Corso di Laurea magistrale (ordinamento ex D.M. 270/2004) in Economia e Gestione delle Arti e delle attività culturali Tesi di Laurea Godard e le altre arti: pittura, musica e letteratura tra Passion e Hélas pour moi Relatore Ch.ma Prof.ssa Valentina Carla Re Correlatore Ch.ma Prof.ssa Stefania Portinari Laureando Diana Florian Matricola 845086 Anno Accademico 2013 / 2014 “L'arte ci attrae solo per ciò che rivela del nostro io più intimo”. Jean-Luc Godard INDICE INTRODUZIONE p.4 1. JEAN-LUC GODARD TRA VITA E CINEMA 1.1 I periodi di Jean-Luc Godard p.8 p.13 p.25 2. CINEMA E PITTURA: PASSION 2.1 Una classificazione della pittura nel cinema p.27 2.2 Cinema e pittura tra teorie e pratiche p.29 2.3 La pittura nella storia del cinema p.35 2.3.1 Cinema muto p.35 2.3.2 Cinema d'avanguardia p.38 2.3.3 Futurismo p.39 2.3.4 Dadaismo p.41 2.3.5 Surrealismo p.43 2.3.6 Espressionismo tedesco p.45 2.3.7 Cubismo p.47 2.3.8 Avanguardie sovietiche p.48 2.3.9 Cinema sperimentale e cinema d'artista p.52 2.3.10 Modelli pittorici nel cinema d'autore p.59 2.4 Godard pittore p.68 2.4.1 La citazione pittorica nella filmografia di Godard 2.5 Passion p.71 p.79 2.5.1 Sinossi p.79 2.5.2 Analisi p.80 2.5.3 “Passion”, le travail et l'amour. Introduction à un scènario. Troisième état du scénario du film “Passion” p.87 2.5.4 Scénario du film Passion p.89 Apparato iconografico p.94 1 3. CINEMA E MUSICA: PRÉNOM CARMEN p.102 3.1 Le tipologie della musica da film p.102 3.2 Teorie e critica della musica per il cinema p.105 3.3 Cinema e musica: una visione storica p.115 3.3.1 Cinema muto p.115 3.3.2 Avanguardie storiche p.122 3.3.3 Futurismo p.123 3.3.4 Dadaismo p.124 3.3.5 Espressionismo tedesco p.127 3.3.6 Cubismo p.128 3.3.7 Avanguardie sovietiche p.130 3.3.8 Oltre il cinema d'avanguardia p.133 3.3.9 L'avvento del sonoro p.136 3.3.10 Gli stati Uniti: Hollywood p.138 3.3.11 Europa p.146 3.4 Godard e la musica: compositore di cinema p.160 3.5 Prénom Carmen p.169 3.5.1 Sinossi p.170 3.5.2 Analisi: l'origine è Passion p.172 3.5.3 Analisi di Prénom Carmen p.178 Apparato iconografico P.184 4. CINEMA E LETTERATURA: HÉLAS POUR MOI p.188 4.1 Analogie e differenze tra cinema e letteratura p.188 4.2 Le teorie p.192 4.3 Letteratura e cinema: una visione storica p.199 4.3.1 Cinema muto p.201 4.3.2 Avanguardie storiche p.206 4.3.3 Futurismo p.207 4.3.4 Espressionismo tedesco p.208 4.3.5 Dadaismo p.209 4.3.6 Surrealismo p.212 2 4.3.7 Cinema puro p.213 4.3.8 Il cinema d'autore in Italia e in Francia p.214 4.4 La citazione letteraria p.223 4.5 Godard poeta p.227 4.5.1 Le citazioni letterarie nella filmografia di Godard p.236 4.6 Hélas pour moi p.246 4.6.1 Sinossi p.247 4.6.2 Analisi p.248 4.6.3 Passion, Prénom Carmen, Hélas pour moi: la loro storia p.257 Apparato iconografico p.260 BIBLIOGRAFIA p.263 RISORSE ONLINE p.270 FILMOGRAFIA DI JEAN-LUC GODARD p.271 FILMOGRAFIA p.273 3 INTRODUZIONE Quando guardai per la prima volta il film d'esordio di Jean-Luc Godard, À bout de souffle (Fino all'ultimo respiro, 1959), la sensazione provocatami fu di immenso stupore: mentre le immagini scorrevano mi accorgevo di riconoscere tra i dialoghi una frase di William Faulkner, una riproduzione di Pierre-Auguste Renoir (ritratto di Irene Cahen d'Anvers), una melodia di Mozart e l'attore Humprey Borgart, immortalato in una locandina di un suo film. Dopo la visione di À bout de souffle, il mio interesse per Jean-Luc Godard si diresse verso il suo ampio lavoro cinematografico, attività strettamente legata alla sua vita privata e alle sue passioni. La personalità di cineasta, di critico e di uomo versatile e dotto, conoscitore di diverse arti, si esprime attraverso l'uso della citazione, poiché secondo Godard: «tutto in un film è citazione, non solo le frasi»1. Il lavoro che segue nasce perciò dall'interesse verso le innumerevoli citazioni presenti nei film di Godard. Personalmente, trovo affascinante l'uso che il regista fa della citazione, poiché egli inserisce elementi che sono allo stesso tempo personali, in quanto rispecchiano le sue passioni letterarie, musicali e pittoriche, e collettivi, in quanto lo spettatore mediante le proprie conoscenze e il proprio bagaglio culturale è in grado di cogliere tali citazioni. Queste citazioni non influenzano l'apparato narrativo, ma appaiono come una bella cornice ad un'opera altrettanto bella, la quale se non avesse tale cornice, forse, non apparirebbe allo stesso modo agli occhi di chi la osserva. Nelle pagine che seguono si tratterà del rapporto tra il cinema godardiano e le tre arti principali, dalle quali il regista attinge per le proprie citazioni: la pittura, la musica e la letteratura. In base a queste tre arti sono stati scelti tre film che, a mio parere, esprimono la concezione, e talvolta il punto d'arrivo, del rapporto tra Godard e le arti, questi film sono rispettivamente: Passion, Prénom Carmen e Hélas pour moi. Le tre pellicole scelte si collocano cronologicamente nel terzo periodo dell'autore (1975-), precisamente nel decennio tra i primi anni Ottanta e i primi anni Novanta. Questi anni, dal mio punto di vista, coincidono con un uso della citazione che diviene una sorta di 1 Intervista a “Le Figaro”, 30 agosto 1993; qui citato in Passion Godard. Il cinema (non) è il cinema, Turigliatto Roberto (a cura di), Il Castoro, Milano 2011, p.24. 4 pura essenza, ovvero la sostanza primaria dell'opera cinematografica, in quanto la citazione è ricercata e minuziosamente assemblata all'interno dei film. In seguito alla presentazione di una breve biografia dell'autore, indispensabile per una corretta comprensione della sua poetica, il presente elaborato verterà sull'analisi dei film Passion, Prénom Carmen e Hélas pour moi e sull'uso della citazione che Godard vi compie. I tre capitoli dedicati alle pellicole e alle rispettive arti sono introdotti da una breve trattazione, che analizza il rapporto tra il cinema e la pittura, la musica e la letteratura. La trattazione appare indispensabile in direzione di un’approfondita comprensione del rapporto che lega le varie arti e di come queste abbiano sempre influenzato il cinema e gli autori di cinema. Il suddetto campo di indagine è assai ampio e per tale motivo si seguirà un percorso generale del legame tra il cinema e l'arte corrispondente, sia dal punto di vista teorico, sia da quello storico-cronologico. Si approderà poi alla filmografia di Jean-Luc Godard, al suo rapporto con le arti ed infine si analizzerà l'opera cinematografica. Con Passion, Jean-Luc Godard si fa pittore: se nei film degli anni Sessanta il cineasta si limitava ad inserire immagini pittoriche nei propri film, con Passion (1982) decide di ricostruire opere d'arte attraverso splendidi tableaux vivants. La differenza nell'uso della citazione pittorica tra il primo periodo dell'autore (1960-1967) e il terzo periodo viene esemplificata con una breve analisi di Pierrot le fou (1965), film in cui il colore viene sapientemente utilizzato per esprimere le vicende dei personaggi e i loro stati d'animo, mentre la pittura viene citata attraverso libri, riproduzioni di opere e associazioni con i personaggi. Al contrario, con Passion Godard cita esplicitamente le opere d'arte, non filma le riproduzioni ma la loro riproduzione e trasforma la citazione pittorica in protagonista indiscussa del film. La storia, o meglio le storie, del film accompagnano i tableaux vivants e le tematiche su cui verte la pellicola: la luce, unico mezzo in grado di riprodurre le opere viventi; la vita di cinema e in fabbrica; infine l'arte sublime classica dei dipinti più celebri di Delacroix, Watteau, Ingres, Goya, El Greco, Rembrandt. Se in Passion sono i tableaux vivants ad essere i protagonisti del film, con 5 Prénom Carmen (1983) Godard dedica l'intera opera alla musica, precisamente ai Quartetti di Beethoven. Nelle opere degli anni Sessanta Godard si concentra sul suono, più che con la musica in sé, secondo quel lavoro di rinnovamento dell’immagine che stava realizzando attraverso il montaggio. La maggior parte dei film di questi anni sono accompagnati da musiche appositamente create, ma che il cineasta taglia, sposta e assembla con brani di musica classica e non solo. La purezza della citazione musicale avviene, a mio parere, con Prénom Carmen, la cui colonna sonora è composta unicamente dai Quartetti di Beethoven, che accompagnano l'intera vicenda, anch'essa incentrata, come in Passion, tra vita e arte, tra il lavoro e la purezza. Infine, nei film godardiani vi è la citazione letteraria tramite titoli di libri, frasi di romanzi, che possono essere iscritte nell'immagine filmica o pronunciate direttamente dai personaggi. Le citazioni letterarie sono per Godard un omaggio a poeti e scrittori da lui amati e l'elogio che compie con Hélas pour moi (1993) è grandioso: i dialoghi sono pura letteratura, ogni battuta è composta da frasi di libri e poesie che Godard mescola, taglia e riscrive al punto che, talvolta, non si riconoscono neppure le fonti. Questo è inoltre un film la cui vicenda è tratta liberamente dalla Storia del genere umano del poeta Giacomo Leopardi e da Amphiytrion 38 di Jean Giroudoux. Godard perciò non scrive i dialoghi e neppure la trama, ma piuttosto modella le fonti letterarie su di essi. In Passion, Prénom Carmen e Hélas pour moi, le citazioni si presentano, a mio parere, come il più meraviglioso omaggio che il cineasta potesse fare alle arti, poiché egli sembra costruire le sue opere cinematografiche su di esse, sulle loro specificità. Il fil rouge che accomuna i tre film in questione, oltre all'utilizzo supremo della citazione, è il ruolo della storia, che a mio parere deve essere osservata non in senso narrativo, come elemento proprio del film, ma in senso personale, come elemento proprio dell'autore. Analizzando le tre pellicole ho potuto notare come esse siano caratterizzate dalla ricerca comune di una storia da parte dei rispettivi protagonisti, storia che probabilmente ricerca anche lo stesso Godard mentre realizza i suoi film. Per questo ogni film ha al suo interno un alter-ego del regista, Jerzy in Passion, lo zio Jean (interpretato dallo stesso Jean-Luc Godard) in Prénom Carmen, l'editore Klimt in Hélas 6 pour moi; personaggi che hanno un obiettivo in comune: cercare di realizzare una storia, vera o fasulla che sia. Dunque, nelle analisi dei film, la trattazione verterà anche sul ruolo della storia e su come essa viene messa in relazione con i temi fondanti del film e, talvolta, con le stesse citazioni. Gli omaggi sublimi e la ricerca di una storia diventano in Godard una sorta di ossessione, magnifica direi, che dà vita alle tre opere, in cui i protagonisti del film sono la pittura, la musica, la letteratura e, naturalmente, il cinema. 7 CAPITOLO I JEAN-LUC GODARD TRA VITA E CINEMA Rimpiango l'epoca della Nouvelle Vague, quando non avevamo nessuna paura […]. Mi rendo conto di osare meno, ciò mi preoccupa, e mi dico che si deve osare... Ma bisogna essere in tanti: durante la Nouvelle Vague avevamo una forza terribile, eravamo tre o quattro, ma comunicavamo in continuazione […]. Quando finivo di scrivere un articolo per i “Cahiers”, lo mostravo a Rohmer e se mi diceva che andava bene ero più contento che se oggi mi dicessero di aver fatto trecentomila spettatori. Avevamo una forza straordinaria, che ho perso, come una stella che si raffredda.2 Così Jean-Luc Godard, in una conferenza del 1989, descrive il suo operato durante gli anni della Nouvelle Vague3, affermando di aver oggi perduto quell'intensità di quegli anni, in cui l'interazione con gli amici e colleghi dei “Cahiers” consentiva di dire e fare senza timore, di sperimentare nuovi linguaggi, «un'originalità come quella che avevamo noi non si è più vista in seguito»4 disse Godard. La condivisione era l'aspetto che caratterizzava gli anni della Nouvelle Vague, difatti la critica e la pratica filmica erano oggetti di condivisione tra i teorici e tra i cineasti che non temevano di osare e di sperimentare. In questi anni, quando Godard tratta il tema della Nouvelle Vague fa soprattutto riferimento al periodo in cui i jeunes turcs, i “giovani turchi”, non sono ancora divenuti registi, si riferisce all'attività critica e a quella di cinéphiles della Cinémathèque Française di Henri Langlois5, in cui si ritrovano i giovanissimi François Truffaut, Jean2 3 4 5 Godard Jean-Luc, Le montagne, la solitude, la liberté in Jean-Luc Godard par Jean-Luc Godard (a cura di) Bergala Alan, Cahiers du cinéma, Editions de l'Etoile, Paris 1998, vol. II; trad. it. Due o tre cose che so di me, Mininimum Fax, Roma 2007, p.239 (estratto dalla conferenza tenuta alla FEMIS il 26 aprile 1989). L'espressione “Nouvelle Vague”, che rimanda ad un momento particolare della storia del cinema francese, compare sulla stampa a partire dal febbraio-marzo 1959 accompagnando l'uscita commerciale dei film Le beau e Les Cousins di Claude Chabrol, Les Quatre cents coups di François Truffaut e Hiroshima mon amour di Alain Resnais. L'arte a partire dalla vita, intervista di Alain Bergala, 12 marzo 1985, qui citato in Godard Jean-Luc, Due o tre cose che so di me. Scritti e conversazioni sul cinema, a cura di Orazio Leogrande, Minimum Fax, Roma 2007, p.20. Fondata nel 1934 da Henri Langlois e Georges Franju, nella Cinémathèque venivano proiettati non solo i film classici ma anche quelli censurati dall'industria, definiti da Jean Cocteau “film maledetti”, in quanto erano film che si ponevano contro i dogmi e le regole del cinema tradizionale (ad esempio le pellicole di Jean Renoir, Roberto Rossellini, Jacques Becker, Alfred Hitchcock, Howard Hawks, Fritz Lang, Anthony Mann, Jean Renoir, e Max Ophüls). 8 Luc Godard, Jacques Rivette, Claude Chabrol e Eric Rohmer. Essi difatti prima di essere registi sono innanzitutto dei cinefili, conoscono la storia del cinema e in quanto tale discutono e giudicano le scelte estetiche e tecniche del cinema tradizionale6. Ma dal fare della critica tra amici al fare della critica con carta e penna non passa poi molto tempo e a partire dal 1951 i cinque amici diventano collaboratori della rivista cinematografica “Cahiers du cinéma”7. La critica dei “Cahiers” degli anni Cinquanta si basava sul concetto di mostrare e dimostrare fino al punto che si riesca poi a comprendere e a valutare 8; per Godard questo è l'obiettivo primo del cinema al punto che il cineasta afferma, in un'intervista del 1962, che fare critica sulla rivista di Bazin o Doniol-Valcroze era la medesima cosa che girare un film: «Tutti, ai “Cahiers”, ci consideravamo futuri registi. Frequentare i cineclub e la Cinemathèque era già pensare cinema e pensare al cinema. Scrivere era già fare cinema, perché tra scrivere e girare c'è una differenza quantitativa, non qualitativa»9. Dunque la Nouvelle Vague è per Godard essenzialmente un tempo della critica, in cui pure è già iscritto un tempo del cinema 10, in quanto esiste una continuità tra la pratica cinematografica e quella letteraria. Questa continuità esplode tra il 1958 e il 1959, anni in cui quel gruppo circoscritto di critici composto da François Truffaut, JeanLuc Godard, Claude Chabrol, Jacques Rivette ed Eric Rohmer si trasforma in un gruppo di cineasti, il cui lavoro contribuì a definire la corrente cinematografica della Nouvelle Vague. Secondo Michel Marie tale gruppo di cineasti può essere raggruppato sotto una vera e propria scuola artistica11, mentre Jean-Luc Godard ritiene che sia il gruppo stesso l'essenza della corrente, «il gruppo dei “Cahiers” è tutto» 12. In qualunque modo si veda la corrente è André Bazin che segna profondamente questo cinema attraverso le sue 6 7 8 Definito ironicamente dai giovani cinefili il “cinema di papà”. La rivista “Cahiers du Cinéma” è stata fondata nel 1951 da André Bazin e Jacques Doniol-Valcroze. Secondo Venzi Luca (a cura di), Nouvelle Vague: forme, motivi, questioni, Ente dello spettacolo, Roma 2011, p.11. 9 Intervista rilasciata nella rivista “Cahiers du Cinéma”, 138, 1962. Qui citato in Michel Marie, La Nouvelle Vague, Lindau, Torino 1998, pp.35-36. 10 Venzi Luca (a cura di), Nouvelle Vague: forme, motivi, questioni, Ente dello spettacolo, Roma, 2011, p.11. 11 Michel Marie, La Nouvelle Vague, Lindau, Torino 1998, p.35-57. 12 Trois entretiens. Jean-Luc Godard, in “Cahiers du cinéma”, 138, 1962, qui citato in Venzi Luca (a cura di), Nouvelle Vague: forme, motivi, questioni, Ente dello spettacolo, Roma 2011, p.16. 9 teorie13. Fondamentale è la riflessione sul rapporto tra realtà e immagine filmica: quest'ultima è sia documentaria che finzionale allo stesso tempo. «Essa è un atto di trascrizione automatica di un dato sensibile colto nel suo durare e, allo stesso tempo, l'espressione visibile della sua elaborazione formativa» 14, e la ripresa è il luogo dove la duplicità dell'immagine filmica si esprime. Il cinema perciò si trova tra la realtà (un dato sensibile) e l'immaginario (l'espressione visibile della sua elaborazione formativa) e tra registi che perseguono il concetto di realtà e quelli che invece sostengono l'immagine e l'immaginario. Bazin riconosce questo suo concetto del rapporto tra realtà e immagine nell'estetica del neorealismo italiano, in quanto la “corrente” ha costituito un'evoluzione del linguaggio cinematografico, rompendo con gli aspetti stilistici del cinema classico e con il procedimento tradizionale narrativo, per porre in evidenza la realtà che diventa forma nell'immagine cinematografica. Bazin afferma questo suo pensiero con il film neorealista Ladri di biciclette (regia di Vittorio De Sica, 1947) ritenendolo «uno dei primi esempi di cinema puro, niente più attori, niente più storia, niente più messa in scena, cioè, finalmente, nell'illusione estetica perfetta della realtà: niente più cinema»15. A partire dal concetto baziniano di realtà e immagine, Jean-Luc Godard esplica la sua opinione di immagine finzionale e documentaria sostenendo: «In linea generale, il reportage è interessante solo se si inserisce nella finzione, ma la finzione è interessante solo se si verifica nel documentario. La Nouvelle Vague, appunto, è caratterizzata in parte proprio da questo nuovo rapporto tra la finzione e la realtà»16. Così i cineasti della “nuova ondata” attingono alla realtà nelle istanze tecnicoformali esibite (dal rumore della macchina fino alla ripresa di veri passanti sulle strade di Parigi che divengono comparse all'interno del film) e in quelle compositive-figurative derivate (ad esempio l'uso della citazione e il richiamo extratestuale), che assumono un proprio spessore in quanto ricondotte alla personalità di ogni singolo autore. Di matrice baziniana è anche la politica degli autori, in cui l'opera cinematografica viene 13 I suoi scritti sono stati raccolti in quattro volumi (postumi alla morte avvenuta nel 1958) dal titolo Qu'est-ce que le cinéma?, Éditions du Cerf, Parigi, pubblicati tra il 1958 e il 1962. In Italia è stata pubblicata una traduzione parziale: Aprà Adriano (a cura di), Che cosa è il cinema?, Garzanti, Milano 1973. 14 Venzi Luca (a cura di), Nouvelle Vague: forme, motivi, questioni, Ente dello spettacolo, Roma 2011, p.19. 15 Bazin André, Che cosa è il cinema?, Garzanti, Milano 1986, p.318. 16 Trois entretiens. Jean-Luc Godard, in “Cahiers du cinéma”, 138, 1962, qui citato in Venzi Luca (a cura di), Nouvelle Vague: forme, motivi, questioni, Ente dello spettacolo, Roma 2011, p.24. 10 considerata come espressione della personalità del regista, il quale trasmette la propria visione del mondo in piena libertà espressiva; la sceneggiatura, perciò, appare secondaria rispetto alla regia, la mise en scène, da cui si colgono le peculiarità del suo autore. Di conseguenza, i critici dei “Cahiers” si oppongono al linguaggio cinematografico codificato, sopratutto quello hollywoodiano17, e ai vincoli imposti dal cinema industriale e commerciale per esaltare uno stile personale del regista, che si impegna a perseguire l'estetica del reale. Prima della teoria di André Bazin, fu Alexandre Astruc, nel 1948, in un saggiomanifesto Naissance d'une nouvelle avant-garde: la caméra-stylo18 a sostenere l'idea che il cinema potesse diventare mezzo di espressione personale del regista, tanto quanto lo è una penna (stylo) per uno scrittore: «il cinema sta divenendo un mezzo d'espressione, ciò che sono state tutte le arti prima di esso, in particolare la pittura e il romanzo. Diventa a poco a poco un linguaggio, cioè una forma attraverso la quale un artista può esprimere il suo pensiero, quanto astratto possa essere, o tradurre le sue ossessioni esattamente come avviene nel campo del saggio o del romanzo»19. Forse è la ricerca di uno stile personale che non ha permesso di far diventare la Nouvelle Vague un movimento compatto, difatti le diverse direzioni prese negli anni Sessanta dai suoi esponenti inducono semmai a vederla come una breve alleanza di temperamenti differenti20. La “nuova ondata” giunse all'apice del suo successo tra il 1958 e il 1962, anni nei quali i cineasti aderenti alla corrente vengono accomunati dalla medesima concezione di un cinema che, come disse Godard, doveva saper catturare la bellezza dello «splendore del vero»21. I cineasti della Nouvelle Vague sono agevolati nella ricerca del loro fine anche dalla nuova strumentazione cinematografica, introdotta fra il 1958 e il 1960, che concilia le scelte estetiche della Nouvelle Vague: difatti la macchina da presa diventa più leggera e compatta, permettendo ai cineasti di poter filmare per strada o all'interno degli appartamenti parigini, offrendo la possibilità di 17 I critici dei “Cahiers” sostengono che anche nel cinema hollywoodiano ci siano dei cineasti che possono essere consideri degli autori, ad esempio Godard dedica alcuni suoi scritti ai registi Nicholas Ray, Frank Tashlin, Joseph Mankiewicz e Stanley Donen. 18 Pubblicato nella rivista “L'Ecran Français”. 19 Citato in Renzo Gilodi, Nouvelle vague: il cinema, la vita, Effatà Editrice, Torino 2007, p.65. 20 Secondo Bordwell David, Thompson Kristin, Storia del cinema e dei film. Dal dopoguerra a oggi. Editrice Il Castoro, Milano 2003, p.196. 21 Citato in Farassino Alberto, Jean-Luc Godard, Il Castoro, Milano 2007, p.21. 11 registrare dialoghi in presa diretta ed inserire i rumori dell'ambiente nella colonna sonora22. Le pellicole utilizzate sono ultrasensibili in quanto i cineasti prediligono una luce naturale e, quando sono necessarie luci artificiali, scelgono di impiegare le photo floods, lampade a luce diffusa che possono essere trasportate anche in interni reali e regolate durante le riprese. I cineasti poi privilegiano attori non professionisti o esordienti, i cui dialoghi non vengono prestabiliti per abbandonare la recitazione all'improvvisazione, che conduce ad una maggiore libertà d'espressione sia per il regista che per gli attori; l'autore-regista compone la sua troupe di poche persone e realizza i film con un piccolo budget o autoprodotti in modo da conservare la creatività autoriale. L'atto decisivo della Nouvelle Vague è la riscoperta degli ambienti e dei luoghi reali inevitabilmente legati agli autori, accentuando così la forte dimensione autobiografica delle opere. I film della Nouvelle Vague sono incentrati sulla vita professionale urbana, mostrano le mode del momento, le auto sportive, i party notturni e i caffè con l'immediatezza del cinema diretto. «Difatti i cineasti mirano a eliminare le frontiere tra cinema professionale e amatoriale, così come quelle tra film di finzione e film documentario»23. Analizziamo ora l'estetica e la tecnica della Nouvelle Vague attraverso una breve analisi di À bout de souffle (Fino all'ultimo respiro, 1959), primo lungometraggio di Jean-Luc Godard e film-manifesto della corrente24. Godard porta la cinepresa in strada per mostrare la Parigi degli Champs-Élysées, i cinema e i suoi caffè, gli alberghi per turisti (Hôtel de Suède) in un'immagine che sembra celebrare la capitale francese. Godard porta in scena la realtà e la quotidianità anche nei dialoghi, ad esempio a Michel (Jean-Paul Belmondo) è permesso di dire tutto: lo sentiamo canticchiare un motivo alla radio, lo ascoltiamo insultare le autostoppiste o chiedere a Patricia (Jean Seberg) perché non porta il reggiseno, infine a Michel è permesso anche di parlare allo spettatore e con sguardo in macchina annuncia la finzione del cinema. 22 I primi film erano però postsincronizzati a causa degli elevati costi che gli autori della Nouvelle Vague non potevano permettersi. Nei primi anni sessanta la sincronizzazione tra suono e immagine si realizza grazie al nuovo magnetofono Nagra. È Godard in Une femme est une femme (1961) a realizzare il primo film con suono in presa diretta della corrente. Il perfezionamento tecnico giungerà alla fine degli anni Sessanta con la cinepresa Arriflex, con il suono in presa diretta. 23 Michel Marie, La Nouvelle Vague, Lindau, Torino 1998, p.82. 24 Gli altri film manifesto secondo Bordwell David, Thompson Kristin, Storia del cinema e dei film. Dal dopoguerra a oggi. Editrice Il Castoro, Milano 2003, p.195, sono: Le beau e Les Cousins di Claude Chabrol, Les Quatre cents coups di François Truffaut. 12 Nel film il cineasta distrugge ogni regola del montaggio classico: «privilegia un montaggio sincopato tanto nelle sequenze di azione (la fuga in auto all'inizio del film) quanto nei momenti di dialogo (quando Michel parla alla nuca di Patricia durante il loro percorso in auto), […] opta in certi momenti per il piano-sequenza rettilineo (l'incontro sugli Champs-Élysées) o circolare (la discussione finale nell'appartamento di rue Campagne Première)»25, utilizza i jump cut ovvero tagli di alcuni fotogrammi all'interno di una sequenza che provocano uno stile irregolare e fastidioso allo spettatore, infine dilata le sequenze fino a tre o quattro volte la sua durata tradizionale (il lungo dialogo iniziale tra Patricia e Michel nella camera d'albergo26). Il linguaggio è volutamente frammentario e discontinuo: Godard analizza il cinema e si scaglia contro il linguaggio e gli artifici del cinema classico per cercare una nuova forma di narrazione; ciò che Godard tenta di fare è spezzare l'incantesimo dello spettacolo cinematografico americano per porre lo spettatore in una posizione distaccata e critica davanti alla rappresentazione. Nei film della “nuova ondata”, la narrazione è organizzata su eventi casuali con frequenti digressioni e il finale è quasi sempre aperto, come quello di À bout de souffle, in cui emerge l'ambiguità dei sentimenti di Patricia nei confronti dell'amato Michel, che tradisce denunciandolo alla polizia. 1.1 I periodi di Jean-Luc Godard «Esiste il cinema prima di Godard e il cinema dopo Godard»27. Ad affermarlo è l'amico François Truffaut, ma vi è chiaramente un cinema prima di À bout de souffle e dopo À bout de souffle. Il film, oltre ad essere l'esordio ufficiale di Godard come regista e suo primo lungometraggio, può essere considerato l'origine, ovvero l'inizio, di un progetto personale e cinematografico dell'autore. Con i suoi raccordi di montaggio sconnessi, la novità linguistica e lo stile narrativo ellittico, À bout de souffle sembra aver creato una frattura che non è possibile collegare con il passato, una frattura che è un nuovo inizio per il cinema in generale e per quello godardiano in particolare. 25 Michel Marie, La Nouvelle Vague, Lindau, Torino, 1998, p.103. 26 La scena del dialogo dura 20 minuti. 27 Citato in Bordwell David, Thompson Kristin, Storia del cinema e dei film. Dal dopoguerra a oggi. Editrice Il Castoro, Milano 2003, p.198. 13 Il Godard cinefilo, assiduo frequentatore del cinema di Langlois, si avvicinò al cinema e a coloro che divennero con lui i rappresentanti della Nouvelle Vague circa alla fine degli anni Quaranta28. Il gruppo di amici si scambiano esperienze, si ritrovano tutti i giorni nei cinema e, alcuni di loro, iniziano a sperimentare con la cinepresa. Godard è giovanissimo, ha meno di vent'anni29, eppure ha una forte passione per il mondo del cinema. Prima di approdare ai “Cahiers”, Godard scrive a “La gazette du cinéma” 30 una quindicina di articoli sotto lo pseudonimo di Hans Lucas, ovvero Jean-Luc in lingua tedesca, recensendo film americani, sovietici e francesi. Nella rivista “Cahiers du cinéma” Godard scrive il suo primo articolo nel gennaio del 1952, recensendo un film di Rudolph Maté. La critica di questi anni non si limita a dare giudizi cinefili su film minori e sottovalutati, nei suoi scritti critici emergono anche le sue idee sul cinema, il quale «è uno sguardo a ogni istante talmente nuovo sulle cose da trafiggerle» 31. Godard crea frasi critiche che trasforma in creazioni di se stesse, in quanto il cineasta si riconosce in quella politica degli autori per cui anche le sue parole devono rientrare in una costanza di uno stile ed essere così riconoscibili. Fino al 1956 Godard non scriverà più, tra le varie vicende biografiche32 si inserisce una trasformazione culturale profonda nel cineasta. Egli ritornerà ai “Cahiers” nel 1957 per poi passare al settimanale “Arts”, ma la sua critica appare diversa e meno passionale. Godard difatti si sta concentrando su un altro tipo di lavoro, quello di fare film. Nel 1957 lavora come addetto stampa alla 20th Century Fox prendendo il posto lasciatogli da Claude Chabrol; in omaggio a Jean Cocteau nel 1958 produce Charlotte et son Jules e nello stesso anno Une historie d'eau, quest'ultimo nato dalla collaborazione con François Truffaut, il quale l'anno seguente gli 28 Truffaut afferma di aver conosciuto Godard nel 1948 alla Cinémathèque di Avenue de Messine e al cineclub del Quartiere Latino. Citato in Farassino Alberto, op.cit., p.17. 29 Jean-Luc Godard è nato a Parigi il 3 dicembre 1930 da una famiglia alto borghese originaria di Ginevra. Il padre, Paul Godard, è un medico mentre la madre, Odile Monod, appartiene ad una ricca famiglia di banchieri e di intellettuali. Godard frequenta le medie in Svizzera, il liceo a Parigi per poi iscriversi a etnologia alla Sorbona, percorso di studi che non verrà mai terminato. 30 Rivista fondata nel 1950 da Godard, Rivette e Rohmer; è stata pubblicata per cinque numeri tra il maggio e il novembre del 1950. 31 Citato in Farassino Alberto, Jean-Luc Godard, Il Castoro, Milano 2007, p.21. 32 Godard tra il 1952 e il 1954 torna in Svizzera per riottenere la cittadinanza e sottrarsi così al servizio militare in Francia, che avrebbe significato combattere nella guerra d'Algeria (1954-1962). Nel 1954 lavora come manovale nella costruzione della diga della Grande Dixence e allo stesso tempo gira un documentario, Opération béton, che verrà acquistata dall'azienda stessa. 14 offrirà la sua sceneggiatura per realizzare il primo lungometraggio di Godard, À bout de souffle, conosciuto in Italia con il titolo Fino all'ultimo respiro. Si apre così il primo periodo cinematografico dell'autore, il periodo più fecondo in cui realizza ventidue film in un arco di tempo che va dall'anno 1960 al 1967. Il lavoro godardiano in questo periodo risulta innovativo sia dal punto di vista tecnico, con l'uso di un montaggio sconnesso, rapido, sincopato con raccordi sbagliati, sbalzi di illuminazione tra un'inquadratura e l'altra causati da un'illuminazione quasi sempre naturale, attori che si rivolgono direttamente al pubblico con sguardi in macchina che stravolgono il senso narrativo tradizionale, sia dal punto di vista citazionale, con evidenti richiami alla cultura popolare, ai film e ai divi hollywoodiani degli anni Cinquanta. Fin dal suo primo cortometraggio, À bout de souffle (1959), Godard compie una serie di citazioni extratestuali: inserisce il poster del film di Humphrey Bogart, Il colosso di argilla, la cui espressione viene imitata dal protagonista Michel 33, mostra sale cinematografiche dove vengono proiettati Hiroshima mon amour di Resnais, Dieci secondi con il diavolo di Aldrich, L'oro della California di Boetticher e altri ancora; a queste vanno aggiunte le citazioni pittoriche (Picasso, Renoir), musicali (Bach, Mozart) e letterarie (Faulkner, Rilke, Cocteau, Aragon, Sachs). Questi campi citazionali caratterizzano tutto il primo periodo godardiano e ritorneranno nel terzo periodo (1975-) facendosi più frequenti e più marcati in ogni suo film. Nel film successivo, Le petit soldat (1960), Godard inizia a riflettere su un tema che diverrà costante negli anni successivi, la guerra, ma ne parla attraverso un evento attuale, la guerra d'Algeria; senza prendere posizioni politiche il cineasta adotta una prospettiva di distanza critica e storica, mostrando gli orrori delle torture 34. La tematica ritorna anche in Les Carabiniers (1963), in cui inserisce alcune scene di guerra tratte da immagini di repertorio di documentari per rimarcare il realismo ricercato anche in Le petit soldat35, Godard stesso afferma: «ho filmato la guerra in maniera oggettiva a tutti i livelli, compreso quello della coscienza. […] Fare un film utilizzando immagini di 33 Il gesto di accarezzarsi le labbra con il pollice come la figura di Bogart nel poster avviene più volte nel corso del film. 34 Per questo il film subirà la censura politica e verrà proiettato solo nel 1963. 35 «Volevo ottenere il realismo che mancava ad À bout de souffle, la concretezza» in Godard Jean-Luc, Il cinema è il cinema, Garzanti, Milano 1981, p.179. 15 repertorio non significa carpire la vita che dorme nei fortini delle cineteche, ma spogliare la realtà della sua apparenza ridandole l'aspetto grezzo in cui basta a se stessa»36. La spersonalizzazione dell'individuo nella società moderna viene analizzato da Godard attraverso la figura femminile. Il cineasta esamina la coscienza di essere donna in una società neo-capitalistica e consumistica soprattutto in Vivre sa vie (Questa è la mia vita, 1962) e in Deux ou trois chose que je sais d'elle (Due o tre cose che so di lei, 1967), in cui esplora la tematica della prostituzione e analizza le due figure alienate delle rispettive protagoniste. Il primo film appare come una sorta di documentario inchiesta sul problema della prostituzione37; nel secondo Godard esamina la prostituzione nella società dei consumi, difatti la donna decide di prostituirsi per permettersi il benessere del consumismo, dominante nella società degli anni Sessanta, ma allo stesso tempo analizza i cambiamenti che stanno avvenendo a Parigi, ovvero la lei (elle) del titolo del film, la quale si sta trasformando a seguito della risistemazione urbanistica che sta avvenendo in quegli anni. Allo stesso tempo, la prospettiva godardiana indaga ed analizza la società borghese e neo-capitalistica in Le Mépris (Il disprezzo, 1963) e in Une femme mariée (Una donna sposata, 1964), in cui mostra un sistema condizionato da falsi miti e valori, relazioni basate sulla dominazione e sulla forza, sullo sfruttamento ed il denaro. Godard analizza la società e i suoi cambiamenti, l'avanzare del potere dei media, della pubblicità e delle comunicazioni, che divengono mezzi di trasmissione di messaggi, di cultura e di conoscenze. Ad esempio, Une femme mariée narra la vita di una donna emancipata, sposata e con un amante, che lavora in una rivista femminile ma che si ritrova inconsciamente ad accettare i feticci di una società che annulla la sua persona e la sua personalità, investita dai continui richiami pubblicitari su riviste femminili, da prodotti di bellezza e dal sesso che diventa oggetto di consumo. In Le Mépris, film dal grande successo commerciale sia per la trasposizione dal libro omonimo di Moravia, sia per la presenza della diva Brigitte Bardot, sia per la citazione incarnata di Friz Lang che interpreta un regista (se stesso) 36 Fuoco su “Les Carabiniers”, “Cahiers du cinéma”, n.146, agosto 1963, qui citato in Godard JeanLuc, Due o tre cose che so di me. Scritti e conversazioni sul cinema, a cura di Orazio Leogrande, Minimum Fax, Roma 2007, pp.56-57. 37 Prende spunto da un'inchiesta giornalistica del 1959 (Où en est… la prostitution?) di Marcel Sacotte. 16 nelle riprese dell'Odissea. Godard analizza le «persone che si osservano e si giudicano, poi sono a loro volta osservate e giudicate dal cinema»38, ovvero il cineasta indaga i problemi di coppia dei protagonisti Paul e Camille sia dal loro punto di vista, che dal punto di vista del cinema, in questo caso incarnato dal personaggio di Friz Lang. Nei due lungometraggi del 1965, Alphaville, une étrange aventure de Lemmy Caution e Pierrot le fou (Il bandito delle ore undici), Godard studia l'universo dei suoni del linguaggio parlato. In Alphaville, film fantascientifico e noir, vi è il computer Alpha 60 che scandisce parole e cita poeti con una voce inumana e metallica e, in una Parigi futura, i personaggi non comprendono alcuni termini a noi comuni, ad esempio Natacha non conosce il significato di “amore” e “coscienza”, parole tratte da una poesia di Paul Éluard che le viene letta. In Pierrot le fou, Godard analizza il colore, la musica, la parola in una continua composizione e scomposizione delle forme del vocabolo (da un neon ad un'insegna); estrapola parole dal fumetto, dalla pubblicità ma il soggetto rimane anche in quest'ultimo film il cinema «e il suo modo di trattare le cose»39. Pierrot le fou può considerarsi il film-sintesi del primo periodo godardiano, caratterizzato da un linguaggio e da forme narrative libere, con espliciti riferimenti al contemporaneo, all'attualità, alla pubblicità, e al mondo del cinema, dell'arte e della letteratura, che si incrociano alla lettura della condizione moderna dei personaggi. Con il cortometraggio L'amour en l'an 2000, realizzato per il film ad episodi dal titolo L'amore attraverso i secoli, in cui Godard indaga (nuovamente) la tematica della prostituzione in una Parigi futurista, termina il primo periodo cinematografico godardiano, chiamato anche “Gli anni di Karina” 40 in riferimento alla prima moglie del regista, Anna Karina. L'attrice danese appare la prima volta come protagonista in un film di Godard nel 1960, Le petit soldat, nel quale probabilmente i due s'innamorano. L'anno successivo, appena concluse le riprese di Une femme est une femme (La donna è 38 Il disprezzo, “Cahiers du cinéma”, n.146, agosto 1963; qui citato in Godard Jean-Luc, Due o tre cose che so di me. Scritti e conversazioni sul cinema, a cura di Orazio Leogrande, Minimum Fax, Roma 2007, p.62. 39 L'arte a partire dalla vita, intervista di Alain Bergala, 12 marzo 1985, qui citato in Godard Jean-Luc, Due o tre cose che so di me. Scritti e conversazioni sul cinema, a cura di Orazio Leogrande, Minimum Fax, Roma 2007, p.22. 40 Definizione accettata dallo stesso Godard nella seconda edizione francese (1985) dell'antologia di scritti critici e interviste Jean-Luc Godard par Jean-Luc Godard, ed. Cahiers du cinéma; qui menzionato da Farassino Alberto, op.cit., p.98. 17 donna, 1961)41, in cui è ancora lei la protagonista, Godard sposa Anna 42, la coppia rimarrà sposata fino al 1968, anni nel corso dei i quali Anna Karina interpreta la protagonista femminile di quasi ogni film del marito, film che sono anche i più celebri di questi anni, da Vivre sa vie (1962), Bande à Part (1964), Pierrot le fou (1965) fino al cortometraggio L'amour en l'an 2000 (L'amore attraverso i secoli, 1967) ultimo film che interpreta prima del divorzio43. Il periodo successivo sarà denominato gli “Anni Mao” (1967-1972) che vedranno sostituirsi ad Anna Karina una nuova protagonista femminile dai capelli rossi, l'attrice Anne Wiazemsky, che Godard sposa nel giugno del 1967, subito dopo la conclusione delle riprese del primo film degli “anni Mao”, La Chinoise (La cinese), il quale non presenta un adesione totale al maoismo, come avverrà nei film successivi, ma ne osserva distaccatamente le caratteristiche, anticipando, allo stesso tempo, di qualche mese le tematiche e gli slogans che campeggeranno nel maggio francese il movimento sessantottesco. In questi anni Godard riflette sui rapporti tra linguaggio e politica, tra arte (cinema) e attivismo politico, aderisce al marxismo-leninismo e utilizza il mezzo cinematografico per trasmettere un'ideologia, per criticare la moderna civiltà dei consumi. In Week-end (Week-end, un uomo e una donna dal sabato alla domenica, 1967) Godard riflette, in termini politici e teorici, sul senso del cinema nella società moderna e ne annuncia la fine con un cartello posto nel finale del film. Godard assocerà la fine del cinema alla sua fine di cineasta autonomo: «Abbandonare la nozione di autore, così com'è, perché è lì che si vede il tradimento, il revisionismo integrale. La nozione di autore è completamente reazionaria»44. Durante gli “anni Mao”, difatti, Godard annulla il percorso svolto, nel periodo precedente, di una politica dell'Autore per creare nel 1969, con Jean-Pierre Gorin45, 41 Primo film a colori e con suono diretto. 42 Il matrimonio avviene il 3 marzo 1961. 43 Anna Karina interpreta anche Alphaville, une étrange aventure de Lemmy Caution (Angente Lemmy Caution, missione Alphaville, 1965) e Made in USA (Una storia americana, 1966) nel quale si avvertono già le tensioni tra i coniugi, quest'ultimo sarà l'ultimo lungometraggio interpretato da Anna prima di separarsi. 44 Jean-Luc Godard in “Tribune Socialiste”, 23 gennaio 1969; citato in Wikipedia.org: http://it.wikipedia.org/wiki/Gruppo_Dziga_Vertov (ultima visualizzazione: 17 gennaio 2015). 45 Gorin è l'esponente principale del gruppo dopo Godard. I due si conoscono nel 1967 mentre Godard è impegnato a documentarsi per il film La chinoise: «è stato l'incontro di due persone, l'una proveniente dal cinema normale, l'altra un militante che aveva deciso che fare cinema fosse uno dei suoi compiti politici per dare una base teorica al maggio parigino e allo stesso tempo per metterlo in 18 Jean-Henri Roger e Armand Marco, il gruppo Dziga Vertov in cui il cinema godardiano diventa collettivo. Con il gruppo, Godard rivaluta il modo di fare cinema, si avvicina ad un cinema politico e rivoluzionario, e dichiara: «Abbiamo allora preso il nome Dziga Vertov, non per mettere in pratica il suo programma, ma per prenderlo a portabandiera in confronto a Ejzenstein che, all'analisi, era già un regista revisionista, mentre Vertov, agli inizi del cinema bolscevico, aveva tutta un'altra teoria consistente nell'aprire gli occhi e mostrare com'è il mondo in nome della dittatura del proletariato» 46. Il richiamo al cineasta sovietico è puramente simbolico, Godard e Gorin se ne appropriano per dimostrare che l'obiettivo della loro produzione è quello di riuscire a mostrare la verità attraverso un cinema nuovo e rivoluzionario, in cui il cineasta diventa filosofo il cui compito «sarà produrre la teoria del “cinema materialista” per lottare nel proprio campo specifico contro l'ideologia borghese […], fare un cinema d'avanguardia e di rottura contro le mistificazioni del cinema ufficiale e contro gli equivoci del cinema progressista e militante»47. Il primo film firmato dal gruppo Dziga Vertov è British Sounds (1969), un'indagine sui gruppi della sinistra rivoluzionaria inglese, seguito dai film militanti Pravda (1969), un reportage sulla Cecoslovacchia dopo l'invasione dell'Urss nel 1968, e Lotte in Italia (1970)48. Nel 1970 il matrimonio con Anne Wiazemsky entra in crisi49, la donna lascia l'appartamento dove viveva con Godard attribuendo la colpa a Gorin di averlo allontanato da lei e dal suo cinema 50; allo stesso tempo anche il gruppo Dziga Vertov inizia a disgregarsi. L'ultimo film che vede impegnato il sodalizio Godard-Gorin è Tout va bien (Crepa padrone, tutto va bene, 1972), in cui vi è la firma dei due autori e non del gruppo Dziga Vertov, ormai definitivamente sciolto 51. Il film ha un forte impatto commerciale, sia per la partecipazione delle star internazionali Jane Fonda e Yves Montand, sia per chi sostiene un ritorno del cineasta. Inoltre, Godard e Gorin accettano i 46 47 48 49 50 51 pratica». Cit. in Godard Jean-Luc, Due o tre cose che so di me. Scritti e conversazioni sul cinema, a cura di Orazio Leogrande, Minimum Fax, Roma 2007, p.141. Citato in Farassino Alberto, Jean-Luc Godard, Il Castoro, Milano 2007, pp.120-121. Farassino Alberto, Jean-Luc Godard, Il Castoro, Milano 2007, p.122. Vi sono poi i film: Vento dell'est (1969), Vladimir et Rosa (1970), quest'ultimo è l'ultimo film ufficiale attribuibile al gruppo. Godard e la Wiazemsky divorzieranno nel 1979. Baecque Antoine de, Godard, biographie, Grasset, Paris 2010, p.478, (traduzione nostra). Durante le riprese del film, nel 1971 Godard è vittima di un grave incidente automobilistico che lo costrinse a sospendere le riprese per qualche mese. 19 codici produttivi e commerciali del sistema industriale, ma riconfermano l'esigenza mao-vertoviana di situare il cinema nella loro collocazione storica e politica. Il film inizia infatti con un cartello che ne dichiara la collocazione temporale, la volontà di sintesi e forse anche di bilancio conclusivo di una stagione: “Maggio 1968 - Francia 19722”. Con questo film finiscono gli “anni Mao” del cineasta e giunge al termine anche il rapporto con la moglie Anne Wiazemsky, che in questo film avrà il suo ultimo ruolo. Godard torna così a lavorare su se stesso, si riavvicina all'idea di un cinema d'autore, di un cinema personale e accompagna questa sua ricerca di sé con un periodo di silenzio, in cui per due anni52 Godard non girerà nessun film53. In un'intervista del 1985 Godard ammette la sua infelicità durante gli anni del gruppo Dziga Vertov: «durante quegli anni […] ho smesso di fare molte cose senza rendermene conto: leggere, vedere film. […] Lo ricordo come un periodo di assenza, ma che è durato così a lungo che mi chiedo come sono riuscito a trascorrere dieci anni così»54. Jean-Luc Godard fa ritorno nel 1975 con una nuova serie di pellicole, firmati con Anne-Marie Miéville55, che diventa la sua compagna di vita e co-autrice dei suoi film. La coppia rileva la casa di produzione Sonimage56, che ha sede a Grénoble, dove i due si trasferiscono, lasciandosi la caotica Parigi alle spalle. Si apre così il terzo periodo dell'autore (1975-), caratterizzato dalla scoperta dell'immagine elettronica e del video, di cui Godard rimane affascinato: «le nuove tecniche mi hanno sempre interessato, e la videocamera era davvero qualcosa che permetteva di affrontare il cinema in un altro modo» 57. Nella seconda metà degli anni 52 Gli anni sono il 1973 e il 1974. 53 Questi anni coincidono anche con una serie di vicende personali piene di tensione: la fine del matrimonio con Anne Wiazemsky, problemi di salute ricondotte all'incidente automobilistico del 1971 e la rottura con l'amico Truffaut (a causa dell'uscita del film La Nuit américaine [Effetto notte], contestato duramente da Godard), seguite da lettere ricche di risentimento. Le lettere sono state pubblicate in Autoritratto. Lettere 1945-1984 (Correspondance. Lettres recueillies par Gilles Jacob et Claude de Givray, 1988), Toffetti Sergio (a cura di), Einaudi Torino, 1989. 54 L'arte a partire dalla vita, intervista di Alain Bergala, 12 marzo 1985, qui citato in Godard Jean-Luc, Due o tre cose che so di me. Scritti e conversazioni sul cinema, a cura di Orazio Leogrande, Minimum Fax, Roma 2007, p.45. 55 Appare la prima volta nei titoli di coda in veste di fotografa di scena in Tout va bien. 56 Dal nome evocativo e, aggiungo, tipicamente godardiano, “Son-image”, che significa “suonoimmagine”. 57 L'arte a partire dalla vita, intervista di Alain Bergala, 12 marzo 1985, qui citato in Godard Jean-Luc, Due o tre cose che so di me. Scritti e conversazioni sul cinema, a cura di Orazio Leogrande, Minimum Fax, Roma 2007, p.46. 20 Settanta, Godard abbandona i temi politici per riscopre i rapporti interpersonali, le tematiche dei suoi film si incentrano su una sfera più intima del privato e della vita famigliare, intrecciando la sua riflessione con quella sulla natura del mezzo cinematografico e sull'immagine. Il ritorno del cineasta avviene con Numéro deux (Numero due, 1975), che si presenta come il “film successivo” di À bout de souffle; difatti è quest'ultimo che ha fatto approdare Godard nel mondo del cinema e allo stesso modo anche Numéro deux appare come un film di un “debuttante”, l'esordiente Godard dopo due anni di silenzio. Inoltre il paragone può essere sostenuto anche dall'uso delle tecnologie, che nel 1959 per À bout de souffle apparvero assolutamente innovative per il cinema dell'epoca, così come nel 1975 le nuove tecnologie video hanno permesso a Godard di realizzare un film a colori con i medesimi costi di un film in bianco e nero degli anni Sessanta. Il film sancisce il ritorno di Godard sul grande schermo anche per l'uso dei temi della vita privata che entrano, a partire da questo film, tra le tematiche godardiane predilette del terzo periodo. Il tema del quotidiano in Godard è un'attenta osservazione degli elementi della società: «le donne, gli uomini, i bambini, il lavoro, la cucina, i vecchi, la solitudine, e tutto questo a ritmi quotidiani. […] Con Numéro deux partiamo da qui: è lui, il pubblico, a inventare quei ritmi quotidiani durante la sua giornata»58. Nel 1979 la coppia Godard-Miéville si trasferisce a Rolle, un piccolo paese sulle sponde del lago di Ginevra, in Svizzera, Paese natale di entrambi. Qui, nel 1982, Godard avvia la sua casa di produzione, la JLG Films e gli ambienti della cittadina sul lago diventano set dei suoi film59. Durante gli anni svizzeri, Godard dà vita a opere di indubbia magnificenza, in cui la ricerca della purezza è accompagnata a quella di un'essenzialità dell'immagine: Sauve qui peut (la vie), (Si salvi chi può, la vita, 1980), è il film che dà l'inizio ai meravigliosi anni Ottanta godardiani, in cui citazioni, riferimenti e omaggi ai maestri della musica, dell'arte, della letteratura e della poesia si intrecciano a temi della quotidianità, della commedia e della rappresentazione narrativa. Di questi 58 Fare i film che sono possibili dove ci si trova, intervista a cura di Yvonne Baby, “Le Monde”, 25 settembre 1975; qui citato in Godard Jean-Luc, Due o tre cose che so di me. Scritti e conversazioni sul cinema, a cura di Orazio Leogrande, Minimum Fax, Roma 2007, p.152. 59 Nel 1980 Godard pubblica il libro Introduzione alla vera storia del cinema, in cui raccoglie le lezioni tenute a Montréal alla fine degli anni Settanta, lezioni in cui commentava un proprio film per poi metterlo in relazione con due o tre film classici del passato attraverso un rapporto di tipo estetico. 21 anni sono i lungometraggi Passion (1982), in cui ricostruisce con tableaux vivants quadri celebri della pittura europea che contrappone al tema della quotidianità del lavoro in fabbrica e a quello di cinema; Prénom Carmen (1983) in omaggio alla sua passione di sempre, cioè il quartetto d'archi di Beethoven; e Je vous salue, Marie (1984) in cui indaga il tema più profondo della religione e della divinità narrando la storia della nascita di Cristo. Tra un film e l'altro Godard crea delle video-sceneggiature, ovvero delle sceneggiature in video nelle quali appaiono, sotto forma di “appunti”, i materiali di ricerca legati alla realizzazione di un film, rappresentati con materiali visivi, sonori e schizzi audiovisivi60. Verso la metà degli anni Ottanta, dopo la trilogia del “sublime” 61, Godard attraversa un periodo di incertezza nel suo lavoro, in quanto la sua ricerca relativa ad alcune tematiche pare non andare oltre. Perciò, ripiega la sua ricerca verso il passato, o più precisamente verso la nostalgia di un presente del passato, in cui il cinema sembra avviarsi in direzione di una morte certa. Godard inizia a lavorare per una resurrezione e una redenzione dell'immagine, riporta alla memoria gli anni della Nouvelle Vague e nei film di questo periodo ritornano le forme del suo cinema precedente, applicate con una diversa coscienza della storia e del tempo. Il passato del primo periodo del cineasta sembra riaffiorare in molti film a partire da Détective (1985), in cui ritorna l'attore feticcio della Nouvelle Vague, Jean-Pierre Léaude; Grendeur et décadence d'un petit commerce de cinéma (1986) e King Lear (Re Lear, 1987), una sorta di saggio su William Shakespeare in cui Godard compare come attore nella parte del fool, un pazzo che però crede ancora nel cinema. Gli anni Novanta sono caratterizzati da immagini di una forte bellezza estetica, in cui il senso della memoria si fa più persistente ma senza diventare, come in precedenza, una rievocazione nostalgica del passato: nel 1990 Godard annuncia il suo film dal titolo, evocativo, Nouvelle Vague, il quale, nonostante il titolo ingannevole, non è un film omaggio alla corrente o un autobiografia del regista, ma un elogio alle immagini e al cinema stesso, come il successivo Hélas pour moi (Peggio per me, 1993), in quanto i 60 Tra questi vi è la video-sceneggiatura senza titolo per il film Sauve qui peut (la vie), quella del film Passion (“Passion”, le travail et l'amour. Introduction à un scènario. Troisième état du scénario du film “Passion” e Scénario du film “Passion”) e per Je vous salue, Marie (Peite note à propos du film “Je vous salue, Marie” ). 61 Definizione di Farassino Alberto, Jean-Luc Godard, Il Castoro, Milano 2007, p.186. 22 personaggi non hanno battute, ma dialogano con frasi tratte da libri, romanzi, poesie. Come nei film della Nouvelle Vague anche in quelli dell'ultimo decennio del Novecento Godard inserisce qualsiasi citazione, ma se in precedenza regnava la confusione, ora le citazioni convivono in armonia insieme a giudizi sulla realtà e a contemplazioni sulle storie, che i personaggi cercano di ricostruire, storie che possono essere personali, di una coppia oppure storie di cinema o di un film in corso di elaborazione. In questi anni Godard si dedica anche alla scrittura letteraria, perseguendo quel desiderio che aveva fin da bambino di pubblicare un romanzo da Gallimard62, senza però abbandonare le sue radici cinematografiche. Realizza “libri fatti di cinema”, in cui trascrive le frasi dei propri film non in forma di sceneggiatura, ma in forma di poesia: le frasi si susseguono l'una all'altra prive di punteggiatura, senza didascalie e senza indicazione sul personaggio che le pronuncia 63. L'insieme di frasi-citazioni non vengono poste su carta con l'intenzione di creare un'associazione tra le immagini del film e le parole, ma Godard decide di “citare su carta le citazioni letterarie” di cui il film è composto; a riguardo crea anche un indice con i poeti e i letterati da cui ha attinto, ma tale indice non segue l'ordine delle citazioni e addirittura alcuni autori non compaiono neanche. Godard confonde, ancora una volta, il lettore-spettatore e lo invita a non porsi come primo problema quello dell'origine di tali citazioni, in quanto quelle frasi sono i materiali di un nuovo discorso il cui autore è ormai un altro: Godard stesso64. In ambito cinematografico, gli eventi politici che avvengono in questo decennio portano Godard ad interrogarsi, nuovamente, sulla storia e sugli avvenimenti del presente, ad esempio in Allemagne année 90 neuf zéro (1992), titolo che è un esplicito riferimento al film di Roberto Rossellini Germania anno zero; Godard riflette sullo stato tedesco dopo la demolizione del muro di Berlino, mostrando le immagini più belle della Germania e dei film tedeschi. In Les enfants jouent à la Russie (I bambini giocano alla Russia, 1993) rappresenta i rapporti tra l'occidente e la cultura russa, riflette sul cinema e sulla letteratura sovietica; For Ever Mozart (1996) appare invece come il film che 62 Citato in Godard Jean-Luc, Due o tre cose che so di me. Scritti e conversazioni sul cinema, a cura di Orazio Leogrande, Minimum Fax, Roma 2007, p.267 63 I libri usciti postumi ai propri film (editi P.O.L, Paris), sono: JLG/JLG. Phrases (1996); Forever Mozart. Phrases (1996); Les enfants jouent à la Russie. Phrases (sortie d'un film), (1998); Allemagne neuf zéro. Phrases (sortie d'un film), (1998); Éloge de l'amour (2001). 