andarsene. Le riprese continuano
con l'Assunzione della Vergine (1577-79) di El Greco, ma poco dopo, quando Hanna
cerca Jerzy, scopre che la troupe è partita e trova solo nel set due personaggi e il veliero
de L'imbarco per Citera (1717) di Watteau (Fig.14). Isabelle nel frattempo senza lavoro
decide di partire per la Polonia con Hanna, quando Jerzy lo scopre le insegue per
fermarle, ma incontrerà Sarah dalla quale accetterà un passaggio in auto.
2.5.2 Analisi
Passion (1982) viene considerato da De Vincenti un film-saggio 166, nel senso che
si dava a questa formula negli anni Sessanta, che definisce un tipo particolare di
166 André Bazin fu il primo a utilizzare l’espressione “essay-film” in riferimento all’opera
cinematografica di Chris Marker, Sans Soleil (1982), volendo indicare un testo audiovisivo, non
ascrivibile al documentario o alla video-intervista, nel quale al collage di immagini fosse associata
una voce fuoricampo rappresentativa di una prospettiva unitaria e totalmente personale al regista. Per
un approfondimento si veda A. Bazin, Chris Marker, Lettre de Siberie, in Le Cinéma français de la
Liberation à la Nouvelle Vague, Cahiers du cinéma, Paris, 1985, pp. 179-181.
80
narratività in stretta opposizione ai modi abituali del racconto cinematografico;
ritenendo il film una delle forme più radicali di film-saggio. Ma Passion viene, allo
stesso tempo, considerato «un film “poetico”, nel senso che si dà alla parola secondo la
tradizione formalista, nella quale si oppone al mondo della “visione” (linguaggio
poetico) quello del “riconoscimento” (linguaggio pratico)», Vincenti inoltre considera
«il passaggio dal secondo al primo frutto dell'operazione di straniamento, che rende la
parola carica di significati molteplici, nuovi e inusuali»167. Difatti Passion, come
vedremo nelle pagine seguenti, esibisce il problema della narrazione e della possibilità
stessa del narrare sia attraverso la storia stessa del film, sia attraverso una serie di
interrogativi espressi dai personaggi.
Fin dalle prime inquadrature del film si intuisce che Passion non ha una vera e
propria storia, un testo narrativo. Godard sa che non ci sono storie semplici da
raccontare, poiché il mondo moderno è complesso e caotico e la narrazione deve
riflettere il parziale. Passion difatti racconta due storie frammentate, che sono due serie
interconnesse tra loro: vi è la storia di Jerzy, un regista polacco che sta girando un film
intitolato Passion, e quella di Isabelle, un'operaia di fabbrica che va in sciopero.
Il concetto di storia si presenta fin dalle prime inquadrature, dove la stessa
domanda viene posta a tre personaggi diversi, ovvero «che cos'è questa storia?», alla
domanda vengono accompagnate le relative risposte fuori campo; si tratta di una scelta
linguistica che intende sottolineare una doppia articolazione di immagini e sonoro.
Le risposte, che ci introducono direttamente nel cuore del problema, vengono date
a partire da Sophie Lukačevskij, assitente di Jerzy, poi da Patrick Bonnel, altro
collaboratore del regista e infine da Raoul Coutard, direttore della fotografia di tutti i
film di Godard fino al 1967.
La prima risposta che si ascolta è: «Non è una menzogna, ma qualcosa di
immaginato. Non è mai l'esatta verità, non è neppure il suo contrario, ma qualcosa che
in tutti i casi è separato dal reale esteriore dai pressappoco profondamente calcolati della
verosomiglianza»168. La seconda: «è perché questa composizione è piena di buchi e di
spazi male occupati. Non esaminate severamente né la costruzione né le inquadrature.
167 De Vincenti Giorgio, Il concetto di modernità nel cinema, Lampi di Stampa, Milano 2000, p.115.
168 Citato in De Vincenti Giorgio, Il concetto di modernità nel cinema, Lampi di Stampa, Milano 2000,
p.116.
81
Fate come Rembrandt: guardate gli esseri umani attentamente, lungamente, sulle labbra
e negli occhi»169. La terza e ultima risposta: «Non c'è storia. Tutto è correttamente
illuminato, da sinistra a destra, un po' dall'alto in basso, un po' da avanti e indietro. Non
è una Ronda di notte ma una Ronda di giorno, illuminata da un sole già basso
sull'orizzonte»170.
Fin dall'inizio del film, è evidente su cosa verterà: Godard tenta di indagare il
concetto di storia e per rispondere lui stesso alla domanda iniziale si serve, a mio parere,
del personaggio di Jerzy. L'autore crea in Jerzy il proprio alter ego: Jerzy esprime il
dilemma artistico e creativo di Godard. I problemi del regista Jerzy nel produrre la sua
"passione" sono quelli che anche Godard stesso affronta nella sua “passione” lavorativa
di cineasta. Nel film, Jerzy è perseguitato da un produttore che vuole fare successo al
botteghino, dagli attori che vogliono conoscere le loro parti, da Laszlo che ricerca la
storia del film. Tutti vogliono sapere cosa sta succedendo, tutti vogliono la storia. E così
nel film Laszlo domanda a Jerzy: «Qual è la storia?», ma il regista non ha una risposta e
per questo tace. La sua sofferenza artistica, ovvero la sua "passione", è proprio questa
assenza di una storia unita alla volontà di dare al film una coerenza artistica e di
significato. Jerzy fallirà e non riuscirà a trovare una soluzione ai problemi di
realizzazione del film: non riesce ad ottenere la giusta illuminazione per le riprese dei
tableaux vivants ed è incapace di soddisfare le esigenze del produttore. La pellicola di
Jerzy uscirà incompleta ed è in questo racconto incompleto che Godard farà il punto
della situazione sul cinema: è il cinema stesso a partecipare alla confusione della vita, a
essere parte di essa. Il regista è alle prese con false partenze, frustrazioni, pressioni
esterne e interne, nel tentativo costante di cercare di dare un significato al cinema e al
suo lavoro. Egli è alla ricerca di connessioni tra amore e lavoro, arte e vita; connessioni
che, non casualmente, corrispondono anche alle due serie del film: la storia di Hanna, il
lavoro e la vita, e la storia di Jerzy, l'amore e l'arte.
In questa ricerca di connessioni affiorano i due temi principali che percorrono
l'intero film: la legge e la luce. Il tema della legge viene indagato sia dal principio dei
comportamenti umani, sia dal principio cinematografico. Il primo esempio all'interno
dell'opera lo troviamo quando Laszlo insegue la legge del cinema, nonché quella norma
169 Ibidem.
170 Ibidem.
82
per cui ogni film debba possedere una storia. Al contrario Jerzy crede che il cinema non
sia fatto di leggi ed è per questo motivo che la gente lo ama ancora 171. Si parla di una
legge del cinema che da sempre Godard non ha mai seguito e che ha ignorato in tutta la
sua cinematografia, compreso Passion stesso. La medesima legge la ritroviamo nella
serie dei personaggi: essa si insinua in Jerzy; la cogliamo quando la polizia insegue
Isabelle nella fabbrica e infine nella Presa di Costantinopoli, dove emerge l'aspetto della
libertà ma che dovrà tuttavia fare i conti con la legge, ultima e finale.
La luce, altro grande elemento che lega le due serie, appare sempre nel film come
fonte artificiale che non viene nascosta agli occhi dello spettatore. Luce che cambia in
base ai personaggi, se si trovano nel set cinematografico o nella fabbrica. La luminosità
è anche quella del jet immerso nel cielo azzurro, prima inquadratura ad aprire il film
Passion e ultima di Scénario.
È inoltre grazie alla luce se i tableaux vivants possono prendere forma: la
cinepresa infondo deve essere solo testimone della luce, poiché è essa che dà vita
all'arte. Jerzy ricerca nel film la “bonne lumière”, ma sul set la luce non è mai quella che
Jerzy pretende e i risultati di colori, rifrazione dei corpi e chiaroscuro sui tableaux
vivants lo lasciano sempre insoddisfatto. La luce «è una cosa che ammiro in pittura: i
pittori sono in grado di crearsi una propria luce» 172. È ciò che disse Godard ma è una
frase che può essere riconducibile anche a Jerzy. Probabilmente è per questo che il
regista di Passion tenta di ricostruire i grandi classici pittorici, perché aveva “gelosia”
verso gli artisti che potevano avere la luce che volevano.
Ritorna l'alter ego Jerzy-Godard: infatti se c'è una cosa che Godard non ha mai
nascosto è la sua “invidia” nei confronti dei pittori; per tutta la sua carriera il cineasta ha
sempre avuto il desiderio di poter filmare le cose così come fanno i pittori quando
eseguono le loro tele. Lo stesso Godard ammise: «La cosa terribile è che è difficile fare
al cinema quello che il pittore fa con tutta naturalezza: si ferma, prende una certa
distanza, si scoraggia, riprende, modifica. Tutto è permesso» 173. L'esigenza di ritoccare
171 Il discorso sulla legge avviene all'interno del film quando Sophie afferma: «nel cinema ci vuole una
storia e bisogna seguirla, questa è una legge», Jerzy ribatte «ma no, non ci sono leggi, non ci sono
leggi mia Sophie, nel cinema, ed è per questo che la gente lo ama ancora» per poi chiedere a Coutard
se anche per lui c'è la legge nel film. Alla risposta affermativa di Coutard, Jerzy risponde: «Ecco.
Bene, allora si spegne tutto».
172 JeanLuc Godard, Il cinema è il cinema, Grazanti, Milano 1971, p.165.
173 JeanLuc Godard, Il cinema è il cinema, Grazanti, Milano 1971, p.174.
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l'inquadratura nel corso delle riprese e, come ammise, desiderare di riuscire a studiare la
distanza e il punto di vista giusti, sono le aspirazioni che da sempre hanno
accompagnato la ricerca di Godard, sfociata nell'ultimo periodo con l'uso
dell'elettronica, in quanto mezzo più idoneo a “dipingere” la realtà nel momento stesso
in cui la si riprende con la telecamera. Questa eterna ricerca di Godard ci ricorda come
questo problema sia in realtà intrinseco fin dalle avanguardie storiche del Novecento,
dove vi era l'eterno conflitto tra la creatività dell'artista e l'ostilità del mezzo
cinematografico nell'esprimere appieno l'originale immagine dell'artista. Il suo obiettivo
è quello di poter giungere a visualizzare la propria immagine mentale nel modo più
completo e aderente possibile, attraverso il linguaggio artistico adottato.
Come abbiamo già potuto vedere esaminando le teorie nei rapporti tra cinema e
pittura, Ėjzenštejn nei suoi scritti teorici utilizzava il modello cinematografico per
meglio comprendere i meccanismi compositivi della pittura; allo stesso modo, anche
Godard utilizza la pittura (i tableaux vivants) per evidenziare l'alterità del cinema. In
Passion Godard rifà delle tele celebri tramite la composizione di tableaux vivants, poi le
esplora, le smonta e le rimonta, le spinge al limite e tenta delle varianti combinandole
tra loro e semplificandole. In poche parole, le mette in discussione e l'insieme di queste
operazioni può essere indicato con il termine “cinematizzazione”, ovvero un diventare
cinema della pittura174. Parliamo di cinematizzazione nel senso con cui Ejzenštejn
proponeva di chiamare “cinematismo” la retroazione concettuale e analitica del cinema
sulla letteratura e pittura: ad esempio, il cineasta prendeva in analisi le tele di El Greco
alla luce del concetto del montaggio e della nozione di estasi, analizzando le influenze e
le filiazioni a ritroso. Nei ripensamenti, nelle esitazioni e nella incompiutezza del lavoro
di Jerzy ritroviamo le stesse azioni compiute da Ejzenštejn. «Questa è un'operazione di
“cinematizzazione” che nel film appare complessa ed inconcludente, forse perché è
segnata dalla malinconia e dal lutto, di un senso della storia come perdita e della
disperazione di ogni tentativo di trovare l'origine a partire dagli indizi che ci
giungono»175. Quello che Passion evidenzia è la messa in scena e la luce, quei due
aspetti che hanno consentito di mantenere il cinema legato alla pittura.
174 Il concetto di “cinematizzazione” viene sostenuto da Aumont Jacques, L'occhio interminabile.
Cinema e pittura, Marsilio, Venezia, 1998, p.151.
175 Aumont Jacques, L'occhio interminabile. Cinema e pittura, Marsilio, Venezia, 1998, p.151.
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«Godard si serve della pittura per privilegiare le virtualità proprie del cinema. La
ricomposizione dei quadri, in Passion, è un pretesto per mettere alla prova le
potenzialità del cinema»176. Godard inoltre offre una esemplificazione della tipologia
dell'«effetto dipinto», proposta da Antonio Costa e analizzato nelle prime pagine del
capitolo, in quanto il regista mostra la messa in scena (la realizzazione nella
tridimensionalità dello spazio profilmico nella scena del quadro rappresentato dall'opera
celebre) e la messa in inquadratura (la parte del tableau vivant che diviene inquadratura
filmica, che traduce nella bidimensionalità dello schermo la profondità dello spazio
reale).
Passion non è un film fatto solo di quadri, di accompagnamento ad ogni tableaux
vivants, ma vi sono anche brani musicali, alcuni celebri e di facile riconoscimento come
Concerto per la mano sinistra di Ravel, ma anche Mozart, Dvorák, Beethoven, Fauré.
Questa associazione tra immagini e suono porta a stabilire nessi tra loro, ma soprattutto
ad esibire la ricerca di questi nessi. I materiali esibiti nel film devono essere interpretati
in base alle rispettive serie. Difatti quella dei tableaux vivants, dei corpi luminosi,
accompagna le due serie di cui la storia è composta: quella della vita e quella dell'arte,
che sono associate, rispettivamente, ai personaggi di Isabelle e Jerzy. Gli intrecci delle
storie e delle vite dei personaggi sono legati l'uno all'altro e gli avvenimenti si
ripercuotono da un personaggio all'altro. Nel video costruito in seguito al film, Scénario
du film “Passion”, è lo stesso Godard che spiega la dinamica dei rapporti tra i
personaggi, nati non da una sceneggiatura ma da connessioni di luci, parole, gesti177.
Nessuna delle due serie alla fine riesce a prevalere sull'altra poiché, come disse
Godard, «La mia idea era di liberare un evento mediante la metafora dell'altro»178 ed è
sempre Godard che proclama apertamente il fatto che i suoi tableaux vivants debbano
essere visti come le metafore in grado di definire le due serie: «Ho provato a mostrare la
pittura sotto una forma metaforica che rinvia a realtà diverse. I cavalieri sono metafore
176 Liandrat-Guigues Suzanne, Leutrat Jean-Louis (tr. it. di Arecco S.), Godard alla ricerca dell'arte
perduta, Le Mani, Recco 1998, p.70.
177 Citato in Farassino Alberto, Jean-Luc Godard, Il Castoro, Milano 2007, p.165.
178 Citato in Liandrat-Guigues Suzanne, Leutrat Jean-Louis (tr. it. di Arecco S.), Godard alla ricerca
dell'arte perduta, Le Mani, Recco 1998, p.71.
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dei padroni, i fucilati di Goya metafore delle giovani operaie in fabbrica» 179. Godard
unisce così le due serie tramite la creazione dei magnifici tableaux vivants.
La costruzione de La ronda di notte si presenta attraverso il montaggio alternato
di sei piani legati al dipinto e da tre che mostrano Isabelle in fabbrica. Di facile
percezione sono le opposizioni visive e sonore tra le due scene: Isabelle che lavora
immersa tra le macchine della fabbrica in uno spazio ben illuminato e dotato di
profondità di campo è in opposizione al “quadro vivente”, dove personaggi in costume
si posizionano in uno spazio che è un non-luogo privo di profondità e con
un'illuminazione a contrasto dei volti. Anche dal punto di vista sonoro le scene appaiono
in opposizione: la fabbrica avvolta da rumori chiassosi, i colpi di tosse dei personaggi
del quadro, una serie di domande e risposte sul quadro stesso e per finire Concerto per
la mano sinistra di Ravel. Pure la sofferenza dei personaggi è comune: Isabelle seduta
sullo sgabello da lavoro ha male alle ginocchia e i personaggi del quadro soffrono in
quanto obbligati all'immobilità. Secondo il mio punto di vista, Godard in queste serie di
sequenze regala uguale dignità sia alla magnificenza del quadro di Rembrant,
capolavoro della ritrattistica che cattura la dignità e l'unicità di ogni individuo nel
gruppo, sia a Isabelle l'operaia, di cui il regista ne farà un ritratto che, come Rembrandt,
illumina la sua individualità.
Nella ricomposizione di Il tre maggio 1808 di Goya, la figura di Isabelle è
ricondotta al quadro nel momento in cui la donna si sdraierà sul divano, lo stesso che
sarà poi utilizzato nella scena successiva e inserito nel tableau vivant. Ma Il tre maggio
1808 è anche una rappresentazione profondamente commovente della esecuzione di
inermi contadini spagnoli da parte dell'esercito francese. Godard coglie questo
significato per creare un drammatico confronto tra gli uomini senza potere e quelli con
il potere; difatti la scena immediatamente precedente è una lunga sequenza di Isabelle e
altre operaie riunite a casa sua per discutere la formazione di un sindacato dei lavoratori.
Le donne decidono di scioperare creando lo slogan: «Si dovrebbe lavorare per amore,
l'amore al lavoro». Queste giovani donne che pensano che una dichiarazione circa la
dignità del lavoro farà la differenza nella lotta tra lavoratori e proprietari, saranno infine
schiacciate dallo strapotere del capo. Le donne vengono quindi associate ai contadini di
179 Liandrat-Guigues Suzanne, Leutrat Jean-Louis (tr. it. di Arecco S.), Godard alla ricerca dell'arte
perduta, Le Mani, Recco, 1998, p.70.
86
Goya, in quanto entrambi si trovano nella loro impotenza totale.
Godard utilizza il dipinto l'Assunzione di El Greco per concludere il rapporto
metaforico con Isabelle: la sequenza della ricostruzione dell'Assunzione viene associata
all'incontro finale tra Isabelle e Jerzy. Godard giustappone immagini di Isabelle ad
immagini della Vergine Maria, creando un nesso tra la sofferenza innocente per la
dignità del lavoro dell'operaia e la dimensione religiosa della pittura sublime di El
Greco.
Possiamo quindi affermare che il rapporto tra i vari quadri presenti in Passion è
talmente stretto, che ognuno di essi vive in funzione del suo successivo, ma allo stesso
tempo sono anche le differenze peculiari di ogni quadro a distinguerli e ad inserirli in
questa serie di tableaux vivants. Godard associa per ogni quadro una colonna sonora che
intensifica notevolmente la dignità e la grandezza delle immagini visive. Proprio come
vengono utilizzati i capolavori pittorici per commentare e nobilitare la figura di Isabelle,
così Godard utilizza brillantemente capolavori di musica classica per perfezionare le
sequenze di immagini della protagonista e dei tableaux vivants. In Passion vi sono
anche suoni naturali, come quello del clacson, i rumori sul set del film o della fabbrica,
che insieme rafforzano il senso di confusione e di caos nel pubblico. L'uso della colonna
sonora, oltre alla manipolazione del discorso in relazione all'immagine, fonde
sottilmente suoni che aumentano drammaticamente il significato del film. Nel cinema
narrativo tradizionale il dialogo è sincronizzato con le immagini dei personaggi che
parlano, in Passion invece Godard crea spesso le sequenze in cui l'immagine visiva e il
dialogo non sono correlati. L'utilizzo della non-sincronizzazione è usato come mezzo
per intensificare, ancora una volta, la perplessità nel pubblico sul significato di ciò che
stanno vedendo e ascoltando. Il cineasta rompe il magico incantesimo del cinema e
costringe il pubblico ad essere consapevole del fatto che stanno guardando un film
senza esserne pienamente immersi.
2.5.3 “Passion”, le travail et l'amour. Introduction à un scènario. Troisième état du
scénario du film “Passion”
Lavoro precedente al film Passion, è un cortometraggio dal titolo tradotto in
87
italiano: “Passion”, il lavoro e l'amore. Introduzione ad una sceneggiatura. Terza
versione della sceneggiatura del film “Passion” (1981). Il titolo stesso del lavoro fa
supporre la possibile esistenza di due versioni inedite.
Troisième état du scénario du film “Passion” è un film con un'identità non del
tutto definita, che può essere identificato come una serie di appunti e di schizzi
preparatori al film finale. Il cortometraggio è composto da dialoghi ed interviste con i
possibili collaboratori del film, si presentano personaggi, temi, problemi, situazioni e si
mostrano riproduzioni di quadri.
Il cortometraggio rivela che l'idea iniziale di Godard era quella di ambientare la
trama di Passion a Los Angeles, con lo scenografo di Coppola Dean Tavoularis; nel film
questo particolare emerge nel momento in cui il regista afferma «Hollywood non è
lontana» e appaiono le inquadrature dello studio di Coppola. Seguono alcune interviste
agli attori: Isabelle Huppert, Jerzy Radziwilowcz, Hanna Schygulla ed infine l'attore
svizzero Jean-Luc Bideau, che con molta probabilità doveva impersonare Michel
Boulard, ruolo che venne poi interpretato dall'attore Michel Piccoli. I passaggi da
un'intervista ad un'altra o da una inquadratura ad un'altra vengono risolti con il
procedimento della dissolvenza: ad esempio un'inquadratura di una fabbrica si dissolve
in un quadro di Poussin o l'intervista a Jean-Luc Bideau si dissolve in un Goya. Si passa
poi a mostrare una conversazione tra Godard e lo sceneggiatore Jean-Claude Carrière,
dove i due discutono sul soggetto: «Godard pensa a piccole storie per ogni personaggio
mentre i suggerimenti di Carrière sono molto più strutturati e romanzeschi»180. La
sequenza è alternata ad inquadrature nelle quali si mostra Godard intento ad incollare
riproduzioni di quadri su un album mentre parla della preparazione del film, dei ruoli e
dei costi. Il cortometraggio si conclude con l'inquadratura dello studio di Coppola e
l'immagine di un aereo che vola via, la stessa che, come abbiamo visto, apre il film
Passion.
Forse quell'aereo che vola via è lo stesso che pochi mesi dopo ha riportato Godard
in Europa per produrre il film, forse egli voleva dimostrare che il suo posto non è
Hollywood e l'immagine di un aereo in cielo è l'inquadratura più eloquente per
dimostrarlo e probabilmente non è nemmeno casuale l'immagine che il cineasta sceglie
180 Farassino Alberto, Jean-Luc Godard, Il Castoro, Milano 2007, p.179.
88
per concludere il suo corto, in quanto, a mio avviso, ne dà, coscientemente, o meno il
senso finale del suo lavoro e l'inizio del lungometraggio successivo.
Passion verrà quindi girato senza lo scenografo Dean Tavoularis, ma anche senza
lo sceneggiatore Jean-Claude Carrière e «la vera sceneggiatura sarà fatta nel corso delle
riprese, poiché neanche un video può scrivere o pre-scrivere un film»181. Anche i
tableaux vivants non verranno riprodotti tutti: il quadro di Poussin non vi sarà e inoltre
dal corto si intuisce che fra i quadri da ricostruire c'era La caduta dei dannati (1621) di
Rubens, «cinquecento corpi nudi che cadono nel vuoto»182. La scena fu allestita e anche
filmata in video ma, si può intuire, in maniera poco soddisfacente al punto che Godard
non la usò nemmeno per la videosceneggiatura.
2.5.4 Scénario du film Passion
La nascita della sceneggiatura Godard la racconterà a film concluso con il video
Scénario du film “Passion” (1982), realizzato subito dopo la fine delle riprese per conto
della Televisione della Svizzera Romanda. Godard racconta e ci spiega come guardare il
suo film, seguendo cioè i rapporti tra i materiali del cinema, le luci, i gesti, i suoni e gli
attori. Il testo di Scénario du film “Passion” si basa sulle infinite possibilità di
svolgimento della storia di Passion mostrando come lo scenario, cioè il soggetto e la
sceneggiatura del film, sia divenuto realizzabile nel film. Partendo da una situazione che
richiama il senso dell'oblio, la spiaggia bianca, e la memoria, cioè il mare. Lo scenario
coincide con questa incisione sulla memoria e il film ne è il compimento.
Scénario du film “Passion” si apre in un ambiente intimo e poco illuminato di
uno studio-video, nel quale si staglia uno schermo bianco, dove successivamente
verranno proiettate alcune scene del film Passion. In controluce appare la sagoma di
Jean-Luc Godard con i capelli arruffati; poco dopo il regista si volta, saluta “amici e
nemici”, e inizia ad argomentare introducendo il tema della trasmissione: tratterà di una
sceneggiatura che ha voluto prima vedere e poi scrivere. «Perché prima si vede il
mondo e poi lo si scrive: Godard afferma che la scrittura è stata inventata dai mercanti e
la sceneggiatura dai contabili. Prima di Madame Bovary ci sono stati i conti della spesa
181 Farassino Alberto, Jean-Luc Godard, Il Castoro, Milano 2007, p.180.
182 Ivi.
89
[…] e prima degli sceneggiatori c'è stato Sennett, che non ne aveva bisogno […] la
sceneggiatura è creare una possibilità»183. Questa espressione ricorda, in qualche modo,
un'altra frase affermata da Jerzy nel film Passion: «le storie bisogna viverle, prima di
inventarle». La scrittura di cui parla Godard in Scénario è forse riconducibile al senso di
ricerca di una storia di Passion, personalmente l'ho colta come una sorta di
giustificazione che Godard offre a Jerzy nel rifiutarsi di trovare una storia, una
narrativa, al suo film.
Il video continua e sempre di spalle contro lo schermo bianco, Godard agita le
braccia e si muove creando delle sagome, ricorda la pagina bianca di Mallarmé «è tutta
bianca e non ci sono tracce di niente […] la scrittura può essere poi una poesia di
Rimbaud o una cartolina con baci da Marsiglia o ancora, una frase di Ti amo, Ti amo;
ma prima di tutto bisogna vedere»184. Mentre afferma questo, Godard mima il gesto
dello scrivere sullo schermo bianco (Fig.15), come se esso rappresentasse un foglio di
carta e il regista il mezzo con cui trasmettere le parole. Continua: «La pagina bianca è
come il mare, ma bisogna inventare le onde (vagues), i movimenti. I movimenti sono i
personaggi (appare sullo schermo Hanna che corre) il film può essere una tempesta, che
va e viene...»185.
Il discorso viene momentaneamente interrotto per aprire un'altra argomentazione:
«Gli speaker della televisione invece parlano con le immagini alle spalle (viene
mostrato un telecronista). Alla tv non si vedono le immagini, ma sono le stesse
immagini che ci vedono, da dietro, e che ce lo mettono nel didietro […]. Vedere è un
lavoro. Il film dovrà dunque far vedere il lavoro (nello schermo si trasmettono immagini
di Isabelle, successivamente Godard seduto sulla sedia davanti allo schermo si alzerà
per rivolgere all'immagine di Isabelle un bacio). Il bianco è la purezza […] e Isabelle
sarà una pura e dura»186.
Sullo schermo compaiono alcune riprese di una riunione della troupe durante la
lavorazione del film: Godard racconta le sue difficoltà nel lavorare con gli attori, in
quanto non riescono ad immaginare i loro personaggi a partire da un quadro (sullo
183 Farassino Alberto, Jean-Luc Godard, Il Castoro, Milano 2007, p.180.
184 Farassino Alberto, op.cit., p.180.
185 Farassino Alberto, op.cit., p.180.
186 Farassino A., op.cit., p.180.
90
schermo appare un Tintoretto per poi dissolversi in un immagine di Isabelle) o da una
musica (si sente il Requiem di Mozart).
Dopo questa digressione, la storia della nascita del film Passion continua:
«Qualcuno arriva. L'azione comincia. Come nei film americani (vengono trasmesse le
immagini di Jerzy in auto) arriva a cercare lavoro in una specie di superproduzione, un
po' come ad Hollywood. Nessuno conosce chi è o da dove viene. È uno straniero, un
esule, come lo sono io nel cinema mondiale. […] Léo Ferré canta e recita la poesia di
Villon, Frères humains: ma se Jerzy è un fratello sarà non un attore ma un regista» 187.
Godard cerca di abbracciarlo, sullo schermo.
Continua il regista: «Vedere una sceneggiatura è un lavoro particolare. Bisogna
fare ricerche, inchieste. Spielberg non fa inchieste nel cosmo per i suoi film» 188. Godard
le ha fatte le inchieste, in fabbrica, scoprendo che i gesti del lavoro assomigliano a
quelli dell'amore. «Gesti, movimenti, amore: ci sarà un movimento di sciopero, ci sarà
dell'amore»189. Scorrono nello schermo altre scene del film, tra cui alcune che non
furono mai utilizzate.
Cita poi Malraux: «l'arte è come un incendio, nasce da ciò che brucia» 190, mentre
Godard si accende un sigaro. Parla poi di Delacroix e dei suoi fiori per passare poi a
parlare del concerto di Dvorák. Il regista continua con una serie di associazioni, di
musiche, immagini e parole facendo nascere da questi accostamenti storie e significati.
Nel finale, ritroviamo Godard sempre di fronte allo schermo bianco che allarga
con forza le braccia come se lo stesse abbracciando e mentre la musica sale, inizia ad
elencare tutto ciò che ha trovato: «ed ecco la luce ed ecco i soldati, ecco i padroni ed
ecco i bambini, ecco la luce, ed ecco la gioia, ed ecco la guerra, ecco la notte, ecco la
vergine, ecco la grazia, ecco la luce […] ecco l'avventura ed ecco la finzione, ecco il
documentario ed ecco il movimento, ecco l'immagine ed ecco il suono, ed ecco il
cinema, ecco il cinema, ecco il cinema...»191, per chiudersi con la scena dell'aereo che
sale in cielo.
187 Farassino A., op.cit., p.181.
188 Farassino A., op.cit., p.181.
189 Farassino A., op.cit., p.181.
190 La frase è tratta da Scénario du film Passion (traduzione mia).
191 Farassino A., op.cit., p.181.
91
Analizziamo per un momento la funzione del testo di Passion: essa è sia
centripeta che centrifuga insieme, ovvero il testo richiede di essere interpretato sia in
base ai legami che si stabiliscono tra i materiali, sia nella proiezione di ogni materiale
verso le rispettive serie culturali da cui derivano. Il testo porta lo spettatore ad
interrogare il posto di Rembrandt, di Goya o Delacroix nella storia dell'arte e mantiene
questo “gioco” per tutta la durata del film. Per esempio, in una scena uno dei personaggi
guarda un libro con una bambina e afferma: «è Delacroix che ha detto tutto ciò. Ha
cominciato col dipingere dei guerrieri, poi dei santi, di li è passato agli amanti e poi alle
tigri e alla fine della sua vita ha finito col dipingere dei fiori» 192; questo è un chiaro
rinvio al di fuori del testo, poiché c'è un rimando a Delacroix in quanto pittore del
sublime e della luce. Questo è un esempio della funzione centrifuga dei materiali nel
film, lo spettatore è perciò costretto a proiettare all'esterno del film stesso i materiali per
riuscire a dare un senso al film.
Questa funzione centrifuga e centripeta dei materiali trattate nel film Passion,
vengono riprese e si fondono perfettamente in Scénario du film “Passion”, dove
Godard di spalle commenta le immagini dei film mostrati; «in questi commenti domina
il principio dell'associazione delle parole secondo un'analogia di suoni, che stabilisce a
sua volta analogie sul piano dei significati»193. Per esempio, in una scena del video-film
scorrono le immagini di Michel, cui le operaie tentano di impedire l'ingresso nella
fabbrica, che grida: «Andate, al lavoro! Voi, non avete niente da fare qui!», poi
riferendosi a Isabelle afferma: «Io vi ho ben avuta in ogni caso!». A questo punto
Godard enuncia: «Io ti amo, tu mi ami, quando mi ami, quando mi amerai, ti ho ben
avuta, avere, il padrone... ha un avere, avere qualcosa in banca, avere qualcosa a che
vedere con qualcuno, non lasciarsi avere, il padrone ha una moglie, la moglie non vuole
lasciarsi avere»194. Queste associazioni richiamano i temi del film, il nesso tra amore e
lavoro e quello tra amore e proprietà. Questi temi vengono riproposti da Godard tramite
associazioni mentali secondo un movimento che coincide con il medesimo del film,
ovvero associare immagini e suoni tra loro. Inoltre la scelta della voce off appare come
192 Dialogo del film Passion (1982).
193 De Vincenti Giorgio, Il concetto di modernità nel cinema, Lampi di Stampa, Milano, 2000, p.119.
194 Citato in De Vincenti Giorgio, Il concetto di modernità nel cinema, Lampi di Stampa, Milano, 2000,
p.120. Il dialogo in francese è di traduzione mia.
92
l'opzione che è in grado di esprimere al meglio le associazioni su cui Passion è basato,
essa assolve la funzione di commento dei materiali culturali depositati nella nostra
cultura e per questa via introdotti nel film, secondo un criterio che viene enunciato
esplicitamente nell'opera.
Questo ci rimanda al tema e all'elaborazione del montaggio di Ejzenštejn, per dare
vita ad un accostamento tra i due registi che sottolinei l'integrazione della tradizione del
cinema di montaggio con le svolte del cinema moderno195. Questa “realtà” che lo
caratterizza non riguarda solo la realtà fenomenica, ma anche quella costituita dai
materiali culturali su cui il cinema lavora; su questo lavoro a partire dai materiali
culturali esistenti ritroviamo le connessioni tra Godard e Ejzenštejn. Nel caso di
Passion, questi materiali culturali si incanalano in un unico tema: quello della
narrazione. Il modello del film-saggio, descritto in precedenza da De Vincenti, si
presenta così come un modello che esibisce un'operazione critica svolta su materiali
preesistenti; questo processo è in stretto contatto con il concetto di attrazione di
Ejzenštejn. Per entrambi i casi «si tratta di isolare un elemento di una serie culturale
rispetto alla serie stessa, allo scopo di renderlo produttivo rispetto a nuove possibili
significazioni [...] l'operazione di straniamento è solo il processo iniziale per
l'inserimento in un contesto nuovo, dove l'elemento colto da altre serie possa stabilire
nuovi rapporti significanti»196. Ma la differenza del cinema moderno dalla esperienza
ejzenštejniana si incontra nel caso di Godard nella prevalenza dell'aspetto centrifugo,
ovvero l'apertura del testo, il rinvio esplicito ad altro da sé, aprendo il cinema alle altre
serie e questo diviene per il regista il vero oggetto di straniamento. Se nel modello
ejzenštejniano la ricerca si incentra su un unico testo, nel cinema moderno e in quello di
Godard questo corrisponde ad un movimento duplice, un'oscillazione tra il testo al suo
esterno e viceversa. Ejzenštejn e Godard si interrogano entrambi sul senso e sui processi
della significazione cinematografica e non solo, ma nel nostro autore questa potrebbe
anche non esserci ed è tale il tema principale di Passion: l'interrogativo sulla possibilità
di raccontare storie.
195 Il cinema moderno è nato in opposizione al montaggio classico hollywoodiano per ricercare una sorta
di indipendenza dei materiali “reali” rispetto alle strutture drammatiche e a quelle narrative. Qui cit.
in De Vincenti Giorgio, op.cit. p.120.
196 De Vincenti Giorgio, Il concetto di modernità nel cinema, Lampi di Stampa, Milano 2000, p.122.
93
APPARATO ICONOGRAFICO
Fig.1 Ferdinand (Jean-Paul Belmondo) legge il libro Storia dell'arte di Élie Faure
(Pierrot le fou, 1965).
Fig.2 Paul travestito da Pierrot di Picasso (Pierrot le fou, 1965).
94
Fig.3 La blusa rumena di Matisse (Pierrot le fou, 1965).
Fig.4 Paul travestito da Pierrot di Picasso (Pierrot le fou, 1965).
95
Fig.5 Bagnate (Nu féminin) di Renoir (Pierrot le fou, 1965).
Fig.6 Marianne (Anna Karina) tra Jacqueline coi fiori e Ritratto di Sylvette sulla
poltrona verde di Picasso (Pierrot le fou, 1965).
96
Fig.7 Fotogramma di apertura del film Passion (1982), un jet che squarcia il cielo
azzurro.
Fig.8 Tableau vivant del dipinto Le fucilazioni del 3 maggio 1808 di Francisco Goya
(Passion, 1982).
97
Fig.9 Tableau vivant del dipinto La Maja Desnuda di Francisco Goya (Passion, 1982).
Fig.10 Tableau vivant del dipinto La famiglia di Carlo IV di Francisco Goya (Passion,
1982).
98
Fig.11 Tableau vivant del dipinto La bagnante di Valpinçon di Jean-Auguste-Dominique
Ingres (Passion, 1982).
Fig.12 Particolare del tableau vivant del dipinto L'ingresso dei crociati a Costantinopoli
di Eugène Delacroix (Passion, 1982).
99
Fig.13 Particolare del tableau vivant del dipinto L'ingresso dei crociati a Costantinopoli
di Eugène Delacroix (Passion, 1982).
Fig.14 Tableau vivant del dipinto L'imbarco per Citera di Antoine Watteau (Passion,
1982).
100
Fig.15 La sagoma di Jean-Luc Godard in Scénario du film “Passion” (1982).
101
CAPITOLO III
CINEMA E MUSICA: PRÉNOM CARMEN
La questione del rapporto tra cinema e musica, incentrato sia sul “supporto” delle
immagini semoventi, sia come elemento di congiunzione semantica delle immagini
stesse, ha costituito uno dei temi ricorrenti sul piano pratico e su quello teorico della
produzione e della realizzazione dei film e della musica per film. Nonostante il cinema
sia nato al di fuori di ogni influenza diretta dalla musica, in quanto il suo scopo era
quello di riprodurre la realtà fenomenica, la natura stessa del suo linguaggio,
principalmente ritmico, l'ha condotto a stringere un rapporto con la musica,
principalmente nato per esigenze estetiche di accompagnamento. Prenderemo ora in
analisi con maggiore specificità le caratteristiche tecniche ed estetiche della musica da
film, cercando di dare anche una lettura storica e critica in senso generale.
3.1 Le tipologie della musica da film
Gli studiosi di musica per film da sempre hanno ritenuto necessario individuare la
differenza fra la musica di commento e quella che si vede eseguita sullo schermo. Negli
anni le due categorie sono state individuate in vari modi: rispettivamente, musica dello
schermo e musica della fossa197; musica funzionale e musica realistica ed infine, i
termini tecnici più comunemente usati, musica extradiegetica e diegetica.
A queste denominazioni, il teorico del cinema Sergio Miceli, nel libro La musica
nel film198, ne aggiunge delle altre che definisce attraverso l'enunciazione della teoria dei
livelli, sviluppata a partire dallo studio sul rapporto tra immagine e suono. Miceli
individua il livello interno, ovvero la musica diegetica, il livello esterno, ovvero la
musica extradiegetica, a cui però ne aggiunge un terzo denominato livello mediato. I tre
livelli possono essere usati separatamente oppure liberamente concatenati tra loro nello
stesso film.
197 Intesa come nell'opera, la fossa orchestrale che sta davanti al palcoscenico e rende l'orchestra visibile
al pubblico. Michel Chion la definisce musica da buca nel testo L'audiovisione, Lindau, Torino 1997,
p.74.
198 Miceli Sergio, Musica nel film, Arte e artigianato, Discanto editore, Fiesole-Firenze 1982, pp. 223230.
102
Si parla di «livello interno» quando la componente musicale è visibile allo
spettatore all'interno dell'immagine filmica, ad esempio con una radio accesa o con un
qualsiasi altro dispositivo sonoro, purché la musica sia riprodotta e lo sia dal vivo. La
natura specifica del «livello interno» permette allo spettatore di assecondare la casualità
della presenza musicale, la quale può essere svelata in un momento preciso o casuale
della narrazione, in base all'interpretazione che l'autore vuole trasmettere dell'evento
narrato, oppure essa può subire uno slittamento progressivo.
Il «livello esterno» si basa sull'implicito accordo tra il regista e lo spettatore,
incentrato sull'uso della musica come finzione cinematografica, per cui l'intervento
dell'orchestra in una scena in cui essa fisicamente non vi può essere non risulterà
irrealistico, ma verrà automaticamente accettata, poiché sia il pubblico che l'autore
mirano all'identificazione diretta con i personaggi. La principale funzione della musica
del «livello esterno» è quella di commento al film e la sua riuscita ottimale dipende
dalle risorse espressive impiegate per la realizzazione del fine. Il grado di
partecipazione del regista nel «livello esterno» viene di conseguenza distinto in “critico”
e “acritico”: la partecipazione “critica” del regista implica un uso linguistico divergente
fra musica e immagine, che obbliga lo spettatore a dover partecipare attivamente, con
un maggior impegno interpretativo, per poter riuscire a comprendere i significati remoti
del regista; la partecipazione “acritica” viene identificata con ciò che viene definito in
letteratura il “punto di vista del narratore onnisciente”, il quale tende a separare
nettamente la funzione del regista da quella dello spettatore, il cui ruolo è di mera
contemplazione.
Il «livello mediato» unisce le caratteristiche degli altri due livelli, ma allo stesso
tempo le nega. Attraverso la rottura della regolarità sintattica, stilistica oppure il ricorso
alla onomatopea conduce il regista a formulare uno speciale Leitmotiv musicale199. La
musica di ambiente è quella più facilmente riconoscibile in questa categoria (ad esempio
una panoramica del golfo di Napoli accompagnata dai mandolini che suonano); ma vi
rientrano anche la musica di sottofondo (ad esempio la musica di un ascensore) e la
musica che definisce un'epoca (il sinfonismo romantico dell'Ottocento) o l'impiego di
199 Il leitmotiv è un tema musicale ricorrente associato ad un personaggio, un sentimento, un luogo,
un'idea, un oggetto. Il compositore a cui si associa più spesso il leitmotiv è Richard Wagner che nel
ciclo L'anello del Nibelungo ha utilizzato 74 leitmotiv.
103
musiche classiche che creano l'effetto di straniamento nello spettatore; quest'ultima
tipologia verrà approfondita in seguito200.
Anche Michel Chion successivamente201 prende una posizione analoga a quella di
Miceli, sostituendo il termine «livello mediato» con «presenza acusmatica», ritenendola
la più importante tra le categorie, in quanto rappresenta l'unico uso del sonoro tipico del
cinema. Difatti, gli altri generi di impiego della musica nel film hanno origine in forme
spettacolari della tradizione: «la voce sincrona rimanda al teatro; la musica per film
rimanda al teatro d'opera, al music hall, al melodramma; mentre la voce di commento
proviene dalla lanterna magica, dalla proiezione commentata»202. La situazione d'ascolto
acusmatico è quella in cui si sente il suono senza vederne la fonte di provenienza 203.
Solitamente sono suoni acusmatici quelli della radio, di un disco o di un telefono, ma vi
sono anche suoni acusmatici naturali di cui non si vedono la causa. Questi tipi di suoni
attirano l'attenzione dello spettatore su caratteri sonori che l'immagine nasconde; ad
esempio si può udire una voce, acusmatica, senza vedere il personaggio per poi
visualizzarlo in seguito creando un effetto di suspence e attesa.
Un punto focale dell'argomentazione di Chion 204, di nostro particolare interesse, è
l'identificazione di alcuni effetti emotivi emersi nello spettatore durante l'ascolto di una
determinata musica associata ad una specifica immagine filmica. Il primo è l'effetto
anempatico, che si ottiene attraverso la contrapposizione audiovisiva tra suono e
immagine (ad esempio, associando una musica allegra ad una scena di omicidio) che
non permette allo spettatore di immergersi appieno nella scena, cosa che invece accade
con l'effetto empatico in cui la musica crea un'emozione precisa in rapporto alle
immagini mostrate. Questa estetica contrastante la ritroveremo nei film degli artisti
sovietici e in Jean-Luc Godard.
L'acusmatizzazione del non-mostrabile avviene quando un personaggio che
vediamo sullo schermo sarà ucciso o si ucciderà ma al momento dello sparo, il
montaggio ci porterà in un altro luogo e solo il suono ci dirà cosa è accaduto, senza
200 Per questi esempi si è fatto riferimento alla definizione di Plenizio di musica illustrativa, la quale
corrisponde, secondo l'autore, al livello mediato di Miceli. Per approfondimenti Plenizio Gianfranco,
Musica per film: profilo di un mestiere, Guida, Napoli 2006, pp.81-84.
201 Chion Michel, L'audiovision, Nathan, Paris, 1994; trad. it. L'audiovisione, Lindau, Torino 1997.
202 Chion Michel, La voce nel cinema, Ed. Pratiche, Parma 1991, p.15.
203 Chion Michel, Un'arte sonora, il cinema. Storia, estetica, poetica, Kaplan, Torino 2003, p.335.
204 Chion Michel, Un'arte sonora, il cinema. Storia, estetica, poetica, Kaplan, Torino 2003, pp. 158-161.
104
mostrarcelo.
L'utilizzazione
simbolica
dei
rumori,
avviene
quando
un
suono
non
necessariamente somiglia a ciò che dovrebbe rappresentare, ma è il contesto che
identifica ciò che esso rappresenta e il suo significato più nascosto. Ad esempio, l'udire
un colpo di tuono senza che vi sia apparentemente un temporale fa presagire che nella
scena è avvenuto o sta per avvenire un cambiamento, una scoperta che potrà avere
effetti sulla storia in corso.
Il suono soggettivo avviene quando si localizza in un personaggio. Lo spettatore
sente i medesimi suoni del personaggio e se, ad esempio, quest'ultimo avvicina le mani
alle orecchie per tapparsele, anche in sala il suono sarà ridotto di conseguenza.
La retorica della confessione dei mezzi avviene attraverso la dimostrazione visiva
di quelle convenzioni musicali tacite tra regista e spettatore di cui abbiamo parlato in
precedenza. Ad esempio, nei film di Woody Allen, Mel Brooks, Jerry Lewis ed in JeanLuc Godard, i personaggi interpellano la musica della fossa che non dovrebbero udire e
si mostrano consapevoli dell'artificialità che caratterizza gli effetti sonori all'interno del
film.
La punteggiatura significante tramite il suono si ha quando momenti particolari di
una sequenza vengono sottolineati e accentuati tramite il suono. Ad esempio, esso può
aumentare di tonalità in corrispondenza dell'atto di una donna nel togliersi i vestiti, con
lo scopo di enfatizzare il momento sensuale della scena.
Qualsiasi argomentazione sul suono al cinema, come si è visto da questa breve
trattazione, non può escludere il suo rapporto con l'immagine. La percezione visiva
influenza quella sonora e viceversa ed è per questo motivo che un'immagine muta di
significato in base all'associazione che ha con il suono. Analizzeremo ora alcune teorie
che negli anni hanno definito la musica da film.
3.2 Teorie e critica della musica per il cinema
La prima questione divenuta oggetto di un dibattito teorico risale ai primi anni
Dieci del Novecento e tratta dell'opportunità della musica nel cinema. Fin dagli esordi
105
del cinema il pubblico percepiva l'esigenza di un accompagnamento musicale allo
scorrere delle immagini in movimento. Nei primi scritti l'idea che la musica potesse
essere stata introdotta per neutralizzare e coprire il rumore del proiettore è una costante;
ad esempio il compositore Frederick Shepherd Converse disse a riguardo: «all'inizio
[…] la musica era impiegata per coprire gli sgraziati rumori delle macchine che
proiettavano i film. Non c'era nessuna preoccupazione per la sua attinenza o meno con il
dramma presentato sullo schermo. Era solo per distogliere l'attenzione da questo
sgradevole ed inevitabile fatto concomitante al film»205. Il problema del rumore da
coprire tramite la musica ha valore per lo più storico e difficilmente è documentabile la
sua veridicità, per questo motivo tale problematica si affianca a ragioni più profonde, di
carattere psicologico e artistico, che hanno spinto il cinema a usufruire della musica.
Il dibattito sulle ragioni della necessità della musica da film si arricchì
progressivamente e alcuni letterati espressero motivazioni di natura percettiva
all'esigenza della presenza musicale in sala, come ad esempio Robert Musil, che nel
1930 scrive nel volume Der Mann ohne Eigenschaften: «Ma lo spettacolo del puro
movimento è così magico che l'uomo non può sopportare senza difesa; lei può
osservarlo al cinematografo, quando manca la musica. E la musica è movimento
interno, che eccita la fantasia motrice»206. Ernst Bloch nel 1913 attribuisce alla musica il
compito di compensare l'assenza delle percezioni sensoriali, solitamente associate al
movimento, agendo in loro vece207; lo psicologo Hugo Münsterberg nel 1916 riteneva
che la musica «non racconta la trama né prende il posto delle immagini, ma
semplicemente rafforza il contesto emotivo. È probabile che quando l'arte del cinema
avrà ottenuto il suo riconoscimento estetico quei compositori cominceranno a scrivere la
musica per un bel film con lo stesso entusiasmo con cui scrivono musica in altre
forme»208.
Si dissente anche la qualità e lo stile di musica da utilizzare come
accompagnamento alle opere cinematografiche. Ricciotto Canudo nel 1911 pubblicò il
205 Music and the Motion Picture, in “Arts”, Ottobre 1923, p.210; qui citato in Simeon Ennio, Per un
pugno di note. Storia, teoria, estetica della musica per il cinema, la televisione e il video, Rugginenti,
Milano 1995, p.18.
206 Musil Robert, L'uomo senza qualità, Einaudi, Torino 1962, p. 409.
207 Bloch Ernst, La nascita della musica nello spirito del cinema, trad. it., in “Filmcritica”, XXVIII
(1977), nn. 279-280, pp.391-392; qui citato in Miceli Sergio, op.cit., p.506.
208 Münsterberg Hugo,(ed. ita) Film. Il cinema muto nel 1916, Pratiche, Parma 1980, p.111.
106
Manifesto delle sette arti, in cui previde le potenzialità del linguaggio cinematografico
in quanto sintesi delle arti dello spazio e del tempo: le arti plastiche con la musica e la
danza, un'unione di cinema e musica che viene considerato come luogo di
reincarnazione tecnica del Gesamtkunstwerk wagneriano. Nel manifesto, Canudo
condannava l'abitudine dell'accompagnamento musicale formato da una selezione di
brani messi insieme e proponeva invece l'uso di partiture scritte appositamente per un
film, nelle quali il compositore era libero di esprimersi e produrre secondo il suo stile
personale e allo stesso tempo rispettava le eventuali esigenze filmiche. Secondo Canudo
poi, il cinema doveva distaccarsi dai legami con la letteratura e il teatro, il quale nulla
può avere in comune con un film che fissa in modo definitivo le sue immagini su
pellicola. La differenza fondamentale fra i due sta nel fatto che il teatro rappresenta
mentre il cinema suggerisce, raggiungendo anche con il silenzio ritmato dei gesti
sensazioni che altrimenti solo la musica potrebbe dare209.
Il musicologo Sebastiano Arturo Luciani, nel 1920, nel testo Verso una nuova
arte: il cinematografo ipotizzò addirittura un ribaltamento dei rapporti, in cui il film
diviene “commento” alla musica, ovvero l'immagine si associa e viene realizzata in base
alla musica e non viceversa: «Ora la musica può determinare il gesto, non seguirlo, può
evocare delle immagini, non tradurle in suono. È […] dal mondo dei suoni che si sale in
quello delle immagini. E se si tenta il contrario accade che la musica non integra più la
visione, ma o la disturba o ci distrae da essa. […] Ora perché questa antitesi non si
stabilisca; perché la musica non disturbi la visione […] è necessario che il musicista non
la componga cercando di seguire l'azione già realizzata, bensì ispirandosi alla trama
generale del soggetto, i cui particolari devono essere determinati e suggeriti dalla
musica stessa»210.
Con l'avvento del sonoro si aprì un dibattito internazionale nel quale numerosi
registi e critici presero posizione in favore o contro il sonoro, riaprendo allo stesso
tempo la discussione, che non fu mai totalmente chiusa, sull'artisticità del mezzo
209 Citato in Mattuchina Gudula, Musica sullo schermo: i primi cent'anni di storia della colonna sonora,
Campanotto editore, Udine 2001, p.47.
210 Luciani Sebastiano, Verso una nuova arte. Il cinematografo, Ausonia, Roma, 1920, pp.46-47; qui
citato in Simeon Ennio, Per un pugno di note. Storia, teoria, estetica della musica per il cinema, la
televisione e il video, Rugginenti, Milano 1995, p.30.
107
filmico. Ne citeremo ora alcuni, tra i più importanti, per aver apportato opinioni e
giudizi a cui ancora oggi si fa riferimento per lo studio dei rapporti tra immagine e
suono.
L'avvento del sonoro incontrò una forte ostilità tra i cineasti sovietici, i quali
temevano che il dialogo, più precisamente il parlato, avrebbe irrimediabilmente distrutto
i risultati artistici raggiunti nell'epoca del muto. Un punto di vista più elastico si ebbe
con Sergej Michajlovič Ėjzenštejn, Vsevolod Pudovkin e Grigorij Aleksandrov, i quali
nel 1928 firmarono un testo teorico-programmatico sul cinema sonoro che chiamarono
Manifesto dell'asincronismo, in cui si denunciava lo sfruttamento, da parte dell'industria
cinematografica, del neonato sonoro per fini esclusivamente commerciali e si sosteneva
una possibile evoluzione della nuova tecnica nell'impiego contrappuntistico, o secondo
Michel Chion anempatico, del suono rispetto all'immagine. Secondo i tre russi il suono
doveva essere inteso come elemento di montaggio, ovvero «assioma su cui si basa lo
sviluppo del cinema»211 e componente in grado di risolvere problemi espressivi
irrisolvibili con i mezzi visivi, dichiarando che «solo l'impiego del suono in
contrappunto con un pezzo di montaggio offre nuove possibilità di sviluppare e
perfezionare il montaggio. […] Solo questo metodo di montaggio può produrre l'effetto
voluto e, col tempo, porterà alla creazione di un nuovo contrappunto orchestrale tra le
immagini visive e le immagini sonore. La nuova scoperta tecnica non è casuale nella
storia del film, ma è lo sbocco naturale dell'avanguardia cinematografica. E, in virtù di
questa scoperta, sarà possibile sormontare molti ostacoli altrimenti insuperabili»212.
Perché il suono venga utilizzato come un nuovo elemento del montaggio
audiovisivo è necessario che esso sia impiegato in senso contrappuntistico, ovvero,
come scritto nel manifesto, vi deve essere «la non coincidenza tra immagine visiva e
immagine sonora»213, in quanto il sincronismo riduce il cinema ad una semplice
riproduzione del reale.
Vsevolod Pudovkin nel saggio L'attore nel film (1934) analizza il tema
dell'asincronismo basandosi sull'esperienza di regista del suo primo film sonoro,
211 Rip. Pudovkin Vsevolod, La settima arte (1934), trad. it. Editori Riuniti, Roma 1974, p. 133.
212 Rip. Pudovkin Vsevolod, La settima arte (1934), trad. it. Editori Riuniti, Roma 1974, pp. 134-135.
213 Il manifesto è citato interamente in Simeon Ennio, Per un pugno di note. Storia, teoria, estetica della
musica per il cinema, la televisione e il video, Rugginenti, Milano 1995, p.50.
108
Dezertir (Il disertore, 1933) e offre un'interpretazione “pratica” del concetto di
asincronismo applicato alla musica. Prendendo in analisi la sequenza del film in cui una
dimostrazione di lavoratori berlinesi viene sciolta con violenza dalla polizia e si vede,
poco dopo tra la folla, levarsi una bandiera rossa - simbolo della vittoria morale della
dimostrazione - Pudovkin disse:
Se la si considera dal punto di vista dell'effetto emotivo, la sequenza può
essere rappresentata da una curva complessa, con un'ascensione iniziale, una
relativa caduta al centro, un'oscillazione, una profonda caduta e una nuova
ascensione finale.
Alle immagini è raccordato l'andamento del sonoro. Io avevo stabilito di
impiegare, nel sonoro, soltanto il commento musicale. […] Se avessi voluto
associare la musica alla scena […] il sonoro avrebbe avuto all'incirca il
seguente andamento: valzer, durante la visione delle strade di Berlino; una
marcia allegra, durante l'avanzare impetuoso della dimostrazione; quindi un
tema di allarme e di pericolo all'arrivo della polizia; questo tema si dilata,
quando la bandiera cade; fanfare di vittoria quando la bandiera si risolleva;
la musica prende toni di accorata disperazione, mentre gli operai sono
sconfitti e, di nuovo, s'innalza in accordi trionfali, quando la bandiera
riappare al di sopra della folla.
D'accordo con il musicista Šaporin, decisi di seguire un'altra strada. La
musica fu scritta, diretta e incisa, per tutto l'episodio, come un unico brano
di marcia, sicura e vittoriosa, con un crescendo ininterrotto, dal principio
alla fine. […] Nella seconda linea, costruita dalla colonna sonora, noi
abbiamo cercato di tradurre la valutazione soggettiva dello spettatore,
colpito dalla rappresentazione visiva di quella scena. […] Quando appare la
bandiera dei dimostranti, la musica si fa sempre più chiaramente
comprensibile e, sul suo ritmo, lo spettatore segue la massa dei lavoratori,
che marciano per le grandi strade ormai deserte. Accorre la polizia: ha inizio
la battaglia, ma la musica impetuosa, come lo spirito rivoluzionario che
anima i lavoratori, trascina lo spettatore, sale di tono; la bandiera cade e la
musica ha un ritmo crescente; i lavoratori sono sconfitti, e la musica poggia
su note alte. Nel finale il riemergere della bandiera sulla folla coincide con
una “coda” musicale di eccezionale vigore emotivo e conclude con tale
intensità l'episodio e il film214.
Dallo scritto si evince che Pudovkin, oltre all'esemplificazione su un'ipotetica
soluzione “sincronica” di Dezertir, utilizza il concetto di montaggio sonoro, derivante
dal Manifesto dell'asincronismo, come una serie di operazioni attuate in campo sonoro e
che sono contemporanee al processo di montaggio delle immagini.
214 Pudovkin Vsevolod, L'attore nel film, trad. it. (a cura di) Umberto Brabaro, Edizioni dell'Ateneo,
Roma 1947, pp.208-209.
109
«Si può affermare che l'importanza data all'uso contrappuntistico del sonoro da
parte dei tre registi russi fece emergere nel corso degli anni la necessità di uno studio e
di una pratica rivolte alle nuove forme espressive legate a tale scoperta tecnologica,
senza per questo negare la possibilità, utilizzata anche dai tre registi, di un suo uso
sincrono tra immagini e sonoro»215.
Tornando agli scritti teorici e procedendo in senso cronologico, sul versante
opposto Rudolf Arnheim esprime la totale convinzione per cui il cinema si sarebbe
elevato ad una forma artistica solo nel periodo muto 216. Nel suo libro Film als Kunst
(1932) nega al cinema sonoro qualsiasi valore artistico, in quanto avvicinandosi al
naturalismo e al realismo, esso annulla i caratteri peculiari del cinema, ovvero gli
elementi figurativi, come linguaggio espressivo autonomo e quindi l'artisticità del
cinema: «fu precisamente l'assenza del linguaggio che permise al cinema muto di
elaborare uno stile proprio, in grado di condensare la situazione drammatica» 217. Inoltre
Arnheim riteneva che lo spettatore provasse un forte senso di disagio di fronte ad un
film parlato, in quanto la sua attenzione veniva turbata, perché attratta verso due
elementi sensoriali opposti, quello dell'immagine e quello del suono, i quali si sforzano
di esprimere in un duplice modo l'identico soggetto ma, allo stesso tempo, entrambe
sono continuamente disturbate l'una dall'altra218.
Béla Balàzs approfondisce l'argomento dell'arte cinematografica in Der Geist des
Films (1930), libro nel quale elabora la teoria del fonofilm che pone le basi per un uso
corretto del sonoro in funzione all'immagine e al montaggio: «il suono non sarà solo un
compimento dell'immagine, ma diverrà anche oggetto, causa e fase dinamica
dell'azione» ossia «elemento drammatico del film»219. Balàzs ritiene che il suono possa
anticipare
o
prolungare
una
sensazione,
un'emozione
solamente
attraverso
l'asincronismo, la dissociazione tra suono e immagine, trasformandosi così in elemento
creativo e innovativo.
215 Dottorini Daniele (a cura di), Sincronismo e asincronismo, Enciclopedia del cinema Treccani.it, 2004,
http://www.treccani.it/enciclopedia/sincronismo-e-asincronismo_%28Enciclopedia_del_Cinema%29/
(ultima visualizzazione: 11 gennaio 2015).
216 Citato in Miceli Sergio, Musica per film. Storia, estetica. Analisi, tipologie, Lim Editrice, Milano
2009, p.511.
217 Arnheim Rudolf, Film come arte, trad. ita., Il Saggiatore, Milano 1963, p.219.
218 Concetto espresso la prima volta nel 1938 nel saggio “Nuovo Laocoonte”: le componenti artistiche e
il cinema sonoro.
219 Balàzs Béla, Estetica del film, trad. ita., Editori Riuniti, Roma 1975, p.212.
110
Quasi vent'anni dopo, in Der Film. Wender und Wesen einer neuen Kunst (1949),
Balázs ritorna sui temi cardine del suo pensiero e senza scindere il muto dal sonoro
analizza ogni componente che contribuisce a rendere il cinema un’arte nuova: il colore,
il montaggio ed infine tratta degli esiti deludenti del filmopera220 e del suo potenziale e
rivaluta la musica da film:
Fin dagli inizi del cinema si osservò questo fatto: la musica riesce a fondersi
meglio con il film che con il teatro. Essa appartiene al meccanismo stesso di
ogni inquadratura, come la luce e l'ombra. La musica fu necessaria al film
muto, lo è stata e lo è per il film sonoro. […] la musica nel film non svolge
solo una funzione artistica, ma dà anche, alle immagini cinematografiche,
una espressione naturale e viva: rende più significative ed efficaci (nel senso
dell'atmosfera) le immagini stesse, e crea in un certo senso la terza
dimensione. La musica rappresenta il sottofondo, la prospettiva acustica.
Quando diviene fine a se stessa, e perciò si stacca dall'immagine, distrugge
di quest'immagine l'espressione e la vita221.
Il conferire all'immagine filmica una terza dimensione verrà poi ripreso da Pier
Paolo Pasolini in uno scritto del 1973, richiestogli da Morricone per accompagnare
un'antologia discografica222.
Altro testo di rilievo è quello di Kurt London, intitolato Film Music223 (1936), nel
quale afferma che ci fu solo una motivazione per la nascita della musica da film, essa
«iniziò non come risultato di un impulso artistico, ma dal terribile bisogno di qualche
cosa che coprisse il rumore del proiettore», poiché «il noioso rumore disturbava
parecchio il godimento visivo. Istintivamente, i proprietari di cinematografi ricorsero
alla musica, e fu la via giusta, impiegando un suono piacevole per neutralizzarne uno
spiacevole»224. Prende poi le distanze dall'uso e dall'abuso del leitmotiv, ritenendo che
questa tecnica richiedesse ulteriori sviluppi in quanto risultava difficile adattarla alla
frammentazione filmica, affermando poi come il leitmotiv non dovesse mai diventare un
principio strutturante primario nella composizione della musica da film; con questa
220 Secondo Balàzs si tratta di un'opera ideata e composta esclusivamente per il cinema. (Il film.
Evoluzione ed essenza di un'arte nuova, Einaudi, Torino 2002, p.302)
221 Balàzs Béla, Il film. Evoluzione ed essenza di un'arte nuova, Einaudi, Torino 1975, pp.327-328.
222 Il testo è stato riprodotto in Bertini Antonio, Teoria e tecnica del film in Pasolini, Bulzoni, Roma
1979.
223 London Kurt, Film Music, Faber & Faber, Londra 1936.
224 Citato in Rondolino Gianni, Cinema e musica. Breve storia della musica cinematografica, Utet
Università, Torino 1991, p.20.
111
affermazione London affronta quello che sarebbe divenuto uno dei temi ricorrenti del
dibattito successivo225.
Dal secondo dopoguerra si registrò un notevole incremento di contributi teorici, a
partire dal trattato del filosofo Theodor Wiesengrund Adorno e del compositore Hanns
Eisler Komposition für den Film226 (1947), la cui risonanza risulta oggi sproporzionata
rispetto ai suoi meriti reali, poiché secondo Sergio Miceli il bilancio critico ed estetico
effettuato dai due autori appare condizionato da una visione riduttiva del cinema a causa
anche delle due personalità degli autori molto diverse e talvolta contrastanti 227. Dal testo
emerge soprattutto il disappunto nei confronti del sistema produttivo hollywoodiano,
incentrato sulla produzione di film stereotipati in generi per scopi puramente
commerciali con la conseguenza che anche la musica si basa su una prassi compositiva
stereotipata, nella quale il leitmotiv svolge la funzione di semplice accompagnamento
alle immagini. Adorno ed Eisler sostengono che per un efficace e duraturo
rinnovamento della musica da film la soluzione sia sviluppare nuovi linguaggi ed
esprimono l'idea del contrappunto drammaturgico, ovvero di una musica capace di
esprimere le emozioni ed è in grado di evidenziare il senso della narrazione, soprattutto
nel momento in cui essa viene occultata dalle immagini.
Con il saggio Estetyka muzyki filmowej228 (1964) Zofia Lissa pone sullo stesso
piano le componenti visive e sonore di un film. La concezione unitaria del film sonoro
sostenuta da Lissa deriva dall'idea che in un'opera d'arte la sintesi sia una totalità delle
diverse forme espressive, perciò la componente musicale assume all'interno
dell'immagine filmica una temporalità diversa rispetto a quella tradizionale, in quanto
essa è condizionata dalle leggi costruttive dei piani visivi. Lissa giunge alla conclusione
che un giudizio sulla componente musicale non può essere espresso in sé, ma bensì
bisogna considerare altre proprietà che essa riceve nel contesto, al punto da considerare
la musica da film come un genere che, in quanto tale, risponderà a leggi diverse rispetto
225 Adorno-Eisler criticano l'uso indiscriminato e semplicistico del leitmotiv; il dibattito vedrà in causa
anche la musicologa Zofia Lissa che invece ritiene possibile l'uso a patto che sia pertinente e che
abbia un significato profondo.
226 La musica per film, trad. it., Newton Compton, Roma 1975.
227 Secondo Sergio Miceli, Musica e cinema nella cultura del Novecento, Sansoni, Milano 2000, pp.537541.
228 Lissa Sofia, Estetica della musica per film, PWM, Cracovia 1964. Di supporto al testo, in quanto le
uniche versioni disponibili sono in lingua polacca e tedesca, è stata impiegata la dettagliata analisi di
Miceli Sergio, op. cit., pp.547-552.
112
a quelle della musica nata autonomamente 229. In Struktur der auditiven Schicht im
Tonfilm230 sostiene la suddivisione in due piani distinti della musica per film, i quali
emergono nel momento in cui la musica, nell'atto di trasmettere il proprio piano sonoro,
rimanda l'attenzione dello spettatore in un qualcosa di diverso da sé, ovvero un altro
piano extra-musicale. Inoltre la musica, anche dal punto di vista temporale, è duplice in
quanto essa appartiene sia al tempo della narrazione filmica, sia al tempo dello
spettatore.
Lissa conclude il suo saggio elencando le undici funzioni drammaturgico-musicali
della musica da film231:
1. musica come sottolineatura di movimenti, la quale definisce eventi dinamici in
cui enfatizza il ritmo visivo (ad esempio un cavallo in corsa);
2. musica come stilizzazione musicale di rumori reali: definisce una funzione
imitativa e onomatopeica in cui la componente musicale assume i caratteri
sonori di eventi naturali (vento, pioggia), meccanici (macchinari) o di atti e segni
prodotti da esseri viventi (passi);
3. musica come rappresentazione dello spazio mostrato: definisce ambiti
geografici ed etnici o sociali (contesto militare, religioso);
4. musica come rappresentazione del tempo mostrato: definisce ambiti epocali
dalla preistoria al futuro fantascientifico;
5. musica come commento nel film: definisce la musica extradiegetica che si
contrappone all'accompagnamento, interpreta con mezzi musicali in modo
psicologicamente coerente gli eventi filmici;
6. musica nel suo ruolo naturale: definisce interventi in cui la sorgente musicale è
visibile all'interno della scena (musica diegetica);
7. musica come mezzo di espressione di esperienze psichiche: definisce interventi
musicali di struttura e durata variabili, intesi a dare corpo alle emozioni dei
personaggi;
229 Miceli Sergio, op. cit., p.548.
230 “Struttura della dimensione uditiva nel cinema sonoro” in Lissa Sofia, Estetica della musica per film,
PWM, Cracovia, 1964.
231 I commenti esemplificativi, qui parzialmente citati, sono la personale interpretazione di Miceli
Sergio, op. cit., pp.549-551.
113
8. musica come base della immedesimazione: assume una funzione segnaletica nei
confronti dello spettatore, in quanto detiene una posizione privilegiata e
consapevole degli eventi;
9. musica come simbolo: la funzione è analoga alla precedente, essendo rivolta allo
spettatore e, come tale, autonoma rispetto alla struttura narratologica del film;
10. musica come mezzo di anticipazione degli eventi: definisce una funzione in cui
la musica anticipa gli eventi o i caratteri psicologici mostrati di li a poco;
11. musica come fattore formale: definisce le funzioni del leitmotiv, per cui la sua
ricorrenza stabilisce un'associazione fra musica e personaggio/situazione, alla
quale è possibile fare ricorso anche nei momenti in cui il personaggio/situazione
non sono presenti.
Negli anni Ottanta, è rilevante l'apporto di Jacques Aumont, il quale sostiene (con
Bergala A., Marie M., Vernet M.) in Esthétique du film l'importanza dell'elemento
sonoro del film, il quale deve essere giudicato secondo leggi proprie, in quanto esso è
«un elemento espressivo autonomo del film, in grado di entrare in diversi tipi di
combinazione con l'immagine» in opposizione alla concezione classica, nella quale,
secondo Aumont, «il suono filmico […] va nel senso del rafforzamento e
dell'accrescimento degli effetti di realtà», e viene utilizzato «come un semplice
coadiuvante dell'analogia scenica offerta dagli elementi visivi», aggiunge «tutto il
lavoro del cinema classico e dei suoi sottoprodotti, oggi dominanti, ha dunque puntato a
spazializzare gli elementi sonori, offrendo loro dei corrispondenti all'immagine – e
dunque ad assicurare tra immagine e suono un legame biunivoco, “rindondante” si
potrebbe dire. [...] Questa spazializzazione del suono, che va di pari passo con la sua
diegetizzazione, non è priva di paradosso se si pensa che il suono filmico, uscendo da un
altoparlante generalmente nascosto, talvolta multiplo, è di fatto molto poco ancorato
allo spazio reale della sala di proiezione [...]»232.
Michel Chion, invece, afferma il contrario, ovvero che la maggior parte dei suoni
di un film classico non è diegetica (voce off libera, musica della fossa), mentre in
232 Aumont Jacques, Bergala Alain, Marie Michel, Vernet Marc, Esthétique du film, Nathan, Paris 1983
(trad. it. Estetica del film, Lindau, Torino 1995, p.32).
114
proporzione è nettamente minore l'uso dell'immagine non diegetica rispetto al suono 233.
Secondo i principî della formulazione classica la musica da film è sottomessa
all'immagine; a partire da questa concezione Chion elabora l'idea per cui sia il suono
che l'immagine si sottomettono invece alla costruzione di uno spazio-tempo narrativo e
cinematografico. Difatti un suono diegetizzato, cioè giustificato, conserva le sue qualità
musicali proprio come l'immagine cinematografica rappresenta qualcosa; per questo
Chion afferma che sia falsa l'affermazione che ritiene il suono un'entità autonoma, la
quale inizierebbe ad essere utilizzata nelle sue peculiari qualità solo nel momento in cui
viene separato dall'immagine.
3.3 Cinema e musica: una visione storica
3.3.1 Cinema muto
Durante la prima proiezione dei fratelli Lumière, che si tenne a Parigi il 28
dicembre 1895, il pubblico rimase talmente meravigliato ed estasiato nell'assistere a
quelle “immagini della realtà in movimento”, che per un istante dimenticò l'assenza di
ogni sonorità. Il treno di L'arrivée d'un train à la gare de La Ciotat non fischiava; non si
udivano gli schizzi d'acqua in En mer par gros temps, neppure il muro crollare
rovinosamente in La démolition d'un mur. Lo stupore delle immagini in movimento e il
coinvolgimento emotivo degli spettatori nel vedere la riproduzione della vita quotidiana
era, in quel preciso momento, nettamente più forte di qualsiasi altra mancanza. Anche
dai resoconti della stampa dell'epoca234 la tendenza era quella di elogiare le meraviglie
del nuovo mezzo sul senso di veridicità e autenticità delle immagini. Come scrisse lo
stesso Louis Lumière: «I soggetti che ho scelto per i miei film provano che volevo
soltanto riprodurre la vita»235.
Se per le prime proiezioni dei film Lumière, al Gran Cafè di Parigi, la musica non
era presente, vi era però egualmente la presenza suggestiva, immaginata e percepita
dagli spettatori, della totalità del reale: l'effetto coinvolgente delle immagini era tale che
233 Chion Michel, Un'arte sonora, il cinema. Storia, estetica, poetica, Kaplan, Torino 2003, p.170.
234 Ci si riferisce agli scritti di Henri de Parville per Le Radical (30 dic. 1895) e ai cronisti de La Poste
(30 dic. 1895).
235 Citato in Sadoul G., Storia generale del cinema. Le origini e i pionieri (1832-1900), Einaudi, Torino
1965, p.212.
115
le persone in sala ne erano totalmente immerse, al punto da immaginare colori e udire
suoni, nonostante i film fossero in bianco e nero e privi di alcun rumore236.
L'accompagnamento di una qualsiasi esecuzione musicale in sala durante la
proiezione dei primi film Lumière, come si è detto, è molto improbabile 237. Il primo
accompagnamento musicale agli spettacoli cinematografici muti viene fatto risalire a
qualche settimana o mese dopo la prima proiezione. Con l'obiettivo di rendere la
rappresentazione più realistica la musica venne usata inizialmente in modo che essa
potesse aggiungere alla realtà delle immagini la dimensione sonora che le mancava. Per
questi motivi nelle sale divenne consuetudine associare alle immagini filmiche la
musica, ricorrendo solitamente alla presenza di un pianista o di un organista ai piedi
dello schermo, mentre per le proiezioni più importanti e sontuose lo spettacolo era
eseguito da un’orchestra e da un coro.
Inizialmente la musica di accompagnamento era principalmente frutto di una
scelta soggettiva da parte del pianista o dell’organista che poteva scegliere la musica più
adatta dal repertorio classico, romantico e post-romantico; altre volte, ma raramente, la
musica era composta per l’occasione e richiedeva al musicista un ulteriore sforzo
artistico e produttivo in base all’importanza del film presentato e all’evento mondano
corrispondente. Il repertorio nacque per offrire un supporto attendibile a pianisti e
organisti operanti nelle sale più modeste; esso consisteva in una raccolta di musiche, il
più delle volte preesistenti, tratte dalla produzione sinfonico-operistica e pianistica
dell'Ottocento, con interventi sugli originali che comprendevano eventuali riduzioni,
abbreviazioni di temi secondari, variazioni troppo estese e infine la semplificazione
della componente armonica238. Per praticità i repertori erano suddivisi secondo categorie
specifiche: situazionali, coreutiche, psicologiche, etniche e dinamiche.
«Mentre il cinematografo Lumière si diffondeva nel mondo con le relative
musiche di accompagnamento, ad oggi non ci sono prove concrete che i fratelli
fornissero istruzioni per l'esecuzione di accompagnamenti musicali dal vivo, quando
236 Secondo Rondolino Gianni, Cinema e musica. Breve storia della musica cinematografica, Utet
Università, Torino 1991, p.13
237 Lo storico Gian Piero Brunetta ricostruisce la prima serata di proiezione al Gran Café senza fare
alcun cenno alla musica. Vi sono però alcuni scritti, come Filmmusik: Stummfilm (1981) di Pauli o il
libro The Technique of Film Music (1957) di Roger Manvell e John Huntley, che sostengono la tesi
che l'accompagnamento musicale ci fosse fin dalla prima proiezione.
238 Miceli Sergio, Musica per film. Storia, estetica. Analisi, tipologie, Lim Editrice, Milano 2009, p.51.
116
esportavano i loro film»239. Ad ogni modo la musica svolgeva sempre il ruolo di fedele
accompagnatrice in sala alle immagini in movimento. In alcuni casi, la figura del
pianista o dell'organista in sala venne sostituita da registrazioni fonografiche, le quali si
espansero rapidamente in tutti gli Stati Uniti, divenendo parte integrante degli spettacoli
cinematografici grazie allo sviluppo, tra il 1905 e il 1907, dei nickelodeon, ovvero locali
commerciali riconvertiti a sale cinematografiche. Ma per quanto il fonografo fosse
fondamentale nell’accompagnamento dei film muti, rimaneva l’esecuzione dal vivo
l’accompagnamento più diffuso e comune negli anni Dieci, sia in Europa che negli Stati
Uniti.
Nei primi anni del Novecento il cinema iniziò ad acquistare sempre più fama ed
importanza con la conseguenza che anche la musica di accompagnamento si dovette
plasmare e adeguare ai cambiamenti in atto impiegando l'apporto, in certi casi, di
musicisti di maggior calibro. Questi cambiamenti sorsero in concomitanza con
l'operazione di nobilitazione del cinema, che vide la partecipazione attiva in ambito
cinematografico di personale artistico proveniente dall'ambiente del teatro di prosa;
nascono così, negli anni Dieci, case di produzione specifiche 240, che affidano la
realizzazione di pellicole a commediografi, letterati e compositori illustri. Le opere che
rientrano in questa categoria e che ora approfondiremo, si basano sulla presenza comune
di alcune caratteristiche basilari: «la nobiltà del soggetto, lo sforzo produttivo fuori dal
comune, la durata del film, la concezione registica ancora legata a modelli teatrali e
l'affidamento di un commento originale a un compositore d'area colta»241.
Uno dei primi casi di questa nobilitazione si ebbe in Francia nel 1908 con la
fondazione della casa di produzione Film d’Art, la quale reclutava attori e autori teatrali
francesi per il proprio cinema. Il risultato più importante di queste collaborazioni si ebbe
con il film, presentato nel 1908 a Parigi, L’assassinat du duc de Guise di Le Bargy e
Calmettes, film che vide la partecipazione di attori della Comédie Française e il
commento musicale composto direttamente da Camille Saint-Saëns. Lo spettacolo
239 Kalinak Kathryn , Musica da film, una breve introduzione, Edizione Edt, Torino 2001,p.46.
240 Ad esempio: Le Film d'Art in Francia, la Cines, L'Ambrosio, l'Itala e la Tespi Film in Italia. Per un
maggiore approfondimento sul cinema “d'arte” in Francia e in Italia si veda A. Abruzzese, Il “film
d'arte” in Francia, in Italia e nei paesi nordici, in A. Ferrero (a cura di), Storia del cinema, vol. I.
Dalle origini all'avvento del sonoro, Marsilio, Venezia 1978, pp.29-45.
241 Miceli Sergio, Musica per film. Storia, estetica. Analisi, tipologie, Lim Editrice, Milano 2009, p.96.
117
venne presentato in una sala adibita per l’occasione, con un pubblico selezionato,
un’orchestra selezionata e una critica consapevole dell’importanza dell’evento; per tali
ragioni lo spettacolo fu accolto da pubblico e critica con lo stesso entusiasmo di uno
spettacolo teatrale. La musica di accompagnamento risultò aderire perfettamente allo
svolgersi dell'azione e ai suoi momenti drammaturgicamente più significativi: ad
esempio, la partitura di archi, pianoforte e harmonium del Presto finale sottolineava in
modo efficace la scena dell'uccisione del duca e dava alla messinscena una maggiore
intensità e armonia. Il film mostra un trattamento musicale più vicino a quello della
musica di scena, manifestando la forte dipendenza al teatro, tanto da potersi considerare
una sorta di registrazione filmica di un allestimento teatrale242.
Nei primi anni del Novecento non furono molte le composizioni musicali scritte
appositamente per accompagnare un film e, nonostante il successo di L’assassinat du
duc de Guise, i casi rimasero in quegli anni isolati. Difatti sia per ragioni economiche
che organizzative, l’uso di una musica commissionata per l'occasione comportava alcuni
possibili inconvenienti, come ad esempio la necessità di predisporre di un apparato
tecnico-spettacolare in grado di mettere in pratica le ipotesi artistiche. Non risultava
semplice trasferire l'intera orchestra per le proiezioni successive, che potevano avvenire
in diverse sale della città o in altri Paesi e, non era sempre possibile imporre ad
un'orchestra di imparare il nuovo spartito che, magari poteva essere più difficile e
complesso dell'abituale musica di accompagnamento. Perciò questo apparato tecnicomusicale era solitamente svolto per le prime cinematografiche, gli spettacoli di maggior
prestigio, oppure poteva essere replicato nelle proiezioni successive che avvenivano
nella medesima sala. Molto spesso per le proiezioni in altre sale, l'accompagnamento
era affidato ad un pianista che usava brani musicali tratti liberamente dal repertorio,
senza alcun tipo di riferimento alla musica originale; esistevano perciò diverse edizioni
sonore dello stesso film che cambiava in base al pubblico.
A partire dagli anni Dieci, con lo scopo di perseguire l'obiettivo di elevazione
dell'artisticità del cinema, si iniziò ad attingere per le sceneggiature dei film ad opere
letterarie e teatrali di ogni epoca e Paese, ma non solo: il cinema ricavò i propri
spettacoli anche da opere liriche, le quali richiedevano l'uso della propria musica che
242 Secondo Miceli Sergio, Musica per film. Storia, estetica. Analisi, tipologie, Lim Editrice, Milano
2009, p.98.
118
poteva essere per l'occasione accorciata, spezzettata, riprodotta fonograficamente o
eseguita in sala da un pianista con o senza cantanti. Pensiamo al Richard Wagner (1913)
di Carl Froelich, per il quale fu preparato un commento musicale attingendo ovviamente
alle opere di Wagner; o ancora Il Trovatore (1908) dei fratelli Lamberto e Azeglio
Pineschi, che era accompagnato dalle medesime melodie dell'opera lirica di Giuseppe
Verdi o, infine, a due film prodotti nel medesimo anno dalla casa di produzione La
Nazionale, Manon Lescaut e Lucia di Lammermoor, i quali utilizzavano brani di Puccini
e di Donizetti.
Negli stessi anni in Italia, la nobilitazione del cinema aveva già raggiunto livelli
artistici alti, ma è con Cabiria (1914) di Giovanni Pastrone, prodotto dalla Itala Film,
che si ebbe una svolta significativa nella produzione cinematografica italiana. Il film
venne presentato il 18 aprile 1914 al Teatro Vittorio Emanuele di Torino e
contemporaneamente al Teatro Lirico di Milano, richiamando folle di intellettuali da
tutto il Paese, attratti anche dal nome di Gabriele D'Annunzio, che venne presentato
come autore del film. Cabiria richiama la tradizione storiografica colta a partire dalle
scenografie, alla letterarietà delle didascalie tipicamente dannunziane fino alla musica
che venne appositamente composta dal maestro Ildebrando Pizzetti, che per l'occasione
scrisse, per la scena del sacrificio, una Sinfonia del fuoco che riuscì ad adattare
perfettamente al ritmo del montaggio, il quale è cadenzato su campi totali e primi piani,
lenti movimenti della macchina da presa e inquadrature fisse; per le restanti scene, le
musiche vennero affidate a Manlio Mazza. Per queste ragioni Cabiria venne presentato
in un teatro abitualmente adibito a concerti sinfonici e opere liriche, oltre che per il
prestigio del luogo. L'apporto delle musiche, sia quelle del repertorio classico di Mazza
che quella di Pizzetti, ebbe un contributo notevole per il successo del film stesso e per
tutto il cinema successivo divenendo un modello per l'arte cinematografica spettacolare
di quegli anni.
Cabiria venne proiettato anche in America e la composizione musicale di
accompagnamento venne creata da Joseph Carl Breil, il quale non utilizzò le musiche
appositamente create dai maestri italiani, ma preparò un repertorio adatto alla
preparazione e alle esperienze del pubblico americano. Breil elaborò una composizione
musicale dal princìpio tematico unificante, che si avvicinava al concetto moderno di
119
leitmotiv, gettando così le basi per una pratica esecutiva che troverà la sua affermazione
nel cinema sonoro.
Il lavoro più importante di Breil fu la partitura musicale di The Birth of Nation
(La nascita di una nazione) di Griffith del 1914, dove compose brani differenti e
mescolati tra loro secondo le esigenze della drammaturgia cinematografica: vi sono
musiche preesistenti derivanti dal repertorio sinfonico e operistico (Verdi, Beethoven,
Liszt, Wagner, Weber, Suppé, Bellini, Grieg, Hérold e Čajkovskij), associate e
combinate a musica popolare americana e a brani composti da Breil stesso o da lui
personalmente arrangiati. Come per Cabiria, anche per questo film Breil crea un
continuum sonoro che si lega perfettamente a quello visivo: la dimensione sonora è
articolata, spezzata e giocata su toni e timbri che si amalgamano alla dimensione visiva
del film, anch'essa articolata, spezzata e dinamicamente giocata sui ritmi del montaggio.
Il modello del grande spettacolo cinematografico, sperimentato in Italia con
Cabiria apparse ben presto un modello vincente sul piano commerciale, al punto che la
produzione hollywoodiana se ne impadronì costruendo una parte del suo repertorio;
l'obiettivo era la messa in scena di film grandiosi e colossali, di ampie proporzioni, con
scenografie monumentali e spettacolari in grado di coinvolgere un vasto pubblico. Da
questo si sviluppò la nuova tecnica del montaggio elaborata da Griffith, la scelta di temi
e
soggetti
fortemente
emotivi
ed
infine
l'uso
appropriato
della
musica
d'accompagnamento, la quale non venne più affidata al gusto o alla cultura musicale del
pianista, ma seguiva una sorta di regolamento, costruito in modo che a certe situazioni
drammaturgiche corrispondessero certe situazioni musicali e a certi sentimenti
determinate melodie. Secondo Charles Hofmann, autore di Sounds for Silents243, fin dal
1909 le case di produzione Edison e Vitagraph avevano pubblicato dei fascicoli
contenenti musica strumentale per i loro film, con le apposite indicazioni per i musicisti
addetti all'accompagnamento. Negli anni seguenti, in tutti gli Stati Uniti, venivano
distribuiti insieme alla pellicola i cue sheets (che potremmo tradurre in “compilazioni”),
ovvero liste di brani musicali con l’indicazione delle scene e dei momenti drammatici
nei diversi film, per cui ogni situazione drammaturgica corrispondeva ad una medesima
situazione musicale. Va ricordato però che in molte situazioni, soprattutto nelle città di
243 Hofmann Charles, Sounds for Silents, DBS Publications, New York 1970.
120
provincia dove molto spesso i film arrivavano in ritardo e in condizioni precarie, i cue
sheet non venivano usati e i musicisti continuavano ad accompagnare i film attingendo
al loro repertorio personale, che nel frattempo si era sempre più specializzato. Difatti, ai
primi repertori degli anni Dieci se ne diffondono in seguito altri, concepiti secondo le
caratteristiche psicologiche e ambientali delle scene. Tra i più celebri troviamo il
Musical Accompaniment of Moving Pictures di Edith Lang e Geroge West del 1920,
manuale ampio di citazioni musicali appositamente create con lo scopo di adeguare il
suono all'immagine semovente del film. Come affermarono gli stessi autori: «la
funzione principale della musica che accompagna i film è quella di riflettere nella mente
dell'ascoltatore il clima della scena, e di suscitare più rapidamente e intensamente nello
spettatore il susseguirsi delle emozioni della storia narrata del film»244.
Questi manuali-repertori costituiscono il punto d'arrivo di un percorso tecnico ed
estetico che era iniziato ai tempi dei Lumière, un lavoro nato nel tentativo di dare alle
immagini dei film la dimensione avvolgente della musica. Allo stesso tempo queste
fonti ci permettono di capire meglio l’importanza della musica nell’epoca del cinema
muto: la musica difatti era in grado di svolgere alcune funzioni tra cui identificare la
collocazione geografica e storica; dare maggior pathos all’atmosfera; identificare le
emozioni e l’azione svolta sullo schermo ed infine concretizzare la caratterizzazione.
Per ottenere questo gli accompagnatori finirono per utilizzare convenzioni musicali
come la suspense, la dissonanza per la malvagità o il pizzicato per l'ambiguità.
Ad esempio, con Nosferatu - Eine Symphonie des Grauens (Nosferatu il vampiro,
1922) del regista Friedrich Wilhelm Murnau, il compositore Hans Erdmann da una lato
crea delle melodie che riprendono le suggestioni stilistiche di Beethoven, Wagner,
Richard Stauss e Musorgskij alimentando la tensione drammatica del film e facendo da
cornice alla collocazione temporale del contesto narrativo, dall'altro smorza l'originalità
linguistica. Nonostante il modello strutturale sia il poema sinfonico tardo ottocentesco,
le funzioni leitmotiviche sono ridotte senza essere usate ed abusate come nel cinema
hollywoodiano: al Conte Orlok sono attribuiti due brevi motivi, definiti Themes, mentre
un tema è riservato esclusivamente alla coppia degli antagonisti del vampiro (Ellen and
Hutter's Theme).
244 Citato in Rondolino Gianni, Cinema e musica. Breve storia della musica cinematografica, Utet
Università, Torino 1991, p.48.
121
3.3.2 Avanguardie storiche
L'apporto della musica alla produzione cinematografica, nel periodo delle
avanguardie artistiche del primo Novecento, ha sensibilmente contribuito allo sviluppo
del linguaggio filmico sia dal punto di vista tecnico che estetico. Pittori, artisti, poeti si
accostarono al cinema nel tentativo di utilizzare una tecnica che permettesse loro il
superamento della staticità della pittura e delle arti visive, interessandosi anche delle
peculiarità proprie della musica. Questo interesse ha permesso alla musica di passare da
elemento di accompagnamento a struttura di riferimento, divenendo un linguaggio in
grado di offrire elementi teorici e pratici per la composizione ritmica del film, elemento
su cui verte la concentrazione degli artisti di questi anni.
Essi compresero
immediatamente come lo sviluppo dinamico delle forme e dei colori richiamasse il
supporto cadenzato di ritmi, tempi e battute della musica. Da questo nacquero tentativi
di creare vere e proprie “partiture filmiche” e divenne comune l'uso spregiudicato di
termini musicali per identificare i loro esperimenti cinematografici, tra cui “sinfonia”,
“orchestra”, “ritmo”, “melodia”, “opera”, “tema”, “variazione”, “balletto”, “studio”.
Dividere in periodi la storia del cinema non appare così facile, come la
suddivisione del passaggio tra muto e sonoro, che è labile e poco definita. Ovviamente,
anche quando si parla di musica da film è poco chiara la linea di demarcazione tra la
prima e la seconda metà del Novecento. Cercheremo ora di suddividere la storia della
musica da film nel cinema muto a partire dagli esperimenti cinematografici, che si
inseriscono nelle cosiddette avanguardie storiche, le quali sono state analizzate anche
nel capitolo precedente in riferimento alla pittura. Approfondiremo il rapporto stabilitosi
tra queste opere e la musica, quest'ultima intesa, come avvenne per le arti figurative,
come supporto per le sperimentazioni sul mezzo filmico. Approderemo poi al cinema
sonoro, il quale verrà suddiviso geograficamente, in quanto le esperienze mutuate nei
diversi Paesi non permettono, a mio avviso, una suddivisione per generi o correnti come
nel periodo storico precedente.
122
3.3.3 Futurismo
Della corrente futurista è doveroso ricordare l'apporto di due artisti-cineasti che
hanno sperimentato il mezzo musicale in pittura e nel cinema. Questi sono i fratelli
Arnaldo Ginna e Bruno Corra, i quali hanno lasciato delle testimonianze dei loro
progetti nel saggio Musica cromatica inserito nel volume a noi pervenuto, Il pastore, il
gregge e la zampogna (1912)245.
Il testo ci illustra il primo significativo tentativo di sperimentazione effettuato da
Ginna e Corra all’interno di uno spettacolo teatrale attraverso l'uso di un pianoforte
cromatico, ovvero una tastiera collegata a numerose lampadine colorate che,
accendendosi e spegnendosi, proiettavano sulla scena degli accordi cromatici246; il
saggio, scritto da Bruno Corra, continua con la descrizione: «componemmo qualche
sonatina di colore […] una Barcarola veneziana di Menndelsohn, un Rondò di Chopin e
una sonata di Mozart, ma poi, infine, dopo tre mesi di esperimenti, dovemmo
confessarci che non era possibile con quei mezzi andare più in là […] avevamo a nostra
disposizione solamente ventotto toni, le fusioni non avvenivano bene, le sorgenti
luminose non erano abbastanza forti, se si mettevano lampade potenti il troppo calore
faceva sì che esse scolorissero in pochi giorni […]»247.
I limiti tecnici imposti dallo spazio teatrale permisero così di spostare l’attenzione
degli artisti sul mezzo cinematografico, che ben presto venne considerato lo strumento
più adeguato per lo sviluppo della loro idea di una sinfonia cromatica, ovvero di
un'opera d’arte totale e unica, in grado di svilupparsi nel tempo e nello spazio e che
raccolga a sé musica, pittura, fotografia, teatro, danza e architettura. Questi esperimenti,
sviluppati dal 1909 e purtroppo oggi perduti, si concretizzarono in quattro pellicole
cinematografiche, nelle quali il soggetto astratto veniva espresso attraverso giochi di
luce e di colore: i fratelli Ginanni Corradini dipingevano con colori puri su pellicole
non trattate, senza gelatine per poi proiettarle su diversi supporti, da teli bianchi o
245 Il testo dei fratelli Ginna e Corra è riprodotto in Verdone Mario (a cura di), Manifesti futuristi e scritti
teorici di Arnaldo Ginna e Bruno Corra, Longo, Ravenna 1984, pp.162-163.
246 Un'analisi dei due artisti e dei loro rispettivi lavori sono esposti nel sito ufficiale curato da Lucia
Collarile.
Per
il
manifesto:
http://www.ginnacorra.it/corra/testi_manifesti.html
(ultima
visualizzazione: 11 gennaio 2015).
247 Il testo Musica cromatica si trova in Madesani Angela, Le icone fluttuanti. Storia del cinema d'artista
e della videoarte in Italia, Mondadori, Milano 2005, pp. 6-7.
123
colorati a corpi umani in movimento248. La successione dei colori doveva provocare
nello spettatore un piacere estetico paragonabile alla suggestione della pittura e della
musica, per i tre film, i cui riferimenti sono rivolti verso la pittura e verso la letteratura
(Accordo di Colore da Segantini; Studio di effetti tra quattro colori; Les Fleurs da
Stéphane Mallarmè), la colonna sonora venne affidata all'amico musicista futurista
Balilla Pratella. Per il film interamente costruito sui ritmi musicali, Canto di primavera,
i fratelli intrecciarono l'opera omonima di Mendelssohn con un tema preso da un Valzer
di Chopin creando una sorta di visualizzazione cinematografica della musica.
3.3.4 Dadaismo
Alla fine degli anni Dieci i pittori, espressionisti e poi dadaisti, Hans Richter e
Viking Eggeling vollero sviluppare la loro pittura in senso dinamico intitolando i loro
esperimenti con termini musicali. I due artisti erano giunti, in modo autonomo e
partendo da principî estetici differenti, a risultati sorprendentemente analoghi: le loro
sperimentazioni si basavano sulla ricerca del superamento della staticità pittorica, per la
realizzazione di una “pittura dinamica”; inoltre per entrambi la musica veniva intesa
come arte dei ritmi più che dei suoni, ovvero un'arte del movimento. Richter e Eggeling
realizzarono contemporaneamente delle strisce di carta il cui segno pittorico si
sviluppava sulle suggestioni del ritmo: questi “rotoli” erano una sorta di spartiti pittorici
costruiti secondo le regole della composizione musicale, che venne applicata a segni e
linee anziché ai suoni.
Nel 1921 nacquero i cortometraggi Rhythmus 21 di Richter e Horizontal-vertical
Orchestra di Eggeling, i quali documentavano le due direzioni di ricerca perseguite
negli anni precedenti con i “rotoli”: ovvero sia la trasformazione della superficie
attraverso ingrandimenti, riduzioni, alterazioni secondo un ritmo musicale, privo di
suono (i film erano muti), basato sulla successione di tempi lunghi e brevi; sia lo
sviluppo tematico della linea sulla falsariga della composizione polifonica con
l'intrecciarsi dei motivi segnici, il sovrapporsi delle linee melodiche, i ritorni e le
248 Secondo quanto riportato dal sito http://www.ginnacorra.it/corra/cinema.html (ultima visualizzazione:
11 gennaio 2015).
124
variazioni249.
Al primo Rhythmus seguirono nel 1923 e nel 1925 il Rhythmus 23 e il Rhythmus
25, in cui Richter diede vita ad una composizione più strutturata e complessa, basata
sull'aggregazione tra le forme geometriche della pittura dinamica e i disegni lineari.
Nelle sue opere successive l'artista sviluppò il suo discorso tecnico-estetico senza
dimenticare il ritmo: le sequenze erano costruite secondo precise regole dinamiche di
tipo musicale.
Eggeling risolse i problemi del segno grafico nell'unico film pervenutoci:
Diagonal Symphonie (1925), in cui venne sviluppata ritmicamente e figurativamente
una serie di temi segnici elementari. Sfruttando tutte le possibilità che la dinamica
cinematografica gli offriva, riuscì a trasformare la pittura in movimento in autentico
cinema.
Su questo versante si mossero anche altri artisti che videro nel cinema l'unico
mezzo in grado di superare la staticità della pittura per realizzare una «musica visiva».
Tra questi vi è Walter Ruttmann che tra il 1921 e il 1925 diresse una serie di film astratti
dal titolo Opus I, II, III, IV caratterizzati da una serie di movimenti, di forme e linee,
scanditi dalla musica. Si tratta di una melodia che non si può ascoltare, ma che si può
facilmente intuire attraverso la composizione visiva e dinamica del film.
Successivamente l'artista compose anche altri film i cui titoli rimandano alla musica, tra
questi Berlin, Symphonie einer Großstadt (1927) e Melodie der Welt (1929).
Le pratiche di Ruttmann vennero proseguite dal suo allievo Oskar Fischinger che
realizzò una serie di Studî cinematografici, nei quali la musica veniva considerata come
l'unico fondamentale sostegno della composizione figurativa, l'elemento formale
equivalente all'immagine filmica, legato sia alla singola immagine pittorica sia al
rapporto tra le varie immagini. Con Fischinger il concetto di “musica visiva” trovò
applicazione non solo tra le avanguardie storiche, ma fu in grado di superare i confini
cronologici del cinema d'avanguardia ed avere una continuità temporale di
sperimentazione estetica. La maggior parte delle sue opere sono sonore, tra gli anni
Venti e Quaranta utilizzò brani musicali che spaziarono da Brahms, Dukas, Nicolai a
Mozart sino al Terzo Concerto Brandeburghese di Bach per il film Motion Painting N.1
249 Rondolino Gianni, Cinema e musica. Breve storia della musica cinematografica, Utet Università,
Torino 1991, pp.55-56.
125
del 1947.
La furia iconoclasta dadaista la ritroviamo anche nel film Entr'acte (1924) di René
Clair, la cui musica venne affidata a Erik Satie che, con grande maestria, produsse
Cinéma una partitura per archi e percussioni scritta appositamente per il film, nella
quale il legame tra l'immagine e il suono si basa su il continuo richiamo tra
l'inquadratura e la musica che si completano e si sollecitano a vicenda. Il film viene
suddiviso secondo Sergio Miceli in “temi-eventi”, i quali si alternano con un ritmo «tale
che ciascuno di essi permane sullo schermo un tempo sufficiente ad affermarsi come
“evento”, ma non abbastanza a lungo da creare le aspettative e le concatenazioni logiche
del rapporto antecedenza-conseguenza tipiche della narrazione convenzionale» inoltre,
continua Miceli, «sempre per il sapiente uso del montaggio, le continue interpolazioni
determinano una trama di relatività reciproche per cui un “tema” assume il valore di
“evento”, mentre poco dopo esso appare come flashback all'interno di un nuovo “tema”
portando ad un ribaltamento delle gerarchie»250. Ciò che si afferma come racconto,
rispetto ai “temi-eventi”, è l'unica sequenza organica del film, ovvero il funerale. Satie
nell'incipit della scena del corteo funebre richiama la tradizione dei repertori citando la
Marche funèbre dell'op.35 di Chopin, con l'obiettivo di ironizzare sulla pratica dei
repertori degli accompagnatori del cinema muto e su se stesso creando un vera e propria
mise en abîme251.
Satie utilizza la musica nel momento fondamentale del cortometraggio: prima e
dopo il funerale, nel tentativo di evitare il commento interpretativo attraverso
l'annullamento del Leitmotiv per abbracciare una successione di suoni monotoni ed
inespressivi con l'obiettivo di creare il massimo distacco tra la musica e l'immagine
filmica. Così come Clair decise di sfidare il cinema narrativo con un attacco dadaista
alla logica e alla razionalità, Satie decide di abbandonare le convenzioni
dell'accompagnamento musicale giungendo ad una corrispondenza minima della musica
con le immagini, evitando l’uso di temi conduttori.
250 Miceli Sergio, Musica e cinema nella cultura del Novecento, Sansoni, Milano 2000, p.152.
251 Secondo Miceli Sergio, Musica e cinema nella cultura del Novecento, Sansoni, Milano 2000, p.155.
126
3.3.5 Espressionismo tedesco
Das Cabinet des Dr. Caligari (1919) di Rober Wiene è il film che esprime al
meglio l'importanza dell'immagine nel cinema espressionista attraverso la creazione di
scenografie nelle quali la deformazione di luci e ombre creano un senso di drammaticità
che unito ad una tendenza recitativa teatrale dei personaggi suscitava nel pubblico
terrore ed inquietudine, angosce e paura. Per la prima proiezione americana del film,
Samuel L. Rothapfel, curatore dell'accompagnamento con Erno Rapée, afferma in
un'intervista rilasciata a Musical American:
Un film concepito secondo principi rivoluzionari richiedeva una colonna
sonora fedelmente sincronizzata per quanto riguarda il clima e lo sviluppo
[…]. Nello schema fantasmagorico del Dr. Caligari i personaggi si
muovono e vivono in un mondo privo di nessi logici […]. Noi abbiamo
preparato la colonna sonora tenendo ben presente questo fatto. Ci siamo
rivolti a Schönberg, Debussy, Stavinskij, Prokof'ev, Richard Strauss per il
materiale tematico […]. La colonna sonora è costruita secondo il principio
del Leitmotiv, precisamente alla maniera wagneriana. Per il tema di Caligari
abbiamo attinto al Till Eulenspiegel di Strauss. La sua idea ricompare, o
viene suggerita, ogni volta che Caligari o la sua influenza agisce sullo
schermo. Per contraddistinguere Cesare, il sonnambulo, Rapée ed io
abbiamo preso una frase dal Prélude à l'après-midi d'un faune di Debussy
[…]. L'orchestrazione non è quella originale, ma è stata concepita
appositamente per enfatizzare il macabro […]. Penso di poter dire con
fiducia, e a ragione, che tutto ciò rappresenta la realizzazione più coraggiosa
nella storia del teatro cinematografico americano252.
Il film è quindi intrinseco di movimenti leitmotivici, che tendono a sottolineare gli
stati d'animo dei personaggi, già enfatizzati dalla teatralità, dal trucco, dalla mimica e
dalle scenografie tipiche di questa corrente, con l'obiettivo di accentuare e portare
all'estremo ogni tipo di emozione. A riguardo, credo sia importante sottolineare il
volume che Rapée pubblicò nel 1924 Motion Picture Moods for Pianists and
Organist253, nel quale raccolse brani preesistenti e li divise in cinquantadue categorie
che rappresentano situazioni e climi psicologici fra i più comuni nel cinema di quegli
anni.
252 Hoffmann Charles, Comes Stranvinsky to rhe Film Theatre, in Id., Sounds for Silents, DBS, New
York 1970; qui citato in Miceli Sergio, Musica e cinema nella cultura del Novecento, Sansoni,
Milano 2000, p.77.
253 Rapée Erno, Motion Picture Moods for Pianists and Organist, Schirmer, New York, 1924.
127
3.3.6 Cubismo
Nell'ambito cubista, essenziali sono i tentativi del pittore Léopold Survage di
creare quello che lui definì Le rythme coloré, un film astratto che però non venne mai
realizzato, ma che già dal titolo ci suggerisce la materia con cui sarebbe stato composto:
la pittura (coloré) e la musica (rythme). Survage tentò di realizzare il suo progetto nel
giugno del 1914 quando chiese, senza successo, un brevetto alla Gaumont. Oggi
sappiamo che, se solo lo avesse ottenuto, Survage sarebbe stato il primo ad aver
sviluppato un film astratto e avrebbe così anticipato le analoghe sperimentazioni di
Viking Eggeling e Hans Richter. Un mese dopo, l'opera viene descritta dallo stesso
autore nella rivista Les Soirèes de Paris: «Il ritmo colorato non è affatto un’illustrazione
o un’interpretazione di un’opera musicale. È un’arte autonoma, anche se si fonda sugli
stessi dati psicologici su cui si fonda la musica»254. Nel progetto teorico dell'opera, i
colori e le forme, le linee e le superfici si dovevano intersecare tra loro dando vita a
forme astratte e visive in base ad un ritmo che era prestabilito e che comportava una
suddivisione del tempo filmico in unità minime, come in uno spartito musicale. Le
caratteristiche della pittura cubista, di cui Survage ne era rappresentante, si fondono nel
suo progetto teorico di un cinema composto da “ritmo e colore”.
Per il film Le ballet mécanique (1924) la ricerca del pittore Fernand Léger era
rivolta soprattutto ad evidenziare la natura dell'oggetto: il balletto veniva così ricondotto
a quegli oggetti che possiedono un ritmo ben scandito, come i dischi e le sfere riflettenti
che roteano e oscillano o il moto pendolare prodotto dalle palle dell'albero di Natale;
questo movimento venne calcolato dal pittore fino al dettaglio, come se il ritmo del
montaggio dovesse corrispondere a quello della musica, anch'esso spezzato.
La partitura per otto pianoforti, pianola, xilofono e percussioni, caratterizzata da
un rimo continuamente spezzato, venne composta appositamente per il film dal
musicista George Antheil, che fu abile nel far corrispondere tutti gli elementi spaziodinamici della pellicola di Léger alla musica.
Il film non ha mete narrative e non mostra una storia, ma è dotato di una trama
ritmica autosufficiente tanto da rendere problematico qualsiasi inserimento esterno.
Inoltre tra le intenzioni di Léger vi era anche quella di presentare l'opera come un
254 Citato in Rondolino Gianni, Cinema e musica. Breve storia della musica cinematografica, Utet
Università, Torino 1991, p.53.
128
insieme audiovisivo, e in occasione della prima proiezione, che avvenne al
Theatertechnick di Vienna nel 1924, il pittore-regista scrisse nel Programma:
Questo film è oggettivo realista e per niente astratto. L'ho fatto in stretta
collaborazione con Dudley Murphy. Noi abbiamo chiesto al compositore
George Antheil di farne l'adattamento musicale sincronizzato - Grazie al
procedimento scientifico di Monsieur Delacomme, speriamo di ottenere
meccanicamente nella maniera più assoluta, la simultaneità di suono e
immagine.255
La prima viennese avvenne però in assenza della musica 256 e l'ipotesi più
attendibile della mancanza del commento musicale è probabilmente riconducibile a un
difetto del sistema di sincronizzazione ideato da Pierre Delacomme 257. Nelle proiezioni
successive il film venne accompagnato, come previsto, dalla musica, tant'è che il regista
e pittore Hans Richer affermò che durante la proiezione a Berlino nel 1925, tutto ebbe
luogo secondo il progetto originario e «la musica di Antheil […] suscitò le proteste del
pubblico»258. L'ultimo aspetto che ci conferma l'assenza della musica alla prima
proiezione è nel testo Composer's Notes, in cui Antheil affermò che il brano «era stato
scritto in origine come colonna sonora per il primo film astratto dello stesso titolo» ma a
causa delle difficoltà nella sincronizzazione «fu scritto come pezzo autonomo» 259.
Probabilmente furono apportate modifiche all'organico: alle pianole vennero sostituite
dei pianoforti, ridotti a due gli xilofoni, scomparsi gli autentici motori d'aereo sostituiti
con registrazioni su nastro260. Nel 1936, in una lettera indirizzata a Nicolas Slonimsky, il
compositore scriveva:
Secondo la mia opinione personale, Le ballet mécanique è un'opera
importante da un determinato punto di vista: l'ho in effetti scritto in una
forma nuova, una forma che colma, in particolare, una lacuna nella tela del
255 Fr. Kiesler (a cura di), Internationale Ausstellung neuer Theatertechnik, Würtle, Wien 1924 p.42; qui
citato in Miceli Sergio, Musica e cinema nella cultura del Novecento, Sansoni, Milano 2000, p.162.
256 Secondo affermazione di Stuckenschmidt Hans Heinz, La musica moderna: da Debussy agli anni
Cinquanta, Einaudi, Torino 1960, p.145.
257 Monsieur Delacomme è da identificarsi con Pierre de la Commune o Delacommune, inventore del
Cinépupitre.
258 Richter Hans, Il cinema d'avanguardia in Germania, in Roger Manvell (a cura di), Nascita del
cinema, trad. it., Il Saggiatore, Milano, 1961, p.308.
259 Antheil George, Ballet méchanique (sic), partitura, Templeton, 1959, qui citato in Miceli Sergio, La
musica nel film. Arte e artigianato, Discanto, Fiesole-Firenze 1982, p.124.
260 Secondo Miceli Sergio, La musica nel film. Arte e artigianato, Discanto, Fiesole-Firenze 1982, p.124.
129
tempo, apportandovi delle astrazioni musicali e dei materiali sonori
contrastanti; a questo proposito, del resto, ho avuto cura di creare dei valori
temporali piuttosto che tonali. Nel mio Ballet mécanique, ho utilizzato i
tempi nel modo in cui Picasso utilizza la superficie bianca della tela.261
Antheil torna a parlare del concetto di spazio-tempo in Composer's Notes
dichiarando di voler «dimostrare un nuovo principio della composizione musicale,
quello del “Tempo-Spazio”, nel quale viene considerato di vitale importanza il principio
del tempo, piuttosto che quello tonale»262, affermando poi che il concetto di cubismo in
musica si può solamente realizzare laddove vi sia una successione di battute in tempo
(2/8, 3/8, 4/8, 5/8 etc.).
3.3.7 Avanguardie sovietiche
In Unione Sovietica, i compositori, influenzati dal Manifesto dell’asincronismo,
trattavano la musica come una componente del montaggio mentre i cineasti sovietici
esplorarono gli effetti emozionali, intellettuali e ideologici della musica in modo tale
che essa potesse entrare in contrasto con le immagini. Questi cineasti 263 ritenevano che
un’arte rivoluzionaria esigesse tecniche altrettanto rivoluzionarie e quindi una musica
appunto rivoluzionaria.
Uno dei migliori esempi di musica cinematografica negli anni del cinema muto si
deve all'incontro tra il regista Sergej Michajlovič Ėjzenštejn e il musicista tedesco
Edmund Meisel per il film Bronenosec Potëmkin (1925). Meisel scrisse una
componente musicale approntata per la distribuzione in Europa e negli Stati Uniti e, a
differenza di altre operazioni simili, il cineasta si recò appositamente a Berlino (aprile
1926) per incontrare il compositore; come egli stesso ha ricordato:
Accettò subito di trascurare la funzione puramente illustrativa comune in
quell'epoca […] agli accompagnamenti musicali, e di accentuare certi
“effetti”, specialmente nella “musica delle macchine” nell'ultima bobina.
Fu questa la mia unica richiesta categorica: abbandonare l'abituale stile
261 Citato in Miceli Sergio, La musica nel film. Arte e artigianato, Discanto, Fiesole-Firenze 1982, p.125.
262 Antheil George, Ballet méchanique (sic), partitura, Templeton, 1959; qui citato in Miceli Sergio, La
musica nel film. Arte e artigianato, Discanto, Fiesole-Firenze 1982, p.125.
263 Sergej Ejzenštejn, Dziga Vertov, Aleksandr Petrovič Dovženko, Lev Vladimirovič Kulešov, Vsevolod
Illarionovič Pudovkin.
130
melodico per questa sequenza d'“incontro con la squadra”, fondandosi
interamente su un ritmico battere di percussioni, e stabilire inoltre nel punto
decisivo, nella musica, come nel film, un “passaggio repentino” a una
“qualità nuova” nella struttura sonora.
Fu dunque il Potëmkin che a questo punto si staccò stilisticamente dai limiti
del “film muto con illustrazione musicale” per entrare in una nuova sfera,
quella del film sonoro, i cui veri modelli presentano una fusione d'immagini
musicali e visive che ne fanno opere fondate sull'unità audiovisiva. E
proprio grazie a questi elementi, che anticipano le possibilità compositive
del film sonoro, la sequenza dell' “incontro con la squadra” […] merita un
posto dominante nella storia del cinema.
[…] Qui il film muto Potëmkin ha qualcosa da insegnare al film sonoro,
dimostrando in vari modi come un lavoro, per essere organico, debba essere
dominato da un'unica legge di costruzione in tutti i suoi “significati”, e
come, per non essere “fuori scena”, ma diventare parte organica del film,
anche la musica debba non soltanto ispirarsi alle stesse immagini e agli
stessi temi, ma anche adeguarsi alle stesse leggi e agli stessi principi
fondamentali di composizione264.
Pur trattandosi di una opinione a posteriori e consapevole di procedure
audiovisive più coese ed efficaci, si denota un'auto-analisi, che porta il cineasta a
definire Bronenosec Potëmkin come il primo film della sua carriera di qualità assoluta,
anche dal punto di vista musicale.
Per la nostra analisi, si possono considerare tre episodi del film particolarmente
significativi in relazione alle soluzioni musicali: le esequie di Vakulinčuk (atti II/III), la
scalinata di Odessa (atto IV), l'incontro con la flotta (atto V).
Il primo episodio è quello che più si discosta dalle soluzioni innovative
successive: la musica risulta affine allo scorrere delle immagini che vengono associate a
identità tematiche ben riconoscibili dallo spettatore. I materiali della sequenza sono: un
primo tema definito Tema eroico, un secondo basato su un canto popolare russo, Tema
patetico, il terzo e ultimo tema è costituito da un tempo di marcia ben scandito, spesso
da archi gravi e timpani, che accompagna i primi due in particolari momenti della scena
e che viene però “sottinteso” anche negli istanti in cui esso non è udibile. La costruzione
generale è un esempio di musica composta secondo la tradizione filmico-musicale in
quanto, ad ogni tema, viene associato anche una macrostruttura drammaturgica dalle
valenze ideologiche: la sofferenza individuale si identifica con il Tema patetico, mentre
264 Ėjzenštejn Sergej Michajlovič, La struttura del film (1939), in Forma e tecnica del film e lezioni di
regia, trad. it. Einaudi, Torino 1964, pp.156-157.
131
la lotta collettiva con il Tema eroico.
All'episodio della scalinata di Odessa corrisponde una soluzione musicale atonale
e atematica: nonostante il carattere monocorde, il ritmo percussivo è il protagonista
indiscusso dell'episodio contornato dal suono dei legni, da scale discendenti e
ascendenti degli archi acuti e dagli ottoni. Ma l'aspetto maggiormente innovativo di
questo episodio è che a tale concezione compositiva musicale se ne affianca una
seconda basata su un susseguirsi e un sovrapporsi di suoni musicali a cui sono sottratte
le identità tematiche, con la conseguenza che l'ascoltatore non aspettandosi più una
costruzione sintattica, porrà una maggiore concentrazione sulle immagini.
La convivenza delle due concezioni musicali in un duplice continuum colloca
questo episodio agli antipodi rispetto a quello della morte del marinaio Vakulinčuk;
l'accompagnamento musicale dell'episodio fa apparire gli eventi inespressivi e
disumanizzati nonostante la tragicità delle scene (ad esempio, la morte di un bambino
con la reazione della madre, che verrà uccisa a sua volta).
Dell'ultimo atto, l'incontro con la flotta, prenderemo in analisi la sequenza
incentrata sulla sala macchine della corazzata, nella quale le inquadrature si alternano
rapidamente sui motori all'interno e sugli effetti della produzione di questa energia
motrice all'esterno (la scia lasciata dalla nave, il fumo denso che esce dalle ciminiere).
Attraverso mezzi puramente visivi, Ėjzenštejn crea già una componente musicale che
ritroviamo nelle inquadrature raffiguranti macchinismi in movimento ritmico, in
relazione al movimento del montaggio in un esasperato crescendo della durata di circa
sei minuti. La soluzione musicale proposta da Meisel alla ritmicità delle immagini si
basa sul ritmo scandito dalle percussioni accompagnato da sigle elementari di tromba,
trombone a progressioni ascendenti ritmicamente segmentate, che si adatta
perfettamente alle esigenze ritmiche del film stesso.
Nel 1929 il compositore Dmitrij D. Šostakovič debuttò nel cinema in modo
memorabile con Novyj Vavilon (La nuova Babilonia), opera di Grigorij M. Kozincev e
Leonid Z. Trauberg, che si presenta come un film muto ambizioso e poco incline alle
semplificazioni, in quanto si tratta di una rivisitazione dell'estetica della Fabbrica
dell'Attore Eccentrico265 unita al principio del montaggio delle attrazioni, teorizzato da
265 L'estetica della FEKS (Fabbrica dell'Attore Eccentrico) scaturisce in ambito teatrale dal Manifesto
dell'Eccentrismo del 1922 firmato da Grigorij M. Kozincev, Leonid Z. Trauberg, Georgij Kryzickij e
132
Ėjzenštejn nel 1923, e caratterizzato da materiale visivo innovativo, in quanto
estremamente estetizzante in senso pittorico. Šostakovič compone la partitura di Novyj
Vavilon con queste premesse, fa emergere legami formali tra musica applicata e musica
con altra destinazione: i brani si basano su contrasti e sullo studio di uno spessore
drammaturgico non esteriore, affiancati da musiche preesistenti e orchestrali (La belle
Hélène di Offenbach, citazioni di Galop dall'Orphée sempre di Offenbach e di Ça ira e
La Marseillaise). Come afferma lo stesso Šostakovič:
Lo scopo fondamentale della musica è di essere in sintonia con le cadenze e
il ritmo del film, di aumentarne la forza d'impatto. Mi sono sforzato di dare
alla musica, data la sua novità e il suo carattere inabituale, […] una
dinamica, e di superare il patetico della La nuova Babilonia266.
La modernità delle soluzioni adottate, ovvero la rinuncia alla centralità del
melodismo, il contrappunto audiovisivo, la trasfigurazione delle citazioni musicali, la
netta diversificazione tra musica di livello interno ed esterno, l'abbandono dei sincroni,
preparò la strada, sia pure indirettamente, a una delle realizzazioni più emblematiche
non solo del cinema sovietico ma dell'intera epoca del sonoro, Aleksandr Nevskij (1938)
di Ejzenštejn267.
3.3.8 Oltre il cinema d'avanguardia
Durante gli anni Venti si è sviluppato, parallelamente a quello d'avanguardia, un
cinema spettacolare che da una parte è stato in grado di sfruttare alcune sperimentazioni
avanguardistiche con lo scopo di elaborare una sintassi filmica che potesse dare allo
spettacolo una dignità artistica e, dall'altra, è riuscito a recuperare i risultati raggiunti
negli anni Dieci in direzione di una sua integrazione nella nuova dimensione linguistica.
Le motivazioni che portarono a questi due sviluppi sono da ricercare nell'ambito
dell'arte e dell'industria; più specificatamente accanto alle scelte di sperimentazione
Sergej Jutkevič.
266 Citato in Miceli Sergio, Musica per film. Storia, estetica. Analisi, tipologie, Lim Editrice, Milano
2009, p.94.
267 Miceli Sergio (a cura di), Musica, Enciclopedia del Cinema Treccani.it, 2004,
http://www.treccani.it/enciclopedia/musica_%28Enciclopedia-del-Cinema%29/
(ultima
visualizzazione: 11 gennaio 2015).
133
degli artisti-registi vi erano ragioni di carattere puramente commerciale e industriale
nella determinazione di alcune scelte tecniche. Tutto questo era alimentato anche dal
fatto che, dopo la prima guerra mondiale, la produzione cinematografica raccolse
sempre più consenso di pubblico, facendo emergere così, in modo del tutto autonomo,
spettatori che richiedevano una maggiore diversificazione del prodotto, con il risultato
che la produzione cinematografica era costretta ad adattarsi velocemente alle nuove
richieste del mercato. Ha inizio così un nuovo tipo di produzione, affiancato al cinema
popolare, la cui evoluzione parte dalle basi gettate dagli artisti sperimentatori.
La coesistenza di film di diverso genere e rivolti a diversi spettatori ha permesso
alla musica d'accompagnamento di continuare la sua permanenza nelle sale, codificata
sia dai repertori che si andavano pubblicando un po' ovunque, sia della scarsa
intraprendenza dei musicisti nel dirigere personali composizioni. Ogni sala aveva il
proprio pianista o organista fisso e ciò comportava che in ogni spettacolo
cinematografico dovesse esserci la presenza della musica, a prescindere dal fatto che il
film disponesse o meno di una propria partitura musicale. L'accompagnamento sonoro
in sala divenne così un supporto sonoro “obbligatorio” e quello cinematografico
continuava ad essere uno spettacolo audio-visivo.
La tradizione ormai consolidata di accompagnare con la musica gli spettacoli
cinematografici, da un lato spinse i produttori ad escogitare un sistema che risultasse
meno complesso dei manuali di repertorio268, dall'altro offriva ai compositori una certa
libertà di lavoro e di sperimentazione musicale. Come abbiamo potuto vedere, si giunse
ad una pratica diffusissima di musica cinematografica per ogni opera significativa, sia
dal punto di vista commerciale che artistico, in cui la figura del compositore riuscì ad
acquisire un posto sempre più importante nell'opera cinematografica. Ad esempio, come
è già stato visto, negli Stati Uniti il cineasta Griffith per i suoi film realizzati negli anni
Venti vi associò una loro partitura musicale, in parte curata dallo stesso regista. Sulla
stessa linea vi sono anche Cecil DeMille, Eric von Stroheim, Raoul Walsh, Allan Dwan,
autori che curavano la musica meticolosamente.
Anche in Europa la figura del compositore era divenuta di fondamentale
importanza, soprattutto in Francia e in Germania, dove i film assumevano carattere di
268 Nel 1916 Victor Schertzinger riuscì a registrare i primi componimenti musicali che venivano utilizzati
specificamente per una pellicola cinematografica.
134
spettacolarità per la grandiosità della messa in scena e per l'accompagnamento musicale.
In Francia, la componente musicale divenne parte integrante di una nuova visione
organica dai registi “impressionisti”: il regista Marcel l'Herbier, nel 1921, per il suo film
El Dorado si avvalse della collaborazione di Marius François Gaillard che scrisse una
partitura di cinquecento pagine per un organo orchestrale. La musica era stata composta
a film ultimato, misurando esattamente i tempi delle singole scene, diffondendo così un
metodo che non era mai stato seguito nelle precedenti composizioni originali, le quali
erano tutte in forma di poema sinfonico e caratterizzate da una sincronismo
approssimativo. Ricordiamo anche compositori come Arthur Honegger, il quale
contribuì al capolavoro cinematografico di Abel Gance La roue (La rosa sulle rotaie,
1922) e a quello successivo Napoléon (Napoleone, 1927), nei quali le musiche
aderirono perfettamente alla drammaticità delle scene, contribuendo alla riuscita
spettacolare di entrambe le opere. Honegger scrisse anche negli anni Trenta le partiture
per Les misérables (I miserabili, 1933) di Raymond Bernard e per Mademoiselle
Docteur (1937) di George Wilhelm Pabst; Rapt (1934) di Dimitri Kirsanoff; per L'idée
(1934) di Bertold Bartosch, quest'ultimi due legati ancora all'avanguardia. Al musicista
Jacques Ibert si devono le partiture per Un chapeau de paille d'Italie (Un cappello di
paglia di Firenze, 1927) di Renè Clair e considerata una delle più belle composizioni
musicali del tempo. Un lavoro sulla musica che Ibert svilupperà successivamente,
durante gli anni del sonoro, con le partiture per Don Quichotte (1933) di Pabst e per
Macbeth (1948) di Orson Welles.
In Germania, Gottfried Huppertz compose per Die Nibelungen (I nibelunghi,
1923) di Friz Lang, musiche basate sull'arrangiamento e sull'utilizzazione di temi
wagneriani. Il musicista lavorò anche su Metropolis (1927) altro capolavoro del cinema
del regista Lang.
Nei restanti Paesi europei, dopo la fine della Prima guerra mondiale, la
produzione cinematografica calò sia quantitativamente che qualitativamente; le
produzioni erano tecnicamente scarse e spesso ripetitive e faticavano a reggere il
confronto con Stati Uniti, Francia e Germania. Non va dimenticato che la produzione
cinematografica hollywoodiana, negli anni Venti, iniziò quel processo di codificazioni
135
per generi269 e categorie secondo presupposti industriali e commerciali dello star system
e dello studio system270; mentre il cinema europeo, estremamente variegato, si rivolgeva
ad un pubblico a sua volta vario, di diverse appartenenze sociali, a livelli diversi di
cultura ed interessi. Così, sia in Europa che ad Hollywood, i generi cinematografici
erano molteplici e di conseguenza anche la varietà artistica delle partiture associate lo
era, ma ben presto questo problema venne superato da un evento, che cambiò