64 Secondo Farassino Alberto, Jean-Luc Godard, Il Castoro, Milano 2007, p.250. 23 riassume tutte le ultime direzioni sulla storia, sulle guerre, sul ruolo dell'arte e sugli stati post-comunisti; è incentrato sulla guerra di Sarajevo, evento che ebbe un forte impatto politico, sociale ed emotivo nell'Europa degli anni Novanta. In For Ever Mozart Godard decide di non mostrare la guerra come in Les carabiniers, ma va oltre e decide di rappresentarla con i suoni, i rumori e con immagini confuse: «Non volevo mostrare la guerra. Mostravo delle persone fatte prigioniere e volevo che si sentisse che c'era qualcosa di più vasto di loro. Questo senso della guerra come qualcosa di più vasto dei personaggi, qualcosa che sta fuori campo, si avverte grazie a un rumore di mitraglia che spezza la colonna sonora, o con qualche carro armato che raffigura la pesantezza dell'acciaio»65. La tematica della storia del cinema intrecciata a quella dell'umanità, ma anche quella delle storie di cinema che si raccontano nella finzione cinematografica e che devono anche documentare i fatti reali, si ritrovano illustrate e teorizzate nei video Historie(s) du cinéma, un progetto che Godard ha in mente fin dagli anni Settanta e che inizia con Vento dell'est, in cui collega tra loro episodi, anche sconosciuti o minori, determinanti per la storia del cinema. Così, allo stesso modo, nel 1988 inizia il suo progetto lungo dieci anni, Historie(s) du cinéma66, in cui confluiscono citazioni pittoriche, musicali, letterarie, cinematografiche e sequenze di film di altri autori, con l'obiettivo di realizzare quella visione personale di Godard sulla storia del cinema, storia che è nella sua memoria. L'opera video viene trasposta nel 1998 in quattro volumi dal medesimo titolo e pubblicati dalla casa editrice Gallimard, realizzando quel desiderio giovanile di Godard di pubblicare un libro nella nota casa editrice francese, ma soprattutto di creare un'opera senza precedenti, in cui la letteratura e l'immagine si fondono insieme 67, dove le parole non sono le didascalie delle immagini e le immagini non sono un'illustrazione delle parole. La continuità tra la pratica cinematografica e quella letteraria che Godard sosteneva negli anni ai “Cahiers” può dirsi realizzata e, a mio parere, conclusa con l'opera monumentale in volumi e in video Historie(s) du cinéma. 65 Farassino Alberto, Jean-Luc Godard, Il Castoro, Milano 2007, p.233. 66 Quattro puntate televisive distribuite da CanalPlus (1988-1998) con due episodi ciascuno. 67 Il libro è composto da fotogrammi tratti dall'opera originale che appaiono spesso indecifrabili ma che si uniscono a caratteri verbali. 24 CAPITOLO II CINEMA E PITTURA: PASSION Fin dalla sua nascita, il cinema deve alcuni tra i suoi maggiori prodotti anche all'iconografia pittorica di tutta la storia dell'arte. Su questo argomento esiste una letteratura molto ampia ma allo stesso tempo non del tutto specializzata, soprattutto in relazione alla ricerca delle fonti e al tentativo di condurre un'analisi comparata delle inquadrature corrispondenti. Il campo di indagine è quindi estremamente vasto e pertanto in questo capitolo si intende seguire un percorso generale del legame tra cinema e pittura, analizzandolo sia dal punto di vista tecnico, sia da quello storico e cronologico per approdare, infine, alla filmografia di Jean-Luc Godard. Si seguirà un percorso che naturalmente convoglia al regista, sia per ragioni di tipo cronologico sia per interessi che ovviamente sono di tipo personale. Nel rapporto tra cinema e pittura interessa soprattutto la convivenza tra le due all'interno di un sistema di rappresentazione complessivo, dove lo spettatore sia in grado di riconoscere il pittorico nel filmico, ma allo stesso tempo si trovi immerso in un sistema dove le determinazioni stilistiche di ciascun modello influenzano il significato e l'effetto finale ottenuto. Nella classificazione che segue, il nostro interesse verte nell'analizzare la pittura all'interno del sistema di rappresentazione filmica, in quanto oggetto o modello. Antonio Costa nel testo Cinema e Pittura analizza le diverse tipologie di interazione del modello pittorico con quello filmico: il caso più elementare di questo rapporto è quando vi è la presenza di una rappresentazione statica (nonché la pittura come dipinto o la riproduzione di esso su un libro) all'interno del flusso di rappresentazione dinamica (la scena filmica). In questo caso si parlerà di «pittura diegetica»68, che non ha bisogno di essere identificata perfettamente per creare un effetto, ma basta semplicemente che lo spettatore la distingua come pittura. Ad esempio, in Life Lessons (Lezioni dal vero, 1989) di Martin Scorsese, il film è incentrato sul rapporto sentimentale tra un pittore e la sua modella; in questo caso il lavoro del pittore viene mostrato senza essere ricondotto a ragioni semplicemente illustrative. 68 Costa Antonio, Cinema e Pittura, Loescher, Torino 1991, p.146. 25 La pittura diegetica non è l'unica soluzione. È importante considerare quando viene impiegato il mezzo pittorico per ottenere un risultato di tipo cromatico, illusionistico o luministico, ovvero quando vengono costruiti effetti speciali scenografici tramite l'utilizzo del mezzo pittorico. Per questo motivo il caso verrà indicato con il termine «effetto dipinto»69. Allo spettatore contemporaneo dinanzi ad un film primitivo, come il caso della cinematografia Méliès, risulta difficile immergersi nella diegesi; in questo caso l'effetto dipinto significa contestualizzare i procedimenti tecnico-linguistici, cioè lo spettatore moderno riesce a cogliere l'epoca o il luogo in cui l'opera cinematografica è stata prodotta. L'effetto dipinto nel cinema contemporaneo può essere creato attraverso la produzione di un oggetto (effetto pop art), oppure attraverso la sua riproduzione pittorica nel tentativo di creare un effetto di rottura del principio di proporzionalità e di verosimiglianza. Vi sono casi in cui l'effetto dipinto è volutamente marcato, gli effetti scenografici sono ben visibili e presenti, atti a divenire veri e propri simboli del cinema d'autore (nel cinema di Fellini o di Hitchcock). Altro caso, più specifico, è il richiamo alla pittura attraverso particolari stilistici propri di tale modello, come gli elementi cromatici utilizzati per raggiungere meglio quella materialità dell'effetto dipinto. In Deserto rosso (1964) si è intervenuti materialmente dipingendo pareti di rosso, boschi di bianco e spiagge di rosa per realizzare la volontà del regista di descrivere «i colori dei sentimenti»70. Michelangelo Antonioni difatti cerca di dare una chiave psicologica dei personaggi attraverso l'alterazione dei colori nelle composizioni delle inquadrature, con l'obiettivo di comunicare gli stati d'animo dei personaggi e non evocare semplici impressioni cromatiche. Si ha l'«effetto quadro»71 quando un film cita una pittura in modo esplicito o riprendendone gli elementi caratterizzanti, come gli effetti luministici, cromatici, spaziali o temporali. L'«effetto quadro» produce un effetto di tempo sospeso, di spazio definito e di selezione cromatica, mentre il piano cinematografico crea una variabilità cromatica accompagnata da una percorribilità dello spazio e del tempo. Esempio è la filmografia di Pier Paolo Pasolini, come in Accattone (1961) dove la frontalità 69 70 71 Costa Antonio, Cinema e Pittura, Loescher, Torino 1991, p.152. Nel testo Antonio Costa usa anche il termine “effetto pitturato” come sinonimo di “effetto dipinto”. Di Carlo Carlo, Il colore dei sentimenti, in Antonioni Michelangelo, Il deserto rosso, Cappelli, Bologna 1964, p.22. Costa Antonio, Cinema e Pittura, Loescher, Torino 1991, p.156. 26 dell'inquadratura introduce una domanda sull'effetto realistico, o in Mamma Roma (1962) con la citazione del Cristo morto del Mantegna. Senza omettere La Ricotta (1963), che verrà preso in analisi nelle pagine seguenti, testimonianza esemplare di come l'«effetto quadro» compaia nei due rifacimenti della pittura manierista tramite tableaux vivants delle Deposizione di Gesù di Rosso Fiorentino e Pontormo; inoltre il film realizzato in bianco e nero si anima con i colori dei due quadri nell'esatto momento dell'avvio della ricostruzione, in questo modo lo spettatore si trova immerso totalmente nei dipinti. 2.1 Una classificazione della pittura nel cinema Nel corso degli anni sono state proposte diverse classificazioni per definire la dinamica degli scambi e delle interazioni tra cinema e pittura. Verranno ora elencati i generi dove tali relazioni prendono vita, secondo una suddivisione proposta da Antonio Costa72 e riadattata secondo le esigenze di questo capitolo. Tra i film sulla pittura vengono catalogati i documentari d'arte che possono essere specializzati su un ciclo di affreschi, su un pittore, su una scuola o uno stile 73. Si possono inserire tra i documentari d'arte il film Carpaccio (1948) di Umberto Barbaro e Roberto Longhi, dedicato al pittore veneziano e composto da una serie di riproduzioni fotografiche in bianco e nero animate da un uso di movimenti di macchina atto a porre una particolare attenzione verso determinati punti focali e una dinamicità dei nodi narrativi. Longhi e Barbaro fecero un altro documentario, nello stesso anno, Caravaggio, ad oggi perduto. I due film possono essere considerati come i primi esperimenti divulgativi sulla storia dell'arte e con le loro proposte andranno ad innovare e valorizzare il genere del documentario d'arte. Luciano Emmer fu il primo a girarne uno con l'uso di fotografie, con l'obiettivo di creare un film dall'effetto drammatico e psicologico. In La leggenda di S.Orsola (1948) scompone i dipinti in elementi tematici, come la bocca o le mani, tramite particolari tecniche di montaggio, per poi ricomporle infine in una storia. In Il dramma di Cristo/Giotto (1948), Emmer utilizza il montaggio per dare maggiore enfasi alla funzione narrativa della pittura. Alain Resnais con Van 72 73 Costa Antonio, Cinema e Pittura, Loescher, Torino 1991. Costa Antonio, Cinema e Pittura, Loescher, Torino 1991, p.11. 27 Gogh (1948) privilegia invece l'aspetto psicologico e biografico, come nei suoi filmdocumentari successivi. Pur con diversi metodi e finalità, questi documentari sono accomunati dall'intento di far rivivere, attraverso i mezzi specifici del cinema, lo spaziotempo della pittura. Vi sono poi L'Hypothèse du tableau volé (1978) di Raúl Ruiz o F for Fake (F come Falso, 1975) di Orson Welles, che pur non essendo veri e propri documentari rientrano nella categoria di film sulla pittura, poiché usano una forma espressiva tra il racconto e il saggio e analizzano i problemi della rappresentazione avvicinandosi ad una funzione critica e teorica. Tra questi vi è anche Passion di Jean-Luc Godard, film che narra le vicende di una troupe cinematografica impegnata nella realizzazione di tableaux vivants e confronta il lavoro della pittura con quello del cinema. Passion verrà preso in analisi con maggior dettaglio nelle pagine dedicate al cineasta. Altro genere, identificato da Costa, è un ibrido tra i documentari sulla pittura e i film di finzione sui pittori, dove vi è il tentativo di fissare l'evento della pittura in fase di costruzione ma allo stesso tempo riflettere sul modo di essere dell'artista. Tra i film più celebri da annoverare troviamo Le mystère Picasso (Il mistero di Picasso, 1955) di Henti-Georges Clouzot e A Bigger Splash (1975) di Jack Hazan, che tratta della vita quotidiana e del lavoro dell'artista pop David Hockney. Vi sono poi i film sulle biografie di pittori, sottogenere del film biografico. In questo caso sono le stesse opere pittoriche degli artisti a divenire “protagonisti” indiscussi della scena attraverso un insieme di tableaux vivants e quadri. Questo genere implica un riferimento cronologico tra gli eventi biografici dell'artista e la figurazione pittorica, che appare talvolta forzata. È possibile ricordare due film su Van Gogh impostati secondo questo genere: Lust for Life (Brama di vivere, 1956) di Minnelli e Vincent & Théo (1990) di Altman. Infine, altro esempio è Andrej Rublëv (1966) di Andrej Tarkovskij, un film biografico sui rapporti tra l'artista e la società del proprio tempo e tra l'artista e il potere, oltre ad essere un film che si avvicina a temi teorici sulla pittura. Tra il genere dei film storici vi sono tutti quei film che rievocano età passate e dove l'impiego di fonti pittoriche è il metodo più utilizzato per richiamare il clima dell'epoca, l'opera pittorica diventa quindi attestazione di storicità. Tra i primi esempi 28 abbiamo La Kermesse héroïque (La kermesse eroica, 1935) di Jacques Feyder, dove la pittura fiamminga insieme alle fastose scenografie e agli effetti pittorici sono posti in rilievo rispetto alla narrazione. L'uso della pittura dei Macchiaioli viene utilizzata ne Il Gattopardo (1963) di Luchino Visconti per rappresentare la relativa epoca dell'Ottocento italiano. Infine, oltre ai generi sopra ricordati dove il rapporto con la pittura è chiaro e innegabile, vi sono numerosi film che non possono essere inseriti in un determinato genere, poiché non hanno le caratteristiche distintive di ogni genere, ma sono accomunati dall'uso di citazioni pittoriche. Ad esempio in Pasolini si possono cogliere numerose citazioni: in Mamma Roma (1962) vi è la ricostruzione tramite inquadratura e prospettiva de Il Cristo morto del Mantegna, senza parlare de La ricotta (1963), in cui viene riproposto le due Deposizione di Rosso Fiorentino e del Pontormo facilmente riconoscibili. Ovviamente usi, funzioni e significati della citazione dipendono strettamente dal contesto in cui vengono inserite e dall'enfasi posta nei vari film sull'inquadratura o sulla sequenza. 2.2 Cinema e pittura tra teorie e pratiche74 Dopo aver delineato una tipologia di film che richiamano gli aspetti della pittura, verrà trattato ora il rapporto tra cinema e pittura nella letteratura critica. Una posizione di rilievo nella storia delle teorie del cinema è occupata dalle teorie emerse nel corso degli anni sul rapporto tra cinema e arti figurative. Tra la letteratura critica più illustre troviamo i saggi di André Bazin, il quale afferma che il cinema «compie e trascende tutto ciò che le altre arti avevano in precedenza tentato di realizzare»75, ma la consapevolezza di tale frase poté essere compresa solo dopo molti anni. La critica cinematografia nacque nel momento in cui il cinema riuscì a staccarsi dalla dipendenza degli schemi concettuali delle arti 74 Tale sottocapitolo è bastato principalmente sulle teorie principali tra cinema e pittura analizzate da Antonio Costa nel suo libro Il cinema e le arti visive, Einaudi, Torino, 2002; e nella voce Pittura in Enciclopedia del cinema Treccani.it (a cura di) Costa Antonio, 2004, http://www.treccani.it/enciclopedia/pittura_%28Enciclopedia-del-Cinema%29/ (ultima visualizzazione 21 novembre 2014). 75 Bazin André, Che cosa è il cinema?, Garzanti, Milano 1986; qui citato in Costa Antonio, Il cinema e le arti visive, Einaudi, Torino 2002, p.10. 29 tradizionali. Decisivi furono gli apporti di grandi teorici che condussero le loro riflessioni favorendo lo sviluppo di nuovi modi di collocare il cinema in rapporto al sistema delle arti. Uno dei primi teorici che indagò le differenze tra cinema e pittura fu il poeta Vachel Nicholas Lindsay con il testo The art of the moving pictures (1915). La prima parte del libro è incentrata sugli aspetti essenziali che hanno dato il successo al cinema, come l'azione, il sentimento e la magnificenza. Secondo Lindsay, per superare la struttura compositiva delle arti visive tradizionali, il cinema deve fare leva sulla dimensione temporale propria del mezzo cinematografico. Nei capitoli successivi egli studia il cinema come sculpture-in-motion, painting-in-motion e architecture-inmotion76, precisando però che il movimento di cui parla è tale da mutare la natura stessa delle arti tradizionali citate: dalle sue notazioni risulta evidente che l'idea di movimento che viene sviluppata riguarda non solo il contenuto dell'immagine, ma il tipo di relazioni che si stabiliscono tra le immagini 77. A partire da questo concetto, Lindsay definisce il cinema come un tipo di scrittura iconica (writing-picture), vicina a quella dei geroglifici e degli ideogrammi. Gli stessi concetti saranno analizzati anche nella riflessione teorica di Sergej M. Ejzenštejn un decennio dopo. Rudolf Arnheim nel suo libro Film als Kunst (1932) tenta di trasporre il cinema all'interno della teoria dell'arte della Gestaltpsychologie, per cercare di dimostrare che nel cinema «anche i processi visivi più elementari non producono immagini meccanicamente registrate del mondo esterno, ma organizzano il materiale grezzo fornito dai sensi secondo i princìpi di semplicità, regolarità ed equilibrio»78. Secondo Arnheim, l'artisticità del cinema discende da quelle caratteristiche in grado di differenziare l'immagine cinematografica rispetto alla realtà percepita, che sono incentrate sull'effetto di illusione: «Il cinema dà contemporaneamente l'impressione d'un avvenimento reale e d'un quadro»79. Lo storico dell'arte Carlo Ludovico Ragghianti analizza il cinema come arte figurativa, sostenendo la tesi nella quale il cinema deve essere studiato con gli strumenti 76 Vachel Lindsay Nicholas, The art of the moving pictures (1915), The Modern Library, New York 2000, pp.65-104. 77 Citato in Costa Antonio, Il cinema e le arti visive, Einaudi, Torino 2002, pp.212-213. 78 Arnheim Rudolf, Film als Kunst (1932), tr. it. Il film come arte, Feltrinelli, Milano 1982, p.14. 79 Arnheim Rudolf, Film als Kunst (1932), tr. it. Il film come arte, Feltrinelli, Milano 1982, p.35. 30 propri della storia dell'arte. Ragghianti mise in pratica la sua teoria realizzando una serie di documentari sulle arti figurative, dove il tema principale poteva spaziare dall'opera pittorica, scultorea, architettonica oppure concentrarsi sull'artista stesso. Ragghianti definisce i documentari con il termine “critofilm” d'arte, ovvero una critica d'arte esercitata attraverso il linguaggio cinematografico. Primo esempio di “critofilm” è Deposizione di Raffaello del 1948; da allora, fino al 1964, Ragghianti realizzò altri diciannove documentari sull'arte, nei quali il ruolo del cinema si trasforma in strumento di analisi e di divulgazione. Ragghianti supera il problema delle differenti basi tecniche del cinema e della pittura appellandosi ai princìpi dell'estetica crociana. Basandosi sulla distinzione tra arte e tecnica, Ragghianti sostiene che la forma artistica compiuta, cioè risolta in espressione, richieda di essere analizzata in quanto tale 80. Ovvero, se non appaiono rilevanti per l'esito artistico le differenze tra pittura e scultura nel campo delle arti plastiche, così non possono essere rilevanti quelle tra pittura e cinema. Per esplicare la sua tesi, Ragghianti utilizza come esempi Georg Wilhelm Pabst e Charlie Chaplin, con l'obiettivo di dimostrare la validità del suo metodo sia nei film che presentano espliciti riferimenti alla pittura (Pabst), sia in quei film in cui la lontananza dal modello pittorico è massima (Chaplin). Ragghianti sceglie come esempi alcune sequenze filmiche, che descrive mettendo in evidenza la coerenza che emerge tra procedimenti filmici e procedimenti grafico-figurativi: nell'analisi del film Kameradschaft (La tragedia della miniera, 1931) di Pabst, Ragghianti ritiene che «i valori luministici di molte scene rammentano, nel modo di costruire con pura luce, le figure di Rembrandt», mentre richiamano il pittore a Jean-François Millet «le forme in cui si vanno a ritrovare le pose naturalmente monumentali dell'operaio e del lavoro»81; l'analisi dello stile chapliniano che ritiene sia impostato sull'antinaturalismo dei gesti e dell'incedere, viene definito da Ragghianti coerente e in linea con se stesso e parla di «trasformazione decorativa del moto»82 per poi accomunare l'esaltazione del movimento dello stile di Chaplin al “linearismo funzionale”, una critica coniata dallo storico dell'arte rinascimentale Bernard Berenson. Di grande rilievo è il contributo del cineasta e teorico russo Sergej Mikhailovich 80 Citato in Costa Antonio, Il cinema e le arti visive, Einaudi, Torino 2002, p.219. 81 Ragghianti Carlo Ludovico, Arti della visione , volume I, Einaudi, Torino 1975, p.13. 82 Ragghianti Carlo Ludovico, Arti della visione , volume I, Einaudi, Torino 1975, p.19. 31 Ejzenštejn, il quale basò il suo lavoro creativo e teorico su un'idea-guida che più volte venne espressa e commentata dal cineasta e attuata nei suoi film: «il cinema come stadio contemporaneo della pittura»83. Questa idea-guida è riscontrabile nei film Ivan Groznyj (Ivan il terribile, 1944) e Ivan Groznyj II: Bojarskij zagovor (La congiura dei boiardi, 1946), nei quali emergono i tentativi di collegare il linguaggio cinematografico con la tradizione pittorica dell'arte russa. «Nella sua vasta produzione teorica, Ejzenštejn cerca costantemente di collocare la relazione tra pittura e cinema in una storia e in una teoria della rappresentazione»84. Come osserva Pietro Montani, per Ejzenštejn il cinema poteva servire a risolvere vecchi problemi, ma anche a individuare problemi non perfettamente focalizzati in passato85. A partire dalle analisi di opere pittoriche realizzate da Ejzenštejn, egli è in grado di indagare e analizzare problemi della sfera pittorica attraverso il linguaggio cinematografico e viceversa. La sua teoria del montaggio può essere considerata come una teoria generale dell'arte ed è per tale motivo che tra la pittura e il cinema vi è una scambiabilità, che chiarisce ed esemplifica i problemi generali della rappresentazione. «I fondamenti teorici su cui si basa il metodo del cineasta sono vari e vanno dall'adesione al materialismo dialettico alle più eclettiche suggestioni»86; ne spiegheremo ora tre tra quelle connesse ai legami con la pittura. Il primo fondamento si basa sulla teoria formalista dell'arte, che ha avuto delle influenze soprattutto sulla concezione del montaggio ideata da Ejzenštejn. Tale teoria si basa sulla concezione dell'arte come procedimento, costruzione e artificio, in cui le leggi che regolano la composizione artistica sono le medesime per le varie forme espressive, perciò anche per il cinema, purché venga mantenuto il rispetto delle caratteristiche specifiche dei materiali di base di ogni arte. Il secondo fondamento si basa sulla concezione dell'organicità dell'opera d'arte: un nesso simile a quello dei sistemi organici regola nell'opera d'arte i rapporti tra il tutto e le parti. Da questo nesso il cineasta cerca di chiarire il modello “polifonico” dell'opera d'arte, modello che trova la sua attualizzazione nel cinema, cioè la possibilità di un nesso organico tra varie materie 83 Citato in Costa Antonio, Il cinema e le arti visive, Einaudi, Torino 2002, p.251. 84 Citato in Enciclopedia del cinema Treccani.it, Pittura, (a cura di ) Antonio Costa, 2004, http://www.treccani.it/enciclopedia/pittura_%28Enciclopedia-del-Cinema%29/ (ultima visualizzazione 21 novembre 2014). 85 Montani Pietro, La soglia invalicabile della rappresentazione. Sul rapporto pittura-cinema in Ejzenštejn, in “Cinema & Cinema”, XIV, 1987, n.50, p.47-52. 86 Citato in Costa Antonio, Il cinema e le arti visive, Einaudi, Torino 2002, p. 253. 32 dell'espressione, tra la dimensione statica (spaziale) e quella dinamica (temporale). La concezione organica dell'opera trova il suo compimento nella nozione di estasi: il momento di estasi (uscita dalla rappresentazione) è costituito dalle fasi di trapasso da una dimensione a un'altra, da una forma statica ad una dinamica. Il terzo fondamento va ricercato nella concezione di “immaginità”: Ejzenštejn è affascinato dall'immagine concettuale, ovvero la figura del pensiero, la quale si oppone all'immagine figurativa, cioè plastica. Eppure il riferimento privilegiato all'universo pittorico sottintende un'idea di espressione capace di fondere “immaginità” e “figuratività”; secondo il cineasta è il cinema l'unica arte che può realizzare questa fusione. I rapporti tra cinema e pittura sono stati approfonditi anche da Eric Rohmer in una serie di articoli dal titolo Le celluloïd et le marbre (1955)87. Nelle riflessioni sulla pittura, il critico e cineasta francese ritiene che l'artisticità del cinema debba derivare non dalla sua subordinazione ad arti precedenti, ma dalla sua natura fotografica e riproduttiva; attraverso il cinema l'arte è in grado di recuperare la sua relazione con l'oggetto, rapporto che si era indebolito con la nascita recente della pittura novecentesca. Rohmer sostiene una supremazia del cinema nel sistema delle arti, dalla quale emerge un'esigenza di misura e di equilibrio, che costituirà il principio dell'estetica del critico che ritornerà ad indagare i rapporti tra pittura e cinema nel saggio L'organisation de l'espace dans le 'Faust' de Murnau (1977)88. Nel saggio Rohmer definisce i tre spazi del cinema e in cui la sua analisi si articola: lo spazio pittorico, architettonico e filmico. L'analisi è sbilanciata nello spazio pittorico: l'analisi dello spazio architettonico non fa altro che ribadire il primato del modello pittorico in Murnau, mentre quella dello spazio filmico tende a dimostrare la conquista d'una forma pienamente cinematografica, nonostante il primato della composizione spaziale (la dimensione pittorica) rispetto allo sviluppo temporale (dimensione specifica del lavoro del montaggio)89. Il tema delle relazioni tra cinema e pittura è tornato ad interessare gli studiosi tra gli anni Ottanta e Novanta del Novecento, in seguito alla decadenza dei modelli linguistico-narratologici che avevano controllato gli studi semiologici tra gli anni 87 trad. ita. La celluloide e il marmo. 88 Edizione italiana: Rohmer Eric, L'organizzazione dello spazio nel “Faust” di Murnau, Marsilio, Venezia 2004. 89 Citato in Costa Antonio, Il cinema e le arti visive, Einaudi, Torino 2002, p.271. 33 Sessanta e la prima metà degli anni Ottanta. Molto probabilmente tali modelli sono entrati in crisi perché strutturalmente portati ad ignorare gli aspetti propriamente visivi dell'espressione cinematografica; inoltre, una spinta è stata data anche dal cinema stesso, che iniziò a spostare la propria attenzione su tale tema. Negli anni Ottanta si affermarono perciò gli studi di due critici francesi, Pascal Bonitzer e Jacques Aumont, i cui scritti avranno un'ampia influenza sugli autori successivi. Gli interessi di Pascal Bonitzer non sono incentrati in un confronto diretto tra cinema e pittura, né tanto meno sui problemi posti dalle relazioni evidenti o sui confronti tra le diverse basi tecniche e linguistiche proprie dei due mezzi. Bonitzer cerca le relazioni nascoste tra cinema e pittura e cerca di lavorare su di esse. Nel saggio Décadrages, Cinéma et peinture (1985), il critico francese inizia ad analizzare il celebre quadro di Diego Velázquez, Las meninas (1656), con lo scopo di evidenziare la funzione di sospensione di senso, di enigma, di domanda senza risposta, che emerge dalla relazione che si stabilisce tra ciò che viene mostrato nel dipinto e il “fuori campo”. Quest'ultimo è un termine cinematografico che Bonitzer impiega nella sfera pittorica per analizzare opere organizzate secondo i modelli dello spazio filmico dei pittori Leonardo Cremonini, Francis Bacon, Jacques Monory. Con questo approccio Bonizer dimostra l'esistenza di una serie di peculiarità comuni tra l'organizzazione dello spazio e forme simboliche della pittura e del cinema: ad esempio in quei cineasti-pittori (Antonioni, Duras, Straub e Huillet) in grado di creare inquadrature dalla “suspance non narrativa”; oppure nel campo della pittura è attraverso il trompe-l'œil e l'anamorfosi che si stabilisce l'esistenza di una relazione tra il cinema dei pittori e l'arte figurativa. Con il testo L'occhio interminabile, cinema e pittura (1989) Jacques Aumont si distanzia dalla tesi della derivazione del cinema dalla pittura, ma anche quella di qualsiasi parentela tra le due, per porre il proprio interesse su ciò che della pittura muore o si trasforma con il cinema. A differenza di Bonitzer, che preferisce focalizzarsi su una possibile ipotesi di corrispondenza tra le tendenze del cinema contemporaneo e le esperienze pittoriche, Aumont indica invece i punti di massimo distacco tra i due mezzi. Il libro di Aumont offre un contributo che concilia le esigenze storiche del mezzo e delle forme artistiche con la prospettiva teorica, elaborando una teoria della forma filmica e di quella pittorica. 34 2.3 La pittura nella storia del cinema Antonio Costa nel libro Il cinema e le arti visive ritiene che, dall'avvento del cinema in poi, il sistema delle arti non sia stato più lo stesso 90. Da una sottomissione al modello pittorico che caratterizzava il primo cinema, si passò a un suo uso spregiudicato da parte dei pittori delle avanguardie storiche che in esso videro la possibile via per un superamento dell'arte tradizionale91. «L'immaginazione degli artisti opera nello spazio cinematografico con piena libertà, ipotizzandolo come uno spazio trasformabile in direzioni differenti ed estremamente flessibile»92. Le opposizioni e le caratteristiche rivoluzionarie tipiche delle avanguardie storiche si riversano nel mezzo cinematografico, opponendosi fermamente al cinema ufficiale attraverso la negazione della rappresentatività, della narratività lineare per la creazione di nuove forme di produzione e di linguaggi, dando vita ad una nuova forma di visione che prende il nome di cinema d'avanguardia. 2.3.1 Cinema muto Fin dagli albori, l'iconografia pittorica della storia dell'arte è intervenuta nel mezzo cinematografico con irruenza. Il cinema delle origini aveva, tra i vari problemi da contrastare, la necessità di risolvere difficoltà di tipo visivo e fu la pittura il principale mezzo di supporto alla risoluzione. La produzione cinematografica ha fin da subito ripreso la pittura del passato sia per trasmettere citazioni figurative, sia per ricorrere a soluzioni compositive e luministiche che derivano da opere celebri. Si iniziò così ad adottare elementi delle altre arti per potenziare il proprio spessore artistico, soprattutto nei primi anni di vita del cinematografo, quando la sua autonomia artistica ed espressiva era ancora di dubbia rilevanza. Apriamo questo macro-tema sul cinema e la pittura dalle origini più remote del mezzo partendo dall'ideatore dello spettacolo cinematografico: Louis Lumière. I suoi primi spettacoli erano basati su pure riproduzioni della realtà fenomenica e della vita 90 Costa Antonio, Il cinema e le arti visive, Einaudi, Torino 2002, p.6. 91 Per maggiori approfondimenti si consiglia: Perniola Mario, L'alienazione artistica, Mursia, Milano 1971, pp.191-266. 92 Bertetto Paolo, Il cinema d'avanguardia, 1910-1930, Marsilio, Venezia 1983, p.17. 35 quotidiana; come l'uscita degli operai dalla fabbrica, l'arrivo di un treno in stazione o lo scorrere delle persone tra le vie di Parigi. Lo stesso Godard, nel 1966, nel discorso per l'inaugurazione della retrospettiva Lumière ideata da Henri Langlois affermò: Quello che interessava a Méliès era l'ordinario nello straordinario, a Lumière invece interessava lo straordinario nell'ordinario. Louis Lumière, passando per gli impressionisti, era quindi un discendente di Flaubert, ed anche di Stendhal, avendone portato lo specchio lungo le strade. Capite ora perché questo grande inventore rifiutasse di parlare di avvenire. Perché il cinema era anzitutto arte del presente, e perché in seguito sarebbe divenuto ciò che avvicina la vita all'arte93. Questa affermazione emerge anche nell'anno successivo nel film dello stesso Godard La Chinoise, nel quale è lo stesso personaggio interpretato da Jean-Pierre Léaud che esplica: «Lumière era un “pittore”, l'ultimo pittore impressionista, un contemporaneo di Proust»94. In realtà la frase risulta molto più complessa di quanto possa essere percepita inizialmente. Essa non intende affermare che con l'impressionismo si abbia la fine della pittura nello stesso momento in cui il cinema prende vita, ma pone l'attenzione su Lumière che con la nascita del cinema ha decretato la fine del legame tra la rappresentazione realistica e la pittura per raccoglierla definitivamente in eredità. Vi si afferma quindi una continuità temporale tra le due arti, una riconsiderazione globale del comune “destino visivo” della pittura e del cinema, un destino che Godard ha sempre affermato anche attraverso le sue opere cinematografiche, dove l'immagine riveste molto spesso il ruolo di protagonista pur mantenendo un legame con la parola95. Di tutt'altro pensiero è Jacques Aumount96, il quale ritiene invece che nel cinema e nelle riprese di Louis Lumière, a prescindere che potesse conoscere o meno i pittori impressionisti a lui contemporanei, non vi è nessun richiamo di temi, composizioni e soggetti pittorici degli impressionisti. Ogni possibile citazione, conclude, è attribuibile 93 Godard Jean-Luc, Due o tre cose che so di me. Scritti e conversazioni sul cinema, a cura di Orazio Leogrande, Minimum Fax, Roma 2007, p.95. 94 Citato in Aumont Jacques, L'occhio interminabile. Cinema e pittura, Marsilio, Venezia 1998, p.7. 95 Tale concetto viene espresso da Angelo Moscariello, Cinema e pittura. Dall’effetto-cinema nell’arte figurativa alla “cinepittura digitale”, Progedit, Bari 2011, pp. 11-12. 96 Aumount tratta di queste affermazioni di Godard in: L'occhio interminabile. Cinema e pittura, Marsilio, Venezia 1998, pp.7-9. 36 esclusivamente ad una eredità figurativa e l'unico nesso tra immagini pittoriche e la filmografia Lumière sono riscontrabili su temi di carattere generale e quasi sempre banale: le vedute Lumière si avvicinano più a vedute da cartolina che a veri e propri quadri e non vi sono caratteristiche tipicamente artistiche. Durante il periodo del muto, si tratta di un arco di tempo che va dal cinematografo dei Lumière (1895) fino al 1927, anno che segna la nascita del sonoro con il film The Jazz Singer (Il cantante di jazz), l'immagine fotografica in bianco e nero 97 suggeriva un raffronto tra cinema e incisione. Questa concetto viene espresso nel testo di Bruno Rehlinger del 193898, nel quale egli traccia diversi tentativi di associazione tra film e incisione o film e grafismo ritenendo che, nonostante sia cosciente delle differenze essenziali, l'esito di questa associazione non riguardi tanto il piano tecnico, quanto invece quello estetico; il film difatti allude alla sfera spirituale mentre l'incisione ne rappresenta la scrittura. Ma l'argomentazione che più ci interessa trattare all'interno del legame tra cinema e arte negli anni del muto è il rapporto tra le fonti iconografiche e la ricostruzione narrativo-spettacolare delle vicende filmiche, che è riconducibile nel film di carattere storico e nel kolossal storico-religioso. In Italia le produzioni storiche furono assai limitate, da ricordare vi sono Quo vadis? (1913) di Enrico Guazzoni e Gli ultimi giorni di Pompei (1913) di Eleuterio Rodolfi. Per entrambi i film, ambientati nell'epoca romana, i registi assumono come modello iconografico per le scenografie, le architetture, i costumi e per le acconciature, la pittura che va dal neoclassicismo fino all'Ottocento; nessun richiamo invece alla iconografia romana, che sarebbe stata quella più adatta nei confronti della storicità delle vicende. Il 1914 fu l'anno del successo internazionale del film di Giovanni Pastrone, Cabiria. Il celebre kolossal, che vide la partecipazione di Gabriele D'Annunzio per le didascalie, è stato forse l'unico film storico del cinema muto italiano, per il quale la raccolta di una immensa documentazione iconografica è servita solamente all'autore per trasfigurare e scremare le immagini più che per utilizzarle come fonti artistiche e storiche. Queste fonti vennero 97 Il Technicolor in tricromia fu lanciato nel 1932 con il cartone animato Flow-ers and trees, che inaugurava la serie delle Silly Sympho-nies di Walt Disney. 98 Qui citato in Aumont Jacques, L'occhio interminabile. Cinema e pittura, Marsilio, Venezia 1998, p.112. 37 mescolate alle scenografie e agli allestimenti, che invece appartenevano al teatro d'opera, in modo ostentato creando nel pubblico un forte senso di attrazione e stupore verso questo nuovo modo di messa in scena. Per la messa in scena di film di carattere storico-religioso, fu cospicuo il numero di registi che richiamarono opere pittoriche di artisti rinascimentali, nel tentativo di dare al proprio lavoro un carattere artisticamente elevato. Tuttavia sono pochi i risultati eccellenti a causa degli stessi autori che non furono in grado di dare rilievo espressivo alle infinite possibilità offerte dalla pittura. Tra i più noti vi è Cecil Blount de Mille che, con il suo senso plastico e il gusto di una messa inquadro artisticamente estesa ha fatto spesso uso di citazioni pittoriche. Per esempio, La crocifissione del Tintoretto appare in The King of Kings (Il Re dei Re, 1927) e diviene immagine ispiratrice per un'inquadratura dell'analoga sequenza della crocifissione tratta dal film. Ma se per il Tintoretto le figure si fondono organicamente nella scena, nell'inquadratura di De Mille esse si degradano e si sgranano. Per i registi del cinema storico-religioso, quindi, risultava del tutto naturale ricorrere ai pittori come Piero della Francesca, Leonardo o Paolo Uccello per studiare i tagli delle scene; a Mantegna, Tintoretto e a Tiepolo per gli scorci; a Giotto, Masaccio, Caravaggio e Magnasco per lo studio di atmosfere drammatiche. La raffigurazione pittorica ha influenzato anche il modo di recitare e di atteggiarsi degli attori, i quali traevano ispirazione dalle opere pittoriche per riprodurre le posture ed interpretare al meglio film ambientati in epoche passate. 2.3.2 Cinema d'avanguardia Negli anni del cinema muto vi erano anche altre esperienze mutuate dallo sperimentalismo delle avanguardie cinematografiche, dove l'utilizzo del pittorico non era dovuto tanto all'uso di immagini già esistenti nella storia dell'arte, ma piuttosto all'intervento diretto degli artisti, i quali videro nel mezzo cinematografico una via di fuga dalle arti tradizionali e dalle sue ideologie. L'unità del cinema d'avanguardia si basa sul rifiuto esplicito del cinema ufficiale mediante un processo di negazione del cinema-merce, della narratività convertita in puro prodotto industriale, per abbracciare la ricerca di un cinema “puro”, ossia la forma essenziale del cinema stesso. Le 38 avanguardie artistiche del primo Novecento vivono in una costante tensione tra la spinta a superare l'arte e la necessità di elaborare un lessico capace di essere chiaro e comprensibile verso le condizioni di vita che, in quell'epoca, erano in continuo mutamento. L'obiettivo principale degli artisti-cineasti delle avanguardie storiche è il superamento dell'arte e il cinema è il mezzo con il quale il suo raggiungimento è più immediato, in quanto strumento moderno e “privo” di arte. Difatti molte volte l'interesse dei pittori verso il mezzo cinematografico era dovuto all'assenza di un valore artistico del cinema in quel determinato periodo storico in concomitanza con l'assenza di una storia e di una tradizione; caratteristiche che sono invece intrinseche nelle altre arti. In questo contesto emergono per primi gli artisti surrealisti e futuristi, i quali sperimentarono le arti figurative delle loro correnti con il mezzo cinematografico, facendo spiccare inquadrature intrinseche delle caratteristiche e dell'estetica propria di tali correnti. Verranno ora presi in analisi i movimenti primari delle avanguardie storiche nel tentativo di dare un quadro generale, ma allo stesso tempo significativo, di ogni corrente cinematografica. Si tratta di uno scenario che appare sfaccettato e per tale motivo deve essere osservato nel suo complesso; difatti in questo contesto le singole opere e i singoli autori citati verranno inseriti in un discorso ampio sull'arte in generale e sul cinema in particolare. 2.3.3 Futurismo Il Manifesto del cinema futurista, firmato da Marinetti, Corra, Settimelli, Ginna, Balla e Chiti, appare nel 1916, relativamente tardi rispetto alla pubblicazione degli altri manifesti, che si aggirano intorno agli anni dieci del Novecento. Prima della pubblicazione del Manifesto, Ginna e Corra con le loro sperimentazioni di cinema astratto (“musica cromatica”) e Aldo Molinari con Mondo baldoria (1914) possono essere definiti gli anticipatori del cinema d'avanguardia degli anni Venti. L'apporto di Arnaldo Ginna e Bruno Corra (nomi d'arte suggeriti da Giacomo Balla dei fratelli Arnaldo e Bruno Corra) al tema del cinema e della pittura è legato essenzialmente alla tecnica; i due artisti approfondiscono le ricerche sui rapporti tra 39 musica e colore utilizzando la tecnica della coloritura diretta della pellicola da cui è stata tolta l'emulsione. Purtroppo delle loro sperimentazioni non vi sono copie a noi pervenute, ma da un loro testo del 1912 (Il pastore, il gregge e la zampogna) si è venuti a conoscenza che furono quattro i film (“cinepitture”) prodotti nel 1911 con la tecnica della coloritura. Il primo, Accordo di colore, viene descritto dai due fratelli come: «lo svolgimento tematico di un accordo di colore tolto da un quadro di Segantini – quello in cui si vedono delle case in fondo e, sul davanti, una donna coricata in un prato –, l'erba del prato tutta commista di fiorellini, è resa, per mezzo del complementarismo, con un brulicare svariato di colori, il prato è vivo, vibra tutto, sembra coperto da una esaltazione di armonia, vi si vede la forza creatrice della Primavera materiata in un febbrile zampillo di luci –, questo accordo cromatico ci impressionò e lo svolgemmo integralmente in centottanta metri di film» 99. Si intuisce che la pellicola del film era stata realizzata con la sovrapposizione di puntini di colore, tecnica che riprende le caratteristiche principali della pittura puntinista e di quella del suo esponente principale Segantini. Il secondo film «è uno studio di effetti tra quattro colori a due a due complementari, rosso, verde, azzurro e giallo»100. Il terzo, composto sempre con la medesima tecnica «è una traduzione e riduzione del Canto di Primavera di Mendelssohn intrecciato con un tema preso da un Valzer di Chopin» 101. Infine, il quarto viene presentato come «una traduzione di colori della famosa e meravigliosa poesia di Stéphane Mallarmé intitolata Les Fleures»102. Con le loro cinepitture, Ginna e Corra gettano le premesse per quelle ricerche dell'avanguardia storica che si svilupparono nel corso degli anni Venti e Trenta con risultati di grande significato tecnico-espressivo. Ginna, con Corra, Balla, e Marinetti, nel 1916 realizzarò Vita futurista, purtroppo anch'esso andato in parte perduto. Il film, girato in un caffè a Firenze, vede come attori gli stessi protagonisti del Futurismo che si divertono a importunare la clientela. Ma in questo caso, nonostante sia il film futurista più conosciuto, il mezzo filmico viene utilizzato sopratutto per documentare una rivoluzione da attuare nella concretezza della 99 Il testo dei fratelli Ginna e Corra è riprodotto in Verdone Mario (a cura di), Manifesti futuristi e scritti teorici di Arnaldo Ginna e Bruno Corra, Longo, Ravenna 1984, pp.162-163. 100 Ivi. 101 Ivi. 102 Ivi. 40 vita quotidiana. Altra pellicola significativa e pervenuta ai giorni nostri è Thaïs (1917) di Anton Giulio Bragaglia, che appare di fondamentale importanza per le magnifiche scenografie ad opera del pittore Prampolini, che segnano e anticipano quelle scenografie tipiche del cinema espressionista tedesco. Si tratta di scenografie composte da forme geometriche realizzate con forti contrasti di bianco e nero che creano un'illusione sullo spazio. Ma l'integrazione del pittorico nel filmico si rivela ancora debole, le scenografie e il corpo dell'attrice restano semplicemente accostati, a differenza di Das Cabinet des Dr. Caligari (Il gabinetto del dottor Caligari, 1919), film che analizzeremo in seguito, dove vi è un intervento sulla scenografia, sul corpo dell'attore stesso e sulla sua gestualità. In conclusione, come afferma Rondolino nel suo testo sulla storia del cinema: In altre parole sia Bragaglia sia Ginna e i suoi amici fiorentini utilizzavano ancora il cinema come un mezzo di riproduzione fotografica in movimento di una realtà precostituita; il loro interesse precipuo era rivolto a questa realtà piuttosto che alla nuova realtà che poteva scaturire dal mezzo espressivo correttamente e originalmente impiegato. Da mezzo di riproduzione il loro cinema non era ancora giunto al livello di mezzo di produzione.103 2.3.4 Dadaismo Anche all'interno della corrente dadaista, gli artisti utilizzarono il mezzo cinematografico nel tentativo di realizzare i punti di un programma che si può racchiudere in questi due slogan di Tristan Tzara, fondatore del Dadaismo insieme a Hugo Ball: «C’è un grande lavoro distruttivo, negativo da compiere» e «L’arte non è una cosa seria, dico sul serio» 104. Il Dadaismo sviluppò una poetica basata sul caso e parallelamente sull'idea di opera globale, cioè sul superamento di ogni tecnica artistica per un nuovo rapporto tra arte e vita. Gli artisti dada si avvicinarono al cinema in quanto esso risultava il mezzo più efficace per sviluppare quella poetica del caso che si basava 103 Rondolino Gianni, Storia del cinema (vol. 1), Utet, Torino 1997, p.158. 104 Tzara Tristan, Sept manifestes Dada, Lampisteries, Pauvert, Paris 1963; trad. it. Manifesti del dadaismo e Lampisterie, Torino 1975; qui citati in Costa Antonio, Il cinema e le arti visive, Einaudi, Torino 2002, p.174. 41 sull'uso incondizionato di qualsiasi tecnica e sul reimpiego di oggetti di uso comune in diversi contesti ambientali; allo stesso modo il cinema consentiva l'integrazione di diversi linguaggi espressivi e il superamento dei linguaggi artistici tradizionali. Per quanto concerne il cinema legato alla corrente dada, il film più significativo è Retour à la raison (1923) di Man Ray, dove l'artista non impressiona immagini attraverso la cinepresa, ma attraverso il “contatto” di oggetti con caratteristiche comuni ed infine espone la pellicola alla luce. L'oggetto viene impressionato nella pellicola per poi apparire su sfondo nero. La tecnica riprende quella dei rayogrammi che Man Ray già utilizzava in fotografia. Il film può essere associato alla tecnica dell'assemblaggio, come un ready-made, procedimento tipico del movimento dadaista, in quanto vi si uniscono elementi casuali (spilli, pepe, sale) con altri che appaiono invece raffinati e ricercati (l'ornamento di una tenda sul corpo nudo di una modella). Inoltre, gli strappi reali della pellicola createsi durante la proiezione del film possono essere ricondotti agli strappi del tessuto narrativo dello stesso. Molti considerano come manifesto del cinema dada Entr'acte (1924), diretto da René Clair e scritto dal pittore Francis Picabia. Nel film appaiono numerosi artisti legati alla corrente, come ad esempio Man Ray, Marcel Duchamp ed Erik Satie, che ne curerà le musiche. La pellicola venne presentata in una delle numerose serate della corrente dadaista al Théâtre des Champs Elysées nel dicembre del 1924, dove l'accoglienza risultò fin da subito positiva. Il film era stato concepito per essere proiettato come prologo o durante l'intervallo di uno spettacolo del balletto di Rolf de Maré e ciò ne spiega il titolo, che per l'appunto in francese significa proprio “intervallo”. Nella prima parte si possono vedere Picabia e Satie che, dopo aver caricato un cannone, sparano in direzione dello spettatore; successivamente appaiono Marcel Duchamp e Man Ray intenti nel gioco degli scacchi per poi, con l'utilizzo della tecnica della dissolvenza incrociata, veder apparire nella scacchiera Place de la Concorde, in un gioco di relazione tra oggetti e spazi urbani. Dopo una serie di episodi esilaranti, appare Börlin vestito da cacciatore tirolese che colpisce, con un fucile, un uovo che è sospeso grazie ad un getto d'acqua; da questa sequenza esce poco dopo un piccione che si posa sul suo cappello. L'immagine di Börlin si sdoppia, ma appare Picabia che a sua volta gli spara, uccidendolo. Al suo funerale, grottesco ed esilarante, durante il corteo funebre accade 42 un incidente che fa “scappare” la bara, che alla fine si apre e ne esce Börlin, vivo, che farà scomparire tutti i presenti tramite una magia. Appare la scritta Fin, lo schermo si lacera e ricompare Picabia; dopo un vero intervallo lo spettacolo riprende con scritte pubblicitarie e a colori. Entr'acte richiama l'idea dada che l'arte debba essere libera e il cinema è il mezzo per superare il valore estetico e le barriere tra arte e vita. Ma c'è un forte richiamo anche al cinema primitivo, in particolare a quello di Méliès, ai suoi trucchi e alla sua spettacolarizzazione filmica. Anémic cinéma (1926) di Marcel Duchamp è anch'esso uno dei film, che può essere ricondotto all'obiettivo dada di superamento del concetto di arte. Duchamp, padre dell'arte contemporanea, aveva già realizzato nelle due versioni del 1911 e 1912 il film Nu descendant un escalier, con l'utilizzo delle cronofotografie di Etienne Marey, ovvero una sequenza di fotografie di un corpo in movimento. «Le aveva utilizzate, secondo un principio fondamentale della sua poetica, come una sorta di proiezione nella dimensione della pittura di un fenomeno (il movimento che si sviluppa nella quarta dimensione, il tempo, considerata letteralmente “invisibile”)»105. In Anémic cinéma vediamo nove dischi rotanti con spirali alternati a nove dischi con scritte tracciate, fatte in modo tale che si possano creare altre spirali; esse furono realizzate in precedenza come oggetti in movimento e in seguito trasferite su pellicola cinematografica con l'obiettivo di ricercare un'illusione tra la profondità-rilievo data dalle spirali e l'effetto superficie dato dalle scritte. L'intento di superare la pittura e l'arte da parte di Duchamp è reso possibile grazie alla macchina cinematografica, che unisce il movimento circolare dell'apparecchio con la profondità che si appiattisce in superficie e viceversa. 2.3.5 Surrealismo Il cinema surrealista nasce dalle ceneri del cinema dada e fin dall'inizio fu caratterizzato da una predilezione per l'arte figurativa in opposizione alla musica e al cinema astratto. La tradizione cinematografica surrealista pone particolare attenzione a quei caratteri tipici del cinema popolare e di consumo, come l'erotismo o il 105 Haas (de) Patrick, Cinéma intégral. De la peinture au cinéma dans les années vingt, Transédition, Paris 1985; qui citato in Costa Antonio, Il cinema e le arti visive, Einaudi, Torino 2002, p.174. 43 meraviglioso, e ai generi legati ai serials con la mitizzazione dei relativi protagonisti 106. «L'idea stessa di cinema diventa per gli artisti quasi più importante dei film surrealisti stessi, proprio per le analogie che individua tra le configurazioni filmiche e quelle oniriche e tra le associazioni libere […] e le tecniche del montaggio cinematografico»107. L'incontro tra il cinema e la corrente surrealista appare come una necessità reciproca nata per chiarire le proprie identità. Gli autori surrealisti privilegiavano i contenuti e le immagini diventano puro supporto di un messaggio antiborghese, anarchico, anticlericale oppure diventano addirittura esaltazione dell'individualismo, dell'amore o della morte. Tra le prime produzioni surrealiste troviamo La coquille et le clergyman (1927) di Germaine Dulac, un film che richiama le associazioni inconsce di un universo visionario, privo di regole e di consequenzialità. Ma sono Un chien andalou (Un cane andaluso, 1929) e L'âge d'or (1930) di Luis Buñuel e Salvador Dalí, in cui si trovano le principali peculiarità della corrente. Nei due film non si trova tanto la pittura, ma semmai soluzioni cinematografiche di procedimenti teorici redatti in sede pittorica, come il Manifesto del Surrealismo di André Breton, o metodi per la costruzione della forma pittorica, come il metodo teorizzato da Dalí della paranoia critica. La sequenza iniziale di Un chien andalou si apre con l'immagine di un uomo che guarda la luna velata da una nuvola; in quella successiva appare la stessa nuvola che «taglia» in due il tondo della luna, subito dopo appare un rasoio tenuto in mano dall'uomo della scena iniziale che, con lo stesso, “taglia” l'occhio di una donna. Queste due scene sono racchiuse tra due frasi temporali che le accompagnano: “C'era una volta” e “Otto anni dopo”. Due frasi che sono tipiche dei canoni del cinema narrativo, ma che appaiono invece più affini alla pittura di Dalí o di Magritte, i quali, pur organizzando prospetticamente lo spazio e lavorando in modo accademico, sono in grado di far emergere incongruenze e accostamenti, creando shock e spaesamento nello spettatore. In questo caso è il montaggio che viene utilizzato per creare incongruenze tra 106 Il serial nasce nel 1908 in Francia con il personaggio di Nick Carter di V. Jasset per raggiungere il successo nel 1923 con Fantômas; l'obiettivo era quello di costruire e fidelizzare il pubblico del cinema e allo stesso tempo di raggiungere una forma più distesa di narrazione basata sulla suspance e sulla presenza di enigmi. Il divismo legato agli attori cinematografici si affermò negli anni dieci grazie al legame tra cinema e mass media (giornali, riviste, radio, rotocalchi). 