radicalmente il modo di fare cinema e ovviamente di fare musica.
3.3.9 L'avvento del sonoro
Il passaggio dal cinema muto a quello sonoro fu lento e caratterizzato da diverse
sperimentazioni su sistemi di sincronizzazione tra la pellicola filmica e la colonna
sonora incisa su disco. Inizialmente fu Thomas Edison che tentò di sincronizzare musica
e suono tramite un fonografo collegato al proiettore: questo era denominato
Kinetoscope, il quale si azionava con l'inserimento di una moneta avviando così la
musica del fonografo che iniziava in concomitanza alle immagini. Con l'invenzione del
Kinetoscope nel 1890 si assiste ad una continua creazione di apparecchi adibiti al
sincronismo, tra questi vi è da annoverare il Phono-Ciné-Théâtre, un sistema di
proiezione cinematografica che si basava inizialmente sulla ripresa delle immagini e
successivamente sulla registrazione della voce degli attori tramite incisione fonografica;
durante la proiezione il fonografo era posizionato in sala e il proiezionista poteva
ascoltare le voci tramite un collegamento telefonico, riuscendo così ad adattare il suono
all'immagine che vedeva sullo schermo.
Le ricerche sull'amplificazione elettrica del segnale iniziarono nel 1925 nei Bell
Laboratories. L'anno successivo venne messo a punto il sistema Vitaphone, che venne
utilizzato dal 1926 fino al 1930 dalle case produttrici Warner Bros e First National; esso
269 Durante il periodo del muto questi erano: il western, il film spettacolare in costume, il film
d'avventura, il gangster film, la commedia. Con il sonoro si aggiunsero poi: il film poliziesco, il film
noir, il film di guerra, il melodramma, il musical, l'horror e il film comico.
270 Nel periodo dell'Hollywood classica (1925-1960 circa) le Big five (le cinque case di produzione
MGM, WB, Paramount, RKO e 20th Century Fox) detenevano il potere e il controllo sull'intera
produzione cinematografica di un film, compresa la distribuzione, questo sistema viene definito
studio system e aveva come obiettivo la massimizzazione del prodotto cinematografico. Lo star
system si basa sul divismo cinematografico, le case di produzione sfruttano il richiamo esercitato
dagli attori-personaggi per incentivare l'interesse del pubblico.
136
memorizzava il suono su dischi fonografici da 16 pollici con velocità di rotazione di 33
e ⅓ rpm, con spirale diretta dall'interno verso l'esterno del supporto 271. Il sistema
Vitaphone era composto da proiettori, amplificatori e diffusori acustici. Una volta che il
proiettore era caricato, l'operatore allineava manualmente la puntina del giradischi. Fu il
sistema Vitaphone che nel 1926 portò all'allestimento filmico del Don Juan di Alan
Crosland, primo lungometraggio muto post-sincronizzato con partitura orchestrale,
composta da William Axt e David Medoza e primo film con cui si stabilisce l'avvento
del cinema sonoro. La pellicola venne proiettata al Warner Theater di New York e
presentata come il primo evento del film sonoro. Ricordiamo che esso era sonoro,
ovvero composto solo da musiche ed effetti sonori e non parlato, i cui dialoghi erano
espressi tramite le classiche didascalie del cinema muto.
Da questo momento gli spettacoli cinematografici composti con il Vitaphone
iniziarono in breve tempo a riscuotere un enorme successo di pubblico, al punto che
cominciarono ad essere proposti soggetti tratti dalla musica leggera e, ai numeri
musicali, si affiancarono brevi scenette comiche con dialogo sincrono e interpretate da
star del teatro o del vaudeville272.
L'avvento del cinema sonoro coincise cronologicamente con la crisi economica,
politica e sociale del 1929, che investì prima l'America e poi l'Europa e che poi si
riversò per gran parte degli anni Trenta. In questa situazione sociale drammatica, il
cinema sonoro e parlato divenne una sorta di fuga dalle preoccupazioni della realtà
quotidiana, un nuovo spettacolo in grado di attirare spettatori di ogni ceto e Paese e
l'industria cinematografica, soprattutto americana, se ne avvantaggiò regalando successi
di pubblico e di botteghini. Il successo consisteva nel proporre al pubblico uno
spettacolo “nuovo”, che solo in apparenza era simile al cinema muto, poiché esso aveva
un grado di realismo ben maggiore e quindi possedeva più vaste possibilità di un
condizionamento ideologico di un pubblico rimasto ancora facilmente influenzabile ed
immaturo.
L'arrivo definitivo del cinema sonoro è legato all'uscita del film The Jazz Singer
271 Calabretto Roberto, Lo schermo sonoro. La musica per film, Marsilio, Venezia 2010, p.31.
272 Genere teatrale nato in Francia a fine Settecento, che indica le commedie leggere, in cui alla prosa
vengono alternate strofe cantate. In seguito all'introduzione del cinema nelle sale tale genere si
trasforma in spettacolo di varietà.
137
nel 1927, il primo film parlato della storia. La proiezione diretta dal regista Alan
Crosland e prodotta dalla Warner Bros fu accolta da pubblico e critica con grande
entusiasmo, tanto che aprì la strada ad una nuova era cinematografica. A poco a poco le
altre case di produzione abbandonarono il cinema muto per accogliere quello sonoro, in
America, agli inizi degli anni Trenta, qualche anno dopo per l'Europa, non c'era casa di
produzione che non fosse già convertita a tale tipo di produzione cinematografica. Dopo
una successione di fasi che consentirono al cinema sonoro di affinare la propria
strumentazione, alla fine degli anni Venti nacque la colonna sonora di un film composta
da rumori, musiche e parole, le tre materie d'espressione con cui si articola il suono.
Secondo Ermanno Comuzio273 il dialogo può intendersi sia come quello degli attori che
interpretano il film, oppure come la voce di uno speaker che commenta l'azione o,
ancora, come la voce impiegata come puro suono. I rumori possono essere a loro volta
realistici – rumori registrati in presa diretta con il film – o immaginari – usati
indipendentemente dalla rappresentazione visiva. La musica può essere legata a fonti
preesistenti nell'immagine, oppure a determinate immagini, o provenire dall'esecuzione
off di uno strumento, di una voce o di un complesso orchestrale o vocale, e può essere
creata elettronicamente o sinteticamente274. Il cinema sonoro entra in rapporto quindi
anche con le parole e i rumori in un nuovo contesto poli-espressivo che ne modifica la
funzione. Con l'introduzione della colonna sonora, la musica acquista un nuovo statuto
tecnico-formale che le garantisce un ruolo artistico: la partitura musicale per il cinema
sonoro non nasce più come musica d'accompagnamento alle immagini, ma entra in
rapporto anche con le parole e i rumori creando una partitura ricca di significati.
3.3.10 Gli Stati Uniti: Hollywood
Negli Stati Uniti, gli anni della ripresa economica legata a Theodore Roosevelt,
decennio che va dai primi anni Trenta ai primi anni Quaranta, coincidono anche con la
ripresa dell'industria cinematografica, in cui il cinema hollywoodiano domina con il suo
273 Viene citato lo studioso Comuzio Ermanno e le relative definizioni in Rondolino Gianni, Cinema e
musica. Breve storia della musica cinematografica, Utet Università, Torino 1991, pp.73-74
274 Secondo Comuzio si definisce una musica creata elettronicamente, quando non vi è la presenza di
strumenti naturali; la musica creata sinteticamente invece è priva della registrazione di fonti sonore
esterne alla pellicola. (cit. da Rondolino Gianni, op. cit., p.74)
138
modello di produzione sonora sul piano spettacolare e commerciale, estendendo la sua
influenza sui mercati mondiali. In questi anni emerge anche la figura del produttore, che
acquista sempre più potere decisionale e diviene determinante per la realizzazione del
film. È lui a scegliere i soggetti, i registi, gli attori, i tecnici e a fornire le attrezzature
necessarie per la buona riuscita del prodotto, che è frutto di un attento studio dei
caratteri commerciali del film e del pubblico, cui rivolgere la propria attenzione. Il film
non è quindi più prodotto dall'arte e dalla cultura del regista-autore, il quale diviene
mero esecutore del film, ma esso si fa realizzazione dello stesso produttore, che diviene
organizzatore dell'intera esecuzione. Con questa nuova figura e con il codice di
produzione cinematografico elaborato dall'industria hollywodiana, il cinema americano
venne costruito su regole sempre più rigide: le caratteristiche peculiari e ricorrenti di
ogni genere cinematografico, che avevano incontrato l'approvazione del pubblico
costituivano quelle regole del successo che la produzione cinematografica seguiva
meticolosamente per ogni film.
Anche la musica ovviamente doveva obbedire ai modelli imposti per rientrare
nelle categorie spettacolari e commerciali cui si è fatto cenno. Per questo si parla di una
“scuola cinemusicale americana”, che raggruppava musicisti ingaggiati dalle case di
produzione per creare una colonna sonora che obbedisse a schemi e modelli ben precisi.
Si tratta di un gruppo di artisti al suo interno compatto e legato alla stessa omogeneità
del cinema di Hollywood, che prevedeva generi e specie e che necessitava quindi anche
di un repertorio musicale adatto e funzionale. La musica filmica dell’Hollywood
classica si basava su una serie di funzioni: «abbandono delle compilazioni a favore di
scores275 interamente composte ad hoc; riproduzione sinergica dei compiti produttivi ed
emergenza del ruolo degli orchestratori; uso prevalente di organici orchestrali di genere
sinfonico; espansione quantitativa del commento fino a coprire buona parte del film;
onnipresenza
della
funzione
leitmotivica;
ricorso
pressoché
sistematico
all'underscoring276, con relativa adozione della tecnica del click track277». Dagli anni
275 Termine inglese che in musica indica la partitura; in ambito cinematografico il termine film score è la
colonna sonora.
276 Si tratta di una riproduzione musicale in una scena che accompagna e diventa di sottofondo a dialoghi
e azioni dei personaggi. Si utilizza per alimentare le emozioni dello spettatore ed immergerlo nella
narrazione.
277 Segnali audio utilizzati per sincronizzare l'immagine con il suono. La citazione è di Miceli Sergio,
Musica per film. Storia, estetica. Analisi, tipologie, Lim Editrice, Milano 2009, p.185.
139
Trenta il “classicismo” musicale hollywoodiano venne applicato ad un numero
considerevole di film in tutto il mondo. Claudia Gorbman 278 propone un elenco di criteri
che hanno decretato il successo della musica hollywoodiana: l'apparecchiatura della
musica è invisibile (la sua sorgente non è identificata); essa non è concepita per essere
ascoltata coscientemente (accompagna il film senza stimolare coscientemente lo
spettatore); la musica traduce le emozioni; l'accompagnamento sonoro marca la
narrazione; la melodia è fattore di continuità (tale continuità audiovisiva sembra
mescolare e omogeneizzare la discontinuità visiva, spaziale o temporale); infine la
musica diviene il fattore di unità.
Lo stile della prima generazione di compositori hollywoodiani 279 (1927-1940) è
caratterizzato da un annullamento dei caratteri individuali per un sinfonismo
ottocentesco e tardo-ottocentesco, basato sulla concezione drammaturgica ereditata dal
cinema muto.
Max Steiner, padre della scuola americana di musica cinematografica, è il
musicista che ha aperto un nuovo capitolo sui rapporti tra cinema e musica, partendo
dall'introduzione della colonna sonora. Dopo che Steiner venne chiamato dalla RKO
come direttore della sezione musicale della casa di produzione, nel giro di poco tempo
egli riuscì ad imporre la consuetudine di comporre una partitura che fosse originale e
che si basasse sulle caratteristiche proprie del film. La ricerca di Steiner si basava
sull'individuazione di uno o più temi ricorrenti, che potessero sottolineare in maniera
efficace la natura della scena o i sentimenti dei personaggi, una volta trovati li
sviluppava secondo quei principî di composizione accettati dal pubblico. Le sue
composizioni si distinguono in quanto si adeguavano perfettamente al clima del film.
Steiner privilegia toni avvolgenti, timbri accattivanti e melodie sinuose: pensiamo ad
esempio ad una delle sue prime partiture, come Cimarron (1930) di Wesley Ruggles o
Bird of Paradise (1932) di King Vidor.
Ma è con i lavori sulle musiche per King Kong (1993) di Schoedsack, Merian e
278 Gorban Claudia, Unheard Melodies: Narrative Film Music, British Film Institute-Indiana University
Press, London-Bloomington, Indiana 1987, pp.73-91.
279 Raggruppa i compositori Dimitri Tiomkin, Max Steiner, Herbert Stothart, Erich Wolfgang Korngold,
Frank Skinner, Franz Waxman, Adolph Deutsch, George Duning, Hugo Friedhofer, Joseph
Gershenson, Bronislau Kaper.
140
Cooper e The Lost Patrol (La pattuglia sperduta, 1934) di John Ford che il suo stile si fa
più maturo, creando effetti musicali spettacolari. Nella scena del rito sacrificale in King
Kong, Steiner mescola livello musicale interno ed esterno: al ritmo tribale e
all'intonazione vocale degli indigeni, in sincrono con le movenze, Steiner aggiunge un
rafforzamento strumentale di archi, legni e ottoni che non è prettamente inserito nel
contesto, ma la fusione appare efficace e comporta una sorta di legittimazione reciproca,
in cui il livello esterno perde parte del proprio carattere artificioso, mentre quello
interno assume una forza inusitata280. Questo non viene però ripetuto nella scena del rito
notturno, il quale è caratterizzato da un continuum drammaturgico più convenzionale,
che non viene mai interrotto nelle sequenze di azione. Se in The Lost Patrol, Steiner
riduce notevolmente le risorse musicali rispetto a King Kong, è con la partitura per The
Informer (1935), sempre di John Ford, che il compositore dà inizio ad una nuova fase
della musica ad Hollywood, e viene consacrato come il musicista cinematografico per
eccellenza della prima generazione, al punto che numerosi compositori dell'epoca
cercano di imitarlo. Le ricorrenze tematiche si adeguano perfettamente al clima delle
immagini, al punto che è sufficiente il solo incipit di ciascun tema a richiamare alla
memoria dello spettatore il meccanismo associativo. Questo processo ha portato ad una
maggiore standardizzazione musicale, nella quale la musica doveva essere in grado di
sorreggere le immagini di produzioni filmiche adatte a qualsiasi tipo di pubblico e
facilmente interpretabili.
Questo modello cinemusicale, che ebbe il consenso dei produttori hollywodiani
del tempo, suscitò aspre critiche da parte di altri musicisti, soprattutto di origine
europea281.
La seconda generazione hollywoodiana282 (1940-1960) riuscì a portare una diversa
attenzione sugli aspetti psicologici della narrazione, distaccandosi progressivamente
dalla concezione steineriana. I caratteri predominanti di questa generazione sono
280 Miceli Sergio, Musica per film. Storia, estetica. Analisi, tipologie, Lim Editrice, Milano 2009, p.186.
281 Nel 1937 il compositore francese Maurice Jaubert affermò che questo modello musicale portava alle
estreme conseguenze il sincronismo immagine-suono, in quanto la musica aveva il compito anche di
accompagnare i passi dei personaggi. Si veda Rondolino Gianni, op.cit., p.79.
282 Raggruppa i compositori: Victor Young, Alfred Newman, Hugo Friedhofer, Franz Waxman, Miklós
Rózs, Alex North, Bernard Herrmann, David Raksin.
141
racchiusi nella figura di Bernard Herrmann, il quale sancì le tappe più importanti del
processo di rinnovamento musicale degli anni Quaranta, contrassegnato dalle insolite
soluzioni timbriche, la concisione tematica, le caratterizzazioni ritmiche e i relativi
ostinati.
Hermann conobbe il regista Orson Welles nel 1936 e di li a poco nacque una
collaborazione, che portò entrambi alla prima realizzazione cinematografica, Citizen
Kane (Quarto potere, 1941), film segnato da un processo produttivo insolito per la
prassi hollywoodiana dell'epoca. Difatti Herrmann ha potuto disporre di tempi più
lunghi per la composizione delle musiche (dodici settimane contro le tre abituali) e gli
era inoltre possibile assistere alla genesi del film in ogni sua fase, lavorando anche con
il regista stesso. Nella partitura musicale è evidente lo stile personale del compositore,
influenzato da musicisti come Claude Debussy e Charles Ives, che predilige motivi
melodici molto semplici, i quali sembrano non avere soluzione e un'orchestrazione che
favorisce il registro grave dei fiati, le dissonanze, i cambiamenti di registro o di rivolti.
Se, come abbiamo visto, il leitmotiv classico si basa sul riconoscimento e
sull'associazione di temi, per Herrmann esso è costituito dell'idea di contaminazione,
ovvero un elemento di disturbo che, evitando qualsiasi slancio di strumenti a corda o a
fiato, provoca un senso di tensione. L'originalità di Herrmann inciterà i giovani
compositori degli anni Cinquanta ad assumersi libertà maggiori rispetto alla sinfonia
classica hollywoodiana.
Quando la musica deve rinunciare alla riconoscibilità motivica e all'immediatezza
comunicativa per seguire ed esprimere la personalità dei personaggi, Herrmann crea una
serie di entità motiviche esplicitamente legate tra loro, al punto da considerarle di
derivazione comune di un solo modello tematico. Questa decomposizione motivicotematica è un esempio evidente della profonda assimilazione del linguaggio wagneriano
e post-wagneriano, che può essere inteso per le composizioni di Herrmann come un
processo di strutturazione/destrutturazione dei presupposti armonici, rivisitato e ridotto
a pochi elementi lineari e contrappuntistici. Prendiamo ad esempio la partitura di Psyco
(1961) di Hitchock, la quale si presenta contro corrente rispetto allo stile
hollywoodiano: Herrmann concepisce un suono freddo, teso, oggettivo, senza vibrato,
che sfocia nella scena madre del film, con il brano omonimo Murder Scene, il quale
142
rispecchia la follia omicida di Norman suggerendola implicitamente; per questo la
musica si identifica con le grida degli uccelli imbalsamati, tesi sostenuta anche dai
sincroni espliciti presenti nella prima parte dell'intervento musicale della scena madre,
dove la voce degli uccelli coincide con l'ingresso e con l'uscita della figura
dell'assassino dal vano della doccia.
Accanto a Herrmann, vi è da ricordare un altro compositore della “scuola
americana”: Alfred Newman. Nato come direttore d'orchestra di musicals a Broadway
durante gli anni Venti, giunto ad Hollywood, Newman si distingue subito per la partitura
di Street Scene (Scena di strada, 1931) di King Vidor dove accompagna la storia di
personaggi popolari con una musica discreta e suggestiva. Successivamente affronterà
quasi tutti i generi cinematografici, creando colonne sonore dal grande successo
popolare, come il Leitmotiv di Love is a Many-Splendored Thing (1955) di Henry King
e insignito di nove Oscar. Newman rimane legato per tutto il suo operato alla
concezione classica di un commento musicale, che arricchisca la pellicola limitandosi
ad assecondarne il clima, divenendo così l'erede diretto di Steiner.
La terza generazione hollywoodiana283 (1960-1980) è caratterizzata da un
linguaggio cosmopolita, che emerge dal particolare periodo storico, il quale è
caratterizzato da fenomeni più rilevanti, che già si erano imposti nel ventennio
precedente e che in questi anni si affermano con maggiore incisività: la popular music,
la musica rock, il jazz, stilemi provenienti dalla musica colta del primo Novecento e
l'uso più frequente di accompagnamenti composti elettronicamente.
La presenza nel cinema della popular music non è una novità, difatti da The Jazz
Singer in poi le relazioni tra un film e una o più canzoni hanno rappresentato una
costante, perciò la vera novità di questo ventennio è l'espansione dell'industria
discografica, con i conseguenti legami sempre più stretti con le case di produzione, che
porteranno ad acquisizioni e fusioni284. L'attrattiva della popular music, esercitata da
Hollywood, nasce da un'esigenza di attirare pubblico sempre più giovane, che si stava
allontanando dai cinema e, allo stesso tempo, di riuscire a mantenere un'attrattiva verso
283 Raggruppa i compositori: Elmer Bernstein, Henry Mancini, Leonard Rosenman, Jerry Goldsmith,
John Williams.
284 Miceli Sergio, Musica per film. Storia, estetica. Analisi, tipologie, Lim Editrice, Milano 2009, p.234.
143
un'altra parte di pubblico, che iniziava a spostare la propria attenzione alla neonata
televisione, la quale sottraeva sempre più spettatori al cinema. Inoltre, il sistema degli
studios iniziava a cedere a causa dello smantellamento dell'integrazione verticale di
produzione, distribuzione e proiezione; per Hollywood l'unico modo per reagire era
affidarsi alla diversificazione iniziando ad acquistare case discografiche per una
promozione incrociata tra il film e la colonna sonora associata. In realtà, Hollywood
aveva sempre utilizzato, limitatamente, musica popular all'interno dei propri film285, ma
è solamente negli anni Sessanta che le canzoni fecero irruzione nella colonna sonora: in
Breakfast at Tiffany's (1961) la canzone “Moon River” di Henry Mancini, cantata da
Audrey Hepburn, ebbe un ruolo fondamentale nel film. Il brano vinse l’Oscar come
“Migliore canzone” e il Grammy come “Canzone dell’anno” nel 1961.
Questo uso generalizzato della canzone ebbe forti ripercussioni anche sul
linguaggio musicale, contraddistinto da una musica più aggiornata e popolare nata da
una fusione tra stilemi occidentali di mode e culture e svincolato dai linguaggi
preesistenti. La musica da film si avvicina a quella contemporanea e diffonde quelle
contaminazioni che fin dal cinema muto erano state acquisite: ragtime, blues, jazz, la
riduzione degli organici, ai quali si aggiungono chitarra e basso, suoni sintetizzati e poi
campionati, il rumorismo e l'uso espressivo del silenzio.
Il nuovo schema che emerse nella seconda metà del Novecento favoriva la
popular music, mettendo in discussione l’uso tradizionale che privilegiava la
composizione originale della musica da film; la colonna sonora-compilation, come
venne poi definita, si sviluppò poi tra gli anni Sessanta e Settanta e consisteva in una
serie di canzoni che solitamente erano preesistenti ed extracinematografiche e che molto
spesso venivano usate come musica di sottofondo. Esse ovviamente si differenziano
dalla musica strumentale in quanto sono in grado di attirare l’attenzione del pubblico in
modo più diretto di quanto faccia la musica di sottofondo, rendendo possibili i processi
di identificazione per il pubblico del tutto nuovi e offrendo la possibilità di stabilire una
relazione con la pellicola. La colonna sonora-compilation ha modificato sensibilmente
la musica da film, dove la responsabilità passa dal compositore al regista e/o al direttore
285 Ad esempio in Casablanca (1942) venne utilizzata la canzone “ As Time Goes By” scritta da Herman
Hupfeld nel 1931 ma che raggiunse il successo quando venne cantata dal personaggio Sam (Dooley
Wilson) nel film.
144
musicale in cui le scelte delle canzoni vengono decise prima delle riprese.
Ma il cinema rimane ancora il luogo di incontro privilegiato tra la musica
popolare e la musica colta, gli adattamenti musicali del muto associavano con molta
libertà le opere di Mozart, Beethoven o Debussy alla moda del jazz nascente, così,
durante gli anni Cinquanta, il jazz degli anni Venti iniziò ad essere inserito nelle colonne
sonore di film soprattutto di genere noir, polizieschi e di melodrammi metropolitani. Tra
questi annoveriamo le musiche di Alex North per A Streetcar Named Desire (Un tram
che si chiama desiderio, 1951) o di Elmer Bernstein per Sweet Smell of Success
(Piombo rovente, 1957). Numerosi sono anche gli artisti jazz americani che realizzarono
colonne sonore, come Duke Ellington per Anatomy of a Murder (Anatomia di un
omicidio, 1959) o Charles Mingus per Shadows (Ombre, 1959).
Con queste premesse è naturale come i film degli anni Sessanta fossero invasi da
un linguaggio cosmopolita, dal quale i caratteri distintivi affioravano a seconda del
contesto narrativo o del genere cinematografico. La personalità di compositori come
Alex North, Elmer Bernstein, Henry Mancini, Jerry Goldsmith, John Williams, John
Barry spicca in alcune circostanze irripetibili (The man with the golden arm, 1955, di
Otto Preminger e Bernstein; Planet of the Apes [Il pianeta delle scimmie], 1968, di
Franklin J. Schaffner e Goldsmith) e soprattutto nelle collaborazioni ricorrenti.
Analizziamo ora due compositori della terza generazione americana, che con le loro
opere esemplificano la trattazione precedente.
Nel 1955, Elmer Bernstein si impone all'attenzione internazionale con la partitura
di The Man with the Golden Arm (L'uomo dal braccio d'oro), di Otto Preminger, nel
quale lo score, composto da elementi jazzistici, viene unito a sonorità ruvide,
aggressive, molto lontane dalla raffinatezza timbrica del jazz, ma che portano ad un
risultato finale in cui la componente musicale assume un ruolo di coprotagonista del
film. Il successo giunse con la composizione Main Them per The Magnificent Seven (I
magnifici sette, 1960) di John Sturges, film che ebbe un grande successo grazie al
vitalismo quasi giocoso della musica, che contribuì a smorzare il modello epico-eroico
del genere western. Il meccanismo drammaturgico di fondo riassume in un unico tema
l'essenza del racconto, guidando il film verso l'autocelebrazione. La melodia, composta
da archi, possiede caratteri di linearità e di cantabilità popolaresca della ballata country
145
e western, che vengono però smorzati con abilità grazie al contributo dei fiati, che
esorbita a funzione di accompagnamento per contribuire alla spinta dinamica
dell'insieme, con il contributo strategico delle pause. La diffusione di questo tema si
deve all'affermazione di uno stile originale, che potrebbe essere definito lo “stile
cinema” degli anni Sessanta, in cui elementi folk, pop e sinfonici si fondono con
maestria.
Il principio delle composizioni stilistiche e delle giustapposizioni strumentali si
trova nelle composizioni di Jerry Goldsmith, ad esempio in Alien (di Ridley Scott,
1979), in cui si crea una simbiosi tale che gli effetti ambientali (strumentazioni di bordo
e sottofondi continui come il “rumore del silenzio”) diventano musica. Ad esempio,
nella sequenza iniziale del risveglio dallo stato di ibernazione dell'equipaggio della nave
Nostromo, questa viene accompagnata da una crescita degli interventi musicali talmente
graduale che non può essere avvertita come un commento esterno, ma come
emanazione dell'ambiente, al pari di altri suoni ambientali.
3.3.11 Europa
In Europa la situazione appare differente: da una parte il frazionamento della
produzione e il diverso carattere delle cinematografie nazionali non consentono, come
negli Stati Uniti, di avere un modello spettacolare che sia omogeneo e analogo a quello
hollywoodiano; dall'altro la massiccia concorrenza americana rendeva impossibile il
formarsi di questo modello, che allo stesso tempo era ostacolato dalla richiesta di
capitali. Difatti per sfidare la cinematografia americana si richiedevano importanti
investimenti da parte delle case di produzione europee, sia per le nuove strutture
tecniche, sia per il personale artistico ed esperto specializzato, e questo per gli anni
Trenta e Quaranta del Novecento, a ridosso dello scoppio della Seconda guerra
mondiale, era inconcepibile.
Si parlerà quindi di cinema europeo solo in senso geografico e non in senso
artistico e produttivo, poiché durante il periodo del cinema sonoro, che si sviluppò in
Europa verso la metà degli anni Trenta, vi erano due linee di tendenza, che allo stesso
tempo erano sia rigide che aperte alla sperimentazione formale, la quale mutava a
146
seconda del Paese. Questo ovviamente ricadde anche nel campo della musica da film,
dove non vi era una vera e propria scuola musicale come negli Stati Uniti, ma vi era la
prevalenza di contributi individuali dei musicisti.
Una produzione unitaria non era realizzabile in Europa non solo per le differenze
tra le varie cinematografie dei Paesi, ma anche perché all'interno di ogni singolo Paese
vi erano diverse case produttrici che seguivano criteri produttivi indipendenti, poco
legati ad un unico codice, come invece accadeva nel sistema hollywoodiano. Inoltre, la
figura del produttore, centrale ad Hollywood, aveva assunto in Europa poteri meno
dominanti, lasciando un certo grado di creatività ed artisticità al regista. Così
nell'ambito della musica nel cinema europeo, vi era la presenza di compositori molto
attenti alle ricerche dell'avanguardia musicale o alla musica contemporanea di quegli
anni; i musicisti erano meno legati a regole e codici dei modelli produttivi statunitensi e
quindi molto più liberi di sperimentare eventuali soluzioni innovatrici.
Caso a parte è la cinematografia della Germania che negli anni della dittatura
nazista vide la propria produzione cinematografica controllata e centralizzata dal
regime, con la diretta conseguenza che anche la musica dovette uniformarsi ai nuovi
canoni dell'estetica del nazismo, accompagnando le immagini dei film con un ritmo
calmo e disteso di carattere popolare. Tra questi ricordiamo i commenti musicali di
Hebert Windt alle opere Triumph des Willens (Il trionfo della volontà, 1935) e Olympia
(1938), entrambe produzioni di Leni Riefenstahl, dove i fasti del nazismo vennero
rappresentati in egual misura sia dalle immagini che dalle musiche. Un cambiamento
radicale e innovativo si ebbe intorno agli anni Sessanta con la nascita del Nuovo
Cinema Tedesco, una corrente di cineasti indipendenti che si scontrò con le convenzioni
del cinema tedesco del Dopoguerra. Il programma indipendente e anticonformista fu
espresso nel Manifesto di Oberhausen (1962), il quale coinvolse naturalmente anche la
colonna sonora: in questi anni si poté assistere alla creazione di partiture per strumenti
antichi di Hans Werner Henze (per il film Die Verwirrungen des Zöglings Törleß [I
turbamenti del giovane Törless] di Schlöndorff, 1964) o al montaggio di musica da
caffè per violino e pianoforte, fatto dal regista Alexander Kluge per il proprio film
Abschied von gestern (La ragazza senza storia, 1966); o ancora a canzoni classiche in
versione organistica; o infine ad inserimenti nella colonna sonora di pezzi di tango o
147
musica da circo.
«In Francia, la produzione di film spesso affidata ad autori originali come Renè
Clair, Jean Vigo, Jean Renoir, Marcel Carné, Jacques Feyder e molti altri autori
accomunati dall'attenzione per il linguaggio filmico e per le innovazioni introdotte dai
movimenti d'avanguardia, consentiva un uso della musica meno legata alle tradizioni e
più aderente ai temi affrontati e alle forme della realizzazione»286. Emergono perciò
compositori che al cinema dedicarono un'attenzione primaria e che videro nelle nuove
possibilità offerte dal rapporto tra suono e immagine un campo d'indagine aperto alla
sperimentazione. Questi autori, che associavano la rappresentazione realistica della
realtà con tendenze liriche, vengono raggruppati nel Groupe des Six287, che
comprendeva musicisti dal calibro di Georges Auric, Darius Milhaus, Arthur Honegger,
Jacques Ibert, Francis Poulenc, Maurice Jaubert. Quest'ultimo è stato quello che fra tutti
fu in grado di cogliere le caratteristiche e i limiti della musica da film: il ruolo del
musicista consisteva nel mantenere la propria personalità artistica e allo stesso tempo
essere in grado di accompagnare l'immagine senza eclissarsi in essa. La sua scrittura
musicale riusciva ad adattarsi perfettamente alla dialettica visiva del film, come
dimostrano le partiture musicali di Le dernier milliardaire (L'ultimo miliardario, 1933)
e Quatorze juillet (Per le vie di Parigi, 1934) di Renè Clair; Zéro de conduite (Zero in
condotta, 1933) e L'Atalante (1934) di Jean Vigo; Hôtel du Nord (Albergo Nord, 1938),
Le Quai des brumes (Il porto delle nebbie, 1938) e Le jour se lève (Alba tragica, 1939)
di Marcel Carné. Nonostante certe differenze determinate dalla diversità dei film stessi,
le peculiarità del compositore si possono riassumere nel rifiuto del continuum musicale,
il ridimensionamento della funzione leitmotivica e la riduzione degli organici impiegati.
Sul piano formale Jaubert rappresenta espressioni diverse della musica francese del
primo Novecento, che unisce l'essenzialità della scrittura di Satie e un substrato
popolare, che si percepiscono nel rilievo melodico, nei timbri (saxofono e bandonéon) e
286 Rondolino Gianni, Cinema e musica. Breve storia della musica cinematografica, Utet Università,
Torino 1991, p.88.
287 Il gruppo si forma nel 1916 sotto il patrocinio di Erik Satie e raggruppa giovani compositori che
inizialmente erano Louis Durey, Honegger, Auric e Germaine Tailleferre. Quando l'anno successivo
Satie si dissocia dal gruppo, nei programmi dei concerti si aggiunsero i nomi di Poulenc e Milhaud.
Nel 1920 il critico Henri Collet in un articolo su Comedia sancisce l'unione dei sei accomunati da un
linguaggio musicale solido, netto, che si distanzia dalla musica di Debussy e Wagner.
148
nei riferimenti stilistici, dando vita allo specialismo musicale.
Nella celebre sequenza della rivolta di Zéro de conduite, Jaubert utilizza lo stesso
organico della pellicola Le petit chaperon rouge (flauto, clarinetto, oboe, fagotto,
tromba, trombone, violino, violoncello, arpa, pianoforte e percussioni) e vi inserisce la
registrazione del valzer in senso retrogrado, ovvero dall'ultimo suono al primo. Il vertice
del sodalizio Vigo-Jaubert si realizza ne L'Atalante dove alla netta separazione fra
episodi interni ed esterni vi è anche la contrapposizione tra istanze narrative e musicali,
che permettono di superare il principio di funzionalità tematico. Ad esempio, nella
prima sequenza dell'uscita del corteo nuziale dalla chiesa, la Marcia e la parte corale
dell'Andantino appaiono in successione, a livello interno, ma mentre i due sposi si
avvicinano alla chiatta il Tema d'amore viene affidato a livello esterno da un saxofono.
Con i film di Carnè, Le Quai des brumes e Le jour se lève, il compositore torna
alla più netta distinzione fra interventi musicali di livello interno (diegetico) e livello
esterno (extradiegetico) e alle relative caratterizzazioni tematiche. Ad esempio
focalizziamoci su Le Quai des brumes, il quale si limita a due temi: il Tema di Jean che
è una marcia di ottoni, ispirata alla canzone marinara Le corsaire, Le Grand Coureur,
che ha un carattere epico-eroico legato al personaggio di Jean; mentre il Tema d'amore è
protagonista nella scena in cui Jean manifesta i suoi sentimenti a Nelly e in quella del
Luna Park dove i due si baciano. Questo tema si presenta come una musica priva di
lirismo, atta ad anticipare la storia infelice della coppia. Il passaggio da il livello interno
a quello esterno avviene all'inizio della sequenza del Luna Park e mentre la coppia si fa
fotografare, è udibile la java dell'Atalante che giunge da una balera attigua. Il film è
intonso di allusioni diegetiche, create dal passaggio dello stesso canto popolare,
dall'ambiente di un film ad un altro, fino a quelle extradiegetiche composte dalle
associazioni tra le imbarcazioni.
In Francia lo specialismo musicale, riconducibile al nome di Maurice Jaubert, il
periodo in cui stilemi colti e popolari si fondono insieme, sarebbe stato riscoperto da
molti compositori a partire dagli anni Cinquanta nel clima fervido della Nouvelle Vague
francese. In questi anni, gli autori di musica per film etichettati come modernisti
rifiutavano le tradizionali funzioni della musica nel cinema, come quella di creare
emozioni e atmosfere, per prediligere composizioni musicali che creassero un effetto di
149
straniamento. Ad esempio, Hanns Eisler per la colonna sonora del film di Resnais Nuit
et brouillard (Notte e nebbia, 1955) sottolinea le immagini delle parate naziste con un
improvviso pizzicato di archi.
La Nouvelle Vague francese è l’esempio perfetto del modo in cui, nella seconda
metà del Novecento, scelte registiche anticonvenzionali abbiano trovato espressione
anche attraverso la colonna sonora. Registi come François Truffaut, Claude Chabrol,
Jacques Rivette, Alain Resnais e sopratutto Jean-Luc Godard hanno cercato partiture
iconoclaste per questo approccio rivoluzionario al soggetto, alla costruzione e allo stile
del film288. Georges Delerue è il compositore che più di tutti è stato in grado di adattarsi
alle esigenze dei registi della Nouvelle Vague, autori le cui manifestazioni sentimentali
vanno di pari passo con quelle psicologiche, creando un commento musicale essenziale
e simbolico. Il legame tra il compositore e Truffaut è ben solido e i due collaboreranno
per oltre un ventennio, a partire da Tirez sur le pianiste (Tirate sul pianista, 1960) fino a
La femme d'à côté (La signora della porta accanto, 1981). Un esempio di raro
equilibrio tra il regista e il compositore si trova in Jules et Jim (Jules e Jim, 1961), dove
il commento musicale è associato a temi, in tonalità maggiore o minore a seconda del
clima di fondo, che assumono una funzione leitmotivica assoluta. Delerue rinuncia ad
un commento forte di livello esterno anche in Le Dernier métro (L'ultimo metrò, 1980),
nel quale la canzone Mon amant de Saint-Jean viene inserita nei titoli di testa, in una
scena in cui Marion e Lucas ascoltano la radio e in un episodio con musica diegetica per
strada.
«I connotati stilistici di Delerue si possono riassumere in un melodismo raffinato e
rarefatto, che tende ad identificarsi con l'essenzialità di un motivo più che con
l'articolazione di un tema; e se di tema si tratta esso è generalmente formato da due soli
segmenti»289. Da questo punto di vista il compositore può essere visto come l'erede di
una tradizione nascente da Satie e che si è manifestata nel cinema degli anni Trenta con
Jaubert e Auric, basata sulla negazione dell'espressività musicale ottocentesca. A questo,
Delerue contrappone una sorta di neoromanticismo, spoglio di retorica e per questo
adatto alle caratteristiche della Nouvelle Vague.
288 Kalinak Kathryn , Musica da film, una breve introduzione, Edizione Edt, Torino 2001, pp.89-90.
289 Miceli Sergio, Musica per film. Storia, estetica. Analisi, tipologie, Lim Editrice, Milano 2009, p.292.
150
In Italia, il primo film sonoro è La canzone dell'amore (1930) di Gennaro
Righelli, la cui partitura musicale fu affidata a Cesare Andrea Bixio, già compositore di
notevole fama per le sue melodie dal gusto popolare e alla moda. Celebri sono i suoi
interventi per il cinema, in particolare per i film Gli uomini che mascalzoni (1932) di
Mario Camerini; Vivere (1936), La mia canzone al vento (1939), Cantate con me
(1940), Mamma (1941) tutte realizzazioni di Guido Brignone. Di simili melodie vi sono
poi altri musicisti italiani che lavorarono nel campo del cinema: Ezio Carabella
compose le partiture per alcuni film di Camerini, ad esempio T'amerò sempre (1933) o
Come le foglie (1934); Alessandro Cicognini che fu collaboratore musicale di
Alessandro Blasetti, ricordiamo le sue musiche per la pellicola Ettore Fieramosca
(1938), e fu autore poi per numerosi film del neorealismo cinematografico italiano;
ricordiamo poi Giuseppe Rosati, compositore di musica sinfonica, fra razionalismo e
romanticismo, che fu autore delle composizioni più interessanti negli anni tra fascismo e
antifascismo, come per esempio Malombra (1942) di Soldati, Ossessione (1943) di
Luchino Visconti, Caccia tragica (1947) di Giuseppe De Santis. Con il compositore
Rosati si entra nel campo più complesso e più specifico della musica “colta”, poiché
egli rientra nella sfera di azioni di quei musicisti da camera e sinfonici, operisti e
compositori di grande notorietà. In Italia la collaborazione tra queste figure
professionali e il settore cinematografico, che ricordiamo sorse fin dai tempi del cinema
muto, si prolungarono anche durante gli anni del fascismo, senza però attirare
particolare attenzione dal punto di vista dei risultati ottenuti.
Di nostro interesse appare invece la stagione italiana del Neorealismo. In questa
nuova “corrente” anche la funzione della musica da film si modificò in quanto il
realismo stesso delle immagini, che rimandavano alla realtà quotidiana, richiedevano un
diverso uso della musica di fondo che fosse il più possibile aderente alla quotidianità.
Questo portò i compositori ad usare i rumori reali integrandoli nella musica o isolandoli
da essa, nel tentativo di far assumere al rumore la stessa funzione drammaturgica del
suono. È interessante il lavoro che il musicista Goffredo Petrassi ha svolto in
collaborazione con il regista Giuseppe De Santis. Le musiche composte per Riso amaro
(1949) e Non c'è pace fra gli ulivi (1950) si basano su canti popolari, rielaborati secondo
caratteristiche strutturali di evidenza drammaturgica; inoltre per il primo film vi è il
151
recupero dei canti popolari delle mondine con musica jazz e del boogie-woogie messe
in relazione proprio a quel realismo, caro a De Santis e ai cineasti che volevano
rappresentare una visione reale e fedele della vita. Non mancano, in Riso amaro, i topoi
del thriller con temoli e pizzicati d'archi su segmenti accordali di ottoni, che non
appartengono alla sostanza espressiva della sfera diegetica né a quella extradiegetica.
Inoltre sul piano delle macro scansioni drammaturgico-musicali si lascia che a un canto
delle mondine a livello interno faccia seguito, senza soluzione di continuità, un
intervento di livello esterno di alto spessore musicale, creando una difformità stilistica,
in quanto, se il canto delle mondine appare plausibile nel contesto, risulti impossibile
non avvertire l'artificio del secondo intervento musicale.
Nel 1967 il compositore Cicognini riassunse così l'esperienza neorealista:
Io ho musicato Ladri di biciclette, Miracolo a Milano, e altri film di Vittorio
De Sica e devo dire che per qualche film sento, oggi, con un giudizio critico
diverso, che la coesione tra l'immagine e il linguaggio musicale forse può
dare luogo a qualche critica. Devo però ricordare che noi musicisti, e forse
non solamente noi musicisti, abbiamo partecipato al movimento neorealista
senza renderci conto di che cosa fosse veramente, agli effetti della storia
della cinematografia. Quindi abbiamo in un certo senso continuato una
tradizione che però si è via via modificata secondo anche i film. La musica
di Miracolo a Milano è totalmente diversa, e così la musica di Prima
Comunione. Rimane certo il fatto che per un blocco di film la musica offre
questo strano giudizio, è, cioè, una musica che, pur non essendo
estremamente unita all'immagine, conserva però certi valori innanzitutto
nazionali, valori che forse oggi vanno ponendosi nella cinematografia
italiana290.
Il commento di Cicognini sulla musica neorealista può trovare un riscontro in un
classico del neorealismo italiano, il film di Roberto Rossellini Stomboli - Terra di Dio
(1950), nel quale il suono non corrisponde a nessuno dei criteri ad essa collegati: vi è
una musica semi-operistica e semi-impressionistica di Renzo Rossellini, il cui legame
con le immagini risulta approssimativo. La sinfonia non sottolinea i dialoghi o i conflitti
tra i personaggi, ma ne accompagna le sequenze in modo generico ed impreciso e i
rumori hanno solo funzione narrativa; ad esempio quando la protagonista viene portata
dal marito nell'isola, si sente poco prima il pianto di un bambino, che rimanda alla
290 Citato in Miceli Sergio, Musica e cinema nella cultura del Novecento, Sansoni, Milano 2000, p.337.
152
richiesta successiva dell'uomo di avere un figlio.
Fin dagli anni del muto, il repertorio musicale classico e romantico è stato
utilizzato con lo scopo di dare alle immagini del primo cinematografo un supporto
sonoro adatto e spettacolarmente efficace. Tuttavia, in alcuni casi, si ricorreva al
repertorio classico e romantico per determinare musicalmente un ambiente storico o per
definire un personaggio; la musica diventava perciò mezzo indispensabile di ricerca
storico-ambientale. Nel cinema d'autore italiano di questo decennio emerge, per l'uso
sapiente della musica, la figura di Luchino Visconti, in cui prevale una necessità
ambientale e un netto bisogno di impiegare la musica di repertorio con funzione storica,
ma allo stesso tempo accompagnato dalla ricerca di dare un senso drammaturgico alle
immagini. Si pensi all'uso del Trovatore di Verdi e alla Sinfonia n.7 in mi maggiore di
Bruckner per Senso (1954). Nel film l'ambientazione de Il Trovatore avviene a Venezia,
dando un'informazione di carattere storico: siamo nel 1866 perché è quella la data in cui
l'opera fu presentata per la prima volta a Venezia. Questo uso di citazioni musicali per
identificare i periodi storici lo ritroviamo anche nei suoi film successivi: il valzer di
Verdi nella sequenza del ballo nel Gattopardo (1963); o i brani di Chopin, Mozart,
Liszt, Gluck in L'innocente (1976).
Al contrario, l'uso della musica classica estrapolata dal suo contesto storico e
ambientale e inserita in un nuovo contesto, estetico e simbolico, crea un nuovo
repertorio di situazioni filmiche. Questo lo ritroviamo fin dalla prima rappresentazione
di Pier Paolo Pasolini: in Accattone (1961), la musica di Bach viene impiegata per
sottolineare la violenza della lotta di due uomini nella polvere. Essa acquista un valore
di tipo drammatico all'interno della scena e al tempo stesso colpisce la rispettabilità
della musica classica attraverso un'operazione di demistificazione; inoltre la colonna
sonora affianca alla musica colta anche ritmi blues e jazz con canti popolari cantati
direttamente dai personaggi del film. Nell'opera successiva tale operazione si ripete, ma
questa volta l'uso della musica di Bach e Vivaldi in Mamma Roma (1962) acquista un
valore leitmotivico legato ai protagonisti. Con La Ricotta (1963) Pasolini contrappone
alle deposizioni “sacre” dei tableaux vivants le composizioni musicali dell’Eclisse twist
di Giovanni Fusco sul Rosso Fiorentino e il RoGoPaG twist di Carlo Rustichelli sul
Pontormo, in cui l'errore del contrappunto musicale diventa un problema diegetico
153
commesso dalla troupe cinematografica intenta a girare la scena.
Tra alcuni sodalizi celebri che nascono fra autore e compositore, ricordiamo
quello tra Nino Rota e il regista Federico Fellini, la quale è caratterizzata da una sorta di
vera e propria simbiosi contenutistico-formale tra i due, che sfocia in un rapporto tra
immagine e suono di grande valore spettacolare. Nel cinema europeo il compositore
gode di maggiore libertà espressiva rispetto agli Stati Uniti, al punto che i sodalizi tra
cineasta e compositore conducono all'individuazione di ricorrenze linguistiche e
narratologiche. Altro caso analogo è il rapporto tra il musicista Giovanni Fusco e il
cineasta Michelangelo Antonioni, accomunati dalla medesima ricerca nel raggiungere
un rigore formale assoluto, in cui elementi filmici e musicali seguono lo stesso principio
estetico nella linea di sviluppo della storia e nei sentimenti dei personaggi. A questo
proposito, nel 1961 il regista dichiarava:
Io penso che la musica ha avuto e può continuare ad avere una grande
funzione nel cinema perché non c'è arte alla quale il cinema non possa
attingere. Nel caso della musica poi, attinge quasi materialmente, quindi il
rapporto è ancora più stretto. Mi pare però che questo rapporto si vada
trasformando. Dieci anni fa […] si chiedeva alla musica di creare nello
spettatore una particolare atmosfera, per cui le immagini arrivassero più
facilmente allo spettatore stesso. […] Personalmente sono molto restio a
mettere musica nei film, proprio perché sento il bisogno di essere asciutto,
di dire le cose il meno possibile, di usare i mezzi più semplici e il minore
numero di mezzi. E la musica è un mezzo in più. Io ho troppa fiducia
nell'efficacia, nel valore, nella forza e nella suggestività dell'immagine per
credere che l'immagine non possa fare a meno della musica291.
Così Fusco per i film Cronaca di un amore (1950), I vinti (1952), La signora
senza camelie (1953), Le amiche (1955), Il grido (1957), L'avventura (1960), L'eclisse
(1962) e infine per Deserto rosso (1964) mette in atto uno dei primi processi di
autoriduzione della scrittura musicale, ovvero una rinuncia al protagonismo, alla materia
tematica e all'enfasi per rispettare la suddetta poetica di Antonioni. Ad esempio, in
Cronaca di un amore la musica minimalista di Fusco, scritta per un duo di pianoforte e
sassofono appare molto spesso isolata in alcune scene, non solo per il suo uso non
diegetico, ma anche perché quando le scene si spostano nella sala da ballo,
accompagnata da musiche dallo stile sud-americano popolare, appare evidente la
291 Citato in Tinazzi Giorgio, Michelangelo Antonioni, La Nuova Italia, Firenze 1974, pp. 5,6.
154
differenza con la partitura minimale di Fusco.
Non si può poi non citare il compositore italiano Ennio Morricone, la cui notorietà
giunge con la serie di colonne sonore per gli spaghetti-western di Sergio Leone, che
rimangono ancora oggi dei capolavori della musica da film. Morricone usò tecniche
moderniste (come il serialismo integrale e la musica concreta) combinate con elementi
di popular music, influssi folk, canti celtici, canto gregoriano, trombe mariachi e
orchestre sinfoniche. Per esempio, in The Good, the Bad & the Ugly (Il buono, il brutto
e il cattivo; 1966) Morricone utilizzò una melodia convenzionale, ma suonata da una
chitarra elettrica, da un’armonica, un’ocarina accompagnati da strumenti ancora meno
convenzionali come fischi, jodel, grugniti, vocalizzazioni, schiocchi di frusta e fucilate.
Nella trilogia del dollaro292 di Leone, le musiche per i titoli di testa sono formate
da tre segmenti autonomi, giustapposti e poi sovrapposti: il primo è di carattere arcaico
ed è sempre affidato a strumenti “poveri” come il fischio umano, il marranzano,
l'argilofono, le percussioni prese da strumenti della quotidianità, la chitarra acustica,
l'armonica a bocca; il secondo attualizza il primo con il timbro rock della chitarra
elettrica; il terzo infine è più convenzionale e celebrativo affidato ad un coro maschile
vocalizzante e all'orchestra d'archi. Morricone, con le sue originali composizioni
composte da peculiarità timbriche, ritmiche e melodiche, intese recuperare e
valorizzare la tradizione che dominerà il panorama musicale fino agli anni Ottanta.
Difatti un ulteriore fenomeno che appare negli anni Sessanta è la presa di coscienza
della musica come sonorità, della quale Ennio Morricone è il miglior esponente, grazie
all'uso di strumenti usati da soli (armonica, chitarra elettrica, pianola nei film di Sergio
Leone), oppure del pianoforte unito a strumenti a corda; nel suono mette inoltre in
primo piano la risonanza, il timbro, l'esistenza propria della melodia, che porta la
musica da film allo stesso livello degli elementi che la costituiscono.
Per quanto concerne la musica cinematografica inglese, essa si sviluppò intorno
agli anni Trenta lungo un duplice binario: il perseguimento nello svolgere di canzoni,
operette, vaudevilles in linea con la tradizione sinfonica e leggera e il tentativo di un
rinnovamento formale. In quest'ultimo caso si assiste, come per la musica
292 Raggruppa i film di Sergio Leone: Per un pugno di dollari (1964), Per qualche dollaro in più (1965),
Il buono, il brutto, il cattivo (1966).
155
cinematografica francese, tedesca o italiana, ad una “scuola” che non prendeva in uso
modelli hollywoodiani, ma erano principalmente legati ai caratteri propri della
tradizione del Paese. In questo contesto ricordiamo Arthur Bliss con la partitura di
Things of Come (1935) del regista William Cameron Menzies e Hubert Bath,
considerato uno dei pionieri della musica cinematografica inglese. Bath lavorò alla
partitura per Blackmail (Ricatto, 1929) di Alfred Hitchcock: si tratta del primo film
sonoro del regista e, proprio perché l'anno di realizzazione di questo è da collocarsi al
momento dell'avvento del sonoro, la colonna sonora si ritrova a rispondere comunque ai
prinicìpi del muto, difatti nei primi film sincronizzati a posteriori, la musica era
composta con la finalità di integrare l'azione, sostituendosi alla parola nelle scene in cui
essa non era ancora presente. Significativo è l'episodio in cui a Scotland Yard si
identifica il presunto assassino e mentre viene accompagnato in cella una parte della
melodia viene usata, in assenza di dialogo, per accompagnare l'affermazione
dell'ufficiale di polizia e la relativa risposta dell'arrestato.
Un altro fenomeno che ha avuto delle ripercussioni sul rapporto tra la musica e il
cinema è la collocazione culturale (e produttiva) dei registi inglesi che, nonostante gli
esiti differenti delle loro opere, hanno contribuito ad alimentare la cultura della musica
cinematografica. Pensiamo ad esempio a Stanley Kubrick: nonostante le origini
statunitensi del regista, lo inseriamo nella cinematografia anglosassone, in quanto egli
stesso si definiva naturalizzato britannico. Il grande cineasta ha attinto dal repertorio di
musica classica e moderna, inserendole nei propri film in modo strettamente funzionale
al ritmo e alle cadenze delle sue sequenze. In 2001: A Space Odyssey (1968) il Richard
Stauss di Così parlò Zarathustra si mescola con Ligeti del Requiem, di Lux Aeterna, di
Atmosphères e questi con Johann Staruss di Sul bel Danubio blu e col Khačatur'jan di
Gayaneh, creando citazioni musicali meravigliose. L'uso del celebre valzer di Strauss
nella sequenza della navicella è riconducibile al fatto che il valzer appunto è una danza
rotatoria e per questo accompagna il movimento circolare dell'astronave; inoltre esso è
anche la danza di corteggiamento per eccellenza nell'Ottocento, ed è questo che in
qualche modo richiama la sequenza dell'astronave che entra-penetra nella base.
In A Clockwork Orange (1971) il cineasta usa la Nona Sinfonia di Beethoven,
manipolata al sintetizzatore da Walter Carlos, brani di Rossini e di Purcell con lo scopo
156
di integrarli con le sequenze del film in modo da creare associazioni di tipo psicologico
nello spettatore: ad esempio la musica del Guglielmo Tell di Rossini accompagna i
momenti più struggenti della vita di Alex, mentre La Gazza ladra viene associata alla
sua violenza. Al contrario l'Inno alla gioia di Beethoven viene attribuito al mondo
distorto di Alex, ad esempio quando nel protagonista vi è gioia nel guardare le parate
naziste.
Altra scuola è quella sovietica, nella quale il cinema sonoro sviluppatesi lungo gli
anni Trenta venne indirizzata verso un percorso contenutistico e formale piuttosto
rigido, secondo i canoni del “realismo socialista”, che influenzò tutte le arti, comprese
quelle musicali, al punto che la gran parte delle colonne sonore tra gli anni Quaranta e
Cinquanta era caratterizzata dai medesimi toni celebrativi. In questi anni però emersero
due figure che sperimentarono il sonoro sia dal punto di vista estetico che tecnico,
questi sono i compositori Juri Shaporin e Sergei Prokof'ev.
Il film di Vsevolod Pudovkin, Dezertir (1933) realizza in parte i principî del
Manifesto dell'asincronismo (1928), esposto in precedenza nel sottocapitolo dedicato
alle teorie inerenti alla musica. La colonna sonora composta da Juri A. Shaporin
incorpora alla musica rumori concreti e reali, ad esempio quelli delle miniere di
estrazione del carbone, che vengono usati in opposizione alle immagini: ad esempio i
cortei festivi vengono associati ai rumori della fabbrica, mentre il lavoro è unito alla
pomposità della manifestazione del Primo Maggio. Pudovkin crea poi effetti musicali
montando fischi di vapore e sirene insieme, oppure mescola alle parole di un discorso,
pause, rumori di sottofondo e borbottii. Ritroviamo le caratteristiche del manifesto
dell'asincronismo anche nelle scene più tragiche, le quali vengono accompagnate da un
contrasto musicale: la drammaticità del suicidio di un lavoratore ridotto allo sfinimento
dalla fame sono in contrapposizione con la melodia dal ritmo latino-americano, che il
compositore alternata alla musica jazz. L'effetto anempatico, termine di Chion che
abbiamo analizzato in precedenza, lo ritroviamo nella scena in cui i giornali riferiscono
notizie relative al contrabbando, e dove la musica scelta è spensierata per poi
interrompersi bruscamente e riprendere il suo corso; così avviene anche nella scena
della parata del Partito Comunista, nella quale gli operai e i soldati sono accompagnati
157
dalla Carmen di Georges Bizet.
Ricordiamo anche i contributi di Sergei Prokof'ev, che lavorò per i film di Sergej
Michajlovič Ėjzenštejn, Aleksandr Nevskij (1938) e Ivan Groznij dove per entrambi i
film il tentativo di stabilire un rapporto fra le sequenze e i ritmi musicali risulta di
notevole forza espressiva.
Per Aleksàndr Nevskij, prima pellicola sonora del regista, Ejzenštejn applica
quello che definirà montaggio verticale, il quale si compone sulla falsariga di una
partitura d'orchestra, che determina equivalenze fra il contesto visivo e quello sonoro,
ottenuta con una «struttura polifonica che raggiunge l'effetto tramite la sensazione
composita di tutti i pezzi nel loro insieme. Questa “fisionomia” della sequenza completa
è data dalla somma delle singole caratteristiche e della sensazione generale suscitata
dalla sequenza»293. In uno scritto postumo, il regista torna sull'argomento:
Non porta […] alcuna differenza che il compositore scriva la musica per il
“tema generale” della sequenza o per la sequenza già ordinata in montaggio,
abbozzato o definitivo che sia; o, se il procedimento è stato seguito
all'inverso, che il regista proceda al montaggio visivo sulla musica già
scritta e incisa sulla colonna sonora. E a questo proposito vorrei dire che in
Aleksàndr Nevskij furono impiegati tutti, letteralmente tutti, questi diversi
metodi. Nel Nevskij infatti, vi sono tanto sequenze in cui le inquadrature
furono montate sulla colonna sonora già precedentemente incisa, quanto
sequenze per le quali l'intero pezzo musicale fu scritto dopo che il
montaggio delle immagini era stato effettuato. E vi sono sequenze che
comprendono entrambi i metodi. Vi sono perfino delle sequenze costruite
con un procedimento tale da costituire elemento aneddotico. Un esempio di
quest'ultimo metodo è nella scena della battaglia, allorché, per festeggiare la
vittoria dei soldati russi, vengono suonati i tamburi e i flauti. Io non riuscivo
a spiegare a Prokof'ev quale effetto preciso doveva essere “visto”, per
questo momento di esultanza, nella musica. Accorgendomi che nessuno di
noi due veniva a capo di nulla, feci costruire appositamente degli strumenti,
li ripresi mentre venivano suonati (senza incidere il suono) visivamente, e
feci proiettare il risultato per Prokof'ev. Questi allora, mi consegnò quasi
immediatamente “l'equivalente musicale” dell'immagine visiva dei suonatori
di flauti e tamburi, che io gli avevo fatto vedere294.
È esplicita l'ammirazione che il regista ha nei confronti della musica ed è per
293 Ėjzenštejn Sergej Michajlovič, Forma e tecnica del film e lezioni di regia, 1939; (trad.it.) Einaudi,
Torino 1964, p.270.
294 Ėjzenštejn Sergej Michajlovič, Forma e tecnica del film e lezioni di regia, 1939; (trad.it.) Einaudi,
Torino 1964, pp.322-323.
158
questo che Ejzenštejn la utilizzava come qualsiasi altra componente espressiva,
servendosene in sottordine o in primo piano in una continua alternanza di ruoli. La
colonna sonora di Prokof'ev, dal titolo omonimo al film, è stata realizzata sulla base di
studi su filmati preesistenti, bozzetti o descrizioni fattegli dal regista in modo che il
compositore oscillasse tra una posizione di massimo coinvolgimento e una di massima
autonomia dall'aspetto filmico. La struttura del film viene incontro al musicista, per cui
egli può concentrarsi su una successione di episodi che generano forme musicali chiuse
o autosufficienti, ad esempio pensiamo all'aria del mezzo soprano Il campo della morte
calato in quel preciso contesto filmico.
159
3.4 Godard e la musica: compositore di cinema
Jean-Luc Godard inizia a sviluppare uno studio verso un'estetica del suono a
partire dai suoi primi lavori, per giungere ad un'estetica personale con Prénom Carmen.
La sua estetica si basa su un triplice approccio: quella dell'artista, il suo lavoro e il suo
rapporto con la storia295. Il suono, in Godard, diviene espressione soggettiva dell'artista,
che esterna attraverso la simultaneità di diversi eventi sonori oppure con la
segmentazione dello stesso suono. I suoi processi di rottura riescono a fondersi in un
unico universo musicale, una separazione e riparazione del suono che si accompagna al
montaggio dell'immagine stessa. Con questo metodo, di montaggio e smontaggio degli
elementi, il regista crea nuovi oggetti sonori ed individuali, segmenti che non sono né
primari, né la somma dei loro componenti. I due monologhi di Made in Usa (1966) sono
ad esempio la giustapposizione egualitaria di due discorsi distinti, che possono essere
ascoltati separatamente o insieme. La difficoltà di una differenziazione tra i due
monologhi rafforza la percezione della sonorità globale. Per le sue caratteristiche, il
suono godardiano può essere associato alla musica di campionamento, ovvero quando
parti di una composizione musicale o di suoni vengono miscelate per dare vita ad una
nuova composizione. Questa pratica può essere considerata l'equivalente della citazione
in letteratura o del collage in pittura. L'estetica del suono in Godard si basa quindi su il