107 Costa Antonio, Il cinema e le arti visive, Einaudi, Torino 2002, p.180. 44 le scene, mentre, per definizione teorica, la funzione predominante è quella di creare una comprensione grazie alla vicinanza di varie sequenze. A questo proposito, Antonio Costa osserva: Ecco evidenziata quindi l'analogia del procedimento compositivo, nel rispetto delle procedure specifiche delle due arti: la pittura realizza l'incongruità e lo shock dell'accostamento agendo essenzialmente su una sintassi spaziale (simultaneità), mentre il cinema realizza lo stesso effetto agendo su una sintassi basata sulla messa in successione.108 Infatti, il libero accostamento di immagini prese da contesti diversi ed unite secondo i percorsi suggeriti dall'inconscio e senza alcun controllo logico-razionale, è accomunato al deliberato proposito di colpire lo spettatore e di aprire un nuovo tipo di percezione estetica. Il procedimento pittorico e quello cinematografo in questo film emergono senza che l'uno prenda il sopravvento sull'altro. È però con L'âge d'or che gli artisti surrealisti iniziano a considerare Buñuel come il regista che è stato in grado di rappresentare la corrente surrealista in modo totale. Rispetto all'opera precedente, L'âge d'or è una storia, composta da varie scene collegate tra loro, di due giovani innamorati che sono però ostacolati da varie Istituzioni. I temi del film sono quelli tipici del movimento: l'attacco alle istituzioni borghesi, quali la Chiesa, l'Esercito, lo Stato, la famiglia, che rifiutano l'affermazione dell'individuo e della sua natura, ad esempio le pulsioni sessuali. Dal punto di vista estetico, l'opera è un fiorire continuo di invenzioni stilistiche di natura pittorica, come le scene voyeuristiche tipiche di Dalí, ad esempio quella che mostra la giovane coppia infilarsi le dita in bocca l'uno all'altra per vederle poco dopo mutilate. 2.3.6 Espressionismo tedesco In Germania lo stile espressionista, che negli anni Venti si era già affermato in altre arti, riuscì ad influenzare e ad interagire con il mezzo cinematografico in modo esemplare; il cinema espressionista adottò le caratteristiche proprie sia dello stile pittorico, sia di quello teatrale. L'espressionismo si manifestò nel 1908, principalmente 108 Costa Antonio, Il cinema e le arti visive, Einaudi, Torino 2002, p.184. 45 nel campo della pittura e del teatro, opponendosi al realismo dell'impressionismo francese nel tentativo di far emergere le emozioni più vere e intrinseche nascoste sotto la superficie della realtà. I tratti comuni dello stile pittorico espressionista si basano su ampie campiture di colori luminosi, non realistici e contornati di nero; le figure allungate dai volti di un colore verde livido con espressioni grottesche e angosciate; gli edifici venivano dipinti incurvati e distorti con il suolo vertiginosamente inclinato 109. Questi effetti di deformazione non erano facilmente ottenibili nelle scene di un film, per tale motivo fu il teatro a fornire un modello più diretto di messa in scena e di recitazione stilizzata che si adattasse al cinema espressionista. Negli anni dieci il ricorso allo stile espressionista nei teatri divenne sempre più usuale: gli allestimenti scenici erano di grandi dimensione e con l'assenza di sfumature di colore; la recitazione era fatta di gestualità, posture ed espressioni facciali talvolta esagerate. Lo scopo era quello di riuscire ad esprimere le emozioni dei personaggi nel modo più diretto possibile, attraverso anche l'uso di finali aperti. Manifesto paradigmatico del cinema espressionista è Das Cabinet des Dr. Caligari (1919) di Robert Wiene, dove il richiamo allo stile pittorico di quel tempo e alle esperienze del teatro espressionista è percepibile in tutti gli elementi della messa in scena. In un testo del 1926 Hermann Warm, scenografo di Das Cabinet des Dr. Caligari, afferma la frase che meglio esprime il concetto principale della corrente: «l'immagine cinematografica deve diventare grafica»110. L'obiettivo principale dell'espressionismo cinematografico era un lavoro estetico e stilistico della messa in scena; ogni inquadratura cinematografica diviene una composizione visiva e viene concepita per esprimere i sentimenti dei personaggi nel tentativo di fondere tutti gli elementi (recitazione, illuminazione, costumi, scenografia). Tuttavia un film non è come un'opera pittorica e la trama deve procedere, così molto spesso nei film espressionisti la narrazione subisce dei rallentamenti nel momento in cui gli elementi della messa in scena si dispongono in modo tale da catturare l'attenzione dello spettatore. Das Cabinet des Dr. Caligari è contraddistinto da un montaggio semplice con inquadrature fisse che creano una bidimensionalità che rievoca il mondo distorto e malato del protagonista 109 Bordwell David, Thompson Kristin, Storia del cinema e dei film. Dalle origini al 1945. Editrice Il Castoro, Milano 2003, pp.160-161. 110 Citato in Kurtz Rudolf, L'espressionismo e il film, Longanesi, Milano 1981. 46 Franz. Il film è ambientato in scenografie dalla geometria non euclidea, con spigoli appuntiti, superfici stilizzate, ombre marcate, strade dagli angoli spigolosi che diventano vicoli ciechi e arredi deformati, come la sedia dallo schienale allungato di Francis. L'uso della stilizzazione nelle scenografie permetteva di collegare elementi diversi della messa in scena: ad esempio i costumi di Jane presentano le stesse geometrie delle scenografie. La messa in scena era legata anche all'illuminazione, la quale molto spesso proveniva da fonti laterali o frontali con l'obiettivo di formare quelle ombre che servivano poi per creare effetti deformanti nella scena. I personaggi recitano col volto pesantemente truccato, si pensi agli occhi cerchiati di nero di Cesare (il sonnambulo), e allo stesso modo il criterio fondante del cinema espressionista, l'esagerazione, era trasposto anche nell'interpretazione degli attori, la quale era volutamente enfatizzata in modo tale da poter entrare in perfetta armonia con gli altri elementi. Das Cabinet des Dr. Caligari è il film che meglio diffuse lo stile espressionista: è prevalente in tutto il suo svolgimento il richiamo ad una pre-stilizzizazione pittorica, ad elementi la cui espressività è di tipo grafico e linearistico, con il tentativo di annullare gli effetti realistici della fotografia per una maggiore espressività e soggettività dei personaggi. Se nelle correnti precedenti la pittura cercava di risolvere i propri “problemi" attraverso l'uso del mezzo cinematografico, nel caso dell'espressionismo è il cinema che cerca di risolversi nella pittura. In questo esempio cinematografico appena citato, la pittura appare allo stato puro, lo schermo sembra che sia stato trattato come la tela di un dipinto con l'intenzione di voler trasferire l'espressionismo pittorico sullo schermo stesso. 2.3.7 Cubismo Il Cubismo è una corrente pittorica basata sulla scomposizione di figure e di oggetti in forme geometriche, secondo più punti di vista, con l'obiettivo di ricercare la tridimensionalità in un supporto bidimensionale. Da questa premessa è chiaro come le caratteristiche proprie del Cubismo trovarono compimento nel mezzo cinematografico. È Le ballet mécanique (1924) di Fernand Léger il film più celebre del cinema cubista. In quest'opera gli oggetti e gli spazi comuni subiscono un effetto di astrazione e 47 di straniamento in seguito ad interventi sul linguaggio filmico, come le distorsioni, inversioni, iterazioni, giocando sul senso del movimento. «In questo modo, Léger sviluppa nella temporalità filmica quello stesso lavoro analitico sulla successività e sulla durata compiuto dal cubismo nella spazialità del quadro»111. La narrazione è abbandonata per lasciare posto al ritmo e al movimento di corpi e oggetti, all'uso di ripetizioni, rallentamenti e accelerazioni; le azioni acquistano così significati del tutto diversi come la fissità della donna che sale le scale, proposta da Léger una decina di volte nella stessa sequenza. In uno scritto, databile probabilmente alla fine degli anni Venti, Léger affermava in merito al suo Le ballet mécanique: La storia del film d'avanguardia è molto semplice. È una reazione diretta contro i film basati su uno scenario e sul divo. È la fantasia e il gioco contro l'ordine commerciale degli altri. Ma non è tutto. È la rivincita dei pittori e dei poeti. In un'arte come questa in cui l'immagine deve essere tutto e dove essa è sacrificata a un aneddoto romanzesco, bisognava difendersi e provare che le arti dell'immaginazione, relegate alla funzione di accessorio, potevano, da sole, con i loro propri mezzi, costruire dei film senza scenario considerando l'immagine mobile come personaggio principale112. Il film di Léger è perciò un'esaltazione dell'oggetto, del suo dinamismo e della sua plasticità nel tentativo di (ri)conferire quel valore che nella pittura cubista aveva perduto tramite la sua scomposizione. 2.3.8 Avanguardie sovietiche Come accadde in Europa, anche in Russia gli scambi tra pittura e cinema erano molto stretti e, negli anni Venti, Futurismo, Costruttivismo e Produttivismo erano le correnti pittoriche dell'avanguardia che più influenzarono i cineasti sovietici. L'esigenza di superamento dell'arte si scontra con una maggiore necessità di individuare nel cinema un'espressione, definita da leggi e regole, che possa comportare un riconoscimento dei processi formali. Questa tensione è facilmente avvertibile sia nei manifesti teorici, sia nei lavori dei registi sovietici Dziga Vertov e di Sergej Michajlovič Ėjzenštejn. 111 Costa Antonio, Cinema e Pittura, Loescher, Torino 1991, p. 67. 112 Citato in Rondolino Gianni, Storia del cinema (vol. 1), Utet, Torino 1997, p.160. 48 Nel campo delle arti visive, la costante ricerca di un arte che fosse socialmente utile sfociò nella comparsa del Costruttivismo intorno alla seconda metà degli anni Dieci: gli artisti costruttivisti credono che l'arte debba perseguire una funzione di tipo sociale; l'opera d'arte veniva paragonata ad una macchina e alla logica dell'assemblaggio delle parti, idea che venne poi messa in relazione per indicare l'assemblaggio delle inquadrature tipiche di questo cinema. L'arte doveva essere comprensibile a tutti e per questo doveva adempire a scopi educativi e propagandistici a favore di una società comunista. In questi anni anche il teatro fu influenzato dal Costruttivismo: ad esempio, nella messa in scena dell'opera Le cocu magnifique (Il magnifico cornuto, 1922, di F. Crommelynck) sia le scenografie che i costumi curati da Vsevolod Mejerchol'd mettevano da parte il piacere estetico per prediligere una loro funzionalità carica di significati sociali, gli attori recitavano con tute da lavoro e il set sembrava un enorme macchinario. La corrente costruttivista, perciò, influenzò più campi delle arti: ad esempio in pittura, Malevič dipingeva forme geometriche e auspicava la supremazia assoluta della sensibilità plastica fondando l'avanguardia artistica del Suprematismo; Mejerchol'd portò nel teatro la "biomeccanica", dove l'analogia tra attori e macchina portava a un uso della recitazione basata su precisi e controllati movimenti del corpo; infine Tatlin creava, con la tecnica dell'assemblaggio cubo-futurista, sculture realizzate con materiali del “nuovo mondo moderno”, come l'alluminio. Le macchine regalavano un fascino su questa nuova generazione di artisti al punto da arrivare a fondare un'estetica antitradizionale basata sulla velocità, sul movimento, sulla ripetizione, sulle forme geometriche. In questi anni di radicali mutamenti per le arti, un nuovo gruppo di cineasti113 si affacciava al mondo del cinema. Il tentativo di risolvere il problema della forma cinematografica rifacendosi al modello della forma pittorica rivela la difficoltà, teorica e non solo, del mezzo cinematografico. Le riflessioni teoriche di Sergej Michailovič Ejzenštejn si basano sulla ricerca di una soluzione al problema della convivenza conflittuale tra l'astrazione dello schema compositivo e il realismo del materiale cinematografico 114. La possibilità di 113 Tra i più celebri vi sono i registi Lev Kulešov, Sergej Ejzenštejn, Dziga Vertov, Vsevolod Pudovkin. 114 Per approfondimenti si veda la teoria formulata da Ejzenštejn nel 1924, Il montaggio delle attrazioni. Secondo tale teoria si indica il montaggio come chiave di volta per l'organizzazione delle 49 esprimere le qualità artistiche del cinema venne concepito attraverso il concetto del montaggio; Ejzenštejn sosteneva come esso fosse il principio formale generale presente anche nel teatro, nella poesia e nella pittura. «Sempre secondo il cineasta sovietico, il montaggio poteva essere concepito come una sorta di collisione tra elementi dove le sequenze venivano poste in conflitto l'una con l'altra con l'obiettivo di produrre una nuova sintesi che le oltrepassasse. Il montaggio sottoponeva così lo spettatore al conflitto tra i vari elementi spingendolo poi a creare un concetto nuovo, che avesse un senso dal punto di vista sociale e politico»115. Pur non possedendo richiami espliciti con la pittura, il film Bronenosec Potëmkin (La corazzata Potёmkin,1926) di Ejzenštejn è l'esempio più calzante del principio del montaggio sovietico, concetto che verrà sviluppato e analizzato nel dopoguerra da registi e teorici di cinema, soprattutto legati alla corrente della Nouvelle Vague francese e naturalmente anche da Jean-Luc Godard. Le strategie di montaggio emergono fin dalle prime inquadrature di Bronenosec Potëmkin: si prenda, ad esempio, la scena in cui uno dei marinai, che parteciperà poi all'ammutinamento contro gli ufficiali zaristi, esprime tutto il suo disaccordo gettando a terra con forza uno dei piatti che stava lavando. Questo gesto viene mostrato da Ejzenštejn attraverso dieci inquadrature diverse con l'obiettivo di enfatizzare e dilatare l'azione sullo schermo 116. Il montaggio, inoltre, poteva allo stesso tempo essere in grado di creare collegamenti spaziali in conflitto tra loro, costringendo lo spettatore a mettere in relazione ciò che aveva appena visto; così, prendendo in analisi lo stesso esempio, Ejzenštejn crea uno spazio non omogeneo cambiando la posizione del marinaio ad ogni cambio di inquadratura. Ma non vi era solo il montaggio ad esprimere la tensione dinamica tra gli elementi: anche all'interno delle stesse inquadrature potevano esserci contrasti, come ad esempio tra forme, colori, volumi o strutture. Riferendoci alla scena già esaminata appare eloquente il contrasto tra la maglia del marinaio a bande orizzontali e le linee verticali presenti sul muro dietro il personaggio. Un altro esempio deriva dalla contrapposizione nella medesima attrazioni, queste ultime sono intese come provocazioni sensoriali che orientano lo spettatore nei confronti dei fatti rappresentati e se ben collegate tra loro sono in grado di orientare l'emozione dello spettatore in una determinata direzione. 115 Citato in Bordwell David, Thompson Kristin, Storia del cinema e dei film. Dalle origini al 1945. Editrice Il Castoro, Milano 2003, p.195. 116 Questo procedimento del montaggio viene definito overlapping editing, si tratta nello specifico quando un'inquadratura può ripetere in parte o per intero l'azione dell'inquadratura precedente. 50 inquadratura di personaggi che si muovono in direzioni opposte; ad esempio in una ripresa dall'alto del battello viene mostrato contemporaneamente sulla parte superiore dell'inquadratura degli uomini che si muovono da sinistra verso destra, e sul ponte in basso un gruppo che si muove nella direzione opposta. Inoltre, altra caratteristica essenziale, che ritroveremo anche nelle correnti cinematografiche del Neorealismo italiano e della Nouvelle Vague, è l'esigenza di esprimere un certo realismo che condusse Ejzenštejn a scegliere attori non professionisti, le cui caratteristiche fisiche avrebbero suggerito allo spettatore la classe sociale di appartenenza. Il riferimento alla pittura, in senso generale, ne Bronenosec Potëmkin è espressa dallo stesso regista in un celebre saggio Sulla struttura delle cose117. Ejzenštejn riferendosi alla composizione del suo film ne definisce la scomposizione secondo la formula della “legge organica”, cioè secondo i princìpi della sezione aurea, nonché la legge organica che regola il mondo intero. Per affermare questa sua tesi, il cineasta prende la costruzione “mediante i princìpi della sezione aurea” del canto III del poema Russlan e Ludmila di Puškin e del quadro La bojarina Morozova (1887). Quest'ultimo è uno dei capolavori dell'artista ambulante Vasilij Surikov, ed è uno dei quadri che meglio rappresenta l'arte russa realista e storico-popolare della seconda metà dell'Ottocento e che influenzerà il regista per la realizzazione delle sue opere successive. Anche se realizzato nel periodo del cinema sonoro, da ricordare vi è anche la trilogia di film Ivan Groznyj (Ivan il Terribile, 1944), dove Ejzenštejn attinge al repertorio figurativo russo di fine Ottocento, nel caso specifico ai “pittori ambulanti” (Repin, Vasnzov, Serov, Surikov, Antokolskij), conosciuti per le loro opere di carattere storico-nazionalista. Attraverso la sceneggiatura, scritta dallo stesso Ejzenštejn ed in versi, appare già il tentativo di recuperare il pathos della tradizione nazional-popolare dei canti epici dell'Ottocento russo. Ejzenštejn prese questo come periodo di riferimento per la composizione epica di Ivan Groznyj, attingendone sia per le fonti iconografiche dei protagonisti del film, sia per la concezione strutturale-melodrammatica. Da una ricerca accurata sui quadri degli artisti “ambulanti” risulta facilmente intuibile la similitudine tra le opere pittoriche e la costruzione ejzenštejniana del film 118. Ad 117 Citato in De Santi Piermarco, Cinema e pittura in “Art e Dossier”, n.16, 2008, p. 34. 118 Si veda per l'analisi del film Ivan Groznyj: De Santi Piermarco, Cinema e pittura in “Art e Dossier”, 2008, n.16, pp.30-35. 51 esempio il dipinto La bojarina Morozova di Surikov è richiamato in numerose sequenze di Ivan Groznyj ed è evidente come il regista ne abbia preso spunto per alcune caratteristiche dei personaggi, per esempio per il monaco Filippo, la principessa Starizkaja, l'Innocente e la zarina. Oltre alle fisionomie e agli atteggiamenti dei personaggi, Ejzenštejn ha citato anche i costumi e le acconciature del quadro. Altre citazioni di personaggi si colgono nel dipinto L'Arcidiacono (1877) di Repin, nel quale ritroviamo le figure dell'arcivescovo Pimen e del monaco Filippo; infine è dal dipinto di Vasnezov Ivan il terribile (1897) che il regista rimanda alla figura del protagonista per fisicità e gesti. Per Ivan Groznyj II: Bojarskij zagovor119 (La congiura dei boiardi, 1946), Ejzenštejn si rifà al dipinto Ivan il terribile e suo figlio Ivan il 16 novembre 1581 di Repin per mettere in scena la scoperta della morte del figlio, Vladimir, al posto dello zar Ivan da parte della principessa Starizkaja. Ancora ritroviamo Surikov con La zarina visita un convento (1912) in una delle sequenze finali del film, con la differenza che, in questo caso, il regista decide di capovolgere in chiave maschile le figure femminili del dipinto: la zarina diventa il principe Vladimir e le monache si trasformano nei congiurati incappucciati. 2.3.9 Cinema sperimentale e cinema d'artista Nel passare dal cinema delle avanguardie al cinema definito sperimentale e d'artista è indispensabile porre una premessa e un chiarimento terminologico, dal momento che stabilire i legami tra le avanguardie storiche e le avanguardie del secondo dopoguerra ci permette di definire in modo più soddisfacente anche l'area in cui il cinema d'artista diventa qualcosa di nuovo e innovativo rispetto alle esperienze delle avanguardie storiche. Vittorio Fagone, critico d'arte e vicino alle tematiche del cinema, pone una distinzione tra varie espressioni di uso consueto e che sono emerse a partire dalle avanguardie storiche120. 119 Secondo film della trilogia di Ivan Groznyj. La terza parte non venne mai realizzata a causa della morte del regista. 120 Fagone Vittorio, L'immagine video. Arti visuali e nuovi media elettronici, Feltrinelli, Milano, 1990, p.50. 52 I confini di tale classificazione sono molto labili, vi si trova il cinema d'avanguardia, che viene così definito perché composto da cineasti che con i loro lavori si sono posti in una posizione opposta rispetto al cinema commerciale e di intrattenimento (ad esempio. Man Ray, L'Herbier, Vertov, Buñuel). Colloca in questo contesto anche quei cineasti nordamericani che si sono ispirati alle esperienze delle avanguardie storiche e che fanno parte delle cosiddette neoavanguardie (ad esempio Maya Deren, Stan Brakhage, Gregory Markopoulos). Per questi artisti il centro d'interesse è il cinema e le avanguardie pittoriche o letterarie vengono utilizzate per esprimere la propria posizione verso il cinema corrente. Il termine cinema sperimentale viene ricondotto alle esperienze di pittori che hanno utilizzato il cinema per ottenere maggiore dinamicità delle immagini astratte, sono perciò i pittori stessi che sperimentano attraverso il nuovo mezzo tecnologico (ad esempio Duchamp, Richter, Eggeling). I rapporti che si stabiliscono tra il cinema e la pittura nell'esperienza sperimentale sono principalmente incentrati sul mezzo pittorico, ed è quest'ultimo che “sperimenta” e ricerca nuove possibilità di espressione attraverso l'opportunità di sfruttare le potenzialità tecnologiche del mezzo cinematografico. Infine con il termine cinema d'artista, Fagone fa riferimento ad una produzione che acquista la sua autonomia nella seconda metà degli anni Sessanta, dove gli artisti utilizzano il mezzo cinematografico per esplorare le possibilità offerte verso una costruzione dell'immagine. Si tratta di un termine che risulta dalla fusione tra le due espressioni precedentemente analizzate ed è certamente il termine che più si adatta alle nuove correnti cinematografiche (ad esempio Andy Warhol, Michael Snow). Le avanguardie cinematografiche europee dominanti nell'epoca del muto vengono soppiantate negli anni della Seconda guerra mondiale da un nuovo centro artistico situato negli Stati Uniti. Come per le avanguardie storiche, anche i cineasti sperimentali sono maggiormente legati al mondo delle arti visive anziché al cinema commerciale e percepiscono le influenze delle avanguardie storiche, soprattutto dalle correnti del Surrealismo e del Dadaismo. Tra la fine degli anni Quaranta e i primi anni Sessanta quattro sono le tendenze principali che dominano il cinema: la narrativa sperimentale, il film lirico, l'antologia sperimentale e il film astratto. Ci soffermeremo ora su ognuna di 53 esse delineandone le caratteristiche secondo i princìpi dettati da David Bordwell e Kristin Thompson121. I film astratti erano già apparsi negli anni Venti nelle opere Lichtspiel Opus 1 di Ruttmann e Diagonal Symphonie di Eggeling. Nel Dopoguerra molti artisti americani (molto spesso si trattava di artisti legati alle arti visive, ma che lavoravano anche sperimentando sul mezzo cinematografico) continuarono le ricerche delle avanguardie storiche; tra questi annoveriamo Harry Smith, che dipingeva direttamente su pellicola creando immagini astratte che riecheggiavano i temi del surrealismo e del dada. Questi film fatti a mano, conosciuti con i titoli No. 1, 2, 3 e 5, erano accompagnati quasi sempre da musiche a cui Smith cambiava la colonna sonora in base anche alle serate delle proiezioni; i film potevano essere accompagnati da musicisti o anche da una radio. Norman McLaren lavorò e sperimentò con forme di animazione diverse, dalla pixillation, dove vi era l'inserimento di attori veri in sequenze animate, all'animazione ottenuta con ritagli di carta. Tra i suoi lavori ricordiamo Neighbours (1952), dove vi è la sperimentazione della tecnica dell'animazione di attori; e Canon (1964), dove McLaren include nell'opera filmica animazione di sagome ritagliate, cartoon, oggetti e persone con l'obiettivo di tradurre le forme musicali in forme visive. Ricordiamo poi Douglass Crockwell che per i film The Long Bodies (1947) e Glens Falls Sequence (1946) utilizzò ritagli, blocchi di cera con venature di colore e pittura fotogramma per fotogramma. Nei primi anni Cinquanta Robert Breer, artista vicino all'arte cinetica, passa alla produzione di film sperimentali, distinguendosi per la sua tecnica di combinazione tra pure astrazioni pittoriche e l'uso astratto di oggetti familiari, componendole in una serie di fotogrammi diversi tra loro. Da questo nasce REcreation (1956), dove immagini astratte sono accompagnate con immagini di utensili, giocattoli, foto e disegni. In Europa il cinema sperimentale astratto si basava sulla costruzione di immagini a partire da schemi rigorosi e rigide regole di forma; i registi traevano ispirazione dalla pittura formalista e dalla scuola del montaggio sovietico degli anni Venti. Tra questi vi è Kurt Kren, che lavorava con inquadrature da pochissimi fotogrammi, che però riusciva a donare una maggiore intensità alle immagini abbinando ad ogni fotogramma materiali 121 Bordwell David, Thompson Kristin, Storia del cinema e dei film. Dal dopoguerra a oggi, Editrice Il Castoro, Milano 2003, pp.251-265. 54 capaci di evocare forti associazioni. Ad esempio nel film 2/60 48 Köpfe auf dem Szondi Test (1960) scompone una serie di immagini fotografiche tratte da un test psicologico nel tentativo di creare un effetto sullo schermo di teste che ruotano e mutano di sembianza122. La narrativa sperimentale riprende dalle avanguardie degli anni Venti, soprattutto quelle del Surrealismo e dell'Impressionismo francese, la tendenza allo “psicodramma”, con l'obiettivo di esplorare ed esprimere ossessioni personali e impulsi erotici. Gli psicodrammi sono basati molto spesso su racconti di fantasia attraverso un linguaggio molto stilizzato e raccontati sotto forma di sogni. Ad esempio, Ian Hugo con Bells of Atlantis (1952) crea un mondo sottomarino attraverso l'uso di sovraimpressioni, immergendo lo spettatore in un mondo onirico. Il regista Kenneth Anger ricorre al sogno per giustificare impulsi erotici, toccando anche il tema dell'omosessualità, come quelli del protagonista del film Fireworks (1947)123. Mentre il film astratto e la narrativa sperimentale erano l'evoluzione di generi nati nelle avanguardie storiche, nacquero allo stesso tempo espressioni del tutto nuove. Tra queste vi è il film lirico, dove il regista ha come obiettivo il tentativo di esprimere un'emozione o un sentimento personali senza ricorrere alla struttura narrativa. Stan Brakhage (tra i maggiori esponenti del New American Cinema 124) fu tra i primi a definire il genere con i film Flesh of Morning (1956), Nightcats (1956) e Loving (1956), dove l'atto del vedere soggettivo del regista è dato da movimenti di macchina bruschi, fotogrammi isolati e un uso della luce che con i suoi riflessi ci permette di esplorare superfici e colori dell'immagine. «Brakhage concepiva l'artista come un visionario che percepisce e sente con maggior profondità degli altri, e per tale motivo mirava a catturare su pellicola una visione spontanea, un senso di spazio e di luce non inquinato dalla conoscenza e dal condizionamento sociale»125. Questa visione di Brakhage 122 Tra i registi di film astratti ricordiamo anche Marie Menken, John e James Whitney, Jordan Belson, Dieter Rot, Peter Kubelka, Shirley Clarke che non è possibile approfondire ma che godono della stessa importanza degli autori citati per la cinematografia sperimentale astratto. 123 Tra i registi di narrativa sperimentale ricordiamo James Broughton, Sidney Peterson, Jean Genet, Christopher Maclaine, Karel Zeman, Jan Lenica, Maya Deren. 124 Il New American Cinema è un movimento cinematografico statunitense che nasce su stimolo di Jonas Mekas nei primi anni Sessanta. Si basa su l'idea di un cinema libero dalle convenzioni hollywoodiane dove l'espressione personale dell'autore deve essere libera di esprimersi in ogni spontanea creatività. 125 Bordwell David, Thompson Kristin, Storia del cinema e dei film. Dal dopoguerra a oggi, Editrice Il Castoro, Milano 2003, p.262. 55 nell'immaginazione creativa è stata ricondotta da alcuni critici alla pittura dell'Espressionismo astratto e più precisamente allo stesso Pollock; difatti il movimento si basava sulla creatività spontanea e intuitiva dell'artista a tal punto che Pollock lasciava sgocciolare la vernice in modo del tutto casuale e istintivo. Come per il genere precedente, anche la tendenza all'antologia sperimentale non aveva precedenti tra le avanguardie storiche. Questo genere consiste nella raccolta e nell'assemblaggio di materiali da fonti diverse con l'obiettivo di creare associazioni metaforiche, molto spesso accompagnate da toni satirici o scioccanti. Il film esemplificativo di questo genere è quello dello scultore Bruce Conner A Movie (1958), dove vengono contrapposte emozionanti scene di western con sequenze di cinegiornali, che espongono le imprese temerarie e i disastri sulla natura provocati dall'uomo. In A Movie, e come in altre opere successive, il montaggio risulta dinamico e scandito da frequenti tagli e da ripetizioni di frammenti di scene attuate con lo scopo di creare un'interruzione della visione al fine di sollecitare lo spettatore facendolo soffermare sul medium utilizzato per la fruizione delle immagini. In questo modo, Conner cerca di rivoluzionare la figura dello spettatore cinematografico, prendendo le distanze da un'altra corrente di cinema sperimentale dello stesso periodo, che vede in Andy Warhol il massimo esponente126. Le opere appena citate possono essere considerate come le prime tappe di un cammino artistico che sfocerà nelle opere rivoluzionarie delle neoavanguardie degli anni Sessanta del cinema underground e del New American Cinema. Difatti un nuovo genere si faceva strada creando le proprie radici in un terreno diverso da quello dell'Europa degli anni Venti. Nelle “neoavanguardie” il richiamo alle esperienze delle avanguardie storiche convive con il bisogno di rispondere ai mutamenti dei media, dello sviluppo dei consumi culturali, delle emergenti richieste dei movimenti di massa. Ma le stesse spinte delle avanguardie storiche si ripresentarono anche nelle avanguardie del Dopoguerra: la tendenza costante alla negazione e all'opposizione verso ogni forma istituzionale della pittura si combinano all'esigenza di stampo sperimentale verso nuove grammatiche e 126 Nel genere dell'antologia sperimentale citiamo poi i registi Isidore Isou e Maurice Lemaître. 56 nuove sintassi dell'immagine visiva. Nel campo delle arti figurative si assiste alla tendenza della de- istituzionalizzazione della pittura, per abbracciare nuovi mezzi alternativi con cui fare arte, come l'happening, la performance e la land art. Il cinema diviene il mezzo principale impiegato per documentare gli eventi, ma allo stesso tempo diviene forma alternativa in opposizione alla pittura e alle arti tradizionali. Nei primi anni Sessanta i confini tra le forme artistiche si fecero sempre più sottili ed emerse la tendenza ad accorpare pittura, cinema, musica e performance umana in un unico mezzo, quello del cinema stesso. Il mezzo cinematografico difatti riuscì ad esprimere le rivolte individuali nei diversi campi della musica, della letteratura e delle arti visive. Quando nel 1959 il pittore Alfred Leslie e il fotografo Robert Frank adattarono la commedia di Jack Kerouac, The Beat Generation, per il film Pull My Daisy la fusione delle diverse esperienze artistiche fu definitivamente sancita. Il film ha come attori protagonisti poeti, musicisti, artisti e ballerini della Beat Generation, che si ritrovano attorno ad un tavolo per cenare trasformando la serata in una scena comica ed estremamente spontanea. Il salto dal cinema beat a quello underground è breve. Gli anni Sessanta sono difatti un'epoca di transizione per il cinema americano, dove le correnti nascono e si influenzano a vicenda, ma si ritrovano tutte in una caratteristica comune: le modalità produttive, esecutive e distributive di questi film sono condotte seguendo canali differenti da quelli del cinema dominante e hollywoodiano. Il cinema underground127 è un genere che nasce indipendentemente da ogni struttura commerciale ed industriale, è personale, non narrativo, né rappresentativo e vive delle esperienze e delle influenze del New American Cinema. È l'affermazione dell'infinito diritto dell'artista alla ricerca, l'apertura al potere smisurato della fantasia, l'introduzione nel cinema della complessità sotterranea dell'inconscio, del sogno, del desidero, dell'allucinazione, la proiezione del cinema sull'oscuro, sull'invisibile. È un cinema che privilegia la funzione poetica e quella espressiva nei confronti di quella comunicativa e che inventa i propri moduli e i propri percorsi al di fuori delle convenzioni e delle tradizioni filmiche ufficiali128. 127 Tra gli autori underground ricordiamo Brakhage, Anger, Warhol, Mekas, Rice e Jack Smith. 128 Bertetto Paolo (a cura di), Introduzione alla storia del cinema: autori, film, correnti, Utet, Torino 2008, p.318. 57 Nel campo della ricerca formale si impone il lavoro di Stan Brakhage, che con la sua consistente e vasta produttività cinematografica (tra il 1952 e il 1999 ha girato circa duecentocinquanta film) basata sul rigore teoretico e l'impegno visionario nel cinema d'avanguardia, è considerato il principale protagonista americano del secondo Dopoguerra. Eros, vita animale, nascita e morte sono i temi predominanti, perlopiù incentrati sulla sua vita quotidiana. Brakhage dipinge su pellicola a partire dal 1961; inizialmente colorava a mano le pellicole per ridurne i costi, e ne privilegia l'uso anche per alcuni film degli anni Ottanta. Anticipation of the Night (1958) è un'opera dove la realtà viene frantumata e assemblata secondo canoni stilistici, che si rifanno alla tecnica narrativa di Joyce e secondo i risultati formali del cubismo. In Brakhage il cinema si afferma come un'esperienza di visione totale, scandita da ritmi, ripetizioni, costruzioni del movimento, composizioni visive creando una messa in scena di grande complessità e coordinati con un montaggio raffinato. A volte, inserisce frammenti di pellicola a colori in un fotogramma in bianco e nero come nel film Dog Star Man (1961); altre volte utilizza la pellicola come supporto per creare collages materici, ad esempio in Mothlight (1963) vi incolla ali di farfalla, fiori e foglie. Ma l'artista che meglio ha rappresentato un modello di cinema underground è l'esponente di spicco della pop art, Andy Warhol. Le opere dell'artista si basano su riproduzioni di immagini fabbricate dai media come oggetto del fare estetico, passando attraverso l'adozione della tecnica della serializzazione e della moltiplicazione delle immagini. Andy Warhol utilizza poi il mezzo filmico per riprendere la temporalità in oggetti urbani e comuni, come in Empire (1965) dove per otto ore, dal tramonto all'alba, riprende il grattacielo dell'Empire State Building catturando ogni variazione di colore della luce sulle finestre del grattacielo; o nella quotidianità come in Sleep (1964), dove Warhol riprende un uomo che dorme per oltre sei ore; o ancora in Kiss dove vengono ripresi cinquanta minuti di baci. È un progetto cinematografico basato sulla temporalità, che Warhol recupera dalle sue sperimentazioni bidimensionali (pittoriche e grafiche) sui processi di serializzazione e sulla presenza umana. Il cinema underground di Warhol riprende in modo più o meno esplicito i miti e le immagini più celebri di Hollywood, è un richiamo costante di citazioni e figure che vengono dissacrate. «Se con la ripetizione seriale Andy Warhol intensifica la presenza dell'immagine per arrivare a svuotarla di 58 significato, con il cinema egli cerca di afferrare la realtà fenomenica per mettere in luce come proprio nel momento in cui si crede di aver compreso il valore di ciò che si sta guardando, l'incantesimo finisce e l'immagine si svuota»129. Un impiego ossessivo dell'immagine fissa è la caratteristica di un altro esponente della pop art: Michael Snow, pittore e cineasta canadese, produce nel 1967 Wavelenght, film in cui lavora sullo spazio e sul tempo. Con la cinepresa, Snow percorre lo spazio di una stanza passando da una visione d'insieme ad un dettaglio di una fotografia appesa ad una parete. Con lo zoom è possibile attraversare lo spazio, ma anche il tempo e la durata; nasce così una relazione tra spazio e tempo, profondità e superficie, realtà ed illusione. Ma è anche la pop art e l'arte contemporanea in senso generale ad entrare nello schermo cinematografico, per esempio con The April Fools (Sento che mi sta succedendo qualcosa, 1969), il regista Stuart Rosenberg gioca la carta dell'ironia nel tentativo di cercare una spiegazione logica alle opere di arte contemporanea per definizione strane e incomprensibili. Cosi Jack Lemon, durante un party di alta classe, scambia per una cabina telefonica un'opera d'arte pop che in realtà riproduce una cabina telefonica. Ancora, F for Fake (1975), diretto ed interpretato da Orson Welles, è un film che mostra l'incertezza dell'arte contemporanea che si trova in un filo sottile tra ciò che è autentico e ciò che invece è contraffatto. Il protagonista, dopo una serie di eventi rocamboleschi, entra a far parte del mondo degli artisti, divenendo lui stesso un'opera d'arte. Come nei film della Nouvelle Vague, le opinioni dei personaggi saranno messe in rilievo durante le discussioni delle dinamiche di scambi tra arte e cinema, tra arte e vita. F for Fake è una riflessione dell'autore sulla sua arte, variando tra il tema dell'arte e della contraffazione e giungendo ad una identificazione tra il personaggio-falsario de Hory e lo stesso regista. 2.3.10 Modelli pittorici nel cinema d'autore Paolo Bertetto offre una definizione di cinema d'autore, descrivendo gli elementi che uniscono questo gruppo di cineasti che, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, nel 129 Pellanda Marina, Tra pittura e cinema: la storia interminabile delle immagini, Cavallino, Venezia 2007, p.117. 59 periodo che va dall'esaurirsi del neorealismo italiano alla nascita delle nouvelle vagues, sono emersi per le loro opere che rispecchiano la personalità del loro autore. Gli elementi individuati sono: Il lavoro del regista si estende a tutte le fasi di lavorazione del film […] con una particolare attenzione al momento della sceneggiatura che spesso è da questi firmata o co-firmata; i film d'autore si caratterizzano per una complessità di contenuti, spesso di non facile lettura, che liberano il cinema di ogni residuo commerciale, facendone del film un oggetto culturale […]; anche sul piano dello stile, i film d'autore si caratterizzano per una particolare originalità espressiva […] che muove il cinema nell'ambito di territori inesplorati, al di fuori di ambiti di rappresentazione che hanno dominato il cinema classico; la complessità dei contenuti e l'originalità delle forme espressive impone un nuovo tipo di spettatore, la cui funzione principale […] è legata ad un accrescimento culturale […]; il film d'autore è tale anche perché inserito in un'opera complessiva, quella formata dagli altri film dello stesso autore, di cui riecheggia e ripropone forme e contenuti che appunto lo rendono riconoscibile e identificabile.130 Queste definizioni ci accompagnano ora all'introduzione di alcuni esempi di cinema d'autore in Italia e all'estero. L'istanza “autoriale” acquistò negli anni che seguirono la Seconda guerra mondiale un valore nuovo e di notevole importanza, nata come reazione al silenzio imposto dal regime sulle questioni culturali, sociali e politiche. Il cinema d'autore diventò così il simbolo di una recuperata capacità critica, di una rinnovata attività interpretativa, dopo un ventennio di sottomissione ad una regia intesa come mestiere al servizio dei regimi. Dopo la Seconda guerra mondiale, lasciate la povertà e le dittature alle spalle, l'Europa iniziò la sua ripresa economica, politica e culturale. Un chiaro segnale di questa ripresa in atto fu data sia dagli artisti che dai cineasti, i quali intuirono la possibilità di continuare le sperimentazioni iniziate dalle avanguardie storiche nei primi decenni del secolo. «Emerse così un cinema d'arte internazionale che spesso rifiutava le tradizioni popolari per identificarsi con la sperimentazione e l'innovazione di “arti alte” come letteratura, musica, pittura e teatro. Il film artistico del Dopoguerra segna, per certi aspetti, il ritorno degli impulsi formali degli anni Venti, già esplorati dagli impressionisti, dall'Espressionismo tedesco e dalla scuola del montaggio sovietico. A questi ultimi tre movimenti alcuni cineasti del 130 Bertetto Paolo (a cura di), Introduzione alla storia del cinema: autori, film, correnti, Utet, Torino 2008, p.186. 60 Dopoguerra continuarono a farne riferimento; per esempio il neorealismo italiano seguiva i cineasti sovietici nella scelta di attori non professionisti in ruoli importanti, mentre alcuni registi scandinavi mostravano inclinazioni espressioniste»131. In senso generale, i cineasti del cinema moderno del Dopoguerra cercarono di essere il più possibile fedeli alla realtà di quanto non fecero i loro predecessori delle avanguardie storiche; impegnandosi a denunciare gli orrori della guerra, delle dittature e dell'antagonismo sociale. Per accompagnare questo “realismo obiettivo”, i cineasti usarono un tipo di narrazione più aperta, dove spesso i nodi narrativi non venivano sciolti ed in genere il commento narrativo veniva lasciato al fruitore finale, nonché lo spettatore, creando un senso di ambiguità per cui le interpretazioni rimanevano molto spesso aperte. Queste caratteristiche si ritrovano nella “corrente” del Neorealismo, che si sviluppò in Italia tra il 1945 e il 1951132. Il neorealismo apportò soluzioni narrative e stilistiche che ebbero grande successo nel cinema moderno internazionale: dalle riprese in esterni con doppiaggio in studio, all'uso di attori non professionisti, alle ellissi temporali, ai finali aperti ed infine alle trame fondate sulla casualità133. Parleremo ora di alcuni registi che in qualche modo sono stati toccati ed influenzati dalla corrente neorealista. Trattiamo ora il regista che con il film Ossessione (1943) ha decretato la nascita del filone neorealista del cinema italiano. Parliamo di Visconti ed in particolare del film Senso (1954), ponendo particolare attenzione agli aspetti figurativi della sua opera, nella quale emerge da parte del regista la necessità di storicizzare la rappresentazione, questo avviene con un lavoro di ricerca sostenuto da fonti pittoriche e storiche di fine Ottocento. Il primo riferimento alla pittura viene rappresentato nella scena in cui la protagonista del film, Livia Serpieri, va a fare visita al suo amante Franz Mahler, ufficiale austriaco, negli alloggi dei soldati: per l'ambientazione della camerata Visconti trae ispirazione dal dipinto La toelette del mattino (1898) di Telemaco Signorini. In 131 Bordwell David, Thompson Kristin, Storia del cinema e dei film. Dal dopoguerra a oggi, Editrice Il Castoro, Milano 2003, p.77. 132 Il movimento si sviluppò intorno a un circolo di critici cinematografici che ruotavano attorno alla rivista Cinema, fra cui Michelangelo Antonioni, Luchino Visconti, Gianni Puccini, Giuseppe De Santis e Pietro Ingrao. 133 Si veda Roma città aperta (1954) di Roberto Rossellini; Ladri di biciclette (1948) di Vittorio de Sica; La strada (1954) di Federico Fellini, Ossessione (1943) di Luchino Visconti. 61 qualche scena successiva, che vede Livia apprendere da un giornalaio dello scoppio della Terza Guerra d'Indipendenza e rifugiarsi così a Palazzo Serpieri, Visconti trae come modello di riferimento per i costumi della scena dal quadro del pittore macchiaiolo Silvestro Lega, La visita (1868). In seguito, dopo vari tentativi di allontanamento da parte di Franz, Livia cede alle lusinghe dell'ufficiale e si abbandona tra le sue braccia, i due amanti si baciano all'interno della villa di Aldeno in una scena dove appare la ricostruzione esatta de Il bacio (1859) di Francesco Hayez. Il significato della scena sembra però in contrapposizione con il quadro: nel film si celebra il momentaneo ricongiungimento della coppia; mentre il dipinto di Hayez è dominato dalla figura bramosa che bacia la sua dama prima di una partenza, che viene motivata da Hayez come un'allusione all'esilio politico. Per le scene della battaglia di Custoza, Visconti trae ispirazione per l'ambientazione dalle opere dell'artista macchiaiolo Giovanni Fattori, come L'Accampamento militare (1861) e Il campo italiano durante la battaglia di Magenta (1862). Nonostante i dipinti siano a soggetto militare, Visconti decide di porre l'attenzione non sulle imprese militari, ma sulle sensazioni e le emozioni dei soldati. Infine, al dipinto di Telemaco Signorini intitolato Non potendo aspettare (La lettera) del 1867, è ispirata la scena in cui Livia raggiunge Franz nel suo appartamento; dal suddetto quadro viene ripreso il colore rosso vivo della parete e i dipinti affissi ad esso, mentre annulla le gesta dei personaggi: se nel dipinto vi è una donna intenta a scrivere una lettera su un tavolino, nel film accanto al tavolino vi è Livia, la quale verrà umiliata da Franz. Ricordiamo poi il film Il Gattopardo (1963), nel quale i riferimenti sono rivolti ancora una volta ai macchiaioli italiani di fine Ottocento: da L'elemosina di Lega alla Dama al giardino di d'Ancona per il richiamo alle figure femminili; da Pescivendole a Lerici di Signorini a La filatrice di Cabianca utilizzati per la sequenza di Palermo. Nell'opera cinematografica del regista Michelangelo Antonioni è riscontrabile un nesso con l'arte Informale in quanto, come per la corrente, anche per il regista la materia segna in modo indelebile il suo stile. Antonioni trasforma la natura e i paesaggi in tessiture che si possono vedere nei cieli vuoti e nelle vedute urbane prive di presenza umana dell'Eclisse (1962); o nelle sabbie di Professione: reporter (1975); o ancora, nelle nebbie di Identificazione di una donna (1982). «I punti in comune tra l'Informale e 62 il cinema di Antonioni sono l'appartenenza alla grande linea fenomenologica del Novecento, al suo immanentismo radicale come fondazione dell'interrogativo epistemologico e rifiuto della metafisica; la conseguente domanda epistemologica sul rapporto tra materia e forma; radicalità del confronto con la materia per la costruzione di nuove significazioni; rapporto problematico con la memoria e con la storia; improvvisazione e ispirazione tratta direttamente dal confronto con i materiali»134. L'informale ha un'influenza anche in Deserto rosso (1964), dove il colore diviene parte predominate dell'immagine filmica ed è motivo di riflessione sullo stato d'animo dei personaggi, lo spaesamento di Giuliana viene difatti espresso attraverso la resa cromatica dell'ambiente industriale in cui vive, dove smalti colorati ricoprono natura ed edifici, le inquadrature inoltre appaiono simili per composizioni e colori ai quadri di Morandi. In Deserto rosso vi sono anche numerose inquadrature composte da fasce rosse o blu, tipico richiamo all'arte Informale e alle opere di Rothko o di Lucio Fontana. «Quello che è stato fatto in pittura da Piero della Francesca fino a Pollock (per citare altri due artisti cari al regista), Antonioni decide di farlo nel cinema: ovvero creare nuove immagini mai viste prima che vadano oltre la percezione razionale»135. L'impulso neorealista trovò uno sviluppo in una forma di modernismo radicale delle opere di Pier Paolo Pasolini, come in Accattone (1961) o Mamma Roma (1962), ma da cui ben presto ne prese le distanze per abbracciare l'idea di evocare e citare grandi opere del passato. Nei primi film di Pasolini vi sono composizioni che ricordano dipinti rinascimentali e vi è l'uso di composizioni musicali classiche accostate a scene girate per strada. Con Il Decameron (1971) Pasolini ricrea Il Giudizio Universale (13041306) di Giotto e ridipinge alcuni particolari della Storia della vera croce di Piero della Francesca per le sequenze de Il vangelo secondo Matteo (1964). Da non dimenticare è la citazione al Cristo morto (1485) del Mantegna, più volte citato in numerosi altri film da Bronenosec Potëmkin (1926) di Ejzenštejn fino a 2001: A Space Odyssey (2001: Odissea nello spazio, 1968) di Kubrik, che viene riprodotto nella scena finale di Mamma Roma (1962). Pier Paolo Pasolini è colui che con La Ricotta (del 1963 ed episodio tratto dal film 134 De Vincenti Giorgio, Il concetto di modernità nel cinema, Lampi di Stampa, Milano 2000, p.212. 135 Moscariello Angelo, Cinema e pittura. Dall'effetto cinema nell'arte figurativa alla cinepittura digitale. Progedit, Bari 2011, p.102. 63 RoGoPaG) ricostruisce con i tableaux vivants la Deposizione di Cristo (1521) di Rosso Fiorentino e la Deposizione (1526-28) del Pontormo, «riproducendo i quadri in una sequenza dal montaggio ritmico sempre più serrato, riprendendo le figure in piani e particolari che comprimono la profondità di campo dell'immagine ed esaltano la qualità pittorica delle linee, delle forme e dei colori»136. Il film tratta di un regista (Orson Welles) occupato nelle riprese di un film sulla Passione di Cristo, passione che incrocia in un certo senso anche la vita di Stracci, che interpreta Gesù, il quale morirà anch'egli in croce. Non è certamente un caso che molti critici ritengano come lo stesso Godard (il quale partecipa al film con l'episodio Le nouveau monde [Il nuovo mondo]) abbia preso ispirazione per il suo film Passion dalla “passione” di Pasolini. In Passion Godard fa pronunciare la stessa frase che Stracci disse in La Ricotta, che è l'invocazione al Cristo: «Quando sarai nel Regno dei Cieli ricordami al Padre tuo», forse in omaggio al regista e alla sua passione di Cristo. Gli inizi cinematografici di Bernardo Bertolucci si ebbero nei primi anni Sessanta, quando gli venne proposto il lavoro di assistente nel primo film diretto da Pier Paolo Pasolini, Accattone (1961). Il grande successo venne raggiunto da Bertolucci con il film Ultimo tango a Parigi (1972), tralasciando ora lo scandalo provocato dal film in quegli anni, risulta interessante soffermarci sugli indizi pittorici che il regista ha inserito nei titoli di testa. Mentre compaiono i credits, scritte in bianco su sfondo nero, nella parte che rimane disponibile sulla sinistra dello schermo emerge un quadro di Francis Bacon, Lucien Freud (Double portrait of Lucien Freud and Frank Auerbach) del 1964, raffigurante un uomo solitario sdraiato su un letto disfatto. Dopo qualche minuto il quadro scompare per lasciare posto, questa volta nella parte destra dello schermo, ad un altro quadro di Bacon, Study for portrait (Isabel Rawsthorne) (1964), che rappresenta questa volta una donna, sempre sola e seduta nel centro di una stanza. Appena prima dell'incipit i due ritratti di Bacon si affiancano sullo schermo; si apre la prima scena dove viene mostrato il protagonista maschile Paul (Marlon Brando), che vaga per la città e la protagonista femminile Jane (Maria Schneider), che sopraggiunge con una camminata veloce. «Bertolucci crea a partire dai quadri di Bacon un'isotopia tematica e figurativa fondamentale nel film: l'incontro di un uomo e di una donna che vengono 136 De Santi Piermarco, Cinema e pittura in Art e Dossier, 2008, p.21. 64 connotati fin dai ritratti nelle loro rispettive solitudini»137. «Oltre alle citazioni dirette dei quadri, Ultimo tango a Parigi presenta anche una forte continuità valoriale, tematica e figurativa con l'opera di Bacon»138. «Ad esempio, Bertolucci offre una sua interpretazione alla poetica del pittore intessendo il film di tematiche care al pittore, come l'autodistruzione, la solitudine e l'incomprensione assieme ad un vitalismo di passioni e corpi quasi “in decomposizione”»139. Nel film, questo si ottiene soprattutto all'interno dell'appartamento dei due amanti attraverso un isolamento delle figure nello spazio che si muovono su campiture di colore vivido e saturo, come il rosso cupo della moquette, avvolti da un luce naturale che trasmette riflessi dai toni dell'arancione. Gli spazi esterni all'appartamento sono luoghi di delimitazione e nitidezza delle forme avvolti da colori desaturati, da una luce artificiale e dai cromatismi bluastri. Qualche anno dopo, Bertoluccci pone un forte richiamo alla pittura con Novecento (1976), nel quale riproduce un'icona da chiunque riconoscibile, Il quarto Stato (1901) di Pelizza da Volpedo ponendolo come sfondo ai titoli di testa. La disposizione dei contadini nel dipinto dà l'impressione di una rappresentazione drammatica: una chiamata alla ribalta del trio di testa, nel quale il braccio teso della donna invita all'applauso. Bertolucci la contrappone alla scena iniziale dove una lenta panoramica segue un partigiano che attraversa un prato prima di essere ucciso. «La massa rappresentata dai contadini nel dipinto viene messa in contrasto con l'individuo, solo e disarmato»140. Per quanto concerne il cinema d'autore straniero, è doveroso trattare di Stanley Kubrick, il quale ebbe un rapporto molto stretto con le arti figurative. «Secondo il regista solo l'arte è l'unico repertorio affidabile per chi desidera ricreare immagini di un passato lontano»141. Le ricerche artistiche e culturali condotte da Kubrick si manifestano, con una certa frequenza, nei suoi film attraverso l'uso di citazioni pittoriche. Questo processo ci ricorda il già citato Visconti per l’attenzione che i due registi hanno in comune verso un'autenticità meticolosa delle ricostruzioni di ambienti e 137 138 139 140 Dusi Nicola, Il cinema come traduzione, Utet Università, Torino 2003, p.269. Dusi Nicola, Il cinema come traduzione, Utet Università, Torino 2003, p.271. Casetti Francesco, Bernardo Bertolucci, Il Castoro, Milano 1975, pp.77-86. Kline Thomas Jefferson , I film di Bernardo Bertolucci: cinema e psicanalisi, Gremese, Roma 1993, p.108. 141 De Santi Piermarco, Cinema e pittura in “Art e Dossier”, n.16, 2008, p.58. 