missaggio di suono, musica e immagini.
Questo mix ha una un'origine antica e profonda che ricerchiamo nel montaggio.
Come abbiamo potuto osservare in precedenza, i cineasti che trattano con molta libertà
la tecnica del montaggio sono anche i più audaci nell'utilizzo della musica. Pensiamo
alle teorie formulate da Ejzenštejn296, che aveva fatto del suddetto il fulcro del suo
discorso teorico, il quale sosteneva l'idea di un assemblaggio delle immagini scomposto,
privo di una linearità temporale, costruito in modo tale che sia lo spettatore a partecipare
attivamente alla “ricostruzione” del film, attraverso nuove associazioni di idee e di
emozioni da esso provocate tramite il turbamento della nuova tecnica. Allo stesso modo,
295 Secondo Serrut Louis-Albert, Jean Luc Godard. Cineaste acousticien: des emplois et des usages de
la matières sonore dans ses oeuvre cinématographiques, L'Harmattan, Paris 2011, pp.324-237,
(traduzione nostra).
296 In questo caso ci riferiamo ala teoria del montaggio delle attrazioni formulata nel 1923. Per un
approfondimento sull'argomento si consiglia il testo di Antonio Somaini, Ejzenstejn. Il cinema, le
arti, il montaggio, Einaudi, Torino 2011 e di David Bordwell, The cinema of Eisenstein , Harvard
Univ. Press, London 1993.
160
nel Manifesto dell'asincronismo297 egli sostiene che il suono asincrono, oltre ad essere
un elemento importante del montaggio, favorisca il perseguimento dell'obiettivo,
sostenuto anche per la montatura delle immagini, di dimostrazione dell'artificialità del
cinema allo spettatore, generando conflitti espressivi in grado di provocare sensazioni
nuove.
Ritengo perciò doveroso soffermarci sull'utilizzo innovativo che Godard fa del
montaggio per poter così approdare ad una comprensione che sia sufficientemente
esaustiva del suo legame, prima con il suono e, poi, con la musica.
L'uso iconoclasta e consapevole di tale tecnica da parte dell'artista si basa sulla
frammentarietà della tecnica che conduce lo spettatore ad un distacco critico dall'opera
cinematografica: il cineasta privilegia i falsi raccordi, i jump cuts, i salti di montaggio,
le panoramiche a schiaffo, l'uso del piano sequenza-mobile e le ripetizioni di brevi
sequenze come refrain; tecniche che lo portano a sperimentare soluzioni visive e sonore
nuove. Così come la tecnica si contrappone alle impostazioni convenzionali, anche con
il suono Godard tenta di contrapporsi alla postsincronizzazione del cinema classico.
Caratteristica essenziale dei suoi primi film, ma anche dell'intera Nouvelle Vague, è il
suono in presa diretta, ovvero registrato contemporaneamente all'immagine. A causa del
ritardo della cinepresa 35 mm in fatto di presa diretta, le prime opere degli anni Sessanta
sono però tutte postsincronizzate; così i cineasti della Nouvelle Vague si limitavano
solo, al momento delle riprese, a registrare una colonna-guida, scelta che venne
anticipata dallo stesso Godard alla fine degli anni Cinquanta, la quale causava tuttavia
un asincronismo tra immagine-suono. Per un perfezionamento tecnico si dovette
aspettare la fine degli anni Sessanta, ma ancora una volta è Godard ad anticipare la
tecnica: nel 1961 e nel 1962 realizza i film Une femme est une femme e Vivre sa vie
totalmente in presa diretta, raggiungendo un risultato clamoroso. È una rivoluzione
nell'estetica del sonoro, il quale si fonde con i rumori del bar, del flipper, delle strade e
delle automobili. «Nasce il “suono-Godard”, che si porta appresso la lingua e il parlato
francesi risentiti e rigustati ex novo»298. A proposito di Vivre sa vie, Godard dirà:
297 Ricordiamo che il Manifesto dell'asincronismo venne teorizzato da Ejzenštejn e Pudovkin nel 1928,
in cui si perseguiva l'idea che il suono messo in contrappunto con il montaggio potesse creare una
perfetta fusione tra immagine e musica.
298 Gilodi Renzo, Nouvelle Vague: il cinema, la vita, Effatà editrice, Cantalupa, Torino 2007, p.90.
161
Nel mio film bisogna sentir parlare le persone, tanto più in quanto esse si
trovano spesso di spalle e non si è distratti dai volti. Il suono invece è il più
realistico possibile. Mi fa pensare a quello dei primi film parlati. Mi è
sempre piaciuto il suono nei primi film parlati, aveva una grande verità,
perché era la prima volta che al cinema si sentiva parlare qualcuno299.
La parola è un altro suono fondamentale nell'estetica di Godard, la sua riflessione
sulla natura del linguaggio in rapporto alla realtà può riassumersi in queste brevi righe
scritte dal regista:
Nei primi film parlati non si capivano tutti i dialoghi, e questo la gente lo
trovava meraviglioso. Adesso, invece, la gente crede che, se si pronuncia
una parola, questa debba sempre avere un significato preciso, e che se
sfugge è la catastrofe. Si tratta di una falsa idea del cinema. Quando si sente
la Carmen, all'Opéra, non si capisce niente di quel che dicono i cantanti, e la
gente non è affatto irritata. Se questa stessa Carmen fosse portata al cinema,
la gente direbbe di non aver capito nulla. Al cinema c'è il suono e
l'immagine300.
La parola, o meglio il linguaggio, con le sue dinamiche ricche di paradossi visuali
sarà analizzata con maggiore specificità nel prossimo capitolo dedicato alla letteratura.
Ci soffermeremo ora su quella “sonorità” che Godard dona alla parola e ai dialoghi, che
molto spesso l'ha visto sfociare, dal punto di vista tecnico, nel monologo interiore. «Egli
rimane affascinato dalla libertà del monologo interiore e dall'efficacia emotiva di una
postsincronizzazione dei dialoghi in Jean Rouch e nel suo film Moi, un noir301 (1958), al
punto che ne trae ispirazione per il suo Charlotte et son Jules (1958), dove ha l'audacia
di doppiare egli stesso Jean-Paul Belmondo» 302. Anche con Le petit soldat prosegue le
ricerche sulla postsincronizzazione, usando la voce interiore come diario personale del
protagonista, accompagnato da una partitura per pianoforte di Murice Le Roux. «Nella
rete delle varie sonorità che attraversano i film godardiani, possiamo udire talvolta
anche i pensieri dell'interiorità dei personaggi, come gli interrogativi e le idee dell'autore
stesso sul film che sta realizzando o che ha realizzato: Godard insinuerà costantemente,
soprattutto nei suoi primi film, il suono della voce di un narratore, che coincide più o
299 Citato in Gilodi Renzo, Nouvelle Vague: il cinema, la vita, Effatà editrice, Cantalupa, Torino 2007,
p.90.
300 Godard Jean-Luc, Il cinema è il cinema, I Garzanti Cinema, Milano 1981, pp.230-231.
301 Rouch per il film chiede agli attori di doppiarsi dopo le riprese in assoluta libertà.
302 Marie Michel, La Nouvelle Vague, Lindau, Torino 1998, p.106
162
meno palesemente con se stesso (Bande à part, Deux ou trois chose que je sais d'elle),
aggiungendola o sovrapponendola a scritte e cartelli e accostandola alle voci interiori
dei personaggi o delle “presenze” dei suoi film»303.
Nel periodo maoista304 (1967-74), Godard crea nei dialoghi effetti di straniamento,
in cui molto spesso i personaggi si rivolgono ad un interlocutore esterno al film (La
Chinoise). Ma è con il gruppo Dziga Vertov che egli privilegia la parola, il suono,
rispetto all'immagine, in quanto sente la necessità di «istituire l'immagine come
referente della parola, ottenendo così di allontanare il reale dall'immagine innocente, la
quale invece intende avvicinarlo: designare l'immagine attraverso il suono vuol dire […]
rendere più arbitraria la motivatezza del segno iconico […] usando uno strumento la cui
motivazione è palese (la parola) per rendere evidente anche la codificazione
dell'immagine»305. In questi anni il monologo interiore di Godard non corrisponde più
alla voce dell'autore, ma diviene espressione di una riflessione metodologica, in cui il
regista si interroga sui rapporti tra le cose, tra le immagini e i suoni.
Approdiamo ora alla musica e all'uso che Godard ne fa nelle sue opere
cinematografiche. Per il cineasta «la musica […] è un elemento vivente, allo stesso
titolo di una strada o di un automobile. È una cosa che descrivo, una cosa preesistente al
film»306. Quando in una pellicola viene inserita della musica preesistente, si mette in
moto il meccanismo della citazione. Citare vuol dire attingere ad un mondo
extratestuale, esterno, preesistente. «Si prende una melodia, o un brano, lo si toglie dal
contesto precedente e lo si ricontestualizza»307. Godard utilizza la musica come
elemento della modernità e ne esibisce i procedimenti e i mezzi audiovisivi come tali, in
modo da valorizzarne la discontinuità: nei suoi film accompagna alle immagini elementi
forzati di musica classica (La Chinoise, Pierrot le fou); crea stacchi brutali nei suoni e
nelle musiche (Le Mépris) e un arbitrario rapporto tra musica e immagini (Sauve qui
peut, la vie). Utilizza la melodia come il montaggio, prima ne sperimenta le tecniche e
303 Chiesi Roberto, Jean-Luc Godard, Gremese Editore, Roma 2003, p.9.
304 In questo periodo Godard rinuncia alla personalità del regista-autore per fondersi nel gruppo Dziga
Vertov (Godard, Gorin, Roger).
305 Citato in Allegri Luigi, Ideologia e linguaggio nel cinema contemporaneo: Jean-Luc Godard,
Università di Parma, Centro studi e archivio della comunicazione, Parma 1976, p.201.
306 Godard Jean-Luc, Il cinema è il cinema, I Garzanti Cinema, Milano 1981, p.262.
307 Pagan Alessandra e Cecchinato Manuel, Cinema e forme sonore, Forum, Udine 2000, p.67.
163
poi l'impatto sullo spettatore. Questa associazione musica-montaggio è riscontrabile
anche in una dichiarazione del regista, nella quale egli descrive l'assemblaggio in
termini musicali: «si può passare da un piano all'altro per un motivo drammatico, e
questo è il montaggio di Ejzenštejn, che oppone una forma all'altra, e le lega
indissolubilmente con la medesima operazione di raccordo. Il passaggio dal totale al
primo piano diventa allora come il passaggio dalla tonalità in minore alla tonalità in
maggiore nella scrittura musicale e viceversa» 308 e ancora «Sono arrivato ad uno stadio
in cui il montaggio diventa composizione, musica»309.
Fin dagli esordi Godard manipola il suono e la componente musicale con le stesse
tecniche del montaggio: crea spostamenti, tagli, découpages e assemblaggi che sono
comparabili a quelle dell'immagine. Sia che il regista attinga al repertorio classico, o che
le musiche siano create appositamente per il film, il processo di frantumazione e di
ripartizione dei pezzi sonori in tutto il percorso temporale del film è lo stesso. Questa
estetica del suono in Godard la ritroveremo nelle partiture di Delerue per Le Mépris,
Duhamel per Pierrot le fou, Yared per Sauve qui peut (la vie), che il regista taglia e
sposta a proprio piacimento, per giungere agli anni Ottanta in cui Godard fa ricorso alla
musica classica.
Come abbiamo potuto constatare, il lavoro di rinnovamento per quanto riguarda
l'immagine intrapreso con il montaggio va di pari passo con un approccio innovativo al
suono. Il cineasta fu il primo, dal punto di vista tecnico, a estendere il principio del falso
raccordo e della rottura alla totalità della banda sonora e alla musica nel senso più
specifico, che essa sia composta appositamente per il film (À bout de souffle, 1960;
Pierrot le fou, 1965) oppure no (Prénom Carmen, 1983). La sua ricerca di un'estetica
del suono culminerà, a mio parere, nei primi anni Ottanta, quando darà vita a Passion e
Prénom Carmen. Con quest'ultimo Godard persegue il suo progetto a lungo termine per
ristabilire il primato dato all'immagine, evidenziando l'elemento più dipendente da essa:
il suono. Ma la sua ricerca non terminerà con Prénom Carmen, anche nei suoi film
308 Citato in Liandrat-Guigues Suzanne, Leutrat Jean-Louis (tr. it. di Arecco S.), Godard alla ricerca
dell'arte perduta, Le Mani, Recco 1998, p.59.
309 Godard Jean-Luc, Due o tre cose che so di me. Scritti e conversazioni sul cinema, a cura di Orazio
Leogrande, Minimum Fax, Roma 2007, p.233.
164
successivi egli manipolerà la musica classica, adattandola alle diverse situazioni
drammaturgiche a volte spezzando le musiche e usandone i frammenti in una grande
libertà inventiva e di spiccata provocazione estetica (Détective, 1985; Puissance de la
parole, 1988; Allemagne année 90 neuf zero, 1992; Forever Mozart, 1996).
Partiamo ora dal film dove tutto ebbe origine (À bout de souffle) per soffermarci
poi brevemente su altri film in cui la musica, e più precisamente la citazione musicale, è
venuta in essere, per concludere con la produzion che racchiude la celebrazione del
suono: Prénom Carmen.
Fin dal suo primo film, À bout de souffle, Godard mette in discussione il rapporto
tra immagini e suoni: è finita la supremazia data alle figure e alla storia narrata, ora il
cinema si fa audiovisivo. «Le parole non sono più attaccate alle bocche, i rumori
abbandonano il ruolo d'illustrazione sonora, la musica non si limita più a effetti di
ridondanza o di contrappunto»310. Questo appare già nei primi tre minuti del film e si
protrae per il resto dell'opera: se il film si apre con un montaggio ed una musica di
sottofondo molto classica, è nella sequenza successiva che emerge l'originalità di
Godard. Le immagini ci mostrano il protagonista Michel (Belmondo) che cammina per
strada e canta, a cappella, Buenas noches mi amor di Martial Solal e nel momento in cui
ripete «Pa papapa Pa-tri-zia» la relazione suono-immagine sembra essersi invertita, in
quanto è il ritmo della voce che scandisce il montaggio delle immagini. La canzone
swing di Solal si lega al montaggio delle immagini, alla voce, alla musica e ai rumori di
clacson che si mescolano insieme in un'unità ritmica che richiama la canzone stessa. Il
brano continua poco dopo quando Michel, in macchina, accende la radio e si ferma in
una stazione che trasmette una canzone del cantante francese Brassens, insignificante
per il film in sé ma che accompagna le parole che il protagonista rivolge direttamente
allo spettatore, con lo sguardo in macchina dice: «Se non vi piace il mare, se non vi
piace la montagna, se non vi piace la città... Andate a quel paese...» 311. Il ritmo e
l'intonazione della voce di Michel si mescola a quello della musica, che diventa
accompagnatrice delle parole, ma subito la sinfonia ricomincia e continua per tutto il
viaggio fino all'incontro con le autostoppiste, le quali sembrano segnare il tempo con il
movimento del braccio. Dopo aver lasciato le giovani, la musica si interrompe
310 Mouëllic Gilles, La musica al cinema. Per ascoltare i film, Lindau, Torino 2005, p. 82.
311 Dialogo del film À bout de souffle (1959).
165
brutalmente, Michel riaccende la radio e ricompare la voce di Brassens che dice «non
c'è amore...», frase che viene lasciata completare dallo stesso spettatore. La musica
jazzy riprende per terminare con l'episodio dell'uccisione del poliziotto, dove il rumore
della rivoltella prevale e fa intuire allo spettatore cosa è accaduto. L'uso della citazione
di musica classica avviene con Concerto per clarinetto e orchestra (KV 22) di Mozart,
definito da Godard come «il suono mortale del clarinetto di Mozart» 312. Questa
descrizione è rilevante, in quanto ritengo non sia casuale l'uso che il regista fa del
“suono mortale di Mozart”, poiché la musica è associabile ad un'altra morte, quella di
Michel, che avverrà poco dopo aver ascoltato il brano e per mano di Patricia, che lo
tradirà denunciandolo alla polizia.
L'anno successivo, con Une femme est une femme, Godard omaggia il musical
hollywoodiano con un richiamo esplicito nei titoli di testa: (un film) Musicale –
Sentimentale – Teatrale – Genere Lubitsch. Inoltre il film vede numerosi numeri
musicali svolti dalla protagonista, Angela (Anna Karina), che di professione fa la
ballerina e la cantante in un locale di strip-tease. Il film però non è una commedia
musicale, né cerca di avvinarsi a tale, come disse il cineasta: «alla fine ho preferito
suggerire l'idea che i personaggi cantino, utilizzando la musica, ma continuando a farli
parlare normalmente»313. La composizione della colonna sonora viene affidata a Michel
Legrand314 che, visionata la prima versione del montaggio, comunica all'autore: «Se sei
d’accordo, faccio scivolare la musica dappertutto, anche sopra, sotto e durante i
dialoghi. Anche quando i personaggi camminano. Vedrai, quando Anna cammina per
strada sembrerà che danzi; quando parla, sembrerà che canti! Un compito insensato, mi
sono aggrappato a ogni millimetro di pellicola, al centesimo di secondo» 315; questo
“effetto musicale” si nota soprattutto nella lunga sequenza iniziale, dove Anna Karina
passeggia per le vie di Parigi, nei dialoghi femminili talvolta sovrapposti a quelli
maschili, altre volte la musica unita ai dialoghi maschili fonda una monotonia ritmica.
Il compositore Delerue, già trattato in precedenza per le sue collaborazioni con
312 Godard Jen-Luc, Pierrot mon ami, in “Cahiers du Cinéma”, n.171 (ottobre 1965).
313 Citato in Farassino Alberto, Jean-Luc Godard, Il Castoro, Milano 2007, p.45.
314 Michel Legrand comporrà le partiture anche per Vivre sa vie (1962) Bande à part (1964) La Chinoise
(1967).
315 Michel Legrand, note al compact-disc Jean-Luc Godard, Histoire(s) de Musique, Universal Music
2007.
166
Truffaut, lavora a Le Mépris, film tratto dal racconto Il disprezzo di Alberto Moravia.
L'opera è ricca di citazioni dotte ed è incentrata sul cinema, nonostante l'apparente
centralità narrativa basata sulla crisi di una coppia: Paul (Michel Piccoli) e Camille
(Brigitte Bardot). Le citazioni sono innumerevoli a partire dagli ambienti stessi: i teatri
di posa di Cinecittà, in quanto Paul vi lavora come sceneggiatore, l'appartamento
romano della coppia, Villa Malaparte a Capri. L'arroganza del produttore americano
Prokosch (Jack Palance), interferisce sulla elaborazione di un film mitologico,
l'Odissea, con l'obiettivo di renderlo più attraente agli occhi dei compratori; a lui è
giustapposta la presenza del regista Fritz Lang nella parte di se stesso (che rappresenta
una sorta di alter ego di Godard, come si è potuto constatare nel capitolo precedente lo
sarà anche Jerzy in Passion). I molteplici caratteri del film ci dimostrano come sia
problematico stabilire le funzioni drammaturgico-musicali, che sono una costante nel
cinema di Godard. Accompagnamento e commento s'identificano e il livello è sempre
esterno, frutto di un artificio, compreso un evento di suono diegetico. Ad esempio, in
una dimessa sala cinematografica i protagonisti assistono ad un avanspettacolo dove una
cantante interpreta Ventiquattromila baci di Adriano Celentano, ma la fonte sonora (di
livello interno) si interrompe durante le battute di dialogo in dimostrazione
dell'artificiosità del cinema; il regista attua quello che Chion definisce “la retorica della
confessione dei mezzi”, termine di cui è stato argomentato nel sottocapitolo delle
tecniche, per esibire le convenzioni cinematografiche ma con un velo di sarcasmo e
ironia. Le musiche per archi, monotematiche, composte da Georges Delerue nella
versione originale di Godard vengono brutalmente sostituite nella versione italiana,
curata da Carlo Ponti, da una composizione jazz di Piero Piccioni, strappando quel tono
drammatico e solenne al film. Anche con il doppiaggio suoni e rumori vengono
eliminati e i personaggi, che nella versione originale parlano ognuno nella propria
lingua, per la versione italiana vengono doppiati appunto in italiano; così facendo la
segretaria di Prokosch che aveva il compito di tradurre i dialoghi in francese diventa un
personaggio inutile, in quanto il suo ruolo si trasforma nel parafrasare frasi di dialoghi
già comprensibili al pubblico. La manipolazione sonora e non solo 316, attuata da Ponti
316 La versione italiana di Ponti presenta numerosi tagli in alcune scene: ad esempio i titoli di testa
pronunciati dalla voce dello stesso Godard vengono sostituiti da didascalie, viene anche tagliata una
citazione di Bazin che recita «Il cinema sostituisce al nostro sguardo un mondo che accorda ai nostri
167
venne rinnegata dallo stesso Godard che non riconobbe l'edizione italiana del film.
In Pierrot le fou egli utilizza l'incipit della Quinta sinfonia di Beethoven e lo
trasforma nel tema musicale predominante del film: un motivo di cinque note, nelle
quali le prime quattro vengono ripetute prima di concludersi in una terza minore
ascendente. Il tema si presenta costante in tutta l'opera, tant'è che anche lo stesso
Ferdinand-Pierrot ne è consapevole, in una scena afferma: «I tre colpi della Quinta mi
battono nella testa, povera testa» e Godard fa uscire dagli altoparlanti la citazione
musicale. La colonna sonora di Antoine Duhamel trasse ispirazione dalle opere di
Schumann per porre in risalto la figura di Pierrot-Ferdinand e i suoi sentimenti
passionali e violenti. Utilizza invece l'Opera 4 di Schoenberg, Notte trasfigurata, una
sonata tragica e passionale, in contrapposizione con l'ambiente mediterraneo, il quale è
luminoso, sereno e bello.
In Mascunlin fèminin, egli fa un diverso impiego della musica, inserendovi
canzoni popular e di moda per l'epoca: i Beatles, Bob Dylan, Françoise Hardy, Charlie
Parker e Bessie Smith rappresentano i gusti della giovane società francese che Godard
vuole analizzare con questo film. Una gioventù influenzata dalla società dei consumi,
dalle mode e dai suoi riti di massa, sono questi i temi che verranno analizzati dal regista
anche con La Chinoise, in cui utilizza brani classici (Vivaldi, Schubert, Stockhausen) in
contrapposizione ad immagini politiche, sociali, militanti che rappresentano una società
moderna mossa da ideali rivoluzionari.
Con One plus one (1968) Godard si sposta in Inghilterra per confrontarsi con la
scena giovanile e musicale inglese, che viene rappresentata nel film dai Rolling Stones
ripresi in sala di registrazione mentre provano Sympathy for the devil. Al gruppo-mito
inglese si intrecciano voci e immagini che provengono dai movimenti di ribellione
giovanile del sessantotto, l'epilogo si conclude con la medesima canzone degli Stones
sentita all'inizio, ma che viene eseguita integralmente.
Con Sauve qui peut (la vie), film del 1980, Godard ha cercato di minare le ipotesi
spettatoriali sulla musica diegetica ed extradiegetica. In diverse occasioni i personaggi si
desideri»; le scene di nudo della Bardot; vengono tagliate anche le numerose citazioni da quella di
Lang dei versi danteschi su Ulisse alla lettura di un testo erotico da parte di Paul, alle citazioni dei
film Rio bravo, Dietro allo specchio e Qualcuno verrà. Infine anche la scena finale viene manipolata
e termina con la morte dei due amanti e non, come nella versione francese, con l'immagine del film di
Lang in corso di elaborazione.
168
domandano «Cos'è questa musica che sto ascoltando?». Intanto la melodia che si
presenta come non diegetica è inaspettata e viene rivelata in realtà come una fonte
diegetica: un'aria d'opera suona sulla scena d'apertura di Paul, nella sua camera
d'albergo, musica che lo spettatore percepisce come un abbellimento extradiegetico, fino
a che l'uomo non sbatte i pugni sul muro urlando al vicino di abbassare il volume.
Ancora, una fisarmonica che accompagna Denise mentre corre in bicicletta si rivela
derivare da un uomo che suona alla stazione vicina. Nella scena finale la figlia di Paul,
Cécile, mentre cammina, incontra inaspettatamente un'orchestra d'archi che suona la
melodia della colonna sonora, non c'è nessuna motivazione realistica per questa
apparizione che destabilizza la percezione sonora dello spettatore attraverso l'effetto,
denominato da Chion, della “retorica della confessione dei mezzi”, in quanto il
personaggio diventa consapevole delle convenzioni degli effetti sonori attuati dal
cinema.
3.5 Prénom Carmen
Per Passion ho voluto fare qualcosa su Beethoven e Rubens, ma non ci sono
riuscito. È rimasto allo stadio di progetto, per un film futuro: il progetto di
un film sulla Nona Sinfonia, dopodiché sono tornato a un progetto ancora
più vecchio, quello del Quartetto317.
Questo è il principio di Prénom Carmen (1983), film che Jean-Luc Godard girerà
l'anno successivo a Passion (1982). La somiglianza con quest'ultima pellicola, come
vedremo nel dettaglio nell'analisi successiva, è indubbia e il legame tra le due opere è
riscontrabile anche nella loro stessa produzione: a causa dell'insuccesso commerciale di
Passion, Godard si trova in difficoltà economica ed è costretto a rivedere il budget per il
film successivo, il quale verrà prodotto dalla sua nuova società JLG Films. Per questi
motivi la didascalia finale di Prénom Carmen recita: «In memoriam small movies»,
come era avvenuto vent'anni prima con À bout de souffle, il film che lo aveva
consacrato al successo internazionale e divenuto un classico della storia del cinema,
317 Citato in Liandrat-Guigues Suzanne, Leutrat Jean-Louis (tr. it. di Arecco S.), Godard alla ricerca
dell'arte perduta, Le Mani, Recco 1998, p.66.
169
dedicato ai B-movies e alla Monogram Pictures, una casa di produzione americana
specializzata in film di serie B. Entrambi nascono come realizzazioni produttivamente
minori, ma crescono e raggiungono il medesimo successo di pubblico e di critica, che
Prénom Carmen ottenne con il Leone d'oro alla Mostra del cinema di Venezia.
3.5.1 Sinossi318
Il film si apre con l’immagine del traffico cittadino di Parigi a cui segue
un’inquadratura del mare e delle sue onde. In un ospedale, che pare un manicomio, la
protagonista femminile Carmen (Marushka Detmers) va a trovare lo zio Jeannot (JeanLuc Godard), un vecchio regista che si finge malato per vivere a spese della sanità
pubblica. La ragazza si reca da lui in quanto vuole chiedergli in prestito il suo
appartamento al mare, che le servirà per iniziare le riprese di un film che sta mettendo in
atto con degli amici. Nel frattempo appaiono, a intermittenza, scene di un quartetto
d'archi che sta provando i Quartetti di Beethoven. Subito dopo appare Claire (Myriem
Roussel), la violinista del quartetto, assieme a Joseph (Jacques Bonaffé), un amico di
suo fratello Fred, che innamorato della ragazza le fa la corte e le offre una rosa bianca.
Joseph è un poliziotto che solitamente è di guardia in banca. Nella scena successiva si
vedono Carmen e i suoi amici, che in realtà non sono una troupe cinematografica ma un
gruppo di rapinatori e terroristi, giungere in banca ed attuare una rapina, la confusione si
fa estrema tra sparatorie e rincorse dei malviventi. Nel frattempo, nello chalet, i
musicisti continuano le prove. In banca la situazione appare paradossale: mentre è in
corso la rapina i clienti ne restano totalmente indifferenti e la donna delle pulizie
continua a lavare i pavimenti, asciugando il sangue delle vittime. Carmen spara a
Joseph, anche l'uomo tenta di spararle ma l'arma non funziona, così si getta su di lei e la
lotta diventa un appassionato abbraccio d'amore, al punto che i due decidono di
scappare insieme. Così il poliziotto finge di averla catturata e, dopo averle legato i polsi,
partono insieme con un'auto della banda. Le caratteristiche di quello che sfocerà in un
amore ossessivo iniziano a delinearsi: quando arrivano ad una stazione di servizio,
Joseph non la vuole slegare e, per timore che lei possa darsi alla fuga, la costringe a
318 Di supporto alla sinossi sono stati usati i testi: Farassino Alberto, Jean-Luc Godard, Il Castoro,
Milano 2007 e Chiesi Roberto, Jean-Luc Godard, Gremese Editore, Roma 2003.
170
orinare nel bagno degli uomini. Una volta giunti nell'appartamento dello zio Jean, al
mare, i due ragazzi parlano d'amore, fanno sesso e girano per casa seminudi in cerca di
complicità. Appaiono altre immagini del quartetto d'archi in cui si vede Claire; nella
scena seguente, ritornati nell'appartamento, Joseph parla della violinista, mentre Carmen
rivela che l'idea della rapina è stata solamente sua e che l'ispirazione le era venuta da
Dillinger, un malvivente che rapinò una banca fingendo che fossero le riprese di un
film. Inoltre gli confessa il suo progetto, che ha organizzato con la banda, di sequestrare
un industriale della zona. Poco dopo la polizia li trova e arresta Joseph. Al processo
l'uomo verrà tutelato da un'appassionata avocatessa, che lo difende in quanto egli ha
agito per amore, e per questo verrà poi assolto. In tribunale, Joseph riceve una busta con
all'interno una rosa rossa: è di Carmen. La scena si sposta in una tavola calda, dove si
vede Jules, il capo della banda e precedente amante di Carmen, con lo zio Jean a cui è
stato affidata la regia del “film”. Il regista si presenta con un libro di Buster Keaton
sotto braccio, parla con Jules ma compie strabilianti digressioni da Van Gogh a Mao, del
quale dice: «gran cuoco, ha dato da mangiare a tutta la Cina». Al suo seguito c'è
un'infermiera, che prende appunti come una segretaria di edizione, e gli rammenda gli
abiti come una sarta da set. Nel frattempo Jules gli spiega che il film non verrà girato al
mare, come gli era stato detto, ma in un hotel. Lo zio Jean intuisce che quello che il
ragazzo dice non è la verità ed afferma: «Il vostro documentario è una finzione, non è
vero?». Il quartetto continua a suonare Beethoven. Il mattino dopo ritroviamo Carmen
con Joseph in una lussuosa suite dell'hotel dove alloggia l'industriale, luogo che sarà il
set del film da girare. I due amanti ne parlano, fanno l'amore e Carmen se ne va poco
dopo. Quando farà ritorno alla sera, la rivedremo insieme alla banda mentre prepara le
armi; quella notte Carmen decide di non stare con Joseph e al mattino lo lascia. I due si
provocano, si schiaffeggiano e lei se ne va con un cameriere. Intanto nel ristorante
dell'albergo l'intera “troupe” si è riunita e nella stessa scena, nella stessa stanza, per la
prima volta vi è anche il quartetto d'archi che suona Beethoven. La rappresentazione si
interrompe quando la banda tira fuori le armi, comincia la sparatoria attorno all'uomo da
rapire, la polizia arriva e si crea confusione. Joseph con un'arma segue Carmen, i due si
incontrano sulle scale, sembra che si siano riavvicinati in un abbraccio passionale come
all'inizio del film, ma il suono di un colpo di pistola interrompe la scena e si vede
171
Carmen cadere a terra. Un cameriere soccorre la donna con cui scambierà le ultime
tragiche battute: «Come si chiama quando ci sono gli innocenti da una parte e i
colpevoli dall'altra? Quando tutto è perduto, ma sorge il giorno e tuttavia l'aria si
respira?». Il cameriere risponde: «Questa si chiama l'aurora». E si chiude con un
inquadratura sul mare.
3.5.2 Analisi: l'origine è Passion
Quando Prénom Carmen fece il suo debutto alla Mostra del cinema di Venezia 319,
a molti sorse spontanea l'associazione all'opera lirica di Georges Bizet (Carmen, 1875),
da cui Jean-Luc Godard però trasse ben poco. L'opera è citata solo in due brevi momenti
e da personaggi secondari320 che ne fischiettano la celebre Habanera - L'amour est un
oiseau rebelle. Non ci sono melodie, musiche o citazioni che richiamano l'opera se non
un semplice fischiettio della durata di qualche secondo. L'unico punto di contatto, ma
ancora una volta non con l'opera di Bizet, è nella sceneggiatura, scritta da Anne Marie
Miéville, la quale si avvicina all'unica opera da cui tutto ebbe origine: la novella di
Prosper Mérimée321. Godard ne trasse ispirazione per trama e personaggi, ma
la
modernizzò rendendola più attuale: il brigadiere Don José è associabile alla figura del
poliziotto Joseph, che diviene rapinatore invece che contrabbandiere, entrambi
abbandonano i loro ideali per una donna che poi uccidono, Carmen, la zingara ribelle
della novella, diventa una rapinatrice e una terrorista nel film. Anche gli ambienti
trovano delle corrispondenze, i bar e le tavole calde, dove la banda si riunisce per
attuare i loro piani, sono le taverne ottocentesche nel racconto. Ma la differenza
319 Nel 1983 e vincitore del premio Leone d'oro al miglior film.
320 I personaggi sono un paziente del manicomio che mentre passeggia nella serra, fischietta il motivo
per qualche secondo, e un uomo che, si trova nel bar dove poco dopo lo zio Jean e Jules si
incontreranno.
321 Mérimée scrisse nel 1845 il racconto Carmen, da cui poi fu tratta l'opera omonima di Georges Bizet
nel 1875. La novella narra delle vicende dell'autore, che mentre è in viaggio incontra un misterioso
fuorilegge, Don José. In seguito conoscerà anche la sua amante di nome Carmen, una focosa gitana
bella e spregiudicata. Qualche mese dopo, Mérimée viene a sapere che José è stato condannato a
morte per omicidio, così decide di andarlo a trovare e in un lungo colloquio, José gli racconta la sua
vita. Dopo aver ucciso un uomo, Josè diventa poliziotto ed incontra Carmen che immischiata in una
rissa verrà arrestata; dopo aver sedotto Josè, Carmen lo convince a liberarla e per questo l'uomo verrà
processato. Uscito di prigione, Carmen e Josè intrattengono una relazione, poco dopo l'uomo si
unisce alla banda di contrabbandieri di cui fa parte anche Carmen, ma quando scopre che la donna lo
ha tradito con il picador Lucas, Josè preso dalla gelosia, la uccide.
172
sostanziale tra le due opere sono i luoghi: la Spagna calda e folcloristica della Carmen
lascia posto ad una più moderna Parigi, una grigia città metropolitana immersa nel
traffico che si alterna ad un altrettanto grigio e freddo oceano, con grandi onde e con un
mare dall'orizzonte lontano.
Ma se la sceneggiatura evoca in più nodi narrativi quella di Mérimée, il copione di
Prénom Carmen è il frutto del racconto tipicamente godardiano eretto su movimenti di
corse, fughe e slanci di giovani amanti nelle strade parigine e negli interni delle
abitazioni.
La storia che il cineasta ci propone appare la stessa di sempre: una donna
immischiata nella malavita ed un uomo disposto a tutto pur di seguirla, anche a fare un
vita disonesta. I due amanti-banditi in fuga ricordano un altro film per trama e
ossessioni: Pierrot le fou (1965). Tra i due film le analogie sono molteplici, a partire
dalle protagoniste femminili: difatti, come Marianne chiama scherzosamente Ferdinand
con il nomignolo Pierrot, anche Carmen chiama l'amante Joe e non con il suo vero
nome (Joseph); entrambe le donne poi, Marianne con Fred e Carmen con Jules, hanno
avuto una relazione in passato con il loro capo banda. Le accomuna poi la tragica fine,
entrambe uccise in una sparatoria per mano di uomini in preda alla gelosia. La
debolezza dell'uomo e la forza ombrosa della donna è una tematica ricorrente nell'intera
filmografia di Godard, che sfocia nel degradare dell'amore con la crescente indifferenza
della donna (Carmen, Marianne) e l'attaccamento ossessivo dell'uomo (JosephFerdinand) che, non sopportando l'abbandono, compie gesti estremi prima di lasciarsi
morire (Ferdinad si uccide, Joseph si lascia arrestare senza opporre resistenza). La
differenza sostanziale tra i due film si trova nei luoghi: in Carmen vi è uno spoglio e
freddo appartamento sull'oceano, mentre in Pierrot le fou la casa sulla spiaggia
mediterranea regala un paesaggio dai colori più caldi e vivi; anche i tre colori primari in
Pierrot (giallo, rosso e blu), di cui abbiamo discusso nel capitolo precedente, ritornano a
conquistare la scena in Prénom Carmen, ma questa volta Godard gioca anche con i
chiaroscuri e le ombre, abbandonando al passato la bidimensionalità e la tonalità della
vena pop, tipica degli anni Sessanta.
Questa “divagazione” su Pierrot le fou non è scontata e casuale, stiamo parlando
del film che unisce, in quanto genesi, due grandi capolavori degli anni Ottanta
173
godardiani, Passion (1982) e Prénom Carmen (1983) che, a mio avviso, possono
apparire come la diretta continuazione l'uno dell'altro.
Essere posto cronologicamente dopo Passion, porta Godard a riprenderne, in
parte, la tematica centrale dell'opposizione tra vita e arte: egli attraverso un processo che
definisco “seriale” – in quanto sviluppa temi, caratteristiche e ideologie simili, se non
uguali in entrambi i film – agisce sulla trama e la suddivide in due serie, in due storie
frammentate ma interconnesse tra loro, che rappresentano, a mio parere, rispettivamente
la vita e l'arte. Il vivere è quello di tutti i giorni, è quello della fabbrica e del duro lavoro
in Passion, è un incontro-scontro di vite e di amori fatto da fitti intrecci di relazioni tra i
personaggi, scandite da violenze e litigi che si compenetrano nei luoghi, nello spazio del
set, della fabbrica e dell'hotel; spazi le cui le zone di sovrapposizione fanno emergere i
rapporti tra arte e vita. L'esistenza, in Passion, è anche quella del regista Jerzy,
impegnato nella ricostruzione di una serie di tableaux vivants, per il suo film. Questa
serie, quella del set cinematografico e dei dodici quadri, appare totalmente opposta:
abbandonato lo squallore della vita in fabbrica e dei rapporti umani tra i personaggi,
Godard lascia il posto alla purezza, all'arte classica e alla pittura, i cui protagonisti sono
solo delle comparse di corpi luminosi. La ricerca della classicità avviene attraverso le
ricostruzioni di questi quadri celebri, i quali possono prendere vita solamente con la
luce, quasi sempre artificiale, che viene ricercata ossessivamente da Jerzy in quanto
unico mezzo in grado di riprodurre la perfezione. Sarà questa tematica della luce ad
unire le due serie, i tableaux vivants e la realtà sociale, il cinema e la vita: ad esempio,
Isabelle sarà associata all'angelo di El Greco, o ancora La bagnante di Ingres sarà in
realtà un'operaia.
Anche in Prénom Carmen le storie e le serie sono due, che vedono due donne
come le rispettive protagoniste. La vita è fatta di confusione, di ruoli incerti, di
paradossi, di amore e sesso, di erotismo, ma essa rappresenta anche il denaro e il
commercio, la delinquenza e la truffa; le vicende sono quelle della banda criminale di
cui la bella e ribelle Carmen fa parte. Una donna spregiudicata, che progetta e mette in
atto la rapina in banca, che coinvolge Joseph nella sua vita in una spirale di amore e
ossessione e che consapevolmente porta l'uomo a desiderarla morbosamente, «Lo sai
Joseph che se ti amerò sarai fottuto?». Poi c'è la serie del Quartetto Prat, guidata dalla
174
figura angelica di Claire, la violinista, il cui candore è trasmesso tramite la medesima
purezza rappresentata dalla musica classica. Godard trae i dialoghi della violinista dai
Quaderni di conversazione di Beethoven, i quaderni intimi del compositore. L'arte è la
musica, i Quartetti di Beethoven, una melodia pura e per affermare questa purezza le
prove del gruppo di musicisti avvengono in un luogo isolato dal mondo, dalla vita e
dalla sua caoticità. All'interno di uno chalet avviene la vera arte, fatta di ricerche e
discussioni sull'interpretazione dei brani. Il Quartetto Prat, che rappresenta l'arte, si
ritrova nel mondo esterno, la vita, solo nella sequenza finale all'hotel, dove avverrà il
tragico epilogo in cui anche il quartetto stesso verrà disgregato. Ritengo che la scelta di
Godard di portare “la purezza” nella società violenta e tormentata e di far coincidere la
morte di Carmen con essa non sia casuale. Durante il film spesso Carmen si domanda
cosa sia l'innocenza, sinonimo di purezza, affermando: «Mi pare di vedere, non lo so, gli
innocenti da una parte e poi non lo so più» o ancora «Non ho studiato ma so che il
mondo non appartiene agli innocenti»; il regista tenta di incarnare nella sensuale e
violenta donna delle caratteristiche che le sono avverse, ovvero l'innocenza e la purezza,
forse per testimoniare un qualche pentimento della protagonista per le azioni commesse,
come dirà lei stessa «Non siamo noi la merda, è il mondo», o forse per mostrare le sue
fragilità, quelle di una donna forte ma che allo stesso tempo è piegata dalla società, dal
mondo.
Anche in Prénom Carmen, il raggiungimento della classicità avviene con la
fusione e l'armonizzazione delle due serie, che si incontrano con Joseph, personaggio di
collegamento tra i due mondi e tra le due donne, e con l'alternarsi delle sequenze. Se in
Passion l'incontro tra le due serie avviene con la luce, che dà vita alla pittura con i
tableaux vivants, in Prénom Carmen l'unico mezzo unificatore è il suono: la musica
esce dalla stanza delle prove per estendersi ad accompagnare la vita, e la vicenda,
passando da musica diegetica a musica extradiegetica 322. Come abbiamo visto nella
prima parte del capitolo (cfr. 3.1), il passaggio dal livello interno a quello esterno 323
322 Questo avviene anche con i rumori: la “musica” del mare e delle onde giunge fino a Parigi.
Esemplare è la scena in cui Carmen comunica a Joseph che è finita e lo spettatore sente delle urla di
gabbiani. L'uomo che ovviamente non può sentire la colonna sonora, risponde alla donna affermando
che non le crede in quanto quella «non è la tua vera voce, non c'è insieme il rumore del mare». Ma
solo lo spettatore è consapevole che invece il rumore del mare c'è, e che tra i due è davvero finita.
323 Oppure identificate con i termini musica da buca e musica da film in Chion Michel, L'audiovisione:
suono e immagine nel cinema, Lindau, Torino 2001.
175
turba e destabilizza la percezione dello spettatore, scopo voluto e sempre ricercato da
Godard; ma a mio parere questo continuo passaggio tra livello interno ed esterno
permette all'autore di mantenere lo stesso commento musicale per tutta la durata del
film e di non dissociarsene mai. Difatti egli assocerà al film una sola colonna sonora, i
Quartetti di Beethoven, che verranno interrotti solo una volta, quando Joseph abbraccia
un televisore, il cui scorrere delle immagini viene sostituito da una melodia di una roca
canzone di Tom Waits (Rubi's Arm) (Fig.1). Ma in questo caso, Godard ci pone sì di
fronte al ruolo della televisione, ma anche dell'immagine (assente) e del suo rapporto
con il cinema. In un'intervista il regista afferma che «la televisione non è un mezzo di
espressione, ma di trasmissione. La prova è che più è sciocca, più è affascinante, più la
gente resta affascinata davanti al piccolo schermo. Ecco cos'è la televisione, ma è
sperabile che cambi»324. A dimostrazione di questa frase, ritengo che Godard abbia
volutamente interrotto la musica classica, simbolo di purezza, di fronte alle immagini
del televisore, in quanto vile mezzo di trasmissione, per legarla al solo mezzo che può
esprimere la “purezza”: il cinema.
Difatti l'artista riprende da Passion anche la vita di cinema: in entrambi i film si
racconta, in modo diverso, la storia di un film in elaborazione. Un film vero nel caso di
Passion, ma che non verrà portato a termine; un film fasullo, in quanto copertura per
una rapina, in Prénom Carmen. Il cinema è l'unione tra arte e vita, e viene descritto in
entrambe le pellicole attraverso le sue stranezze e le sue follie, a partire dallo zio JeanPierre, che rappresenta la follia del cinema, portando alla memoria la figura del buffone
shakesperiano e dell'idiota dostoevskijano. Lo zio, che ricordiamo è interpretato dallo
stesso Godard, sembra un vecchio regista matto e stralunato, il quale però ha capito cosa
sono la vita e il cinema: sono la truffa e le rapine, ma è anche un campo di battaglia
dove l'amore, l'odio, l'azione, la violenza e l'emozione si ritrovano. L'alter ego del
cineasta, impersonato da Jerzy in Passion, trova sviluppo nello zio Jean: entrambi i
registi (Jerzy, zio Jean) sono impegnati in un film che non verrà mai portato a termine,
ed entrambi sono frustrati dalla vita di cinema. Jerzy avverte la pressione del produttore
e quando realizza di non poter concludere il film che avrebbe voluto, scappa in Polonia;
lo zio Jean abbandona il cinema per andare in un posto in cui si sente più al sicuro, un
324 Godard Jean-Luc, Il cinema è il cinema, I Garzanti Cinema, Milano 1981, pp.199-200.
176
ospedale-manicomio. Mentre Jerzy esprime il dilemma artistico e creativo del regista
schiacciato dalle continue pressioni del mondo cinematografico, questa volta lo zio
Jean-Godard appare più riflessivo e regala considerazioni sulla vita e sul cinema: «La
beauté c'est le commencement de la terreur que nous sommes capables de supporter» 325.
«Nel suo rapporto con la bellezza, e con il cinema, Godard ci mostra un nuovo modo di
vivere la vita, in un modo che prima non aveva mai fatto, con la massima precisione e
sincronismo»326. Con Prénom Carmen, Godard ci dà la sensazione che può tornare a
guardare la bellezza dopo Passion. Per tale motivo separa le due bellezze, quella di
Carmen e quella di Claire, in quanto la vera bellezza si trova tra le due, tra la cacofonia
e la musica. Per quanto riguarda l'avvenenza di Carmen, essa è ovviamente di natura
diversa rispetto a Claire, di un fascino fragile ed etereo; Carmen è selvaggia,
espressione sia voluttuosa sia feroce, che coincide con la descrizione di Mérimée, una
bellezza incarnata senza volgarità ma che stimola i desideri più carnali.
Ancora una volta è lo zio Jean-Godard che, attraverso un gioco di parole, porta lo
spettatore ad interrogarsi sulla figura di Carmen, facendo un paragone mitologico: usa il
mare (la mer) e la madre (la mère), che in francese possiedono la stessa pronuncia per
spiegare l'inizio di tutto, ovvero egli dice alla giovane donna: «Tu as toujours eu des
histoires avec le bord de la mer, avec ta mère, comme la petite Electre...»327. E non è un
caso che le parole del finale del film siano le medesime dell'epilogo dell'Elettra di
Giraudoux: «Cela s'appelle l'aurore»328, le parole che la donna sente mentre sta per
morire. Carmen, infatti, una volta caduta a terra dopo essere stata colpita, si domanda
cosa ci sia prima di tutto, prima del suo nome (Prénom Carmen) e della sua storia,
prima dei nomi stessi e prima che le cose vengano nominate. Godard le risponde con
l'immagine del mare (Fig.2), perché prima della parola c'è sempre l'immagine.
325 La bellezza è l'inizio del terrore che siamo capaci di sopportare. Tratto dai dialoghi di Prénom
Carmen, traduzione nostra.
326 Alain Bergala, Nul mieux que Godard, Editions du Cahiers du cinéma, Paris 1999, p.44, (traduzione
nostra).
327 Tu hai dei problemi con il mare, con la madre, come la piccola Elettra. Tratto dai dialoghi di Prénom
Carmen, traduzione nostra.
328 Questa si chiama l'aurora. Tratto dai dialoghi di Prénom Carmen, traduzione nostra.
177
3.5.3 Analisi di Prénom Carmen
Fra l'utilizzo del Concerto per clarinetto e orchestra (KV 22) di Mozart in À bout
de souffle (1959) e quello della Messa in do minore (KV 427) in Passion (1982) vi sono
circa vent'anni, in cui il modo di procedere di Godard e di scegliere le musiche dei
propri film è cambiato.
Passano vent'anni anche dall'utilizzo dei Quartetti di Beethoven, la prima volta in
Une femme mariée (1964) e poi in Prénom Carmen (1983), ed è lo stesso Godard che
pone i due film in relazione: lo zio Jean afferma di aver diretto un film con Marlene
Dietrich e Ludwig van Beethoven, un richiamo al film quando due inquadrature
contigue mostrano il volto dell'attrice e quello del musicista. Godard spiega il motivo
della ripresa dei Quartetti per Prénom Carmen:
Non sono io ad aver scelto Beethoven. Direi piuttosto che è Beethoven ad
aver scelto me e che io ho risposto al suo appello. Da giovane, verso i
vent'anni - l'età della giovinezza dei miei personaggi - ho ascoltato
Beethoven. Ero in riva al mare, in Bretagna. Lì ho scoperto i Quartetti. Ora,
si sa, Carmen non esisterebbe senza musica di Bizet. […] Bizet faceva una
musica che Nietzsche definiva “bruna”. Era una musica del Mediterraneo.
Bizet è un compositore del Mezzogiorno. Inoltre è molto legato al mare. Io
ho dunque scelto non un'altra musica, ma un altro mare. L'Oceano piuttosto
che il Mediterraneo. Per cui, per quanto riguardava la musica, dovevo
scegliere una musica “seminale”. Una musica che ha segnato l'intera storia
della musica. Come i Quartetti di Beethoven329.
Ma in Godard vi è forse anche un altro motivo per la scelta dei Quartetti: nel
pressbook, libro che diviene una raccolta di materiali del film dal titolo Studi su
frammenti di musica e frammenti di carne: il corpo della melodia 330, il regista
predispone alcune foto del Quartetto Prat, tratte dal film, e le giustappone ad alcune
sculture di Rodin e ad alcune frasi desunte dai Quaderni di conversazione di Beethoven.
329 Citato in Liandrat-Guigues Suzanne, Leutrat Jean-Louis (trad. it. di Arecco S.), Godard alla ricerca
dell'arte perduta, Le Mani, Recco 1998, pp. 59-60.
330 Il pressbook (materiale cartaceo concesso ai giornalisti in cui si offrono informazioni di carattere
tecnico e contenutistico del film) di Prénom Carmen venne composto con molta probabilità da
Godard stesso (le informazioni qui riportate sul contenuto del pressbook sono tratte da LiandratGuigues Suzanne, Leutrat Jean-Louis, Godard alla ricerca dell'arte perduta, Le Mani, Recco 1998,
p.60).
178
Per le scene d'amore avevo chiesto ai tecnici e agli attori di andare a vedere
le sculture di Rodin. […] Procedendo io stesso al montaggio e al missaggio,
ho ritrovato l'idea che avevo di Rodin: l'idea di uno scultore che scava una
superficie con le sue mani. Scava lo spazio. I musicisti parlerebbero
senz'altro di spazio sonoro. Ecco mi interessava scavare uno spazio
sonoro331.
Vi è l'interesse quindi a scavare lo spazio sonoro e la novità in relazione
all'utilizzo della musica, rispetto ai film precedenti. Per la prima volta si mostrano veri
musicisti (Quatuor Prat) che interpretano i Quartetti 9, 10, 14, 15, 16, e ciò porta a
compimento l'idea costante nel regista di voler “riprendere la musica”: «E siccome di
colpo senti la musica, ho sempre voglia di fare una panoramica o un carrello, se fosse
possibile, per andare a scoprire l'orchestra che sta suonando. E dopo ritornare alla scena:
e che la musica smetta appena non ho più bisogno di vedere l'immagine, in modo da
poter esprimere qualcos'altro»332. Questa è la perfetta descrizione dei primi quindici
minuti di Prénom Carmen, film che ora analizzeremo nel dettaglio.
Con il secondo movimento del Quartetto n.9 in do maggiore op.59 n.3 di
Beethoven, Andante con moto quasi allegretto, Godard decide di aprire sia Une femme
mariée, sia Prénom Carmen. Non è un caso che al tempo della loro composizione i
Quartetti “Razumovski” (i numeri 1, 2, 3 che compongono l'opera 59) furono
considerati stravaganti per la società dell'epoca (primo decennio dell'Ottocento) e forse
è anche per questo motivo che l'autore se ne appropria destando tra la critica le stesse
reazioni333. In Une femme mariée, l'Andante del Quartetto n.9 è utilizzato tre volte:
durante i titoli di testa e dilatandosi fino alla prima scena d'amore con l'amante,
attribuendogli subito un valore fondamentale; la musica ritorna successivamente quando
la donna riallaccia il rapporto con il marito e alla fine quando incontra, per l'ultima
volta, l'amante. In Prénom Carmen l'Andante compare solo all'inizio, ma in modo
totalmente diverso: viene ripreso il Quartetto Prat, e subito si vedono due musicisti, un
uomo in primo piano con una donna, che poi scopriremo essere Claire. La colonna
331 Amegual Barthélémy, Jean-Luc Godard, in Etudes Cinématographiques, n.90, dicembre 1983, p.5;
qui citato in Liandrat-Guigues Suzanne e Leutrat Jean-Louis (trad. it. di Arecco S.), op.cit., p.58.
332 Godard Jean-Luc, Introduzione alla vera storia del cinema, Editori Riuniti, Roma 1983, p.242.
333 Ad esempio nei compositori Joseph Kerman («clima di mestizia senza scampo») e Daniel Gregory
Mason («di grande monotonia ritmica»). Cit. in Liandrat-Guigues Suzanne e Leutrat Jean-Louis (trad.
it. di Arecco S.), op.cit., p.61.
179
sonora di accompagnamento è composta in modo tale che l'inquadratura successiva, la
sequenza dei titoli di testa334 che ci dice che il film sta iniziando, sia accompagnata
naturalmente dalla melodia, per poi interrompersi bruscamente nella sequenza
successiva all'ospedale che vede l'inserirsi di un'altra melodia, a mio avviso, fatta dallo
zio Jean, che all'interno della sua stanza girovaga colpendosi alla testa o al petto, per poi
sbattere le mani sulla finestra, sul tavolo, sul letto, poi muove una tazzina di caffè alla
ricerca forse di una qualche sonorità, di una melodia che si conclude con il rumore di
una vecchia macchina da scrivere. Lo zio Jean diventa un “musicista della quotidianità”,
in quanto utilizza strumenti della vita reale, di tutti i giorni, e ne crea, a suo modo, una
melodia. Poco dopo l'Andante è ripreso nell'inquadratura in cui Godard si corica nel
letto, e si prolunga nel corso della scena successiva, che vede di nuovo i musicisti come
protagonisti, questa volta nell'inquadratura essi sono tre (Fig.3). La musica si estende,
ancora, fino ai primi dialoghi del passaggio successivo, in cui Carmen arriva
all'ospedale. Il dialogo tra zio e nipote non è pulito, vi sono sempre dei rumori di piatti
che sbattono e altri dialoghi fuori campo che rendono caotica la conversazione; ma lo
zio Jean mostra alla donna il suo nuovo magnetofono (Fig.4), dal quale le fa ascoltare
arie semplici come Frères Jacques o Au clair de la lune. Dopo che Carmen se ne va,
avendo ottenuto il consenso per l'appartamento, ritorna l'inquadratura sul quartetto,
questa volta in un totale con tutti e quattro i musicisti visibili. Essi interpretano sempre
il Quartetto n.9, non più l'Andante, ma la fine del terzo movimento, un Minuetto
grazioso, come se le sequenze intermedie, quelle non musicali, avessero creato un'ellissi
temporale in cui l'esecuzione fosse proseguita comunque. Questa volta tra i musicisti si
vede Claire in primo piano che, pochi secondi dopo, smette di suonare e risponde alla
domanda di un personaggio non inquadrato, citando il testo 103 dei Quartetti di
conversazione; nello stesso momento inizia la Fuga Finale (Allegro molto).
Ma torniamo per un momento all'origine: il film comincia esplicitamente con
l'immagine del Leone d'oro vinto a Venezia, alla quale si sovrappone la voce roca e
bassa di Godard che annuncia la motivazione del premio: «per la qualità del suono e
dell'immagine». La seconda inquadratura è costituita da un cartello che recita: «Alain
334 I titoli di testa con i nomi degli attori, essi vengono indicati in ordine alfabetico senza alcuna
distinzione, come avvenne anche in Une femme mariée, in cui i nomi vennero compresi in un solo
cartello.
180
Sarde presenta do re mi fa sol la produzione Sara Films - JLG Films - Films A2».
Intanto si sente la gamma do-re-mi-fa-sol. La stessa gamma viene ripresa qualche
inquadratura dopo quando lo zio Jean risponde ad una infermiera che vuole prendergli
la temperatura: «Io so che se le metto un dito nel culo lei conterà fino a 33, la do re mi
fa sol, allora avrò la febbre». Le note ritornano anche nelle sequenze finali, quando la
banda si prepara per l'agguato all'imprenditore: Joseph chiede dove sia Carmen, uno
della banda risponde con “do re mi fa sol” e i personaggi della banda scoppiano in una
rumorosa risata generale.
Questa piccola digressione era necessaria per mettere in evidenza come, fin dai
primi minuti del film, l'universo dei suoni e della musica si insinui nella vicenda con
ripetitività. Ma essa non è sinonimo di familiarità per Godard, che, ricordiamo, ha come
fine la totale consapevolezza dello spettatore di fronte alle immagini; così tutte le volte
che la musica raggiunge una certa identità armonica, è precipitosamente interrotta,
provocando una scossa uditiva nel flusso narrativo. Raramente ci permette di scivolare
nel senso di familiarità e sicurezza che trasmette quest'opera ben nota, che equivarrebbe
quindi a non sentirla più con consapevolezza. «Il regista dunque non permette allo
spettatore di familiarizzare con la musica e lo lascia stupirsi per la comparsa miracolosa
della melodia»335.
Il cambiamento dello stato d'animo dello spettatore non avviene solo con la
musica, ma anche con la composizione dei singoli scatti in termini di composizione, i
quali avvengono in modo ripetitivo. Prénom Carmen è un film composto da linee
orizzontali, verticali e diagonali. Prendiamo come esempio le prime inquadrature del
film, in cui si vede, in una Parigi di notte, la metropolitana di superficie che irradia luce
da tutte le sue finestre e che attraversa l'inquadratura in senso orizzontale da sinistra a
destra, mentre si incrocia con un altro treno nel senso opposto (Fig.5). In qualche scena
successiva si compone un'immagine di linee verticali, composte dalle luci delle
automobili che si spostano in diagonale verso il basso (Fig.6). Questi motivi visivi
ricorrono per tutto il film e denotano una sorta di punteggiatura regolare al racconto,
come ad esempio all'inizio della sequenza della rapina, quando Joseph si staglia sulla
porta, il cui telaio è diviso in tre bande distinte, oppure nel momento della sparatoria tra
335 Secondo Morrey Douglas che ne parla nel sottocapitolo Music in Jean-Luc Godard, Manchester
University Press, Manchester 2005, pp.138-139, (traduzione nostra).
181
Carmen e Joseph che avviene nella grande scalinata centrale, un ulteriore arco
geometrico divide lo schermo in senso diagonale. Anche le scene delle prove del
quartetto d'archi non vengono escluse da questa logica di ripresa: difatti i musicisti più
volte si fermano e riprendono a suonare, ripetendo un pezzo particolarmente difficile e
discutono i problemi che stanno avendo con esso. La ripetizione viene giocata anche
nella narrazione: Godard allo stesso modo ripete i colpi e le azioni all'interno della
banca, ad esempio nell'inquadratura, all'interno dell'edificio, in cui si mostra Joseph
avanzare lentamente lungo un corridoio, egli impugna un fucile e mentre cammina si
guarda attentamente a destra e a sinistra per controllare che non vi sia la polizia (Fig.7).
Questa immagine viene poi interrotta per riprendere un breve inserto del quartetto
(Fig.8), ma quando Godard, nella sequenza successiva, ritorna all'interno della banca si
vedrà nuovamente la medesima inquadratura, in cui Joseph avanza lungo il corridoio
compiendo le medesime azioni. L'effetto è quello di creare uno spazio e un tempo
realistici della sequenza della banca, altamente confusi e frammentari.
Forse Godard ha trovato la sua storia con Prénom Carmen, quella storia che tanto
è stata ricercata e tormentata in Passion, quella storia che non coincide però con quella
del film, o dei film, ma non è altro che la vicenda dell'indagine personale dell'autore,
ovvero la costante ricerca di una classicità, la quale viene espressa nei titoli maestosi dei
film. La classicità della musica rappresentata con i Quartetti di Beethoven336 in Prénom
Carmen assume, a mio avviso, la stessa importanza dei tableaux vivants, celebri quadri
“classici”337, ricostruiti in Passion divenendo, reciprocamente, protagonisti indiscussi
del film. Godard usufruisce della luce e della musica per creare la sua opera filmica,
gioca con le tecniche, con le storie e con le similitudini, dilata la ricerca di Passion in
Prénom Carmen, la suddivide, la unisce e crea anche qui dei quadri, creati attraverso le
composizioni geometriche delle singole inquadrature, come le spettacolari riprese
dall'alto o a piombo del quartetto e delle onde del mare. La luce che egli cercava con
336 In questo caso i Quartetti di Beethoven sono definiti “classici”, in quanto il compositore appartiene
alla categoria della musica cosiddetta colta, ovvero classica, che termina cronologicamente nel 1800.
337 In questo caso, con il termine classico faccio riferimento a quelle opere celebri che rappresentano la
pittura moderna (periodo che va dal Rinascimento all'Espressionismo) e si collocano
cronologicamente nel periodo precedente alle avanguardie artistiche del primo Novecento, in quanto
le opere delle avanguardie storiche vengono inserite all'interno del termine arte contemporanea.
182
ossessione in Passion qui è ricercata, con Raoul Coutard (direttore della fotografia),
nell'opposizione tra l'illuminazione fredda, come quella del cielo grigio, e quella calda,
come una lampada arancione, che rimane accesa anche di giorno proprio per contrastare
la luce naturale che entra dalle finestre.
Ma forse Godard non si è mai fermato nella sua ricerca di una storia, della luce
giusta, di una certa classicità da inserire nei propri film e, forse, mai lo farà. Anche lo
zio Jean (Godard) lo afferma: «Bisogna cercare, Van Gogh quando non c'era più il sole
cercò il giallo. Bisogna cercare, bisogna cercare...».
183
APPARATO ICONOGRAFICO
Fig.1 Joseph (Jacques Bonaffé) abbraccia il televisore (Prénom Carmen, 1983).
Fig.2 L'immagine del mare (Prénom Carmen, 1983).
184
Fig.3 Il quartetto Prat (Prénom Carmen, 1983).
Fig.4 Lo zio Jean (Jean-Luc Godard) ascolta della musica (Prénom Carmen, 1983).
185
Fig.5 Taglio dell'inquadratura orizzontale (Prénom Carmen, 1983).
Fig.6 Le auto di Parigi offrono un senso verticale all'inquadratura (Prénom Carmen,
1983).
186
Fig.7 Joseph in banca (Prénom Carmen, 1983).
Fig.8 Claire del quartetto Prat (Prénom Carmen, 1983).
187
CAPITOLO IV
CINEMA E LETTERATURA: HÉLAS POUR MOI
4.1 Analogie e differenze tra cinema e letteratura
La relazione tra cinema e letteratura si fonda su due presupposti di tipo oggettivo:
il primo riguarda gli elementi in comune tra il film e il romanzo; il secondo il loro
legame in quanto possono essere collegati da alcuni fenomeni, che sono funzionali
all'uno ma rientrano nella zona dell'altro.338
Analizzeremo ora brevemente i due punti sopra esposti, cercando di dare un
quadro completo che si possa integrare con le successive teorie.
Per quanto concerne gli elementi in comune tra le due arti, essi possono
suddividersi in:

storia. Sia il romanzo che il film raccontano una storia che viene individuata
secondo una successione di eventi che si verificano al loro interno;

personaggi. La storia prosegue in base ad una serie di azioni svolte da
determinati personaggi;

dialoghi. Ogni film possiede una componente verbale, che può assumere diverse
forme, come il dialogo parlato o quello diretto con lo spettatore, che va oltre la
diegesi (voice over screen). Quest'ultimo è associabile al discorso indiretto in
campo letterario;

didascalie, cartelli, sottotitoli. Nel cinema muto la storia era accompagnata da
scritte, ossia inserzioni letterarie all'interno di una narrazione per immagini.
Queste sono le didascalie, le quali sono sovrimpresse direttamente
nell'inquadratura o a volte sono disposte su cartelli, che interrompono il flusso
delle immagini in movimento. Anche nei film sonori questi due elementi non
scompaiono completamente, molto spesso esse sono utilizzate per comunicare
informazioni rilevanti per il racconto filmico, ad esempio tra i casi più classici vi
sono quelle che avvertono un passaggio temporale o di un luogo. Jean-Luc
Godard ha usato frequentemente il cartello, soprattutto nei film degli anni
Sessanta, per fornire un commento ideologico, tramite degli slogan, alle
338 Secondo Manzoli Giacomo, Cinema e letteratura, Carrocci, Roma 2003, pp.59-63.
188
immagini. Il sottotitolo, invece, ha la funzione di tradurre in lettere il dialogo che
si svolge in una lingua che lo spettatore non conosce.
Ogni testo filmico, come ogni testo letterario, può essere analizzato separando i
piani dell'espressione e del contenuto. Il significante (espressione), ovvero la forma che
rinvia ad un contenuto, può essere ricondotto alla breve elencazione fatta in precedenza.
Dall'analisi del significato (contenuto), invece, si è compreso che film e libro possono
esprimere qualcosa di molto simile, nonostante la disparità tra i due mezzi espressivi, al
punto da indurre gli spettatori ad associarli e la critica a compararli.
Confrontando letteratura e cinema alcuni studiosi di semiotica, capeggiati da
Algirdas-Julien Greimas, hanno individuato attraverso il concetto di isotopia la
relazione che unisce le due arti: essi parlano di linee di coerenza testuale, che collegano
un film ad un libro a partire dalla somiglianza tra le componenti del contenuto.
Algirdas-Julien Greimas339 individua tre categorie che uniscono un libro ad un
film:

isotopie tematiche. Sono le tematiche principali di cui si occupano allo stesso
modo sia il romanzo che il film;

isotopie figurative. Sono i dati oggettivi in cui questi temi sono rappresentati; ad
esempio l'identità dei personaggi, le loro azioni, le coordinate spaziali e
temporali in cui il racconto si svolge. Questi fattori possono subire delle
modifiche nel processo di traduzione dal testo scritto alle immagini filmiche, dal
numero e dalla dimensione di tali modifiche si può perciò intuire la distanza tra i
due;

isotopie patemiche. Si tratta dei cambiamenti emotivi e caratteriali che i
personaggi subiscono nel corso del racconto.
Tuttavia ciò che sembra apparentemente scontato in entrambe le elencazioni è un
elemento forte e comune, che unisce la letteratura al cinema fin dalle sue origini: ovvero
la narrativa, il raccontare una storia. È la stessa materia di cui è fatto il cinema,
339 Des Dieux et des hommes: études de mythologie lithuanienne, P.U.F., Paris 1985; qui citato in
Manzoli Giacomo, Cinema e letteratura, Carrocci, Roma 2003, pp.77-79.
189
l'immagine in movimento, ad imporre un confronto inevitabile con la narrazione.
Semplicemente con l'atto di proiezione, il cinema già racconta, in quanto compie
le regole che la teoria della narrazione richiede al racconto letterario, ovvero esporre una
trasformazione da uno stato iniziale a uno finale.
L'elemento storia è quindi il medesimo per entrambi i linguaggi, è la tecnica usata
per cambiare, in quanto parole e immagini sono una serie di segni, i quali appartengono
a sistemi diversi, che tuttavia si assomigliano. Questo è ciò che sostiene Keith Cohen:
«entro ciascuno di tali sistemi ci sono molti diversi codici (percettuale, referenziale,
simbolico). Ciò che rende possibile, quindi, uno studio delle relazioni fra due separati
sistemi di segni, come il romanzo e il film, è il fatto che negli stessi codici possono
riapparire in più di un sistema. Nel momento in cui elementi visuali e verbali sono visti
come parti di un sistema globale di significati, le affinità fra le due arti sono messe a
fuoco»340. Se in comune vi è quindi l'intenzione di comunicare una storia, diversi sono
gli strumenti con cui cinema e letteratura possono trasmetterla con la conseguenza che
anche la materia dell'espressione, ovvero l'insieme di quelle tecniche formali utilizzate
per comunicare la storia, cambi.
Allo stesso modo anche Antonio Costa dimostra in Immagine di un'immagine341
come lettura e visione siano implicate in vari snodi della storia culturale del XX secolo:
entrare nel profondo di un'opera significa saper “vedere racconti” e “leggere immagini”,
vuol dire essere in grado di comprendere le ragioni della convivenza dei due linguaggi;
si possono vedere racconti nel momento in cui si comprendono le varie forme del visivo
sul narrativo letterario e, allo stesso modo, si leggono immagini quando si traducono le
immagini-inquadrature in un enunciato narrativo.
Le differenze tra cinema e letteratura si fondono principalmente sulla distinzione
tra la parola e per l'appunto l'immagine, che fanno del cinema e della letteratura due
mezzi espressivi diversi. Allo stesso tempo, è da questa sostanziale differenza che i due
mezzi si sono potuti avvicinare: il cinema, “racconto per immagini”, necessita della
capacità sintetica della parola per esprimere concetti astratti, mentre la letteratura ha
bisogno di creare e di comporre per immagini e sfrutta così la loro peculiarità oggettiva.
«Ne derivano diverse possibilità nella rappresentazione dello spazio per cinema e
340 Cohen Keith, Cinema e narrativa. Le dinamiche di scambio, Eri, Torino 1982, p.17.
341 Costa Antonio, Immagine di un'immagine. Cinema e letteratura, Utet, Torino 1993.
190
letteratura: il primo offre raffigurazioni iconico-analogiche della realtà, la seconda
propone simboli astratti che evocano una realtà che dev'essere ricostruita e immaginata
dal lettore»342.
Le differenze tra il mezzo cinematografico e quello letterario si basano sulla
modalità di enunciazione di una storia, che cambia in base allo strumento espressivo
adottato: la parola o l'immagine.
«L'immagine cinematografica offre una sintesi immediata dello spazio
rappresentato attraverso la rappresentazione simultanea di tutti gli elementi che la
compongono, l'immagine letteraria invece può presentare una sintesi differita del suo
contenuto, poiché essa dispone in successione gli elementi elencandoli uno ad uno»343.
Tale concetto venne espresso dal teorico, del Nouveau Roman344, Jean Ricardou nel
saggio Plume et caméra (1967), in cui ritiene che la sintesi immediata dell'immagine
cinematografica sia tale in quanto non vi è alcuna costrizione per la varietà degli oggetti
impressionati, mentre la descrizione letteraria si snoda tra la precisione e la lunghezza,
che quel determinato oggetto reclama e tale descrizione si basa sull'elencazione dei
differenti aspetti di suddetto elemento345.
Lo spazio e il tempo del discorso 346 nei due mezzi si differenziano in base al
linguaggio scritto o alle immagini. «Il racconto cinematografico racconta lo spazio e il
tempo attraverso uno spazio ed un tempo che si offrono direttamente alla percezione, i
quali si vedono e durano in una concretezza, che è sconosciuta al racconto letterario»347.
È possibile distinguere il tempo di un film in tre forme, le quali lo differenziano dal
tempo letterario: vi è il tempo narrativo, ovvero il tempo del discorso; vi è poi quello
diegetico, il tempo della storia narrata; infine vi è il tempo di ricezione, che lo spettatore
impiega per la visione del film. I primi due tempi vengono identificati anche in
letteratura, mentre il terzo appare profondamente diverso: difatti per il linguaggio
342 Brandi Paolo, Parole in movimento: l'influenza del cinema sulla letteratura, Cadmo, Fiesole 2007,
p.149.
343 Brandi Paolo, Parole in movimento: l'influenza del cinema sulla letteratura, Cadmo, Fiesole 2007,
p.150.
344 La corrente letteraria francese verrà trattata nel paragrafo 4.3.
345 Ricardou Jean, Plume et caméra (1967), il testo è citato in italiano in Brandi P., op.cit., p.151.
346 Il tempo del discorso si riferisce all'ordine in cui vengono raccontati gli eventi. Si differenzia dal
tempo della storia in quanto questa racconta gli eventi in ordine cronologico.
347 Citato in Brandi Paolo, Parole in movimento: l'influenza del cinema sulla letteratura, Cadmo, Fiesole
2007, p.195.
191
cinematografico, il tempo narrativo coincide con quello di ricezione dello spettatore;
mentre il tempo della narrativa letteraria corrisponde a qualcosa di indefinito in quanto
il tempo di lettura è soggettivo e non dipende da nessuna influenza determinata dal
medium348.
Trova validità anche il discorso speculare per cui l'evoluzione dello spazio filmico
può manifestarsi solo attraverso la dimensione temporale e solo mediante lo sviluppo di
momento per momento, che apporta mutamenti alla forma spaziale 349. Keith Cohen
sostiene questa teoria e aggiunge: «lo spazio e il tempo del film si sintetizzano l'uno con
l'altro, […] ognuno viene percepito non più separatamente ma nei termini dell'altro»350.
Perciò ogni segmento spazio-temporale del film rappresenta un tempo che è
sempre presente; invece in letteratura il sistema di rappresentazione spazio-temporale si
basa sull'organizzazione di tempi verbali e di forme linguistiche che consentono
l'indicazione dei tempi della narrazione. Una collocazione della narrazione
cinematografica nel passato o nel futuro può avvenire solamente attraverso una
precedente contestualizzazione delle immagini, mentre in quella letteraria lo
spostamento nel tempo avviene tramite date e tempi verbali che situano il personaggio,
quindi anche il lettore, in un determinato momento.
4.2 Le teorie
Dalla breve trattazione precedente si può intuire quanto sia ampia e complessa la
tematica del rapporto tra cinema e letteratura, la scelta di approfondire determinati temi
a discapito di altri è dettata dal tentativo di dare una serie di informazioni generiche, che
preparino ad introdurre la seconda parte del capitolo dedicato a Jean-Luc Godard.
Finora abbiamo analizzato la relazione tra cinema e letteratura a partire dal
legame fra un sistema espressivo basato sulle immagini e uno basato sulla parola: in
quanto entrambi i sistemi sono narrativi essi trovano un punto di contatto nello scopo
348 Secondo Brandi Paolo, op.cit., pp.195-196: il romanzo può essere letto a più riprese e in momenti
diversi, mentre al cinema il film è visto in un unico momento e in un periodo di tempo che segue la
sua lunghezza.
349 Secondo Brandi Paolo, Parole in movimento: l'influenza del cinema sulla letteratura, Cadmo, Fiesole
2007, p.197.
350 Cohen Keith, Cinema e narrativa. Le dinamiche di scambio, Eri, Torino 1982, p.70.
192
comune di raccontare delle storie. Anche per la relazione teorica 351 tra i due mezzi la
trattazione verterà sul legame tra immagine e parola; inoltre parleremo del linguaggio
cinematografico e di quello letterario senza però addentrarci troppo nel campo della
semiotica352.
«Punto di riferimento imprescindibile per la comprensione delle espressioni
letteraria e cinematografica, dei relativi rapporti e della comune propensione al racconto
è il percorso compiuto dalla cultura sovietica nei primi decenni del Novecento,
nell'obiettivo di individuare gli elementi in comune tra il linguaggio verbale articolato
sulla parola e quello cinematografico costituito dall'immagine e dall'organizzazione
delle inquadrature»353.
Sia il cinema che la letteratura possiedono la facoltà di esprimere idee e concetti
astratti legati all'ambito dell'indivisibile, nonostante entrambi comunichino tramite
mezzi visibili. Questa capacità fu ben presto chiara agli esponenti del formalismo
russo354, Yurij Tynjanov, Viktor Šklovskij e Boris Ejchenbaum, i quali estesero i loro
studi sulla natura e struttura del linguaggio letterario al mezzo cinematografico, grazie
anche all'apporto, in quegli anni, dei cineasti Sergej Michajlovič Ėjzenštejn, Vsevolod
Pudovkin e Dziga Vertov che furono a loro volta grandi teorici influenzati dal
formalismo.
All'origine di queste teorie vi sono gli esperimenti del cineasta Lev Kulešov,
maestro degli appena citati registi, il quale era riuscito a dimostrare la capacità
intrinseca del cinema di esprimere concetti astratti tramite la tecnica del montaggio 355.
L'effetto Kulešov, fenomeno cognitivo del montaggio cinematografico, è la
351 I testi di riferimento per la trattazione sono: Brandi Paolo, Parole in movimento: l'influenza del
cinema sulla letteratura, Cadmo, Fiesole, 2007; Manzoli Giacomo, Cinema e letteratura, Carrocci,
Roma 2003; Battisti Chiara, La traduzione filmica: il romanzo e la sua trasposizione
cinematografica, Ombre Corte, Verona 2008.
352 La semiotica è una disciplina che studia i segni e la loro significazione. Quella del cinema è una
disciplina molto vasta che raccoglie a sé numerose correnti di pensiero e di studio: la teoria del
linguaggio di Metz (analisi testuale del film) o il concetto di “significante immaginario” di Lacan
(studio sugli effetti provocati allo spettatore), o infine l'enunciazione. Non è di nostro interesse per la
suddetta trattazione indagare i diversi studi della semiotica del cinema, il paragrafo perciò prenderà in
analisi alcune teorie che vertono sul rapporto tra cinema e letteratura, nelle quali molto spesso, la
semiotica è il campo comune tra le due arti.
353 Brandi Paolo, Parole in movimento: l'influenza del cinema sulla letteratura, Cadmo, Fiesole 2007, p.
129;
354 Movimento critico nato intorno al 1915 (concluso circa nel 1928) per contrastare il criticismo
letterario tradizionale che si basava sull'indagare l'aspetto puramente formale dell'opera letteraria.
355 Secondo Manzoli Giacomo, Cinema e letteratura, Carrocci, Roma 2003, p.47.
193
dimostrazione di come un'inquadratura possa tramettere sensazioni diverse in base alle
inquadrature che la precedono o la seguono. Ad esempio, se viene prima mostrato un
volto deperito e successivamente si mostra una tavola imbandita, ciò che le due
inquadrature esprimono è una condizione psicofisica “astratta”, ovvero la fame. Perciò
la giustapposizione consecutiva di immagini porta lo spettatore a creare una relazione
tra queste, che lo condurrà ad una riflessione sulla relazione narrativa tra gli eventi
appena mostrati.
Con questo metodo, Ėjzenštejn nel film Oktjabr (Ottobre, 1928) indicò le ragioni
dell'ateismo di stampo marxista, associando le immagini delle chiese e dei simboli della
religione cristiana ortodossa a quelli di emblemi di altre religioni, nel tentativo di
veicolare il messaggio marxista della “religione come oppio dei popoli”356.
Le riflessioni teoriche sul cinema del critico formalista Boris Ejchenbaum
prendono avvio dal concetto di metafora cinematografica rispetto a quella letteraria: egli
sostiene che la metafora filmica sia la realizzazione visiva di quella verbale e viceversa,
perciò la prima viene colta in quanto essa è traducibile in parole, mentre quella letteraria
è traducibile in immagini. Pertanto i due linguaggi possono essere identificati come
equivalenti; tuttavia la diversa natura degli elementi linguistici delle due espressioni
produce effetti e contenuti che non possono essere comparati: «la metafora visiva non è
mai tradotta perfettamente in parole e quella verbale non è mai automaticamente
traducibile in immagini»357. Dunque quella visiva si modella sia in corrispondenza
dell'autore, sia nella comprensione dello spettatore e si basa su una metafora verbale,
dalla quale dipende: «La metafora cinematografica è possibile soltanto a condizione che
essa poggi sulla metafora verbale. Lo spettatore può intenderla soltanto nel caso che la
sua riserva mentale comprenda una corrispondente espressione metaforica» 358. Perciò, la
parola necessita di trovare un'analogia nell'immagine per riconvertirsi in forma verbale.
Gli studi di Ejchenbaum si concentrano poi sulle categorie di poesia e di prosa in ambito
cinematografico e verbale: il critico riteneva che la poesia, sia nel testo scritto che nel
cinema, non possa essere ottenuta con la semplice riproduzione di oggetti
intrinsecamente poetici, ma essa è il risultato di precise scelte stilistiche (nel cinema
356 Citato in Manzoli Giacomo, Cinema e letteratura, Carrocci, Roma 2003, p.48.
357 Manzoli Giacomo, Cinema e letteratura, Carrocci, Roma 2003, p.49.
358 Kraiski Giorgio (a cura di), I formalisti russi nel cinema, Garzanti, Milano 1987, p.50.
194
sono l'inquadratura, l'illuminazione o il montaggio), che hanno una conseguenza sul
risultato semantico.
Anche Viktor Šklovskij359 sostiene la medesima tesi, ritenendo inoltre che il
confine tra poesia e prosa sia molto labile tanto in letteratura quanto nel cinema; talvolta
la semantica è sacrificata per l'estetica o viceversa. Egli sostiene che la poesia non
agisca come la prosa sul piano semantico, ma «su quello puramente compositivo, al
punto che la grandezza compositiva risulti funzionalmente pari a quella semantica. La
differenza fondamentale tra la poesia e la prosa risiede forse nel carattere più
geometrico dei procedimenti, nel fatto che un'intera serie di soluzioni semantiche
fortuite è sostituita da una soluzione puramente geometrica formale» 360 inoltre «esiste
un cinema prosastico e uno poetico […] e ciò che distingue uno dall'altro non è il ritmo
o non soltanto il ritmo bensì il prevalere dei momenti tecnico-formali nel cinema
poetico in confronto a quelli semantici»361.
Lo scrittore e cineasta Pier Paolo Pasolini, nel 1965, prosegue questo tema aperto
dai formalisti russi in uno scritto dedicato al Cinema di poesia, nel quale pone una
distinzione tra il cinema di prosa (associato ai film di John Ford o di Charlie Chaplin,
registi che, secondo Pasolini, si sottomettono al racconto seguendo le regole del
racconto filmico) e il cinema poetico (eretto su un linguaggio metaforico in quanto
creatura dell'immaginazione). Secondo il famoso regista, la lingua della poesia irrompe
nel linguaggio della prosa attraverso il concetto letterario del “discorso libero indiretto”,
interpretato dal letterato come un espediente con cui lo scrittore si mimetizza in un
personaggio. Pasolini allora cerca di capire come attuare una tecnica simile anche nel
cinema e associa al termine letterario quello cinematografico di “soggettiva libera
indiretta”. Il poeta giunge però alla conclusione che nel cinema non esistono strumenti
in grado di esprimere direttamente colui che le pronuncia; il regista può solamente
ricorrere a procedimenti stilistici che siano in grado di portare ad un effetto simile, come
le inquadrature stilizzate, le posizioni della cinepresa, la messa a fuoco e
359 Nel 1917 pubblicò il saggio-manifesto del formalismo russo L'arte come artificio, nel quale elaborò
la teoria dello straniamento come esperienza centrale dell'opera artistica: un procedimento che si basa
sul rendere la visione deformata rendendola estranea alla propria natura.
360 Šklovskij Viktor, La poesia e la prosa nel cinema, in Kraiski G. (a cura di), I formalisti russi nel
cinema, Garzanti, Milano 1987, pp.148-149.
361 Šklovskij Viktor, La poesia e la prosa nel cinema, in Kraiski Giorgio (a cura di), I formalisti russi nel
cinema, Garzanti, Milano 1987, p.150.
195
l'illuminazione, in grado di sottolineare l'individualismo del personaggio senza essere
delle soggettive.
Tornando indietro nel tempo, l'analisi dei rapporti tra le varie arti trova riscontro
negli anni Trenta nelle ricerche compiute dal critico letterario e semiologo Jan
Mukařovský, il quale esamina il ruolo di ogni espressione artistica e le interferenze che
ne definiscono i rapporti e pone la sua particolare attenzione sulle analogie tra il mezzo
filmico e quello letterario. Presupponendo che il cinema detenga numerosi legami con la
letteratura (l'epica e la lirica) ma anche con il dramma, la pittura, la musica e che con
ognuna di esse abbia in comune con il cinema alcuni mezzi formali, Mukařovský
afferma che i legami più stretti siano quelli con la letteratura, in quanto il film si trova
tra l'epica e il dramma, poiché esse sono arti tematiche, come lo è il cinema stesso:
«L'affinità permette la facile trasposizione del tema dall'una all'altra arte; inoltre
ciascuna di queste tre arti può facilmente influire sulle altre due: agli inizi del suo
processo per esempio il cinema subì l'influenza dell'epica e del dramma, ora questo
rapporto sembra essersi invertito»362. Mukařovský sostiene che l'affinità tra il cinema,
l'epica e il dramma rende possibile un legame che permette di far emergere le
concordanze tra le tre arti e, allo stesso tempo, di trarre delle conclusioni generali sulle
influenze tra esse.
Queste teorizzazioni di Mukařovský saranno sviluppate da Roman Jakobson, il
quale indagherà le proprietà del segno cinematografico e di quello linguistico dando una
precisa definizione dei procedimenti metaforici e metonimici 363, termini che sono oggi
la base della costruzione del discorso cinematografico:
Materiale di ogni arte è il segno, e per i cineasti è evidente l'essenza segnica
degli elementi cinematografici […]. È per questo che nelle riflessioni sul
cinema si parla sempre metaforicamente di linguaggio del cinema, persino
di “cinefrase” con tanto di soggetto e predicato, di proposizioni
cinematografiche subordinate (Boris Ejchenbaum), di elementi verbali e
sostantivali nel cinema. […] Il cinema lavora con frammenti di soggetti e
362 Mukařovský Jan, Il tempo nel film, in Il significato dell'estetica, Einaudi, Torino 1973, p.332; qui
citato in Brandi P. op.cit., p.133.
363 Nel linguaggio verbale, la metonimia è una figura retorica basata sulla sostituzione di un termine con
un altro con cui ha una relazione di contiguità, ad esempio: ascolto Mozart è riferito alle opere di
Mozart. Si differenzia dalla metafora in quanto quest'ultima è una figura retorica che implica il
trasferimento di significato da un termine ad un altro; ad esempio: Luca è un santo, riferendosi al
fatto che Luca non commette ingiustizie.
196
con frammenti di spazio e di tempo differenti quanto alla grandezza, ne
muta le proporzioni e li collega secondo la contiguità oppure secondo la
similarità e il contrasto, cioè secondo la strada della metonimia oppure
quella della metafora.364
Tali affinità appena analizzate tra il linguaggio verbale e quello cinematografico
sono il punto d'incontro dal quale possono emergere le differenze tra le due arti.
La prima sostanziale differenza che emerge tra cinema e letteratura è la
distinzione del linguaggio-immagine e del linguaggio-scritto. A partire dal concetto di
suddivisione della parola della lingua scritta in monema 365 e fonema366, Christian Metz,
nel saggio del 1964 Il cinema: lingua o linguaggio?367, tenta di verificare la validità
dell'applicazione del modello linguistico della parola al linguaggio del cinema. Metz
ritiene che il cinema non possa essere confrontato ad una lingua (parlata o scritta) in
quanto essa non possiede unità di senso stabilite come i monemi, dal momento che ogni
ripresa è unica, e neppure ai fonemi, in quanto tutti gli elementi che compongono
un'inquadratura hanno già un senso compiuto. Inoltre il cinema non possiede nessuno
dei tre fenomeni che contraddistingue la lingua scritta o parlata: «esso non ha una
langue, un dizionario di parole con tutte le regole che sovrintendono alla loro
organizzazione in una grammatica e poi in una sintassi; non ha dei segni perché non
presenta allo spettatore delle cose che rimandano ad altre cose (monemi e fonemi), bensì
dei fatti che indicano prima di tutto se stessi; infine e di conseguenza, il cinema non è
votato all'intercomunicazione, come la lingua, ma all'espressione»368.
Per Metz dunque «rispetto al binomio letteratura/lingua, abbiamo un solo cinema,
che assomiglia più alla letteratura che alla lingua»369. In base a questi concetti, egli
sposta la sua attenzione sul modo in cui si costruisce un racconto e isola le regole che
364 Jakobson Roman, Cinema metaforico e metonimico, “Cinema & Film”, n.2, primavera 1967, pp.163168. Il saggio originale è del 1933; qui citato in Brandi P., op.cit., pp.133-134.
365 Un monema è il più piccolo elemento di una parola dotato di significato che non possa essere
ulteriormente suddiviso. Ad esempio la parola gatto è composta dal monema (radice) gatt- e dal
monema (desinenza) -o.
366 Un fonema è una unità linguistica in grado di produrre variazioni di significato se scambiata con
un'altra unità. Ad esempio, la differenza di significato tra l'italiano tetto e detto è il risultato dello
scambio tra il fonema-lettera t e il fonema d.
367 Saggio raccolto in Langage et cinéma (1971), trad. ita. (a cura di) Alberto Farassino, La
significazione del cinema, Bompiani, Milano 1975; il saggio originale è del 1964.
368 Manzoli Giacomo, Cinema e letteratura, Carrocci, Roma 2003, p.41.
369 Metz Christian, La significazione del cinema, Bompiani, Milano 1975, p.121; qui citato in Manzoli
G., op.cit., p.41.
197
sovrintendono la sintassi cinematografica, la quale si esprime attraverso il montaggio.
Metz chiarisce così i quattro elementi della suddetta analisi: il testo (il film); il
messaggio; il codice; il sistema singolare (regole interne che reggono l'organizzazione
di un testo specifico).
Qualche anno dopo, Pier Paolo Pasolini afferma, in un saggio del 1966 La lingua
scritta della realtà, che il regista produce gli strumenti della propria lingua avendo a
disposizione le inquadrature (simili ai monemi) e gli elementi che rientrano in ciascuna
di esse, che Pasolini chiama cinémi (possono essere associati ai fonemi della lingua
verbale). Perciò, secondo lui, i monemi sono le immagini che il regista porta alla
memoria, le quali sono dotate di un senso proprio dato dall'esperienza del cineasta,
formate da cinémi. «Il cinema sarebbe una lingua che possiede a tutti gli effetti, una
doppia articolazione»370.
Negli stessi anni, da questo dibattito emersero le figure di Gianfranco Bettetini 371 e
di Umberto Eco372. Per Bettetini «la doppia articolazione deve essere spostata fra nuclei
che danno conto di una certa situazione (gli iconémi, simili alle frasi) e i fattori tecnici
che li determinano (simili alle parole); Eco, invece, propone un'articolazione divisa in
tre momenti: segni che possiedono un senso autonomo, figure che sono semplici
significanti, e cinemorfi, cioè gesti complessi che si dispiegano nella successione dei
fotogrammi»373. Ad esempio, di fronte ad un'inquadratura che rappresenta un cavaliere
medievale, lo spettatore percepisce il personaggio come segno, in quanto l'immagine
rappresenta un cavaliere eroico e forte. Questi elementi donano un senso compiuto alle
immagini (significato) nel momento in cui vengono sommati ad una serie di oggetti tra
cui l'armatura e la spada (oggetti che, se visti isolatati da un preciso scenario non hanno
alcun significato), per poi essere inseriti in un contesto di svolgimento di un'azione
precisa, ad esempio il cavaliere che uccide il drago (cinemorfi).
In questo dibattito c'è un aspetto che rimane ancora implicito ed è Metz a rivelarne
il nodo. La letteratura utilizza una lingua verbale dove si incrociano il piano della
denotazione, in cui un fatto o un evento viene riferito a titolo puramente informativo, e
370 Manzoli Giacomo, Cinema e letteratura, Carrocci, Roma 2003, p.42.
371 Bettetini Gianfranco, Cinema: lingua e scrittura, Bompiani, Milano 1968.
372 Eco Umberto, La struttura assente: introduzione alla ricerca semiologica, Bompiani, Milano 1968.
373 Manzoli Giacomo, Cinema e letteratura, Carrocci, Roma 2003, p.42.
198
il piano della connotazione. Quest'ultimo produce effetti di senso che mirano
all'espressività e tenta di far scaturire il senso di un'informazione dalle parole stesse.
Ogni romanzo alterna espressioni connotative ad altre denotative e, questo, può avere
validità anche nel cinema, ma in forma differente. Nella sala cinematografica, vi è
l'inquadratura puramente descrittiva (denotativa) ed una maggiormente elaborata sia sul
piano iconografico, sia sul piano della tecnica di ripresa (connotativa). Metz ritiene che
al cinema non possa esistere un piano denotativo disgiunto dall'espressione: ad esempio,
nonostante le immagini di un documentario sulle operazioni a cuore aperto siano
puramente descrittive-denotative, esse produrranno comunque un effetto emotivo sullo
spettatore, in quanto le immagini in sé sono legate all'ambito dell'espressione. Al
contrario, se portiamo le stesse immagini in parole, la descrizione dell'operazione non
produrrà nello spettatore la stessa reazione emotiva che avrebbe invece nel vedere
quelle immagini. Metz perciò sostiene che le immagini cinematografiche non siano
puramente comunicative, ma esse sono sempre legate al piano dell'espressione.
4.3 Letteratura e cinema: una visione storica
Il rapporto tra letteratura e cinema trova, a mio parere, la sua origine in un
elemento che è di vitale importanza per l'opera cinematografica: la sceneggiatura. Nella
cinematografia, la suddetta è l’ultima fase dell’elaborazione scritta del soggetto del film,
in cui si identifica la storia. «La sceneggiatura designa la costruzione della struttura
narrativa del film che precede le riprese e quindi individua un processo produttivo che
va oltre il testo vero e proprio»374.
La sceneggiatura di un film si divide in soggetti originali, che nascono dalla
creatività dello sceneggiatore, e in soggetti derivati, i quali provengono da opere
letterarie o teatrali, da eventi storici o fatti di cronaca o da altre sceneggiature
cinematografiche precedenti (remake)375. Il soggetto derivato più conosciuto ed usato al
cinema è la trasposizione ed avviene quando una sceneggiatura deriva dalla trama di un
374 La definizione del termine si trova in Enciclopedia Treccani.it
(http://www.treccani.it/enciclopedia/sceneggiatura/ - ultima visualizzazione: 26/12/2014)
375 Secondo la suddivisione in Battisti Chiara, La traduzione filmica: il romanzo e la sua trasposizione
cinematografica, Ombre Corte, Verona 2008, p.45.
199
libro; la trasposizione è il processo seguente a quello di adattamento, che è la prima fase
di lavorazione nella quale si rielabora sommariamente l'opera letteraria. Solitamente la
trasposizione cinematografica non è mai del tutto fedele al romanzo e il testo viene
adattato privilegiando alcuni aspetti rispetto ad altri, modificando le variabili tematiche
e narrative. «La traduzione cinematografica non è tesa a proporre una mera
corrispondenza formale ed una precisione letterale, ma a rinnovare il romanzo di
riferimento, dando vita ad un nuovo testo, che garantisca la vicinanza autentica a quello
originale e che trasformi, al contempo, il modo di percepire il romanzo, rendendone
possibile il durare e il progredire del tempo»376.
Nei confronti dell'adattamento cinematografico le strategie possono essere
molteplici377:

Si attua una restrizione, quando si usano solo delle parti del testo di derivazione;

viceversa, la dilatazione può riguardare sia l'intero sviluppo narrativo e, in
questo caso, ciò avviene quando del racconto di base rimane solo una traccia,
oppure l'attenzione può essere posta solo su singoli episodi del racconto
letterario;

infine, si può isolare una parte di narrazione in modo che il film divenga solo
una digressione del racconto.
Questa piccola digressione sul concetto di sceneggiatura e sul rapporto che può
intraprendere il cinema nei confronti della letteratura con la traduzione filmica di un
libro era necessaria per introdurre ciò che analizzeremo nelle pagine seguenti. Dal
momento in cui il cinema ha scoperto la propria dimensione narrativa, sono stati molti i
registi ad aver “tradotto” testi letterari nel nuovo linguaggio cinematografico e dal punto
di vista storico questo risultò di fondamentale importanza per l'elevazione del mezzo
cinematografico. L'analisi storica che ci presteremo ora ad analizzare spazierà dalla
376 Battisti Chiara, La traduzione filmica: il romanzo e la sua trasposizione cinematografica, Ombre
Corte, Verona 2008, p.62.
377 Per semplificazione abbiamo preso ad esempio questa classificazione di Tinazzi Giorgio, La scrittura
e lo sguardo. Cinema e letteratura, Marsilio, Venezia 2007, pp.84-85. Per un approfondimento sulle
teorie dell'adattamento si consiglia Dusi Nicola, Il cinema come traduzione. Da un medium all'altro:
letteratura, cinema, pittura, Utet Università, Torino 2003; Brunetta Gian Piero, Letteratura e cinema,
Zanichelli, Bologna 1976.
200
traduzione filmica alle influenze più esplicite tra un movimento letterario e quello
cinematografico, per terminare con un'argomentazione sull'uso della citazione letteraria
al cinema, che ci introdurrà alla produzione di Jean-Luc Godard.
4.3.1 Cinema muto
Nelle prime proiezioni del cinematografo Lumière l'esigenza da parte del pubblico
di assistere ad una storia non era così rilevante come assistere per la prima volta ad
immagini fotografiche in movimento. Il bisogno di una narrazione, emerso negli
spettatori qualche mese dopo la prima proiezione378, fece intuire le potenzialità del
nuovo mezzo la cui rappresentazione realistica poteva avere uno sviluppo in ambito
narrativo. Vi sono alcune ragioni che spinsero l'unione definitiva tra cinema e
narrazione, per semplificazione prenderemo ora in considerazione le tre principali379. La
prima forte motivazione è l'immagine figurativa in movimento, difatti il cinema si
propone inizialmente come mezzo di replicazione della realtà, ma il solo fatto di
mostrare un oggetto in modo che sia riconosciuto è un atto che implica il voler dire
qualcosa di quell'oggetto, un valore di cui esso è rappresentante. La seconda è
l'immagine in movimento, in quanto essa è in continua trasformazione ed il movimento
esige il tempo, e come la storia letteraria anche il cinema offre la durata e la
trasformazione. Infine, la terza motivazione è da ricercare in una legittimità del cinema
stesso: i primi spettacoli cinematografici erano considerati un'attrazione fieristica e un
po' volgare, per riuscire ad elevarsi ed essere riconosciuto come arte, il cinema si dedicò
allo sviluppo del suo potenziale narrativo.
Alla nascita del cinematografo il teatro sembrava il mezzo più vicino al cinema in
quanto favoriva la possibilità di riproduzione immediata, ben presto però si diffuse la
pratica di usufruire di testi letterari per le sceneggiature dei film: «il ricorso fu diretto, in
quanto si utilizzarono storie, impianti narrativi o semplici schemi di racconto,
personaggio o vicende; fu però anche indiretto, perché si attingeva più in generale a un
378 La quale si svolse il 28 dicembre 1895 a Parigi.
379 Secondo la suddivisione posta da Aumont Jacques, Bergala Alain, Marie Michel, Vernet Marc,
Esthétique du film, Nathan, Paris 1983. Trad. ita. “Cinema e narrazione” in Estetica del film, Lindau,
Torino 1995, pp. 59-61.
201
immaginario diffuso creato dalla parola scritta»380. L'esigenza di avvicinarsi al mondo
letterario scaturiva dal bisogno, sempre più pressante, di superare i limiti di una
riproduzione imitativa del reale, nel tentativo di costruire una riproduzione che fosse
narrativa in risposta alle esigenze del pubblico. Inoltre, presentare uno spettacolo con
nomi illustri della letteratura o con trame e personaggi conosciuti permetteva un
successo di pubblico e di botteghino assicurato. Così dal preteso di una promozione
culturale e di storie da narrare, la letteratura diviene per il cinema l'occasione per
elaborare nuove potenzialità espressive e artistiche e, da questo momento, la narrativa
entra ufficialmente nel mondo cinematografico.
A partire dal 1902, lo sviluppo tecnico in ambito filmico condusse ad una serie di
cambiamenti che favorì una certa continuità nella narrazione: i film si allungarono, le
storie si fecero più complesse, le trame più fitte e composte da più inquadrature. Il
passaggio da una singola inquadratura, caratteristica del cinema primitivo, ad una
pluralità di inquadrature, con posizioni e distanze differenti, fece emergere però le prime
difficoltà nella produzione di un racconto che risultasse chiaro e comprensibile al
pubblico. Per tale motivo, si ricorse all'uso degli intertitoli, dei cartelli che venivano
inseriti tra un quadro e l'altro con la funzione di anticipare il contenuto dell'episodio che
seguiva. Con lo scopo di sostenere una forma di continuità tra le inquadrature tale da
consentire allo spettatore di cogliere ciò che avveniva in modo discontinuo nelle
immagini, gli intertitoli comparvero la prima volta nel 1903, nel film Uncle Tom's cabin
(La capanna dello zio Tom) del regista Edwin Porter.
Nel periodo del cinema muto, gli intertitoli potevano essere di due tipologie: vi
era il tipo descrittivo, il cui testo era scritto in terza persona e riassumeva le vicende che
si sarebbero svolte nella scena successiva381; oppure vi erano gli intertitoli che
presentavo i dialoghi, i quali potevano essere inseriti prima dell'inquadratura, in cui il
personaggio parla, o a metà sequenza, subito dopo che il personaggio comincia a
parlare382. Allo stesso tempo, accanto agli intertitoli, vi erano anche le figure di veri e
380 Tinazzi Giorgio, La scrittura e lo sguardo. Cinema e letteratura, Marsilio, Venezia 2007, p.10.
381 Tra gli intertitoli descrittivi vi erano testi anche più concisi, simili a titoli di un libro (ad es. “Il
fidanzamento è rotto”) o infine vi erano quelli che segnalavano allo spettatore un salto temporale (ad
es. “Un anno dopo”).
382 Quest'ultima soluzione venne usata abitualmente a partire dal 1914, quando si comprese che lo
spettatore percepiva chiaramente il senso della scena nel momento in cui l'intertitolo coincideva con
l'immagine del personaggio mentre parlava.
202
propri narratori (l'imbonitore), che tramite l'uso della parola orale svolgevano le stesse
funzioni delle didascalie. Ovviamente queste figure erano affiancate ai film che non
contenevano nessuna forma di scrittura extradiegetica e il loro lavoro era quello di
introdurre i contenuti e il succedersi narrativo delle immagini.
Parallelamente all'invenzione degli intertitoli, si stava sviluppando una forma di
montaggio relativamente semplice, la quale riusciva a chiarificare alcune forme
narrative, come ad esempio quella dell'inseguimento, che viene raggiunta con The Great
Train Robbery383 (La grande rapina al treno, 1903) di Edwin Porter, film nel quale la
linearità del racconto risulta completa al punto da essere considerato il primo film
narrativo della storia del cinema. In questo periodo, i registi iniziarono a studiare e ad
applicare una serie di tecniche per consentire allo spettatore la corretta comprensione
temporale e spaziale tra un'inquadratura e un'altra, finché a partire dai primi anni Dieci
queste serie di tecniche formarono il principio di continuità narrativa del montaggio 384
basato su la connessione, spaziale e temporale, tra un'inquadratura e quella precedente.
Grazie allo sviluppo di queste tecniche, a partire dal primo decennio del
Novecento la trasposizione letteraria trovò il suo sviluppo più florido in ambito
cinematografico.
In Francia, la casa di produzione Pathé si avvalorò della collaborazione del regista
Ferdinand Zecca,
il quale produceva
film
che traevano
ispirazione
dalla
contemporaneità e dalla letteratura realistica di Émile Zola. Il realismo delle immagini e
lo stile quasi documentaristico della rappresentazione si trovano in Les victimes de
l'alcoolisme (Le vittime dell'alcolismo, 1902) o in La grève (Lo sciopero, 1903) dove
emergono l'influenza sociale dei romanzi di Zola. I temi sociali e drammatici dei fatti di
cronaca quotidiana non erano una critica nei confronti della società dell'epoca, ma
avevano uno scopo prettamente commerciale, in quanto tali film potevano soddisfare un
ampia fetta di pubblico popolare. In questa prospettiva, accanto ai drammi sociali si
affiancano film di carattere storico, principalmente religioso, tratto dalle vicende della
Bibbia.
383 Il film è composto da undici inquadrature in cui si narra la storia di un gruppo di ladri che assale un
treno.
384 La continuità narrativa si basa su tre metodi per unire le sequenze: il montaggio alternato, il
montaggio analitico, il montaggio contiguo.
203
L'importanza della letteratura come apporto al nuovo cinema nascente è
riscontrabile nella fondazione nel 1907 della Sociéte Cinématographique des Auteurs et
des Gens de Lettres (SCAGL), specializzata nel produrre film tratti da opere letterarie o
basate su sceneggiature create da scrittori. La società, diretta da Albert Capellani, portò
sullo schermo alcuni grandi capolavori letterari di Victor Hugo, Émile Zola, Jean
Racine, che riscossero ancora una volta un grande successo. Fu proprio nel 1912 che la
trasposizione in quattro parti del romanzo di Hugo, Les misérables (I miserabili) da
parte del regista Capellani costituì un segnale inequivocabile della nuova tendenza a
realizzare prodotti di maggiore durata e a costi più elevati, destinati soprattutto al
mercato americano.
A partire dal 1908 l'obiettivo dell'industria cinematografica era quello di
avvicinare il pubblico borghese al nuovo mezzo, da cui fino ad allora aveva tenuto le
distanze. Per fare questo si decise di attingere ad opere letterarie e teatrali celebri, di alto
spessore culturale, in modo da riuscire ad alzare il valore dei soggetti. In Francia, a
questo scopo, nacque la casa di produzione Film d'Art, il cui fine principale era quello
di allargare il bacino del pubblico di cinema verso gli strati più colti della popolazione
ricorrendo ad attori e registi di teatro e della Comédie-Française. La casa di produzione
mise in scena spettacoli dal carattere storico mitologico come Le retour d'Ulysses
(1909) o adattamenti teatrali come La Tosca (1911). Il successo giunse con L'assassinat
du duc de Guise (1908) diretto da André Calmettes e Charles Le Bargy e che vide la
partecipazione di attori teatrali e l'adattamento scenografico del celebre scrittore Henri
Lavedan.
Il rapporto tra cinema e letteratura del periodo muto raggiunge il suo apice nel
ambiente italiano, secondo una strategia che fa della letterarietà un vero e proprio
elemento caratterizzante385. Nei restanti Paesi europei e negli Stati Uniti il cinema
assume un carattere popolare in seguito alla concezione elastica delle classi sociali,
mentre in Italia è principalmente borghese. Così mentre all'estero la produzione
cinematografica si specializza in forme narrative adatte anche ad un pubblico meno
colto, in Italia la borghesia chiede alla nuova arte soggetti originali. Le case di
produzione italiane ingaggiano letterati e scrittori di fama, in grado di donare alla
385 Secondo Manzoli Giacomo, Cinema e letteratura, Carrocci, Roma 2003, p.12.
204
rappresentazione cinematografica un valore artistico; spiccano così nomi dal calibro di
Giovanni Verga, Guido Gozzano, Luigi Pirandello e, soprattutto, Gabriele D'Annunzio.
Negli anni Dieci, il cinema italiano è fortemente condizionato dalla poetica
dannunziana, dalla quale nascono due fenomeni che possono essere ricollegati,
direttamente o indirettamente, al letterato. Difatti, in questi anni, in Italia, nasce il
divismo cinematografico, alimentato dalle trame passionali, di amori torbidi e sensuali e
di donne fatali386. Anche le scenografie e i costumi richiamano quel mondo dannunziano
e del decadentismo europeo387 tipico del primo decennio del Novecento; inoltre le
didascalie dei film storici e dei melodrammi italiani si distinguono per un uso
ridondante della parola, dotate di risonanze letterarie e talvolta poetiche.
Sull'altro versante, le case di produzione iniziarono a specializzarsi nella
produzione di film kolossal storico-mitologico, nel quale D'Annunzio è ancora
protagonista con il film Cabiria (1914) di Giovanni Pastrone, che vede l'apporto dello
scrittore nel soggetto e nelle didascalie. Quasi sicuramente la stesura non fu dello
scrittore, ma è indubbia la sua influenza nell'estetica e nello stile aulico e celebrativo.
Ciò che importava, al pubblico e alla critica del tempo, non era tanto che il suo apporto
fosse avvenuto o meno, ma che la sua firma apparisse nei cartelloni come prova di
artisticità e di celebrazione del film.
Nei primi anni Dieci, l'apporto letterario è per la produzione cinematografica
italiana un punto di forza rispetto agli altri Paesi, ma diviene presto un forte limite nel
momento in cui si iniziò ad esplorare con intensità le possibilità espressive del cinema.
Difatti, la produzione muta italiana non apportò particolari novità sul piano estetico e
artistico388, solamente Cabiria risultò una tappa fondamentale nel linguaggio
cinematografico. Difatti, negli stessi anni oltreoceano, il cineasta David Wark Griffith
sta realizzando uno dei suoi più grandi capolavori, The Birth of a Nation (1915) che ha
come modello di riferimento proprio il film Cabiria389 e due testi letterari di Thomas
Dixon Jr., The Leopard's Spots e The Clansman. I testi letterari vengono usufruiti come
386 Ad esempio ricordiamo gli attori-divi Lyda Borelli, Francesca Bertini, Leda Gys, Febo Mari.
387 Il Decadentismo è un movimento artistico e letterario (fine Ottocento-primi del Novecento) che si
oppone alla razionalità e al positivismo del naturalismo. Coincide con la crisi dell'intellettuale in
quanto essi si sentono incapaci di risolvere i mali della società, come avvenne nel Romanticismo.
388 Secondo Rondolino Gianni, Storia del cinema (vol. 1), Utet, Torino 1997, p.99.
389 Secondo Manzoli Giacomo, Cinema e letteratura, Carrocci, Roma 2003, p.15.
205
spunto per le azioni e per i personaggi che fanno da sfondo alla tematica principale sulla
storia americana. Griffith sviluppa, fin dai primi anni del Novecento, le potenzialità
narrative ed espressive del cinema attraverso la tecnica del montaggio 390, creando un
film la cui storia narrata non ha nulla di cui invidiare ad un libro. Secondo il critico e
regista sovietico Sergej Ėjzenštejn da «Dickens, dal romanzo vittoriano, nascono i primi
elementi dell'estetica cinematografica americana»391 di cui Griffith, con le sue opere, è il
primo rappresentante.
4.3.2 Avanguardie storiche
Dalla nascita del cinema fino agli anni Venti, il rapporto tra cinema e letteratura ha
dato vita a fenomeni di interazione artistica, che rappresentano un punto di vista
privilegiato su quello che secondo Keith Cohen è «il periodo durante il quale le idee
sperimentali dei teorici del XIX secolo sui rapporti scambievoli tra le arti furono messe
in pratica con crescente sicurezza» evidenziando il «cambiamento dalla indipendenza
alla interdipendenza artistica»392. È questo il periodo in cui il cinema provoca l'impatto
più significativo sulle arti preesistenti e allo stesso tempo interagisce con esse in un
rapporto di scambiabilità reciproca di forte rilevanza.
Un ruolo determinante nel favorire l'interazione tra letteratura e cinema è
rappresentato dal clima culturale suscitato dalle avanguardie storiche, i cui
rappresentanti perseguivano l'obiettivo di demolire ogni forma estetica tradizionale, per
un superamento dei confini fra le arti e cercando di accomunare le diverse espressioni
artistiche. «In questo percorso il cinema diventa inevitabilmente il punto di riferimento
privilegiato in quanto esso viene interpretato come l'arte totale che ingloba in un'unica
manifestazione tutte le altre forme artistiche, garantendo esiti che superano le possibilità
di ogni singola espressione»393. I percorsi delle avanguardie storiche hanno un traiettoria
390 Griffith sviluppa il cosiddetto montaggio narrativo scomponendo la scena in diverse inquadrature e in
base ai collegamenti tra queste inquadrature si hanno molteplici effetti. Il montaggio analitico (o
montaggio classico) è quello più conosciuto e si basa sul raccordo di movimento tra inquadrature,
raccordo sull'asse, raccordo di posizione, raccordo di sguardo, raccordo di soggettiva
391 Ėjzenštejn Sergej M., La forma cinematografica, Einaudi, Torino 2003, p.204.
392 Cohen Keith, Cinema e narrativa. Le dinamiche di scambio, Eri, Torino 1982, p.11.
393 Brandi Paolo, Parole in movimento: l'influenza del cinema sulla letteratura, Cadmo, Fiesole 2007,
p.40.
206
comune, basata sul rifiuto verso il cinema ufficiale e alle sue leggi discorsive, un
rinnegare la rappresentatività e la narratività lineare, che giunge al concetto di
interartisticità come presupposto per una elaborazione estetica del cinema in quanto
arte, la quale integra alle proprie peculiarità anche quelle dei linguaggi artistici
preesistenti. Le avanguardie storiche violano il modo di organizzazione visivo-narrativo
fino ad allora studiato e sviluppato, nella quale le immagini fanno parte di una serie
narrativa, dove i materiali filmici sono visti come una storia, ovvero come un
concatenamento di unità diegetiche. Gli artisti tentano perciò di intervenire su questo
schema con l'obiettivo di superarlo, di inventare nuovi modelli e di contrapporre flussi
discontinui di immagini alla continuità del flusso narrativo.
4.3.3 Futurismo
Questo concetto avvenne con gli artisti futuristi, i quali riconoscono nella velocità,
nella modernità, nel movimento, nell'industria e nel montaggio gli elementi della loro
pratica artistica per individuare poi nel cinematografo la modernità assoluta, in quanto
prodotto dell'età tecnologica e industriale, fondato sulla velocità, sul movimento e sul
montaggio. Nel Manifesto tecnico della letteratura futurista del 1912 si afferma
appunto che «il cinematografo ci offre la danza di un oggetto che si divide e si
ricompone senza intervento umano. Ci offre anche lo slancio a ritroso di un nuotatore i
cui piedi escono dal mare rimbalzando violentemente sul tavolino. […] Sono altrettanti
movimenti della materia, fuori dalle leggi dell'intelligenza e quindi di un'essenza più
significativa»394, vengono perciò riconosciuti quei princìpi di rapidità, velocità,
movimento e montaggio che scompongono e ricompongono gli elementi rappresentati,
princìpi che vengono perseguiti anche dai pittori futuristi. Nel manifesto del 1913, Le
parole in libertà, il cinema è citato come uno di quegli elementi della vita
contemporanea che hanno operato un «completo rinnovamento della sensibilità umana»
sulla «psiche» e un «acceleramento della vita» 395, il cinema è un mezzo in grado di
394 Marinetti Filippo Tommaso, Manifesto tecnico della letteratura futurista, in Teoria e invenzione
futurista, (a cura di) De Maria L., Mondadori, Milano 1990, p.51.
395 Il titolo completo del manifesto di Marinetti è Distruzione della sintassi Immaginazione senza fili
Parole in libertà (11 maggio 1913). Per il testo in pagina il supporto utilizzato è Bertetto Paolo, Il
cinema d'avanguardia 1919-1930, Marsilio, Venezia 1987, p.29.
207
produrre emozioni e stati d'animo artificiali, alimentando quel processo di
disumanizzazione della vita che gli artisti futuristi cercavano. Ben presto i futuristi si
accorgono della portata innovativa del nuovo mezzo e se ne servono per creare qualcosa
di nuovo. Nel Manifesto del Futurismo (1916) si afferma: «Occorre liberare il cinema
come mezzo di espressione per farne lo strumento ideale di una nuova arte,
immensamente più vasta e più agile di tutte quelle esistenti […] metteremo in moto le
parole in libertà che rompono i limiti della letteratura marciando verso la pittura, la
musica, l'arte dei rumori e gettando un meraviglioso ponte tra la parola e l'oggetto
reale»396 e ancora: «il cinematografo futurista collaborerà al rinnovamento generale,
sostituendo la rivista (sempre pedantesca), il dramma (sempre previsto) e uccidendo il
libro (sempre tedioso e opprimente)»397 considerando infine il cinematografo un'arte in
sé.
Gli intellettuali futuristi, poi, stilano una breve lista di come dovranno essere i
loro film: di nostro interesse, ricordiamo le proposte di «analogie cinematografiche tra
immagini reali e sentimenti»; «poemi, discorsi e poesie cinematografati» (ovvero la
trasposizione); «parole in libertà in movimento cinematografate» 398, le quali unite a
pittura, scultura, dinamismo plastico, intonarumori, architettura, teatro sintetico danno
vita alla cinematografia futurista. Tra le pellicole futuriste ricordiamo le già citate
cinepitture astratte (1909) di Arnaldo Ginna e Bruno Corra, la cui finalità era quella di
costruire una “musica cromatica” che fosse in grado di tramettere gli stessi sentimenti di
un dipinto, di una sinfonia e di una poesia. Per quest'ultima, gli artisti scelsero la poesia
Les Fleurs da Stéphane Mallarmè.
4.3.4 Espressionismo tedesco
La corrente espressionista si sviluppa in diversi campi artistici: pittura, letteratura,
musica, cinema e teatro. Come abbiamo visto nei capitoli precedenti, in senso generale
il movimento tende ad enfatizzare l'espressività delle forme artistiche, propria di ogni
corrente e caratteristica propria della corrente in sé è l'influenza reciproca tra le varie
396 Citato in Manzoli Giacomo, Cinema e letteratura, Carrocci, Roma 2003, p.16.
397 Citato in Cinquegrani Alessandro, Letteratura e Cinema, La Scuola, Brescia 2009, p.153.
398 Citato in Bertetto Paolo, Il cinema d'avanguardia 1919-1930, Marsilio, Venezia 1987, p.29.
208
arti. Il cinema espressionista venne influenzato, naturalmente, anche dalla letteratura
attingendo da opere di autori letterari contemporanei a quelle del periodo gotico e della
letteratura del terrore dell'Ottocento, come i romanzi di Amadeus Hoffmann o di Edgar
Allan Poe, dai quali vengono acquisite le tematiche del mistero e delle tenebre popolate
da creature del male.
Ad esempio, per il film manifesto di questa corrente Das Cabinet des Dr. Caligari
(di Robert Wiene, 1919) lo sceneggiatore Carl Mayer trasse ispirazione dalle letture di
Stevenson, du Maurier e Stendhal. Allo stesso modo, anche in Nosferatu - Eine
Symphonie des Grauens (1922) di Friedrich W. Murnau, risulta esplicita la derivazione
dal romanzo Dracula di Brian Stoker, anche se la fonte letteraria non venne mai
dichiarata, la trama appare pressoché identica mentre solo i nomi dei personaggi si
differenziano dal romanzo399. Dal punto di vista citazionale poi, Murnau inserisce
all'interno del racconto filmico letture e citazioni di libri da parte dei personaggi, che
risultano la chiave interpretativa della stessa trama filmica: ad esempio, il testo che
spiega i comportamenti dei vampiri o il diario di bordo della nave che porta in città il
conte di Orlok aiutano i protagonisti, Ellen e Hutter, a sconfiggere il vampiro.
4.3.5 Dadaismo
In Francia, prima dell'avvento del dadaismo cinematografico, un nuovo cinema
legato all'immaginazione dell'artista e libero dalle costrizioni del mercato si era
manifestato attraverso la composizione di brevi poemi cinematografici elaborati da
Pierre Albert-Birot. Lo studioso Karel Teige, in uno scritto del 1929, sostiene che «il
primo tentativo di una poesia filmica pura, autonoma e integrale, immune da tutte le
formule alla moda dell'avanguardia, fu gli scenari di Albert-Birot, “poesie dello spazio”,
scritti circa dieci anni fa, condannati poi a rimanere solo sulla carta. Sono piccole
“poesie della lunghezza di cento metri”»400 che sviluppano gesti e movimenti in una
dimensione a metà tra il reale e l'onirico.
399 Per questo lo sceneggiatore e la casa di produzione, Prana-Film, subirono e persero un processo che li
chiamò in causa per plagio. Per una lettura più approfondita sull'argomento si consiglia Tone P.G.,
Friedrich Wilhelm Murnau, Firenze 1976, p.34-35.
400 Teige Karel, Per un'estetica del film, raccolto in Rondolino Gianni, Il cinema astratto: testi e
documenti, Tirrenia-Stampatori, Torino 1977, p.129.
209
Poco dopo si sviluppa il movimento dada, il quale nasce in opposizione ai valori
tradizionali delle arti per porre il caso e l'immaginazione alla base della creazione
artistica. Il Manifesto dadaista, pubblicato nel 1917 dal poeta Tristan Tzara, nella rivista
“Dada”, proponeva un programma antiartistico e antiletterario, in cui si perseguiva la
libertà di espressione attraverso qualsiasi mezzo, anche mischiando e assemblando
materiali e forme artistiche diverse.
Il cinema di Man Ray, a posteriori di Retoun à la raison (1923), lo vede esplorare
con il film Emak Bakia (1926) la costruzione di processi di automatismo visivo, fondata
su concatenamenti casuali e automatici che si mescolano a materiali astratti e a
immagini oniriche. Lo stesso Man Ray la descrive come una via differente dal cinema
astratto e da quello narrativo: «una serie di frammenti, una cinepoesia con una certa
sequenza ottica compongono un tutto che rimane ancora un frammento della
cinematografia moderna. […] Il film è puramente ottico, solo da guardare: non esisteva
una storia, né una sceneggiatura»401, ovvero era il risultato di un modo di pensare e di
vedere. Con L'étoile de mer (1929), film che trae ispirazione da una poesia di Robert
Desnos, Man Ray tenta una sorta di visualizzazione dei versi ponendo davanti
all'obbiettivo una lente opaca, che rendeva le immagini sfuocate e stranianti,
accentuando il carattere onirico della poesia.
Nel film di Marcel Duchamp, in collaborazione con Man Ray, Anémic cinéma
(1925), vi si mostra l'alternanza di dieci dischi ottici (dischi con spirali e cerchi
concentrici) con nove dischi su cui sono iscritte frasi in francese disposte per formare
una spirale (rotorilievi), che visti nell'insieme producono un effetto tridimensionale
attraverso gli effetti percettivi della visione. Attraverso i nove dischi con i giochi di
parole, Duchamp tenta di mostrare l'arbitrarietà del linguaggio e la sua eterogeneità al
reale suggerendo connessioni semantiche inattese, che giocano sul loro senso e sulla
loro negazione. Il film non ha una storia e non è narrativo e le frasi scritte come
scioglilingua e giochi di parole sono tipici esempi del movimento dada402:

Bains de gros thé pour grains de beauté sans trop de Bengué. (Bagni di tè grosso
401 Man Ray, Autoritratto, Abscondita, Milano 2010, p.222.
402 Le frasi sono state riportate in Bertetto Paolo, Il cinema d'avanguardia 1919-1930, Marsilio, Venezia
1987, pp.77-78.
210
per chicchi di bellezza senza troppo Bengué403).

L'enfant qui téte est un souffleur de chair chaude et n'aime pas le chou-fleur de
serre chaude. (Il bambino che poppa è un soffiatore di carne calda e non ama il
cavolfiore di serra calda).

Si je te donne un sou me donneras tu une paire de ciseaux? (Se ti do un soldo mi
darai tu un paio di forbici?).

On demande des moustiques domestiques (demi-stock) pour la cure d'azote sur
la Cote d'Azur. (Si chiedono delle zanzare domestiche - mezzo stock - per la cura
d'azoto sulla Costa Azzurra).

Inceste ou passion de famille, à coups trop tirés. (Incesto o passione di famiglia,
tirati a colpi eccessivi).

Esquivons les ecchymoses des esquimaux aux mots exquis. (Schiviamo i lividi
degli eschimesi con squisite parole).

Avez vous deja mis la moëlle de l'épée dans le poële de l'aimée? (Avete già
messo il midollo della spada nella vasca dell'amata?).

Parmi nos articles de quincaillerie paresseuse, nous recommandons le robinet
qui s'arrête de couler quand on ne l'écoute pas. (Tra i nostri articoli di
ferramenta sfaccendata, raccomandiamo il rubinetto che smetta di colare quando
non si ascolta).

L'aspirant habite Javel et moi j'avais l'habite en spirale. (L'aspirante abita a
Javel e io ho avuto l'abitato in spirale).
Leggere le frasi scritte nei dischi risulta molto difficile per lo spettatore, ma una
volta che egli ci riesce esse sembrano beffeggiarsi di lui, in tipico stile dadaista. «Le
nove iscrizioni sono caratterizzate da assonanze foniche, da accostamenti semantici
improbabili, da aforismi trasformati in scioglilingua che estraniano il linguaggio
sottolineando l'artificialità della produzione artistica e del simbolico» 404. Anche il titolo
del film è un gioco di parole e si basa sul concetto letterario di anagramma, anémic
cinéma, in quanto le due parole sono composte dalle stesse lettere, trattandosi perciò di
403 Bengué era un analgesico inventato dal dottore francese Jules Bengué.
404 Secondo Bertetto Paolo, Il cinema d'avanguardia 1919-1930, Marsilio, Venezia 1987, p.78.
211
un doppio anagramma. Il film si conclude con la firma dello pseudonimo di Duchamp,
Rrose Sélavy che è un ulteriore gioco di parole in Eros c'est la vie (Eros è la vita).
4.3.6 Surrealismo
Il cinema surrealista ha come principale teorico André Breton, il quale fu
fortemente influenzato dalla lettura de L'interpretazione dei sogni (1899) di Sigmund
Freud, al punto da portare il tema dei sogni e dell'inconscio come materia fondante della
corrente surrealista. Così viene definito il surrealismo nel Manifesto surrealista (1924)
scritto dallo stesso Breton: «Automatismo psichico puro, attraverso il quale ci si
propone di esprimere, con le parole o la scrittura o in altro modo, il reale funzionamento
del pensiero»405.
Gli scrittori surrealisti individuano nel cinema il mezzo da utilizzare per il
perseguimento dei propri obiettivi: esso era in grado di rappresentare quell'automatismo
psichico che esprime il processo del pensiero svincolato da ogni controllo razionale ed
era il mezzo che meglio sapeva esprime la dimensione onirica, da sempre ricercata dagli
artisti della corrente. Philippe Soupault, esponente della corrente surrealista e uno dei
primi a tentare un esperimento di scrittura automatica, afferma: «il film propone delle
straordinarie possibilità per esprimere, trasfigurare e realizzare i sogni. Si può dire che,
dalla nascita del surrealismo, abbiamo cercato di scoprire, grazie al cinema, il mezzo per
esprimere gli immensi poteri del sogno»406. Il letterato Soupault fu il primo ad elaborare
una sorta di unione tra cinema e parola: questi furono i “poemi cinematografici”,
pubblicati nel 1918 e nel 1925, testi in cui la libertà e l'inventiva che il cinema
immaginato consente è unito a temi tipici dell'avanguardia surrealista, come l'amore, il
sogno, la follia e la liberazione dell'uomo dalle convenzioni sociali. In Indifférence
(1918) la descrizione di un immaginario onirico e surreale si mescola alla rivolta degli
oggetti rappresentando figure da un forte impatto semantico; allo stesso tempo
405 Breton André, Manifesti del surrealismo, Einaudi, Torino 2003, qui citato in Bertetto Paolo, Il
figurale tra cinema e letteratura, in Perniola Ivelise (a cura di), Cinema e letteratura: percorsi di
confine, Marsilio, Venezia 2002, p.58.
406 Citato in Brandi Paolo, Parole in movimento: l'influenza del cinema sulla letteratura, Cadmo, Fiesole
2007, p.40.
212
l'intellettuale «invita i poeti a mettersi dietro la macchina da presa» 407. Nei “poemi
cinematografici” successivi, Soupault trasmette l'idea di un cinema legato al sogno,
ignorando la realtà per inventare gesti e azioni anomali, segnato fortemente dalle
influenze surrealiste.
A partire dal concetto letterario di automatismo e di scrittura automatica, ovvero
una scrittura che emerge dall'inconscio, senza alcuna logica discorsiva se non dal
pensiero logico dello scrittore, gli scrittori surrealisti credono che il cinema sia il mezzo
che più si possa avvicinare a questa tecnica. Jean Cocteau sostiene l'idea di un cinema
come poema, poesia diretta, che le immagini suscitano senza la mediazione, al punto
che definisce il proprio lavoro di cinema “poésie cinématographique”. La sua ipotesi di
cinema di poesia apre all'immaginazione soggettiva, personale e privata del mondo
visionario del poeta: nel 1930 realizza il film Le sang d'un poète, con l'obiettivo di
creare un linguaggio filmico che fosse il corrispettivo di quello poetico, in cui immagini
e ritmi visivi avessero il medesimo significato emozionale e intellettuale delle parole e
dei versi d'un poema.
Tra le opere più volte citate nei paragrafi sul surrealismo dei capitoli precedenti, vi
sono quelle nate dall'unione creativa tra il regista-poeta spagnolo Louis Buñuel e il
pittore Salvador Dalí: Un chien andalou (1929) e L'Âge d'or (1930), film nei quali
ritroviamo in forma cinematografica le suggestioni della scrittura automatica e della
visionarietà onirica tipica delle poesie di Breton, Éluard e Desnos, il cui obiettivo era
quello di spingere la letteratura al di fuori dei confini imposti, per essere sperimentata in
nuovi campi di azione.
4.3.7 Cinema puro
Il termine cinema puro, che circola in Francia intorno agli anni Venti, viene
ricondotto al modello letterario della poesia pura, movimento che viene sancito nel 1925
dall'articolo La poésie pure di Henri Brèmond. Come la poesia, anche il cinema puro si
definisce per negazione: esso è un cinema depurato da tutto ciò che non è cinema, di
tutte le componenti letterarie, teatrali, dello spessore dei materiali narrativi e
407 Andreazza Fabio, Identificazione di un'arte: scrittori e cinema nel primo Novecento italiano,
Bulzoni, Roma 2008, p. 126.
213
rappresentativi, della determinatezza prosaica della trama e delle azioni, dei sentimenti e
delle idee408. Il cinema puro si distanzia dall'anticonformismo dada e surrealista per
ridurre il cinema ai suoi elementi basilari con lo scopo di creare immagini composte da
forme pure.
La regista francese Germaine Dulac sostiene la concezione del ritmo puro, ovvero
un processo che sottrae valore agli eventi, ai volti, alle azioni per giungere ad
un'armonia delle proporzioni matematiche e geometriche di un movimento. La ricerca
teorica della Dulac si direziona verso il raggiungimento del cinema puro, ossia alla sua
depurazione per un'essenzialità formale. Cogliere l'essenzialità significa individuare la
linea di sviluppo e il tempo di oggettivazione, cogliere il ritmo: «il ritmo dà al
movimento la propria significazione interna»409. Il cinema della Dulac è concepito su
strutture linguistiche basate su linee, volumi, superfici, costruzioni armoniche e ritmi
fluidi nel tentativo di superare il legame tra il cinema e la realtà per raggiungere la
dinamica pura degli elementi formali cinematografici. I film “puri” realizzati dalla
Dulac, tra il 1928 e il 1929, sono Disque 927, Thèmes et variations, Etudes
cinématographiques sur un arabesque, i quali sono una ricerca sulla purezza filmica
ispirati alla partitura di testi musicali di Chopin e Debussy.
4.3.8 Il cinema d'autore in Italia e in Francia
«Con l'avvento del sonoro, i rapporti tra letteratura e cinema mutano radicalmente:
il cinema sembra diventare veramente (e non solo agli occhi delle avanguardie) l'arte di
tutte le arti. L'avvento della parola, sconvolge l'assetto teorico e lo sforzo espressivo di
raggiungere una totale autonomia produce un immediato aumento della esigenza di
collaborazione diretta di letterati alla redazione non solo di soggetti, ma anche delle
sceneggiature e dei dialoghi dei film»410. Durante gli anni prebellici la tendenza degli
autori letterari e cinematografici procedeva verso un'unica tendenza di esaltazione delle
tradizioni del proprio Paese.
Una svolta emerge nell'immediato Dopoguerra, periodo in cui il cinema moderno
408 Bertetto Paolo, Il cinema d'avanguardia 1919-1930, Marsilio, Venezia 1987, p.112.
409 Citato in Bertetto Paolo, Il cinema d'avanguardia 1919-1930, Marsilio, Venezia 1987, p.113.
410 Brunetta Gian Piero, Letteratura e cinema, Zanichelli, Bologna 1976, p.4.
214
europeo può essere descritto attraverso tre elementi stilistici e formali 411. Da una parte vi
erano registi che cercavano di avvicinarsi ad una rappresentazione del reale, attraverso
un realismo obiettivo, che sfocerà poi nel Neorealismo italiano. Dall'altra parte altri
registi, invece, cercavano di rappresentare la realtà soggettiva, di analizzare le forze
psicologiche dell'uomo e di esplorare la storia recente dal punto di vista personale e
intimo del cineasta. Infine il terzo elemento è comune ad entrambi ed è il “commento
narrativo dell'autore”, in cui il cineasta comunica qualcosa allo spettatore attraverso lo
stile del film412. Solitamente il commento narrativo è ambiguo, nel senso che non risulta
preciso nelle sue implicazioni, in quanto lo spettatore può trarre numerose
interpretazioni dall'immagine.
Per quanto concerne il primo elemento, ovvero la rappresentazione del reale, in
Italia la “corrente” del Neorealismo ha trovato maggiore espressione
in ambito
letterario413 e cinematografico, sviluppandosi tra i primi anni Quaranta e la metà degli
anni Cinquanta del Novecento. Entrambi i campi sono accomunati da una ricerca
comune verso il realismo, in cui l'uomo-intellettuale e il cineasta si fanno portavoce
della povertà della vita e della popolazione dell'Italia del secondo Dopoguerra. Affine
inoltre è l'esigenza di azzerare i procedimenti espressivi, per avvicinarsi ad una forma di
comunicazione più popolare e per adempire ad un impegno politico e sociale nei
confronti della realtà e dei suoi problemi, così cineasti e scrittori raccontano storie dalla
«comune concezione dell'arte come racconto»414. I letterati si rivolgono al cinema per
costruire una narrazione che si avvicini alla cronaca, ovvero ad un racconto oggettivo:
«il racconto cinematografico viene usato dalla narrativa per raggiungere più facilmente
quegli effetti di verità, immediatezza, percezione visiva del reale, essenzialità
linguistica»415.
411 Secondo Bordwell David, Thompson Kristin, Storia del cinema e dei film. Dal dopoguerra a oggi.
Editrice Il Castoro, Milano 2003, pp.77-78.
412 Ad esempio, in un'inquadratura de Il grido (1957), Michelangelo Antonioni evoca l'arido rapporto tra
i due protagonisti inquadrandoli di schiena contro un panorama deserto. L'esempio è proposto da
Bordwell David, Thompson Kristin, Storia del cinema e dei film. Dal dopoguerra a oggi. Editrice Il
Castoro, Milano 2003, p.78.
413 Tra gli scrittori ricordiamo Cesare Pavese, Italo Calvino, Alberto Moravia, Carlo Emilio Gadda,
Primo Levi, Elio Vittorini.
414 Asor Rosa, Il neorealismo o il trionfo del narrativo, in Cinema e letteratura del neorealismo, Tinazzi
Giorgio e Zancan Marina (a cura di), Marsilio, Venezia 1990, p.88.
415 Asor Rosa, Il neorealismo o il trionfo del narrativo, in Cinema e letteratura del neorealismo, Tinazzi
Giorgio e Zancan Marina (a cura di), Marsilio, Venezia 1990, p.93.
215
Ciò che unisce letteratura e cinema neorealista è la figura dello scrittore e
sceneggiatore Cesare Zavattini, che, con i numerosi film scritti per Vittorio De Sica 416,
mostra la realtà popolare e povera dell'Italia del Dopoguerra e rinnova e aggiorna l'idea
di cinema:
Rinunciando progressivamente a certi vezzi letterari, a un gusto personale
per il grottesco e il surreale, calandosi più concretamente nella drammaticità
e problematicità della condizione dell'uomo nella società del dopoguerra,
(…) richiamandosi di continuo a una militanza ideologica e politica non
equivoca, Zavattini è riuscito, almeno nei suoi film migliori, a sviluppare un
discorso approfondito sulle contraddizioni e sulle miserie di quegli anni.417
Per raggiungere questo, Zavattini elabora una teoria cinematografica definita del
“pedinamento”, ovvero la possibilità di cogliere con la cinepresa gli elementi della
realtà quotidiana e quelli del comportamento umano influenzati dalle condizioni
ambientali e sociali, «Zavattini e De Sica portarono alle estreme conseguenze formali
un modello di cinema “trasparente”, che avrebbe dovuto occultarsi […] come mezzo
d'espressione per ridursi alla semplice funzione di riproduttore della realtà
fenomenica»418. La cinepresa perciò riprendeva i personaggi seguendoli nei loro luoghi
e nei loro ambienti (“pedinandoli”) al punto che essi divengono il centro dell'azione
drammatica e allo stesso tempo costituiscono l'unione di una rappresentazione della
realtà sociale.
Accanto al cinema di Zavattini-De Sica, un gruppo di cineasti estremamente
variegato sviluppava il proprio cinema richiamandosi a schemi narrativi che derivano
dal romanzo popolare, il quale si proponeva di portare al centro temi della mutata realtà
sociale. Luchino Visconti può ritenersi il cineasta che, con un diverso impegno politico
e ideologico, ha saputo recuperare la tradizione del romanzo ottocentesco nel cinema
italiano. Visconti con La terra trema (1948) rilegge in chiave moderna il romanzo
verista I malavoglia, di Verga, dove l'ideologia verghiana viene aggiornata nel diverso
impegno politico della condizione dei pescatori e della differente prospettiva sociale e
416 Con De Sica collaborò alla realizzazione di venti film tra cui Sciuscià (1946), Ladri di biciclette
(1948), Umberto D. (1952), Miracolo a Milano (1951), quest'ultimo fu liberamente adattato dal libro
omonimo di Luigi Bartolini.
417 Rondolino Gianni, Storia del cinema (vol. 2), Utet, Torino 1997, p.396.
418 Rondolino Gianni, Storia del cinema (vol. 2), Utet, Torino 1997, p.396.
216
politica dell'Italia. I personaggi, come in Verga, rimangono dei vincitori seppure in una
diversa collocazione sociale e storica419.
Un grande rinnovamento nel cinema italiano si ebbe, circa un decennio dopo, con
il poeta e scrittore Pier Paolo Pasolini che negli anni Sessanta si dedica all'arte
cinematografica, senza però trascurare la sua origine letteraria: se per i primi film
(Accattone, 1961; Mamma Roma, 1962) Pasolini si limita a riprendere personaggi e
ambientazioni dai suoi romanzi, è con le opere successive che la letteratura domina nei
suoi film a partire dai titoli, citazioni a grandi capolavori della letteratura, come
Decameron (1971), o Teorema (1968), in cui Pasolini tenta di creare un'opera che nasca
contemporaneamente dal romanzo e dal film, ove entrambe hanno bisogno delle
rispettive componenti per poter essere comprese e nonostante i supporti differenti siano
in grado si esprimere analoghi concetti.
Il lavoro di Pasolini come letterato e come cineasta risulta unitario, come lui
stesso dichiara: «L'esperienza cinematografica e quella letteraria non sono antitetiche.
Direi anzi che esse sono forme analoghe. Il desiderio di esprimermi attraverso il cinema
rientra nel mio bisogno di adottare una tecnica nuova, una tecnica che rinnovi»420.
In Accattone (1961) Pasolini riprende i temi e le forme dei suoi precedenti
romanzi (la periferia romana, i ragazzi poveri, il sottoproletariato) che traspone in una
dimensione artistica distaccata dal neorealismo, passando da uno stile immediato ad uno
colto, in cui la realtà si fa maggiormente spettacolare. Inoltre, per Accattone e Mamma
Roma, l'intellettuale sceglie di pubblicare la sceneggiatura prima della presentazione del
film. Durante la lavorazione di Mamma Roma poi, Pasolini scrive le prime cinque
poesie mondane, definite Le poesie di «Mamma Roma», di cui una di esse verrà recitata
da Orson Welles in la Ricotta (1963), in una sorta di autocitazione. In la Ricotta emerge
il tema della crisi dell'intellettuale, molto spesso identificato nella figura dello scrittore,
così il regista (Orson Welles) diviene una rappresentazione critica della figura
dell'intellettuale il quale celebra le proprie parole durante la messa in scena che coincide
anche con la rappresentazione della Passione di Cristo.
419 Inoltre Visconti attinge al vasto repertorio letterario italiano anche per altri suoi film, ad esempio
Senso (1954) è l'adattamento di una novella di Camillo Boito, Il gattopardo (1963) testo di Tomasi di
Lampedusa, Morte a Venezia (1971) di Thomas Mann, L'innocente (1976) di Gabriele D'Annunzio.
420 Pasolini Pier Paolo, in Martini Daisy, L' «Accattone» di Pier Paolo Pasolini, «Cinema Nuovo»,
n.150, 1961; qui citato in Brandi P., op.cit., p.68.
217
Ne Il vangelo secondo Matteo (1964), Pasolini ricostruisce con le immagini il
testo biblico, ma senza che risulti un adattamento. Egli recupera il mito, la storia, la
poesia unendoli e creando una forte forza espressiva di carattere moderno, inoltre nel
film si possono cogliere quelle teorie sul cinema di “poesia” e su quello di “prosa”
espressi in precedenza nel paragrafo delle teorie. Il primo esempio di cinema di poesia
si ebbe con il film Uccellacci e uccellini (1966), in cui segue la traccia narrativa di un
viaggio nel tempo e nello spazio di due esseri che sono complementari l'uno all'altro e
che comunicano con un corvo; la mescolanza degli stili e della mancata concordanza dei
tempi storici sviluppa l'intero racconto filmico.
Pasolini recupera la tradizione del mito con il film Decameron (1971), in cui il
sesso acquista un diverso valore immerso in un tema mitico, la cui scelta è riconducibile
a motivi politici: il film è prodotto alla fine degli anni Sessanta in un clima
effervescente, e dove emerge una rivoluzione dei costumi e delle mode, dove emerge un
nuovo modo di vivere la sessualità, più libero; Pasolini decide perciò di trarre
ispirazione da un'opera che all'epoca mostrava l'affermazione di una nuova classe
sociale, la borghesia. Il Decameron (1349-1351circa) di Giovanni Boccaccio è il testo
che mostra l'ascesa di una nuova generazione, libera e spontanea, che secondo il regista
è associabile alla nuova generazione degli anni Sessanta. Una tematica simile la
ritroviamo anche nel film Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975), riduzione
drammaturgica del testo di De Sade. Nei titoli di testa del film appaiono titoli di testi
letterari di Barthes, Blanchot, de Beauvoir, Sollers, da cui ricava le citazioni del suo
film e che compone in forma bibliografica, come se fosse un libro.
In Francia, alla fine degli anni Cinquanta, si assiste alla nascita del movimento
letterario del Nouveau Roman421 e, parallelamente, di quello cinematografico della
Nouvelle Vague. La corrente letteraria può essere riassunta in queste poche righe,
significative, che chiarificano quanto gli obiettivi dei suoi autori siano vicini al mezzo
cinematografico: «il lavoro letterario […] elimina il rapporto con le strutture narrative,
con la storia, con la psicologia, la rappresentazione delle relazioni in un quadro sociale
421 Definito anche Ecole du regard (scuola dello sguardo) nasce in Francia tra gli anni Cinquanta e
Sessanta. Tra gli esponenti principali ricordiamo Gérard Bessette, Michel Butor, Marguerite Duras,
Claude Ollier, Robert Pinget, Jean Ricardou, Alain Robbe-Grillet, Nathalie Sarraute, Claude Simon.
218
e, simile alla macchina da presa, si limita alla rappresentazione dei fatti» 422. «È
determinante, per conseguire questi obiettivi, che l'attività del letterato si appropri
direttamente del linguaggio e delle tecniche espressive del cinema» 423. I testi di Alain
Robbe-Grillet, esponente di spicco del Nouveau Roman, presentano le caratteristiche
della corrente: nei testi lo scrittore rifiuta il descrittivismo per una riproduzione
oggettiva della realtà, la trama e i personaggi sono frammentati e l'attenzione viene
rivolta alle cose, ai particolari. L'intellettuale passò dalla parola all'immagine, prima in
veste di sceneggiatore e poi come cineasta: il cinema apparve subito come l'unico
mezzo in grado di rappresentare la realtà oggettivamente, di scomporre la trama in una
ripetizione degli eventi, in cui i dialoghi dei personaggi non determinano lo scorrere del
racconto, bensì esaltano l'aspetto finzionale del cinema.
Ma gli scrittori del Nouveau Roman non furono gli unici a porre una particolare
attenzione al cinema: qualche anno prima, nel 1948, un articolo, pubblicato sulla rivista
“L'Écran Français”, del regista e scrittore Alexandre Astruc aprirà un vero e proprio
dibattito sul cinema d'autore. Astruc argomentava il principio della “caméra stylo”,
ovvero proponeva una nuova tendenza per l'autore cinematografico di potersi esprimere
con la stessa libertà di cui godevano gli scrittori, sia per la scelta dei temi da trattare sia
rispetto allo stile migliore per metterli in scena. Ricordiamo che nei primi anni
Cinquanta, in Europa, ma soprattutto negli Stati Uniti, il cinema veniva considerato a
tutti gli effetti un'industria sottomessa alle leggi dello studio system e dei generi, legata
perciò ad una serie di vincoli di mercato e sociali in grado di condizionare il lavoro dei
singoli registi.
Nell'articolo, Astruc proponeva l'utilizzo della cinepresa come fosse una penna
stilografica, affermando: «la regia non è più un mezzo per illustrare o presentare una
scena, ma una vera e propria scrittura» 424, il cinema perciò rivendica il proprio
linguaggio espressivo personale «cioè una forma nella quale e per mezzo della quale un
artista può esprimere il proprio pensiero per quanto astratto, o tradurre le proprie
ossessioni, esattamente come avviene oggi per il saggio e il romanzo» 425. Dal concetto
422 Brunetta Gian Piero, Letteratura e cinema, Zanichelli, Bologna 1976, p.7.
423 Brandi Paolo, Parole in movimento: l'influenza del cinema sulla letteratura, Cadmo, Fiesole 2007,
p.61.
424 Citato in Rondolino Gianni, Storia del cinema (vol.2), Utet, Torino 1997, p.501.
425 Astruc Alexandre, Nascita di una nuova avanguardia: la caméra stylo, in Barbera A. e Turigliatto R.
219
di “scrittura” e di “linguaggio” si svilupperà una teoria critica che porterà all'idea di
centralità dell'autore rispetto al proprio lavoro filmico, come lo è lo scrittore del proprio
romanzo. L'idea di Astruc venne perseguita e sviluppata dai critici426 della rivista
“Cahiers du cinéma”, «in un discorso sul “cinema d'autore”, i quali cercano di
individuare nell'opera dei registi da loro ammirati e attentamente studiati il manifestarsi
di una autentica personalità artistica proprio attraverso quegli elementi caratteristici del
loro stile che si identificano con con le peculiarità di una “scrittura” personale»427.
Accanto alla politica degli autori, allo stesso tempo, i critici dei “Cahiers” portano
alla luce anche una serie di problematiche sull'adattamento cinematografico. François
Truffaut, in un articolo del 1954 intitolato Una certa tendenza del cinema francese,
denuncia quelle trasposizioni letterarie poco creative e troppo convenzionali di alcuni
sceneggiatori dell'epoca, come Jean Aurenche e Pierre Bost. «Ciò che il critico giudica è
la formula coniata dai due sceneggiatori dell'“inventare senza tradire”, una tecnica che
consisterebbe nel rispettare la fedeltà delle opere letterarie, trovando degli equivalenti
per quelle scene del romanzo, che risultano impossibili da trasporre nel cinema» 428. La
critica sostenuta da Truffaut comincia dall'analisi di un loro adattamento, mai realizzato,
per il film di Robert Bresson tratto dal libro omonimo Journal d'un curé de campagne
(Diario di un curato di campagna, 1951) di Georges Bernanos: nella stesura della
sceneggiatura, Aurenche e Bost modificarono alcuni elementi significativi del romanzo
per adattarli alle sequenze cinematografiche dando origine ad un adattamento infedele al
testo; al contrario Bresson realizzò il proprio film creando delle sequenze, in cui il
protagonista, nello scrivere il proprio diario, cita letteralmente le pagine di Bernanos; il
regista decide comunque di eliminare intere parti del romanzo, ma sempre con
l'intenzione di mantenere la più alta fedeltà della storia originale. Secondo Truffaut,
questo approccio avrebbe reso il giusto omaggio al romanzo, limitando al minimo ogni
stravolgimento.
«Sviluppando la sua idea di trasposizione cinematografica l'autore trovò il metodo
(a cura di), Leggere il cinema, Mondadori, Milano 1978, p.313.
426 Ricordiamo gli esponenti principali, coloro che poi diverranno i futuri cineasti della Nouvelle Vague
francese: Jean-Luc Godard, François Truffaut, Jacques Rivette, Claude Chabrol, Eric Rohmer. A
questi nomi è doveroso aggiungere quello di André Bazin, critico della rivista “Cahiers du cinéma” e
teorico del cinema e ispiratore della corrente.
427 Rondolino Gianni, Storia del cinema (vol.2), Utet, Torino 1997, p.502.
428 Manzoli Giacomo, Cinema e letteratura, Carrocci, Roma 2003, p.24.
220
per trasporre il romanzo Jules et Jim in film nel 1962. L'opera cinematografica si basa
su una costante presenza del testo di Henri-Pierre Roché, che si caratterizza attraverso la
mescolanza della letterarietà con una messa in scena che costantemente lo reinventa,
Truffaut ha effettuato una delle trasposizioni più audaci e per questo memorabili, di un
testo letterario»429.
La teoria dell'adattamento è riconducibile a molte altre opere di Truffaut, le quali
possono essere suddivise in due categorie: da una parte vi sono le opere, in cui il
cineasta racconta se stesso attraverso il personaggio alter-ego Antoine Doinel,
interpretato da Jean-Pierre Léaud, costruendo una sorta di commedia umana alla Balzac,
autore che Truffaut cita esplicitamente nella serie dei film (Les Quatre Cents Coups,
1959; Antoine e Colette, 1962; Baisers volés, 1968; Domicile conjugal, 1970); dall'altra
parte invece il regista opera la trasposizione di una serie di testi letterari da lui
particolarmente amati di Henri-Pierre Roché (dai romanzi omonimi produsse Jules e
Jim, 1962; Les Deux Anglaises et le Continent, 1971), di Cornell Woolrich (La Mariée
était en noir, 1967; La Sirène du Mississipi, 1969) e del fantascientifico Ray Bradbury
(Fahrenheit 451, 1966), in cui viene narrata la distruzione dei libri in un futuro
prossimo.
Il legame tra cinema e letteratura viene teorizzato negli stessi anni anche da André
Bazin, padre della Nouvelle Vague, che parla di “cinema impuro” 430, ovvero un cinema
«aperto ai rapporti con le altre arti, coinvolto in un insieme di scambi intersemiotici dai
quali […] emerge una specificità del cinema»431, la quale non è riconducibile a quella
della pura visibilità avanguardistica, ma sarà ugualmente una relazione privilegiata tra
un'arte e il cinema. Bazin prende quindi le distanze dal visualismo avanguardista per
stabilire un legame tra la scrittura cinematografica (la sceneggiatura) e la scrittura
letteraria. Il critico afferma: «il cinema è entrato nell'età della sceneggiatura»432. Il
pensiero di Bazin affonda le sue radici nello strutturalismo dei formalisti russi, in
429 Secondo Volpe Sandro, La forma intermedia. Truffaut legge Roché, L'epos, Palermo 1996.
430 Saggio dal titolo Per un cinema impuro, raccolto in (trad.ita.) Bazin André, Che cosa è il cinema?,
Garzanti, Milano 1986.
431 De Vincenti Giorgio, Un falso problema: la “fedeltà”, in Perniola Ivelise (a cura di), Cinema e
letteratura: percorsi di confine, Marsilio, Venezia 2002, p.104..
432 Bazin André, Per un cinema impuro, qui citato in De Vincenti Giorgio, Un falso problema: la
“fedeltà”, in Perniola Ivelise (a cura di), Cinema e letteratura: percorsi di confine, Marsilio, Venezia
2002, p.104.
221
particolare nell'idea di una “materia” che determina la “forma” ricordando le
formulazioni di Viktor Sklovskij: «Occorre lavorare sul materiale. Il romanzo moderno
a soggetto e la novella additano una loro propria vita e dispongono delle enormi
possibilità della parola. Invece il materiale del cinema sembra essere l'effetto speciale.
Nel cinema il soggetto è necessario quale motivazione dell'effetto speciale»433. Anche se
Bazin non parla di effetto speciale, identica appare invece la teoria per ciò che concerne
la relazione tra i due materiali di base e le due forme nel linguaggio letterario e
cinematografico.
Questo rapporto tra forma e materia trova riscontro, in uno scritto precedente a
quello di Truffaut434, nell'analisi del film di Bresson, Journal d'un curé de campagne,
che, ricordiamo, è un adattamento dell'omonimo romanzo di Georges Bernanos (1936)
e, in quanto adattamento, implica un doppio registro della scrittura. Il critico osserva che
ad essere trasposta non è tanto la vicenda narrata nel libro, quanto il "testo letterario" di
Bernanos, che viene mostrato nelle sequenze in cui il protagonista stende il proprio
diario. Bazin associa il film ai documentari sulla pittura di Alain Resnais e di Luciano
Emmer, nei quali ad essere ripreso non è il soggetto del quadro, ma il quadro stesso che
viene filmato. Egli poi paragona le possibilità estetiche del cinema alla pagina bianca di
Mallarmé e se Bresson sceglie di concludere il film solamente con la voce narrante che
recita l'ultima pagina del romanzo annunciando la morte del curato, Bazin vede in
questa operazione un cinema puro: «far scomparire l'immagine per cedere il posto
unicamente al testo del romanzo» è per Bazin «un sublime risultato del cinema puro.
[…] Lo schermo vuoto di immagini e reso alla letteratura segna qui il trionfo del
realismo cinematografico»435. Secondo il regista sono due le “realtà pure” con le quali il
film viene messo in relazione: quella del volto dell'interprete privo di simbolismo
espressivo, e quella della «realtà scritta, materiale grezzo che il film non piega alla
logica della diegesi ma, conferma nella sua essenza letteraria»436. L'operazione trova il
suo compimento con il sonoro, in quanto riproduce esattamente le parole del romanzo
433 Il testo si trova nel saggio originale di Viktor Sklovskij, Letteratura e cinema (1923), tradotto in
italiano in I formalisti russi nel cinema, Kraiski Giorgio (a cura di), Garzanti, Milano 1971, p.124.
434 Bazin André, Le "Journal d'un curé de campagne" et la stylistique de Robert Bresson, in "Cahiers du
cinéma", n.3, giugno 1951. Ricordiamo invece che lo scritto di Truffaut è del 1954.
435 Citato in De Vincenti Giorgio, Un falso problema: la “fedeltà”, in Perniola Ivelise (a cura di),
Cinema e letteratura: percorsi di confine, Marsilio, Venezia 2002, p.107.
436 Citato in De Vincenti Giorgio, Un falso problema: la “fedeltà”, in in Perniola I., op.cit., p.106.
222
mediante i dialoghi e la voce narrante del protagonista che scrive il suo diario. Il testo
letterario viene concepito come una realtà in sé, come “materiale” che il film riproduce
nella sua materialità, solo che è tagliato dal romanzo. È da questo processo di taglio e
spostamento rispetto all'opera letteraria che Journal d'un curé de campagne risulta un
film-saggio sulle possibilità del cinema437.
Il concetto di film-saggio (essay-film) emerge in un articolo dello stesso Bazin nel
1958438 nel quale recensisce il film Lettre de Sibérie (1957) di Chris Marker,
definendolo un saggio documentato sul cinema. Bazin esprime l'idea di un cinema
fondato sulla parola di una voce over che accompagna le immagini che il regista sceglie
in assoluta libertà espressiva. Alcuni film della Nouvelle Vague verranno direttamente
influenzati da questa concezione, specialmente quelli di Jean-Luc Godard. Lo scrittore
Italo Calvino, interessato alla nuova inclinazione del cinema moderno verso il filmsaggio, cita come esempio il film Masculin féminin (1966) di Jean-Luc Godard439.
Difatti sarà Godard, nel 1982, a rendere esplicita la tematica della modernità e del filmsaggio con Passion «che lavorerà proprio sullo statuto dell'immagine, ricollegandosi fin
dal titolo al cinema delle origini, al primo formarsi della narrazione cinematografica, ed
evidenziando la problematicità delle relazioni esistenti tra il racconto e l'immagine»440.
4.4 La citazione letteraria
Prenderemo ora in analisi, all'interno dello scambio tra cinema e letteratura, quel
risultato che, a mio parere, appare il più interessante per la suddetta trattazione: la
citazione letteraria. Quella esplicita si basa su un procedimento che richiama un altro
testo, e a vario titolo e modo lo “incorpora” togliendolo dal contesto originario 441. Nel
cinema essa avviene quando la parola letteraria viene presentata nella sua interezza e
l'immagine non fa nulla per trasformarla o adattarla, ma la riproduce in quanto tale.
437 Secondo De Vincenti Giorgio, Un falso problema: la “fedeltà”, in Perniola I., op.cit., p.107.
438 La prima pubblicazione avviene nel 1958 nella rivista France-Observateur. Oggi è possibile trovare il
testo in Bazin André, “Bazin on Marker”, in Film Comment, vol. 39, no. 4, luglio- agosto 2003, pp.
44-45.
439 L'affermazione di Calvino si trova nell'articolo Film et roman: problèmes du recit, “Cahiers du
cinéma”, 1966; qui viene citato in Tinazzi Giorgio, La scrittura e lo sguardo. Cinema e letteratura,
Marsilio, Venezia 2007, p.56.
440 Secondo De Vincenti Giorgio, Un falso problema: la “fedeltà”, in Perniola I., op.cit., p.108.
441 Tinazzi Giorgio, La scrittura e lo sguardo. Cinema e letteratura, Marsilio, Venezia 2007, pp.109-110.
223
La citazione letteraria si può presentare in vari modi che presuppongono a sua
volta diverse forme specifiche. Qualunque sia il genere assunto dalla citazione letteraria
all'interno del mezzo filmico, è essenziale, secondo Antonio Costa 442, ai fini della
citazione il suo riconoscimento da parte dello spettatore; è perciò determinante il regime
differente che è assunto dal brano citato, che si trova a metà tra un riferimento diretto ad
un testo e ciò che si allude con quella frase. Quello che rende difficile il riconoscimento
di una citazione letteraria in un film è l'assenza di una caratteristica che la
contraddistingua: la differenza con la citazione letteraria nel testo scritto è che,
quest'ultima, è avvisata da particolari caratteri di scrittura, le virgolette o il corsivo,
mentre lo spettatore cinematografico non ha nessuna peculiarità che lo avvisa che le
parole che sta udendo siano una citazione. Le conoscenze dello spettatore divengono
perciò essenziali, se non determinanti, per la riuscita della comprensione della citazione.
Se questa non viene decifrata, il riferimento non esiste in quanto tale ma rimane
destinato a funzionare come un qualsiasi altro segmento testuale.
Secondo Antoine Compagnon più che la citazione in sé, è importante cogliere la
natura metaforica della stessa, in quanto qualsiasi definizione di metafora può essere
usata per definire la citazione: «presentare un'idea sotto il segno di un'altra idea più
efficace o più conosciuta, la quale, d'altra parte, non ha con la prima altro legame se non
quello di una certa conformità o analogia» 443, definizione che egli stesso “cita” da Pierre
Fontanier.
Le forme della citazione letteraria nel film sono molteplici ed in base al loro uso
hanno anche numerosi significati. Per semplificazione verranno ora analizzate le cinque
categorie principali proposte da Giorgio Tinazzi444, a cui verranno associati altrettanti
esempi relativi alla filmografia godardiana.