65 situazioni. Kubrick però se ne differenzia in quanto il suo lavoro non si basa sull'eredità neorealista; il cineasta tende ad utilizzare il potenziale evocativo dell’arte per manifestare l'indecifrabilità che a volte il mondo del cinema rappresenta. In 2001: A Space Odyssey (1968) Kubrick usufruisce della caratteristica primaria della pittura, ovvero il colore, con l'unico scopo di eludere e di dare rappresentazioni realistiche agli elementi filmici, ma fa assumere ad essi diversi significati. Ad esempio, i paesaggi richiamano la serie delle Dune di Mondrian e i loro colori mentali, mentre le vedute di Friedrich, caratterizzate da toni chiari, vengono usufruite per i paesaggi desertificati del film. Le Skylight series del pittore pop Allen Jones riconducono i corridoi di luce; mentre l'Optical art viene evocata nelle sequenze in cui la navicella viaggia nello spazio. Una rivisitazione dell'iperrealismo pittorico e della pop art viene condotta da Kubrick con A Clockwork Orange (Arancia meccanica, 1971), nel quale vi è un richiamo alle ossessioni sessuali, aggressive e consumistiche tipiche dell'uomo e del mondo contemporaneo. Lo stesso film può essere associato ad una vera e propria opera pop per i colori vivaci e antinaturalistici. Lo scopo è quello di sottolineare le sensazioni e l'emotività del protagonista Alex, molto spesso rese dal linguaggio pubblicitario: ad esempio l’occhio abbondantemente truccato del ragazzo, che Kubrick spesso pone in risalto, sembra la pubblicità di un rimmel. Le citazioni pittoriche all'interno dell'opera sono molteplici, si possono riconoscere alcuni richiami alla scultura di Henry Moore, ai lavori di Allen Jones e a quelli di Segal; in un appartamento si riconoscono opere di arte contemporanea come il fallo di gesso, associabile a Princess di Brancusi, e un dipinto che richiama Great american nude di Wesselmann. L'opera cinematografica che può essere considerata come un quadro del Settecento è Barry Lyndon (1975), in quanto nel film vi è una ricostruzione tramite tableaux vivants di opere di pittori quali Reynolds, Gainsborough, Hogarth, Stubbs, Füssli, Longhi e Traversi. Nel film, ogni elemento è realizzato con lo scopo di ricostruire ambienti, costumi ed atmosfere avendo come unica fonte d'ispirazione i quadri del Settecento. Vi è un rapporto tra le inquadrature del regista Wim Wenders e i quadri di Edward Hopper, rapporto che si nota sia per scelta del taglio compositivo sia per una scelta di 66 luce che conduce ad un iperrealismo, di cui entrambi sono accomunati. La malinconia, tipica dei quadri di Hopper, che esprime la solitudine dell'uomo nell'ambiente urbano, la si trova anche in numerose inquadrature di Wenders. Così si riconosce perfettamente l'angolo urbano della tavola calda dipinta in Nighthawks (1942) nel film Don't Come Knocking (Non bussare alla mia porta, 2005) in un'inquadratura dove il protagonista è ripreso appoggiato ad un lampione su un marciapiede deserto e davanti ad un bar. Werner Herzog in Nosferatu: Phantom der Nacht (Nosferatu, il principe della notte, 1979), rifacimento del celebre Nosferatu di Murnau, richiama nelle inquadrature la pittura romantica e il gusto del sublime di Friedrich, autore di paesaggi che suscitano contemplazione nell'osservatore e che creano un senso di impotenza dell'uomo di fronte alla magnificenza della natura. Il dipinto Monaco in riva al mare (1808) viene «citato nella scena in cui Lucy si trova anch'essa di fronte al mare in una spiaggia deserta; ancora il Viandante davanti a un mare di nebbia (1818) è rievocato nella sequenza in cui il protagonista contempla la valle al tramonto dall'alto di un monte»142. Infine, anche l'autore dei film western americani più conosciuti, John Ford, non è rimasto impassibile all'effetto della pittura: nel film She Wore a Yellow Ribbon (I cavalieri del Nord-Ovest, 1949), in omaggio alla cavalleria Usa, le sequenze delle cariche richiamano composizioni spaziali del pittore Frederic Remington. Anche nei film successivi Ford sceglie di attingere dalle opere dei pittori che, a fine Ottocento, avevano scelto di rappresentare la conquista del West attraverso enormi paesaggi americani, accompagnati sullo sfondo dagli uomini che hanno costruito la storia degli Stati Uniti. 142 Moscariello Angelo, Cinema e pittura. Dall'effetto cinema nell'arte figurativa alla cinepittura digitale. Progedit, Bari 2011, p.105. 67 2.4 Godard pittore143 L'estetica del neorealismo italiano e il cinema artistico degli anni Cinquanta venne assorbito da un gruppo di giovani registi francesi che ne svilupparono l'esperienza. Questa nuova generazione fu battezzata Nouvelle Vague, ed era in gran parte composta da giovani critici della rivista “Cahiers du Cinéma”. La maggior parte degli appartenenti ai “Cahiers” (François Truffaut, Jean-Luc Godard, Jacques Rivette, Claude Chabrol e Eric Rohmer) esordirono come registi di cortometraggi, mentre la realizzazione di lungometraggi avverrà per tutti nel periodo dal 1958 al 1959. Si deve per gran parte alla Nouvelle Vague l'immagine del giovane cineasta che sfida, con un cinema personale, le convenzioni commerciali dell'industria cinematografica. I principali esponenti della corrente erano fedeli alla politica degli autori e convinti che il regista dovesse esprimere la sua personale visione del mondo, una visione che sosteneva che un film non dovesse coincidere mai con la sua sceneggiatura, o la sua scenografia, o con i suoi attori, bensì con l’uomo che l’ha girato. Il regista diviene così un vero e proprio “scrittore di cinema”, che utilizza consapevolmente il mezzo cinematografico per comunicare con lo spettatore attraverso non solo la semplice trama, ma anche con determinate scelte stilistiche, che rendono possibile riconoscere dai primi fotogrammi di una pellicola il suo autore. Ritroviamo, come analizzato in precedenza, anche nella Nouvelle Vague le medesime caratteristiche del cinema d'autore, un cinema personale, coagulato in un movimento compatto nello stile, come lo erano l'Espressionismo tedesco o la scuola del montaggio sovietico, in quanto gli autori condividono alcuni princìpi di base: i cineasti strutturano le trame su eventi casuali e digressioni, intensificando la tendenza ai finali aperti; girano i film in ambienti reali con attrezzature leggere, con attori poco noti e troupe ridotte; gli autori delle Nouvelle Vague furono inoltre i primi a riferirsi sistematicamente alle tradizioni cinematografiche precedenti, le citazioni sono spesso incrociate o riferite molte volte anche ai colleghi stessi appartenenti ai “Cahiers du Cinéma”. A mio parere, il più provocatorio ed interessante esponente della Nouvelle Vague 143 Jean-Luc Godard è stato spesso associato alla figura del pittore, tra i tanti ricordiamo: Louis Aragon, Qu'est-ce que l'art, Jean-Luc Godard?, “Les Lettres Française”, n.1096, 9-15 settembre, 1965; Jacques Aumont, “Godard pittore, ovvero il penultimo artista”, in L'occhio interminabile. Cinema e pittura, Marsilio, Venezia 1991; 68 è Jean-Luc Godard, in quanto egli mescola convenzioni della cultura popolare con riferimenti alla filosofia o all'arte d'avanguardia abbandonandosi così a notevoli digressioni di stile. Godard attacca i sensi dello spettatore, mettendo in discussione l'idea di cinema e i modi della sua fruizione. Per il regista la sperimentazione diventa l'unico modo per affrontare i problemi della società contemporanea in modo nuovo, fuori dagli schemi contenutistici del “vecchio” cinema. Le direzioni di ricerca godardiana, quella verso una chiarificazione e un approfondimento dei temi ideologici e quella verso una sempre più rigorosa sperimentazione dei moduli stilistici, si sviluppano parallelamente, ma esse non sono nient'altro che due aspetti di una medesima ricerca, ovvero la ricerca di verità e di realtà. «Lo studio teorico ed estetico di Godard si rivolge a “quel che c'è tra gli oggetti e che diventa a sua volta oggetto e a ciò che non guardavamo neppure come irreale”144, non per giungere alla rappresentazione del visibile ma per rendere visibile la realtà e i suoi fenomeni, ovvero gli ambienti, le luci, le presenze, le forme e i movimenti che rimangono “invisibili” prima che intervenga lo sguardo del cineasta a ricercarne non il riflesso nella ricostruzione di una messinscena, non il riflesso della vita, bensì “la vita stessa fatta film, vista da dietro lo specchio in cui il cinema la capta”, Godard appare come un pittore che tenta di catturare sulla tela i colori, i volumi, i contorni, le luci che evocano il senso e l'essenza del reale nella sua complessa densità e nelle sue dinamiche contraddittorie»145. L'effetto estetico nella composizione delle inquadrature appartiene all'immaginario «ma quest'immaginario non è il riflesso della realtà, è la realtà di questo riflesso. […] Per tutto ciò che si vede, bisogna considerare tre cose: la posizione dell'occhio che guarda, quello dell'oggetto visto, e quello della luce che lo illumina» 146, affermazione che pronuncia il personaggio Kirilov nel film La Chinoise, ma che chiarifica perfettamente il pensiero di Godard. Non va sottaciuto il valore che assume la citazione o l'autocitazione, come in quest'ultimo caso, nello studio della poetica godardiana. L'assunto essenziale di questo lavoro ruota intorno allo studio delle citazioni che Godard estrapola dal mondo delle arti 144 Lo afferma Godard nell'articolo Au-delà des étoiles. Nicholas Ray. Amère victoire, in “Cahiers du cinéma”, n.79, gennaio 1958; qui citato in Chiesi Roberto, Jean-Luc Godard, Gremese Editore, Roma 2003, p.5. 145 Chiesi Roberto, Jean-Luc Godard, Gremese Editore, Roma 2003, pp.5-6. 146 Citato in Jean-Luc Godard, La Cinese, in Rondolino Gianni (a cura di), Cinque film, Einaudi, Torino 1972, p.331. 69 visive. Difatti, da sempre Jean-Luc Godard ebbe l'aspirazione di potersi servire della cinepresa come il pittore si serve del pennello. La volontà di farsi pittore risale ai primi anni Sessanta, quando iniziò ad inserire nelle sue opere cinematografiche riferimenti alle arti figurative; il suo obiettivo era quello di cercare di ottenere un'inquadratura che fosse come una pennellata, di catturare la luce giusta e cercare di prendere la distanza corretta dal soggetto da filmare; voleva raffigurare l'aria e l'atmosfera, superare i vincoli della narrativà e della sceneggiatura147; diventare come un pittore che dipinge la realtà che gli sta difronte. La realtà di Jean-Luc Godard viene trasmessa attraverso le caratteristiche principali della corrente della Nouvelle Vague: è una realtà coniugata nel presente e calata nella vita delle strade, «dove la concretezza degli elementi preesistenti può diventare parte integrante della messa in scena»148; i film sono uniti da un lavoro preliminare di sceneggiatura con l'improvvisazione del momento nel set. Come ammise lo stesso Godard: «ho sempre fatto così; cioè cerco una situazione e poi la scrivo» 149. Ma nei suoi film non vi è solo il reale, nelle sue immagini troviamo anche tracce di letteratura, musica, arti figurative e plastiche. Egli stesso aggiunse: «Ho voglia di rendere tutto, di mischiare tutto, di dire tutto nello stesso tempo. Se dovessi definirmi, direi di essere un “pittore in lettere”»150; «ossia un cineasta che usa i grigi, il bianco e il nero, i cromatismi delle immagini filmiche come un pittore, ma anche i disegni delle lettere stampate sulle pagine di saggi e romanzi, i suoni delle parole di narrazioni e versi di poemi e poesie, i dettagli ritagliati dai quadri, i brani musicali, le immagini e sequenze provenienti da film altrui, eletti e via via rielaborati in un processo di reinvenzione che continua di film in film, di video in video, nell'inquieta volontà di contemperare tutte le forme espressive (lirica, narrazione, saggistica, storiografia, polemica politica, civile e sociale, autobiografia, diaristica)»151. Barthelémy Amengual ha potuto osservare a proposito del metodo godardiano dell'uso della citazione: «Come gli artisti pop, Godard assembla tutti quei materiali che gli sembrano in grado di creare 147 Godard affermò nel suo libro Introduzione alla vera storia del cinema (p.58): «mi ha sempre dato estremamente fastidio essere obbligato a fare quello che la gente, nel cinema o nella vita, chiama “raccontare una storia”; cioè, partire dall'ora zero, fare un inizio e quindi arrivare ad una fine». 148 Chiesi Roberto, Jean-Luc Godard, Gremese Editore, Roma 2003, p.8. 149 Godard Jean-Luc, Introduzione alla vera storia del cinema, Editori Riuniti, Roma 1983 p.34. 150 Sylvain Regard (a cura di), La vie moderne, “Le Nouvel Observateur”, n.100, 12-18 ottobre 1966; qui cit. in Chiesi R., op.cit., p.9. 151 Chiesi Roberto, Jean-Luc Godard, Gremese Editore, Roma 2003, p.9. 70 relazioni frastornanti e ingiuriose. È vero che sono spesso materiali residuali. Ma Godard attinge anche alle opere d'arte e dello spirito»152. Questa trattazione, meramente introduttiva, sul gusto per la citazione presente in Godard e in tutti i suoi film può temporaneamente concludersi con una frase del regista che racchiude in senso generale l'argomentazione: «Nella vita, la gente cita ciò che le piace. Noi pure abbiamo il diritto di citare ciò che ci piace. Per questo nei miei film faccio vedere gente che fa delle citazioni: solo, faccio in modo che ciò che essi citano piaccia anche a me. […] Se si ha voglia di dire una cosa, non c'è che una soluzione: dirla»153. 2.4.1 La citazione pittorica nella filmografia di Godard Nella filmografia di Jean-Luc Godard sono innumerevoli i richiami alla pittura o al colore; per facilitazione ne citeremo alcuni, che introducono ed esemplificano le caratteristiche del cinema godardiano, per, infine, approdare a due film cardine in cui cinema e pittura si fondono insieme. ll primo film che prenderemo in analisi è Pierrot le fou, che si colloca cronologicamente nel primo periodo di lavoro del regista (19601967); Passion è la seconda pellicola su cui ci soffermeremo più a lungo nell'analisi ed essa si colloca nel terzo periodo (1975-) 154. Passion è il film che conclude, a mio parere, lo studio tra il cinema e la pittura svolto da Godard in questi anni e per tale ragione ho ritenuto fosse più adeguato citare i film cronologicamente girati in anni precedenti al 152 Amegual Barthelémy, Jean-Luc Godard, in Etudes Cinématographiques, n.57-61, 1967; qui citato in Allegri Luigi, Ideologia e linguaggio nel cinema contemporaneo: Jean-Luc Godard, Università di Parma, Centro studi e archivio della comunicazione, Parma 1976, p.72. 153 Godard Jean-Luc, Il cinema è il cinema, I Garzanti, Milano 1981, p.177. 154 Il primo periodo dell'attività del regista va dal 1960 al 1967 ed è caratterizzato da una spiccata vena creativa che culminerà nell'esperienza del Sessantotto. In questo primo periodo Godard privilegia i contenuti prodotti dalle immagini contemporanee, come la pubblicità, i fumetti, le riviste, manifesti di attori. Tra questi troviamo i film Alphaville, une étrange aventure de Lemmy Caution, Pierrot le fou, Deux ou trois chose que je sais d'elle. Dal 1966 Godard si avvicina alla teoria marxista e utilizza il cinema per mettere in atto una critica verso la civiltà dei consumi. Ricordiamo tra questi La chinoise, Week-end. Il secondo periodo che va dal 1967 al 1972 è segnato dalla sperimentazione di un cinema collettivo, rifiutando il ruolo dell'autore, da queste premesse nel 1969 Godard fonda il gruppo Dziga Vertov. In questi anni ricordiamo i film Lotte in Italia e Tout va bien. Dopo una pausa di tre anni, che coincide con la fine del movimento, il terzo periodo di Godard si apre nel 1975. Questo periodo è segnato dall'approdo del regista alle tecnologie elettroniche e al video improntante ad una sperimentazione, in cui il video viene usato per una critica alle immagini. In questo periodo sono da annoverare: Numéro deux, Sauve qui peut (la vie), Prénom Carmen, Je vous salue Marie, Nouvelle Vague, Hélas pour moi. 71 1982, che è l'anno del film Passion. Tra questi vi è Une femme est une femme film del 1962 immerso tra la Op-art e il collage. Godard decide di porre come base cromatica il rosso e il blu saturi, colori che verranno ripresi anche in Pierrot le fou dove il rosso richiama il sangue, il blu richiama la morte, il suicidio. Godard utilizzerà i due colori cardine in una scena dove Angela (Anna Karina), mentre canta con addosso un abito blu, verrà avvolta da una luce rossa. Ma Une femme est une femme è anche un film astratto; Angela, in un dialogo, afferma: «Vorrei essere qualcosa di giallo e di astratto» e l'utilizzo della pellicola in technicolor (primo esperimento con il colore per Godard) permette allo spettatore di vedere questi colori, dal suo ombrello ai suoi abiti rossi e blu fino ai titoli di testa multicolore. In Une femme mariée, del 1964, Godard pone delle statue di Maillol in contrappunto con il corpo scultoreo di Charlotte (Macha Méril). L'avvicinamento verso l'arte pop avviene attraverso temi cari alla corrente, come la pubblicità in ambienti esterni o la stampa periodica negli ambienti casalinghi. Spesso i protagonisti vengono ritratti vicino a manifesti pubblicitari, altre volte le riviste sfogliate mostrano pubblicità di reggiseni, mutandine, calze e sottovesti, un richiamano alla mercificazione e al sesso. Il cineasta denuncia la comunicazione di massa che entra in modo prepotente nella vita reale e tra le relazioni umane. Queste inquadrature “pop” si trovano anche in Vivre sa vie (1962), nel quale il tema principale è la spersonalizzazione dell'individuo, tipico tema anche della cultura popular. Diversamente in Les Carabiniers (1963) la pubblicità appare quando MichelAnge (non è casuale come il nome del protagonista richiami all'artista Michelangelo) e Venus posano, tenendosi davanti l'immagine pubblicitaria di un paio di mutande e di un reggiseno. In questo film Godard tenta di recuperare un certo contrasto che caratterizzava il cinema muto: pone particolare attenzione al trucco degli attori e al trattamento fotografico dei materiali d'archivio che inserisce nel montaggio. La critica non coglie questa impostazione e attacca violentemente il film accusandolo di abborracciamento e disinvoltura tecnica155. Godard risponde fornendo tutte le precisazioni tecniche che dimostrano il suo controllo nel procedimento e il suo perfezionismo nell'associazione del suono: 155 Si veda per maggiori approfondimenti il testo di Marie Michel , La nouvelle vague: une école artistique, Nathan, Paris 1997 (trad.it. Marie Michel, La Nouvelle Vague, Lindau, Torino 1998). 72 Abbiamo girato per quattro settimane durante un inverno che ci spingeva al rigore e, dalla sceneggiatura al missaggio, tutto si è svolto in effetti sotto questo segno. Il suono in particolare, grazie agli ingegneri Hortion e Maumont, è stato particolarmente curato. […] Quanto agli attacchi sbagliati, ce n'è uno, superbo, emozionante, eisensteiniano, in una scena in cui una delle inquadrature sarà del resto presa direttamente dal Potёmkin. Si vede in campo totale un sottufficiale dell'esercito regio togliere il berretto a una giovane partigiana bionda come il grano del suo kolchoz. Nell'inquadratura successiva, in primo piano, si rivede lo stesso gesto. E allora? Che cos'è un attacco se non il passaggio da un'inquadratura all'altra? Questo passaggio può essere fatto senza urti – è l'attacco messo praticamente a punto in quarant'anni dal cinema americano e dai suoi montatori che, da un poliziesco ad una commedia e da una commedia a un western, hanno instaurato e affinato il principio dell'attacco preciso sullo stesso gesto, la stessa posizione, per non rompere l'unità melodica della scena; un attacco puramente manuale, insomma, un procedimento di scrittura. Ma si può anche passare da un'inquadratura all'altra non per una ragione di scrittura, ma per una ragione drammatica; ecco allora l'attacco di Ejzenštejn che oppone una forma all'altra, legandole indissolubilmente con la stressa operazione. […] Insomma, l'attacco è una sorta di rima, e non c'è bisogno di fare tanto rumore per impadronirsi di una scala. Basta sapere quando, dove, perché e come.156 Il riferimento a Ejzenštejn, fondamentale per l'estetica di Les Carabiniers, pone l'accento sulla riscoperta del montaggio operata all'epoca dagli autori della Nouvelle Vague, come Resnais, Rivette, Rozier e naturalmente lo stesso Godard. Il tema del montaggio verrà in seguito sviluppata ed approfondita nell'analisi del film Passion. Nel film del 1966 Made in USA sono presenti invece i tipici oggetti “pop”, caratterizzati da colori accesi e vivaci come scritte al neon, i fumetti o i manifesti pubblicitari. Inoltre in una scena, dove la protagonista si trova in un deposito di manifesti cinematografici, vi è il richiamo esplicito alla serializzazione, accomunato anche dal taglio decentrato dell'inquadratura e dall'impianto delle sequenze. Con La Chinoise (1967) Godard ritorna, questa volta, alla cultura pop attraverso il colore: i materiali figurativi diventano inserti, sfondi o contrappunti della vicenda o delle parole degli attori. Vi si trovano fumetti, campagne pubblicitarie, copertine di libri, ritratti di personaggi celebri in una storia che narra delle vicende di giovani rivoluzionari maoisti. 156 Jean-Luc Godard, Feu sur Les carabiniers, Cahiers du Cinéma, n.146, agosto 1963. Trad. it. Fuoco sui carabinieri, in J.-L. Godard, Il cinema è il cinema, Grazanti, Milano 1981, pp.212-213. 73 Sia in Je vous salue Marie (1984), dove il blu rievoca la purezza, il cielo e Dio, che in Sauve qui peut (la vie) del 1980, Godard cerca di elaborare il cinema per ritrovare la pittura. In quest'ultimo film in particolare, Godard inserisce quadri di Hopper, un nudo di Bonnard e parla di luce e di colore, temi fondanti che saranno sviluppati due anni dopo in Passion. Prima di addentrarci però nell'analisi di questo film, ho ritenuto fondamentale porre un'ulteriore analisi su un'opera che a mio parere esprime le qualità e i temi che ritroveremo anche in Passion e che ci permette così di giungere ad un quadro completo ed esaustivo delle teorie e delle pratiche di Godard: Pierrot le fou (1965). Il film, meglio conosciuto in Italia come Il bandito delle ore undici, si posiziona cronologicamente nel primo periodo (1960-1967) della carriera cinematografica di JeanLuc Godard e viene considerato il lavoro che riassume e conclude tutta la filmografia godardiana precedente157. Pierrot le fou è la pellicola che segna l'arrivo della pittura sullo schermo. Godard utilizza colori con tonalità primarie, dense e dal cromatismo piatto, eliminando qualsiasi illusionismo ottico. Il film si apre con un'inquadratura su Ferdinand (Jean-Paul Belmondo) immerso nella vasca da bagno (Fig.1), che legge dalla Storia dell'arte di Élie Faure un brano di Velázquez che recita: «alla fine della sua vita non dipingeva più le cose definite ma quello che c'è fra le cose [...]» 158. Ferdinand, marito di un'italiana molto ricca, ben presto abbandona la moglie per Marianne (Anna Karina), affascinante donna conosciuta anni prima e che lo chiama scherzosamente Pierrot. Marianne lo immischia nel traffico di armi e, dopo aver commesso un omicidio, i due si stabiliscono in riva al mare in Provenza; cercando di liberarsi delle loro identità vivono isolati dal resto del mondo, passando le giornate leggendo libri e fumetti. Ma la quiete viene interrotta ben presto da una banda di gangster capeggiata da un nano, della quale Marianne faceva parte prima di fuggire con Ferdinand. Dopo aver ucciso il nano, Marianne scappa lasciando che i gangster catturino e torturino Ferdinand. Dopo un po' di tempo, Ferdinand, rimasto solo, 157 Secondo il giudizio di Louis Aragon, Qu'est-ce que l'art, Jean-Luc Godard?, in Les Lettres Françaises, n.1096, 9 settembre 1965. Tesi sostenuta anche da Farassino Alberto, Jean-Luc Godard, Il Castoro, Milano 2007, p.69 e da Allegri Luigi, Ideologia e linguaggio nel cinema contemporaneo: Jean-Luc Godard, Università di Parma, Centro studi e archivio della comunicazione, Parma 1976, p.119. 158 Citato in Farassino Alberto, Jean-Luc Godard, Il Castoro, Milano 2007, p.70. 74 trova lavoro come marinaio nel porto di Tolone. Qui ritrova Marianne che lo coinvolge nuovamente nella sua vita di criminale e, dopo uno scontro a fuoco con la banda, Marianne tradisce Ferdinand-Pierrot e fugge con Fred, il capo banda e amante della donna. Ferdinand-Pierrot, in preda alla rabbia e alla gelosia, li insegue e li raggiunge sull'isola dove si erano rifugiati. Dopo una sparatoria Fred e poi Marianne muoiono per mano di Ferdinand. Il film si conclude tragicamente con il suicidio di Ferdinand, che decide di farla finita legandosi intorno alla testa della dinamite. Un attimo prima dell'esplosione si coglie però nell'uomo un ripensamento, ma Ferdinand non riesce a spegnere la miccia in tempo e muore; nel frattempo si sentono le voci dei due protagonisti che sussurrano versi di L'eternité di Rimbaud. Le citazioni pittoriche sono presenti in tutto il film: per l'intero viaggio Ferdinand porta con sé e ripercorre La storia dell'arte di Élie Faure in edizione economica, avvicinandosi al mondo dell'arte attraverso una lettura di piccoli saggi e immagini riprodotte. Per esemplificare l'uso della citazione del libro di Faure in Pierrot le fou, Godard disse: «mi ero imbattuto in un vecchio libro di Élie Faure che già conoscevo e che parlava di Velázquez e diceva che agli inizi come alla fine della sua carriera […] egli dipingeva quello che era tra le cose, e io mi accorgo che.. a poco a poco.. il cinema non è le cose, ma ciò che si trova tra le cose, quel che c'è tra qualcuno e un altro, tra te e me, e poi sullo schermo è quel che c'è tra le cose» 159. Il medesimo concetto venne ripreso anche all'interno dello stesso film, quando Belmondo imitando Simon ripete: «non è la gente che bisogna descrivere, ma quello che c'è tra la gente». In ogni caso, il libro di storia dell'arte sarà il supporto ad altri riferimenti espliciti: nel film le immagini pittoriche vengono inserite con piccole cartoline di riproduzioni che si pongono alle spalle del personaggio, altre volte invece vi sono riprese di immagini che occupano tutto lo schermo. Sono numerosi i riferimenti espliciti che Godard pone tra l'identità dei personaggi e le figure pittoriche: nella stanza di Marianne vi sono appese riproduzioni di Modigliani, Picasso e di Renoir; non casualmente Renoir è anche lo stesso cognome della donna. Ma il personaggio di Marianne è legato in modo indissolubile al pittore, difatti in alcune scene vengono rievocati una serie di figure pittoriche a partire da una 159 Godard Jean-Luc, Introduzione alla vera storia del cinema, Editori Riuniti, Roma 1983, p.139. 75 successione di inquadrature. Per esempio, in una scena si parte da una inquadratura su Marianne per poi passare al viso della Bambina presso il covone (1888), un richiamo esplicito alla donna-bambina che diviene impersonificazione di Marianne. In un'altra sequenza, Marianne poggiata su un muretto bianco rievoca la Bagnante (1880), il cui volto viene richiamato in una scena successiva. La serie dei Renoir si sviluppa parallelamente alla serie dei Picasso, altro richiamo di fondamentale importanza all'interno del film. In una scena in camera di Marianne, dove vi è la donna nell'atto di ordinarsi i capelli davanti ad uno specchio, vicino a lei, appesa al muro, si vede la riproduzione di Fanciulla allo specchio (1932) di Picasso. Ma è nei confronti del protagonista maschile, Pierrot-Ferdinand, che il richiamo a Picasso è reso ancora più esplicito: nella scena dove Marianne conficca le forbici al collo del nano, sempre appesi al muro, si vedono Jacqueline coi fiori (1954) e Ritratto di Sylvette sulla poltrona verde (1954); a queste due raffigurazioni corrispondono due foto di donne nude che si trovano nella camera vicina e che si vedranno poco dopo. Nell'intervallo tra le due scene si vede, mentre viene pronunciata la battuta: «Tenera è la notte, è un romanzo d'amore», la riproduzione de Gli innamorati (1923). «Ancora, nella sequenza che si svolge nell'appartamento di Marianne, lei si sposta da una stanza all'altra cantando una canzone160 sulla precarietà dell'amore “senza domani”, l'amore che Ferdinand e lei stessa stanno vivendo»161. Subito dopo vi è l'inquadratura sul viso di Marianne mentre pronuncia la frase «Si vedrà» accompagnata dalla colonna sonora Au clair de la lune, mon ami Pierrot..., che si unisce alle citazioni pittoriche di Paul travestito da Pierrot (1925) di Picasso in primo piano; La blusa rumena (1940) di Matisse (Fig.2-3); per poi tornare a Paul travestito da Pierrot, questa volta in primissimo piano e, infine, per concludere con il volto della Bagnante (Fig. 4-5). Nel frattempo i dialoghi dei due protagonisti vengono associati ai dipinti, la voce di lei si ascolta mentre scorre l'immagine di una riproduzione maschile e viceversa. Marianne annuncia a Ferdinand che è arrivata sua moglie, ecco allora che La blusa rumena può essere un richiamo alla moglie di Ferdinand e, dunque, la serie delle quattro citazioni può essere una rappresentazione metaforica della situazione amorosa di Ferdinand, che 160 La canzone è Jamais je ne t'ai dit que je t'aimerait toujours di Duhamel e Bassiak. 161 Liandrat-Guigues Suzanne, Leutrat Jean-Louis (tr. it. di Arecco S.), Godard alla ricerca dell'arte perduta, Le Mani, Recco, 1998, p.53. 76 si trova in mezzo alle due donne. Nella stanza in cui avviene l'uccisione del nano da parte di Marianne vi sono Jacqueline coi fiori e Ritratto di Sylvette sulla poltrona verde (Fig.6). Il primo quadro è diviso in due parti separate da una diagonale, come se fossero due pezzi di carta tagliati da una forbice, la parte superiore è blu mentre quella inferiore è rossa. I colori non sono casuali, ma sono un esplicito richiamo ai due protagonisti: il rosso a Marianne, in quanto indossa un vestito rosso ed è un richiamo al delitto che commette; mentre il blu è legato a Ferdinand, dove un posacenere di tale colore annuncia l'imminente tortura che l'uomo subirà nella medesima stanza. Ma anche lo stesso film è pienamente intrinseco di caratteri pittorici: lo schermo diviene una campitura su cui si distendono forme e colori in composizioni spesso quasi astratte. Vengono esaltati i colori e la luminosità dei paesaggi, gli abiti dei protagonisti, le luci dei semafori e dei neon che compongono le città, il rosso del sangue che decreta la morte di Marianne. La stessa morte tragica di Pierrot-Ferdinand è fatta di colori, egli prima di suicidarsi si colora il viso con della vernice blu e si lega intorno al capo tubi gialli e rossi di dinamite; blu che richiama ancora a Picasso e al suo periodo blu degli Arlecchini e appunto dei Pierrot. Questa esigenza in Godard di esprimere le vicende dei personaggi e i loro stati d'animo attraverso l'uso del colore mi ricorda un'altra esigenza emersa nei primi anni del cinema: quella di colorare l'immagine fotografica in bianco e nero. I viraggi e le tinteggiature per imbibizione vennero presto in uso creando immediatamente una convenzione: in giallo erano virate le sequenze diurne, in azzurro quelle notturne, in verde le scene di campagna, in rosso la passione e il pericolo. Questa associazione tra i colori e i sentimenti era presente fin dalla nascita della storia del cinema e troviamo un'evoluzione simile anche in Godard, che nel suo film utilizza i colori rosso e blu per collegarli ai due protagonisti, rispettivamente, Marianne e Pierrot-Ferdinand. Come analizzato nella sezione del cinema d'autore, anche Antonioni si serviva del colore per tramettere le sensazioni dei protagonisti: il regista cercava nei suoi film di dare, attraverso l'alterazione dei colori, una chiave psicologica ai personaggi. Per affermare questo mio pensiero, lo stesso Godard in un'intervista rispondeva a chi sosteneva che nel suo film ci fosse troppo sangue: «non è sangue, è solo del rosso» 162. Si tratta di 162 Citato in Moscariello Angelo, Cinema e pittura. Dall'effetto cinema nell'arte figurativa alla cinepittura digitale. Progedit, Bari 2011, p.19. 77 un'affermazione che si riferisce al fatto che nel suo film erano i colori prescelti (rosso, blu) a suggerire gli sviluppi della vicenda e non quest'ultima a richiedere i colori. Luigi Allegri definisce Pierrot le fou come un film surrealista «per l'intenzione che lo muove, per i moduli espressivi che pone in essere, anche per singoli episodi e particolari soluzioni linguistiche»163. L'affermazione di Allegri trova un riscontro nella trattazione studiata in precedenza sul cinema surrealista; come già analizzato il surrealismo si opponeva con disprezzo all'arte e alla cultura borghesi, per una predilezione dei prodotti popolari o di scarto, alimentando così atteggiamenti provocatori e rivoluzionari con l'unico obiettivo di colpire lo spettatore nel tentativo di aprire una nuova concezione estetica attraverso la libera associazione di immagini. Questa operazione straniante viene messa in atto anche da Godard attraverso l'uso di ellissi narrative che rendono difficile la fruizione partecipativa, sia con certi stilemi, come lo sguardo in macchina, oppure con la sdrammatizzazione ottenuta attraverso l'inversione delle consuetudini di ripresa (ad esempio il falso tentativo di suicidio di Ferdinand mentre sta arrivando il treno ripreso con un campo lungo privo di “emozione”). Inoltre ricordiamo ancora il discorso “surreale” dell'uomo del porto, che racconta a Ferdinand l'assurda storia di una sua ossessione, che appare come una di quelle apparizioni di matrice surrealista e che riportano alla memoria alcuni film di Buñuel; questa digressione sul piano narrativo viene fatta per l'esigenza di rallentare l'azione e scaricarla delle sue componenti di coinvolgimento. Come per il cinema surrealista, anche in Pierrot le fou vi è la predilezione per i prodotti popolari e il film è fortemente marcato dalla cultura di massa, che rammenta però, a mio avviso, un'avanguardia artistica del Secondo dopoguerra, la pop art. Si pensi ai dialoghi della festa iniziale composti da slogans pubblicitari e frasi fatte; la cultura pop è riscontrabile anche nei colori, marcati, decisi e resi dalle tonalità fondamentali del rosso e del blu, accostati e non mischiati, che ricordano dipinti di Rosenquist e Wesselmann. 163 Allegri Luigi, Ideologia e linguaggio nel cinema contemporaneo: Jean-Luc Godard, Università di Parma, Centro studi e archivio della comunicazione, Parma 1976, p.119. 78 2.5 Passion Se in Pierrot le fou Godard privilegia la pittura a cavallo del secolo (impressionismo, fauvismo, cubismo), che più crudamente pone il problema del materiale e crea una riflessione che ruota intorno al tempo; in Passion (1982), come definito da Jacques Aumont164, vi si trova l'«istoria», ovvero le grandi macchine rappresentative e i soggetti grandiosi. Il film è preceduto da un cortometraggio “Passion”, le travail et l'amour. Introduction à un scènario (troisième état du scénario du film “Passion”) del 1981, e seguito da un mediometraggio Scénario du film “Passion” (1982); i due video saranno trattati in modo più specifico alla conclusione dell'analisi del film Passion. 2.5.1 Sinossi165 La scia di un jet squarcia un cielo azzurro accompagnato da Concerto per la mano sinistra di Ravel (Fig.7). Nella prima serie di inquadrature vi sono i protagonisti del film che compiono delle azioni: Isabelle (Isabelle Huppert) che spinge un carrello nella fabbrica e successivamente la si vede mentre lavora a una macchina; Michel Boulard (Michel Piccoli) nonché il proprietario della fabbrica con la moglie Hanna (Hanna Schygulla) mentre si vestono; il regista polacco Jerzy (Jerzy Radziwilowicz) in automobile. La trama si incentra sulle vicende che avvolgono il regista che sta girando un film dal titolo Passion, il quale si basa sulla costruzione di quadri celebri. Il primo che ci appare è La Ronda di notte (1642) di Rembrandt. Hanna, che possiede un hotel dove la troupe del film alloggia, diventa l'amante di Jerzy, nel frattempo il marito Boulard non ha soldi per pagare un creditore e in fabbrica scatta uno sciopero. Intanto appaiono i tableaux vivants di Le fucilazioni del 3 maggio 1808 (1814), Maja desnuda (1797-1800) e La famiglia di Carlo IV (1800-01) di Goya (Fig.8-9-10). Mentre Hanna e Jerzy si scambiano tenerezze, nello studio vi è la messa in scena de Il bagno turco di Delacroix. Poco dopo appare il finanziatore italiano che reclama i suoi soldi, così il produttore del film, Laszlo (Laszlo Szabo) inizia ad elencare i prezzi di ogni macchina 164 Aumont Jacques, L'occhio interminabile. Cinema e pittura, Marsilio, Venezia 1998, p.155. 165 Di supporto alla sinossi sono stati usati i testi: Farassino Alberto, Jean-Luc Godard, Il Castoro, Milano 2007 e Chiesi Roberto, Jean-Luc Godard, Gremese Editore, Roma 2003. 79 impiegata nel set cinematografico. Nel frattempo un altro tableau vivant compare sullo schermo, è La bagnante di Valpinçon (1808) di Ingres (Fig.11). Laszlo cerca di trovare acquirenti per il film, ma è fortemente preoccupato in quanto il film non possiede una vera storia; nel frattempo Jerzy si interroga sul suo futuro: se tornare in Polonia e quale donna scegliere tra Hanna e Isabelle. Quest'ultima, che è stata licenziata da Boulard a causa anche delle pressioni della moglie, si rifiuta di lasciare la fabbrica e il suo lavoro, finisce così per essere cacciata in malo modo. Nel frattempo, nello studio cinematografico si mette in scena L'ingresso dei crociati a Costantinopoli (1840) di Delacroix (Fig.12-13). Regista e produttore continuano a discutere sul perché nessuno comprerà mai il film e il motivo principale è ancora una volta la mancanza di una storia che, secondo Laszlo, il pubblico cerca. Jerzy decide così di abbandonare il film, ma tecnici e comparse si ribellano e malmenano il regista. Anche Hanna picchia il marito e Jerzy viene colpito da una coltellata che era destinata invece a Boulard, Sarah innamorata di lui lo salva ma è Isabelle che si prenderà cura del regista e, una volta che Hanna tornerà da Jerzy, lui la respingerà. Nel set intanto si ha La lotta di Giacobbe con l'Angelo (1860) di Delacroix. Laszlo annuncia di aver trovato un finanziatore, ma che è necessario trasferirsi in California, ma Jerzy rifiuta di andarsene. Le riprese continuano con l'Assunzione della Vergine (1577-79) di El Greco, ma poco dopo, quando Hanna cerca Jerzy, scopre che la troupe è partita e trova solo nel set due personaggi e il veliero de L'imbarco per Citera (1717) di Watteau (Fig.14). Isabelle nel frattempo senza lavoro decide di partire per la Polonia con Hanna, quando Jerzy lo scopre le insegue per fermarle, ma incontrerà Sarah dalla quale accetterà un passaggio in auto. 2.5.2 Analisi Passion (1982) viene considerato da De Vincenti un film-saggio 166, nel senso che si dava a questa formula negli anni Sessanta, che definisce un tipo particolare di 166 André Bazin fu il primo a utilizzare l’espressione “essay-film” in riferimento all’opera cinematografica di Chris Marker, Sans Soleil (1982), volendo indicare un testo audiovisivo, non ascrivibile al documentario o alla video-intervista, nel quale al collage di immagini fosse associata una voce fuoricampo rappresentativa di una prospettiva unitaria e totalmente personale al regista. Per un approfondimento si veda A. Bazin, Chris Marker, Lettre de Siberie, in Le Cinéma français de la Liberation à la Nouvelle Vague, Cahiers du cinéma, Paris, 1985, pp. 179-181. 80 narratività in stretta opposizione ai modi abituali del racconto cinematografico; ritenendo il film una delle forme più radicali di film-saggio. Ma Passion viene, allo stesso tempo, considerato «un film “poetico”, nel senso che si dà alla parola secondo la tradizione formalista, nella quale si oppone al mondo della “visione” (linguaggio poetico) quello del “riconoscimento” (linguaggio pratico)», Vincenti inoltre considera «il passaggio dal secondo al primo frutto dell'operazione di straniamento, che rende la parola carica di significati molteplici, nuovi e inusuali»167. Difatti Passion, come vedremo nelle pagine seguenti, esibisce il problema della narrazione e della possibilità stessa del narrare sia attraverso la storia stessa del film, sia attraverso una serie di interrogativi espressi dai personaggi. Fin dalle prime inquadrature del film si intuisce che Passion non ha una vera e propria storia, un testo narrativo. Godard sa che non ci sono storie semplici da raccontare, poiché il mondo moderno è complesso e caotico e la narrazione deve riflettere il parziale. Passion difatti racconta due storie frammentate, che sono due serie interconnesse tra loro: vi è la storia di Jerzy, un regista polacco che sta girando un film intitolato Passion, e quella di Isabelle, un'operaia di fabbrica che va in sciopero. Il concetto di storia si presenta fin dalle prime inquadrature, dove la stessa domanda viene posta a tre personaggi diversi, ovvero «che cos'è questa storia?», alla domanda vengono accompagnate le relative risposte fuori campo; si tratta di una scelta linguistica che intende sottolineare una doppia articolazione di immagini e sonoro. Le risposte, che ci introducono direttamente nel cuore del problema, vengono date a partire da Sophie Lukačevskij, assitente di Jerzy, poi da Patrick Bonnel, altro collaboratore del regista e infine da Raoul Coutard, direttore della fotografia di tutti i film di Godard fino al 1967. La prima risposta che si ascolta è: «Non è una menzogna, ma qualcosa di immaginato. Non è mai l'esatta verità, non è neppure il suo contrario, ma qualcosa che in tutti i casi è separato dal reale esteriore dai pressappoco profondamente calcolati della verosomiglianza»168. La seconda: «è perché questa composizione è piena di buchi e di spazi male occupati. Non esaminate severamente né la costruzione né le inquadrature. 167 De Vincenti Giorgio, Il concetto di modernità nel cinema, Lampi di Stampa, Milano 2000, p.115. 168 Citato in De Vincenti Giorgio, Il concetto di modernità nel cinema, Lampi di Stampa, Milano 2000, p.116. 81 Fate come Rembrandt: guardate gli esseri umani attentamente, lungamente, sulle labbra e negli occhi»169. La terza e ultima risposta: «Non c'è storia. Tutto è correttamente illuminato, da sinistra a destra, un po' dall'alto in basso, un po' da avanti e indietro. Non è una Ronda di notte ma una Ronda di giorno, illuminata da un sole già basso sull'orizzonte»170. Fin dall'inizio del film, è evidente su cosa verterà: Godard tenta di indagare il concetto di storia e per rispondere lui stesso alla domanda iniziale si serve, a mio parere, del personaggio di Jerzy. L'autore crea in Jerzy il proprio alter ego: Jerzy esprime il dilemma artistico e creativo di Godard. I problemi del regista Jerzy nel produrre la sua "passione" sono quelli che anche Godard stesso affronta nella sua “passione” lavorativa di cineasta. Nel film, Jerzy è perseguitato da un produttore che vuole fare successo al botteghino, dagli attori che vogliono conoscere le loro parti, da Laszlo che ricerca la storia del film. Tutti vogliono sapere cosa sta succedendo, tutti vogliono la storia. E così nel film Laszlo domanda a Jerzy: «Qual è la storia?», ma il regista non ha una risposta e per questo tace. La sua sofferenza artistica, ovvero la sua "passione", è proprio questa assenza di una storia unita alla volontà di dare al film una coerenza artistica e di significato. Jerzy fallirà e non riuscirà a trovare una soluzione ai problemi di realizzazione del film: non riesce ad ottenere la giusta illuminazione per le riprese dei tableaux vivants ed è incapace di soddisfare le esigenze del produttore. La pellicola di Jerzy uscirà incompleta ed è in questo racconto incompleto che Godard farà il punto della situazione sul cinema: è il cinema stesso a partecipare alla confusione della vita, a essere parte di essa. Il regista è alle prese con false partenze, frustrazioni, pressioni esterne e interne, nel tentativo costante di cercare di dare un significato al cinema e al suo lavoro. Egli è alla ricerca di connessioni tra amore e lavoro, arte e vita; connessioni che, non casualmente, corrispondono anche alle due serie del film: la storia di Hanna, il lavoro e la vita, e la storia di Jerzy, l'amore e l'arte. In questa ricerca di connessioni affiorano i due temi principali che percorrono l'intero film: la legge e la luce. Il tema della legge viene indagato sia dal principio dei comportamenti umani, sia dal principio cinematografico. Il primo esempio all'interno dell'opera lo troviamo quando Laszlo insegue la legge del cinema, nonché quella norma 169 Ibidem. 170 Ibidem. 82 per cui ogni film debba possedere una storia. Al contrario Jerzy crede che il cinema non sia fatto di leggi ed è per questo motivo che la gente lo ama ancora 171. Si parla di una legge del cinema che da sempre Godard non ha mai seguito e che ha ignorato in tutta la sua cinematografia, compreso Passion stesso. La medesima legge la ritroviamo nella serie dei personaggi: essa si insinua in Jerzy; la cogliamo quando la polizia insegue Isabelle nella fabbrica e infine nella Presa di Costantinopoli, dove emerge l'aspetto della libertà ma che dovrà tuttavia fare i conti con la legge, ultima e finale. La luce, altro grande elemento che lega le due serie, appare sempre nel film come fonte artificiale che non viene nascosta agli occhi dello spettatore. Luce che cambia in base ai personaggi, se si trovano nel set cinematografico o nella fabbrica. La luminosità è anche quella del jet immerso nel cielo azzurro, prima inquadratura ad aprire il film Passion e ultima di Scénario. È inoltre grazie alla luce se i tableaux vivants possono prendere forma: la cinepresa infondo deve essere solo testimone della luce, poiché è essa che dà vita all'arte. Jerzy ricerca nel film la “bonne lumière”, ma sul set la luce non è mai quella che Jerzy pretende e i risultati di colori, rifrazione dei corpi e chiaroscuro sui tableaux vivants lo lasciano sempre insoddisfatto. La luce «è una cosa che ammiro in pittura: i pittori sono in grado di crearsi una propria luce» 172. È ciò che disse Godard ma è una frase che può essere riconducibile anche a Jerzy. Probabilmente è per questo che il regista di Passion tenta di ricostruire i grandi classici pittorici, perché aveva “gelosia” verso gli artisti che potevano avere la luce che volevano. Ritorna l'alter ego Jerzy-Godard: infatti se c'è una cosa che Godard non ha mai nascosto è la sua “invidia” nei confronti dei pittori; per tutta la sua carriera il cineasta ha sempre avuto il desiderio di poter filmare le cose così come fanno i pittori quando eseguono le loro tele. Lo stesso Godard ammise: «La cosa terribile è che è difficile fare al cinema quello che il pittore fa con tutta naturalezza: si ferma, prende una certa distanza, si scoraggia, riprende, modifica. Tutto è permesso» 173. L'esigenza di ritoccare 171 Il discorso sulla legge avviene all'interno del film quando Sophie afferma: «nel cinema ci vuole una storia e bisogna seguirla, questa è una legge», Jerzy ribatte «ma no, non ci sono leggi, non ci sono leggi mia Sophie, nel cinema, ed è per questo che la gente lo ama ancora» per poi chiedere a Coutard se anche per lui c'è la legge nel film. Alla risposta affermativa di Coutard, Jerzy risponde: «Ecco. Bene, allora si spegne tutto». 172 JeanLuc Godard, Il cinema è il cinema, Grazanti, Milano 1971, p.165. 173 JeanLuc Godard, Il cinema è il cinema, Grazanti, Milano 1971, p.174. 83 l'inquadratura nel corso delle riprese e, come ammise, desiderare di riuscire a studiare la distanza e il punto di vista giusti, sono le aspirazioni che da sempre hanno accompagnato la ricerca di Godard, sfociata nell'ultimo periodo con l'uso dell'elettronica, in quanto mezzo più idoneo a “dipingere” la realtà nel momento stesso in cui la si riprende con la telecamera. Questa eterna ricerca di Godard ci ricorda come questo problema sia in realtà intrinseco fin dalle avanguardie storiche del Novecento, dove vi era l'eterno conflitto tra la creatività dell'artista e l'ostilità del mezzo cinematografico nell'esprimere appieno l'originale immagine dell'artista. Il suo obiettivo è quello di poter giungere a visualizzare la propria immagine mentale nel modo più completo e aderente possibile, attraverso il linguaggio artistico adottato. Come abbiamo già potuto vedere esaminando le teorie nei rapporti tra cinema e pittura, Ėjzenštejn nei suoi scritti teorici utilizzava il modello cinematografico per meglio comprendere i meccanismi compositivi della pittura; allo stesso modo, anche Godard utilizza la pittura (i tableaux vivants) per evidenziare l'alterità del cinema. In Passion Godard rifà delle tele celebri tramite la composizione di tableaux vivants, poi le esplora, le smonta e le rimonta, le spinge al limite e tenta delle varianti combinandole tra loro e semplificandole. In poche parole, le mette in discussione e l'insieme di queste operazioni può essere indicato con il termine “cinematizzazione”, ovvero un diventare cinema della pittura174. Parliamo di cinematizzazione nel senso con cui Ejzenštejn proponeva di chiamare “cinematismo” la retroazione concettuale e analitica del cinema sulla letteratura e pittura: ad esempio, il cineasta prendeva in analisi le tele di El Greco alla luce del concetto del montaggio e della nozione di estasi, analizzando le influenze e le filiazioni a ritroso. Nei ripensamenti, nelle esitazioni e nella incompiutezza del lavoro di Jerzy ritroviamo le stesse azioni compiute da Ejzenštejn. «Questa è un'operazione di “cinematizzazione” che nel film appare complessa ed inconcludente, forse perché è segnata dalla malinconia e dal lutto, di un senso della storia come perdita e della disperazione di ogni tentativo di trovare l'origine a partire dagli indizi che ci giungono»175. Quello che Passion evidenzia è la messa in scena e la luce, quei due aspetti che hanno consentito di mantenere il cinema legato alla pittura. 174 Il concetto di “cinematizzazione” viene sostenuto da Aumont Jacques, L'occhio interminabile. Cinema e pittura, Marsilio, Venezia, 1998, p.151. 175 Aumont Jacques, L'occhio interminabile. Cinema e pittura, Marsilio, Venezia, 1998, p.151. 84 «Godard si serve della pittura per privilegiare le virtualità proprie del cinema. La ricomposizione dei quadri, in Passion, è un pretesto per mettere alla prova le potenzialità del cinema»176. Godard inoltre offre una esemplificazione della tipologia dell'«effetto dipinto», proposta da Antonio Costa e analizzato nelle prime pagine del capitolo, in quanto il regista mostra la messa in scena (la realizzazione nella tridimensionalità dello spazio profilmico nella scena del quadro rappresentato dall'opera celebre) e la messa in inquadratura (la parte del tableau vivant che diviene inquadratura filmica, che traduce nella bidimensionalità dello schermo la profondità dello spazio reale). Passion non è un film fatto solo di quadri, di accompagnamento ad ogni tableaux vivants, ma vi sono anche brani musicali, alcuni celebri e di facile riconoscimento come Concerto per la mano sinistra di Ravel, ma anche Mozart, Dvorák, Beethoven, Fauré. Questa associazione tra immagini e suono porta a stabilire nessi tra loro, ma soprattutto ad esibire la ricerca di questi nessi. I materiali esibiti nel film devono essere interpretati in base alle rispettive serie. Difatti quella dei tableaux vivants, dei corpi luminosi, accompagna le due serie di cui la storia è composta: quella della vita e quella dell'arte, che sono associate, rispettivamente, ai personaggi di Isabelle e Jerzy. Gli intrecci delle storie e delle vite dei personaggi sono legati l'uno all'altro e gli avvenimenti si ripercuotono da un personaggio all'altro. Nel video costruito in seguito al film, Scénario du film “Passion”, è lo stesso Godard che spiega la dinamica dei rapporti tra i personaggi, nati non da una sceneggiatura ma da connessioni di luci, parole, gesti177. Nessuna delle due serie alla fine riesce a prevalere sull'altra poiché, come disse Godard, «La mia idea era di liberare un evento mediante la metafora dell'altro»178 ed è sempre Godard che proclama apertamente il fatto che i suoi tableaux vivants debbano essere visti come le metafore in grado di definire le due serie: «Ho provato a mostrare la pittura sotto una forma metaforica che rinvia a realtà diverse. I cavalieri sono metafore 176 Liandrat-Guigues Suzanne, Leutrat Jean-Louis (tr. it. di Arecco S.), Godard alla ricerca dell'arte perduta, Le Mani, Recco 1998, p.70. 177 Citato in Farassino Alberto, Jean-Luc Godard, Il Castoro, Milano 2007, p.165. 178 Citato in Liandrat-Guigues Suzanne, Leutrat Jean-Louis (tr. it. di Arecco S.), Godard alla ricerca dell'arte perduta, Le Mani, Recco 1998, p.71. 85 dei padroni, i fucilati di Goya metafore delle giovani operaie in fabbrica» 179. Godard unisce così le due serie tramite la creazione dei magnifici tableaux vivants. La costruzione de La ronda di notte si presenta attraverso il montaggio alternato di sei piani legati al dipinto e da tre che mostrano Isabelle in fabbrica. Di facile percezione sono le opposizioni visive e sonore tra le due scene: Isabelle che lavora immersa tra le macchine della fabbrica in uno spazio ben illuminato e dotato di profondità di campo è in opposizione al “quadro vivente”, dove personaggi in costume si posizionano in uno spazio che è un non-luogo privo di profondità e con un'illuminazione a contrasto dei volti. Anche dal punto di vista sonoro le scene appaiono in opposizione: la fabbrica avvolta da rumori chiassosi, i colpi di tosse dei personaggi del quadro, una serie di domande e risposte sul quadro stesso e per finire Concerto per la mano sinistra di Ravel. Pure la sofferenza dei personaggi è comune: Isabelle seduta sullo sgabello da lavoro ha male alle ginocchia e i personaggi del quadro soffrono in quanto obbligati all'immobilità. Secondo il mio punto di vista, Godard in queste serie di sequenze regala uguale dignità sia alla magnificenza del quadro di Rembrant, capolavoro della ritrattistica che cattura la dignità e l'unicità di ogni individuo nel gruppo, sia a Isabelle l'operaia, di cui il regista ne farà un ritratto che, come Rembrandt, illumina la sua individualità. Nella ricomposizione di Il tre maggio 1808 di Goya, la figura di Isabelle è ricondotta al quadro nel momento in cui la donna si sdraierà sul divano, lo stesso che sarà poi utilizzato nella scena successiva e inserito nel tableau vivant. Ma Il tre maggio 1808 è anche una rappresentazione profondamente commovente della esecuzione di inermi contadini spagnoli da parte dell'esercito francese. Godard coglie questo significato per creare un drammatico confronto tra gli uomini senza potere e quelli con il potere; difatti la scena immediatamente precedente è una lunga sequenza di Isabelle e altre operaie riunite a casa sua per discutere la formazione di un sindacato dei lavoratori. Le donne decidono di scioperare creando lo slogan: «Si dovrebbe lavorare per amore, l'amore al lavoro». Queste giovani donne che pensano che una dichiarazione circa la dignità del lavoro farà la differenza nella lotta tra lavoratori e proprietari, saranno infine schiacciate dallo strapotere del capo. Le donne vengono quindi associate ai contadini di 179 Liandrat-Guigues Suzanne, Leutrat Jean-Louis (tr. it. di Arecco S.), Godard alla ricerca dell'arte perduta, Le Mani, Recco, 1998, p.70. 86 Goya, in quanto entrambi si trovano nella loro impotenza totale. Godard utilizza il dipinto l'Assunzione di El Greco per concludere il rapporto metaforico con Isabelle: la sequenza della ricostruzione dell'Assunzione viene associata all'incontro finale tra Isabelle e Jerzy. Godard giustappone immagini di Isabelle ad immagini della Vergine Maria, creando un nesso tra la sofferenza innocente per la dignità del lavoro dell'operaia e la dimensione religiosa della pittura sublime di El Greco. Possiamo quindi affermare che il rapporto tra i vari quadri presenti in Passion è talmente stretto, che ognuno di essi vive in funzione del suo successivo, ma allo stesso tempo sono anche le differenze peculiari di ogni quadro a distinguerli e ad inserirli in questa serie di tableaux vivants. Godard associa per ogni quadro una colonna sonora che intensifica notevolmente la dignità e la grandezza delle immagini visive. Proprio come vengono utilizzati i capolavori pittorici per commentare e nobilitare la figura di Isabelle, così Godard utilizza brillantemente capolavori di musica classica per perfezionare le sequenze di immagini della protagonista e dei tableaux vivants. In Passion vi sono anche suoni naturali, come quello del clacson, i rumori sul set del film o della fabbrica, che insieme rafforzano il senso di confusione e di caos nel pubblico. L'uso della colonna sonora, oltre alla manipolazione del discorso in relazione all'immagine, fonde sottilmente suoni che aumentano drammaticamente il significato del film. Nel cinema narrativo tradizionale il dialogo è sincronizzato con le immagini dei personaggi che parlano, in Passion invece Godard crea spesso le sequenze in cui l'immagine visiva e il dialogo non sono correlati. L'utilizzo della non-sincronizzazione è usato come mezzo per intensificare, ancora una volta, la perplessità nel pubblico sul significato di ciò che stanno vedendo e ascoltando. Il cineasta rompe il magico incantesimo del cinema e costringe il pubblico ad essere consapevole del fatto che stanno guardando un film senza esserne pienamente immersi. 2.5.3 “Passion”, le travail et l'amour. Introduction à un scènario. Troisième état du scénario du film “Passion” Lavoro precedente al film Passion, è un cortometraggio dal titolo tradotto in 87 italiano: “Passion”, il lavoro e l'amore. Introduzione ad una sceneggiatura. Terza versione della sceneggiatura del film “Passion” (1981). Il titolo stesso del lavoro fa supporre la possibile esistenza di due versioni inedite. Troisième état du scénario du film “Passion” è un film con un'identità non del tutto definita, che può essere identificato come una serie di appunti e di schizzi preparatori al film finale. Il cortometraggio è composto da dialoghi ed interviste con i possibili collaboratori del film, si presentano personaggi, temi, problemi, situazioni e si mostrano riproduzioni di quadri. Il cortometraggio rivela che l'idea iniziale di Godard era quella di ambientare la trama di Passion a Los Angeles, con lo scenografo di Coppola Dean Tavoularis; nel film questo particolare emerge nel momento in cui il regista afferma «Hollywood non è lontana» e appaiono le inquadrature dello studio di Coppola. Seguono alcune interviste agli attori: Isabelle Huppert, Jerzy Radziwilowcz, Hanna Schygulla ed infine l'attore svizzero Jean-Luc Bideau, che con molta probabilità doveva impersonare Michel Boulard, ruolo che venne poi interpretato dall'attore Michel Piccoli. I passaggi da un'intervista ad un'altra o da una inquadratura ad un'altra vengono risolti con il procedimento della dissolvenza: ad esempio un'inquadratura di una fabbrica si dissolve in un quadro di Poussin o l'intervista a Jean-Luc Bideau si dissolve in un Goya. Si passa poi a mostrare una conversazione tra Godard e lo sceneggiatore Jean-Claude Carrière, dove i due discutono sul soggetto: «Godard pensa a piccole storie per ogni personaggio mentre i suggerimenti di Carrière sono molto più strutturati e romanzeschi»180. La sequenza è alternata ad inquadrature nelle quali si mostra Godard intento ad incollare riproduzioni di quadri su un album mentre parla della preparazione del film, dei ruoli e dei costi. Il cortometraggio si conclude con l'inquadratura dello studio di Coppola e l'immagine di un aereo che vola via, la stessa che, come abbiamo visto, apre il film Passion. Forse quell'aereo che vola via è lo stesso che pochi mesi dopo ha riportato Godard in Europa per produrre il film, forse egli voleva dimostrare che il suo posto non è Hollywood e l'immagine di un aereo in cielo è l'inquadratura più eloquente per dimostrarlo e probabilmente non è nemmeno casuale l'immagine che il cineasta sceglie 180 Farassino Alberto, Jean-Luc Godard, Il Castoro, Milano 2007, p.179. 88 per concludere il suo corto, in quanto, a mio avviso, ne dà, coscientemente, o meno il senso finale del suo lavoro e l'inizio del lungometraggio successivo. Passion verrà quindi girato senza lo scenografo Dean Tavoularis, ma anche senza lo sceneggiatore Jean-Claude Carrière e «la vera sceneggiatura sarà fatta nel corso delle riprese, poiché neanche un video può scrivere o pre-scrivere un film»181. Anche i tableaux vivants non verranno riprodotti tutti: il quadro di Poussin non vi sarà e inoltre dal corto si intuisce che fra i quadri da ricostruire c'era La caduta dei dannati (1621) di Rubens, «cinquecento corpi nudi che cadono nel vuoto»182. La scena fu allestita e anche filmata in video ma, si può intuire, in maniera poco soddisfacente al punto che Godard non la usò nemmeno per la videosceneggiatura. 2.5.4 Scénario du film Passion La nascita della sceneggiatura Godard la racconterà a film concluso con il video Scénario du film “Passion” (1982), realizzato subito dopo la fine delle riprese per conto della Televisione della Svizzera Romanda. Godard racconta e ci spiega come guardare il suo film, seguendo cioè i rapporti tra i materiali del cinema, le luci, i gesti, i suoni e gli attori. Il testo di Scénario du film “Passion” si basa sulle infinite possibilità di svolgimento della storia di Passion mostrando come lo scenario, cioè il soggetto e la sceneggiatura del film, sia divenuto realizzabile nel film. Partendo da una situazione che richiama il senso dell'oblio, la spiaggia bianca, e la memoria, cioè il mare. Lo scenario coincide con questa incisione sulla memoria e il film ne è il compimento. Scénario du film “Passion” si apre in un ambiente intimo e poco illuminato di uno studio-video, nel quale si staglia uno schermo bianco, dove successivamente verranno proiettate alcune scene del film Passion. In controluce appare la sagoma di Jean-Luc Godard con i capelli arruffati; poco dopo il regista si volta, saluta “amici e nemici”, e inizia ad argomentare introducendo il tema della trasmissione: tratterà di una sceneggiatura che ha voluto prima vedere e poi scrivere. «Perché prima si vede il mondo e poi lo si scrive: Godard afferma che la scrittura è stata inventata dai mercanti e la sceneggiatura dai contabili. Prima di Madame Bovary ci sono stati i conti della spesa 181 Farassino Alberto, Jean-Luc Godard, Il Castoro, Milano 2007, p.180. 182 Ivi. 89 […] e prima degli sceneggiatori c'è stato Sennett, che non ne aveva bisogno […] la sceneggiatura è creare una possibilità»183. Questa espressione ricorda, in qualche modo, un'altra frase affermata da Jerzy nel film Passion: «le storie bisogna viverle, prima di inventarle». La scrittura di cui parla Godard in Scénario è forse riconducibile al senso di ricerca di una storia di Passion, personalmente l'ho colta come una sorta di giustificazione che Godard offre a Jerzy nel rifiutarsi di trovare una storia, una narrativa, al suo film. Il video continua e sempre di spalle contro lo schermo bianco, Godard agita le braccia e si muove creando delle sagome, ricorda la pagina bianca di Mallarmé «è tutta bianca e non ci sono tracce di niente […] la scrittura può essere poi una poesia di Rimbaud o una cartolina con baci da Marsiglia o ancora, una frase di Ti amo, Ti amo; ma prima di tutto bisogna vedere»184. Mentre afferma questo, Godard mima il gesto dello scrivere sullo schermo bianco (Fig.15), come se esso rappresentasse un foglio di carta e il regista il mezzo con cui trasmettere le parole. Continua: «La pagina bianca è come il mare, ma bisogna inventare le onde (vagues), i movimenti. I movimenti sono i personaggi (appare sullo schermo Hanna che corre) il film può essere una tempesta, che va e viene...»185. Il discorso viene momentaneamente interrotto per aprire un'altra argomentazione: «Gli speaker della televisione invece parlano con le immagini alle spalle (viene mostrato un telecronista). Alla tv non si vedono le immagini, ma sono le stesse immagini che ci vedono, da dietro, e che ce lo mettono nel didietro […]. Vedere è un lavoro. Il film dovrà dunque far vedere il lavoro (nello schermo si trasmettono immagini di Isabelle, successivamente Godard seduto sulla sedia davanti allo schermo si alzerà per rivolgere all'immagine di Isabelle un bacio). Il bianco è la purezza […] e Isabelle sarà una pura e dura»186. Sullo schermo compaiono alcune riprese di una riunione della troupe durante la lavorazione del film: Godard racconta le sue difficoltà nel lavorare con gli attori, in quanto non riescono ad immaginare i loro personaggi a partire da un quadro (sullo 183 Farassino Alberto, Jean-Luc Godard, Il Castoro, Milano 2007, p.180. 184 Farassino Alberto, op.cit., p.180. 185 Farassino Alberto, op.cit., p.180. 186 Farassino A., op.cit., p.180. 90 schermo appare un Tintoretto per poi dissolversi in un immagine di Isabelle) o da una musica (si sente il Requiem di Mozart). Dopo questa digressione, la storia della nascita del film Passion continua: «Qualcuno arriva. L'azione comincia. Come nei film americani (vengono trasmesse le immagini di Jerzy in auto) arriva a cercare lavoro in una specie di superproduzione, un po' come ad Hollywood. Nessuno conosce chi è o da dove viene. È uno straniero, un esule, come lo sono io nel cinema mondiale. […] Léo Ferré canta e recita la poesia di Villon, Frères humains: ma se Jerzy è un fratello sarà non un attore ma un regista» 187. Godard cerca di abbracciarlo, sullo schermo. Continua il regista: «Vedere una sceneggiatura è un lavoro particolare. Bisogna fare ricerche, inchieste. Spielberg non fa inchieste nel cosmo per i suoi film» 188. Godard le ha fatte le inchieste, in fabbrica, scoprendo che i gesti del lavoro assomigliano a quelli dell'amore. «Gesti, movimenti, amore: ci sarà un movimento di sciopero, ci sarà dell'amore»189. Scorrono nello schermo altre scene del film, tra cui alcune che non furono mai utilizzate. Cita poi Malraux: «l'arte è come un incendio, nasce da ciò che brucia» 190, mentre Godard si accende un sigaro. Parla poi di Delacroix e dei suoi fiori per passare poi a parlare del concerto di Dvorák. Il regista continua con una serie di associazioni, di musiche, immagini e parole facendo nascere da questi accostamenti storie e significati. Nel finale, ritroviamo Godard sempre di fronte allo schermo bianco che allarga con forza le braccia come se lo stesse abbracciando e mentre la musica sale, inizia ad elencare tutto ciò che ha trovato: «ed ecco la luce ed ecco i soldati, ecco i padroni ed ecco i bambini, ecco la luce, ed ecco la gioia, ed ecco la guerra, ecco la notte, ecco la vergine, ecco la grazia, ecco la luce […] ecco l'avventura ed ecco la finzione, ecco il documentario ed ecco il movimento, ecco l'immagine ed ecco il suono, ed ecco il cinema, ecco il cinema, ecco il cinema...»191, per chiudersi con la scena dell'aereo che sale in cielo. 187 Farassino A., op.cit., p.181. 188 Farassino A., op.cit., p.181. 189 Farassino A., op.cit., p.181. 190 La frase è tratta da Scénario du film Passion (traduzione mia). 191 Farassino A., op.cit., p.181. 91 Analizziamo per un momento la funzione del testo di Passion: essa è sia centripeta che centrifuga insieme, ovvero il testo richiede di essere interpretato sia in base ai legami che si stabiliscono tra i materiali, sia nella proiezione di ogni materiale verso le rispettive serie culturali da cui derivano. Il testo porta lo spettatore ad interrogare il posto di Rembrandt, di Goya o Delacroix nella storia dell'arte e mantiene questo “gioco” per tutta la durata del film. Per esempio, in una scena uno dei personaggi guarda un libro con una bambina e afferma: «è Delacroix che ha detto tutto ciò. Ha cominciato col dipingere dei guerrieri, poi dei santi, di li è passato agli amanti e poi alle tigri e alla fine della sua vita ha finito col dipingere dei fiori» 192; questo è un chiaro rinvio al di fuori del testo, poiché c'è un rimando a Delacroix in quanto pittore del sublime e della luce. Questo è un esempio della funzione centrifuga dei materiali nel film, lo spettatore è perciò costretto a proiettare all'esterno del film stesso i materiali per riuscire a dare un senso al film. Questa funzione centrifuga e centripeta dei materiali trattate nel film Passion, vengono riprese e si fondono perfettamente in Scénario du film “Passion”, dove Godard di spalle commenta le immagini dei film mostrati; «in questi commenti domina il principio dell'associazione delle parole secondo un'analogia di suoni, che stabilisce a sua volta analogie sul piano dei significati»193. Per esempio, in una scena del video-film scorrono le immagini di Michel, cui le operaie tentano di impedire l'ingresso nella fabbrica, che grida: «Andate, al lavoro! Voi, non avete niente da fare qui!», poi riferendosi a Isabelle afferma: «Io vi ho ben avuta in ogni caso!». A questo punto Godard enuncia: «Io ti amo, tu mi ami, quando mi ami, quando mi amerai, ti ho ben avuta, avere, il padrone... ha un avere, avere qualcosa in banca, avere qualcosa a che vedere con qualcuno, non lasciarsi avere, il padrone ha una moglie, la moglie non vuole lasciarsi avere»194. Queste associazioni richiamano i temi del film, il nesso tra amore e lavoro e quello tra amore e proprietà. Questi temi vengono riproposti da Godard tramite associazioni mentali secondo un movimento che coincide con il medesimo del film, ovvero associare immagini e suoni tra loro. Inoltre la scelta della voce off appare come 192 Dialogo del film Passion (1982). 193 De Vincenti Giorgio, Il concetto di modernità nel cinema, Lampi di Stampa, Milano, 2000, p.119. 194 Citato in De Vincenti Giorgio, Il concetto di modernità nel cinema, Lampi di Stampa, Milano, 2000, p.120. Il dialogo in francese è di traduzione mia. 92 l'opzione che è in grado di esprimere al meglio le associazioni su cui Passion è basato, essa assolve la funzione di commento dei materiali culturali depositati nella nostra cultura e per questa via introdotti nel film, secondo un criterio che viene enunciato esplicitamente nell'opera. Questo ci rimanda al tema e all'elaborazione del montaggio di Ejzenštejn, per dare vita ad un accostamento tra i due registi che sottolinei l'integrazione della tradizione del cinema di montaggio con le svolte del cinema moderno195. Questa “realtà” che lo caratterizza non riguarda solo la realtà fenomenica, ma anche quella costituita dai materiali culturali su cui il cinema lavora; su questo lavoro a partire dai materiali culturali esistenti ritroviamo le connessioni tra Godard e Ejzenštejn. Nel caso di Passion, questi materiali culturali si incanalano in un unico tema: quello della narrazione. Il modello del film-saggio, descritto in precedenza da De Vincenti, si presenta così come un modello che esibisce un'operazione critica svolta su materiali preesistenti; questo processo è in stretto contatto con il concetto di attrazione di Ejzenštejn. Per entrambi i casi «si tratta di isolare un elemento di una serie culturale rispetto alla serie stessa, allo scopo di renderlo produttivo rispetto a nuove possibili significazioni [...] l'operazione di straniamento è solo il processo iniziale per l'inserimento in un contesto nuovo, dove l'elemento colto da altre serie possa stabilire nuovi rapporti significanti»196. Ma la differenza del cinema moderno dalla esperienza ejzenštejniana si incontra nel caso di Godard nella prevalenza dell'aspetto centrifugo, ovvero l'apertura del testo, il rinvio esplicito ad altro da sé, aprendo il cinema alle altre serie e questo diviene per il regista il vero oggetto di straniamento. Se nel modello ejzenštejniano la ricerca si incentra su un unico testo, nel cinema moderno e in quello di Godard questo corrisponde ad un movimento duplice, un'oscillazione tra il testo al suo esterno e viceversa. Ejzenštejn e Godard si interrogano entrambi sul senso e sui processi della significazione cinematografica e non solo, ma nel nostro autore questa potrebbe anche non esserci ed è tale il tema principale di Passion: l'interrogativo sulla possibilità di raccontare storie. 195 Il cinema moderno è nato in opposizione al montaggio classico hollywoodiano per ricercare una sorta di indipendenza dei materiali “reali” rispetto alle strutture drammatiche e a quelle narrative. Qui cit. in De Vincenti Giorgio, op.cit. p.120. 196 De Vincenti Giorgio, Il concetto di modernità nel cinema, Lampi di Stampa, Milano 2000, p.122. 93 APPARATO ICONOGRAFICO Fig.1 Ferdinand (Jean-Paul Belmondo) legge il libro Storia dell'arte di Élie Faure (Pierrot le fou, 1965). Fig.2 Paul travestito da Pierrot di Picasso (Pierrot le fou, 1965). 94 Fig.3 La blusa rumena di Matisse (Pierrot le fou, 1965). Fig.4 Paul travestito da Pierrot di Picasso (Pierrot le fou, 1965). 95 Fig.5 Bagnate (Nu féminin) di Renoir (Pierrot le fou, 1965). Fig.6 Marianne (Anna Karina) tra Jacqueline coi fiori e Ritratto di Sylvette sulla poltrona verde di Picasso (Pierrot le fou, 1965). 96 Fig.7 Fotogramma di apertura del film Passion (1982), un jet che squarcia il cielo azzurro. Fig.8 Tableau vivant del dipinto Le fucilazioni del 3 maggio 1808 di Francisco Goya (Passion, 1982). 97 Fig.9 Tableau vivant del dipinto La Maja Desnuda di Francisco Goya (Passion, 1982). Fig.10 Tableau vivant del dipinto La famiglia di Carlo IV di Francisco Goya (Passion, 1982). 98 Fig.11 Tableau vivant del dipinto La bagnante di Valpinçon di Jean-Auguste-Dominique Ingres (Passion, 1982). Fig.12 Particolare del tableau vivant del dipinto L'ingresso dei crociati a Costantinopoli di Eugène Delacroix (Passion, 1982). 99 Fig.13 Particolare del tableau vivant del dipinto L'ingresso dei crociati a Costantinopoli di Eugène Delacroix (Passion, 1982). Fig.14 Tableau vivant del dipinto L'imbarco per Citera di Antoine Watteau (Passion, 1982). 100 Fig.15 La sagoma di Jean-Luc Godard in Scénario du film “Passion” (1982). 101 CAPITOLO III CINEMA E MUSICA: PRÉNOM CARMEN La questione del rapporto tra cinema e musica, incentrato sia sul “supporto” delle immagini semoventi, sia come elemento di congiunzione semantica delle immagini stesse, ha costituito uno dei temi ricorrenti sul piano pratico e su quello teorico della produzione e della realizzazione dei film e della musica per film. Nonostante il cinema sia nato al di fuori di ogni influenza diretta dalla musica, in quanto il suo scopo era quello di riprodurre la realtà fenomenica, la natura stessa del suo linguaggio, principalmente ritmico, l'ha condotto a stringere un rapporto con la musica, principalmente nato per esigenze estetiche di accompagnamento. Prenderemo ora in analisi con maggiore specificità le caratteristiche tecniche ed estetiche della musica da film, cercando di dare anche una lettura storica e critica in senso generale. 3.1 Le tipologie della musica da film Gli studiosi di musica per film da sempre hanno ritenuto necessario individuare la differenza fra la musica di commento e quella che si vede eseguita sullo schermo. Negli anni le due categorie sono state individuate in vari modi: rispettivamente, musica dello schermo e musica della fossa197; musica funzionale e musica realistica ed infine, i termini tecnici più comunemente usati, musica extradiegetica e diegetica. A queste denominazioni, il teorico del cinema Sergio Miceli, nel libro La musica nel film198, ne aggiunge delle altre che definisce attraverso l'enunciazione della teoria dei livelli, sviluppata a partire dallo studio sul rapporto tra immagine e suono. Miceli individua il livello interno, ovvero la musica diegetica, il livello esterno, ovvero la musica extradiegetica, a cui però ne aggiunge un terzo denominato livello mediato. I tre livelli possono essere usati separatamente oppure liberamente concatenati tra loro nello stesso film. 197 Intesa come nell'opera, la fossa orchestrale che sta davanti al palcoscenico e rende l'orchestra visibile al pubblico. Michel Chion la definisce musica da buca nel testo L'audiovisione, Lindau, Torino 1997, p.74. 198 Miceli Sergio, Musica nel film, Arte e artigianato, Discanto editore, Fiesole-Firenze 1982, pp. 223230. 102 Si parla di «livello interno» quando la componente musicale è visibile allo spettatore all'interno dell'immagine filmica, ad esempio con una radio accesa o con un qualsiasi altro dispositivo sonoro, purché la musica sia riprodotta e lo sia dal vivo. La natura specifica del «livello interno» permette allo spettatore di assecondare la casualità della presenza musicale, la quale può essere svelata in un momento preciso o casuale della narrazione, in base all'interpretazione che l'autore vuole trasmettere dell'evento narrato, oppure essa può subire uno slittamento progressivo. Il «livello esterno» si basa sull'implicito accordo tra il regista e lo spettatore, incentrato sull'uso della musica come finzione cinematografica, per cui l'intervento dell'orchestra in una scena in cui essa fisicamente non vi può essere non risulterà irrealistico, ma verrà automaticamente accettata, poiché sia il pubblico che l'autore mirano all'identificazione diretta con i personaggi. La principale funzione della musica del «livello esterno» è quella di commento al film e la sua riuscita ottimale dipende dalle risorse espressive impiegate per la realizzazione del fine. Il grado di partecipazione del regista nel «livello esterno» viene di conseguenza distinto in “critico” e “acritico”: la partecipazione “critica” del regista implica un uso linguistico divergente fra musica e immagine, che obbliga lo spettatore a dover partecipare attivamente, con un maggior impegno interpretativo, per poter riuscire a comprendere i significati remoti del regista; la partecipazione “acritica” viene identificata con ciò che viene definito in letteratura il “punto di vista del narratore onnisciente”, il quale tende a separare nettamente la funzione del regista da quella dello spettatore, il cui ruolo è di mera contemplazione. Il «livello mediato» unisce le caratteristiche degli altri due livelli, ma allo stesso tempo le nega. Attraverso la rottura della regolarità sintattica, stilistica oppure il ricorso alla onomatopea conduce il regista a formulare uno speciale Leitmotiv musicale199. La musica di ambiente è quella più facilmente riconoscibile in questa categoria (ad esempio una panoramica del golfo di Napoli accompagnata dai mandolini che suonano); ma vi rientrano anche la musica di sottofondo (ad esempio la musica di un ascensore) e la musica che definisce un'epoca (il sinfonismo romantico dell'Ottocento) o l'impiego di 199 Il leitmotiv è un tema musicale ricorrente associato ad un personaggio, un sentimento, un luogo, un'idea, un oggetto. Il compositore a cui si associa più spesso il leitmotiv è Richard Wagner che nel ciclo L'anello del Nibelungo ha utilizzato 74 leitmotiv. 103 musiche classiche che creano l'effetto di straniamento nello spettatore; quest'ultima tipologia verrà approfondita in seguito200. Anche Michel Chion successivamente201 prende una posizione analoga a quella di Miceli, sostituendo il termine «livello mediato» con «presenza acusmatica», ritenendola la più importante tra le categorie, in quanto rappresenta l'unico uso del sonoro tipico del cinema. Difatti, gli altri generi di impiego della musica nel film hanno origine in forme spettacolari della tradizione: «la voce sincrona rimanda al teatro; la musica per film rimanda al teatro d'opera, al music hall, al melodramma; mentre la voce di commento proviene dalla lanterna magica, dalla proiezione commentata»202. La situazione d'ascolto acusmatico è quella in cui si sente il suono senza vederne la fonte di provenienza 203. Solitamente sono suoni acusmatici quelli della radio, di un disco o di un telefono, ma vi sono anche suoni acusmatici naturali di cui non si vedono la causa. Questi tipi di suoni attirano l'attenzione dello spettatore su caratteri sonori che l'immagine nasconde; ad esempio si può udire una voce, acusmatica, senza vedere il personaggio per poi visualizzarlo in seguito creando un effetto di suspence e attesa. Un punto focale dell'argomentazione di Chion 204, di nostro particolare interesse, è l'identificazione di alcuni effetti emotivi emersi nello spettatore durante l'ascolto di una determinata musica associata ad una specifica immagine filmica. Il primo è l'effetto anempatico, che si ottiene attraverso la contrapposizione audiovisiva tra suono e immagine (ad esempio, associando una musica allegra ad una scena di omicidio) che non permette allo spettatore di immergersi appieno nella scena, cosa che invece accade con l'effetto empatico in cui la musica crea un'emozione precisa in rapporto alle immagini mostrate. Questa estetica contrastante la ritroveremo nei film degli artisti sovietici e in Jean-Luc Godard. L'acusmatizzazione del non-mostrabile avviene quando un personaggio che vediamo sullo schermo sarà ucciso o si ucciderà ma al momento dello sparo, il montaggio ci porterà in un altro luogo e solo il suono ci dirà cosa è accaduto, senza 200 Per questi esempi si è fatto riferimento alla definizione di Plenizio di musica illustrativa, la quale corrisponde, secondo l'autore, al livello mediato di Miceli. Per approfondimenti Plenizio Gianfranco, Musica per film: profilo di un mestiere, Guida, Napoli 2006, pp.81-84. 201 Chion Michel, L'audiovision, Nathan, Paris, 1994; trad. it. L'audiovisione, Lindau, Torino 1997. 202 Chion Michel, La voce nel cinema, Ed. Pratiche, Parma 1991, p.15. 203 Chion Michel, Un'arte sonora, il cinema. Storia, estetica, poetica, Kaplan, Torino 2003, p.335. 204 Chion Michel, Un'arte sonora, il cinema. Storia, estetica, poetica, Kaplan, Torino 2003, pp. 158-161. 104 mostrarcelo. L'utilizzazione simbolica dei rumori, avviene quando un suono non necessariamente somiglia a ciò che dovrebbe rappresentare, ma è il contesto che identifica ciò che esso rappresenta e il suo significato più nascosto. Ad esempio, l'udire un colpo di tuono senza che vi sia apparentemente un temporale fa presagire che nella scena è avvenuto o sta per avvenire un cambiamento, una scoperta che potrà avere effetti sulla storia in corso. Il suono soggettivo avviene quando si localizza in un personaggio. Lo spettatore sente i medesimi suoni del personaggio e se, ad esempio, quest'ultimo avvicina le mani alle orecchie per tapparsele, anche in sala il suono sarà ridotto di conseguenza. La retorica della confessione dei mezzi avviene attraverso la dimostrazione visiva di quelle convenzioni musicali tacite tra regista e spettatore di cui abbiamo parlato in precedenza. Ad esempio, nei film di Woody Allen, Mel Brooks, Jerry Lewis ed in JeanLuc Godard, i personaggi interpellano la musica della fossa che non dovrebbero udire e si mostrano consapevoli dell'artificialità che caratterizza gli effetti sonori all'interno del film. La punteggiatura significante tramite il suono si ha quando momenti particolari di una sequenza vengono sottolineati e accentuati tramite il suono. Ad esempio, esso può aumentare di tonalità in corrispondenza dell'atto di una donna nel togliersi i vestiti, con lo scopo di enfatizzare il momento sensuale della scena. Qualsiasi argomentazione sul suono al cinema, come si è visto da questa breve trattazione, non può escludere il suo rapporto con l'immagine. La percezione visiva influenza quella sonora e viceversa ed è per questo motivo che un'immagine muta di significato in base all'associazione che ha con il suono. Analizzeremo ora alcune teorie che negli anni hanno definito la musica da film. 3.2 Teorie e critica della musica per il cinema La prima questione divenuta oggetto di un dibattito teorico risale ai primi anni Dieci del Novecento e tratta dell'opportunità della musica nel cinema. Fin dagli esordi 105 del cinema il pubblico percepiva l'esigenza di un accompagnamento musicale allo scorrere delle immagini in movimento. Nei primi scritti l'idea che la musica potesse essere stata introdotta per neutralizzare e coprire il rumore del proiettore è una costante; ad esempio il compositore Frederick Shepherd Converse disse a riguardo: «all'inizio […] la musica era impiegata per coprire gli sgraziati rumori delle macchine che proiettavano i film. Non c'era nessuna preoccupazione per la sua attinenza o meno con il dramma presentato sullo schermo. Era solo per distogliere l'attenzione da questo sgradevole ed inevitabile fatto concomitante al film»205. Il problema del rumore da coprire tramite la musica ha valore per lo più storico e difficilmente è documentabile la sua veridicità, per questo motivo tale problematica si affianca a ragioni più profonde, di carattere psicologico e artistico, che hanno spinto il cinema a usufruire della musica. Il dibattito sulle ragioni della necessità della musica da film si arricchì progressivamente e alcuni letterati espressero motivazioni di natura percettiva all'esigenza della presenza musicale in sala, come ad esempio Robert Musil, che nel 1930 scrive nel volume Der Mann ohne Eigenschaften: «Ma lo spettacolo del puro movimento è così magico che l'uomo non può sopportare senza difesa; lei può osservarlo al cinematografo, quando manca la musica. E la musica è movimento interno, che eccita la fantasia motrice»206. Ernst Bloch nel 1913 attribuisce alla musica il compito di compensare l'assenza delle percezioni sensoriali, solitamente associate al movimento, agendo in loro vece207; lo psicologo Hugo Münsterberg nel 1916 riteneva che la musica «non racconta la trama né prende il posto delle immagini, ma semplicemente rafforza il contesto emotivo. È probabile che quando l'arte del cinema avrà ottenuto il suo riconoscimento estetico quei compositori cominceranno a scrivere la musica per un bel film con lo stesso entusiasmo con cui scrivono musica in altre forme»208. Si dissente anche la qualità e lo stile di musica da utilizzare come accompagnamento alle opere cinematografiche. Ricciotto Canudo nel 1911 pubblicò il 205 Music and the Motion Picture, in “Arts”, Ottobre 1923, p.210; qui citato in Simeon Ennio, Per un pugno di note. Storia, teoria, estetica della musica per il cinema, la televisione e il video, Rugginenti, Milano 1995, p.18. 206 Musil Robert, L'uomo senza qualità, Einaudi, Torino 1962, p. 409. 207 Bloch Ernst, La nascita della musica nello spirito del cinema, trad. it., in “Filmcritica”, XXVIII (1977), nn. 279-280, pp.391-392; qui citato in Miceli Sergio, op.cit., p.506. 208 Münsterberg Hugo,(ed. ita) Film. Il cinema muto nel 1916, Pratiche, Parma 1980, p.111. 106 Manifesto delle sette arti, in cui previde le potenzialità del linguaggio cinematografico in quanto sintesi delle arti dello spazio e del tempo: le arti plastiche con la musica e la danza, un'unione di cinema e musica che viene considerato come luogo di reincarnazione tecnica del Gesamtkunstwerk wagneriano. Nel manifesto, Canudo condannava l'abitudine dell'accompagnamento musicale formato da una selezione di brani messi insieme e proponeva invece l'uso di partiture scritte appositamente per un film, nelle quali il compositore era libero di esprimersi e produrre secondo il suo stile personale e allo stesso tempo rispettava le eventuali esigenze filmiche. Secondo Canudo poi, il cinema doveva distaccarsi dai legami con la letteratura e il teatro, il quale nulla può avere in comune con un film che fissa in modo definitivo le sue immagini su pellicola. La differenza fondamentale fra i due sta nel fatto che il teatro rappresenta mentre il cinema suggerisce, raggiungendo anche con il silenzio ritmato dei gesti sensazioni che altrimenti solo la musica potrebbe dare209. Il musicologo Sebastiano Arturo Luciani, nel 1920, nel testo Verso una nuova arte: il cinematografo ipotizzò addirittura un ribaltamento dei rapporti, in cui il film diviene “commento” alla musica, ovvero l'immagine si associa e viene realizzata in base alla musica e non viceversa: «Ora la musica può determinare il gesto, non seguirlo, può evocare delle immagini, non tradurle in suono. È […] dal mondo dei suoni che si sale in quello delle immagini. E se si tenta il contrario accade che la musica non integra più la visione, ma o la disturba o ci distrae da essa. […] Ora perché questa antitesi non si stabilisca; perché la musica non disturbi la visione […] è necessario che il musicista non la componga cercando di seguire l'azione già realizzata, bensì ispirandosi alla trama generale del soggetto, i cui particolari devono essere determinati e suggeriti dalla musica stessa»210. Con l'avvento del sonoro si aprì un dibattito internazionale nel quale numerosi registi e critici presero posizione in favore o contro il sonoro, riaprendo allo stesso tempo la discussione, che non fu mai totalmente chiusa, sull'artisticità del mezzo 209 Citato in Mattuchina Gudula, Musica sullo schermo: i primi cent'anni di storia della colonna sonora, Campanotto editore, Udine 2001, p.47. 210 Luciani Sebastiano, Verso una nuova arte. Il cinematografo, Ausonia, Roma, 1920, pp.46-47; qui citato in Simeon Ennio, Per un pugno di note. Storia, teoria, estetica della musica per il cinema, la televisione e il video, Rugginenti, Milano 1995, p.30. 107 filmico. Ne citeremo ora alcuni, tra i più importanti, per aver apportato opinioni e giudizi a cui ancora oggi si fa riferimento per lo studio dei rapporti tra immagine e suono. L'avvento del sonoro incontrò una forte ostilità tra i cineasti sovietici, i quali temevano che il dialogo, più precisamente il parlato, avrebbe irrimediabilmente distrutto i risultati artistici raggiunti nell'epoca del muto. Un punto di vista più elastico si ebbe con Sergej Michajlovič Ėjzenštejn, Vsevolod Pudovkin e Grigorij Aleksandrov, i quali nel 1928 firmarono un testo teorico-programmatico sul cinema sonoro che chiamarono Manifesto dell'asincronismo, in cui si denunciava lo sfruttamento, da parte dell'industria cinematografica, del neonato sonoro per fini esclusivamente commerciali e si sosteneva una possibile evoluzione della nuova tecnica nell'impiego contrappuntistico, o secondo Michel Chion anempatico, del suono rispetto all'immagine. Secondo i tre russi il suono doveva essere inteso come elemento di montaggio, ovvero «assioma su cui si basa lo sviluppo del cinema»211 e componente in grado di risolvere problemi espressivi irrisolvibili con i mezzi visivi, dichiarando che «solo l'impiego del suono in contrappunto con un pezzo di montaggio offre nuove possibilità di sviluppare e perfezionare il montaggio. […] Solo questo metodo di montaggio può produrre l'effetto voluto e, col tempo, porterà alla creazione di un nuovo contrappunto orchestrale tra le immagini visive e le immagini sonore. La nuova scoperta tecnica non è casuale nella storia del film, ma è lo sbocco naturale dell'avanguardia cinematografica. E, in virtù di questa scoperta, sarà possibile sormontare molti ostacoli altrimenti insuperabili»212. Perché il suono venga utilizzato come un nuovo elemento del montaggio audiovisivo è necessario che esso sia impiegato in senso contrappuntistico, ovvero, come scritto nel manifesto, vi deve essere «la non coincidenza tra immagine visiva e immagine sonora»213, in quanto il sincronismo riduce il cinema ad una semplice riproduzione del reale. Vsevolod Pudovkin nel saggio L'attore nel film (1934) analizza il tema dell'asincronismo basandosi sull'esperienza di regista del suo primo film sonoro, 211 Rip. Pudovkin Vsevolod, La settima arte (1934), trad. it. Editori Riuniti, Roma 1974, p. 133. 212 Rip. Pudovkin Vsevolod, La settima arte (1934), trad. it. Editori Riuniti, Roma 1974, pp. 134-135. 213 Il manifesto è citato interamente in Simeon Ennio, Per un pugno di note. Storia, teoria, estetica della musica per il cinema, la televisione e il video, Rugginenti, Milano 1995, p.50. 108 Dezertir (Il disertore, 1933) e offre un'interpretazione “pratica” del concetto di asincronismo applicato alla musica. Prendendo in analisi la sequenza del film in cui una dimostrazione di lavoratori berlinesi viene sciolta con violenza dalla polizia e si vede, poco dopo tra la folla, levarsi una bandiera rossa - simbolo della vittoria morale della dimostrazione - Pudovkin disse: Se la si considera dal punto di vista dell'effetto emotivo, la sequenza può essere rappresentata da una curva complessa, con un'ascensione iniziale, una relativa caduta al centro, un'oscillazione, una profonda caduta e una nuova ascensione finale. Alle immagini è raccordato l'andamento del sonoro. Io avevo stabilito di impiegare, nel sonoro, soltanto il commento musicale. […] Se avessi voluto associare la musica alla scena […] il sonoro avrebbe avuto all'incirca il seguente andamento: valzer, durante la visione delle strade di Berlino; una marcia allegra, durante l'avanzare impetuoso della dimostrazione; quindi un tema di allarme e di pericolo all'arrivo della polizia; questo tema si dilata, quando la bandiera cade; fanfare di vittoria quando la bandiera si risolleva; la musica prende toni di accorata disperazione, mentre gli operai sono sconfitti e, di nuovo, s'innalza in accordi trionfali, quando la bandiera riappare al di sopra della folla. D'accordo con il musicista Šaporin, decisi di seguire un'altra strada. La musica fu scritta, diretta e incisa, per tutto l'episodio, come un unico brano di marcia, sicura e vittoriosa, con un crescendo ininterrotto, dal principio alla fine. […] Nella seconda linea, costruita dalla colonna sonora, noi abbiamo cercato di tradurre la valutazione soggettiva dello spettatore, colpito dalla rappresentazione visiva di quella scena. […] Quando appare la bandiera dei dimostranti, la musica si fa sempre più chiaramente comprensibile e, sul suo ritmo, lo spettatore segue la massa dei lavoratori, che marciano per le grandi strade ormai deserte. Accorre la polizia: ha inizio la battaglia, ma la musica impetuosa, come lo spirito rivoluzionario che anima i lavoratori, trascina lo spettatore, sale di tono; la bandiera cade e la musica ha un ritmo crescente; i lavoratori sono sconfitti, e la musica poggia su note alte. Nel finale il riemergere della bandiera sulla folla coincide con una “coda” musicale di eccezionale vigore emotivo e conclude con tale intensità l'episodio e il film214. Dallo scritto si evince che Pudovkin, oltre all'esemplificazione su un'ipotetica soluzione “sincronica” di Dezertir, utilizza il concetto di montaggio sonoro, derivante dal Manifesto dell'asincronismo, come una serie di operazioni attuate in campo sonoro e che sono contemporanee al processo di montaggio delle immagini. 214 Pudovkin Vsevolod, L'attore nel film, trad. it. (a cura di) Umberto Brabaro, Edizioni dell'Ateneo, Roma 1947, pp.208-209. 109 «Si può affermare che l'importanza data all'uso contrappuntistico del sonoro da parte dei tre registi russi fece emergere nel corso degli anni la necessità di uno studio e di una pratica rivolte alle nuove forme espressive legate a tale scoperta tecnologica, senza per questo negare la possibilità, utilizzata anche dai tre registi, di un suo uso sincrono tra immagini e sonoro»215. Tornando agli scritti teorici e procedendo in senso cronologico, sul versante opposto Rudolf Arnheim esprime la totale convinzione per cui il cinema si sarebbe elevato ad una forma artistica solo nel periodo muto 216. Nel suo libro Film als Kunst (1932) nega al cinema sonoro qualsiasi valore artistico, in quanto avvicinandosi al naturalismo e al realismo, esso annulla i caratteri peculiari del cinema, ovvero gli elementi figurativi, come linguaggio espressivo autonomo e quindi l'artisticità del cinema: «fu precisamente l'assenza del linguaggio che permise al cinema muto di elaborare uno stile proprio, in grado di condensare la situazione drammatica» 217. Inoltre Arnheim riteneva che lo spettatore provasse un forte senso di disagio di fronte ad un film parlato, in quanto la sua attenzione veniva turbata, perché attratta verso due elementi sensoriali opposti, quello dell'immagine e quello del suono, i quali si sforzano di esprimere in un duplice modo l'identico soggetto ma, allo stesso tempo, entrambe sono continuamente disturbate l'una dall'altra218. Béla Balàzs approfondisce l'argomento dell'arte cinematografica in Der Geist des Films (1930), libro nel quale elabora la teoria del fonofilm che pone le basi per un uso corretto del sonoro in funzione all'immagine e al montaggio: «il suono non sarà solo un compimento dell'immagine, ma diverrà anche oggetto, causa e fase dinamica dell'azione» ossia «elemento drammatico del film»219. Balàzs ritiene che il suono possa anticipare o prolungare una sensazione, un'emozione solamente attraverso l'asincronismo, la dissociazione tra suono e immagine, trasformandosi così in elemento creativo e innovativo. 215 Dottorini Daniele (a cura di), Sincronismo e asincronismo, Enciclopedia del cinema Treccani.it, 2004, http://www.treccani.it/enciclopedia/sincronismo-e-asincronismo_%28Enciclopedia_del_Cinema%29/ (ultima visualizzazione: 11 gennaio 2015). 216 Citato in Miceli Sergio, Musica per film. Storia, estetica. Analisi, tipologie, Lim Editrice, Milano 2009, p.511. 217 Arnheim Rudolf, Film come arte, trad. ita., Il Saggiatore, Milano 1963, p.219. 218 Concetto espresso la prima volta nel 1938 nel saggio “Nuovo Laocoonte”: le componenti artistiche e il cinema sonoro. 219 Balàzs Béla, Estetica del film, trad. ita., Editori Riuniti, Roma 1975, p.212. 110 Quasi vent'anni dopo, in Der Film. Wender und Wesen einer neuen Kunst (1949), Balázs ritorna sui temi cardine del suo pensiero e senza scindere il muto dal sonoro analizza ogni componente che contribuisce a rendere il cinema un’arte nuova: il colore, il montaggio ed infine tratta degli esiti deludenti del filmopera220 e del suo potenziale e rivaluta la musica da film: Fin dagli inizi del cinema si osservò questo fatto: la musica riesce a fondersi meglio con il film che con il teatro. Essa appartiene al meccanismo stesso di ogni inquadratura, come la luce e l'ombra. La musica fu necessaria al film muto, lo è stata e lo è per il film sonoro. […] la musica nel film non svolge solo una funzione artistica, ma dà anche, alle immagini cinematografiche, una espressione naturale e viva: rende più significative ed efficaci (nel senso dell'atmosfera) le immagini stesse, e crea in un certo senso la terza dimensione. La musica rappresenta il sottofondo, la prospettiva acustica. Quando diviene fine a se stessa, e perciò si stacca dall'immagine, distrugge di quest'immagine l'espressione e la vita221. Il conferire all'immagine filmica una terza dimensione verrà poi ripreso da Pier Paolo Pasolini in uno scritto del 1973, richiestogli da Morricone per accompagnare un'antologia discografica222. Altro testo di rilievo è quello di Kurt London, intitolato Film Music223 (1936), nel quale afferma che ci fu solo una motivazione per la nascita della musica da film, essa «iniziò non come risultato di un impulso artistico, ma dal terribile bisogno di qualche cosa che coprisse il rumore del proiettore», poiché «il noioso rumore disturbava parecchio il godimento visivo. Istintivamente, i proprietari di cinematografi ricorsero alla musica, e fu la via giusta, impiegando un suono piacevole per neutralizzarne uno spiacevole»224. Prende poi le distanze dall'uso e dall'abuso del leitmotiv, ritenendo che questa tecnica richiedesse ulteriori sviluppi in quanto risultava difficile adattarla alla frammentazione filmica, affermando poi come il leitmotiv non dovesse mai diventare un principio strutturante primario nella composizione della musica da film; con questa 220 Secondo Balàzs si tratta di un'opera ideata e composta esclusivamente per il cinema. (Il film. Evoluzione ed essenza di un'arte nuova, Einaudi, Torino 2002, p.302) 221 Balàzs Béla, Il film. Evoluzione ed essenza di un'arte nuova, Einaudi, Torino 1975, pp.327-328. 222 Il testo è stato riprodotto in Bertini Antonio, Teoria e tecnica del film in Pasolini, Bulzoni, Roma 1979. 223 London Kurt, Film Music, Faber & Faber, Londra 1936. 224 Citato in Rondolino Gianni, Cinema e musica. Breve storia della musica cinematografica, Utet Università, Torino 1991, p.20. 111 affermazione London affronta quello che sarebbe divenuto uno dei temi ricorrenti del dibattito successivo225. Dal secondo dopoguerra si registrò un notevole incremento di contributi teorici, a partire dal trattato del filosofo Theodor Wiesengrund Adorno e del compositore Hanns Eisler Komposition für den Film226 (1947), la cui risonanza risulta oggi sproporzionata rispetto ai suoi meriti reali, poiché secondo Sergio Miceli il bilancio critico ed estetico effettuato dai due autori appare condizionato da una visione riduttiva del cinema a causa anche delle due personalità degli autori molto diverse e talvolta contrastanti 227. Dal testo emerge soprattutto il disappunto nei confronti del sistema produttivo hollywoodiano, incentrato sulla produzione di film stereotipati in generi per scopi puramente commerciali con la conseguenza che anche la musica si basa su una prassi compositiva stereotipata, nella quale il leitmotiv svolge la funzione di semplice accompagnamento alle immagini. Adorno ed Eisler sostengono che per un efficace e duraturo rinnovamento della musica da film la soluzione sia sviluppare nuovi linguaggi ed esprimono l'idea del contrappunto drammaturgico, ovvero di una musica capace di esprimere le emozioni ed è in grado di evidenziare il senso della narrazione, soprattutto nel momento in cui essa viene occultata dalle immagini. Con il saggio Estetyka muzyki filmowej228 (1964) Zofia Lissa pone sullo stesso piano le componenti visive e sonore di un film. La concezione unitaria del film sonoro sostenuta da Lissa deriva dall'idea che in un'opera d'arte la sintesi sia una totalità delle diverse forme espressive, perciò la componente musicale assume all'interno dell'immagine filmica una temporalità diversa rispetto a quella tradizionale, in quanto essa è condizionata dalle leggi costruttive dei piani visivi. Lissa giunge alla conclusione che un giudizio sulla componente musicale non può essere espresso in sé, ma bensì bisogna considerare altre proprietà che essa riceve nel contesto, al punto da considerare la musica da film come un genere che, in quanto tale, risponderà a leggi diverse rispetto 225 Adorno-Eisler criticano l'uso indiscriminato e semplicistico del leitmotiv; il dibattito vedrà in causa anche la musicologa Zofia Lissa che invece ritiene possibile l'uso a patto che sia pertinente e che abbia un significato profondo. 226 La musica per film, trad. it., Newton Compton, Roma 1975. 227 Secondo Sergio Miceli, Musica e cinema nella cultura del Novecento, Sansoni, Milano 2000, pp.537541. 228 Lissa Sofia, Estetica della musica per film, PWM, Cracovia 1964. Di supporto al testo, in quanto le uniche versioni disponibili sono in lingua polacca e tedesca, è stata impiegata la dettagliata analisi di Miceli Sergio, op. cit., pp.547-552. 112 a quelle della musica nata autonomamente 229. In Struktur der auditiven Schicht im Tonfilm230 sostiene la suddivisione in due piani distinti della musica per film, i quali emergono nel momento in cui la musica, nell'atto di trasmettere il proprio piano sonoro, rimanda l'attenzione dello spettatore in un qualcosa di diverso da sé, ovvero un altro piano extra-musicale. Inoltre la musica, anche dal punto di vista temporale, è duplice in quanto essa appartiene sia al tempo della narrazione filmica, sia al tempo dello spettatore. Lissa conclude il suo saggio elencando le undici funzioni drammaturgico-musicali della musica da film231: 1. musica come sottolineatura di movimenti, la quale definisce eventi dinamici in cui enfatizza il ritmo visivo (ad esempio un cavallo in corsa); 2. musica come stilizzazione musicale di rumori reali: definisce una funzione imitativa e onomatopeica in cui la componente musicale assume i caratteri sonori di eventi naturali (vento, pioggia), meccanici (macchinari) o di atti e segni prodotti da esseri viventi (passi); 3. musica come rappresentazione dello spazio mostrato: definisce ambiti geografici ed etnici o sociali (contesto militare, religioso); 4. musica come rappresentazione del tempo mostrato: definisce ambiti epocali dalla preistoria al futuro fantascientifico; 5. musica come commento nel film: definisce la musica extradiegetica che si contrappone all'accompagnamento, interpreta con mezzi musicali in modo psicologicamente coerente gli eventi filmici; 6. musica nel suo ruolo naturale: definisce interventi in cui la sorgente musicale è visibile all'interno della scena (musica diegetica); 7. musica come mezzo di espressione di esperienze psichiche: definisce interventi musicali di struttura e durata variabili, intesi a dare corpo alle emozioni dei personaggi; 229 Miceli Sergio, op. cit., p.548. 230 “Struttura della dimensione uditiva nel cinema sonoro” in Lissa Sofia, Estetica della musica per film, PWM, Cracovia, 1964. 231 I commenti esemplificativi, qui parzialmente citati, sono la personale interpretazione di Miceli Sergio, op. cit., pp.549-551. 113 8. musica come base della immedesimazione: assume una funzione segnaletica nei confronti dello spettatore, in quanto detiene una posizione privilegiata e consapevole degli eventi; 9. musica come simbolo: la funzione è analoga alla precedente, essendo rivolta allo spettatore e, come tale, autonoma rispetto alla struttura narratologica del film; 10. musica come mezzo di anticipazione degli eventi: definisce una funzione in cui la musica anticipa gli eventi o i caratteri psicologici mostrati di li a poco; 11. musica come fattore formale: definisce le funzioni del leitmotiv, per cui la sua ricorrenza stabilisce un'associazione fra musica e personaggio/situazione, alla quale è possibile fare ricorso anche nei momenti in cui il personaggio/situazione non sono presenti. Negli anni Ottanta, è rilevante l'apporto di Jacques Aumont, il quale sostiene (con Bergala A., Marie M., Vernet M.) in Esthétique du film l'importanza dell'elemento sonoro del film, il quale deve essere giudicato secondo leggi proprie, in quanto esso è «un elemento espressivo autonomo del film, in grado di entrare in diversi tipi di combinazione con l'immagine» in opposizione alla concezione classica, nella quale, secondo Aumont, «il suono filmico […] va nel senso del rafforzamento e dell'accrescimento degli effetti di realtà», e viene utilizzato «come un semplice coadiuvante dell'analogia scenica offerta dagli elementi visivi», aggiunge «tutto il lavoro del cinema classico e dei suoi sottoprodotti, oggi dominanti, ha dunque puntato a spazializzare gli elementi sonori, offrendo loro dei corrispondenti all'immagine – e dunque ad assicurare tra immagine e suono un legame biunivoco, “rindondante” si potrebbe dire. [...] Questa spazializzazione del suono, che va di pari passo con la sua diegetizzazione, non è priva di paradosso se si pensa che il suono filmico, uscendo da un altoparlante generalmente nascosto, talvolta multiplo, è di fatto molto poco ancorato allo spazio reale della sala di proiezione [...]»232. Michel Chion, invece, afferma il contrario, ovvero che la maggior parte dei suoni di un film classico non è diegetica (voce off libera, musica della fossa), mentre in 232 Aumont Jacques, Bergala Alain, Marie Michel, Vernet Marc, Esthétique du film, Nathan, Paris 1983 (trad. it. Estetica del film, Lindau, Torino 1995, p.32). 114 proporzione è nettamente minore l'uso dell'immagine non diegetica rispetto al suono 233. Secondo i principî della formulazione classica la musica da film è sottomessa all'immagine; a partire da questa concezione Chion elabora l'idea per cui sia il suono che l'immagine si sottomettono invece alla costruzione di uno spazio-tempo narrativo e cinematografico. Difatti un suono diegetizzato, cioè giustificato, conserva le sue qualità musicali proprio come l'immagine cinematografica rappresenta qualcosa; per questo Chion afferma che sia falsa l'affermazione che ritiene il suono un'entità autonoma, la quale inizierebbe ad essere utilizzata nelle sue peculiari qualità solo nel momento in cui viene separato dall'immagine. 3.3 Cinema e musica: una visione storica 3.3.1 Cinema muto Durante la prima proiezione dei fratelli Lumière, che si tenne a Parigi il 28 dicembre 1895, il pubblico rimase talmente meravigliato ed estasiato nell'assistere a quelle “immagini della realtà in movimento”, che per un istante dimenticò l'assenza di ogni sonorità. Il treno di L'arrivée d'un train à la gare de La Ciotat non fischiava; non si udivano gli schizzi d'acqua in En mer par gros temps, neppure il muro crollare rovinosamente in La démolition d'un mur. Lo stupore delle immagini in movimento e il coinvolgimento emotivo degli spettatori nel vedere la riproduzione della vita quotidiana era, in quel preciso momento, nettamente più forte di qualsiasi altra mancanza. Anche dai resoconti della stampa dell'epoca234 la tendenza era quella di elogiare le meraviglie del nuovo mezzo sul senso di veridicità e autenticità delle immagini. Come scrisse lo stesso Louis Lumière: «I soggetti che ho scelto per i miei film provano che volevo soltanto riprodurre la vita»235. Se per le prime proiezioni dei film Lumière, al Gran Cafè di Parigi, la musica non era presente, vi era però egualmente la presenza suggestiva, immaginata e percepita dagli spettatori, della totalità del reale: l'effetto coinvolgente delle immagini era tale che 233 Chion Michel, Un'arte sonora, il cinema. Storia, estetica, poetica, Kaplan, Torino 2003, p.170. 234 Ci si riferisce agli scritti di Henri de Parville per Le Radical (30 dic. 1895) e ai cronisti de La Poste (30 dic. 1895). 