Spesso la citazione è un omaggio ad un autore o ad un'opera che per il cineasta è
significativa e può avvenire associando il nome di un personaggio che è celebre
442 Costa Antonio, Nel corpo dell'immagine, la parola: la citazione letteraria nel cinema, in Perniola
Ivelise (a cura di), Cinema e letteratura: percorsi di confine, Marsilio, Venezia 2002, pp.33-48.
443 Compagnon Antoine, La seconde main ou le travail de la citation, Seuil, Paris, 1979, p.19; qui citato
in Costa Antonio, Nel corpo dell'immagine, la parola: la citazione letteraria nel cinema, in Perniola
Ivelise (a cura di), Cinema e letteratura: percorsi di confine, Marsilio, Venezia 2002, p.40.
444 Tinazzi Giorgio, La scrittura e lo sguardo. Cinema e letteratura, Marsilio, Venezia 2007, pp.110-116.
224
in un romanzo, oppure mostrando direttamente il libro o mettendolo in mano a
uno dei protagonisti445. Ad esempio, Godard in Les enfrants jouent à la Russie
mostra pagine di grandi romanzi russi dell'Ottocento in omaggio alla Russia,
presentata come “madre della fiction”.

La citazione letteraria può avvenire attraverso la lettura di uno o più testi
all'interno del racconto filmico, con lo scopo di rafforzare la qualità di un
personaggio. Ad esempio, in La chinoise il libretto rosso di Mao Tse-Tung
diviene tema e significante del film stesso e dei suoi personaggi: i ragazzi di
ideologia maoista leggono il testo simbolo del periodo comunista, rafforzando
quelle idee sulla politica e sulla società che i personaggi esprimono nel corso del
film.

La citazione può anticipare gli eventi che accadranno in seguito o un tema
dominante. In Vivre sa vie un personaggio legge un brano del Ritratto ovale di
Edgar Allan Poe, il quale ha come tema il rapporto tra la bellezza e la morte che
richiamerà il fascino della protagonista, il cui “ritratto ovale” sarà composto più
volte tramite la macchina da presa; inoltre la lettura evoca la morte della donna
che giungerà nel finale del film.

Al contrario può avvenire una discordanza tra il testo citato e ciò che viene
rappresentato, si crea così un effetto straniante, voluto dal regista, che rompe il
rapporto tra immagine e parola. In Bande à part, Godard associa la protagonista
Odile al romanzo di Raymond Queneau (Odile) nel momento in cui Franz
leggerà un passo del libro (dalla copertina ben visibile). Quella citazione però
proviene dal romanzo di Breton, Nadja, da cui si riconoscono i personaggi
Delouit e Anglarès.