235 Citato in Sadoul G., Storia generale del cinema. Le origini e i pionieri (1832-1900), Einaudi, Torino 1965, p.212. 115 le persone in sala ne erano totalmente immerse, al punto da immaginare colori e udire suoni, nonostante i film fossero in bianco e nero e privi di alcun rumore236. L'accompagnamento di una qualsiasi esecuzione musicale in sala durante la proiezione dei primi film Lumière, come si è detto, è molto improbabile 237. Il primo accompagnamento musicale agli spettacoli cinematografici muti viene fatto risalire a qualche settimana o mese dopo la prima proiezione. Con l'obiettivo di rendere la rappresentazione più realistica la musica venne usata inizialmente in modo che essa potesse aggiungere alla realtà delle immagini la dimensione sonora che le mancava. Per questi motivi nelle sale divenne consuetudine associare alle immagini filmiche la musica, ricorrendo solitamente alla presenza di un pianista o di un organista ai piedi dello schermo, mentre per le proiezioni più importanti e sontuose lo spettacolo era eseguito da un’orchestra e da un coro. Inizialmente la musica di accompagnamento era principalmente frutto di una scelta soggettiva da parte del pianista o dell’organista che poteva scegliere la musica più adatta dal repertorio classico, romantico e post-romantico; altre volte, ma raramente, la musica era composta per l’occasione e richiedeva al musicista un ulteriore sforzo artistico e produttivo in base all’importanza del film presentato e all’evento mondano corrispondente. Il repertorio nacque per offrire un supporto attendibile a pianisti e organisti operanti nelle sale più modeste; esso consisteva in una raccolta di musiche, il più delle volte preesistenti, tratte dalla produzione sinfonico-operistica e pianistica dell'Ottocento, con interventi sugli originali che comprendevano eventuali riduzioni, abbreviazioni di temi secondari, variazioni troppo estese e infine la semplificazione della componente armonica238. Per praticità i repertori erano suddivisi secondo categorie specifiche: situazionali, coreutiche, psicologiche, etniche e dinamiche. «Mentre il cinematografo Lumière si diffondeva nel mondo con le relative musiche di accompagnamento, ad oggi non ci sono prove concrete che i fratelli fornissero istruzioni per l'esecuzione di accompagnamenti musicali dal vivo, quando 236 Secondo Rondolino Gianni, Cinema e musica. Breve storia della musica cinematografica, Utet Università, Torino 1991, p.13 237 Lo storico Gian Piero Brunetta ricostruisce la prima serata di proiezione al Gran Café senza fare alcun cenno alla musica. Vi sono però alcuni scritti, come Filmmusik: Stummfilm (1981) di Pauli o il libro The Technique of Film Music (1957) di Roger Manvell e John Huntley, che sostengono la tesi che l'accompagnamento musicale ci fosse fin dalla prima proiezione. 238 Miceli Sergio, Musica per film. Storia, estetica. Analisi, tipologie, Lim Editrice, Milano 2009, p.51. 116 esportavano i loro film»239. Ad ogni modo la musica svolgeva sempre il ruolo di fedele accompagnatrice in sala alle immagini in movimento. In alcuni casi, la figura del pianista o dell'organista in sala venne sostituita da registrazioni fonografiche, le quali si espansero rapidamente in tutti gli Stati Uniti, divenendo parte integrante degli spettacoli cinematografici grazie allo sviluppo, tra il 1905 e il 1907, dei nickelodeon, ovvero locali commerciali riconvertiti a sale cinematografiche. Ma per quanto il fonografo fosse fondamentale nell’accompagnamento dei film muti, rimaneva l’esecuzione dal vivo l’accompagnamento più diffuso e comune negli anni Dieci, sia in Europa che negli Stati Uniti. Nei primi anni del Novecento il cinema iniziò ad acquistare sempre più fama ed importanza con la conseguenza che anche la musica di accompagnamento si dovette plasmare e adeguare ai cambiamenti in atto impiegando l'apporto, in certi casi, di musicisti di maggior calibro. Questi cambiamenti sorsero in concomitanza con l'operazione di nobilitazione del cinema, che vide la partecipazione attiva in ambito cinematografico di personale artistico proveniente dall'ambiente del teatro di prosa; nascono così, negli anni Dieci, case di produzione specifiche 240, che affidano la realizzazione di pellicole a commediografi, letterati e compositori illustri. Le opere che rientrano in questa categoria e che ora approfondiremo, si basano sulla presenza comune di alcune caratteristiche basilari: «la nobiltà del soggetto, lo sforzo produttivo fuori dal comune, la durata del film, la concezione registica ancora legata a modelli teatrali e l'affidamento di un commento originale a un compositore d'area colta»241. Uno dei primi casi di questa nobilitazione si ebbe in Francia nel 1908 con la fondazione della casa di produzione Film d’Art, la quale reclutava attori e autori teatrali francesi per il proprio cinema. Il risultato più importante di queste collaborazioni si ebbe con il film, presentato nel 1908 a Parigi, L’assassinat du duc de Guise di Le Bargy e Calmettes, film che vide la partecipazione di attori della Comédie Française e il commento musicale composto direttamente da Camille Saint-Saëns. Lo spettacolo 239 Kalinak Kathryn , Musica da film, una breve introduzione, Edizione Edt, Torino 2001,p.46. 240 Ad esempio: Le Film d'Art in Francia, la Cines, L'Ambrosio, l'Itala e la Tespi Film in Italia. Per un maggiore approfondimento sul cinema “d'arte” in Francia e in Italia si veda A. Abruzzese, Il “film d'arte” in Francia, in Italia e nei paesi nordici, in A. Ferrero (a cura di), Storia del cinema, vol. I. Dalle origini all'avvento del sonoro, Marsilio, Venezia 1978, pp.29-45. 241 Miceli Sergio, Musica per film. Storia, estetica. Analisi, tipologie, Lim Editrice, Milano 2009, p.96. 117 venne presentato in una sala adibita per l’occasione, con un pubblico selezionato, un’orchestra selezionata e una critica consapevole dell’importanza dell’evento; per tali ragioni lo spettacolo fu accolto da pubblico e critica con lo stesso entusiasmo di uno spettacolo teatrale. La musica di accompagnamento risultò aderire perfettamente allo svolgersi dell'azione e ai suoi momenti drammaturgicamente più significativi: ad esempio, la partitura di archi, pianoforte e harmonium del Presto finale sottolineava in modo efficace la scena dell'uccisione del duca e dava alla messinscena una maggiore intensità e armonia. Il film mostra un trattamento musicale più vicino a quello della musica di scena, manifestando la forte dipendenza al teatro, tanto da potersi considerare una sorta di registrazione filmica di un allestimento teatrale242. Nei primi anni del Novecento non furono molte le composizioni musicali scritte appositamente per accompagnare un film e, nonostante il successo di L’assassinat du duc de Guise, i casi rimasero in quegli anni isolati. Difatti sia per ragioni economiche che organizzative, l’uso di una musica commissionata per l'occasione comportava alcuni possibili inconvenienti, come ad esempio la necessità di predisporre di un apparato tecnico-spettacolare in grado di mettere in pratica le ipotesi artistiche. Non risultava semplice trasferire l'intera orchestra per le proiezioni successive, che potevano avvenire in diverse sale della città o in altri Paesi e, non era sempre possibile imporre ad un'orchestra di imparare il nuovo spartito che, magari poteva essere più difficile e complesso dell'abituale musica di accompagnamento. Perciò questo apparato tecnicomusicale era solitamente svolto per le prime cinematografiche, gli spettacoli di maggior prestigio, oppure poteva essere replicato nelle proiezioni successive che avvenivano nella medesima sala. Molto spesso per le proiezioni in altre sale, l'accompagnamento era affidato ad un pianista che usava brani musicali tratti liberamente dal repertorio, senza alcun tipo di riferimento alla musica originale; esistevano perciò diverse edizioni sonore dello stesso film che cambiava in base al pubblico. A partire dagli anni Dieci, con lo scopo di perseguire l'obiettivo di elevazione dell'artisticità del cinema, si iniziò ad attingere per le sceneggiature dei film ad opere letterarie e teatrali di ogni epoca e Paese, ma non solo: il cinema ricavò i propri spettacoli anche da opere liriche, le quali richiedevano l'uso della propria musica che 242 Secondo Miceli Sergio, Musica per film. Storia, estetica. Analisi, tipologie, Lim Editrice, Milano 2009, p.98. 118 poteva essere per l'occasione accorciata, spezzettata, riprodotta fonograficamente o eseguita in sala da un pianista con o senza cantanti. Pensiamo al Richard Wagner (1913) di Carl Froelich, per il quale fu preparato un commento musicale attingendo ovviamente alle opere di Wagner; o ancora Il Trovatore (1908) dei fratelli Lamberto e Azeglio Pineschi, che era accompagnato dalle medesime melodie dell'opera lirica di Giuseppe Verdi o, infine, a due film prodotti nel medesimo anno dalla casa di produzione La Nazionale, Manon Lescaut e Lucia di Lammermoor, i quali utilizzavano brani di Puccini e di Donizetti. Negli stessi anni in Italia, la nobilitazione del cinema aveva già raggiunto livelli artistici alti, ma è con Cabiria (1914) di Giovanni Pastrone, prodotto dalla Itala Film, che si ebbe una svolta significativa nella produzione cinematografica italiana. Il film venne presentato il 18 aprile 1914 al Teatro Vittorio Emanuele di Torino e contemporaneamente al Teatro Lirico di Milano, richiamando folle di intellettuali da tutto il Paese, attratti anche dal nome di Gabriele D'Annunzio, che venne presentato come autore del film. Cabiria richiama la tradizione storiografica colta a partire dalle scenografie, alla letterarietà delle didascalie tipicamente dannunziane fino alla musica che venne appositamente composta dal maestro Ildebrando Pizzetti, che per l'occasione scrisse, per la scena del sacrificio, una Sinfonia del fuoco che riuscì ad adattare perfettamente al ritmo del montaggio, il quale è cadenzato su campi totali e primi piani, lenti movimenti della macchina da presa e inquadrature fisse; per le restanti scene, le musiche vennero affidate a Manlio Mazza. Per queste ragioni Cabiria venne presentato in un teatro abitualmente adibito a concerti sinfonici e opere liriche, oltre che per il prestigio del luogo. L'apporto delle musiche, sia quelle del repertorio classico di Mazza che quella di Pizzetti, ebbe un contributo notevole per il successo del film stesso e per tutto il cinema successivo divenendo un modello per l'arte cinematografica spettacolare di quegli anni. Cabiria venne proiettato anche in America e la composizione musicale di accompagnamento venne creata da Joseph Carl Breil, il quale non utilizzò le musiche appositamente create dai maestri italiani, ma preparò un repertorio adatto alla preparazione e alle esperienze del pubblico americano. Breil elaborò una composizione musicale dal princìpio tematico unificante, che si avvicinava al concetto moderno di 119 leitmotiv, gettando così le basi per una pratica esecutiva che troverà la sua affermazione nel cinema sonoro. Il lavoro più importante di Breil fu la partitura musicale di The Birth of Nation (La nascita di una nazione) di Griffith del 1914, dove compose brani differenti e mescolati tra loro secondo le esigenze della drammaturgia cinematografica: vi sono musiche preesistenti derivanti dal repertorio sinfonico e operistico (Verdi, Beethoven, Liszt, Wagner, Weber, Suppé, Bellini, Grieg, Hérold e Čajkovskij), associate e combinate a musica popolare americana e a brani composti da Breil stesso o da lui personalmente arrangiati. Come per Cabiria, anche per questo film Breil crea un continuum sonoro che si lega perfettamente a quello visivo: la dimensione sonora è articolata, spezzata e giocata su toni e timbri che si amalgamano alla dimensione visiva del film, anch'essa articolata, spezzata e dinamicamente giocata sui ritmi del montaggio. Il modello del grande spettacolo cinematografico, sperimentato in Italia con Cabiria apparse ben presto un modello vincente sul piano commerciale, al punto che la produzione hollywoodiana se ne impadronì costruendo una parte del suo repertorio; l'obiettivo era la messa in scena di film grandiosi e colossali, di ampie proporzioni, con scenografie monumentali e spettacolari in grado di coinvolgere un vasto pubblico. Da questo si sviluppò la nuova tecnica del montaggio elaborata da Griffith, la scelta di temi e soggetti fortemente emotivi ed infine l'uso appropriato della musica d'accompagnamento, la quale non venne più affidata al gusto o alla cultura musicale del pianista, ma seguiva una sorta di regolamento, costruito in modo che a certe situazioni drammaturgiche corrispondessero certe situazioni musicali e a certi sentimenti determinate melodie. Secondo Charles Hofmann, autore di Sounds for Silents243, fin dal 1909 le case di produzione Edison e Vitagraph avevano pubblicato dei fascicoli contenenti musica strumentale per i loro film, con le apposite indicazioni per i musicisti addetti all'accompagnamento. Negli anni seguenti, in tutti gli Stati Uniti, venivano distribuiti insieme alla pellicola i cue sheets (che potremmo tradurre in “compilazioni”), ovvero liste di brani musicali con l’indicazione delle scene e dei momenti drammatici nei diversi film, per cui ogni situazione drammaturgica corrispondeva ad una medesima situazione musicale. Va ricordato però che in molte situazioni, soprattutto nelle città di 243 Hofmann Charles, Sounds for Silents, DBS Publications, New York 1970. 120 provincia dove molto spesso i film arrivavano in ritardo e in condizioni precarie, i cue sheet non venivano usati e i musicisti continuavano ad accompagnare i film attingendo al loro repertorio personale, che nel frattempo si era sempre più specializzato. Difatti, ai primi repertori degli anni Dieci se ne diffondono in seguito altri, concepiti secondo le caratteristiche psicologiche e ambientali delle scene. Tra i più celebri troviamo il Musical Accompaniment of Moving Pictures di Edith Lang e Geroge West del 1920, manuale ampio di citazioni musicali appositamente create con lo scopo di adeguare il suono all'immagine semovente del film. Come affermarono gli stessi autori: «la funzione principale della musica che accompagna i film è quella di riflettere nella mente dell'ascoltatore il clima della scena, e di suscitare più rapidamente e intensamente nello spettatore il susseguirsi delle emozioni della storia narrata del film»244. Questi manuali-repertori costituiscono il punto d'arrivo di un percorso tecnico ed estetico che era iniziato ai tempi dei Lumière, un lavoro nato nel tentativo di dare alle immagini dei film la dimensione avvolgente della musica. Allo stesso tempo queste fonti ci permettono di capire meglio l’importanza della musica nell’epoca del cinema muto: la musica difatti era in grado di svolgere alcune funzioni tra cui identificare la collocazione geografica e storica; dare maggior pathos all’atmosfera; identificare le emozioni e l’azione svolta sullo schermo ed infine concretizzare la caratterizzazione. Per ottenere questo gli accompagnatori finirono per utilizzare convenzioni musicali come la suspense, la dissonanza per la malvagità o il pizzicato per l'ambiguità. Ad esempio, con Nosferatu - Eine Symphonie des Grauens (Nosferatu il vampiro, 1922) del regista Friedrich Wilhelm Murnau, il compositore Hans Erdmann da una lato crea delle melodie che riprendono le suggestioni stilistiche di Beethoven, Wagner, Richard Stauss e Musorgskij alimentando la tensione drammatica del film e facendo da cornice alla collocazione temporale del contesto narrativo, dall'altro smorza l'originalità linguistica. Nonostante il modello strutturale sia il poema sinfonico tardo ottocentesco, le funzioni leitmotiviche sono ridotte senza essere usate ed abusate come nel cinema hollywoodiano: al Conte Orlok sono attribuiti due brevi motivi, definiti Themes, mentre un tema è riservato esclusivamente alla coppia degli antagonisti del vampiro (Ellen and Hutter's Theme). 244 Citato in Rondolino Gianni, Cinema e musica. Breve storia della musica cinematografica, Utet Università, Torino 1991, p.48. 121 3.3.2 Avanguardie storiche L'apporto della musica alla produzione cinematografica, nel periodo delle avanguardie artistiche del primo Novecento, ha sensibilmente contribuito allo sviluppo del linguaggio filmico sia dal punto di vista tecnico che estetico. Pittori, artisti, poeti si accostarono al cinema nel tentativo di utilizzare una tecnica che permettesse loro il superamento della staticità della pittura e delle arti visive, interessandosi anche delle peculiarità proprie della musica. Questo interesse ha permesso alla musica di passare da elemento di accompagnamento a struttura di riferimento, divenendo un linguaggio in grado di offrire elementi teorici e pratici per la composizione ritmica del film, elemento su cui verte la concentrazione degli artisti di questi anni. Essi compresero immediatamente come lo sviluppo dinamico delle forme e dei colori richiamasse il supporto cadenzato di ritmi, tempi e battute della musica. Da questo nacquero tentativi di creare vere e proprie “partiture filmiche” e divenne comune l'uso spregiudicato di termini musicali per identificare i loro esperimenti cinematografici, tra cui “sinfonia”, “orchestra”, “ritmo”, “melodia”, “opera”, “tema”, “variazione”, “balletto”, “studio”. Dividere in periodi la storia del cinema non appare così facile, come la suddivisione del passaggio tra muto e sonoro, che è labile e poco definita. Ovviamente, anche quando si parla di musica da film è poco chiara la linea di demarcazione tra la prima e la seconda metà del Novecento. Cercheremo ora di suddividere la storia della musica da film nel cinema muto a partire dagli esperimenti cinematografici, che si inseriscono nelle cosiddette avanguardie storiche, le quali sono state analizzate anche nel capitolo precedente in riferimento alla pittura. Approfondiremo il rapporto stabilitosi tra queste opere e la musica, quest'ultima intesa, come avvenne per le arti figurative, come supporto per le sperimentazioni sul mezzo filmico. Approderemo poi al cinema sonoro, il quale verrà suddiviso geograficamente, in quanto le esperienze mutuate nei diversi Paesi non permettono, a mio avviso, una suddivisione per generi o correnti come nel periodo storico precedente. 122 3.3.3 Futurismo Della corrente futurista è doveroso ricordare l'apporto di due artisti-cineasti che hanno sperimentato il mezzo musicale in pittura e nel cinema. Questi sono i fratelli Arnaldo Ginna e Bruno Corra, i quali hanno lasciato delle testimonianze dei loro progetti nel saggio Musica cromatica inserito nel volume a noi pervenuto, Il pastore, il gregge e la zampogna (1912)245. Il testo ci illustra il primo significativo tentativo di sperimentazione effettuato da Ginna e Corra all’interno di uno spettacolo teatrale attraverso l'uso di un pianoforte cromatico, ovvero una tastiera collegata a numerose lampadine colorate che, accendendosi e spegnendosi, proiettavano sulla scena degli accordi cromatici246; il saggio, scritto da Bruno Corra, continua con la descrizione: «componemmo qualche sonatina di colore […] una Barcarola veneziana di Menndelsohn, un Rondò di Chopin e una sonata di Mozart, ma poi, infine, dopo tre mesi di esperimenti, dovemmo confessarci che non era possibile con quei mezzi andare più in là […] avevamo a nostra disposizione solamente ventotto toni, le fusioni non avvenivano bene, le sorgenti luminose non erano abbastanza forti, se si mettevano lampade potenti il troppo calore faceva sì che esse scolorissero in pochi giorni […]»247. I limiti tecnici imposti dallo spazio teatrale permisero così di spostare l’attenzione degli artisti sul mezzo cinematografico, che ben presto venne considerato lo strumento più adeguato per lo sviluppo della loro idea di una sinfonia cromatica, ovvero di un'opera d’arte totale e unica, in grado di svilupparsi nel tempo e nello spazio e che raccolga a sé musica, pittura, fotografia, teatro, danza e architettura. Questi esperimenti, sviluppati dal 1909 e purtroppo oggi perduti, si concretizzarono in quattro pellicole cinematografiche, nelle quali il soggetto astratto veniva espresso attraverso giochi di luce e di colore: i fratelli Ginanni Corradini dipingevano con colori puri su pellicole non trattate, senza gelatine per poi proiettarle su diversi supporti, da teli bianchi o 245 Il testo dei fratelli Ginna e Corra è riprodotto in Verdone Mario (a cura di), Manifesti futuristi e scritti teorici di Arnaldo Ginna e Bruno Corra, Longo, Ravenna 1984, pp.162-163. 246 Un'analisi dei due artisti e dei loro rispettivi lavori sono esposti nel sito ufficiale curato da Lucia Collarile. Per il manifesto: http://www.ginnacorra.it/corra/testi_manifesti.html (ultima visualizzazione: 11 gennaio 2015). 247 Il testo Musica cromatica si trova in Madesani Angela, Le icone fluttuanti. Storia del cinema d'artista e della videoarte in Italia, Mondadori, Milano 2005, pp. 6-7. 123 colorati a corpi umani in movimento248. La successione dei colori doveva provocare nello spettatore un piacere estetico paragonabile alla suggestione della pittura e della musica, per i tre film, i cui riferimenti sono rivolti verso la pittura e verso la letteratura (Accordo di Colore da Segantini; Studio di effetti tra quattro colori; Les Fleurs da Stéphane Mallarmè), la colonna sonora venne affidata all'amico musicista futurista Balilla Pratella. Per il film interamente costruito sui ritmi musicali, Canto di primavera, i fratelli intrecciarono l'opera omonima di Mendelssohn con un tema preso da un Valzer di Chopin creando una sorta di visualizzazione cinematografica della musica. 3.3.4 Dadaismo Alla fine degli anni Dieci i pittori, espressionisti e poi dadaisti, Hans Richter e Viking Eggeling vollero sviluppare la loro pittura in senso dinamico intitolando i loro esperimenti con termini musicali. I due artisti erano giunti, in modo autonomo e partendo da principî estetici differenti, a risultati sorprendentemente analoghi: le loro sperimentazioni si basavano sulla ricerca del superamento della staticità pittorica, per la realizzazione di una “pittura dinamica”; inoltre per entrambi la musica veniva intesa come arte dei ritmi più che dei suoni, ovvero un'arte del movimento. Richter e Eggeling realizzarono contemporaneamente delle strisce di carta il cui segno pittorico si sviluppava sulle suggestioni del ritmo: questi “rotoli” erano una sorta di spartiti pittorici costruiti secondo le regole della composizione musicale, che venne applicata a segni e linee anziché ai suoni. Nel 1921 nacquero i cortometraggi Rhythmus 21 di Richter e Horizontal-vertical Orchestra di Eggeling, i quali documentavano le due direzioni di ricerca perseguite negli anni precedenti con i “rotoli”: ovvero sia la trasformazione della superficie attraverso ingrandimenti, riduzioni, alterazioni secondo un ritmo musicale, privo di suono (i film erano muti), basato sulla successione di tempi lunghi e brevi; sia lo sviluppo tematico della linea sulla falsariga della composizione polifonica con l'intrecciarsi dei motivi segnici, il sovrapporsi delle linee melodiche, i ritorni e le 248 Secondo quanto riportato dal sito http://www.ginnacorra.it/corra/cinema.html (ultima visualizzazione: 11 gennaio 2015). 124 variazioni249. Al primo Rhythmus seguirono nel 1923 e nel 1925 il Rhythmus 23 e il Rhythmus 25, in cui Richter diede vita ad una composizione più strutturata e complessa, basata sull'aggregazione tra le forme geometriche della pittura dinamica e i disegni lineari. Nelle sue opere successive l'artista sviluppò il suo discorso tecnico-estetico senza dimenticare il ritmo: le sequenze erano costruite secondo precise regole dinamiche di tipo musicale. Eggeling risolse i problemi del segno grafico nell'unico film pervenutoci: Diagonal Symphonie (1925), in cui venne sviluppata ritmicamente e figurativamente una serie di temi segnici elementari. Sfruttando tutte le possibilità che la dinamica cinematografica gli offriva, riuscì a trasformare la pittura in movimento in autentico cinema. Su questo versante si mossero anche altri artisti che videro nel cinema l'unico mezzo in grado di superare la staticità della pittura per realizzare una «musica visiva». Tra questi vi è Walter Ruttmann che tra il 1921 e il 1925 diresse una serie di film astratti dal titolo Opus I, II, III, IV caratterizzati da una serie di movimenti, di forme e linee, scanditi dalla musica. Si tratta di una melodia che non si può ascoltare, ma che si può facilmente intuire attraverso la composizione visiva e dinamica del film. Successivamente l'artista compose anche altri film i cui titoli rimandano alla musica, tra questi Berlin, Symphonie einer Großstadt (1927) e Melodie der Welt (1929). Le pratiche di Ruttmann vennero proseguite dal suo allievo Oskar Fischinger che realizzò una serie di Studî cinematografici, nei quali la musica veniva considerata come l'unico fondamentale sostegno della composizione figurativa, l'elemento formale equivalente all'immagine filmica, legato sia alla singola immagine pittorica sia al rapporto tra le varie immagini. Con Fischinger il concetto di “musica visiva” trovò applicazione non solo tra le avanguardie storiche, ma fu in grado di superare i confini cronologici del cinema d'avanguardia ed avere una continuità temporale di sperimentazione estetica. La maggior parte delle sue opere sono sonore, tra gli anni Venti e Quaranta utilizzò brani musicali che spaziarono da Brahms, Dukas, Nicolai a Mozart sino al Terzo Concerto Brandeburghese di Bach per il film Motion Painting N.1 249 Rondolino Gianni, Cinema e musica. Breve storia della musica cinematografica, Utet Università, Torino 1991, pp.55-56. 125 del 1947. La furia iconoclasta dadaista la ritroviamo anche nel film Entr'acte (1924) di René Clair, la cui musica venne affidata a Erik Satie che, con grande maestria, produsse Cinéma una partitura per archi e percussioni scritta appositamente per il film, nella quale il legame tra l'immagine e il suono si basa su il continuo richiamo tra l'inquadratura e la musica che si completano e si sollecitano a vicenda. Il film viene suddiviso secondo Sergio Miceli in “temi-eventi”, i quali si alternano con un ritmo «tale che ciascuno di essi permane sullo schermo un tempo sufficiente ad affermarsi come “evento”, ma non abbastanza a lungo da creare le aspettative e le concatenazioni logiche del rapporto antecedenza-conseguenza tipiche della narrazione convenzionale» inoltre, continua Miceli, «sempre per il sapiente uso del montaggio, le continue interpolazioni determinano una trama di relatività reciproche per cui un “tema” assume il valore di “evento”, mentre poco dopo esso appare come flashback all'interno di un nuovo “tema” portando ad un ribaltamento delle gerarchie»250. Ciò che si afferma come racconto, rispetto ai “temi-eventi”, è l'unica sequenza organica del film, ovvero il funerale. Satie nell'incipit della scena del corteo funebre richiama la tradizione dei repertori citando la Marche funèbre dell'op.35 di Chopin, con l'obiettivo di ironizzare sulla pratica dei repertori degli accompagnatori del cinema muto e su se stesso creando un vera e propria mise en abîme251. Satie utilizza la musica nel momento fondamentale del cortometraggio: prima e dopo il funerale, nel tentativo di evitare il commento interpretativo attraverso l'annullamento del Leitmotiv per abbracciare una successione di suoni monotoni ed inespressivi con l'obiettivo di creare il massimo distacco tra la musica e l'immagine filmica. Così come Clair decise di sfidare il cinema narrativo con un attacco dadaista alla logica e alla razionalità, Satie decide di abbandonare le convenzioni dell'accompagnamento musicale giungendo ad una corrispondenza minima della musica con le immagini, evitando l’uso di temi conduttori. 250 Miceli Sergio, Musica e cinema nella cultura del Novecento, Sansoni, Milano 2000, p.152. 251 Secondo Miceli Sergio, Musica e cinema nella cultura del Novecento, Sansoni, Milano 2000, p.155. 126 3.3.5 Espressionismo tedesco Das Cabinet des Dr. Caligari (1919) di Rober Wiene è il film che esprime al meglio l'importanza dell'immagine nel cinema espressionista attraverso la creazione di scenografie nelle quali la deformazione di luci e ombre creano un senso di drammaticità che unito ad una tendenza recitativa teatrale dei personaggi suscitava nel pubblico terrore ed inquietudine, angosce e paura. Per la prima proiezione americana del film, Samuel L. Rothapfel, curatore dell'accompagnamento con Erno Rapée, afferma in un'intervista rilasciata a Musical American: Un film concepito secondo principi rivoluzionari richiedeva una colonna sonora fedelmente sincronizzata per quanto riguarda il clima e lo sviluppo […]. Nello schema fantasmagorico del Dr. Caligari i personaggi si muovono e vivono in un mondo privo di nessi logici […]. Noi abbiamo preparato la colonna sonora tenendo ben presente questo fatto. Ci siamo rivolti a Schönberg, Debussy, Stavinskij, Prokof'ev, Richard Strauss per il materiale tematico […]. La colonna sonora è costruita secondo il principio del Leitmotiv, precisamente alla maniera wagneriana. Per il tema di Caligari abbiamo attinto al Till Eulenspiegel di Strauss. La sua idea ricompare, o viene suggerita, ogni volta che Caligari o la sua influenza agisce sullo schermo. Per contraddistinguere Cesare, il sonnambulo, Rapée ed io abbiamo preso una frase dal Prélude à l'après-midi d'un faune di Debussy […]. L'orchestrazione non è quella originale, ma è stata concepita appositamente per enfatizzare il macabro […]. Penso di poter dire con fiducia, e a ragione, che tutto ciò rappresenta la realizzazione più coraggiosa nella storia del teatro cinematografico americano252. Il film è quindi intrinseco di movimenti leitmotivici, che tendono a sottolineare gli stati d'animo dei personaggi, già enfatizzati dalla teatralità, dal trucco, dalla mimica e dalle scenografie tipiche di questa corrente, con l'obiettivo di accentuare e portare all'estremo ogni tipo di emozione. A riguardo, credo sia importante sottolineare il volume che Rapée pubblicò nel 1924 Motion Picture Moods for Pianists and Organist253, nel quale raccolse brani preesistenti e li divise in cinquantadue categorie che rappresentano situazioni e climi psicologici fra i più comuni nel cinema di quegli anni. 252 Hoffmann Charles, Comes Stranvinsky to rhe Film Theatre, in Id., Sounds for Silents, DBS, New York 1970; qui citato in Miceli Sergio, Musica e cinema nella cultura del Novecento, Sansoni, Milano 2000, p.77. 253 Rapée Erno, Motion Picture Moods for Pianists and Organist, Schirmer, New York, 1924. 127 3.3.6 Cubismo Nell'ambito cubista, essenziali sono i tentativi del pittore Léopold Survage di creare quello che lui definì Le rythme coloré, un film astratto che però non venne mai realizzato, ma che già dal titolo ci suggerisce la materia con cui sarebbe stato composto: la pittura (coloré) e la musica (rythme). Survage tentò di realizzare il suo progetto nel giugno del 1914 quando chiese, senza successo, un brevetto alla Gaumont. Oggi sappiamo che, se solo lo avesse ottenuto, Survage sarebbe stato il primo ad aver sviluppato un film astratto e avrebbe così anticipato le analoghe sperimentazioni di Viking Eggeling e Hans Richter. Un mese dopo, l'opera viene descritta dallo stesso autore nella rivista Les Soirèes de Paris: «Il ritmo colorato non è affatto un’illustrazione o un’interpretazione di un’opera musicale. È un’arte autonoma, anche se si fonda sugli stessi dati psicologici su cui si fonda la musica»254. Nel progetto teorico dell'opera, i colori e le forme, le linee e le superfici si dovevano intersecare tra loro dando vita a forme astratte e visive in base ad un ritmo che era prestabilito e che comportava una suddivisione del tempo filmico in unità minime, come in uno spartito musicale. Le caratteristiche della pittura cubista, di cui Survage ne era rappresentante, si fondono nel suo progetto teorico di un cinema composto da “ritmo e colore”. Per il film Le ballet mécanique (1924) la ricerca del pittore Fernand Léger era rivolta soprattutto ad evidenziare la natura dell'oggetto: il balletto veniva così ricondotto a quegli oggetti che possiedono un ritmo ben scandito, come i dischi e le sfere riflettenti che roteano e oscillano o il moto pendolare prodotto dalle palle dell'albero di Natale; questo movimento venne calcolato dal pittore fino al dettaglio, come se il ritmo del montaggio dovesse corrispondere a quello della musica, anch'esso spezzato. La partitura per otto pianoforti, pianola, xilofono e percussioni, caratterizzata da un rimo continuamente spezzato, venne composta appositamente per il film dal musicista George Antheil, che fu abile nel far corrispondere tutti gli elementi spaziodinamici della pellicola di Léger alla musica. Il film non ha mete narrative e non mostra una storia, ma è dotato di una trama ritmica autosufficiente tanto da rendere problematico qualsiasi inserimento esterno. Inoltre tra le intenzioni di Léger vi era anche quella di presentare l'opera come un 254 Citato in Rondolino Gianni, Cinema e musica. Breve storia della musica cinematografica, Utet Università, Torino 1991, p.53. 128 insieme audiovisivo, e in occasione della prima proiezione, che avvenne al Theatertechnick di Vienna nel 1924, il pittore-regista scrisse nel Programma: Questo film è oggettivo realista e per niente astratto. L'ho fatto in stretta collaborazione con Dudley Murphy. Noi abbiamo chiesto al compositore George Antheil di farne l'adattamento musicale sincronizzato - Grazie al procedimento scientifico di Monsieur Delacomme, speriamo di ottenere meccanicamente nella maniera più assoluta, la simultaneità di suono e immagine.255 La prima viennese avvenne però in assenza della musica 256 e l'ipotesi più attendibile della mancanza del commento musicale è probabilmente riconducibile a un difetto del sistema di sincronizzazione ideato da Pierre Delacomme 257. Nelle proiezioni successive il film venne accompagnato, come previsto, dalla musica, tant'è che il regista e pittore Hans Richer affermò che durante la proiezione a Berlino nel 1925, tutto ebbe luogo secondo il progetto originario e «la musica di Antheil […] suscitò le proteste del pubblico»258. L'ultimo aspetto che ci conferma l'assenza della musica alla prima proiezione è nel testo Composer's Notes, in cui Antheil affermò che il brano «era stato scritto in origine come colonna sonora per il primo film astratto dello stesso titolo» ma a causa delle difficoltà nella sincronizzazione «fu scritto come pezzo autonomo» 259. Probabilmente furono apportate modifiche all'organico: alle pianole vennero sostituite dei pianoforti, ridotti a due gli xilofoni, scomparsi gli autentici motori d'aereo sostituiti con registrazioni su nastro260. Nel 1936, in una lettera indirizzata a Nicolas Slonimsky, il compositore scriveva: Secondo la mia opinione personale, Le ballet mécanique è un'opera importante da un determinato punto di vista: l'ho in effetti scritto in una forma nuova, una forma che colma, in particolare, una lacuna nella tela del 255 Fr. Kiesler (a cura di), Internationale Ausstellung neuer Theatertechnik, Würtle, Wien 1924 p.42; qui citato in Miceli Sergio, Musica e cinema nella cultura del Novecento, Sansoni, Milano 2000, p.162. 256 Secondo affermazione di Stuckenschmidt Hans Heinz, La musica moderna: da Debussy agli anni Cinquanta, Einaudi, Torino 1960, p.145. 257 Monsieur Delacomme è da identificarsi con Pierre de la Commune o Delacommune, inventore del Cinépupitre. 258 Richter Hans, Il cinema d'avanguardia in Germania, in Roger Manvell (a cura di), Nascita del cinema, trad. it., Il Saggiatore, Milano, 1961, p.308. 259 Antheil George, Ballet méchanique (sic), partitura, Templeton, 1959, qui citato in Miceli Sergio, La musica nel film. Arte e artigianato, Discanto, Fiesole-Firenze 1982, p.124. 260 Secondo Miceli Sergio, La musica nel film. Arte e artigianato, Discanto, Fiesole-Firenze 1982, p.124. 129 tempo, apportandovi delle astrazioni musicali e dei materiali sonori contrastanti; a questo proposito, del resto, ho avuto cura di creare dei valori temporali piuttosto che tonali. Nel mio Ballet mécanique, ho utilizzato i tempi nel modo in cui Picasso utilizza la superficie bianca della tela.261 Antheil torna a parlare del concetto di spazio-tempo in Composer's Notes dichiarando di voler «dimostrare un nuovo principio della composizione musicale, quello del “Tempo-Spazio”, nel quale viene considerato di vitale importanza il principio del tempo, piuttosto che quello tonale»262, affermando poi che il concetto di cubismo in musica si può solamente realizzare laddove vi sia una successione di battute in tempo (2/8, 3/8, 4/8, 5/8 etc.). 3.3.7 Avanguardie sovietiche In Unione Sovietica, i compositori, influenzati dal Manifesto dell’asincronismo, trattavano la musica come una componente del montaggio mentre i cineasti sovietici esplorarono gli effetti emozionali, intellettuali e ideologici della musica in modo tale che essa potesse entrare in contrasto con le immagini. Questi cineasti 263 ritenevano che un’arte rivoluzionaria esigesse tecniche altrettanto rivoluzionarie e quindi una musica appunto rivoluzionaria. Uno dei migliori esempi di musica cinematografica negli anni del cinema muto si deve all'incontro tra il regista Sergej Michajlovič Ėjzenštejn e il musicista tedesco Edmund Meisel per il film Bronenosec Potëmkin (1925). Meisel scrisse una componente musicale approntata per la distribuzione in Europa e negli Stati Uniti e, a differenza di altre operazioni simili, il cineasta si recò appositamente a Berlino (aprile 1926) per incontrare il compositore; come egli stesso ha ricordato: Accettò subito di trascurare la funzione puramente illustrativa comune in quell'epoca […] agli accompagnamenti musicali, e di accentuare certi “effetti”, specialmente nella “musica delle macchine” nell'ultima bobina. Fu questa la mia unica richiesta categorica: abbandonare l'abituale stile 261 Citato in Miceli Sergio, La musica nel film. Arte e artigianato, Discanto, Fiesole-Firenze 1982, p.125. 262 Antheil George, Ballet méchanique (sic), partitura, Templeton, 1959; qui citato in Miceli Sergio, La musica nel film. Arte e artigianato, Discanto, Fiesole-Firenze 1982, p.125. 263 Sergej Ejzenštejn, Dziga Vertov, Aleksandr Petrovič Dovženko, Lev Vladimirovič Kulešov, Vsevolod Illarionovič Pudovkin. 130 melodico per questa sequenza d'“incontro con la squadra”, fondandosi interamente su un ritmico battere di percussioni, e stabilire inoltre nel punto decisivo, nella musica, come nel film, un “passaggio repentino” a una “qualità nuova” nella struttura sonora. Fu dunque il Potëmkin che a questo punto si staccò stilisticamente dai limiti del “film muto con illustrazione musicale” per entrare in una nuova sfera, quella del film sonoro, i cui veri modelli presentano una fusione d'immagini musicali e visive che ne fanno opere fondate sull'unità audiovisiva. E proprio grazie a questi elementi, che anticipano le possibilità compositive del film sonoro, la sequenza dell' “incontro con la squadra” […] merita un posto dominante nella storia del cinema. […] Qui il film muto Potëmkin ha qualcosa da insegnare al film sonoro, dimostrando in vari modi come un lavoro, per essere organico, debba essere dominato da un'unica legge di costruzione in tutti i suoi “significati”, e come, per non essere “fuori scena”, ma diventare parte organica del film, anche la musica debba non soltanto ispirarsi alle stesse immagini e agli stessi temi, ma anche adeguarsi alle stesse leggi e agli stessi principi fondamentali di composizione264. Pur trattandosi di una opinione a posteriori e consapevole di procedure audiovisive più coese ed efficaci, si denota un'auto-analisi, che porta il cineasta a definire Bronenosec Potëmkin come il primo film della sua carriera di qualità assoluta, anche dal punto di vista musicale. Per la nostra analisi, si possono considerare tre episodi del film particolarmente significativi in relazione alle soluzioni musicali: le esequie di Vakulinčuk (atti II/III), la scalinata di Odessa (atto IV), l'incontro con la flotta (atto V). Il primo episodio è quello che più si discosta dalle soluzioni innovative successive: la musica risulta affine allo scorrere delle immagini che vengono associate a identità tematiche ben riconoscibili dallo spettatore. I materiali della sequenza sono: un primo tema definito Tema eroico, un secondo basato su un canto popolare russo, Tema patetico, il terzo e ultimo tema è costituito da un tempo di marcia ben scandito, spesso da archi gravi e timpani, che accompagna i primi due in particolari momenti della scena e che viene però “sottinteso” anche negli istanti in cui esso non è udibile. La costruzione generale è un esempio di musica composta secondo la tradizione filmico-musicale in quanto, ad ogni tema, viene associato anche una macrostruttura drammaturgica dalle valenze ideologiche: la sofferenza individuale si identifica con il Tema patetico, mentre 264 Ėjzenštejn Sergej Michajlovič, La struttura del film (1939), in Forma e tecnica del film e lezioni di regia, trad. it. Einaudi, Torino 1964, pp.156-157. 131 la lotta collettiva con il Tema eroico. All'episodio della scalinata di Odessa corrisponde una soluzione musicale atonale e atematica: nonostante il carattere monocorde, il ritmo percussivo è il protagonista indiscusso dell'episodio contornato dal suono dei legni, da scale discendenti e ascendenti degli archi acuti e dagli ottoni. Ma l'aspetto maggiormente innovativo di questo episodio è che a tale concezione compositiva musicale se ne affianca una seconda basata su un susseguirsi e un sovrapporsi di suoni musicali a cui sono sottratte le identità tematiche, con la conseguenza che l'ascoltatore non aspettandosi più una costruzione sintattica, porrà una maggiore concentrazione sulle immagini. La convivenza delle due concezioni musicali in un duplice continuum colloca questo episodio agli antipodi rispetto a quello della morte del marinaio Vakulinčuk; l'accompagnamento musicale dell'episodio fa apparire gli eventi inespressivi e disumanizzati nonostante la tragicità delle scene (ad esempio, la morte di un bambino con la reazione della madre, che verrà uccisa a sua volta). Dell'ultimo atto, l'incontro con la flotta, prenderemo in analisi la sequenza incentrata sulla sala macchine della corazzata, nella quale le inquadrature si alternano rapidamente sui motori all'interno e sugli effetti della produzione di questa energia motrice all'esterno (la scia lasciata dalla nave, il fumo denso che esce dalle ciminiere). Attraverso mezzi puramente visivi, Ėjzenštejn crea già una componente musicale che ritroviamo nelle inquadrature raffiguranti macchinismi in movimento ritmico, in relazione al movimento del montaggio in un esasperato crescendo della durata di circa sei minuti. La soluzione musicale proposta da Meisel alla ritmicità delle immagini si basa sul ritmo scandito dalle percussioni accompagnato da sigle elementari di tromba, trombone a progressioni ascendenti ritmicamente segmentate, che si adatta perfettamente alle esigenze ritmiche del film stesso. Nel 1929 il compositore Dmitrij D. Šostakovič debuttò nel cinema in modo memorabile con Novyj Vavilon (La nuova Babilonia), opera di Grigorij M. Kozincev e Leonid Z. Trauberg, che si presenta come un film muto ambizioso e poco incline alle semplificazioni, in quanto si tratta di una rivisitazione dell'estetica della Fabbrica dell'Attore Eccentrico265 unita al principio del montaggio delle attrazioni, teorizzato da 265 L'estetica della FEKS (Fabbrica dell'Attore Eccentrico) scaturisce in ambito teatrale dal Manifesto dell'Eccentrismo del 1922 firmato da Grigorij M. Kozincev, Leonid Z. Trauberg, Georgij Kryzickij e 132 Ėjzenštejn nel 1923, e caratterizzato da materiale visivo innovativo, in quanto estremamente estetizzante in senso pittorico. Šostakovič compone la partitura di Novyj Vavilon con queste premesse, fa emergere legami formali tra musica applicata e musica con altra destinazione: i brani si basano su contrasti e sullo studio di uno spessore drammaturgico non esteriore, affiancati da musiche preesistenti e orchestrali (La belle Hélène di Offenbach, citazioni di Galop dall'Orphée sempre di Offenbach e di Ça ira e La Marseillaise). Come afferma lo stesso Šostakovič: Lo scopo fondamentale della musica è di essere in sintonia con le cadenze e il ritmo del film, di aumentarne la forza d'impatto. Mi sono sforzato di dare alla musica, data la sua novità e il suo carattere inabituale, […] una dinamica, e di superare il patetico della La nuova Babilonia266. La modernità delle soluzioni adottate, ovvero la rinuncia alla centralità del melodismo, il contrappunto audiovisivo, la trasfigurazione delle citazioni musicali, la netta diversificazione tra musica di livello interno ed esterno, l'abbandono dei sincroni, preparò la strada, sia pure indirettamente, a una delle realizzazioni più emblematiche non solo del cinema sovietico ma dell'intera epoca del sonoro, Aleksandr Nevskij (1938) di Ejzenštejn267. 3.3.8 Oltre il cinema d'avanguardia Durante gli anni Venti si è sviluppato, parallelamente a quello d'avanguardia, un cinema spettacolare che da una parte è stato in grado di sfruttare alcune sperimentazioni avanguardistiche con lo scopo di elaborare una sintassi filmica che potesse dare allo spettacolo una dignità artistica e, dall'altra, è riuscito a recuperare i risultati raggiunti negli anni Dieci in direzione di una sua integrazione nella nuova dimensione linguistica. Le motivazioni che portarono a questi due sviluppi sono da ricercare nell'ambito dell'arte e dell'industria; più specificatamente accanto alle scelte di sperimentazione Sergej Jutkevič. 266 Citato in Miceli Sergio, Musica per film. Storia, estetica. Analisi, tipologie, Lim Editrice, Milano 2009, p.94. 267 Miceli Sergio (a cura di), Musica, Enciclopedia del Cinema Treccani.it, 2004, http://www.treccani.it/enciclopedia/musica_%28Enciclopedia-del-Cinema%29/ (ultima visualizzazione: 11 gennaio 2015). 133 degli artisti-registi vi erano ragioni di carattere puramente commerciale e industriale nella determinazione di alcune scelte tecniche. Tutto questo era alimentato anche dal fatto che, dopo la prima guerra mondiale, la produzione cinematografica raccolse sempre più consenso di pubblico, facendo emergere così, in modo del tutto autonomo, spettatori che richiedevano una maggiore diversificazione del prodotto, con il risultato che la produzione cinematografica era costretta ad adattarsi velocemente alle nuove richieste del mercato. Ha inizio così un nuovo tipo di produzione, affiancato al cinema popolare, la cui evoluzione parte dalle basi gettate dagli artisti sperimentatori. La coesistenza di film di diverso genere e rivolti a diversi spettatori ha permesso alla musica d'accompagnamento di continuare la sua permanenza nelle sale, codificata sia dai repertori che si andavano pubblicando un po' ovunque, sia della scarsa intraprendenza dei musicisti nel dirigere personali composizioni. Ogni sala aveva il proprio pianista o organista fisso e ciò comportava che in ogni spettacolo cinematografico dovesse esserci la presenza della musica, a prescindere dal fatto che il film disponesse o meno di una propria partitura musicale. L'accompagnamento sonoro in sala divenne così un supporto sonoro “obbligatorio” e quello cinematografico continuava ad essere uno spettacolo audio-visivo. La tradizione ormai consolidata di accompagnare con la musica gli spettacoli cinematografici, da un lato spinse i produttori ad escogitare un sistema che risultasse meno complesso dei manuali di repertorio268, dall'altro offriva ai compositori una certa libertà di lavoro e di sperimentazione musicale. Come abbiamo potuto vedere, si giunse ad una pratica diffusissima di musica cinematografica per ogni opera significativa, sia dal punto di vista commerciale che artistico, in cui la figura del compositore riuscì ad acquisire un posto sempre più importante nell'opera cinematografica. Ad esempio, come è già stato visto, negli Stati Uniti il cineasta Griffith per i suoi film realizzati negli anni Venti vi associò una loro partitura musicale, in parte curata dallo stesso regista. Sulla stessa linea vi sono anche Cecil DeMille, Eric von Stroheim, Raoul Walsh, Allan Dwan, autori che curavano la musica meticolosamente. Anche in Europa la figura del compositore era divenuta di fondamentale importanza, soprattutto in Francia e in Germania, dove i film assumevano carattere di 268 Nel 1916 Victor Schertzinger riuscì a registrare i primi componimenti musicali che venivano utilizzati specificamente per una pellicola cinematografica. 134 spettacolarità per la grandiosità della messa in scena e per l'accompagnamento musicale. In Francia, la componente musicale divenne parte integrante di una nuova visione organica dai registi “impressionisti”: il regista Marcel l'Herbier, nel 1921, per il suo film El Dorado si avvalse della collaborazione di Marius François Gaillard che scrisse una partitura di cinquecento pagine per un organo orchestrale. La musica era stata composta a film ultimato, misurando esattamente i tempi delle singole scene, diffondendo così un metodo che non era mai stato seguito nelle precedenti composizioni originali, le quali erano tutte in forma di poema sinfonico e caratterizzate da una sincronismo approssimativo. Ricordiamo anche compositori come Arthur Honegger, il quale contribuì al capolavoro cinematografico di Abel Gance La roue (La rosa sulle rotaie, 1922) e a quello successivo Napoléon (Napoleone, 1927), nei quali le musiche aderirono perfettamente alla drammaticità delle scene, contribuendo alla riuscita spettacolare di entrambe le opere. Honegger scrisse anche negli anni Trenta le partiture per Les misérables (I miserabili, 1933) di Raymond Bernard e per Mademoiselle Docteur (1937) di George Wilhelm Pabst; Rapt (1934) di Dimitri Kirsanoff; per L'idée (1934) di Bertold Bartosch, quest'ultimi due legati ancora all'avanguardia. Al musicista Jacques Ibert si devono le partiture per Un chapeau de paille d'Italie (Un cappello di paglia di Firenze, 1927) di Renè Clair e considerata una delle più belle composizioni musicali del tempo. Un lavoro sulla musica che Ibert svilupperà successivamente, durante gli anni del sonoro, con le partiture per Don Quichotte (1933) di Pabst e per Macbeth (1948) di Orson Welles. In Germania, Gottfried Huppertz compose per Die Nibelungen (I nibelunghi, 1923) di Friz Lang, musiche basate sull'arrangiamento e sull'utilizzazione di temi wagneriani. Il musicista lavorò anche su Metropolis (1927) altro capolavoro del cinema del regista Lang. Nei restanti Paesi europei, dopo la fine della Prima guerra mondiale, la produzione cinematografica calò sia quantitativamente che qualitativamente; le produzioni erano tecnicamente scarse e spesso ripetitive e faticavano a reggere il confronto con Stati Uniti, Francia e Germania. Non va dimenticato che la produzione cinematografica hollywoodiana, negli anni Venti, iniziò quel processo di codificazioni 135 per generi269 e categorie secondo presupposti industriali e commerciali dello star system e dello studio system270; mentre il cinema europeo, estremamente variegato, si rivolgeva ad un pubblico a sua volta vario, di diverse appartenenze sociali, a livelli diversi di cultura ed interessi. Così, sia in Europa che ad Hollywood, i generi cinematografici erano molteplici e di conseguenza anche la varietà artistica delle partiture associate lo era, ma ben presto questo problema venne superato da un evento, che cambiò radicalmente il modo di fare cinema e ovviamente di fare musica. 3.3.9 L'avvento del sonoro Il passaggio dal cinema muto a quello sonoro fu lento e caratterizzato da diverse sperimentazioni su sistemi di sincronizzazione tra la pellicola filmica e la colonna sonora incisa su disco. Inizialmente fu Thomas Edison che tentò di sincronizzare musica e suono tramite un fonografo collegato al proiettore: questo era denominato Kinetoscope, il quale si azionava con l'inserimento di una moneta avviando così la musica del fonografo che iniziava in concomitanza alle immagini. Con l'invenzione del Kinetoscope nel 1890 si assiste ad una continua creazione di apparecchi adibiti al sincronismo, tra questi vi è da annoverare il Phono-Ciné-Théâtre, un sistema di proiezione cinematografica che si basava inizialmente sulla ripresa delle immagini e successivamente sulla registrazione della voce degli attori tramite incisione fonografica; durante la proiezione il fonografo era posizionato in sala e il proiezionista poteva ascoltare le voci tramite un collegamento telefonico, riuscendo così ad adattare il suono all'immagine che vedeva sullo schermo. Le ricerche sull'amplificazione elettrica del segnale iniziarono nel 1925 nei Bell Laboratories. L'anno successivo venne messo a punto il sistema Vitaphone, che venne utilizzato dal 1926 fino al 1930 dalle case produttrici Warner Bros e First National; esso 269 Durante il periodo del muto questi erano: il western, il film spettacolare in costume, il film d'avventura, il gangster film, la commedia. Con il sonoro si aggiunsero poi: il film poliziesco, il film noir, il film di guerra, il melodramma, il musical, l'horror e il film comico. 270 Nel periodo dell'Hollywood classica (1925-1960 circa) le Big five (le cinque case di produzione MGM, WB, Paramount, RKO e 20th Century Fox) detenevano il potere e il controllo sull'intera produzione cinematografica di un film, compresa la distribuzione, questo sistema viene definito studio system e aveva come obiettivo la massimizzazione del prodotto cinematografico. Lo star system si basa sul divismo cinematografico, le case di produzione sfruttano il richiamo esercitato dagli attori-personaggi per incentivare l'interesse del pubblico. 136 memorizzava il suono su dischi fonografici da 16 pollici con velocità di rotazione di 33 e ⅓ rpm, con spirale diretta dall'interno verso l'esterno del supporto 271. Il sistema Vitaphone era composto da proiettori, amplificatori e diffusori acustici. Una volta che il proiettore era caricato, l'operatore allineava manualmente la puntina del giradischi. Fu il sistema Vitaphone che nel 1926 portò all'allestimento filmico del Don Juan di Alan Crosland, primo lungometraggio muto post-sincronizzato con partitura orchestrale, composta da William Axt e David Medoza e primo film con cui si stabilisce l'avvento del cinema sonoro. La pellicola venne proiettata al Warner Theater di New York e presentata come il primo evento del film sonoro. Ricordiamo che esso era sonoro, ovvero composto solo da musiche ed effetti sonori e non parlato, i cui dialoghi erano espressi tramite le classiche didascalie del cinema muto. Da questo momento gli spettacoli cinematografici composti con il Vitaphone iniziarono in breve tempo a riscuotere un enorme successo di pubblico, al punto che cominciarono ad essere proposti soggetti tratti dalla musica leggera e, ai numeri musicali, si affiancarono brevi scenette comiche con dialogo sincrono e interpretate da star del teatro o del vaudeville272. L'avvento del cinema sonoro coincise cronologicamente con la crisi economica, politica e sociale del 1929, che investì prima l'America e poi l'Europa e che poi si riversò per gran parte degli anni Trenta. In questa situazione sociale drammatica, il cinema sonoro e parlato divenne una sorta di fuga dalle preoccupazioni della realtà quotidiana, un nuovo spettacolo in grado di attirare spettatori di ogni ceto e Paese e l'industria cinematografica, soprattutto americana, se ne avvantaggiò regalando successi di pubblico e di botteghini. Il successo consisteva nel proporre al pubblico uno spettacolo “nuovo”, che solo in apparenza era simile al cinema muto, poiché esso aveva un grado di realismo ben maggiore e quindi possedeva più vaste possibilità di un condizionamento ideologico di un pubblico rimasto ancora facilmente influenzabile ed immaturo. L'arrivo definitivo del cinema sonoro è legato all'uscita del film The Jazz Singer 271 Calabretto Roberto, Lo schermo sonoro. La musica per film, Marsilio, Venezia 2010, p.31. 272 Genere teatrale nato in Francia a fine Settecento, che indica le commedie leggere, in cui alla prosa vengono alternate strofe cantate. In seguito all'introduzione del cinema nelle sale tale genere si trasforma in spettacolo di varietà. 137 nel 1927, il primo film parlato della storia. La proiezione diretta dal regista Alan Crosland e prodotta dalla Warner Bros fu accolta da pubblico e critica con grande entusiasmo, tanto che aprì la strada ad una nuova era cinematografica. A poco a poco le altre case di produzione abbandonarono il cinema muto per accogliere quello sonoro, in America, agli inizi degli anni Trenta, qualche anno dopo per l'Europa, non c'era casa di produzione che non fosse già convertita a tale tipo di produzione cinematografica. Dopo una successione di fasi che consentirono al cinema sonoro di affinare la propria strumentazione, alla fine degli anni Venti nacque la colonna sonora di un film composta da rumori, musiche e parole, le tre materie d'espressione con cui si articola il suono. Secondo Ermanno Comuzio273 il dialogo può intendersi sia come quello degli attori che interpretano il film, oppure come la voce di uno speaker che commenta l'azione o, ancora, come la voce impiegata come puro suono. I rumori possono essere a loro volta realistici – rumori registrati in presa diretta con il film – o immaginari – usati indipendentemente dalla rappresentazione visiva. La musica può essere legata a fonti preesistenti nell'immagine, oppure a determinate immagini, o provenire dall'esecuzione off di uno strumento, di una voce o di un complesso orchestrale o vocale, e può essere creata elettronicamente o sinteticamente274. Il cinema sonoro entra in rapporto quindi anche con le parole e i rumori in un nuovo contesto poli-espressivo che ne modifica la funzione. Con l'introduzione della colonna sonora, la musica acquista un nuovo statuto tecnico-formale che le garantisce un ruolo artistico: la partitura musicale per il cinema sonoro non nasce più come musica d'accompagnamento alle immagini, ma entra in rapporto anche con le parole e i rumori creando una partitura ricca di significati. 3.3.10 Gli Stati Uniti: Hollywood Negli Stati Uniti, gli anni della ripresa economica legata a Theodore Roosevelt, decennio che va dai primi anni Trenta ai primi anni Quaranta, coincidono anche con la ripresa dell'industria cinematografica, in cui il cinema hollywoodiano domina con il suo 273 Viene citato lo studioso Comuzio Ermanno e le relative definizioni in Rondolino Gianni, Cinema e musica. Breve storia della musica cinematografica, Utet Università, Torino 1991, pp.73-74 274 Secondo Comuzio si definisce una musica creata elettronicamente, quando non vi è la presenza di strumenti naturali; la musica creata sinteticamente invece è priva della registrazione di fonti sonore esterne alla pellicola. (cit. da Rondolino Gianni, op. cit., p.74) 138 modello di produzione sonora sul piano spettacolare e commerciale, estendendo la sua influenza sui mercati mondiali. In questi anni emerge anche la figura del produttore, che acquista sempre più potere decisionale e diviene determinante per la realizzazione del film. È lui a scegliere i soggetti, i registi, gli attori, i tecnici e a fornire le attrezzature necessarie per la buona riuscita del prodotto, che è frutto di un attento studio dei caratteri commerciali del film e del pubblico, cui rivolgere la propria attenzione. Il film non è quindi più prodotto dall'arte e dalla cultura del regista-autore, il quale diviene mero esecutore del film, ma esso si fa realizzazione dello stesso produttore, che diviene organizzatore dell'intera esecuzione. Con questa nuova figura e con il codice di produzione cinematografico elaborato dall'industria hollywodiana, il cinema americano venne costruito su regole sempre più rigide: le caratteristiche peculiari e ricorrenti di ogni genere cinematografico, che avevano incontrato l'approvazione del pubblico costituivano quelle regole del successo che la produzione cinematografica seguiva meticolosamente per ogni film. Anche la musica ovviamente doveva obbedire ai modelli imposti per rientrare nelle categorie spettacolari e commerciali cui si è fatto cenno. Per questo si parla di una “scuola cinemusicale americana”, che raggruppava musicisti ingaggiati dalle case di produzione per creare una colonna sonora che obbedisse a schemi e modelli ben precisi. Si tratta di un gruppo di artisti al suo interno compatto e legato alla stessa omogeneità del cinema di Hollywood, che prevedeva generi e specie e che necessitava quindi anche di un repertorio musicale adatto e funzionale. La musica filmica dell’Hollywood classica si basava su una serie di funzioni: «abbandono delle compilazioni a favore di scores275 interamente composte ad hoc; riproduzione sinergica dei compiti produttivi ed emergenza del ruolo degli orchestratori; uso prevalente di organici orchestrali di genere sinfonico; espansione quantitativa del commento fino a coprire buona parte del film; onnipresenza della funzione leitmotivica; ricorso pressoché sistematico all'underscoring276, con relativa adozione della tecnica del click track277». Dagli anni 275 Termine inglese che in musica indica la partitura; in ambito cinematografico il termine film score è la colonna sonora. 276 Si tratta di una riproduzione musicale in una scena che accompagna e diventa di sottofondo a dialoghi e azioni dei personaggi. Si utilizza per alimentare le emozioni dello spettatore ed immergerlo nella narrazione. 277 Segnali audio utilizzati per sincronizzare l'immagine con il suono. La citazione è di Miceli Sergio, Musica per film. Storia, estetica. Analisi, tipologie, Lim Editrice, Milano 2009, p.185. 139 Trenta il “classicismo” musicale hollywoodiano venne applicato ad un numero considerevole di film in tutto il mondo. Claudia Gorbman 278 propone un elenco di criteri che hanno decretato il successo della musica hollywoodiana: l'apparecchiatura della musica è invisibile (la sua sorgente non è identificata); essa non è concepita per essere ascoltata coscientemente (accompagna il film senza stimolare coscientemente lo spettatore); la musica traduce le emozioni; l'accompagnamento sonoro marca la narrazione; la melodia è fattore di continuità (tale continuità audiovisiva sembra mescolare e omogeneizzare la discontinuità visiva, spaziale o temporale); infine la musica diviene il fattore di unità. Lo stile della prima generazione di compositori hollywoodiani 279 (1927-1940) è caratterizzato da un annullamento dei caratteri individuali per un sinfonismo ottocentesco e tardo-ottocentesco, basato sulla concezione drammaturgica ereditata dal cinema muto. Max Steiner, padre della scuola americana di musica cinematografica, è il musicista che ha aperto un nuovo capitolo sui rapporti tra cinema e musica, partendo dall'introduzione della colonna sonora. Dopo che Steiner venne chiamato dalla RKO come direttore della sezione musicale della casa di produzione, nel giro di poco tempo egli riuscì ad imporre la consuetudine di comporre una partitura che fosse originale e che si basasse sulle caratteristiche proprie del film. La ricerca di Steiner si basava sull'individuazione di uno o più temi ricorrenti, che potessero sottolineare in maniera efficace la natura della scena o i sentimenti dei personaggi, una volta trovati li sviluppava secondo quei principî di composizione accettati dal pubblico. Le sue composizioni si distinguono in quanto si adeguavano perfettamente al clima del film. Steiner privilegia toni avvolgenti, timbri accattivanti e melodie sinuose: pensiamo ad esempio ad una delle sue prime partiture, come Cimarron (1930) di Wesley Ruggles o Bird of Paradise (1932) di King Vidor. Ma è con i lavori sulle musiche per King Kong (1993) di Schoedsack, Merian e 278 Gorban Claudia, Unheard Melodies: Narrative Film Music, British Film Institute-Indiana University Press, London-Bloomington, Indiana 1987, pp.73-91. 279 Raggruppa i compositori Dimitri Tiomkin, Max Steiner, Herbert Stothart, Erich Wolfgang Korngold, Frank Skinner, Franz Waxman, Adolph Deutsch, George Duning, Hugo Friedhofer, Joseph Gershenson, Bronislau Kaper. 140 Cooper e The Lost Patrol (La pattuglia sperduta, 1934) di John Ford che il suo stile si fa più maturo, creando effetti musicali spettacolari. Nella scena del rito sacrificale in King Kong, Steiner mescola livello musicale interno ed esterno: al ritmo tribale e all'intonazione vocale degli indigeni, in sincrono con le movenze, Steiner aggiunge un rafforzamento strumentale di archi, legni e ottoni che non è prettamente inserito nel contesto, ma la fusione appare efficace e comporta una sorta di legittimazione reciproca, in cui il livello esterno perde parte del proprio carattere artificioso, mentre quello interno assume una forza inusitata280. Questo non viene però ripetuto nella scena del rito notturno, il quale è caratterizzato da un continuum drammaturgico più convenzionale, che non viene mai interrotto nelle sequenze di azione. Se in The Lost Patrol, Steiner riduce notevolmente le risorse musicali rispetto a King Kong, è con la partitura per The Informer (1935), sempre di John Ford, che il compositore dà inizio ad una nuova fase della musica ad Hollywood, e viene consacrato come il musicista cinematografico per eccellenza della prima generazione, al punto che numerosi compositori dell'epoca cercano di imitarlo. Le ricorrenze tematiche si adeguano perfettamente al clima delle immagini, al punto che è sufficiente il solo incipit di ciascun tema a richiamare alla memoria dello spettatore il meccanismo associativo. Questo processo ha portato ad una maggiore standardizzazione musicale, nella quale la musica doveva essere in grado di sorreggere le immagini di produzioni filmiche adatte a qualsiasi tipo di pubblico e facilmente interpretabili. Questo modello cinemusicale, che ebbe il consenso dei produttori hollywodiani del tempo, suscitò aspre critiche da parte di altri musicisti, soprattutto di origine europea281. La seconda generazione hollywoodiana282 (1940-1960) riuscì a portare una diversa attenzione sugli aspetti psicologici della narrazione, distaccandosi progressivamente dalla concezione steineriana. I caratteri predominanti di questa generazione sono 280 Miceli Sergio, Musica per film. Storia, estetica. Analisi, tipologie, Lim Editrice, Milano 2009, p.186. 281 Nel 1937 il compositore francese Maurice Jaubert affermò che questo modello musicale portava alle estreme conseguenze il sincronismo immagine-suono, in quanto la musica aveva il compito anche di accompagnare i passi dei personaggi. Si veda Rondolino Gianni, op.cit., p.79. 282 Raggruppa i compositori: Victor Young, Alfred Newman, Hugo Friedhofer, Franz Waxman, Miklós Rózs, Alex North, Bernard Herrmann, David Raksin. 141 racchiusi nella figura di Bernard Herrmann, il quale sancì le tappe più importanti del processo di rinnovamento musicale degli anni Quaranta, contrassegnato dalle insolite soluzioni timbriche, la concisione tematica, le caratterizzazioni ritmiche e i relativi ostinati. Hermann conobbe il regista Orson Welles nel 1936 e di li a poco nacque una collaborazione, che portò entrambi alla prima realizzazione cinematografica, Citizen Kane (Quarto potere, 1941), film segnato da un processo produttivo insolito per la prassi hollywoodiana dell'epoca. Difatti Herrmann ha potuto disporre di tempi più lunghi per la composizione delle musiche (dodici settimane contro le tre abituali) e gli era inoltre possibile assistere alla genesi del film in ogni sua fase, lavorando anche con il regista stesso. Nella partitura musicale è evidente lo stile personale del compositore, influenzato da musicisti come Claude Debussy e Charles Ives, che predilige motivi melodici molto semplici, i quali sembrano non avere soluzione e un'orchestrazione che favorisce il registro grave dei fiati, le dissonanze, i cambiamenti di registro o di rivolti. Se, come abbiamo visto, il leitmotiv classico si basa sul riconoscimento e sull'associazione di temi, per Herrmann esso è costituito dell'idea di contaminazione, ovvero un elemento di disturbo che, evitando qualsiasi slancio di strumenti a corda o a fiato, provoca un senso di tensione. L'originalità di Herrmann inciterà i giovani compositori degli anni Cinquanta ad assumersi libertà maggiori rispetto alla sinfonia classica hollywoodiana. Quando la musica deve rinunciare alla riconoscibilità motivica e all'immediatezza comunicativa per seguire ed esprimere la personalità dei personaggi, Herrmann crea una serie di entità motiviche esplicitamente legate tra loro, al punto da considerarle di derivazione comune di un solo modello tematico. Questa decomposizione motivicotematica è un esempio evidente della profonda assimilazione del linguaggio wagneriano e post-wagneriano, che può essere inteso per le composizioni di Herrmann come un processo di strutturazione/destrutturazione dei presupposti armonici, rivisitato e ridotto a pochi elementi lineari e contrappuntistici. Prendiamo ad esempio la partitura di Psyco (1961) di Hitchock, la quale si presenta contro corrente rispetto allo stile hollywoodiano: Herrmann concepisce un suono freddo, teso, oggettivo, senza vibrato, che sfocia nella scena madre del film, con il brano omonimo Murder Scene, il quale 142 rispecchia la follia omicida di Norman suggerendola implicitamente; per questo la musica si identifica con le grida degli uccelli imbalsamati, tesi sostenuta anche dai sincroni espliciti presenti nella prima parte dell'intervento musicale della scena madre, dove la voce degli uccelli coincide con l'ingresso e con l'uscita della figura dell'assassino dal vano della doccia. Accanto a Herrmann, vi è da ricordare un altro compositore della “scuola americana”: Alfred Newman. Nato come direttore d'orchestra di musicals a Broadway durante gli anni Venti, giunto ad Hollywood, Newman si distingue subito per la partitura di Street Scene (Scena di strada, 1931) di King Vidor dove accompagna la storia di personaggi popolari con una musica discreta e suggestiva. Successivamente affronterà quasi tutti i generi cinematografici, creando colonne sonore dal grande successo popolare, come il Leitmotiv di Love is a Many-Splendored Thing (1955) di Henry King e insignito di nove Oscar. Newman rimane legato per tutto il suo operato alla concezione classica di un commento musicale, che arricchisca la pellicola limitandosi ad assecondarne il clima, divenendo così l'erede diretto di Steiner. La terza generazione hollywoodiana283 (1960-1980) è caratterizzata da un linguaggio cosmopolita, che emerge dal particolare periodo storico, il quale è caratterizzato da fenomeni più rilevanti, che già si erano imposti nel ventennio precedente e che in questi anni si affermano con maggiore incisività: la popular music, la musica rock, il jazz, stilemi provenienti dalla musica colta del primo Novecento e l'uso più frequente di accompagnamenti composti elettronicamente. La presenza nel cinema della popular music non è una novità, difatti da The Jazz Singer in poi le relazioni tra un film e una o più canzoni hanno rappresentato una costante, perciò la vera novità di questo ventennio è l'espansione dell'industria discografica, con i conseguenti legami sempre più stretti con le case di produzione, che porteranno ad acquisizioni e fusioni284. L'attrattiva della popular music, esercitata da Hollywood, nasce da un'esigenza di attirare pubblico sempre più giovane, che si stava allontanando dai cinema e, allo stesso tempo, di riuscire a mantenere un'attrattiva verso 283 Raggruppa i compositori: Elmer Bernstein, Henry Mancini, Leonard Rosenman, Jerry Goldsmith, John Williams. 284 Miceli Sergio, Musica per film. Storia, estetica. Analisi, tipologie, Lim Editrice, Milano 2009, p.234. 143 un'altra parte di pubblico, che iniziava a spostare la propria attenzione alla neonata televisione, la quale sottraeva sempre più spettatori al cinema. Inoltre, il sistema degli studios iniziava a cedere a causa dello smantellamento dell'integrazione verticale di produzione, distribuzione e proiezione; per Hollywood l'unico modo per reagire era affidarsi alla diversificazione iniziando ad acquistare case discografiche per una promozione incrociata tra il film e la colonna sonora associata. In realtà, Hollywood aveva sempre utilizzato, limitatamente, musica popular all'interno dei propri film285, ma è solamente negli anni Sessanta che le canzoni fecero irruzione nella colonna sonora: in Breakfast at Tiffany's (1961) la canzone “Moon River” di Henry Mancini, cantata da Audrey Hepburn, ebbe un ruolo fondamentale nel film. Il brano vinse l’Oscar come “Migliore canzone” e il Grammy come “Canzone dell’anno” nel 1961. Questo uso generalizzato della canzone ebbe forti ripercussioni anche sul linguaggio musicale, contraddistinto da una musica più aggiornata e popolare nata da una fusione tra stilemi occidentali di mode e culture e svincolato dai linguaggi preesistenti. La musica da film si avvicina a quella contemporanea e diffonde quelle contaminazioni che fin dal cinema muto erano state acquisite: ragtime, blues, jazz, la riduzione degli organici, ai quali si aggiungono chitarra e basso, suoni sintetizzati e poi campionati, il rumorismo e l'uso espressivo del silenzio. Il nuovo schema che emerse nella seconda metà del Novecento favoriva la popular music, mettendo in discussione l’uso tradizionale che privilegiava la composizione originale della musica da film; la colonna sonora-compilation, come venne poi definita, si sviluppò poi tra gli anni Sessanta e Settanta e consisteva in una serie di canzoni che solitamente erano preesistenti ed extracinematografiche e che molto spesso venivano usate come musica di sottofondo. Esse ovviamente si differenziano dalla musica strumentale in quanto sono in grado di attirare l’attenzione del pubblico in modo più diretto di quanto faccia la musica di sottofondo, rendendo possibili i processi di identificazione per il pubblico del tutto nuovi e offrendo la possibilità di stabilire una relazione con la pellicola. La colonna sonora-compilation ha modificato sensibilmente la musica da film, dove la responsabilità passa dal compositore al regista e/o al direttore 285 Ad esempio in Casablanca (1942) venne utilizzata la canzone “ As Time Goes By” scritta da Herman Hupfeld nel 1931 ma che raggiunse il successo quando venne cantata dal personaggio Sam (Dooley Wilson) nel film. 144 musicale in cui le scelte delle canzoni vengono decise prima delle riprese. Ma il cinema rimane ancora il luogo di incontro privilegiato tra la musica popolare e la musica colta, gli adattamenti musicali del muto associavano con molta libertà le opere di Mozart, Beethoven o Debussy alla moda del jazz nascente, così, durante gli anni Cinquanta, il jazz degli anni Venti iniziò ad essere inserito nelle colonne sonore di film soprattutto di genere noir, polizieschi e di melodrammi metropolitani. Tra questi annoveriamo le musiche di Alex North per A Streetcar Named Desire (Un tram che si chiama desiderio, 1951) o di Elmer Bernstein per Sweet Smell of Success (Piombo rovente, 1957). Numerosi sono anche gli artisti jazz americani che realizzarono colonne sonore, come Duke Ellington per Anatomy of a Murder (Anatomia di un omicidio, 1959) o Charles Mingus per Shadows (Ombre, 1959). Con queste premesse è naturale come i film degli anni Sessanta fossero invasi da un linguaggio cosmopolita, dal quale i caratteri distintivi affioravano a seconda del contesto narrativo o del genere cinematografico. La personalità di compositori come Alex North, Elmer Bernstein, Henry Mancini, Jerry Goldsmith, John Williams, John Barry spicca in alcune circostanze irripetibili (The man with the golden arm, 1955, di Otto Preminger e Bernstein; Planet of the Apes [Il pianeta delle scimmie], 1968, di Franklin J. Schaffner e Goldsmith) e soprattutto nelle collaborazioni ricorrenti. Analizziamo ora due compositori della terza generazione americana, che con le loro opere esemplificano la trattazione precedente. Nel 1955, Elmer Bernstein si impone all'attenzione internazionale con la partitura di The Man with the Golden Arm (L'uomo dal braccio d'oro), di Otto Preminger, nel quale lo score, composto da elementi jazzistici, viene unito a sonorità ruvide, aggressive, molto lontane dalla raffinatezza timbrica del jazz, ma che portano ad un risultato finale in cui la componente musicale assume un ruolo di coprotagonista del film. Il successo giunse con la composizione Main Them per The Magnificent Seven (I magnifici sette, 1960) di John Sturges, film che ebbe un grande successo grazie al vitalismo quasi giocoso della musica, che contribuì a smorzare il modello epico-eroico del genere western. Il meccanismo drammaturgico di fondo riassume in un unico tema l'essenza del racconto, guidando il film verso l'autocelebrazione. La melodia, composta da archi, possiede caratteri di linearità e di cantabilità popolaresca della ballata country 145 e western, che vengono però smorzati con abilità grazie al contributo dei fiati, che esorbita a funzione di accompagnamento per contribuire alla spinta dinamica dell'insieme, con il contributo strategico delle pause. La diffusione di questo tema si deve all'affermazione di uno stile originale, che potrebbe essere definito lo “stile cinema” degli anni Sessanta, in cui elementi folk, pop e sinfonici si fondono con maestria. Il principio delle composizioni stilistiche e delle giustapposizioni strumentali si trova nelle composizioni di Jerry Goldsmith, ad esempio in Alien (di Ridley Scott, 1979), in cui si crea una simbiosi tale che gli effetti ambientali (strumentazioni di bordo e sottofondi continui come il “rumore del silenzio”) diventano musica. Ad esempio, nella sequenza iniziale del risveglio dallo stato di ibernazione dell'equipaggio della nave Nostromo, questa viene accompagnata da una crescita degli interventi musicali talmente graduale che non può essere avvertita come un commento esterno, ma come emanazione dell'ambiente, al pari di altri suoni ambientali. 3.3.11 Europa In Europa la situazione appare differente: da una parte il frazionamento della produzione e il diverso carattere delle cinematografie nazionali non consentono, come negli Stati Uniti, di avere un modello spettacolare che sia omogeneo e analogo a quello hollywoodiano; dall'altro la massiccia concorrenza americana rendeva impossibile il formarsi di questo modello, che allo stesso tempo era ostacolato dalla richiesta di capitali. Difatti per sfidare la cinematografia americana si richiedevano importanti investimenti da parte delle case di produzione europee, sia per le nuove strutture tecniche, sia per il personale artistico ed esperto specializzato, e questo per gli anni Trenta e Quaranta del Novecento, a ridosso dello scoppio della Seconda guerra mondiale, era inconcepibile. Si parlerà quindi di cinema europeo solo in senso geografico e non in senso artistico e produttivo, poiché durante il periodo del cinema sonoro, che si sviluppò in Europa verso la metà degli anni Trenta, vi erano due linee di tendenza, che allo stesso tempo erano sia rigide che aperte alla sperimentazione formale, la quale mutava a 146 seconda del Paese. Questo ovviamente ricadde anche nel campo della musica da film, dove non vi era una vera e propria scuola musicale come negli Stati Uniti, ma vi era la prevalenza di contributi individuali dei musicisti. Una produzione unitaria non era realizzabile in Europa non solo per le differenze tra le varie cinematografie dei Paesi, ma anche perché all'interno di ogni singolo Paese vi erano diverse case produttrici che seguivano criteri produttivi indipendenti, poco legati ad un unico codice, come invece accadeva nel sistema hollywoodiano. Inoltre, la figura del produttore, centrale ad Hollywood, aveva assunto in Europa poteri meno dominanti, lasciando un certo grado di creatività ed artisticità al regista. Così nell'ambito della musica nel cinema europeo, vi era la presenza di compositori molto attenti alle ricerche dell'avanguardia musicale o alla musica contemporanea di quegli anni; i musicisti erano meno legati a regole e codici dei modelli produttivi statunitensi e quindi molto più liberi di sperimentare eventuali soluzioni innovatrici. Caso a parte è la cinematografia della Germania che negli anni della dittatura nazista vide la propria produzione cinematografica controllata e centralizzata dal regime, con la diretta conseguenza che anche la musica dovette uniformarsi ai nuovi canoni dell'estetica del nazismo, accompagnando le immagini dei film con un ritmo calmo e disteso di carattere popolare. Tra questi ricordiamo i commenti musicali di Hebert Windt alle opere Triumph des Willens (Il trionfo della volontà, 1935) e Olympia (1938), entrambe produzioni di Leni Riefenstahl, dove i fasti del nazismo vennero rappresentati in egual misura sia dalle immagini che dalle musiche. Un cambiamento radicale e innovativo si ebbe intorno agli anni Sessanta con la nascita del Nuovo Cinema Tedesco, una corrente di cineasti indipendenti che si scontrò con le convenzioni del cinema tedesco del Dopoguerra. Il programma indipendente e anticonformista fu espresso nel Manifesto di Oberhausen (1962), il quale coinvolse naturalmente anche la colonna sonora: in questi anni si poté assistere alla creazione di partiture per strumenti antichi di Hans Werner Henze (per il film Die Verwirrungen des Zöglings Törleß [I turbamenti del giovane Törless] di Schlöndorff, 1964) o al montaggio di musica da caffè per violino e pianoforte, fatto dal regista Alexander Kluge per il proprio film Abschied von gestern (La ragazza senza storia, 1966); o ancora a canzoni classiche in versione organistica; o infine ad inserimenti nella colonna sonora di pezzi di tango o 147 musica da circo. «In Francia, la produzione di film spesso affidata ad autori originali come Renè Clair, Jean Vigo, Jean Renoir, Marcel Carné, Jacques Feyder e molti altri autori accomunati dall'attenzione per il linguaggio filmico e per le innovazioni introdotte dai movimenti d'avanguardia, consentiva un uso della musica meno legata alle tradizioni e più aderente ai temi affrontati e alle forme della realizzazione»286. Emergono perciò compositori che al cinema dedicarono un'attenzione primaria e che videro nelle nuove possibilità offerte dal rapporto tra suono e immagine un campo d'indagine aperto alla sperimentazione. Questi autori, che associavano la rappresentazione realistica della realtà con tendenze liriche, vengono raggruppati nel Groupe des Six287, che comprendeva musicisti dal calibro di Georges Auric, Darius Milhaus, Arthur Honegger, Jacques Ibert, Francis Poulenc, Maurice Jaubert. Quest'ultimo è stato quello che fra tutti fu in grado di cogliere le caratteristiche e i limiti della musica da film: il ruolo del musicista consisteva nel mantenere la propria personalità artistica e allo stesso tempo essere in grado di accompagnare l'immagine senza eclissarsi in essa. La sua scrittura musicale riusciva ad adattarsi perfettamente alla dialettica visiva del film, come dimostrano le partiture musicali di Le dernier milliardaire (L'ultimo miliardario, 1933) e Quatorze juillet (Per le vie di Parigi, 1934) di Renè Clair; Zéro de conduite (Zero in condotta, 1933) e L'Atalante (1934) di Jean Vigo; Hôtel du Nord (Albergo Nord, 1938), Le Quai des brumes (Il porto delle nebbie, 1938) e Le jour se lève (Alba tragica, 1939) di Marcel Carné. Nonostante certe differenze determinate dalla diversità dei film stessi, le peculiarità del compositore si possono riassumere nel rifiuto del continuum musicale, il ridimensionamento della funzione leitmotivica e la riduzione degli organici impiegati. Sul piano formale Jaubert rappresenta espressioni diverse della musica francese del primo Novecento, che unisce l'essenzialità della scrittura di Satie e un substrato popolare, che si percepiscono nel rilievo melodico, nei timbri (saxofono e bandonéon) e 286 Rondolino Gianni, Cinema e musica. Breve storia della musica cinematografica, Utet Università, Torino 1991, p.88. 287 Il gruppo si forma nel 1916 sotto il patrocinio di Erik Satie e raggruppa giovani compositori che inizialmente erano Louis Durey, Honegger, Auric e Germaine Tailleferre. Quando l'anno successivo Satie si dissocia dal gruppo, nei programmi dei concerti si aggiunsero i nomi di Poulenc e Milhaud. Nel 1920 il critico Henri Collet in un articolo su Comedia sancisce l'unione dei sei accomunati da un linguaggio musicale solido, netto, che si distanzia dalla musica di Debussy e Wagner. 148 nei riferimenti stilistici, dando vita allo specialismo musicale. Nella celebre sequenza della rivolta di Zéro de conduite, Jaubert utilizza lo stesso organico della pellicola Le petit chaperon rouge (flauto, clarinetto, oboe, fagotto, tromba, trombone, violino, violoncello, arpa, pianoforte e percussioni) e vi inserisce la registrazione del valzer in senso retrogrado, ovvero dall'ultimo suono al primo. Il vertice del sodalizio Vigo-Jaubert si realizza ne L'Atalante dove alla netta separazione fra episodi interni ed esterni vi è anche la contrapposizione tra istanze narrative e musicali, che permettono di superare il principio di funzionalità tematico. Ad esempio, nella prima sequenza dell'uscita del corteo nuziale dalla chiesa, la Marcia e la parte corale dell'Andantino appaiono in successione, a livello interno, ma mentre i due sposi si avvicinano alla chiatta il Tema d'amore viene affidato a livello esterno da un saxofono. Con i film di Carnè, Le Quai des brumes e Le jour se lève, il compositore torna alla più netta distinzione fra interventi musicali di livello interno (diegetico) e livello esterno (extradiegetico) e alle relative caratterizzazioni tematiche. Ad esempio focalizziamoci su Le Quai des brumes, il quale si limita a due temi: il Tema di Jean che è una marcia di ottoni, ispirata alla canzone marinara Le corsaire, Le Grand Coureur, che ha un carattere epico-eroico legato al personaggio di Jean; mentre il Tema d'amore è protagonista nella scena in cui Jean manifesta i suoi sentimenti a Nelly e in quella del Luna Park dove i due si baciano. Questo tema si presenta come una musica priva di lirismo, atta ad anticipare la storia infelice della coppia. Il passaggio da il livello interno a quello esterno avviene all'inizio della sequenza del Luna Park e mentre la coppia si fa fotografare, è udibile la java dell'Atalante che giunge da una balera attigua. Il film è intonso di allusioni diegetiche, create dal passaggio dello stesso canto popolare, dall'ambiente di un film ad un altro, fino a quelle extradiegetiche composte dalle associazioni tra le imbarcazioni. In Francia lo specialismo musicale, riconducibile al nome di Maurice Jaubert, il periodo in cui stilemi colti e popolari si fondono insieme, sarebbe stato riscoperto da molti compositori a partire dagli anni Cinquanta nel clima fervido della Nouvelle Vague francese. In questi anni, gli autori di musica per film etichettati come modernisti rifiutavano le tradizionali funzioni della musica nel cinema, come quella di creare emozioni e atmosfere, per prediligere composizioni musicali che creassero un effetto di 149 straniamento. Ad esempio, Hanns Eisler per la colonna sonora del film di Resnais Nuit et brouillard (Notte e nebbia, 1955) sottolinea le immagini delle parate naziste con un improvviso pizzicato di archi. La Nouvelle Vague francese è l’esempio perfetto del modo in cui, nella seconda metà del Novecento, scelte registiche anticonvenzionali abbiano trovato espressione anche attraverso la colonna sonora. Registi come François Truffaut, Claude Chabrol, Jacques Rivette, Alain Resnais e sopratutto Jean-Luc Godard hanno cercato partiture iconoclaste per questo approccio rivoluzionario al soggetto, alla costruzione e allo stile del film288. Georges Delerue è il compositore che più di tutti è stato in grado di adattarsi alle esigenze dei registi della Nouvelle Vague, autori le cui manifestazioni sentimentali vanno di pari passo con quelle psicologiche, creando un commento musicale essenziale e simbolico. Il legame tra il compositore e Truffaut è ben solido e i due collaboreranno per oltre un ventennio, a partire da Tirez sur le pianiste (Tirate sul pianista, 1960) fino a La femme d'à côté (La signora della porta accanto, 1981). Un esempio di raro equilibrio tra il regista e il compositore si trova in Jules et Jim (Jules e Jim, 1961), dove il commento musicale è associato a temi, in tonalità maggiore o minore a seconda del clima di fondo, che assumono una funzione leitmotivica assoluta. Delerue rinuncia ad un commento forte di livello esterno anche in Le Dernier métro (L'ultimo metrò, 1980), nel quale la canzone Mon amant de Saint-Jean viene inserita nei titoli di testa, in una scena in cui Marion e Lucas ascoltano la radio e in un episodio con musica diegetica per strada. «I connotati stilistici di Delerue si possono riassumere in un melodismo raffinato e rarefatto, che tende ad identificarsi con l'essenzialità di un motivo più che con l'articolazione di un tema; e se di tema si tratta esso è generalmente formato da due soli segmenti»289. Da questo punto di vista il compositore può essere visto come l'erede di una tradizione nascente da Satie e che si è manifestata nel cinema degli anni Trenta con Jaubert e Auric, basata sulla negazione dell'espressività musicale ottocentesca. A questo, Delerue contrappone una sorta di neoromanticismo, spoglio di retorica e per questo adatto alle caratteristiche della Nouvelle Vague. 288 Kalinak Kathryn , Musica da film, una breve introduzione, Edizione Edt, Torino 2001, pp.89-90. 289 Miceli Sergio, Musica per film. Storia, estetica. Analisi, tipologie, Lim Editrice, Milano 2009, p.292. 150 In Italia, il primo film sonoro è La canzone dell'amore (1930) di Gennaro Righelli, la cui partitura musicale fu affidata a Cesare Andrea Bixio, già compositore di notevole fama per le sue melodie dal gusto popolare e alla moda. Celebri sono i suoi interventi per il cinema, in particolare per i film Gli uomini che mascalzoni (1932) di Mario Camerini; Vivere (1936), La mia canzone al vento (1939), Cantate con me (1940), Mamma (1941) tutte realizzazioni di Guido Brignone. Di simili melodie vi sono poi altri musicisti italiani che lavorarono nel campo del cinema: Ezio Carabella compose le partiture per alcuni film di Camerini, ad esempio T'amerò sempre (1933) o Come le foglie (1934); Alessandro Cicognini che fu collaboratore musicale di Alessandro Blasetti, ricordiamo le sue musiche per la pellicola Ettore Fieramosca (1938), e fu autore poi per numerosi film del neorealismo cinematografico italiano; ricordiamo poi Giuseppe Rosati, compositore di musica sinfonica, fra razionalismo e romanticismo, che fu autore delle composizioni più interessanti negli anni tra fascismo e antifascismo, come per esempio Malombra (1942) di Soldati, Ossessione (1943) di Luchino Visconti, Caccia tragica (1947) di Giuseppe De Santis. Con il compositore Rosati si entra nel campo più complesso e più specifico della musica “colta”, poiché egli rientra nella sfera di azioni di quei musicisti da camera e sinfonici, operisti e compositori di grande notorietà. In Italia la collaborazione tra queste figure professionali e il settore cinematografico, che ricordiamo sorse fin dai tempi del cinema muto, si prolungarono anche durante gli anni del fascismo, senza però attirare particolare attenzione dal punto di vista dei risultati ottenuti. Di nostro interesse appare invece la stagione italiana del Neorealismo. In questa nuova “corrente” anche la funzione della musica da film si modificò in quanto il realismo stesso delle immagini, che rimandavano alla realtà quotidiana, richiedevano un diverso uso della musica di fondo che fosse il più possibile aderente alla quotidianità. Questo portò i compositori ad usare i rumori reali integrandoli nella musica o isolandoli da essa, nel tentativo di far assumere al rumore la stessa funzione drammaturgica del suono. È interessante il lavoro che il musicista Goffredo Petrassi ha svolto in collaborazione con il regista Giuseppe De Santis. Le musiche composte per Riso amaro (1949) e Non c'è pace fra gli ulivi (1950) si basano su canti popolari, rielaborati secondo caratteristiche strutturali di evidenza drammaturgica; inoltre per il primo film vi è il 151 recupero dei canti popolari delle mondine con musica jazz e del boogie-woogie messe in relazione proprio a quel realismo, caro a De Santis e ai cineasti che volevano rappresentare una visione reale e fedele della vita. Non mancano, in Riso amaro, i topoi del thriller con temoli e pizzicati d'archi su segmenti accordali di ottoni, che non appartengono alla sostanza espressiva della sfera diegetica né a quella extradiegetica. Inoltre sul piano delle macro scansioni drammaturgico-musicali si lascia che a un canto delle mondine a livello interno faccia seguito, senza soluzione di continuità, un intervento di livello esterno di alto spessore musicale, creando una difformità stilistica, in quanto, se il canto delle mondine appare plausibile nel contesto, risulti impossibile non avvertire l'artificio del secondo intervento musicale. Nel 1967 il compositore Cicognini riassunse così l'esperienza neorealista: Io ho musicato Ladri di biciclette, Miracolo a Milano, e altri film di Vittorio De Sica e devo dire che per qualche film sento, oggi, con un giudizio critico diverso, che la coesione tra l'immagine e il linguaggio musicale forse può dare luogo a qualche critica. Devo però ricordare che noi musicisti, e forse non solamente noi musicisti, abbiamo partecipato al movimento neorealista senza renderci conto di che cosa fosse veramente, agli effetti della storia della cinematografia. Quindi abbiamo in un certo senso continuato una tradizione che però si è via via modificata secondo anche i film. La musica di Miracolo a Milano è totalmente diversa, e così la musica di Prima Comunione. Rimane certo il fatto che per un blocco di film la musica offre questo strano giudizio, è, cioè, una musica che, pur non essendo estremamente unita all'immagine, conserva però certi valori innanzitutto nazionali, valori che forse oggi vanno ponendosi nella cinematografia italiana290. Il commento di Cicognini sulla musica neorealista può trovare un riscontro in un classico del neorealismo italiano, il film di Roberto Rossellini Stomboli - Terra di Dio (1950), nel quale il suono non corrisponde a nessuno dei criteri ad essa collegati: vi è una musica semi-operistica e semi-impressionistica di Renzo Rossellini, il cui legame con le immagini risulta approssimativo. La sinfonia non sottolinea i dialoghi o i conflitti tra i personaggi, ma ne accompagna le sequenze in modo generico ed impreciso e i rumori hanno solo funzione narrativa; ad esempio quando la protagonista viene portata dal marito nell'isola, si sente poco prima il pianto di un bambino, che rimanda alla 290 Citato in Miceli Sergio, Musica e cinema nella cultura del Novecento, Sansoni, Milano 2000, p.337. 152 richiesta successiva dell'uomo di avere un figlio. Fin dagli anni del muto, il repertorio musicale classico e romantico è stato utilizzato con lo scopo di dare alle immagini del primo cinematografo un supporto sonoro adatto e spettacolarmente efficace. Tuttavia, in alcuni casi, si ricorreva al repertorio classico e romantico per determinare musicalmente un ambiente storico o per definire un personaggio; la musica diventava perciò mezzo indispensabile di ricerca storico-ambientale. Nel cinema d'autore italiano di questo decennio emerge, per l'uso sapiente della musica, la figura di Luchino Visconti, in cui prevale una necessità ambientale e un netto bisogno di impiegare la musica di repertorio con funzione storica, ma allo stesso tempo accompagnato dalla ricerca di dare un senso drammaturgico alle immagini. Si pensi all'uso del Trovatore di Verdi e alla Sinfonia n.7 in mi maggiore di Bruckner per Senso (1954). Nel film l'ambientazione de Il Trovatore avviene a Venezia, dando un'informazione di carattere storico: siamo nel 1866 perché è quella la data in cui l'opera fu presentata per la prima volta a Venezia. Questo uso di citazioni musicali per identificare i periodi storici lo ritroviamo anche nei suoi film successivi: il valzer di Verdi nella sequenza del ballo nel Gattopardo (1963); o i brani di Chopin, Mozart, Liszt, Gluck in L'innocente (1976). Al contrario, l'uso della musica classica estrapolata dal suo contesto storico e ambientale e inserita in un nuovo contesto, estetico e simbolico, crea un nuovo repertorio di situazioni filmiche. Questo lo ritroviamo fin dalla prima rappresentazione di Pier Paolo Pasolini: in Accattone (1961), la musica di Bach viene impiegata per sottolineare la violenza della lotta di due uomini nella polvere. Essa acquista un valore di tipo drammatico all'interno della scena e al tempo stesso colpisce la rispettabilità della musica classica attraverso un'operazione di demistificazione; inoltre la colonna sonora affianca alla musica colta anche ritmi blues e jazz con canti popolari cantati direttamente dai personaggi del film. Nell'opera successiva tale operazione si ripete, ma questa volta l'uso della musica di Bach e Vivaldi in Mamma Roma (1962) acquista un valore leitmotivico legato ai protagonisti. Con La Ricotta (1963) Pasolini contrappone alle deposizioni “sacre” dei tableaux vivants le composizioni musicali dell’Eclisse twist di Giovanni Fusco sul Rosso Fiorentino e il RoGoPaG twist di Carlo Rustichelli sul Pontormo, in cui l'errore del contrappunto musicale diventa un problema diegetico 153 commesso dalla troupe cinematografica intenta a girare la scena. Tra alcuni sodalizi celebri che nascono fra autore e compositore, ricordiamo quello tra Nino Rota e il regista Federico Fellini, la quale è caratterizzata da una sorta di vera e propria simbiosi contenutistico-formale tra i due, che sfocia in un rapporto tra immagine e suono di grande valore spettacolare. Nel cinema europeo il compositore gode di maggiore libertà espressiva rispetto agli Stati Uniti, al punto che i sodalizi tra cineasta e compositore conducono all'individuazione di ricorrenze linguistiche e narratologiche. Altro caso analogo è il rapporto tra il musicista Giovanni Fusco e il cineasta Michelangelo Antonioni, accomunati dalla medesima ricerca nel raggiungere un rigore formale assoluto, in cui elementi filmici e musicali seguono lo stesso principio estetico nella linea di sviluppo della storia e nei sentimenti dei personaggi. A questo proposito, nel 1961 il regista dichiarava: Io penso che la musica ha avuto e può continuare ad avere una grande funzione nel cinema perché non c'è arte alla quale il cinema non possa attingere. Nel caso della musica poi, attinge quasi materialmente, quindi il rapporto è ancora più stretto. Mi pare però che questo rapporto si vada trasformando. Dieci anni fa […] si chiedeva alla musica di creare nello spettatore una particolare atmosfera, per cui le immagini arrivassero più facilmente allo spettatore stesso. […] Personalmente sono molto restio a mettere musica nei film, proprio perché sento il bisogno di essere asciutto, di dire le cose il meno possibile, di usare i mezzi più semplici e il minore numero di mezzi. E la musica è un mezzo in più. Io ho troppa fiducia nell'efficacia, nel valore, nella forza e nella suggestività dell'immagine per credere che l'immagine non possa fare a meno della musica291. Così Fusco per i film Cronaca di un amore (1950), I vinti (1952), La signora senza camelie (1953), Le amiche (1955), Il grido (1957), L'avventura (1960), L'eclisse (1962) e infine per Deserto rosso (1964) mette in atto uno dei primi processi di autoriduzione della scrittura musicale, ovvero una rinuncia al protagonismo, alla materia tematica e all'enfasi per rispettare la suddetta poetica di Antonioni. Ad esempio, in Cronaca di un amore la musica minimalista di Fusco, scritta per un duo di pianoforte e sassofono appare molto spesso isolata in alcune scene, non solo per il suo uso non diegetico, ma anche perché quando le scene si spostano nella sala da ballo, accompagnata da musiche dallo stile sud-americano popolare, appare evidente la 291 Citato in Tinazzi Giorgio, Michelangelo Antonioni, La Nuova Italia, Firenze 1974, pp. 5,6. 154 differenza con la partitura minimale di Fusco. Non si può poi non citare il compositore italiano Ennio Morricone, la cui notorietà giunge con la serie di colonne sonore per gli spaghetti-western di Sergio Leone, che rimangono ancora oggi dei capolavori della musica da film. Morricone usò tecniche moderniste (come il serialismo integrale e la musica concreta) combinate con elementi di popular music, influssi folk, canti celtici, canto gregoriano, trombe mariachi e orchestre sinfoniche. Per esempio, in The Good, the Bad & the Ugly (Il buono, il brutto e il cattivo; 1966) Morricone utilizzò una melodia convenzionale, ma suonata da una chitarra elettrica, da un’armonica, un’ocarina accompagnati da strumenti ancora meno convenzionali come fischi, jodel, grugniti, vocalizzazioni, schiocchi di frusta e fucilate. Nella trilogia del dollaro292 di Leone, le musiche per i titoli di testa sono formate da tre segmenti autonomi, giustapposti e poi sovrapposti: il primo è di carattere arcaico ed è sempre affidato a strumenti “poveri” come il fischio umano, il marranzano, l'argilofono, le percussioni prese da strumenti della quotidianità, la chitarra acustica, l'armonica a bocca; il secondo attualizza il primo con il timbro rock della chitarra elettrica; il terzo infine è più convenzionale e celebrativo affidato ad un coro maschile vocalizzante e all'orchestra d'archi. Morricone, con le sue originali composizioni composte da peculiarità timbriche, ritmiche e melodiche, intese recuperare e valorizzare la tradizione che dominerà il panorama musicale fino agli anni Ottanta. Difatti un ulteriore fenomeno che appare negli anni Sessanta è la presa di coscienza della musica come sonorità, della quale Ennio Morricone è il miglior esponente, grazie all'uso di strumenti usati da soli (armonica, chitarra elettrica, pianola nei film di Sergio Leone), oppure del pianoforte unito a strumenti a corda; nel suono mette inoltre in primo piano la risonanza, il timbro, l'esistenza propria della melodia, che porta la musica da film allo stesso livello degli elementi che la costituiscono. Per quanto concerne la musica cinematografica inglese, essa si sviluppò intorno agli anni Trenta lungo un duplice binario: il perseguimento nello svolgere di canzoni, operette, vaudevilles in linea con la tradizione sinfonica e leggera e il tentativo di un rinnovamento formale. In quest'ultimo caso si assiste, come per la musica 292 Raggruppa i film di Sergio Leone: Per un pugno di dollari (1964), Per qualche dollaro in più (1965), Il buono, il brutto, il cattivo (1966). 155 cinematografica francese, tedesca o italiana, ad una “scuola” che non prendeva in uso modelli hollywoodiani, ma erano principalmente legati ai caratteri propri della tradizione del Paese. In questo contesto ricordiamo Arthur Bliss con la partitura di Things of Come (1935) del regista William Cameron Menzies e Hubert Bath, considerato uno dei pionieri della musica cinematografica inglese. Bath lavorò alla partitura per Blackmail (Ricatto, 1929) di Alfred Hitchcock: si tratta del primo film sonoro del regista e, proprio perché l'anno di realizzazione di questo è da collocarsi al momento dell'avvento del sonoro, la colonna sonora si ritrova a rispondere comunque ai prinicìpi del muto, difatti nei primi film sincronizzati a posteriori, la musica era composta con la finalità di integrare l'azione, sostituendosi alla parola nelle scene in cui essa non era ancora presente. Significativo è l'episodio in cui a Scotland Yard si identifica il presunto assassino e mentre viene accompagnato in cella una parte della melodia viene usata, in assenza di dialogo, per accompagnare l'affermazione dell'ufficiale di polizia e la relativa risposta dell'arrestato. Un altro fenomeno che ha avuto delle ripercussioni sul rapporto tra la musica e il cinema è la collocazione culturale (e produttiva) dei registi inglesi che, nonostante gli esiti differenti delle loro opere, hanno contribuito ad alimentare la cultura della musica cinematografica. Pensiamo ad esempio a Stanley Kubrick: nonostante le origini statunitensi del regista, lo inseriamo nella cinematografia anglosassone, in quanto egli stesso si definiva naturalizzato britannico. Il grande cineasta ha attinto dal repertorio di musica classica e moderna, inserendole nei propri film in modo strettamente funzionale al ritmo e alle cadenze delle sue sequenze. In 2001: A Space Odyssey (1968) il Richard Stauss di Così parlò Zarathustra si mescola con Ligeti del Requiem, di Lux Aeterna, di Atmosphères e questi con Johann Staruss di Sul bel Danubio blu e col Khačatur'jan di Gayaneh, creando citazioni musicali meravigliose. L'uso del celebre valzer di Strauss nella sequenza della navicella è riconducibile al fatto che il valzer appunto è una danza rotatoria e per questo accompagna il movimento circolare dell'astronave; inoltre esso è anche la danza di corteggiamento per eccellenza nell'Ottocento, ed è questo che in qualche modo richiama la sequenza dell'astronave che entra-penetra nella base. In A Clockwork Orange (1971) il cineasta usa la Nona Sinfonia di Beethoven, manipolata al sintetizzatore da Walter Carlos, brani di Rossini e di Purcell con lo scopo 156 di integrarli con le sequenze del film in modo da creare associazioni di tipo psicologico nello spettatore: ad esempio la musica del Guglielmo Tell di Rossini accompagna i momenti più struggenti della vita di Alex, mentre La Gazza ladra viene associata alla sua violenza. Al contrario l'Inno alla gioia di Beethoven viene attribuito al mondo distorto di Alex, ad esempio quando nel protagonista vi è gioia nel guardare le parate naziste. Altra scuola è quella sovietica, nella quale il cinema sonoro sviluppatesi lungo gli anni Trenta venne indirizzata verso un percorso contenutistico e formale piuttosto rigido, secondo i canoni del “realismo socialista”, che influenzò tutte le arti, comprese quelle musicali, al punto che la gran parte delle colonne sonore tra gli anni Quaranta e Cinquanta era caratterizzata dai medesimi toni celebrativi. In questi anni però emersero due figure che sperimentarono il sonoro sia dal punto di vista estetico che tecnico, questi sono i compositori Juri Shaporin e Sergei Prokof'ev. Il film di Vsevolod Pudovkin, Dezertir (1933) realizza in parte i principî del Manifesto dell'asincronismo (1928), esposto in precedenza nel sottocapitolo dedicato alle teorie inerenti alla musica. La colonna sonora composta da Juri A. Shaporin incorpora alla musica rumori concreti e reali, ad esempio quelli delle miniere di estrazione del carbone, che vengono usati in opposizione alle immagini: ad esempio i cortei festivi vengono associati ai rumori della fabbrica, mentre il lavoro è unito alla pomposità della manifestazione del Primo Maggio. Pudovkin crea poi effetti musicali montando fischi di vapore e sirene insieme, oppure mescola alle parole di un discorso, pause, rumori di sottofondo e borbottii. Ritroviamo le caratteristiche del manifesto dell'asincronismo anche nelle scene più tragiche, le quali vengono accompagnate da un contrasto musicale: la drammaticità del suicidio di un lavoratore ridotto allo sfinimento dalla fame sono in contrapposizione con la melodia dal ritmo latino-americano, che il compositore alternata alla musica jazz. L'effetto anempatico, termine di Chion che abbiamo analizzato in precedenza, lo ritroviamo nella scena in cui i giornali riferiscono notizie relative al contrabbando, e dove la musica scelta è spensierata per poi interrompersi bruscamente e riprendere il suo corso; così avviene anche nella scena della parata del Partito Comunista, nella quale gli operai e i soldati sono accompagnati 157 dalla Carmen di Georges Bizet. Ricordiamo anche i contributi di Sergei Prokof'ev, che lavorò per i film di Sergej Michajlovič Ėjzenštejn, Aleksandr Nevskij (1938) e Ivan Groznij dove per entrambi i film il tentativo di stabilire un rapporto fra le sequenze e i ritmi musicali risulta di notevole forza espressiva. Per Aleksàndr Nevskij, prima pellicola sonora del regista, Ejzenštejn applica quello che definirà montaggio verticale, il quale si compone sulla falsariga di una partitura d'orchestra, che determina equivalenze fra il contesto visivo e quello sonoro, ottenuta con una «struttura polifonica che raggiunge l'effetto tramite la sensazione composita di tutti i pezzi nel loro insieme. Questa “fisionomia” della sequenza completa è data dalla somma delle singole caratteristiche e della sensazione generale suscitata dalla sequenza»293. In uno scritto postumo, il regista torna sull'argomento: Non porta […] alcuna differenza che il compositore scriva la musica per il “tema generale” della sequenza o per la sequenza già ordinata in montaggio, abbozzato o definitivo che sia; o, se il procedimento è stato seguito all'inverso, che il regista proceda al montaggio visivo sulla musica già scritta e incisa sulla colonna sonora. E a questo proposito vorrei dire che in Aleksàndr Nevskij furono impiegati tutti, letteralmente tutti, questi diversi metodi. Nel Nevskij infatti, vi sono tanto sequenze in cui le inquadrature furono montate sulla colonna sonora già precedentemente incisa, quanto sequenze per le quali l'intero pezzo musicale fu scritto dopo che il montaggio delle immagini era stato effettuato. E vi sono sequenze che comprendono entrambi i metodi. Vi sono perfino delle sequenze costruite con un procedimento tale da costituire elemento aneddotico. Un esempio di quest'ultimo metodo è nella scena della battaglia, allorché, per festeggiare la vittoria dei soldati russi, vengono suonati i tamburi e i flauti. Io non riuscivo a spiegare a Prokof'ev quale effetto preciso doveva essere “visto”, per questo momento di esultanza, nella musica. Accorgendomi che nessuno di noi due veniva a capo di nulla, feci costruire appositamente degli strumenti, li ripresi mentre venivano suonati (senza incidere il suono) visivamente, e feci proiettare il risultato per Prokof'ev. Questi allora, mi consegnò quasi immediatamente “l'equivalente musicale” dell'immagine visiva dei suonatori di flauti e tamburi, che io gli avevo fatto vedere294. È esplicita l'ammirazione che il regista ha nei confronti della musica ed è per 293 Ėjzenštejn Sergej Michajlovič, Forma e tecnica del film e lezioni di regia, 1939; (trad.it.) Einaudi, Torino 1964, p.270. 