Vi è poi l'uso della citazione che rimanda a testi che hanno una diversa impronta
rispetto a quello che si sta osservando con lo scopo di sancire un confronto tra
445 Simone Arcagni definisce questo tipo di citazione con il termine intratitolo, ovvero un intervento di
visualizzazione della parola scritta, una porzione di un testo letterario (libro, lettera, manoscritto,
insegne, biglietti) incorporato all'immagine filmica. L'intratitolo è una pratica del cinema moderno,
usata da Jean-Luc Godard per mettere in evidenza il lavoro sul film e allo stesso tempo per riflettere
sul cinema stesso: i testi divengono materiale cinematografico e parte della sua poetica. ( in Colombi
Matteo, Fusillo Massimo, Esposito Stefania, L'immagine ripresa in parola: letteratura, cinema e
altre visioni, Meltemi, Roma 2008, pp.77-94.)
225
scritture diverse, ad esempio tra immagine e parola detta o tra parola scritta e
immagine, in una sorta di inclinazione autoriflessiva. Ad esempio, la citazione
può avvenire attraverso la didascalia, in questo caso emerge l'immobilizzazione
della parola letteraria nella scrittura rispetto alle parole dette nel film. Molto
spesso accade che alla didascalia venga associata una voce fuori campo, in modo
da accrescere l'enfasi sulla citazione446.
A queste forme di citazioni letterarie, Giorgio Tinazzi ne aggiunge una tipologia
che avviene attraverso l'uso di brani dalla prosa originaria e di espliciti rimandi
commentativi con una voce fuori campo: la letterarietà.447
Tinazzi propone tra gli esempi di questa categoria il primo film di Jean-Pierre
Melville Le silence de la mer (Il silenzio del mare, 1949), tratto dal libro omonimo di
Vercors. La specificità cinematografica è marcata attraverso un processo di riduzione
degli elementi espressivi che porta a potenziare i caratteri allusivi dell'immagine, in
modo che lo spettatore possa concentrare la propria attenzione sui gesti, sui particolari
degli ambienti, sui colori, sui rumori e sulla musica. Le uniche due variazioni al testo 448
appaiono fondamentali in quanto evidenziano l'opposizione ad una tendenza di
adesione, di “fedele riproduzione” al libro. La voce fuori campo è quella di un anziano
signore, zio della protagonista femminile449, che si fa voce narrante dell'intera vicenda
del film. Così dichiara Melvielle la propria trasposizione: «quello che mi era piaciuto
enormemente nel Silenzio era l'aspetto anticinematografico del racconto, che mi aveva
immediatamente indotto a pensare di fare un film anticinematografico»450.
446 L'uso della didascalia e della parola nei film di Godard sarà presa in esame, con i relativi esempi, nel
paragrafo successivo.
447 Definizione di Tinazzi Giorgio, La scrittura e lo sguardo. Cinema e letteratura, Marsilio, Venezia
2007, p.99.
448 L'incontro tra i due personaggi e la frase finale di Anatole France.
449 La ragazza pronuncerà solo una parola nel film e la comunicazione con lo zio viene colta con i gesti e
gli sguardi della ragazza.
450 Noguiera R. (a cura di), Le cinéma selon Melvielle (1973); trad.it Il cinema secondo Melvielle, Le
Mani, Genova 1994, p.28; qui cit. in Tinazzi G., Parole di tendenza, in Perniola I. (a cura di), op.cit.,
p.115.
226
4.5 Godard poeta451
Abbiamo potuto constatare come la letteratura non venga considerata dai cineasti
solo come mero supporto da cui trarre storie, la parola viene usata secondo le sue
molteplici articolazioni: essa può essere detta, dialogata, scritta. La citazione può
assumere molteplici forme e aspetti, articolazioni che suggeriscono allo spettatore
altrettanti significati. Testimone esemplare dell'uso della parola nel cinema è Jean-Luc
Godard che, nella sua carriera cinematografica, ha utilizzato tutti i connubi nati dalla
relazione tra la letteratura e il cinema. I suoi film sono spesso di derivazione letteraria e
non c'è pellicola cinematografica che non mostri almeno un libro: Godard sperimenta e
gioca con la parola, con i suoi molteplici significati e con i suoni che essa produce, cita
testi letterari stravolgendoli ed estraniandoli dal loro contesto per inserirli in dialoghi
omaggiando, allo stesso tempo, i grandi autori e la parola stessa.
Difatti, per Jean-Luc Godard prima della citazione e della letteratura vi è la
scrittura, la sua carriera di cineasta è preceduta da quella di critico cinematografico. Nei
primi anni Cinquanta inizia a scrivere per la rivista “Cahiers du Cinéma” articoli in cui
afferma la continuità di tutte le forme di espressione, tesi che sarà perseguita, come
abbiamo potuto vedere, anche nel corso di tutta la sua produzione. Se negli anni di
critico Godard si definisce anche un regista, viceversa negli anni di cineasta si considera
anche un critico, più precisamente uno scrittore, un autore di saggi in forma di romanzo
e di romanzi in forma di saggi452. Ma il legame tra Godard e la parola scritta è da
ricercare ancora più indietro nel tempo, nella sua infanzia, quando scoprì la letteratura a
quattordici anni con il saggio Nutrimenti terrestri di André Gide453. Godard ricorda che
passò la sua infanzia e giovinezza a leggere i libri che trovava in casa della madre o del
nonno, tant'è che la sua aspirazione più grande era quella di riuscire a pubblicare un
romanzo da Gallimard, una delle più prestigiose case editrici francesi.
I romanzi e gli scrittori che, secondo il cineasta, hanno segnato il suo operato
cinematografico sono Musil, Broch, Thomas Mann, il Gide dei Falsari, il Green di
451 Secondo Claude Chabrol (Come fare un film) il cineasta poeta è colui che ha una visione del mondo,
ovvero che sviluppa le proprie idee e spiega contemporaneamente perché le idee degli altri non sono
altrettanto buone. Si differenzia dal cineasta narratore, in quanto quest'ultimo non ha specifici
messaggi da trasmettere, ma si limita a raccontare delle storie inventate da altri.
452 Godard Jean-Luc, Il cinema è il cinema, Garzanti, Milano 1971, pp.164-198.
453 Godard Jean-Luc, Due o tre cose che so di me. Scritti e conversazioni sul cinema, a cura di Orazio
Leogrande, Minimum Fax, Roma 2007, p.263.
227
Léviathan e di Mezzanotte, Bernanos, Chardonne, Jouhandeau e gli scritti di André
Malraux, uomo politico e di cultura che ebbe una forte influenza anche sulla Nouvelle
Vague, con Sul cinema: appunti per una psicologia, Psicologia dell'arte, I noci di
Altenburg e soprattutto La condizione umana. Definisce poi i grandi narratori, ovvero
coloro che hanno uno stile, «un luogo in cui l'anima possa posarsi»454 come Balzac,
Stendhal, Flaubert, Tolstoj, Dostoevskij, Dickens, Thomas Hardy, George Meredith e
Virginia Woolf. Secondo Godard, è la letteratura ad avergli trasmesso un modo di
pensare più sperimentale, in quanto è attraverso la letteratura che approfondì la sua
visione del mondo ed ebbe una lezione di morale artistica in grado di creare quella
coscienza morale che è in lui ancora adesso455.
Negli anni di cineasta l'idea di una purezza della letteratura e dei suoi autori 456 si
rafforza, al punto che suddivide romanzi adattabili al cinema e «romanzi impossibili da
adattare»457. Quando un libro non è possibile trasporlo in film, significa che si tratta di
un buon libro, poiché non esiste romanzo che ha dato origine anche ad un grande film: i
capolavori devono essere letti e non filmati e sono solo i romanzi mediocri a diventare
film458.
Questa è l'idea che Jean-Luc Godard ha della trasposizione cinematografica, ma
non per questo egli rinuncia alla letteratura come fonte per le sue sceneggiature. Molte
sue opere sono state tratte da romanzi, o liberamente interpretate, ma solo una è rimasta
abbastanza fedele al romanzo originale al punto da essere ricordata anche per il suo
adattamento al libro. Il film in questione è Le Mépris (1963), che deriva dal romanzo di
Alberto Moravia Il disprezzo (1954), di cui Godard mantiene i temi fondamentali della
trama: entrambi presentano una storia di interpretazioni contrastanti e derivanti da uno
stesso testo, ovvero l'Odissea, unito alla crisi dei coniugi Javal.
454 Godard Jean-Luc, Due o tre cose che so di me. Scritti e conversazioni sul cinema, a cura di Orazio
Leogrande, Minimum Fax, Roma 2007, p. 264.
455 Godard Jean-Luc, Due o tre cose che so di me. Scritti e conversazioni sul cinema, a cura di Orazio
Leogrande, Minimum Fax, Roma 2007, p. 271.
456 Godard afferma: «i libri mi hanno detto cose che gli esseri viventi non mi hanno mai detto […] la
letteratura è stata la mia madrina». Cit. in Godard Jean-Luc, Due o tre cose che so di me. Scritti e
conversazioni sul cinema, a cura di Orazio Leogrande, Minimum Fax, Roma 2007, p.271.
457 Affermazione tratta dall'intervista raccolta da Pierre Assouline, “Lire”, n.255, maggio 1997, in
Godard Jean-Luc, Due o tre cose che so di me. Scritti e conversazioni sul cinema, a cura di Orazio
Leogrande, Minimum Fax, Roma 2007, p.263.
458 Godard Jean-Luc, Due o tre cose che so di me. Scritti e conversazioni sul cinema, a cura di Orazio
Leogrande, Minimum Fax, Roma 2007, pp.263-264.
228
L'idea esposta in precedenza sulla trasposizione cinematografica è presente anche
in Le Mépris, in cui è lo stesso Godard a commentare la sua trasposizione al romanzo:
Il romanzo di Moravia è un romanzo volgare e grazioso, tipo quelli che si
acquistano nelle stazioni ferroviarie, pieno di sentimenti classici e desueti, a
discapito della modernità delle situazioni. Ma è da romanzi di questo genere
che si ricavano spesso bei film. Io ne ho conservato la sostanza, e ho
semplicemente trasformato alcuni dettagli partendo dal principio per cui ciò
che viene filmato è automaticamente diverso da ciò che è scritto, quindi è
originale. Non occorre cercare di renderlo diverso, di adattarlo in previsione
dello schermo, occorre semplicemente filmarlo così com'è: limitarsi a
filmare ciò che è stato scritto […].459
In quest'opera, il regista attua quella teoria della trasposizione, analizzata in
precedenza, sostenuta da André Bazin e poi dall'amico Truffaut, in cui il film viene
considerato come un testo autonomo, ma che riesce ad essere coerente con il tema del
romanzo, quello che Godard chiama “la morale della storia”, attraverso scelte stilistiche
legate all'uso dello spazio, alla forma delle figure e delle inquadrature, a componenti
cromatiche e a scelte ritmiche460. Secondo il cineasta:
Il soggetto del Disprezzo non è più quello di uno sceneggiatore che scopre e
soffre per il disprezzo di cui è oggetto da parte della moglie, ma è
soprattutto quello di una moglie che disprezza. Il soggetto si riduce quindi
alle incertezze dei personaggi che si contemplano gli uni con gli altri, e che
il cinema a sua volta contempla, incertezze moderne che vengono
raffrontate, sempre grazie al cinema, con l'armonia e l'intelligenza classica
che, in fin dei conti, rimane l'unica. La morale del film si riallaccia dunque a
quella del libro, rendendola più evidente.461
Perciò Godard distoglie l'attenzione dai sentimenti “piccolo-borghesi” del
romanzo per proporre un'accurata riflessione sull'arte del cinema. La cronologia degli
eventi, invece, rimane simile a quella del romanzo. I personaggi sono un regista tedesco,
interpretato (nel ruolo di se stesso) da Fritz Lang 462, il quale sta girando un film tratto
dall'Odissea, sceneggiatore e protagonista del film è Paul Javal (Michel Piccoli) con la
459 Godard Jean-Luc, Due o tre cose che so di me. Scritti e conversazioni sul cinema, a cura di Orazio
Leogrande, Minimum Fax, Roma 2007, p.61.
460 Secondo Dusi Nicola, Il cinema come traduzione. Da un medium all'altro: letteratura, cinema,
pittura, Utet Università, Torino 2003, p.215.
461 Godard Jean-Luc, Il cinema è il cinema, Garzanti, Milano 1981, p.248.
462 Lang diventa una sorta di citazione vivente nel film di Godard, poiché il regista interpreta sé stesso,
uomo di cinema, e il cinema stesso.
229
moglie Camille (Brigitte Bardot). Quando Paul viene ingaggiato per creare una
sceneggiatura che potesse essere più vicina al pubblico, l'uomo con la moglie si reca a
Cinecittà, dove conosceranno il produttore americano Prokosch, che si invaghisce di
Camille e la corteggia spudoratamente. Paul non interviene e la moglie, una volta tornati
a casa, esterna il suo disprezzo per il marito. Partono per Capri con l'intera troupe, Paul
continua a non preoccuparsi della relazione della moglie finché Camille e Prokosch non
decidono di tornare a Roma e la donna di lasciare il marito. Il finale vede il montaggio
alternato della lettera della donna indirizzata all'uomo e il viaggio dei due in auto che si
concluderà con un incidente mortale, mentre a Capri le riprese continuano463.
Godard concentrerà la vicenda, che nel libro dura all'incirca due anni, in soli due
giorni, uno a Roma e uno a Capri; inoltre i personaggi che nel libro erano di nazionalità
italiana cambiano tutti cittadinanza: i coniugi parlano francese, il produttore americano
nella sua lingua, mentre il regista rimane tedesco464. Il romanzo di una sceneggiatura da
scrivere a partire dall'Odissea diviene un film che è già, in parte, stato girato: Friz Lang
rappresenta la classicità del cinema in quanto sostiene la fedeltà nell'adattamento
dell'opera di Omero, al contrario Paul rappresenta la modernità, in quanto lo
sceneggiatore diviene complice delle tattiche di commercializzazione attuate dal
produttore nel tentativo di attualizzare l'Odissea. Il sistema corrotto e fatiscente del
cinema viene esternato dallo stesso Lang che recita la poesia di Bertold Brecht,
Hollywood: «Ogni mattina, per guadagnarmi da vivere, Vado al mercato dove si
comprano le bugie. Pieno di speranza, mi metto tra chi vende».
463 L'analisi sulla versione italiana del film è stata argomentata anche nel capitolo precedente, per la
suddetta trattazione ricordiamo i tagli di alcune scene da parte del produttore Carlo Ponti: ad esempio
i titoli di testa pronunciati dalla voce dello stesso Godard vengono sostituiti da didascalie, viene
anche tagliata una citazione di Bazin che recita «Il cinema sostituisce al nostro sguardo un mondo che
accorda ai nostri desideri»; le scene di nudo della Bardot; vengono tagliate anche le numerose
citazioni da quella di Lang dei versi danteschi su Ulisse alla lettura di un testo erotico da parte di
Paul, alle citazioni dei film Rio bravo, Dietro allo specchio e Qualcuno verrà; la scena in cui Camille
scopre che il marito è iscritto al partito comunista e quella in cui la donna riporta alla memoria i
tempi felici con il marito; infine anche la scena finale viene manipolata e termina con la morte dei
due amanti e non, come nella versione francese, con l'immagine del film di Lang in corso di
elaborazione. Il film subisce anche un'alterazione cromatica e altre modifiche nel montaggio. Le
manipolazioni del sonoro sono state trattate nel capitolo precedente (c.f.r. 3.4).
464 Un maggiore approfondimento sulle differenze tra il libro e il suo adattamento sono argomentate in
Dusi Nicola, Il cinema come traduzione. Da un medium all'altro: letteratura, cinema, pittura, Utet
Università, Torino 2003, p.213-251.
230
Il suo legame con la letteratura durante gli anni di cineasta si trasforma in una
sorta di omaggio che Godard rivolge agli scritti e agli scrittori da lui amati attraverso
l'uso della citazione. Egli ammette di non leggere mai un libro per intero, ma di leggerne
solo tre o quattro pagine465 e se di una pagina ricorda anche solo tre o quattro righe,
queste poche righe verranno sicuramente inserite all'interno di un film, difatti il suo
obiettivo è quello di inserire nelle sue opere una sorta di esperienza letteraria che ha
vissuto tra le pagine del libro. Utilizza perciò la citazione soprattutto nei dialoghi, i quali
si frammentano in parole, frasi e titoli talvolta disparati, che sembrano non avere un
rapporto diretto e coerente tra loro. Questa stessa discontinuità e senso di rottura diviene
l'elemento chiave dell'uso della parola godardiana, la quale si presenta come un nesso di
citazioni, in interazione le une con le altre, che conduce lo spettatore a coglierne i
significati all'esterno dell'azione cinematografica.
La citazione in Godard è spesso ripetitiva, quando è colpito da un autore o da una
frase egli tende a riportare le sue citazioni di film in film e riesce ad adattare
perfettamente la frase ad un nuovo contesto, ad un nuovo personaggio e ad una nuova
tematica. Ad esempio, in una sequenza di King Lear viene menzionato un testo di
Pierre Reverdy del 1918, che sarà riportato poi anche nei film Passion, Grendeur et
décadence d'un petit commerce de cinéma, On s'est tous défilés, JLG/JLG, Historie(s)
du cinéma:
L'immagine è una creazione pura dello spirito. Essa non può nascere da una
comparazione, ma dall'avvicinamento di due realtà più o meno lontane fra loro. Quanto
più i rapporti fra queste due realtà accostate saranno lontane e giusti, tanto più
l'immagine sarà forte - e più essa sarà dotata di potenza emotiva e di realtà poetica. Due
realtà che non hanno alcun rapporto non possono essere utilmente accostate. Non c'è
creazione di immagine. Due realtà contrarie non si accostano. Si oppongono. Raramente
si ottiene una forza da tale opposizione. Un'immagine non è forte perché è brutale o
fantastica - ma perché l'associazione delle idee è lontana e giusta466.
La frase riesce ad adattarsi perfettamente a ogni opera cinematografica, facendo
465 Citato in Douchet Jean, Il filo spezzato del film, in Turigliatto Roberto (a cura di) Passion Godard. Il
cinema (non) è il cinema. Il castoro, Milano 2011, p.43.
466 Reverdy Pierre, L'image, “Nord/Sud”, 13/1918, qui citato in Chiesi Roberto, Jean-Luc Godard,
Gremese Editore, Roma 2003, p.6.
231
quasi dimenticare allo spettatore che essa è già stata udita più volte, al punto da risultare
una citazione completamente “nuova”.
Un'analisi più esaustiva delle citazioni letterarie verrà svolta nelle pagine
successive, quando sarà direttamente approfondita nella cinematografia godardiana. Ci
soffermiamo ora sui risultati che sono emersi dalle sperimentazioni di Godard sulla
parola scritta, le quali hanno dato vita, all'interno dei suoi film, a fortunati giochi di
parole, ad un uso innovativo della didascalia e ad un utilizzo originale della parola,
studiata fino al particolare.
L'utilizzo della parola come elemento non funzionale all'immagine viene usata dal
regista fin dai suoi primi film attraverso l'uso dell'intertitolo, o didascalia, tecnica che
abbiamo già esaminato (c.f.r. 4.3.1). In À bout de souffle il cineasta dichiara: «volevo
dare l'impressione di scoprire o di sentire i procedimenti del cinema per la prima
volta»467 e tornare all'origine significa utilizzare la parola scritta, la quale torna ad
assumere le stesse funzioni del cinema muto. «Godard prova nostalgia per un'epoca,
quella del muto, in cui il film intratteneva un rapporto quasi privilegiato con il
linguaggio verbale»468, cerca quindi di ritornare a quell'unione tra parola e immagine
scoprendo felicemente che la parola scritta inserita in un cinema sonoro assume delle
peculiarità del tutto nuove e lo spettatore riesce a darle un valore maggiore. L'utilizzo
della parola scritta all'interno dell'immagine filmica denota inoltre l'alternanza di
partecipazione e distacco nello spettatore: come in Les Carabiniers, a cui la scrittura
personale del regista ripresa sullo schermo dà una connotazione di non distanza; mentre
Vivre sa vie utilizza scritte oggettive per scandire i capitoli del film, che si presentano
come vere e proprie didascalie del cinema muto, in cui la scrittura rivela i fatti e anticipa
l'immagine. La didascalia può inoltre contribuire all'andamento stilistico: sempre in
Vivre sa vie, nella scena in cui viene letto un testo di Edgar Allan Poe, il dialogo, che
precede la lettura, presenta i sottotitoli, mentre alla lettura del libro la parola non viene
mostrata ma udita.
L'uso della parola nei titoli di testa è anche uno dei problemi che si pone Godard
467 Citato in Tinazzi Giorgio, La scrittura e lo sguardo. Cinema e letteratura, Marsilio, Venezia 2007,
p.32.
468 Secondo Liandrat-Guigues Suzanne, Leutrat Jean-Louis (tr. it. di Arecco S.), Godard alla ricerca
dell'arte perduta, Le Mani, Recco 1998, p.34.
232
negli anni Sessanta, ovvero come creare il passaggio da essi alla narrazione. In À bout
de souffle l'artista decide di eliminare i titoli di testa e di far comparire solo il titolo e la
dedica (alla casa di produzione Monogram Pictures, la quale produceva B-movies negli
anni Trenta e Quaranta). Nei lungometraggi successivi, Godard inizia così ad escogitare
tre modi per inserire i titoli di testa nella narrazione: fa recitare i titoli, ad esempio è la
voce fuori campo di Godard che pronuncia i titoli di testa di Le Mépris469 (1963)
accompagnando la scena in cui viene mostrata una donna camminare lungo una strada
seguita a lato da una troupe cinematografica470; oppure dilata i titoli, le scritte dei nomi
appaiono quindi ad intermittenza come nel film Pierrot le fou (1965); o infine opera un
processo di scambio tra titoli e sequenza d'apertura, ad esempio in Une femme mariée
(1964) le posizioni del corpo della protagonista Charlotte evocano lettere in una sorta di
calligrafia organizzata.
Tipicamente godardiano è anche il gioco di parole, che compone anche con intere
frasi in un'ossessiva ripetizione di concetti e significati. Il gioco di parole, come
abbiamo già potuto vedere, è un tipico metodo della poetica surrealista che torna in
Godard nell'esasperazione ricercata degli elementi linguistici. Non è un caso che l'uomo
sia affascinato da scrittori quali Céline, Queneau e soprattutto da Michel Leiris con il
suo Glossaire j'y serre mes glosses (1925-26), un libro che è una sorta di controdizionario nel quale le voci sono scritte in forma di calligrammi e anagrammi in pieno
stile surrealista. Il cineasta è influenzato anche da Jean-Pierre Brisset, autore che fonda
la scrittura sull'omofonia, le allitterazioni e il non senso. Per comprendere la scrittura di
Brisset è fondamentale riportare questo passo de La science de Dieu (1900): «Per
l'analisi delle parole andiamo allora a sentire parlare gli antenati che vivono in noi,
attraverso i quali noi viviamo. Vediamo dove questi antenati erano logés (alloggiati):
l'eau j'ai (ho l'acqua oppure io mi trovo nell'acqua). L'haut j'ai - sono in alto, al di sopra
dell'acqua perché i primi antenati costruirono le loro prime capanne (loges) sull'acqua
(palafitte)»471. Il medesimo gioco di parole nel testo scritto di Brisset è riscontrabile
469 Ci si riferisce alla versione originale, nella versione italiana di Carlo Ponti i titoli di testa compaiono
sullo schermo.
470 La suddetta scena si chiude con l'operatore che punta la macchina da presa verso lo spettatore ed
accompagna quella successiva che apre la narrazione.
471 La traduzione del passo di Brisset si trova in Breton, L'antologia dello humor nero, Einaudi, Torino
1970, pp.192-201; alcune parti sono state tradotte anche in Liandrat-Guigues Suzanne, Leutrat JeanLouis (tr. it. di Arecco S.), Godard alla ricerca dell'arte perduta, Le Mani, Recco 1998, pp.34-35.
233
anche nel cinema di Godard. Il cineasta sembra “trasporre” nelle immagini e nei
dialoghi le onomatopee, le metafore e i doppi sensi del genere verbale.
Il gioco allusivo delle parole con la trama, ovviamente attraverso una lettura in
lingua originale, è possibile coglierla fin dal suo primo lungometraggio, À bout de
souffle, ad esempio quando Michel appoggiato ad un cancello (grille) fuma
continuamente sigarette (griller des sèches) nell'intrepida attesa di vedere Patricia; egli
è come sulla graticola (grillé) che brucia (flambé) di impazienza e allo stesso tempo vi è
anche un'allusione al suo destino bruciato, segnato dalla futura morte. È anche lo stesso
poliziotto che lo segue in moto ad avvertirlo: «Fermo o ti brucio!» mentre il doppiaggio
italiano pronuncia un semplice «Fermo o sparo!».
Allo stesso modo, Godard gioca anche con i nomi dei personaggi, i quali
contengono molteplici allusioni: in Pierrot le fou, il nome assegnato al protagonista
quando diventa bandito (Pierrot) richiama anche il titolo del libro Pierrot mon Ami
(Pierrot amico mio) di Raymond Queneau; la canzone mon ami Pierrot cantata anche
nel film riconduce anche al Pierrot di Picasso. Le fou invece richiama il cantante
Raymond Devos (dites que je suis fou) e j'm'en fous (me ne infischio), frase pronunciata
dallo stesso Pierrot-Ferdinand.
Sui giochi di parole poi il regista crea un'intera scena in Une femme est une
femme, in cui Émile e Angéla chiedono aiuto all'amico Alfred per risolvere un loro
dilemma, ovvero Angéla vuole un figlio mentre Émile non ne sente ancora il bisogno.
Mentre discutono, accanto a Émile sul tavolo spiccano un mazzo di fiori gialli, simbolo
di tradimento, la donna poi esclama «C'est le bouquet!» che in gergo significa anche «È
il colmo!», mentre Angéla guarda il traditore Alfred. In mezzo alla stanza vi è poi una
bicicletta (gialla) di Émile e Godard decide di associare i tubolari (pneu), che l'uomo
controlla con ossessività, ad Alfred quando Émile afferma: “è bello gonfio”, ovvero
Alfred è pieno di “arie”. La bicicletta (vélo), e la gelosia di Émile, ritornano quando
Alfred richiama un testo di Alfred Jarry sulla Passione, che rappresenta come una corsa
ciclistica in salita durante la quale Cristo buca una ruota (pneu) passando sopra una
corona di spine.
Il gioco di parole viene usato in Godard nel tentativo di mostrare come sia la
realtà filmica a mimare quella reale, più precisamente egli utilizza gli stessi metodi del
234
gioco di parole della parola scritta, ovvero lo inserisce nell'immagine filmica senza che
nulla possa preannunciarlo, creando nello spettatore, in grado di cogliere i nessi, un
effetto di sorpresa.
Superiamo per un momento la tematica dell'uso della parola e della citazione in
Godard per soffermarci sul “tentativo di mostrare come sia la realtà filmica a mimare
quella reale”, ovvero ciò che caratterizza la narrativa del suo primo periodo, il tentativo
di filmare la realtà, lo “splendore del vero”. Ma la sua narrativa è caratterizzata anche
dalla frammentarietà del testo, ed egli esplora la narratività cinematografica
scandagliando ogni logica narrativa classica e privilegiando una frammentarietà del
racconto, che secondo Luigi Allegri472, si avvicina in parte alle teorie che la corrente
letteraria del Nouveau Roman stava esplorando negli stessi anni. Secondo Allegri vi è un
legame che unisce l'estetica cinematografica della Nouvelle Vague e la sua vocazione
realistica con l'estetica letteraria del Nouveau Roman francese, corrente che come
abbiamo già visto non costringe la narrativa entro i confini di una immediata
referenzialità fenomenica, ma piuttosto rimanda il lettore verso la scoperta che può
scaturire dall'imprevisto delle situazioni più inusuali. Questo ricorda, in parte, anche le
dinamiche della Nouvelle Vague, in cui i cineasti erano soliti filmare soggetti del
quotidiano che, attraverso la lentezza dello sguardo e dei dialoghi, conduce ad una
narrativa non più teleologica. I romanzieri del Nouveau Roman sostengono poi un tipo
di narrativa in cui i personaggi e le vicende vengono escluse per concentrarsi sulla realtà
che si discosta dai sentimenti umani; allo stesso modo anche i cineasti della Nouvelle
Vague, con l'obiettivo di eliminare ogni artificio di rappresentazione della realtà,
ingaggiano attori poco noti e girano i loro film in città e non tra le finte scenografie
degli studi cinematografici.
Allegri associa perciò il realismo di Godard a quello dello scrittore Michel
Butor473, in quanto ambedue gli intellettuali rifiutano l'idea di un oggetto artistico come
mimesi dei fenomeni reali ed entrambi pongono una particolare attenzione alle
possibilità espressive del loro mezzo, che conduce all'omologia di strutture tra l'opera e
472 Allegri Luigi, Ideologia e linguaggio nel cinema contemporaneo: Jean-Luc Godard, Università di
Parma, Centro studi e archivio della comunicazione, Parma 1976.
473 Allegri Luigi, Ideologia e linguaggio nel cinema contemporaneo: Jean-Luc Godard, Università di
Parma, Centro studi e archivio della comunicazione, Parma 1976, pp.64-69.
235
la società. Nel libro Mobile (1963), Butor rifiuta l'idea di libro come un continuum,
come una compresenza di elementi che talvolta sono estranei alla letteratura; egli studia
la strutturazione delle pagine, in particolare la composizione tipografica cambiando i
margini delle righe e le varianti tipografiche. All'interno del testo sono numerosi i
richiami a tematiche esterne e si spazia dalla pittura di Pollock ai discorsi politici, fino
ai manuali di cucina. In questo modo, il lettore è costretto ad intervenire nel corpo
stesso dell'opera nel tentativo di comprenderne il significato. Allo stesso modo Godard
utilizza la citazione come elemento in grado di offrire una carica semantica forte che
rimanda a diverse entità culturali.
4.5.1 Le citazioni letterarie nella filmografia di Godard
In tutti i film di Jean-Luc Godard la parola e la scrittura, in generale il linguaggio,
assumono un'importanza particolare. L'artista imprime ed esprime i segni del linguaggio
tramite scritte luminose, lettere, cartoline, pagine scritte a mano, titoli di testa
particolari, testi recitati e citazioni. Come abbiamo già potuto appurare, Godard utilizza
la citazione letteraria come repertorio, una traccia culturale su cui iscrivere un discorso e
non una narrazione. La scrittura nel film fa parte della poetica del cineasta, sia come
momento di straniamento dalla narrazione cinematografica, sia come interruzione e
intersezione, presentando il cinema come un testo filosofico sul reale e non come una
rappresentazione di esso. Molto spesso le citazioni letterarie di cui lui si serve sono
composte da titoli di libri, brani di romanzi o poesie viste all'interno dell'immagine o
dette a voce, tuttavia queste citazioni non sono quasi mai interamente riportate, ma
vengono trasformate, deformate e riassemblate a seconda del gusto del cineasta.
Cercheremo ora di dare un quadro generale delle diverse forme di citazioni
letterarie nei film di Godard negli anni, per giungere infine all'analisi più approfondita
della pellicola che racchiude tutte queste citazioni, dal gioco di parole alla didascalia,
dalla citazione fino alla trasposizione, ovvero Hélas pour moi, film che ho scelto come
esemplificazione di questo connubio tra cinema e letteratura, oltre che per la sua
indubbia bellezza.
236
Le citazioni letterarie nei film di Godard le ritroviamo fin dal primo
lungometraggio À bout de souffle, intessuto di talmente tante citazioni, allusioni e
riferimenti al punto che Alberto Farassino afferma che il film «dovrebbe essere letto in
edizioni con note a piè di pagina»474. Parole e poesie sono l'omaggio del regista ad una
scrittura da lui sempre amata e che onora anche in articoli precedenti al film. Ad
esempio, nel 1950 egli cita una poesia di Aragon (Au biseau des baisers/ Les ans
passent trop vite/ Èvite évite évite/ Les souvenirs brisés 475) in un suo scritto476 ed essa
sarà ripresa quasi dieci anni dopo in À bout de souffle.
Tra le citazioni dei romanzi, i cui titoli sono anche all'interno dei dialoghi stessi,
ricordiamo Dans un mois dans un an e Aimez-vous Brahms? di Francoise Sagan e
Abracadabra di Maurice Sachs. I personaggi discutono, oltre che di pittura e di musica,
anche di letteratura e parlano di Faulkner, Rilke, Cocteau; celebre è la sequenza in cui
Patricia e Patrick si scambiano battute, sentenze e speranze finché la donna non chiede
all'uomo cosa sceglierebbe tra il dolore e il nulla dopo aver letto la frase scritta da
Faulkner: «Tra il dolore e il nulla io scelgo il dolore».
Une femme est une femme è un film omaggio alla commedia musicale che Godard
filtra attraverso gli echi letterari di de Musset e Giraudoux. Ad esempio, Alfred racconta
una storia ad Émile che dice di aver letto sul “Paris jour”, storia che invece è tratta da un
racconto di Giraudoux, che narra di una ragazza che manda due lettere ai suoi due
fidanzati ma ne scambia le buste. Godard poi darà una definizione concisa e pungente
della donna, nel finale, quando Émile dice ad Angela: «Tu es infame», e lei risponde:
«Non, je suis une femme», ancora un sublime gioco di parole che sostituisce “une
femme” ad “une infame”. Incantevole è la scena in cui Angela ed Émile, dopo un litigio,
decidono di non rivolgersi più la parola e di comunicare tra loro tramite i titoli sulle
copertine dei libri, che vengono parzialmente coperti, dimezzati e articolati in modo che
si trasformino in frasi e in espressioni verbali. Da questo nasce uno degli stilemi più
ricorrenti anche nei suoi film successivi, l'utilizzo della parola scritta con il linguaggio
delle cose.
474 Farassino Alberto, Jean-Luc Godard, Il Castoro, Milano 2007, p.31.
475 Traduzione di Aprà A. in J-L Godard, Il cinema è il cinema, p.125: Sul filo dei baci/ Gli anni scorrono
troppo rapidi/ Evita evita evita/ I ricordi infranti.
476 Nella recensione di The Great Mc Ginty di P. Sturges, “La Gazette du Cinéma”, n.5, novembre 1950.
237
Vivre sa vie è un film diviso in dodici quadri che evoca il cinema muto con l'uso
delle didascalie che riassumono il contenuto dell'azione successiva. “Un film in dodici
quadri” è il titolo d'apertura, che introduce esplicitamente la scelta della suddivisione
delle parti che dal punto di vista narrativo si presentano come autosufficienti e distinte,
sul piano temporale dalle ellissi e sul piano spaziale da vuoti diegetici. Nel film vi sono
parecchie analisi della parola e del linguaggio: dalla discussione al bar tra Nanà e il
filosofo Brice Parain, che riflettono sulle meditazioni, sul pensiero e sul linguaggio a
partire da Kant, Hegel, Platone, fino alla lettura di un passo del Ritratto ovale di Edgar
Allan Poe, recitato dallo stesso regista, che altro non è se non la storia di un pittore che
fa il ritratto di una donna sottraendole a poco a poco la vita. In questa sequenza, i
sottotitoli sostituiscono i dialoghi per lasciare la purezza delle parole udite. Il
personaggio di Nanà richiama le figure femminili della tragica eroina di Zola, della
Nanà di Jean Renoir e della Giovanna d'arco di Dreyer477.
In Bande à part le associazioni e le citazioni letterarie sono frammentate e atte a
confondere lo spettatore. Innanzitutto, il cineasta associa, attraverso il nome, la
protagonista femminile Odile Monod a un romanzo di Raymond Queneau dal titolo
Odile. L'associazione viene enfatizzata dalla lettura, da parte di Franz, di un passo del
romanzo con il libro ben visibile in mano: la storia di Delouit raccontata da Anglarès.
Ma in realtà sorge una discontinuità in quanto, nel romanzo, Anglarès non è autore di
questo piccolo racconto, il quale è invece tratto da Nadja di Breton. La discontinuità
ritorna quando il narratore afferma: «Arthur, Odile e Franz attraversarono, sotto un cielo
di cristallo, ponti sospesi su fiumi impossibili. Nulla ancora si muoveva sulle facciate
dei palazzi. L'acqua era morta. Un sapore di cenere si spandeva nell'aria». Una frase in
cui si riconosce l'unione di quattro testi di Rimbaud, I ponti, Il battello ebbro, Alba e
Frasi in una sorta di montaggio scritto. La spensieratezza infantile dei due uomini è
velata da una malinconia che emerge quando Odile canta una poesia di Aragon in
metropolitana e si affiancano immagini di barboni, passanti immersi nei sotterranei del
metrò o nel grigiore della città. Godard interpreta la voce over del narratore e rivela i
pensieri più intimi dei personaggi, altre volte invece ironizza sulla propria funzione
narrativa: «Dovrei aprire una parentesi per parlare dei sentimenti dei personaggi, ma è
477 Quest'ultimo appare un richiamo esplicito nel film, nella scena in cui Nanà, al cinema, si identifica
con la Giovanna d'Arco di Dreyer piangendo con lei per la condanna subita.
238
tutto così chiaro che chiudo la parentesi»; altre volte invece tende a sottolineare
l'intensità lirica di alcune sequenze con un testo poetico.
Successivamente sarà Godard stesso a fornire una scheda su personaggi e
interpreti in cui afferma che il personaggio di Odile ha collegamenti con il personaggio
di Tess di Thomas Hardy, Sarn-Becco-di-Lepre di Mary Webb, il romanticismo inglese
dell'Ottocento e il classicismo tedesco del Settecento come richiamo all'Ottilia delle
Affinità elettive di Goethe, Marianne di de Musset, la Berenice di Racine e il romanzo di
Queneau. Ma la protagonista è Leslie Caron, Cathy O'Donnell, Jennifer Jones, Sylvia
Sydney. Quanto all'attrice interprete di Odile, Anna Karina, Godard la collega a Greta
Garbo, Asta Nielsen, Pola Negri. Il protagonista maschile Arthur è legato a Queneau,
Les enfants du limon, Loin de Rueil, L'explication des métaphores e a Rimbaud. Dal
punto di vista cinematografico, invece, Arthur richiama René Clair e i film Per le vie di
Parigi e Sotto i tetti di Parigi. Il terzo personaggio, Franz, ha richiami di genere teatrale
(il Cid, Lorenzaccio, Orfeo, Riccardo III, Brecht e Claudel) e letterario (Franz de Galais,
Augustin Meaulnes, i ragazzi umiliati di Bernanos, Simeon Novalis, Bousset, Nadja di
Breton e William Wilson di Poe)478.
La citazione letteraria ritorna in Alphaville, une étrange aventure de Lemmy
Caution, in una scena, in una camera d'albergo, in cui Lemmy Caution recita una poesia
di Paul Eluard a Natacha: «La tua voce, i tuoi occhi, le tue mani, le tue labbra, il
silenzio, le nostre parole, la luce che se ne va, la luce che ritorna». Nel frattempo il libro
Capitale del dolore di Eluard è in mano a Lemmy Caution, nell'atto di mostrarlo a
Natacha. Ma il testo in realtà non deriva dal libro ma dalle raccolte Le dur désir de
durer, Le temps déborde, Corps mémorable, Le Phénix...479. I restanti riferimenti sono
principalmente a Dick Tracy, Guy L'Eclair, Pascal (Il silenzio di questi spazi infiniti mi
sgomenta), Bergson (Io credo ai dati immediati della coscienza) e lo stesso Lemmy
Caution incarna un eroe di romanzi e film polizieschi popolari, ovvero il detective
Lemmy Caution creato dalla penna di Peter Cheyney.
478 In questi anni Godard accompagna all'uscita dei suoi film, testi o articoli di giornale, i quali diventano
parte integrante dell'opera pur essendo materialmente distinti. Godard pubblica una scheda degli
attori per Band à part e il pezzo Fuoco sui carabinieri per l'uscita di Les carabiniers. Negli anni
Ottanta Godard realizza dei volumi che pubblica sotto il titolo Phrases (sortie d'un film) in cui
raccoglie le frasi più significative dei suoi dialoghi.
479 Il testo è sempre dell'autore Paul Eluard. L'edizione italiana è uscita con il titolo Ultime poesie
d'amore, Lerici, Milano 1965.
239
Pierrot le fou è un film diviso in capitoli, ma molti di questi sono invertiti o
vengono saltati secondo l'idea di frammentazione e dissoluzione della continuità
narrativa che ricorda la scrittura automatica e onirica del surrealismo. Anche la stessa
narrazione a volte viene affidata a voci fuori campo, altre volte a scritte e cartelli, altre
volte ancora alle pagine del diario di Pierrot, con la scrittura di Godard. I titoli dei
capitoli sono parodie di citazioni o pastiches:
Capitolo secondo. Una surprise-party dal signore e dalla signora Expresso,
la cui figlia è mia moglie.
Capitolo seguente. Disperazione.. memoria e libertà.. amarezza... speranza..
la ricerca del tempo scomparso. Marianne Renoir.
Capitolo ottavo. Una stagione all'inferno. Capitolo ottavo. Attraversammo la
Francia... come apparizioni... come in uno specchio.
Il paesaggio s'innalzò lentamente. Secoli e secoli fuggirono lontano come
tempeste.
Capitolo ottavo. Una stagione all'inferno. L'amore deve essere reinventato di
nuovo. La vera vita è altrove. Secoli e secoli fuggirono lontano come
tempeste. La strinsi al mio petto... e mi misi a piangere. Era il primo... era
l'unico sogno480.
Non manca nel film una riflessione sul concetto di parola: «la musica viene dopo
la parola» dice Ferdinand a Marianne, dopo che la donna torna a casa con un nuovo
disco, ribadendo «un disco deve essere acquistato ogni cinquanta libri»481. Ferdinand
sembra sostenere la supremazia della parola, e quindi della letteratura, rispetto alla
musica. Inoltre la parola è anche il modo con cui Ferdinand riflette sull'esistenza dopo
l'abbandono della vita borghese attraverso le pagine del diario, che diviene uno degli
inserti più ricorrenti insieme alle citazioni di poeti e scrittori come Balzac, Céline,
Hugo, Rimbaud, Lorca, Robert Browning e i romanzieri del mare e dell'avventura,
Melville, London, Conrad, Stevenson, Faulkner, Chandler; anche se il meno citato è
Lionel White, autore del romanzo Obsession da cui è tratto il film. All'origine della
parola vi è la lettera, con cui Godard gioca nei titoli di testa, i quali appaiono lettera per
lettera in ordine alfabetico. Anche il linguaggio viene scomposto nelle sue unità
elementari e dall'insegna “riviera” esce la parola “vie”, mentre dal logo “ESSO” le
480 Dai dialoghi dell'edizione italiana, in “Filmcritica”, n.165, marzo 1966, pp.156,157, 163-165; qui
citato in Liandrat-Guigues Suzanne, Leutrat Jean-Louis (tr. it. di Arecco S.), Godard alla ricerca
dell'arte perduta, Le Mani, Recco 1998, p.41.
481 Dialoghi tratti da Pierrot le fou (1965).
240
lettere “SS”; inoltre il nome di Marianne diviene nel diario di Pierrot un anagramma di
mare (mer), anima (âme) e arma (arme), quest'ultima parola si collega sia alla banda di
contrabbandieri di cui la donna fa parte, sia, secondo la mia interpretazione, all'arma che
la ucciderà per mano dello stesso Ferdinand nelle ultime scene del film.
In Deux ou trois chose que je sais d'elle ci si interroga su cosa sia un oggetto e
Godard risponde con una citazione filosofica richiamando Georges Perec e il testo Le
cose, da cui aveva già citato un passo in Masculin féminin. Mentre ci mostra
un'immagine di una tazzina di caffè, l'accompagnamento della voce dello stesso Godard
recita:
Forse un oggetto è un legame che ci permette di passare da un soggetto
all’altro, di vivere in società di stare insieme. Ma poiché i rapporti sociali
sono sempre ambigui e il pensiero divide così come unisce e le parole
uniscono per quello che esprimono… e separano per quello che omettono,
un grande abisso separa la mia certezza soggettiva dalla verità oggettiva
degli altri. Poiché so di essere colpevole anche se mi sento innocente, perché
ogni evento trasforma la mia vita quotidiana, poiché sbaglio a comunicare, a
capire. Ad amare o esser amato. Poiché ogni fallimento mi confina nella
solitudine, poiché non posso divincolarmi dall’obbiettività che mi
opprime… né dalla soggettività che mi esilia. Poiché non mi è possibile
innalzarmi sino all’essere né cadere nel nulla… bisogna che ascolti. Bisogna
che guardi intorno a me più che mai: il mondo, il mio simile, mio fratello.
[…] Dio creò il cielo e la terra. Certo, ma è un po' troppo comodo e facile...
si deve poter dire meglio. Dire che i limiti del linguaggio sono quelli del
mio mondo. E che parlando io limito il mondo...482
La riflessione di Godard sembra però concludersi con un fallimento e nel finale
egli recita: «Ascolto la pubblicità sul mio transistor, metto una tigre nel motore e
dimentico Hiroshima, Auschwitz e il Vietnam».
In una scena Godard fa partecipare i due intellettuali Claude Miller e Jean-Patrick
Lebel ripresi sommersi dai libri mentre leggono e citano frasi a caso. I loro nomi sono,
rispettivamente, Bouvard e Pécuchet che corrispondono al titolo del romanzo
incompiuto di Gustave Flaubert, Bouvard et Pécuchet483. L'opera narra le vicende di due
amici, Bouvard e Pécuchet, i quali dopo aver lasciato il lavoro di proprietari terrieri
decidono di avvicinarsi alla cultura e quindi ai libri nel tentativo di intraprendere una
482 In Farassino Alberto, Jean-Luc Godard, Il Castoro, Milano 2007, pp.90-91.
483 Pubblicato postumo nel 1881.
241
nuova professione: nell'opera letteraria i due saranno immersi nelle letture di testi di
chimica, filosofia, teologia, archeologia, medicina e letteratura. Allo stesso modo,
Godard riprende i due intellettuali-sceneggiatori sommersi di libri nell'atto di leggerli; i
due leggono velocemente, citano frasi da diversi testi senza un ordine preciso e senza
comprendere, a mio avviso, il reale contenuto di ciò che stanno leggendo.
L'associazione alle azioni compiute dai due protagonisti del romanzo è indubbio: anche
Bouvard e Pécuchet leggono molti libri e di diverso contenuto, senza riuscire però a
raggiungere il loro scopo di cambiare professione. Il romanzo è anche una critica alla
borghesia francese e alla politica del governo democratico socialista, la Comune di
Parigi; allo stesso modo, anche Godard si serve del cinema per esprimere le proprie
riflessioni politiche e sociali, soprattutto con La Chinoise. Nel film Godard utilizza la
parola come mezzo principale rispetto all'immagine per trasmettere l'ideologia
comunista del marxismo-leninismo, e sposta l'importanza dal visivo al parlato che non
può essere definito dialogo, ma diviene commento, dichiarazione, intervista, lettura,
citazione per rendere posizioni ideologiche484, poiché anche secondo l'idea maoista «è
della parola che ci si può fidare più che l'immagine» 485. Per questo il film è ricco di
citazioni che provengono dal libretto rosso di Mao, il quale si trova, in più copie, tra gli
scaffali dell'appartamento parigino dove vivono cinque studenti di ideologia maoista;
inoltre la pellicola è ricca di materiali figurativi, come fumetti, ritratti di politici
comunisti (Bukarin, Stalin, Lenin) ed esempi di arte “socialista”, che vengono inseriti
«come necessari strumenti di una scrittura che vuole sperimentare nuovi rapporti
scientifici fra immagini e suoni»486. Godard, attraverso lo studio dell'immagine e del
suono, riflette anche sul linguaggio del cinema stesso. Il rivoluzionario studente Kirilov
pronuncia nel film una frase cara a Godard e cioè che l'immaginario dell'effetto estetico
non è “le reflet du réel, il est le réel de ce reflect”487, che verrà ripresa anche da
Véronique in qualche scena successiva. Questa frase rimanda al gusto godardiano per il
paradosso e il gioco di parole, ovvero che la realtà a cui il cinema rimanda non può
essere il mondo esterno, ma il film stesso, ovvero la stessa scrittura cinematografica. La
484 Secondo Allegri Luigi, Ideologia e linguaggio nel cinema contemporaneo: Jean-Luc Godard,
Università di Parma, Centro studi e archivio della comunicazione, Parma 1976, p.174.
485 Ivi.
486 Farassino Alberto, Jean-Luc Godard, Il Castoro, Milano 2007, p.100.
487 Il riflesso della realtà, ma la realtà di ciò che riflette. (traduzione nostra)
242
realtà del cinema è il linguaggio cinematografico.
Come abbiamo appena visto, nei film d'esordio degli anni Sessanta regna la
rottura del linguaggio e della parola ottenuta con giochi di parole ed associazioni; in
ogni film Godard moltiplica le rotture, i frammenti e le digressioni verbali. Al contrario,
negli anni Ottanta il cineasta cerca di ricostruire e riavvicinare quello che aveva rotto
nel ventennio precedente: le citazioni si amalgamano all'interno del racconto filmico
trasformandosi in dialoghi e le trame sono incentrate su storie da narrare, bibliche,
mitologiche o di cinema.
Innanzitutto vi è Je vous salue, Marie film provocatorio poiché porta sullo
schermo la storia più conosciuta al mondo che deriva dalla Bibbia, ovvero la nascita di
Gesù trasposta in chiave moderna. L'obiettivo di Godard non era tanto creare scalpore,
ma ricercare una sorta di purezza dell'immagine e del cinema e invece di raccontare,
ancora una volta, la genesi di un film (Passion, Prénom Carmen) egli decide di
raccontare la storia e la sua purezza.
Détective è un film di cui per la prima volta Godard non firma neppure il soggetto,
che viene accreditato al produttore Alain Sarde. Il titolo del film rimanda ad una vecchia
rivista francese di storie vere e poliziesche; il protagonista Jean-Pierre Léaud è il
detective Isidore che legge a sua volta queste storie, a testimonianza sul suo comodino
vi è una pila di romanzi noir. Ogni personaggio legge un libro che lo identifica e molti
dialoghi sono costruiti da letture o da citazioni degli stessi; ad esempio lo zio William
Prospero legge sempre La tempesta (di William Shakespeare) libro che richiama il nome
della fidanzata del détective, Arielle, per l'associazione con lo spirito dell'aria, Ariel,
della commedia inglese; Jim si porta sempre in tasca Lord Jim, di Conrad, che però non
ha mai letto, il capo mafia Luciano legge Sciascia, Françoise legge Madame Bovary; la
donna, che ha avuto una relazione con Jim, nel finale legge un passo di Lord Jim mentre
l'amante muore.
Il titolo del film On s'est tous défilé (1988) richiama un gioco di parole del poeta
Mallarmé, il quale riconosce al verbo e alla pagina bianca un ruolo fondamentale.
Godard ci pone di fronte all'interrogativo del posto del linguaggio all'interno di un
mezzo che è visivo. Alla base della poetica di Mallarmé vi è tale formula: «Tutto l'atto
243
disponibile, per sempre e soltanto, resta per ora quello di afferrare i rapporti» 488. I testi
di Mallarmè sono tratti da Divagations (Le Nénuphar blanc, Crayonné au théâtre, La
Cour, Sauvegarde) associate ad un défilé di moda dei sarti Marithé e François Girbaut.
Uno dei brani che Godard spesso cita a partire da Passion fino a JLG/JLG, è la
celebre frase di Pierre Reverdy, che diviene uno dei pilastri della sua poetica:
L'immagine è una creazione pura dello spirito, essa non può nascere da un
raffronto, ma dall'accostamento di due realtà lontane. Più i rapporti di due
realtà saranno lontani e precisi, tanto più l'immagine sarà forte. Due realtà
che non hanno alcun rapporto non possono essere utilmente accostate. […]
Un'immagine non è forte perché è brutale e fantastica, ma perché
l'associazione delle idee è lontana e precisa.489
Il cineasta analizza la questione dei rapporti tra immagine e parola e non risulta
casuale come, ancora una volta, faccia riferimento alla poetica surrealista, in quanto il
poeta fu lungamente ammirato dalla corrente. Fin dai primi minuti del film si può
constatare come, attraverso l'uso sapiente del montaggio visivo, Godard associ alcuni
primi piani di cittadini a personaggi di Lettre à Freddy Buache, a cui somigliano; ai
personaggi di Longhi (Le Rhinocéros), di Gainsborough (Heneage Lloyd et sa soeur) e
di Boucher (La marquise de Pompadour). Questi ultimi vengono intercalati dal viso di
François Girbaut e da quello di una giovane donna, che solleva le gambe nell'atto di
slacciarsi i sandali. L'associazione che è alla base del film, Mallarmé-défilé490, induce lo
spettatore a cogliere tra le righe del testo del poeta una possibile meditazione del sarto
Girbaut491. Le cinghie dei sandali della donna che si vedono nelle prime inquadrature
sono una sorta di “firma” del sarto, in quanto vi sono le sue iniziali; inoltre si può
constatare che nei défilé le modelle calzano sandali con stringhe di cuoio, allacciate alle
caviglie, che a loro volta richiamano l'antica Roma e Gradiva. Inoltre la gonna e i
pantaloni a righe che indossa la giovane donna ci rimandano ai costumi delle bagnanti
del 1900; non a caso il testo di Mallarmé ruota intorno all'incontro, lungo una riva, con
una donna misteriosa dalla bellezza evanescente.
488 Citato in Leutrat Jean-Louis, Potenza del linguaggio, in Perniola (a cura di) letteratura e cinema,
Percorsi di confine, Marsilio, Venezia, 2002, p.96.
489 Citato in Leutrat Jean-Louis, Potenza del linguaggio, in Perniola (a cura di) letteratura e cinema,
Percorsi di confine, Marsilio, Venezia 2002, p.97.
490 Mallarmé è stato per qualche tempo giornalista di moda.
491 Il testo è recitato dalla voce dello stesso Jean-Luc Godard.
244
Questo passaggio appena citato rievoca poi un “fuori testo”, ovvero il busto della
giovane donna non viene mostrato e ricorda una traccia della poesia Nénuphar blanc
che recita: «sottile segreto dei piedi che vanno, vengono, conducendo lo spirito là dove
vuole la cara ombra dissimulantesi nella batista e nei pizzi della veste...»492.
Anche in questo film Godard ricorre a giochi di parole come langage, che si
scinde in l'ange, gage e in l'engagement, o come défilé in dès-filés. Il cineasta assembla
immagini e suoni attraverso una serie di associazioni che sono visive e verbali. Anche il
titolo stesso On s'est tous défilé sembra associarsi a qualcuno o qualcosa che sembra
fuggito o scappato. Il pronome indefinito on sembra richiamare la Svizzera, neutrale al
conflitto bellico della Seconda guerra mondiale, in quanto Godard utilizza il brano
sinfonico di Arthur Honneger, di origini svizzere, Liturgique, che fa da pedant al film.
La marcia dei robot poi rinvia alla sfilata militare, passando dal défilé di moda a quello
bellico.
Sia il poeta che il cineasta lavorano sull'idea del rapporto. Secondo Michel
Collot493, Godard riesce ad avvicinare il mondo profano della strada al mondo dell'arte o
della moda, laddove vi era per Mallarmé una frattura incolmabile. La poesia rimane uno
strato del linguaggio, estraneo ad ogni utilizzo volgare e commerciale e secondo
Mallarmé i rapporti devono costruire un'unità che si esemplifica nell'idea del libro. Al
contrario il regista non crede nella possibilità dell'unità, secondo lui il libro è un oggetto
ambivalente, e ha dichiarato che ha quasi sempre girato un film con un libro in mano 494
e aggiunge che fa più cinema quando legge che quando gira un film, poiché «è
esattamente in quel momento che vado alla ricerca di alleati»495.
492 Citato in Leutrat Jean-Louis, Potenza del linguaggio, in Perniola (a cura di) letteratura e cinema,
Percorsi di confine, Marsilio, Venezia 2002, p.100.
493 Le Commentaire et l'art abstrait, PSN, Paris, 1999, pp.199-205, qui in Leutrat Jean-Louis, Potenza
del linguaggio, in Perniola (a cura di) letteratura e cinema, Percorsi di confine, Marsilio, Venezia
2002, p.100.
494 Positif, n.456, febbraio 1999, p.50, qui in Leutrat Jean-Louis, Potenza del linguaggio, in Perniola (a
cura di) letteratura e cinema, Percorsi di confine, Marsilio, Venezia 2002, p.95.
495 Jean-Luc Godard par Jean-Luc Godard, Cahiers du Cinéma, Paris 1998, p.39.
245
4.6 Hélas pour moi
Nel 1993 Godard realizza Hélas pour moi, uscito in Italia con il titolo Peggio per
me, in cui dialogo, pensieri e narrazione esterna sono costruiti quasi unicamente da testi
letterari di Shakespeare, Conrad, Falubert, Musil, Balzac, Hammet, Mallarmé, San
Paolo, Renan, Léon Brunshwicg solo per citarne alcuni. Lo stesso cineasta dirà che di
suo ha scritto solo i “buongiorno” e i “buonasera”496.
L'opera cinematografica non è solamente intrisa di citazioni, essa ha uno spunto
letterario che deriva da Giacomo Leopardi, dalla Storia del genere umano, la prima
delle Operette morali, in cui si narra la vicenda della discesa del dio Amore sulla terra a
consolare l'infelicità degli uomini. Godard stesso rivelerà le fonti letterarie in
un'intervista:
L'idea del film è nata da un testo di Leopardi. Il grande poeta italiano nel
descrivere il percorso lento e difficile dell'umanità mostra le angosce, le
pene e lo scoramento permanente del suo creatore davanti alle tante
disavventure degli uomini. Il film si ispira anche al mito greco di Alcmena e
Anfitrione, drammatizzato prima da Plauto e poi da Molière, Kleist,
Giraudoux, e cerca di mostrare il desiderio di un dio di provare in corpo la
verità del desiderio umano, dove si confondono giovinezza e piacere. Si
tratta quindi di sapere dove comincia l'amore nel momento stesso in cui
accade e come infine inizia la creazione. Come vi invade le dita, il petto, e
sale poi alla fronte e agli occhi, qual è quel fascino eterno e potente che si
trasforma quasi immancabilmente in liti e pianti, sangue e guerre. Ma cosa
potrà offrire una povera mortale al dio, se lei rifiuta di conoscere
l'immortalità?497
La storia del mito classico di Alcmena narra che, mentre il suo sposo Anfitrione
era partito per combattere una guerra, la donna ricevette la visita di Zeus sotto le false
sembianze del marito e dal loro incontro nacque il semidio Eracle. Della trama esistono
numerose versioni teatrali e letterarie e Godard sceglie di attingere da tre: dalla
commedia di Plauto il cineasta prende in prestito il personaggio di Mercurio;
dall'Amphitryon di Molière il tema dell'ospitalità, difatti nella commedia il servitore di
Anfitrione sentenzia che il vero Anfitrione umano è “quello in cui si cena”, poiché
l'uomo era conosciuto per la generosità e l'ospitalità nei riguardi degli ospiti a pranzo
496 Citato in Farassino Alberto, Jean-Luc Godard, Il Castoro, Milano 2007, p.214.
497 Citato in Farassino Alberto, Jean-Luc Godard, Il Castoro, Milano 2007, p.216.
246
(Godard trasforma l'idea dell'ospitalità in chiave moderna in quanto Simon [AnfitrioneZeus] oltre ad essere un ristoratore diviene, alla fine del film, un albergatore); infine, da
Jean Giraudoux (Anfitrione 38), il regista riprende il tema principale della commedia
incentrata sulla coppia umana, colta nella sua dimensione quotidiana, ma riprende anche
l'idea moderna del desiderio di dio di provare l'amore umano.
La sfida di Godard questa volta è rivolta dunque alla produzione letteraria. Se in
Passion diviene pittore e ricostruisce quadri celebri, in Prénom Carmen il suo grande
amore per Beethoven diventa un omaggio al compositore e alla musica classica; con
Hélas pour moi i dialoghi si trasformano in libri e la trama può essere riconducibile,
ancora una volta, ad un testo classico. Ma nonostante il film si presenti come un elogio
alla letteratura, egli si dichiara fin da subito poco soddisfatto della sua opera
cinematografica, in quanto ritiene di essere stato costretto a consegnare un'opera che
non considerava ancora completata498; così nei titoli di testa presenta il proprio film
come «una proposta di cinema», come se si trattasse di una pellicola non finita, di un
abbozzo che deve ancora giungere alla sua conclusione e alla sua completezza. Questa
insoddisfazione di Godard nei confronti del proprio film appare forse il motivo che
giustifica l'assenza del nome del regista nei titoli di testa; o forse, con la sua assenza, il
cineasta rende omaggio all'intera troupe di tecnici e attori che compaiono e a cui viene
attribuito, quasi automaticamente, il film.
4.6.1 Sinossi499
In un piccolo villaggio sul lago di Ginevra giunge l'editore Abraham Klimt
(Bernard Verley) in cerca dei coniugi Rachel e Simon Donnadieu (Laurence Masliah,
Gérard Depardieu). Klimt li cerca in quanto è interessato a comprare la loro storia come
lui stesso afferma: «Per agire sul mondo abbiamo perso i gesti, le parole, i luoghi ma si
deve poter raccontare una storia». Una volta arrivato in paese inizia a chiedere di loro ai
vari abitanti: al libraio, al medico, al pastore e a sua moglie, ad uno spagnolo,
498 Citato in Farassino Alberto, Jean-Luc Godard, Il Castoro, Milano 2007, p.214.
499 Di supporto alla sinossi sono stati usati i testi: Farassino Alberto, Jean-Luc Godard, Il Castoro,
Milano 2007 e Chiesi Roberto, Jean-Luc Godard, Gremese Editore, Roma 2003.
247
all'adultero, ai gestori di una videoteca. La coppia Donnadieu gestisce un ristorante, un
giorno (24 luglio 1989) Simon è spinto dall'amico Paul ad andare in Italia a visitare un
albergo in vendita; la coppia per la prima volta si separa e mentre Rachel piange, l'uomo
la tranquillizza dicendole che tornerà l'indomani. Ma durante la notte Simon torna
inaspettatamente, la moglie quasi sviene e poco dopo fanno l'amore. Il mattino seguente
parlano di quello che è accaduto e lo fanno come mai era capitato prima, parlano di
amore, di fedeltà, di corpi e di emozioni. Rachel si confida poi con il pastore
riferendogli la stranezza del marito, quell'uomo era talmente diverso ed inoltre le aveva
promesso l'immortalità, la donna scopre così che l'amore può essere triste. Ma non
poteva essere altro che Simon, oppure poteva essere un dio, incarnato nell'uomo per
conoscere cos'è l'amore. Così Klimt cerca di ricostruire questa storia tramite i racconti
degli abitanti del luogo, ognuno dei quali ne conosce solo una parte, un frammento che
può essere completato in modi diversi. Tutti gli abitanti intervistati comunicano che
qualcosa di strano è accaduto nel villaggio, qualcosa di divino, perché ricordano che
quel giorno in paese erano apparsi due strani personaggi, uno dei quali, Max-Mercurio,
girovagava cercando un'amante per il suo dio. Alla fine del film, Klimt se ne andrà
senza avere né una storia, né una verità sulla vicenda e poco dopo si vede Rachel
raggiungere il marito che acquisterà l'hotel.
4.6.2 Analisi
Quello che accade a Rachel e a Simon è l'avvenimento su cui è incentrato l'intero
film, ma l'importanza di quell'evento sta nei dialoghi, le parole che la coppia si scambia
la mattina successiva. È l'incontro di un uomo e una donna mai avvenuto prima, in cui
la comunicazione diventa essenziale, quasi pura, in cui scompare quel disprezzo che
aveva Camille per Paul in Le Mépris; è un dialogo senza quella violenza, che pare
l'unico modo per raggiungere l'altro in Sauve qui peut (la vie); senza la sofferenza e
l'ossessione di Joseph in Prénom Carmen; senza la sottomissione o la passività di un
partner rispetto all'altro in Nouvelle Vague. Per la prima volta un uomo e una donna
sono stati in grado di comunicare senza violenza, senza esasperazione, senza
interferenze, anche di tipo sonoro, in quanto tutto il testo del film è perfettamente
248
udibile e comprensibile. Simon-Zeus e Rachel parlano di cose semplici, quotidiane, ma
allo stesso tempo molto intime, le quali solitamente non vengono pronunciate, neppure
se un uomo e una donna vivono insieme, perché sono indicibili. I coniugi Donnadieu
parlano a voce bassa, sembra quasi che sussurrino parlando a se stessi tanto quanto
all'altro, comunicando cercano di mettersi in contatto con l'altro come se fosse un
grande Altro (dio500) in un dialogo che sembra una preghiera, facendo apparire il
colloquio tra Rachel e Simon come qualcosa di sacro.
La trama del film La Déesse (La dea, 1960) del regista indiano Satyajit Ray
appare molto simile a quella del mito greco di Anfitrione. Ray allontana per qualche
tempo il marito da sua moglie e quando l'uomo torna al villaggio scopre che la donna
non è una creatura terrena, ma è una reincarnazione della dea Kali 501. Con il tempo
l'uomo torna a vederla di nuovo come sua moglie, ma allo stesso tempo la vede come si
vede qualcuno per la prima volta, mettendo in dubbio tutto ciò che riguarda il futuro di
un sentimento e di un rapporto non ancora nato. La stessa sorte era toccata a Joseph in
Je vous salue, Marie (1985) quando assiste all'annuncio divino, da parte dell'angelo
Gabriele, che comunica a Marie, la sua compagna, che presto avrebbe avuto un
bambino. Joseph, turbato e con un po' più di sofferenza rispetto ad altri uomini, si trova
davanti alla moglie Marie, incinta, intoccabile e refrattario nasconde il suo segreto. Ma
anche lui, con il tempo, acquisterà fiducia nella donna e crederà alla sincerità sulla sua
verginità. In Hélas pour moi Godard inverte la situazione: la donna rimane umana, sarà
l'uomo che verrà abitato, durante la notte, da una divinità. Ma Rachel non ne sarà mai
totalmente certa e si domanda se sia l'uomo a essere diventato divino o se è dio che è
divenuto il suo uomo (Fig.1). L'unica certezza è che questi dubbi hanno fatto sorgere tra
loro sguardi, gesti timidi, parole, al punto che qualche cosa dell'amore indicibile della
vita quotidiana sembra essere risalito in superficie e il non-detto sia divenuto
parzialmente visibile.
Questo episodio diviene perciò un evento mitologico, ecco perché necessita di
500 Alberto Farassino (op.cit., p.217) utilizza sia il termine “dio” (dio pagano Zeus) che “Dio” (in quanto
Godard fa pronunciare battute a Depardieu con espliciti riferimenti al Dio cristiano). Per questa
analisi si è scelto di utilizzare la parola dio, poiché la trama della pellicola si basa sul mito greco di
Zeus e Almena.
501 Il confronto tra il mito di Anfitrione e il film La Déesse si trova in Bergala Alain, Nul mieux que
Godard, Editions du Cahiers du cinéma, Paris 1999, pp.172-173, (traduzione nostra).
249
qualcuno che lo racconti e di un coro che amplifichi la narrazione 502. Quel qualcuno sarà
l'editore Abrahm Klimt, il quale inizia ad indagare, come un detective, su quello che è
avvenuto quel giorno tra Simon e Rachel raccogliendo le testimonianze dei personaggi
del paese per cercare di avvicinarsi al mistero che si è verificato. Il coro è rappresentato
dagli abitanti del villaggio, ventiquattro personaggi che, quasi per rifrazione, appaiono
scossi per quanto accaduto. Anche l'arrivo in paese di due individui, ovvero due angeli
annunciatori, Max-Mercurio, primo assistente di dio, e Sosia503 creerà scompiglio in
quanto si presentano alla popolazione come due collaboratori scesi sulla terra per
cercare la futura amante del loro dio.
Secondo Douglas Morrey504 Hélas pour moi è un film che mette in discussione il
materiale su cui è composta la storia, ovvero la manifestazione divina: sia lo spettatore
che Abraham Klimt tentano di scoprire quale sia la verità, ciò che è realmente accaduto
quella notte, ma le informazioni che ricevono sono spesso discordanti e nessuno, se non
la coppia Donnadieu, saprà mai cosa sia realmente accaduto. Perciò, la storia viene
raccontata in modo da preservare il suo mistero, così da evitare di far ricadere la
narrazione in una realtà banale o in una fantasia assurda. Fin dall'apertura il film mette
in discussione la natura e lo stato del racconto: il titolo ci informa che il racconto si basa
su una leggenda, mentre una voce fuori campo racconta la pratica della narrazione del
rito sacro: «Ci viene detto che i padri dei nostri padri dei nostri padri, quando dovevano
affrontare un compito difficile si ritiravano in un posto nella foresta, accendevano un
fuoco e si immergevano in preghiera. Quando, più tardi, il padre di mio padre si trovò di
fronte allo stesso problema, decise di andare nello stesso posto nella foresta e disse:
"Non sappiamo accendere il fuoco, ma sappiamo ancora dire la preghiera". Quando fu il
turno di mio padre [...] anche lui andò nella foresta e disse: "Noi non sappiamo
accendere il fuoco, non sappiamo più i misteri della preghiera, ma sappiamo ancora la
posizione specifica nella foresta o quello che è successo e ciò dovrebbe essere
sufficiente." E questo è stato sufficiente […]. Ma quando venne il mio turno io rimasi a
casa e dissi: “Non sappiamo accendere il fuoco, non sappiamo dire le preghiere, non
502 Secondo Bergala Alain, Nul mieux que Godard, Editions du Cahiers du cinéma, Paris 1999, p.172
(traduzione nostra).
503 Nella commedia greca è il servo di Anfitrione.
504 Morrey Douglas, Jean-Luc Godard, Manchester University Press, Manchester 2005.
250
sappiamo nemmeno il posto nella foresta, ma sappiamo ancora raccontare la storia”»505.
Raccontare una storia vuol dire raccontare il passato. In questo caso la narrazione
è legata ad una sapienza antica, tanto quanto lo è in un testo di Walter Benjamin che
Godard cita più volte nei suoi film negli anni Novanta 506. Benjamin sostiene che l'arte
della saggezza, vale a dire la conoscenza radicata nell'esperienza attraverso il racconto,
sia stata persa. La trasmissione orale di storie richiede una profonda assimilazione di
narrazioni e le condizioni per questa ricezione non esistono più. Queste storie non
devono essere confuse con le informazioni, che assumono valore nel momento in cui
esse sono nuove; il racconto tradizionale può contenere poco del romanzo, ma il suo
particolare potere è quello di offrire materiale per ulteriori riflessioni.
In Hélas pour moi la storia viene ricreata attraverso una serie di informazioni, che
Klimt raccoglie dalle interviste ai compaesani della coppia, allo stesso modo, a mio
avviso, Godard ricrea la medesima storia con le stesse informazioni di cui Klimt è a
conoscenza, allo spettatore non viene mostrato nulla di più di quello che i racconti non
dicano. In questa direzione, surrogato dello spettatore all'interno del film è l'editore
Abraham Klimt, che ricerca una storia da vendere. La quale Abraham Klimt cerca di
ricostruire e si rivela essere intrigante e come ogni produttore cerca di ricostruirla a tutti
i costi, ma anche per lui, come per gli abitanti del villaggio, essa appare una storia
troppo misteriosa e difficile da poter ricreare.
Per tutti gli anni Ottanta e ancora una volta in Hélas pour moi Godard mette in
scena personaggi nell'atto di cercare una storia, ma in questo caso non si tratta, come in
Passion o in Prénom Carmen, di mettere in scena un'opera cinematografica, di fare
cinema, si cerca piuttosto una trama per un libro (Klimt è un editore), che possa quindi
essere scritta e non vista. Abrahm Klimt diventa, ancora una volta, una sorta di alter-ego
del regista, che, ancora una volta, si rispecchia nel personaggio, in questo caso l'editoredetective, che fallisce nel suo compito di trovare la storia, e Godard vi si rispecchia nel
suo fallimento personale di rappresentare il presente, ovvero l'istante. Alain Bergala 507
505 Citato in Morrey Douglas, Jean-Luc Godard, Manchester University Press, Manchester 2005
(traduzione nostra), alcune parti sono state integrate con la visione del film.
506 Si fa riferimento al testo di Benjamin Walter, Il narratore, (1936), ed.ita. Einaudi, Torino 2011. Il
testo viene citato in Morrey Douglas, Jean-Luc Godard, Manchester University Press, Manchester
2005, pp.211-212.
507 Bergala Alain, Nul mieux que Godard, Editions du Cahiers du cinéma, Paris 1999, pp.175-182.
(traduzione nostra).
251
afferma che la questione chiave del cinema di Godard sia il tentativo di rappresentare
l'istante in tempo, in questo caso l'istante è la definizione di un evento, che può durare
una frazione di secondo508. Il cineasta indaga con il suo cinema il modo per
rappresentare il presente ed intuisce che non si possono affrontare questi momenti senza
prima distruggerli, ovvero invece di rappresentare la frazione di tempo bisogna tornare
indietro, partire da un nuovo approccio, in modo tale che ciò che si rappresenta non sia
mai esattamente al tempo presente. Lo spettatore può catturare il senso della fugacità
dell'istante e quindi del presente attraverso la ripetizione, di una scena o di
un'inquadratura, che può essere colta dallo stesso punto di vista o meno, così facendo
l'immagine verrà decimata, frantumata, potenzialmente all'infinito, così come verrà
scisso l'istante, che non sarà mai in un tempo presente ma vivrà in un continuo passato
che ritorna. Godard si rifiuta di rappresentare un tempo definito in quanto la vocazione
del cinema non è più quella di riprodurre il presente, ma di ripresentarlo, di farlo
rinascere sotto un'altra forma. Per questo in Hélas pour moi il presente viene
rappresentato con dio che si fa uomo sulla terra, un dio che cerca di diventare come un
uomo mortale e ordinario ma che non comprende, una volta entrato in Simon, se stia
davvero vivendo l'essenza umana, poiché egli non vive nell'ordinarietà e nel presente
umano, ma nell'eternità509.
Inoltre, Bergala sostiene che la ricerca godardiana basata sul tentativo di
rappresentare
l'istante,
il
presente,
possa
essere
ricondotta
anche
all'etica
cinematografica del regista: se il cinema non è riuscito a catturare quel singolo
momento cruciale che erano i campi di sterminio nazisti 510, Godard sembra voler
lavorare faticosamente, attraverso la storia del cinema, alla ricerca del momento preciso
in cui l'errore è stato commesso. Allo stesso tempo, intraprende una ricerca di un nuovo
tipo di immagine, un'immagine-resurrezione o immagine-redenzione, che potrebbe
508 Secondo Alain Bergala l'esempio di questo concetto di istante-evento è riscontrabile nell'episodio di
Hélas pour moi in cui Dio si incarna in Simon.
509 In una scena Dio-Simon incapace di capire l'uomo e sofferente si morde le labbra come segno di
difficoltà, lui che è l'Eterno. Inoltre quando Dio-Simon parla è facilmente intuibile come non si tratti
di un uomo; in una battuta egli afferma: «Ho fatto tre passi sulla veranda» e non nella veranda, in
quanto lui, l'Eterno, vive al di fuori della terra e le azioni che solitamente compie sono sulla terra.
510 Godard afferma: «I film non producono più quel genere di contatto con il reale. Il cinema ha
annunciato i campi di concentramento […] però non li ha mostrati. È stata la letteratura a farlo. Il
cinema è venuto meno al suo compito» in Godard J.L., Due o tre cose che so di me. Scritti e
conversazioni sul cinema, p.271.
252
compensare l'errore precedente; qualcosa che diventa possibile solo dando una
concezione non lineare di tempo, in cui ogni momento presente comunichi con il
passato e corregga quanto riprende.
Questo ultimo concetto può ricondursi anche all'uso della citazione letteraria
all'interno del film. A partire dagli anni Ottanta, Godard, in alcuni suoi film, non
concepisce più le frasi dei propri dialoghi ma inserisce testi di altri autori 511; la citazione
non è mai esatta ma spesso approssimativa, perché è solo grazie a questa piccola
differenza che la frase può essere riportata in vita in una sorta di resurrezione della
parola.
Godard perciò frammenta il tempo, carica il film di citazioni letterarie, molto
spesso leopardiane, inserisce la musica classica (Bach, Beethoven, Honegger,
Šostakovič, Čajkovskij) con allusioni alla pittura classica (il pittore Klimt) e divide le
sue composizioni visive con giochi di parole, le quali sono unite a frammenti di testo,
anch'essi molto classicheggianti (Fig.2). La classicità ritorna anche nei nomi dei
personaggi, biblici, come Abramo, Simone, Rachele e il gioco di parole, amato da
Godard, evoca la classicità del personaggio più controverso della storia, ovvero dio, nel
nome dell'attore che interpreta Simon-Dio. Il regista conosce il gioco di parole che
spesso giornalisti e titolisti hanno fatto del suo cognome, God - Dio, ma questa volta
decide di giocarci lui stesso: Simon ha come cognome Donna-Dieu512 e il protagonista
che lo interpreta sarà Gerarde Depar-Dieu; un richiamo alla figura di dio difficile da non
notare.
Inoltre, la classicità del cinema muto rappresentato dalla didascalia ritorna in
Hélas pour moi nella suddivisione del film in sezioni chiamate libri (quattro), che
vengono accompagnate da cartelli, intertitoli, i quali su sfondo nero comunicano con lo
spettatore attraverso la parola scritta (Fig.3), ma allo stesso tempo lo distraggono in
quanto la colonna sonora non viene interrotta alla comparsa delle didascalie, ma i
511 Prima di Hélas pour moi, per il film Nouvelle Vague (1990) Godard crea dialoghi tratti da poesie e
romanzi che lui stesso affermò di aver mescolato e, in taluni casi, anche parzialmente riscritto al
punto da non riconoscere più nemmeno a chi appartengono (cit. Farassino A., op.cit., p.211). Il
riconoscimento delle frasi da cui Godard trae i dialoghi non sono facilmente intuibili, allo stesso
modo in Hélas pour moi le citazioni letterarie sono talvolta indecifrabili, tuttavia sono stati
riconosciuti in Nouvelle Vague citazioni di Rimbaud, Rousseau, de Rougermont, Faulkner,
Dostoevskij, Schnizler, Chandler, Chardonne, Renard, Mary Shelley, Rivarol, Dante Alighieri che è il
più citato con la sua Divina commedia.
512 Dieu in francese significa Dio.
253
dialoghi visti nella scena precedente si protraggono, altre volte vengono anticipati quelli
della scena successiva. Ad esempio quando compare la scritta: «Ainsi, peu à peu, le
passé revient - il au présent, à travers la mise en scène imaginaire d'une expérience
visuelle qui toujours sollicite plusieurs regards»513 si sente una voce fuori campo che
dice “Wild Orgy”, che poi scopriremo nell'immagine seguente essere quella di una
donna in un negozio di noleggio video.
Infine, la tematica della classicità e del mitologico ritorna in Hélas pour moi
attraverso il desiderio di dio di conoscere le emozioni delle sue creature, gli uomini.
Dio, assistito dai suoi fedeli servitori, giunge sulla terra, in un piccolo paese vicino ad
un lago514, in Svizzera, e prende le sembianze di Simon, diventa un uomo e prova le
emozioni umane, la passione e l'amore: «per ogni donna che ama un uomo esso è già
l'ombra di dio»515. E così Simon-Dio si comporta come un uomo normale, gira con un
impermeabile e i giornali sotto braccio, ma invece di camminare sulle acque entra nel
lago, nella scena più celebre del film, finendo sul fondo (Fig.4).
«Non è la prima volta che Godard mette in opera dispositivi complessi, come la
classicità e il mito, per riuscire ad affrontare la quotidianità e le cose più semplici,
l'amore tra gli uomini. Negli anni Sessanta porta in scena il grande regista Friz Lang
insieme ad una seconda troupe, la quale doveva mettere in scena L'Odissea, per
indagare l'amore di Camille per Paul che forse si era trasformato in disprezzo. Negli
anni Settanta sfida le immagini e cerca di abbatterle per vedere i gesti quotidiani di un
ragazzo e di una ragazza in France Tour Détour. Negli anni Ottanta ricostruisce
L'entrata dei Crociati a Costantinopoli in cui i metodi di lavoro vengono mostrati senza
nessun imbarazzo. Sembra quasi che per Godard più qualcosa è semplice e più è
difficile metterlo sullo schermo. Da Le Mépris in poi Godard sa che ciò che succede tra
le persone e che solitamente dura una frazione di secondo, non può essere afferrato
nelle sceneggiature cinematografiche, le quali appaiono molto spesso troppo grossolane;
513 Così, a poco a poco, il passato ritorna al presente, attraverso il palcoscenico immaginario di un
palcoscenico visionario che attira sempre l'attenzione. (traduzione nostra)
514 Nel 1979, Godard e la Miéville si trasferiscono a Rolle, un piccolo paese sulla sponda settentrionale
del lago di Ginevra, divenendo set di numerosi film. Rolle riveste un significato quasi simbolico per
Godard e per la «mia situazione di franco-svizzero e di cineasta abitante delle città che ha messo un
tempo incredibile per vedere che non c'era più nulla da vedere nelle città» (Cit. in Chiesi R., JeanLuc Godard, Gremese Editore, Roma 2003, p.65). Godard ricomincia dal suo paese natale ma senza
abbandonare mai totalmente Parigi, in cui spesso ritornerà per girare alcuni film.
515 Citata in Hélas pour moi e prima ancora in Je vous salue, Marie. Qui in Farassino A., op.cit., p.217.
254
perciò egli si accontenta di raccontare una storia che avviene tramite una successione di
scene, ovvero attraverso una simulazione di blocchi del presente»516.
Godard osserva che nel cinema narrativo gli spettatori possono dimenticare le
singole scene, ma rimangono sempre con un vago ricordo di esse, che viene creato dalla
scena presente in un dato momento (questo è il cinema narrativo classico, dove la logica
di causa ed effetto tra le scene è sempre trasparente) 517. «In Hélas pour moi lo spettatore
non ricorda nulla delle scene precedenti, in quanto il film è composto dalla pura
presenza di immagini che non dipendono da ciò che è venuto prima, ma da ciò che sta
per venire dopo e che lo spettatore non può sapere. Nei film di Godard l'immagine
attuale prepara il futuro, come nel cinema narrativo classico, ma lo attende con il fiato
sospeso»518. Il tempo del film è un presente frammentato, come se la presenza di quel
dio in terra avesse sconvolto l'ordine del quotidiano e questo si ripercuotesse sulla
presenza che si ha del film, nel quale ogni piano sembra cancellare quello precedente
alimentando una successione anti-narrativa.
Questo è ben visibile in una scena nella prima metà del film, che si svolge presso
il ristorante gestito dalla coppia. La vicenda inizia mostrando una coppia seduta ad un
tavolo, accompagnata da una voce fuori campo, quella di Max-Mercure, che consiglia al
suo padrone di prendere una posizione all'angolo e di osservare gli umani. Mentre la
camera inquadra altri tavoli, un giovane uomo legge ad alta voce un testo su alcuni
fenomeni che, poco plausibili, possono costituire un articolo di fede. Ad un altro tavolo
una coppia discute con termini che vanno dal romantico al pornografico. Si sente poi
una voce fuori campo che cita una frase di Robert Musil: «siamo incapaci di liberarci,
non c'è dubbio. E questo è ciò che chiamiamo democrazia». Un altro tavolo con quattro
persone che discutono: uno afferma che il Manifesto del Partito comunista sia stato
pubblicato nello stesso anno di Alice nel paese delle meraviglie, un altro afferma che
l'ascensione di Cristo sia una vecchia idea, che esiste da 2000 anni. Si afferma poi che
durante la guerra del Golfo nessuno abbia pensato di parlare dello ziggurat
516 Secondo Bergala Alain, Nul mieux que Godard, Editions du Cahiers du cinéma, Paris 1999, pp.174175, (traduzione nostra).
517 Godard Jean-Luc, Jean-Luc Godard par Jean-Luc Godard, tome 2: 1984-1998, Cahiers du cinéma,
Paris 1998, p.276.
518 Secondo Morrey Douglas, Jean-Luc Godard, Manchester University Press, Manchester 2005,
(traduzione nostra).
255
mesopotamico, la grande pietra degli dei. Rachel entra da destra e Simon da sinistra,
qualcuno ordina un bicchiere di rosso, Simon dice che il rosso è terminato e, con un
gioco di parole, continua: «non più rosso, nemmeno per l'ultimo comunista della nostra
giovane Europa». La scena tenta di coprire in un paio di minuti un arco di storia che va
dalla Mesopotamia alla guerra del Golfo, dirigendosi verso un futuro non immaginabile,
in cui dio scende sulla Terra e si fa uomo.
Anche la stessa ricostruzione della vicenda dei coniugi appare frammentata e
priva di collegamenti. Quando Klimt interroga i compaesani su quello che poteva essere
successo in quel pomeriggio del 28 febbraio 1989, egli riceve una serie di risposte
diverse: molte persone ricordano una discussione tra Simon e Rachel nata dalla partenza
dell'uomo per l'Italia, ma molti non sono d'accordo sulle circostanze precise della
controversia. Un personaggio ricorda Rachel seduta sul lungomare in riva al lago, un
altro la vide nuotare, un terzo ricorda l'immagine di lei guardare l'acqua. Il film, a sua
volta, offre rappresentazioni visive di tutte queste possibilità, in quanto, secondo la tesi
prima sostenuta, Godard intende mostrarci solo ciò che Klimt scopre dalle interviste.
L'atto stesso della dimenticanza, da parte dei personaggi, interferisce nella ricostruzione
sia della storia in sé, sia della messa in scena di questi episodi: ad esempio in
un'inquadratura vediamo Simon e Rachel parlare insieme su una panchina, poco dopo
l'uomo se ne va. Tuttavia, una volta che abbiamo assistito alla partenza di Simon, la
scena torna a Simon e Rachel ancora seduti sulla panchina, mentre la donna si gira verso
di lui, egli scompare con un taglio, la stessa inquadratura è ripetuta per tre volte di
seguito nel tentativo, come abbiamo visto, di ricreare il presente, quell'istante
essenziale, in cui per l'ultima volta Simon (uomo) vede Rachel (Fig.5-6).
Ancora, in un'altra scena appare dio, che lamentandosi con Max-Mercure che la
notte sulla Terra è troppo breve, decide di prolungarla e trasferire la luce del giorno in
piena notte. Intervallati da questa lunga sequenza vi è il dialogo tra Klimt e Aude, una
giovane donna che esprime i suoi dubbi sul fatto che un evento di questa natura possa
essere visto da tutti, ad un certo punto quindi lei sostiene di aver sentito e non più visto
quanto è successo quella notte, affermando che non ci possa essere un'immagine di dio e
dice: «l'invisibile è faticoso».
Questo è il Godard di Hélas pour moi, creatore di scene apparentemente casuali
256
con personaggi che recitano frasi disconnesse, ma che testimoniano l'incredibile
condensazione di temi politici, religiosi e mitologici in un unico lavoro. In tutto questo
dio guarda, a volte dimenticato ma, come dice Max-Mercure, «risiede comunque in
ognuno di noi».
4.6.3 Passion, Prénom Carmen, Hélas pour moi: la loro storia.
Ancora una volta, il film si apre con l'obiettivo di cercare una storia da raccontare,
anche se in Hélas pour moi essa deve essere prima ricostruita o almeno vi è il tentativo
di farlo. Come abbiamo già potuto vedere in Passion e Prénom Carmen, i film degli
anni Ottanta e Novanta di Godard sono incentrati sulla memoria e sulla storia, sia
pubblica che privata, e sia politica che cinematografica.
Una storia da raccontare, da ricercare e da ricostruire minuziosamente è il fil
rouge che unisce, a mio parere, i tre film finora analizzati. Ricordiamo quanto il cinema
necessiti di una narrazione nel film in costruzione di Passion, in cui si insegue
costantemente la trama cinematografica attraverso le domande senza risposta a Jerzy:
«Qual è la storia?». Significativo è anche il quesito che Godard pone a tre personaggi,
nelle prime scene di apertura del film, ovvero «che cos'è questa storia?», ma le risposte
date sono differenti e talvolta contrastanti le une dalle altre al punto che la domanda
rimane senza risposta. In Passion, come abbiamo visto (c.f.r. 2.5.2), Godard trova un
apparente soluzione al problema dell'individuazione di una storia, organizzando il film
attraverso tre serie: quella dei tableaux vivants, quella della vita (associata all'operaia
Isabelle) e infine la serie dell'arte (rappresentata dal regista Jerzy). Le serie si
compenetrano nel film e sono unite l'una all'altra tramite il sistema metaforico, ovvero
le esperienze di vita dei due protagonisti, Isabelle e Jerzy, vengono associate ai tableaux
vivants tramite le inquadrature, le tematiche o i sentimenti dei personaggi. Ma la storia
ricercata ossessivamente in Passion non verrà mai trovata: Jerzy, sconfitto, abbandonerà
il suo film e, di conseguenza, la narrazione da lui anelata.
Dal mio punto di vista, Godard ritorna a esplorare la ricerca di una storia anche in
Prénom Carmen: il film diviene una sorta di continuazione simbolica di Passion e
Jerzy evolve in un altro regista, lo zio Jean, il quale è interpretato dallo stesso Godard.
257
Questa volta, il cineasta indaga in prima persona la vicenda, la medesima di Passion,
quella di un film in elaborazione. Abbiamo già analizzato le dinamiche che hanno
condotto ad associare Prénom Carmen al film precedente (c.f.r. 3.5.2), ma è
indispensabile sottolineare che, anche in questo caso, sarà proprio la ricerca di una
storia di cinema ad unire le due serie che compongono il film: l'arte (Claire e il quartetto
Prat) e la vita (Carmen).
Infine, ancora con Hélas pour moi, Godard insegue una storia mediante il proprio
alter-ego Klimt. Il personaggio si discosta visibilmente dai due precedenti: innanzitutto,
Klimt è un editore e non un cineasta ed appare fin da subito come un uomo riservato,
schivo, il cui unico scopo è quello di raccogliere le informazioni necessarie per
ricostruire la vicenda dei coniugi Donnadieu; inoltre l'uomo non intreccia nessun tipo di
rapporto con gli altri personaggi del film, a differenza di Jerzy e zio Jean 519. Klimt pare
entrare in punta di piedi all'interno del racconto, non ne diviene il protagonista, ma si fa
portavoce degli avvenimenti. A mio parere, egli è una timida presenza, un personaggio
che sembra farsi da parte di fronte alla grandezza degli eventi; difatti nel momento in
cui comprende che non vi può essere nessuna storia da scrivere, o da raccontare, uscirà
di scena, silenziosamente, senza scappare520.
Questa volta, Godard sembra aver capito come raccontare la storia e lo afferma fin
dalle prime inquadrature: «Non sappiamo accendere il fuoco, non sappiamo dire le
preghiere, non sappiamo nemmeno il posto nella foresta, ma sappiamo ancora
raccontare la storia»521; e per raccontarla, egli si serve di Klimt in modo da mostrarci
solo ciò che l'editore conosce. Ma anche per quest'ultimo, come avvenne prima per
Jerzy e per lo zio Jean, la storia non giungerà al suo termine, l'episodio che sconvolge i
coniugi Donnadieu non verrà ricostruito e sia Klimt che lo spettatore non conosceranno
mai la verità.
In Hélas pour moi, Godard divide il film in quattro capitoli, come un libro e anche
le citazioni sembrano ricondurre lo schema di un testo narrativo: i dialoghi sono
519 Ricordiamo il legame profondo che lega lo zio Jean alla nipote Carmen e la relazione amorosa di
Jerzy con Hanna.
520 Jerzy in Passion, dopo aver abbandonato il film, decide di scappare in Polonia; lo zio Jean invece,
nella scena finale di Prénom Carmen scappa dalla sparatoria messa in atto dalla banda di Carmen,
inoltre l'uomo in passato era “scappato” dal mondo opprimente del cinema per rifugiarsi in un
ospedale-manicomio.
521 Tratto da Hélas pour moi (1993).
258
magnifiche creazioni di frasi prese in prestito da libri e poesie, la trama del film è di
derivazione letteraria e poi vi è Klimt, l'editore, il quale giunge in un piccolo paese sulle
sponde di un lago per scrivere una storia.
Senza l'arte le storie di Godard non possono dirsi realizzate. Ed è su questo
concetto che, secondo la mia interpretazione, egli sceglie di focalizzare la propria
ricerca: il cineasta non impiega le citazioni esclusivamente in omaggio agli autori da lui
amati, ma l'arte, la citazione, diventa coprotagonista dell'opera cinematografica: i
tableaux vivants sono il trait d'union tra i diversi personaggi, tra il lavoro in fabbrica e
quello di cinema; così la musica classica di Beethoven (Quartetti) unisce le vicende del
quartetto Prat con quelle di Carmen e dello zio; infine è l'atto dello scrivere una storia
da parte di Klimt che, associato all'atto del mostrare da parte di Godard, è in grado di
realizzare, a mio avviso, il racconto.
In questo modo Jean-Luc Godard si fa pittore, compositore e infine scrittore per
realizzare le sue storie, quelle di cinema, e diventa God-Art, in omaggio ai migliori
giochi di parole giustappunto godardiani.
259
APPARATO ICONOGRAFICO
Fig.1 L'immagine accompagna la voce di Rachel mentre espone i suoi dubbi al marito
(Hélas pour moi, 1993).
Fig.2 In primo piano il libro Il pirata di Joseph Conrad (Hélas pour moi, 1993).
260
Fig.3 La suddivisione del film in capitoli (Hélas pour moi, 1993).
Fig.4 Simon-Dio non cammina sulle acque ma entra nel lago (Hélas pour moi, 1993).
261
Fig.5 Rachel (Laurence Masliah) e Simon (Gérard Depardieu), (Hélas pour moi, 1993).
Fig.6 Nel fotogramma successivo Simon scompare con un taglio (Hélas pour moi,
1993).
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data ultima consultazione: 31 gennaio 2015.
270
FILMOGRAFIA DI JEAN-LUC GODARD
À bout de souffle (Fino all'ultimo respiro), 1959.
Le petit soldat, 1960.
Une femme est une femme (La donna è donna), 1962.
Vivre sa vie (Questa è la mia vita), 1962.
Les Carabiniers, 1963.
Le Mépris (Il disprezzo), 1963.
Bande à part, 1964.
Une femme mariée (Una donna sposata), 1964.
Alphaville, une étrange aventure de Lemmy Caution (Angente Lemmy Caution,
missione Alphaville), 1965.
Pierrot le fou (Il bandito delle ore undici), 1965.
Masculin féminin (Il maschio e la femmina), 1966.
Made in USA (Una storia americana), 1966.
Deux ou trois chose que je sais d'elle (Due o tre cose che so di lei), 1967.
La Chinoise (La cinese), 1967.
Week-end (Week-end, un uomo e una donna dal sabato alla domenica), 1967.
Le gai savoir (La gaia scienza), 1968.
One plus one, 1968.
British Sounds, 1969.
Pravda, 1969.
Vent d'est (Vento dell'est), 1969.
Lotte in Italia, 1970.
Vladimir et Rosa, 1970.
Tout va bien (Crepa padrone, tutto va bene), 1972.
Letter to Jane - An Investigation about a Still, 1972.
Numéro deux (Numero due), 1975.
Ici et ailleurs, 1975.
Comment ça va?, 1976.
Sauve qui peut (la vie), (Si salvi chi può [la vita]), 1980.
“Passion”, le travail et l'amour. introduction à un scènario. Troisième état du scénario
du film “Passion”, 1981.
Passion, 1982.
Scénario du film “Passion”, 1982.
Prénom Carmen, 1983.
Je vous salue, Marie; 1984.
Détective (Detective), 1985.
271
Grendeur et décadence d'un petit commerce de cinéma,1986.
Soigne ta droite (Cura la tua destra), 1987.
King Lear (Re Lear), 1987.
On s'est tous defilé, 1988.
Puissance de la parole, 1988.
Historie(s) du cinéma, 1988-1998.
Nouvelle Vague, 1990.
Allemagne année 90 neuf zéro, 1992.
Hélas pour moi (Peggio per me), 1993.
Les enfants jouent à la Russie, 1993.
JLG/JLG. Autoportrait de décembre, 1994.
For Ever Mozart, 1996.
Éloge de l'amour, 2001.
Notre musique, 2004.
Film socialisme, 2010.
Adieu au langage (Addio al linguaggio), 2014.
272
FILMOGRAFIA
2/60 48 Köpfe auf dem Szondi Test, regia di Kurt Kren, 1960.
2001: A Space Odyssey (2001: Odissea nello spazio), regia di Staley Kubrick, 1968.
A Bigger Splash, regia di Jack Hazan, 1975.
A Clockwork Orange (Arancia meccanica, 1971), regia di Staley Kubrick, 1971.
A Movie, regia di Bruce Conner, 1958.
A Streetcar Named Desire (Un tram che si chiama desiderio), regia di Alex North, 1951.
Accattone, regia di Pier Paolo Pasolini, 1961.
Aleksandr Nevskij, regia di Sergej Michajlovič Ėjzenštejn, 1938.
Alien, regia di Ridley Scott, 1979.
Andrej Rublëv, regia di Andrej Arsen'evič Tarkovskij, 1966.
Anémic cinéma, regia di Marcel Duchamp, 1926.
Anticipation of the Night, regia di Stan Brakhage, 1958.
Barry Lyndon, regia di Staley Kubrick, 1975.
Bells of Atlantis, regia di Ian Hugo, 1952.
Blackmail (Ricatto), regia di Alfred Hitchcock, 1929.
Bronenosec Potëmkin (La corazzata Potёmkin), regia di Sergej Michajlovič Ėjzenštejn,
1926.
Cabiria, regia di Giovanni Pastrone, 1914.
Canon, regia di Norman McLaren, 1964.
Caravaggio, regia di Umberto Barbaro e Roberto Longhi, 1948.
Carpaccio, regia di Umberto Barbaro e Roberto Longhi, 1948.
Citizen Kane (Quarto potere), regia di Orson Welles, 1941.
Das Cabinet des Dr. Caligari (Il gabinetto del dottor Caligari), regia di Robert Wiene,
1919.
Deposizione di Raffaello , regia di Carlo Ludovico Ragghianti, 1948.
Deserto rosso, regia di Michelangelo Antonioni, 1964.
Dezertir (Il disertore), regia di Vsevolod Pudovkin, 1933.
Diagonal Symphonie, regia di Viking Eggeling, 1925.
Disque 927, regia di Germaine Dulac, 1928.
Dog Star Man, regia di Stan Brakhage, 1961.
Don Juan, regia di Alan Crosland, 1926.
Don't Come Knocking (Non bussare alla mia porta), regia di Wim Wenders, 2005.
Eclisse, regia di Michelangelo Antonioni, 1962.
El Dorado, regia di Marcel l'Herbier, 1921.
Emak Bakia, regia di Man Ray, 1926.
Empire, regia di Andy Warhol, 1965.
273
En mer par gros temps, regia di Auguste e Louis Lumière, 1895.
Entr'acte, regia di René Clair, 1924.
Etudes cinématographiques sur un arabesque, regia di Germaine Dulac, 1929.
F for Fake (F come Falso), regia di Orson Welles, 1975.
Fireworks, regia di Kenneth Anger del film, 1947.
Flesh of Morning, regia di Stan Brakhage, 1956.
Gattopardo, regia di Luchino Visconti, 1963.
Glens Falls Sequence, regia di Douglass Crockwell, 1946.
Gli ultimi giorni di Pompei, regia di Eleuterio Rodolfi, 1913.
Horizontal-vertical Orchestra, regia di Viking Eggeling, 1921.
Hôtel du Nord (Albergo Nord), regia di Marcel Carné, 1938.
Identificazione di una donna, regia di Michelangelo Antonioni, 1982.
Il Decameron, regia di Pierpaolo Pasolini, 1971.
Il dramma di Cristo/Giotto, regia di Luciano Emmer, 1948.
Il Gattopardo, regia di Luchino Visconti, 1963.
Il Trovatore, regia di Lamberto e Azeglio Pineschi, 1908.
Il vangelo secondo Matteo, regia di Pier Paolo Pasolini, 1964.
Ivan Groznyj (Ivan il Terribile), regia di Sergej Michajlovič Ėjzenštejn., 1944.
Ivan Groznyj II: Bojarskij zagovor (La congiura dei boiardi) regia di Sergej
Michajlovič Ėjzenštejn, 1944.
Journal d'un curé de campagne (Diario di un curato di campagna), regia di Robert
Bresson, 1951.
Jules et Jim (Jules e Jim), regia di François Truffaut, 1961.
Kameradschaft (La tragedia della miniera), regia di Georg Wilhelm Pabst, 1931.
King Kong, regia di Ernest Beaumont Schoedsack, 1933.
Kiss, regia di Andy Warhol, 1963.
L'âge d'or, regia di Luis Buñuel e Salvador Dalí, 1930.
L'arrivée d'un train à la gare de La Ciotat (L'arrivo di un treno alla stazione di La
Ciotat), regia di Auguste e Louis Lumière, 1895.
L'Atalante, regia di Jean Vigo, 1934.
L'étoile de mer, regia di Man Ray, 1929.
L'Hypothèse du tableau volé, regia di Raúl Ruiz, 1978.
L’assassinat du duc de Guise, regia di André Le Bargy e Charles Calmettes, 1908.
La canzone dell'amore, regia di Gennaro Righelli, 1930.
La Déesse (La dea), regia di Satyajit Ray, 1960.
La démolition d'un mur (Demolizione di un muro), regia di Auguste e Louis Lumière,
1895.
La grève (Lo sciopero), regia di Ferdinand Zecca, 1903.
La Kermesse héroïque (La kermesse eroica), regia di Jacques Feyder, 1935.
274
La leggenda di S.Orsola, regia di Luciano Emmer, 1948.
La ricotta, episodio di RoGoPaG, regia di Pier Paolo Pasolini, 1963.
La roue (La rosa sulle rotaie), regia di Abel Gance, 1922.
La terra trema, regia di Luchino Visconti, 1948.
Le ballet mécanique, regia di Fernand Léger, 1924.
Le cocu magnifique (Il magnifico cornuto) regia di Fernand Crommelynck, 1922.
Le Dernier métro (L'ultimo metrò), regia di François Truffaut, 1980.
Le dernier milliardaire (L'ultimo miliardario), regia di Renè Clair, 1933.
Le jour se lève (Alba tragica), regia di Marcel Carné, 1939.
Le mystère Picasso (Il mistero di Picasso), regia di Henti-Georges Clouzot, 1955.
Le Quai des brumes (Il porto delle nebbie), regia di Marcel Carné, 1938.
Le sang d'un poète, regia di Jean Cocteau, 1930.
Le silence de la mer (Il silenzio del mare), regia di Jean-Pierre Melville, 1949.
Les misérables (I miserabili), regia di Albert Capellani, 1912.
Les Quatre cents coups (I quattrocento colpi), regia di François Truffaut, 1959.
Les victimes de l'alcoolisme (Le vittime dell'alcolismo), regia di Ferdinand Zecca, 1902.
Lettre de Sibérie, regia di Chris Marker, 1957.
Life Lessons (Lezioni dal vero), episodio di New York Stories, regia di Martin Scorsese,
1989.
Loving, regia di Stan Brakhage, 1956.
Lust for Life (Brama di vivere), regia di Vincente Minnelli, 1956.
Mamma Roma, regia di Pier Paolo Pasolini, 1962.
Mothlight, regia di Stan Brakhage, 1963.
Napoléon (Napoleone), regia di Abel Gance, 1927.
Neighbours, regia di Norman McLaren, 1952.
Nightcats, regia di Stan Brakhage, 1956.
No. 1 (A Strange Dream), regia di Harry Smith, ca. 1946-48.
Non c'è pace fra gli ulivi, regia di Giuseppe De Santis, 1950.
Nosferatu - Eine Symphonie des Grauens (Nosferatu il vampiro), regia di Friedrich
Wilhelm Murnau, 1922.
Nosferatu: Phantom der Nacht (Nosferatu, il principe della notte), regia di Werner
Herzog, 1979.
Novecento, regia di Bernardo Bertolucci, 1976.
Novyj Vavilon (La nuova Babilonia), regia di Grigorij Kozincev e Leonid Trauberg,
1929.
Oktjabr (Ottobre), regia di Sergej Michajlovič Ėjzenštejn, 1928.
Olympia, regia di Leni Riefenstahl, 1938.
Opus I, regia di Walter Ruttmann, 1921.
Ossessione, regia di Luchino Visconti, 1943.
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Planet of the Apes (Il pianeta delle scimmie), regia di Franklin Schaffner, 1968.
Professione: reporter, regia di Michelangelo Antonioni, 1975.
Psyco, regia di Alfred Hitchock, 1961.
Pull My Daisy, regia di Alfred Leslie e Robert Frank, 1959.
Quatorze juillet (Per le vie di Parigi), regia di Renè Clair, 1934.
Quo vadis?, regia di Enrico Guazzoni, 1913.
Recreation, regia di Robert Breer, 1956.
Retour à la raison, regia di Man Ray, 1923.
Rhythmus 21, regia di Hans Richter, 1921.
Richard Wagner, regia di Carl Froelich, 1913.
Riso amaro, regia di Giuseppe De Santis, 1949.
Salò o le 120 giornate di Sodoma, regia di Pier Paolo Pasolini, 1975.
Senso, regia di Luchino Visconti, 1954.
She Wore a Yellow Ribbon (I cavalieri del Nord-Ovest), regia di John Ford, 1949.
Sleep, regia di Andy Warhol, 1964.
Stomboli - Terra di Dio, regia di Roberto Rossellini, 1950.
Street Scene (Scena di strada), regia di King Vidor, 1931.
Sweet Smell of Success (Piombo rovente) regia di Elmer Bernstein, 1957.
Teorema, regia di Pier Paolo Pasolini, 1968.
Thaïs, regia di Anton Giulio Bragaglia, 1917.
The April Fools (Sento che mi sta succedendo qualcosa), regia di Stuart Rosenberg,
1969.
The Birth of Nation (La nascita di una nazione), regia di David Wark Griffith, 1914.
The Good, the Bad & the Ugly (Il buono, il brutto e il cattivo), regia di Sergio Leone,
1966.
The Great Train Robbery (La grande rapina al treno), regia di Edwin Porter, 1903.
The Jazz Singer (Il cantante di jazz), regia di Alan Crosland, 1927.
The King of Kings (Il Re dei Re) regia di Cecil Blount De Mille, 1927.
The Long Bodies, regia di Douglass Crockwell, 1947.
The Lost Patrol (La pattuglia sperduta), regia di John Ford, 1934.
The Magnificent Seven (I magnifici sette), regia di John Sturges, 1960.
The man with the golden arm (L'uomo dal braccio d'oro), regia di Otto Preminger,
1955.
Thèmes et variations, regia di Germaine Dulac, 1928.
Triumph des Willens (Il trionfo della volontà), regia di Leni Riefenstahl, 1935.
Uccellacci e uccellini, regia di Pier Paolo Pasolini, 1966.
Ultimo tango a Parigi, regia di Bernardo Bertolucci, 1972.
Un chien andalou (Un cane andaluso), regia di Luis Buñuel e Salvador Dalí, 1929.
Uncle Tom's cabin (La capanna dello zio Tom), regia di Edwin Porter, 1903.
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Van Gogh, regia di Alain Resnais, 1948.
Vincent & Théo, regia di Robert Altman, 1990.
Vita fururista, regia di Arnaldo Ginna, 1916.
Wavelenght, regia di Michael Snow, 1967.
Zéro de conduite (Zero in condotta), regia di Jean Vigo, 1933.
277
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