294 Ėjzenštejn Sergej Michajlovič, Forma e tecnica del film e lezioni di regia, 1939; (trad.it.) Einaudi, Torino 1964, pp.322-323. 158 questo che Ejzenštejn la utilizzava come qualsiasi altra componente espressiva, servendosene in sottordine o in primo piano in una continua alternanza di ruoli. La colonna sonora di Prokof'ev, dal titolo omonimo al film, è stata realizzata sulla base di studi su filmati preesistenti, bozzetti o descrizioni fattegli dal regista in modo che il compositore oscillasse tra una posizione di massimo coinvolgimento e una di massima autonomia dall'aspetto filmico. La struttura del film viene incontro al musicista, per cui egli può concentrarsi su una successione di episodi che generano forme musicali chiuse o autosufficienti, ad esempio pensiamo all'aria del mezzo soprano Il campo della morte calato in quel preciso contesto filmico. 159 3.4 Godard e la musica: compositore di cinema Jean-Luc Godard inizia a sviluppare uno studio verso un'estetica del suono a partire dai suoi primi lavori, per giungere ad un'estetica personale con Prénom Carmen. La sua estetica si basa su un triplice approccio: quella dell'artista, il suo lavoro e il suo rapporto con la storia295. Il suono, in Godard, diviene espressione soggettiva dell'artista, che esterna attraverso la simultaneità di diversi eventi sonori oppure con la segmentazione dello stesso suono. I suoi processi di rottura riescono a fondersi in un unico universo musicale, una separazione e riparazione del suono che si accompagna al montaggio dell'immagine stessa. Con questo metodo, di montaggio e smontaggio degli elementi, il regista crea nuovi oggetti sonori ed individuali, segmenti che non sono né primari, né la somma dei loro componenti. I due monologhi di Made in Usa (1966) sono ad esempio la giustapposizione egualitaria di due discorsi distinti, che possono essere ascoltati separatamente o insieme. La difficoltà di una differenziazione tra i due monologhi rafforza la percezione della sonorità globale. Per le sue caratteristiche, il suono godardiano può essere associato alla musica di campionamento, ovvero quando parti di una composizione musicale o di suoni vengono miscelate per dare vita ad una nuova composizione. Questa pratica può essere considerata l'equivalente della citazione in letteratura o del collage in pittura. L'estetica del suono in Godard si basa quindi su il missaggio di suono, musica e immagini. Questo mix ha una un'origine antica e profonda che ricerchiamo nel montaggio. Come abbiamo potuto osservare in precedenza, i cineasti che trattano con molta libertà la tecnica del montaggio sono anche i più audaci nell'utilizzo della musica. Pensiamo alle teorie formulate da Ejzenštejn296, che aveva fatto del suddetto il fulcro del suo discorso teorico, il quale sosteneva l'idea di un assemblaggio delle immagini scomposto, privo di una linearità temporale, costruito in modo tale che sia lo spettatore a partecipare attivamente alla “ricostruzione” del film, attraverso nuove associazioni di idee e di emozioni da esso provocate tramite il turbamento della nuova tecnica. Allo stesso modo, 295 Secondo Serrut Louis-Albert, Jean Luc Godard. Cineaste acousticien: des emplois et des usages de la matières sonore dans ses oeuvre cinématographiques, L'Harmattan, Paris 2011, pp.324-237, (traduzione nostra). 296 In questo caso ci riferiamo ala teoria del montaggio delle attrazioni formulata nel 1923. Per un approfondimento sull'argomento si consiglia il testo di Antonio Somaini, Ejzenstejn. Il cinema, le arti, il montaggio, Einaudi, Torino 2011 e di David Bordwell, The cinema of Eisenstein , Harvard Univ. Press, London 1993. 160 nel Manifesto dell'asincronismo297 egli sostiene che il suono asincrono, oltre ad essere un elemento importante del montaggio, favorisca il perseguimento dell'obiettivo, sostenuto anche per la montatura delle immagini, di dimostrazione dell'artificialità del cinema allo spettatore, generando conflitti espressivi in grado di provocare sensazioni nuove. Ritengo perciò doveroso soffermarci sull'utilizzo innovativo che Godard fa del montaggio per poter così approdare ad una comprensione che sia sufficientemente esaustiva del suo legame, prima con il suono e, poi, con la musica. L'uso iconoclasta e consapevole di tale tecnica da parte dell'artista si basa sulla frammentarietà della tecnica che conduce lo spettatore ad un distacco critico dall'opera cinematografica: il cineasta privilegia i falsi raccordi, i jump cuts, i salti di montaggio, le panoramiche a schiaffo, l'uso del piano sequenza-mobile e le ripetizioni di brevi sequenze come refrain; tecniche che lo portano a sperimentare soluzioni visive e sonore nuove. Così come la tecnica si contrappone alle impostazioni convenzionali, anche con il suono Godard tenta di contrapporsi alla postsincronizzazione del cinema classico. Caratteristica essenziale dei suoi primi film, ma anche dell'intera Nouvelle Vague, è il suono in presa diretta, ovvero registrato contemporaneamente all'immagine. A causa del ritardo della cinepresa 35 mm in fatto di presa diretta, le prime opere degli anni Sessanta sono però tutte postsincronizzate; così i cineasti della Nouvelle Vague si limitavano solo, al momento delle riprese, a registrare una colonna-guida, scelta che venne anticipata dallo stesso Godard alla fine degli anni Cinquanta, la quale causava tuttavia un asincronismo tra immagine-suono. Per un perfezionamento tecnico si dovette aspettare la fine degli anni Sessanta, ma ancora una volta è Godard ad anticipare la tecnica: nel 1961 e nel 1962 realizza i film Une femme est une femme e Vivre sa vie totalmente in presa diretta, raggiungendo un risultato clamoroso. È una rivoluzione nell'estetica del sonoro, il quale si fonde con i rumori del bar, del flipper, delle strade e delle automobili. «Nasce il “suono-Godard”, che si porta appresso la lingua e il parlato francesi risentiti e rigustati ex novo»298. A proposito di Vivre sa vie, Godard dirà: 297 Ricordiamo che il Manifesto dell'asincronismo venne teorizzato da Ejzenštejn e Pudovkin nel 1928, in cui si perseguiva l'idea che il suono messo in contrappunto con il montaggio potesse creare una perfetta fusione tra immagine e musica. 298 Gilodi Renzo, Nouvelle Vague: il cinema, la vita, Effatà editrice, Cantalupa, Torino 2007, p.90. 161 Nel mio film bisogna sentir parlare le persone, tanto più in quanto esse si trovano spesso di spalle e non si è distratti dai volti. Il suono invece è il più realistico possibile. Mi fa pensare a quello dei primi film parlati. Mi è sempre piaciuto il suono nei primi film parlati, aveva una grande verità, perché era la prima volta che al cinema si sentiva parlare qualcuno299. La parola è un altro suono fondamentale nell'estetica di Godard, la sua riflessione sulla natura del linguaggio in rapporto alla realtà può riassumersi in queste brevi righe scritte dal regista: Nei primi film parlati non si capivano tutti i dialoghi, e questo la gente lo trovava meraviglioso. Adesso, invece, la gente crede che, se si pronuncia una parola, questa debba sempre avere un significato preciso, e che se sfugge è la catastrofe. Si tratta di una falsa idea del cinema. Quando si sente la Carmen, all'Opéra, non si capisce niente di quel che dicono i cantanti, e la gente non è affatto irritata. Se questa stessa Carmen fosse portata al cinema, la gente direbbe di non aver capito nulla. Al cinema c'è il suono e l'immagine300. La parola, o meglio il linguaggio, con le sue dinamiche ricche di paradossi visuali sarà analizzata con maggiore specificità nel prossimo capitolo dedicato alla letteratura. Ci soffermeremo ora su quella “sonorità” che Godard dona alla parola e ai dialoghi, che molto spesso l'ha visto sfociare, dal punto di vista tecnico, nel monologo interiore. «Egli rimane affascinato dalla libertà del monologo interiore e dall'efficacia emotiva di una postsincronizzazione dei dialoghi in Jean Rouch e nel suo film Moi, un noir301 (1958), al punto che ne trae ispirazione per il suo Charlotte et son Jules (1958), dove ha l'audacia di doppiare egli stesso Jean-Paul Belmondo» 302. Anche con Le petit soldat prosegue le ricerche sulla postsincronizzazione, usando la voce interiore come diario personale del protagonista, accompagnato da una partitura per pianoforte di Murice Le Roux. «Nella rete delle varie sonorità che attraversano i film godardiani, possiamo udire talvolta anche i pensieri dell'interiorità dei personaggi, come gli interrogativi e le idee dell'autore stesso sul film che sta realizzando o che ha realizzato: Godard insinuerà costantemente, soprattutto nei suoi primi film, il suono della voce di un narratore, che coincide più o 299 Citato in Gilodi Renzo, Nouvelle Vague: il cinema, la vita, Effatà editrice, Cantalupa, Torino 2007, p.90. 300 Godard Jean-Luc, Il cinema è il cinema, I Garzanti Cinema, Milano 1981, pp.230-231. 301 Rouch per il film chiede agli attori di doppiarsi dopo le riprese in assoluta libertà. 302 Marie Michel, La Nouvelle Vague, Lindau, Torino 1998, p.106 162 meno palesemente con se stesso (Bande à part, Deux ou trois chose que je sais d'elle), aggiungendola o sovrapponendola a scritte e cartelli e accostandola alle voci interiori dei personaggi o delle “presenze” dei suoi film»303. Nel periodo maoista304 (1967-74), Godard crea nei dialoghi effetti di straniamento, in cui molto spesso i personaggi si rivolgono ad un interlocutore esterno al film (La Chinoise). Ma è con il gruppo Dziga Vertov che egli privilegia la parola, il suono, rispetto all'immagine, in quanto sente la necessità di «istituire l'immagine come referente della parola, ottenendo così di allontanare il reale dall'immagine innocente, la quale invece intende avvicinarlo: designare l'immagine attraverso il suono vuol dire […] rendere più arbitraria la motivatezza del segno iconico […] usando uno strumento la cui motivazione è palese (la parola) per rendere evidente anche la codificazione dell'immagine»305. In questi anni il monologo interiore di Godard non corrisponde più alla voce dell'autore, ma diviene espressione di una riflessione metodologica, in cui il regista si interroga sui rapporti tra le cose, tra le immagini e i suoni. Approdiamo ora alla musica e all'uso che Godard ne fa nelle sue opere cinematografiche. Per il cineasta «la musica […] è un elemento vivente, allo stesso titolo di una strada o di un automobile. È una cosa che descrivo, una cosa preesistente al film»306. Quando in una pellicola viene inserita della musica preesistente, si mette in moto il meccanismo della citazione. Citare vuol dire attingere ad un mondo extratestuale, esterno, preesistente. «Si prende una melodia, o un brano, lo si toglie dal contesto precedente e lo si ricontestualizza»307. Godard utilizza la musica come elemento della modernità e ne esibisce i procedimenti e i mezzi audiovisivi come tali, in modo da valorizzarne la discontinuità: nei suoi film accompagna alle immagini elementi forzati di musica classica (La Chinoise, Pierrot le fou); crea stacchi brutali nei suoni e nelle musiche (Le Mépris) e un arbitrario rapporto tra musica e immagini (Sauve qui peut, la vie). Utilizza la melodia come il montaggio, prima ne sperimenta le tecniche e 303 Chiesi Roberto, Jean-Luc Godard, Gremese Editore, Roma 2003, p.9. 304 In questo periodo Godard rinuncia alla personalità del regista-autore per fondersi nel gruppo Dziga Vertov (Godard, Gorin, Roger). 305 Citato in Allegri Luigi, Ideologia e linguaggio nel cinema contemporaneo: Jean-Luc Godard, Università di Parma, Centro studi e archivio della comunicazione, Parma 1976, p.201. 306 Godard Jean-Luc, Il cinema è il cinema, I Garzanti Cinema, Milano 1981, p.262. 307 Pagan Alessandra e Cecchinato Manuel, Cinema e forme sonore, Forum, Udine 2000, p.67. 163 poi l'impatto sullo spettatore. Questa associazione musica-montaggio è riscontrabile anche in una dichiarazione del regista, nella quale egli descrive l'assemblaggio in termini musicali: «si può passare da un piano all'altro per un motivo drammatico, e questo è il montaggio di Ejzenštejn, che oppone una forma all'altra, e le lega indissolubilmente con la medesima operazione di raccordo. Il passaggio dal totale al primo piano diventa allora come il passaggio dalla tonalità in minore alla tonalità in maggiore nella scrittura musicale e viceversa» 308 e ancora «Sono arrivato ad uno stadio in cui il montaggio diventa composizione, musica»309. Fin dagli esordi Godard manipola il suono e la componente musicale con le stesse tecniche del montaggio: crea spostamenti, tagli, découpages e assemblaggi che sono comparabili a quelle dell'immagine. Sia che il regista attinga al repertorio classico, o che le musiche siano create appositamente per il film, il processo di frantumazione e di ripartizione dei pezzi sonori in tutto il percorso temporale del film è lo stesso. Questa estetica del suono in Godard la ritroveremo nelle partiture di Delerue per Le Mépris, Duhamel per Pierrot le fou, Yared per Sauve qui peut (la vie), che il regista taglia e sposta a proprio piacimento, per giungere agli anni Ottanta in cui Godard fa ricorso alla musica classica. Come abbiamo potuto constatare, il lavoro di rinnovamento per quanto riguarda l'immagine intrapreso con il montaggio va di pari passo con un approccio innovativo al suono. Il cineasta fu il primo, dal punto di vista tecnico, a estendere il principio del falso raccordo e della rottura alla totalità della banda sonora e alla musica nel senso più specifico, che essa sia composta appositamente per il film (À bout de souffle, 1960; Pierrot le fou, 1965) oppure no (Prénom Carmen, 1983). La sua ricerca di un'estetica del suono culminerà, a mio parere, nei primi anni Ottanta, quando darà vita a Passion e Prénom Carmen. Con quest'ultimo Godard persegue il suo progetto a lungo termine per ristabilire il primato dato all'immagine, evidenziando l'elemento più dipendente da essa: il suono. Ma la sua ricerca non terminerà con Prénom Carmen, anche nei suoi film 308 Citato in Liandrat-Guigues Suzanne, Leutrat Jean-Louis (tr. it. di Arecco S.), Godard alla ricerca dell'arte perduta, Le Mani, Recco 1998, p.59. 309 Godard Jean-Luc, Due o tre cose che so di me. Scritti e conversazioni sul cinema, a cura di Orazio Leogrande, Minimum Fax, Roma 2007, p.233. 164 successivi egli manipolerà la musica classica, adattandola alle diverse situazioni drammaturgiche a volte spezzando le musiche e usandone i frammenti in una grande libertà inventiva e di spiccata provocazione estetica (Détective, 1985; Puissance de la parole, 1988; Allemagne année 90 neuf zero, 1992; Forever Mozart, 1996). Partiamo ora dal film dove tutto ebbe origine (À bout de souffle) per soffermarci poi brevemente su altri film in cui la musica, e più precisamente la citazione musicale, è venuta in essere, per concludere con la produzion che racchiude la celebrazione del suono: Prénom Carmen. Fin dal suo primo film, À bout de souffle, Godard mette in discussione il rapporto tra immagini e suoni: è finita la supremazia data alle figure e alla storia narrata, ora il cinema si fa audiovisivo. «Le parole non sono più attaccate alle bocche, i rumori abbandonano il ruolo d'illustrazione sonora, la musica non si limita più a effetti di ridondanza o di contrappunto»310. Questo appare già nei primi tre minuti del film e si protrae per il resto dell'opera: se il film si apre con un montaggio ed una musica di sottofondo molto classica, è nella sequenza successiva che emerge l'originalità di Godard. Le immagini ci mostrano il protagonista Michel (Belmondo) che cammina per strada e canta, a cappella, Buenas noches mi amor di Martial Solal e nel momento in cui ripete «Pa papapa Pa-tri-zia» la relazione suono-immagine sembra essersi invertita, in quanto è il ritmo della voce che scandisce il montaggio delle immagini. La canzone swing di Solal si lega al montaggio delle immagini, alla voce, alla musica e ai rumori di clacson che si mescolano insieme in un'unità ritmica che richiama la canzone stessa. Il brano continua poco dopo quando Michel, in macchina, accende la radio e si ferma in una stazione che trasmette una canzone del cantante francese Brassens, insignificante per il film in sé ma che accompagna le parole che il protagonista rivolge direttamente allo spettatore, con lo sguardo in macchina dice: «Se non vi piace il mare, se non vi piace la montagna, se non vi piace la città... Andate a quel paese...» 311. Il ritmo e l'intonazione della voce di Michel si mescola a quello della musica, che diventa accompagnatrice delle parole, ma subito la sinfonia ricomincia e continua per tutto il viaggio fino all'incontro con le autostoppiste, le quali sembrano segnare il tempo con il movimento del braccio. Dopo aver lasciato le giovani, la musica si interrompe 310 Mouëllic Gilles, La musica al cinema. Per ascoltare i film, Lindau, Torino 2005, p. 82. 311 Dialogo del film À bout de souffle (1959). 165 brutalmente, Michel riaccende la radio e ricompare la voce di Brassens che dice «non c'è amore...», frase che viene lasciata completare dallo stesso spettatore. La musica jazzy riprende per terminare con l'episodio dell'uccisione del poliziotto, dove il rumore della rivoltella prevale e fa intuire allo spettatore cosa è accaduto. L'uso della citazione di musica classica avviene con Concerto per clarinetto e orchestra (KV 22) di Mozart, definito da Godard come «il suono mortale del clarinetto di Mozart» 312. Questa descrizione è rilevante, in quanto ritengo non sia casuale l'uso che il regista fa del “suono mortale di Mozart”, poiché la musica è associabile ad un'altra morte, quella di Michel, che avverrà poco dopo aver ascoltato il brano e per mano di Patricia, che lo tradirà denunciandolo alla polizia. L'anno successivo, con Une femme est une femme, Godard omaggia il musical hollywoodiano con un richiamo esplicito nei titoli di testa: (un film) Musicale – Sentimentale – Teatrale – Genere Lubitsch. Inoltre il film vede numerosi numeri musicali svolti dalla protagonista, Angela (Anna Karina), che di professione fa la ballerina e la cantante in un locale di strip-tease. Il film però non è una commedia musicale, né cerca di avvinarsi a tale, come disse il cineasta: «alla fine ho preferito suggerire l'idea che i personaggi cantino, utilizzando la musica, ma continuando a farli parlare normalmente»313. La composizione della colonna sonora viene affidata a Michel Legrand314 che, visionata la prima versione del montaggio, comunica all'autore: «Se sei d’accordo, faccio scivolare la musica dappertutto, anche sopra, sotto e durante i dialoghi. Anche quando i personaggi camminano. Vedrai, quando Anna cammina per strada sembrerà che danzi; quando parla, sembrerà che canti! Un compito insensato, mi sono aggrappato a ogni millimetro di pellicola, al centesimo di secondo» 315; questo “effetto musicale” si nota soprattutto nella lunga sequenza iniziale, dove Anna Karina passeggia per le vie di Parigi, nei dialoghi femminili talvolta sovrapposti a quelli maschili, altre volte la musica unita ai dialoghi maschili fonda una monotonia ritmica. Il compositore Delerue, già trattato in precedenza per le sue collaborazioni con 312 Godard Jen-Luc, Pierrot mon ami, in “Cahiers du Cinéma”, n.171 (ottobre 1965). 313 Citato in Farassino Alberto, Jean-Luc Godard, Il Castoro, Milano 2007, p.45. 314 Michel Legrand comporrà le partiture anche per Vivre sa vie (1962) Bande à part (1964) La Chinoise (1967). 315 Michel Legrand, note al compact-disc Jean-Luc Godard, Histoire(s) de Musique, Universal Music 2007. 166 Truffaut, lavora a Le Mépris, film tratto dal racconto Il disprezzo di Alberto Moravia. L'opera è ricca di citazioni dotte ed è incentrata sul cinema, nonostante l'apparente centralità narrativa basata sulla crisi di una coppia: Paul (Michel Piccoli) e Camille (Brigitte Bardot). Le citazioni sono innumerevoli a partire dagli ambienti stessi: i teatri di posa di Cinecittà, in quanto Paul vi lavora come sceneggiatore, l'appartamento romano della coppia, Villa Malaparte a Capri. L'arroganza del produttore americano Prokosch (Jack Palance), interferisce sulla elaborazione di un film mitologico, l'Odissea, con l'obiettivo di renderlo più attraente agli occhi dei compratori; a lui è giustapposta la presenza del regista Fritz Lang nella parte di se stesso (che rappresenta una sorta di alter ego di Godard, come si è potuto constatare nel capitolo precedente lo sarà anche Jerzy in Passion). I molteplici caratteri del film ci dimostrano come sia problematico stabilire le funzioni drammaturgico-musicali, che sono una costante nel cinema di Godard. Accompagnamento e commento s'identificano e il livello è sempre esterno, frutto di un artificio, compreso un evento di suono diegetico. Ad esempio, in una dimessa sala cinematografica i protagonisti assistono ad un avanspettacolo dove una cantante interpreta Ventiquattromila baci di Adriano Celentano, ma la fonte sonora (di livello interno) si interrompe durante le battute di dialogo in dimostrazione dell'artificiosità del cinema; il regista attua quello che Chion definisce “la retorica della confessione dei mezzi”, termine di cui è stato argomentato nel sottocapitolo delle tecniche, per esibire le convenzioni cinematografiche ma con un velo di sarcasmo e ironia. Le musiche per archi, monotematiche, composte da Georges Delerue nella versione originale di Godard vengono brutalmente sostituite nella versione italiana, curata da Carlo Ponti, da una composizione jazz di Piero Piccioni, strappando quel tono drammatico e solenne al film. Anche con il doppiaggio suoni e rumori vengono eliminati e i personaggi, che nella versione originale parlano ognuno nella propria lingua, per la versione italiana vengono doppiati appunto in italiano; così facendo la segretaria di Prokosch che aveva il compito di tradurre i dialoghi in francese diventa un personaggio inutile, in quanto il suo ruolo si trasforma nel parafrasare frasi di dialoghi già comprensibili al pubblico. La manipolazione sonora e non solo 316, attuata da Ponti 316 La versione italiana di Ponti presenta numerosi tagli in alcune scene: ad esempio i titoli di testa pronunciati dalla voce dello stesso Godard vengono sostituiti da didascalie, viene anche tagliata una citazione di Bazin che recita «Il cinema sostituisce al nostro sguardo un mondo che accorda ai nostri 167 venne rinnegata dallo stesso Godard che non riconobbe l'edizione italiana del film. In Pierrot le fou egli utilizza l'incipit della Quinta sinfonia di Beethoven e lo trasforma nel tema musicale predominante del film: un motivo di cinque note, nelle quali le prime quattro vengono ripetute prima di concludersi in una terza minore ascendente. Il tema si presenta costante in tutta l'opera, tant'è che anche lo stesso Ferdinand-Pierrot ne è consapevole, in una scena afferma: «I tre colpi della Quinta mi battono nella testa, povera testa» e Godard fa uscire dagli altoparlanti la citazione musicale. La colonna sonora di Antoine Duhamel trasse ispirazione dalle opere di Schumann per porre in risalto la figura di Pierrot-Ferdinand e i suoi sentimenti passionali e violenti. Utilizza invece l'Opera 4 di Schoenberg, Notte trasfigurata, una sonata tragica e passionale, in contrapposizione con l'ambiente mediterraneo, il quale è luminoso, sereno e bello. In Mascunlin fèminin, egli fa un diverso impiego della musica, inserendovi canzoni popular e di moda per l'epoca: i Beatles, Bob Dylan, Françoise Hardy, Charlie Parker e Bessie Smith rappresentano i gusti della giovane società francese che Godard vuole analizzare con questo film. Una gioventù influenzata dalla società dei consumi, dalle mode e dai suoi riti di massa, sono questi i temi che verranno analizzati dal regista anche con La Chinoise, in cui utilizza brani classici (Vivaldi, Schubert, Stockhausen) in contrapposizione ad immagini politiche, sociali, militanti che rappresentano una società moderna mossa da ideali rivoluzionari. Con One plus one (1968) Godard si sposta in Inghilterra per confrontarsi con la scena giovanile e musicale inglese, che viene rappresentata nel film dai Rolling Stones ripresi in sala di registrazione mentre provano Sympathy for the devil. Al gruppo-mito inglese si intrecciano voci e immagini che provengono dai movimenti di ribellione giovanile del sessantotto, l'epilogo si conclude con la medesima canzone degli Stones sentita all'inizio, ma che viene eseguita integralmente. Con Sauve qui peut (la vie), film del 1980, Godard ha cercato di minare le ipotesi spettatoriali sulla musica diegetica ed extradiegetica. In diverse occasioni i personaggi si desideri»; le scene di nudo della Bardot; vengono tagliate anche le numerose citazioni da quella di Lang dei versi danteschi su Ulisse alla lettura di un testo erotico da parte di Paul, alle citazioni dei film Rio bravo, Dietro allo specchio e Qualcuno verrà. Infine anche la scena finale viene manipolata e termina con la morte dei due amanti e non, come nella versione francese, con l'immagine del film di Lang in corso di elaborazione. 168 domandano «Cos'è questa musica che sto ascoltando?». Intanto la melodia che si presenta come non diegetica è inaspettata e viene rivelata in realtà come una fonte diegetica: un'aria d'opera suona sulla scena d'apertura di Paul, nella sua camera d'albergo, musica che lo spettatore percepisce come un abbellimento extradiegetico, fino a che l'uomo non sbatte i pugni sul muro urlando al vicino di abbassare il volume. Ancora, una fisarmonica che accompagna Denise mentre corre in bicicletta si rivela derivare da un uomo che suona alla stazione vicina. Nella scena finale la figlia di Paul, Cécile, mentre cammina, incontra inaspettatamente un'orchestra d'archi che suona la melodia della colonna sonora, non c'è nessuna motivazione realistica per questa apparizione che destabilizza la percezione sonora dello spettatore attraverso l'effetto, denominato da Chion, della “retorica della confessione dei mezzi”, in quanto il personaggio diventa consapevole delle convenzioni degli effetti sonori attuati dal cinema. 3.5 Prénom Carmen Per Passion ho voluto fare qualcosa su Beethoven e Rubens, ma non ci sono riuscito. È rimasto allo stadio di progetto, per un film futuro: il progetto di un film sulla Nona Sinfonia, dopodiché sono tornato a un progetto ancora più vecchio, quello del Quartetto317. Questo è il principio di Prénom Carmen (1983), film che Jean-Luc Godard girerà l'anno successivo a Passion (1982). La somiglianza con quest'ultima pellicola, come vedremo nel dettaglio nell'analisi successiva, è indubbia e il legame tra le due opere è riscontrabile anche nella loro stessa produzione: a causa dell'insuccesso commerciale di Passion, Godard si trova in difficoltà economica ed è costretto a rivedere il budget per il film successivo, il quale verrà prodotto dalla sua nuova società JLG Films. Per questi motivi la didascalia finale di Prénom Carmen recita: «In memoriam small movies», come era avvenuto vent'anni prima con À bout de souffle, il film che lo aveva consacrato al successo internazionale e divenuto un classico della storia del cinema, 317 Citato in Liandrat-Guigues Suzanne, Leutrat Jean-Louis (tr. it. di Arecco S.), Godard alla ricerca dell'arte perduta, Le Mani, Recco 1998, p.66. 169 dedicato ai B-movies e alla Monogram Pictures, una casa di produzione americana specializzata in film di serie B. Entrambi nascono come realizzazioni produttivamente minori, ma crescono e raggiungono il medesimo successo di pubblico e di critica, che Prénom Carmen ottenne con il Leone d'oro alla Mostra del cinema di Venezia. 3.5.1 Sinossi318 Il film si apre con l’immagine del traffico cittadino di Parigi a cui segue un’inquadratura del mare e delle sue onde. In un ospedale, che pare un manicomio, la protagonista femminile Carmen (Marushka Detmers) va a trovare lo zio Jeannot (JeanLuc Godard), un vecchio regista che si finge malato per vivere a spese della sanità pubblica. La ragazza si reca da lui in quanto vuole chiedergli in prestito il suo appartamento al mare, che le servirà per iniziare le riprese di un film che sta mettendo in atto con degli amici. Nel frattempo appaiono, a intermittenza, scene di un quartetto d'archi che sta provando i Quartetti di Beethoven. Subito dopo appare Claire (Myriem Roussel), la violinista del quartetto, assieme a Joseph (Jacques Bonaffé), un amico di suo fratello Fred, che innamorato della ragazza le fa la corte e le offre una rosa bianca. Joseph è un poliziotto che solitamente è di guardia in banca. Nella scena successiva si vedono Carmen e i suoi amici, che in realtà non sono una troupe cinematografica ma un gruppo di rapinatori e terroristi, giungere in banca ed attuare una rapina, la confusione si fa estrema tra sparatorie e rincorse dei malviventi. Nel frattempo, nello chalet, i musicisti continuano le prove. In banca la situazione appare paradossale: mentre è in corso la rapina i clienti ne restano totalmente indifferenti e la donna delle pulizie continua a lavare i pavimenti, asciugando il sangue delle vittime. Carmen spara a Joseph, anche l'uomo tenta di spararle ma l'arma non funziona, così si getta su di lei e la lotta diventa un appassionato abbraccio d'amore, al punto che i due decidono di scappare insieme. Così il poliziotto finge di averla catturata e, dopo averle legato i polsi, partono insieme con un'auto della banda. Le caratteristiche di quello che sfocerà in un amore ossessivo iniziano a delinearsi: quando arrivano ad una stazione di servizio, Joseph non la vuole slegare e, per timore che lei possa darsi alla fuga, la costringe a 318 Di supporto alla sinossi sono stati usati i testi: Farassino Alberto, Jean-Luc Godard, Il Castoro, Milano 2007 e Chiesi Roberto, Jean-Luc Godard, Gremese Editore, Roma 2003. 170 orinare nel bagno degli uomini. Una volta giunti nell'appartamento dello zio Jean, al mare, i due ragazzi parlano d'amore, fanno sesso e girano per casa seminudi in cerca di complicità. Appaiono altre immagini del quartetto d'archi in cui si vede Claire; nella scena seguente, ritornati nell'appartamento, Joseph parla della violinista, mentre Carmen rivela che l'idea della rapina è stata solamente sua e che l'ispirazione le era venuta da Dillinger, un malvivente che rapinò una banca fingendo che fossero le riprese di un film. Inoltre gli confessa il suo progetto, che ha organizzato con la banda, di sequestrare un industriale della zona. Poco dopo la polizia li trova e arresta Joseph. Al processo l'uomo verrà tutelato da un'appassionata avocatessa, che lo difende in quanto egli ha agito per amore, e per questo verrà poi assolto. In tribunale, Joseph riceve una busta con all'interno una rosa rossa: è di Carmen. La scena si sposta in una tavola calda, dove si vede Jules, il capo della banda e precedente amante di Carmen, con lo zio Jean a cui è stato affidata la regia del “film”. Il regista si presenta con un libro di Buster Keaton sotto braccio, parla con Jules ma compie strabilianti digressioni da Van Gogh a Mao, del quale dice: «gran cuoco, ha dato da mangiare a tutta la Cina». Al suo seguito c'è un'infermiera, che prende appunti come una segretaria di edizione, e gli rammenda gli abiti come una sarta da set. Nel frattempo Jules gli spiega che il film non verrà girato al mare, come gli era stato detto, ma in un hotel. Lo zio Jean intuisce che quello che il ragazzo dice non è la verità ed afferma: «Il vostro documentario è una finzione, non è vero?». Il quartetto continua a suonare Beethoven. Il mattino dopo ritroviamo Carmen con Joseph in una lussuosa suite dell'hotel dove alloggia l'industriale, luogo che sarà il set del film da girare. I due amanti ne parlano, fanno l'amore e Carmen se ne va poco dopo. Quando farà ritorno alla sera, la rivedremo insieme alla banda mentre prepara le armi; quella notte Carmen decide di non stare con Joseph e al mattino lo lascia. I due si provocano, si schiaffeggiano e lei se ne va con un cameriere. Intanto nel ristorante dell'albergo l'intera “troupe” si è riunita e nella stessa scena, nella stessa stanza, per la prima volta vi è anche il quartetto d'archi che suona Beethoven. La rappresentazione si interrompe quando la banda tira fuori le armi, comincia la sparatoria attorno all'uomo da rapire, la polizia arriva e si crea confusione. Joseph con un'arma segue Carmen, i due si incontrano sulle scale, sembra che si siano riavvicinati in un abbraccio passionale come all'inizio del film, ma il suono di un colpo di pistola interrompe la scena e si vede 171 Carmen cadere a terra. Un cameriere soccorre la donna con cui scambierà le ultime tragiche battute: «Come si chiama quando ci sono gli innocenti da una parte e i colpevoli dall'altra? Quando tutto è perduto, ma sorge il giorno e tuttavia l'aria si respira?». Il cameriere risponde: «Questa si chiama l'aurora». E si chiude con un inquadratura sul mare. 3.5.2 Analisi: l'origine è Passion Quando Prénom Carmen fece il suo debutto alla Mostra del cinema di Venezia 319, a molti sorse spontanea l'associazione all'opera lirica di Georges Bizet (Carmen, 1875), da cui Jean-Luc Godard però trasse ben poco. L'opera è citata solo in due brevi momenti e da personaggi secondari320 che ne fischiettano la celebre Habanera - L'amour est un oiseau rebelle. Non ci sono melodie, musiche o citazioni che richiamano l'opera se non un semplice fischiettio della durata di qualche secondo. L'unico punto di contatto, ma ancora una volta non con l'opera di Bizet, è nella sceneggiatura, scritta da Anne Marie Miéville, la quale si avvicina all'unica opera da cui tutto ebbe origine: la novella di Prosper Mérimée321. Godard ne trasse ispirazione per trama e personaggi, ma la modernizzò rendendola più attuale: il brigadiere Don José è associabile alla figura del poliziotto Joseph, che diviene rapinatore invece che contrabbandiere, entrambi abbandonano i loro ideali per una donna che poi uccidono, Carmen, la zingara ribelle della novella, diventa una rapinatrice e una terrorista nel film. Anche gli ambienti trovano delle corrispondenze, i bar e le tavole calde, dove la banda si riunisce per attuare i loro piani, sono le taverne ottocentesche nel racconto. Ma la differenza 319 Nel 1983 e vincitore del premio Leone d'oro al miglior film. 320 I personaggi sono un paziente del manicomio che mentre passeggia nella serra, fischietta il motivo per qualche secondo, e un uomo che, si trova nel bar dove poco dopo lo zio Jean e Jules si incontreranno. 321 Mérimée scrisse nel 1845 il racconto Carmen, da cui poi fu tratta l'opera omonima di Georges Bizet nel 1875. La novella narra delle vicende dell'autore, che mentre è in viaggio incontra un misterioso fuorilegge, Don José. In seguito conoscerà anche la sua amante di nome Carmen, una focosa gitana bella e spregiudicata. Qualche mese dopo, Mérimée viene a sapere che José è stato condannato a morte per omicidio, così decide di andarlo a trovare e in un lungo colloquio, José gli racconta la sua vita. Dopo aver ucciso un uomo, Josè diventa poliziotto ed incontra Carmen che immischiata in una rissa verrà arrestata; dopo aver sedotto Josè, Carmen lo convince a liberarla e per questo l'uomo verrà processato. Uscito di prigione, Carmen e Josè intrattengono una relazione, poco dopo l'uomo si unisce alla banda di contrabbandieri di cui fa parte anche Carmen, ma quando scopre che la donna lo ha tradito con il picador Lucas, Josè preso dalla gelosia, la uccide. 172 sostanziale tra le due opere sono i luoghi: la Spagna calda e folcloristica della Carmen lascia posto ad una più moderna Parigi, una grigia città metropolitana immersa nel traffico che si alterna ad un altrettanto grigio e freddo oceano, con grandi onde e con un mare dall'orizzonte lontano. Ma se la sceneggiatura evoca in più nodi narrativi quella di Mérimée, il copione di Prénom Carmen è il frutto del racconto tipicamente godardiano eretto su movimenti di corse, fughe e slanci di giovani amanti nelle strade parigine e negli interni delle abitazioni. La storia che il cineasta ci propone appare la stessa di sempre: una donna immischiata nella malavita ed un uomo disposto a tutto pur di seguirla, anche a fare un vita disonesta. I due amanti-banditi in fuga ricordano un altro film per trama e ossessioni: Pierrot le fou (1965). Tra i due film le analogie sono molteplici, a partire dalle protagoniste femminili: difatti, come Marianne chiama scherzosamente Ferdinand con il nomignolo Pierrot, anche Carmen chiama l'amante Joe e non con il suo vero nome (Joseph); entrambe le donne poi, Marianne con Fred e Carmen con Jules, hanno avuto una relazione in passato con il loro capo banda. Le accomuna poi la tragica fine, entrambe uccise in una sparatoria per mano di uomini in preda alla gelosia. La debolezza dell'uomo e la forza ombrosa della donna è una tematica ricorrente nell'intera filmografia di Godard, che sfocia nel degradare dell'amore con la crescente indifferenza della donna (Carmen, Marianne) e l'attaccamento ossessivo dell'uomo (JosephFerdinand) che, non sopportando l'abbandono, compie gesti estremi prima di lasciarsi morire (Ferdinad si uccide, Joseph si lascia arrestare senza opporre resistenza). La differenza sostanziale tra i due film si trova nei luoghi: in Carmen vi è uno spoglio e freddo appartamento sull'oceano, mentre in Pierrot le fou la casa sulla spiaggia mediterranea regala un paesaggio dai colori più caldi e vivi; anche i tre colori primari in Pierrot (giallo, rosso e blu), di cui abbiamo discusso nel capitolo precedente, ritornano a conquistare la scena in Prénom Carmen, ma questa volta Godard gioca anche con i chiaroscuri e le ombre, abbandonando al passato la bidimensionalità e la tonalità della vena pop, tipica degli anni Sessanta. Questa “divagazione” su Pierrot le fou non è scontata e casuale, stiamo parlando del film che unisce, in quanto genesi, due grandi capolavori degli anni Ottanta 173 godardiani, Passion (1982) e Prénom Carmen (1983) che, a mio avviso, possono apparire come la diretta continuazione l'uno dell'altro. Essere posto cronologicamente dopo Passion, porta Godard a riprenderne, in parte, la tematica centrale dell'opposizione tra vita e arte: egli attraverso un processo che definisco “seriale” – in quanto sviluppa temi, caratteristiche e ideologie simili, se non uguali in entrambi i film – agisce sulla trama e la suddivide in due serie, in due storie frammentate ma interconnesse tra loro, che rappresentano, a mio parere, rispettivamente la vita e l'arte. Il vivere è quello di tutti i giorni, è quello della fabbrica e del duro lavoro in Passion, è un incontro-scontro di vite e di amori fatto da fitti intrecci di relazioni tra i personaggi, scandite da violenze e litigi che si compenetrano nei luoghi, nello spazio del set, della fabbrica e dell'hotel; spazi le cui le zone di sovrapposizione fanno emergere i rapporti tra arte e vita. L'esistenza, in Passion, è anche quella del regista Jerzy, impegnato nella ricostruzione di una serie di tableaux vivants, per il suo film. Questa serie, quella del set cinematografico e dei dodici quadri, appare totalmente opposta: abbandonato lo squallore della vita in fabbrica e dei rapporti umani tra i personaggi, Godard lascia il posto alla purezza, all'arte classica e alla pittura, i cui protagonisti sono solo delle comparse di corpi luminosi. La ricerca della classicità avviene attraverso le ricostruzioni di questi quadri celebri, i quali possono prendere vita solamente con la luce, quasi sempre artificiale, che viene ricercata ossessivamente da Jerzy in quanto unico mezzo in grado di riprodurre la perfezione. Sarà questa tematica della luce ad unire le due serie, i tableaux vivants e la realtà sociale, il cinema e la vita: ad esempio, Isabelle sarà associata all'angelo di El Greco, o ancora La bagnante di Ingres sarà in realtà un'operaia. Anche in Prénom Carmen le storie e le serie sono due, che vedono due donne come le rispettive protagoniste. La vita è fatta di confusione, di ruoli incerti, di paradossi, di amore e sesso, di erotismo, ma essa rappresenta anche il denaro e il commercio, la delinquenza e la truffa; le vicende sono quelle della banda criminale di cui la bella e ribelle Carmen fa parte. Una donna spregiudicata, che progetta e mette in atto la rapina in banca, che coinvolge Joseph nella sua vita in una spirale di amore e ossessione e che consapevolmente porta l'uomo a desiderarla morbosamente, «Lo sai Joseph che se ti amerò sarai fottuto?». Poi c'è la serie del Quartetto Prat, guidata dalla 174 figura angelica di Claire, la violinista, il cui candore è trasmesso tramite la medesima purezza rappresentata dalla musica classica. Godard trae i dialoghi della violinista dai Quaderni di conversazione di Beethoven, i quaderni intimi del compositore. L'arte è la musica, i Quartetti di Beethoven, una melodia pura e per affermare questa purezza le prove del gruppo di musicisti avvengono in un luogo isolato dal mondo, dalla vita e dalla sua caoticità. All'interno di uno chalet avviene la vera arte, fatta di ricerche e discussioni sull'interpretazione dei brani. Il Quartetto Prat, che rappresenta l'arte, si ritrova nel mondo esterno, la vita, solo nella sequenza finale all'hotel, dove avverrà il tragico epilogo in cui anche il quartetto stesso verrà disgregato. Ritengo che la scelta di Godard di portare “la purezza” nella società violenta e tormentata e di far coincidere la morte di Carmen con essa non sia casuale. Durante il film spesso Carmen si domanda cosa sia l'innocenza, sinonimo di purezza, affermando: «Mi pare di vedere, non lo so, gli innocenti da una parte e poi non lo so più» o ancora «Non ho studiato ma so che il mondo non appartiene agli innocenti»; il regista tenta di incarnare nella sensuale e violenta donna delle caratteristiche che le sono avverse, ovvero l'innocenza e la purezza, forse per testimoniare un qualche pentimento della protagonista per le azioni commesse, come dirà lei stessa «Non siamo noi la merda, è il mondo», o forse per mostrare le sue fragilità, quelle di una donna forte ma che allo stesso tempo è piegata dalla società, dal mondo. Anche in Prénom Carmen, il raggiungimento della classicità avviene con la fusione e l'armonizzazione delle due serie, che si incontrano con Joseph, personaggio di collegamento tra i due mondi e tra le due donne, e con l'alternarsi delle sequenze. Se in Passion l'incontro tra le due serie avviene con la luce, che dà vita alla pittura con i tableaux vivants, in Prénom Carmen l'unico mezzo unificatore è il suono: la musica esce dalla stanza delle prove per estendersi ad accompagnare la vita, e la vicenda, passando da musica diegetica a musica extradiegetica 322. Come abbiamo visto nella prima parte del capitolo (cfr. 3.1), il passaggio dal livello interno a quello esterno 323 322 Questo avviene anche con i rumori: la “musica” del mare e delle onde giunge fino a Parigi. Esemplare è la scena in cui Carmen comunica a Joseph che è finita e lo spettatore sente delle urla di gabbiani. L'uomo che ovviamente non può sentire la colonna sonora, risponde alla donna affermando che non le crede in quanto quella «non è la tua vera voce, non c'è insieme il rumore del mare». Ma solo lo spettatore è consapevole che invece il rumore del mare c'è, e che tra i due è davvero finita. 323 Oppure identificate con i termini musica da buca e musica da film in Chion Michel, L'audiovisione: suono e immagine nel cinema, Lindau, Torino 2001. 175 turba e destabilizza la percezione dello spettatore, scopo voluto e sempre ricercato da Godard; ma a mio parere questo continuo passaggio tra livello interno ed esterno permette all'autore di mantenere lo stesso commento musicale per tutta la durata del film e di non dissociarsene mai. Difatti egli assocerà al film una sola colonna sonora, i Quartetti di Beethoven, che verranno interrotti solo una volta, quando Joseph abbraccia un televisore, il cui scorrere delle immagini viene sostituito da una melodia di una roca canzone di Tom Waits (Rubi's Arm) (Fig.1). Ma in questo caso, Godard ci pone sì di fronte al ruolo della televisione, ma anche dell'immagine (assente) e del suo rapporto con il cinema. In un'intervista il regista afferma che «la televisione non è un mezzo di espressione, ma di trasmissione. La prova è che più è sciocca, più è affascinante, più la gente resta affascinata davanti al piccolo schermo. Ecco cos'è la televisione, ma è sperabile che cambi»324. A dimostrazione di questa frase, ritengo che Godard abbia volutamente interrotto la musica classica, simbolo di purezza, di fronte alle immagini del televisore, in quanto vile mezzo di trasmissione, per legarla al solo mezzo che può esprimere la “purezza”: il cinema. Difatti l'artista riprende da Passion anche la vita di cinema: in entrambi i film si racconta, in modo diverso, la storia di un film in elaborazione. Un film vero nel caso di Passion, ma che non verrà portato a termine; un film fasullo, in quanto copertura per una rapina, in Prénom Carmen. Il cinema è l'unione tra arte e vita, e viene descritto in entrambe le pellicole attraverso le sue stranezze e le sue follie, a partire dallo zio JeanPierre, che rappresenta la follia del cinema, portando alla memoria la figura del buffone shakesperiano e dell'idiota dostoevskijano. Lo zio, che ricordiamo è interpretato dallo stesso Godard, sembra un vecchio regista matto e stralunato, il quale però ha capito cosa sono la vita e il cinema: sono la truffa e le rapine, ma è anche un campo di battaglia dove l'amore, l'odio, l'azione, la violenza e l'emozione si ritrovano. L'alter ego del cineasta, impersonato da Jerzy in Passion, trova sviluppo nello zio Jean: entrambi i registi (Jerzy, zio Jean) sono impegnati in un film che non verrà mai portato a termine, ed entrambi sono frustrati dalla vita di cinema. Jerzy avverte la pressione del produttore e quando realizza di non poter concludere il film che avrebbe voluto, scappa in Polonia; lo zio Jean abbandona il cinema per andare in un posto in cui si sente più al sicuro, un 324 Godard Jean-Luc, Il cinema è il cinema, I Garzanti Cinema, Milano 1981, pp.199-200. 176 ospedale-manicomio. Mentre Jerzy esprime il dilemma artistico e creativo del regista schiacciato dalle continue pressioni del mondo cinematografico, questa volta lo zio Jean-Godard appare più riflessivo e regala considerazioni sulla vita e sul cinema: «La beauté c'est le commencement de la terreur que nous sommes capables de supporter» 325. «Nel suo rapporto con la bellezza, e con il cinema, Godard ci mostra un nuovo modo di vivere la vita, in un modo che prima non aveva mai fatto, con la massima precisione e sincronismo»326. Con Prénom Carmen, Godard ci dà la sensazione che può tornare a guardare la bellezza dopo Passion. Per tale motivo separa le due bellezze, quella di Carmen e quella di Claire, in quanto la vera bellezza si trova tra le due, tra la cacofonia e la musica. Per quanto riguarda l'avvenenza di Carmen, essa è ovviamente di natura diversa rispetto a Claire, di un fascino fragile ed etereo; Carmen è selvaggia, espressione sia voluttuosa sia feroce, che coincide con la descrizione di Mérimée, una bellezza incarnata senza volgarità ma che stimola i desideri più carnali. Ancora una volta è lo zio Jean-Godard che, attraverso un gioco di parole, porta lo spettatore ad interrogarsi sulla figura di Carmen, facendo un paragone mitologico: usa il mare (la mer) e la madre (la mère), che in francese possiedono la stessa pronuncia per spiegare l'inizio di tutto, ovvero egli dice alla giovane donna: «Tu as toujours eu des histoires avec le bord de la mer, avec ta mère, comme la petite Electre...»327. E non è un caso che le parole del finale del film siano le medesime dell'epilogo dell'Elettra di Giraudoux: «Cela s'appelle l'aurore»328, le parole che la donna sente mentre sta per morire. Carmen, infatti, una volta caduta a terra dopo essere stata colpita, si domanda cosa ci sia prima di tutto, prima del suo nome (Prénom Carmen) e della sua storia, prima dei nomi stessi e prima che le cose vengano nominate. Godard le risponde con l'immagine del mare (Fig.2), perché prima della parola c'è sempre l'immagine. 325 La bellezza è l'inizio del terrore che siamo capaci di sopportare. Tratto dai dialoghi di Prénom Carmen, traduzione nostra. 326 Alain Bergala, Nul mieux que Godard, Editions du Cahiers du cinéma, Paris 1999, p.44, (traduzione nostra). 327 Tu hai dei problemi con il mare, con la madre, come la piccola Elettra. Tratto dai dialoghi di Prénom Carmen, traduzione nostra. 328 Questa si chiama l'aurora. Tratto dai dialoghi di Prénom Carmen, traduzione nostra. 177 3.5.3 Analisi di Prénom Carmen Fra l'utilizzo del Concerto per clarinetto e orchestra (KV 22) di Mozart in À bout de souffle (1959) e quello della Messa in do minore (KV 427) in Passion (1982) vi sono circa vent'anni, in cui il modo di procedere di Godard e di scegliere le musiche dei propri film è cambiato. Passano vent'anni anche dall'utilizzo dei Quartetti di Beethoven, la prima volta in Une femme mariée (1964) e poi in Prénom Carmen (1983), ed è lo stesso Godard che pone i due film in relazione: lo zio Jean afferma di aver diretto un film con Marlene Dietrich e Ludwig van Beethoven, un richiamo al film quando due inquadrature contigue mostrano il volto dell'attrice e quello del musicista. Godard spiega il motivo della ripresa dei Quartetti per Prénom Carmen: Non sono io ad aver scelto Beethoven. Direi piuttosto che è Beethoven ad aver scelto me e che io ho risposto al suo appello. Da giovane, verso i vent'anni - l'età della giovinezza dei miei personaggi - ho ascoltato Beethoven. Ero in riva al mare, in Bretagna. Lì ho scoperto i Quartetti. Ora, si sa, Carmen non esisterebbe senza musica di Bizet. […] Bizet faceva una musica che Nietzsche definiva “bruna”. Era una musica del Mediterraneo. Bizet è un compositore del Mezzogiorno. Inoltre è molto legato al mare. Io ho dunque scelto non un'altra musica, ma un altro mare. L'Oceano piuttosto che il Mediterraneo. Per cui, per quanto riguardava la musica, dovevo scegliere una musica “seminale”. Una musica che ha segnato l'intera storia della musica. Come i Quartetti di Beethoven329. Ma in Godard vi è forse anche un altro motivo per la scelta dei Quartetti: nel pressbook, libro che diviene una raccolta di materiali del film dal titolo Studi su frammenti di musica e frammenti di carne: il corpo della melodia 330, il regista predispone alcune foto del Quartetto Prat, tratte dal film, e le giustappone ad alcune sculture di Rodin e ad alcune frasi desunte dai Quaderni di conversazione di Beethoven. 329 Citato in Liandrat-Guigues Suzanne, Leutrat Jean-Louis (trad. it. di Arecco S.), Godard alla ricerca dell'arte perduta, Le Mani, Recco 1998, pp. 59-60. 330 Il pressbook (materiale cartaceo concesso ai giornalisti in cui si offrono informazioni di carattere tecnico e contenutistico del film) di Prénom Carmen venne composto con molta probabilità da Godard stesso (le informazioni qui riportate sul contenuto del pressbook sono tratte da LiandratGuigues Suzanne, Leutrat Jean-Louis, Godard alla ricerca dell'arte perduta, Le Mani, Recco 1998, p.60). 178 Per le scene d'amore avevo chiesto ai tecnici e agli attori di andare a vedere le sculture di Rodin. […] Procedendo io stesso al montaggio e al missaggio, ho ritrovato l'idea che avevo di Rodin: l'idea di uno scultore che scava una superficie con le sue mani. Scava lo spazio. I musicisti parlerebbero senz'altro di spazio sonoro. Ecco mi interessava scavare uno spazio sonoro331. Vi è l'interesse quindi a scavare lo spazio sonoro e la novità in relazione all'utilizzo della musica, rispetto ai film precedenti. Per la prima volta si mostrano veri musicisti (Quatuor Prat) che interpretano i Quartetti 9, 10, 14, 15, 16, e ciò porta a compimento l'idea costante nel regista di voler “riprendere la musica”: «E siccome di colpo senti la musica, ho sempre voglia di fare una panoramica o un carrello, se fosse possibile, per andare a scoprire l'orchestra che sta suonando. E dopo ritornare alla scena: e che la musica smetta appena non ho più bisogno di vedere l'immagine, in modo da poter esprimere qualcos'altro»332. Questa è la perfetta descrizione dei primi quindici minuti di Prénom Carmen, film che ora analizzeremo nel dettaglio. Con il secondo movimento del Quartetto n.9 in do maggiore op.59 n.3 di Beethoven, Andante con moto quasi allegretto, Godard decide di aprire sia Une femme mariée, sia Prénom Carmen. Non è un caso che al tempo della loro composizione i Quartetti “Razumovski” (i numeri 1, 2, 3 che compongono l'opera 59) furono considerati stravaganti per la società dell'epoca (primo decennio dell'Ottocento) e forse è anche per questo motivo che l'autore se ne appropria destando tra la critica le stesse reazioni333. In Une femme mariée, l'Andante del Quartetto n.9 è utilizzato tre volte: durante i titoli di testa e dilatandosi fino alla prima scena d'amore con l'amante, attribuendogli subito un valore fondamentale; la musica ritorna successivamente quando la donna riallaccia il rapporto con il marito e alla fine quando incontra, per l'ultima volta, l'amante. In Prénom Carmen l'Andante compare solo all'inizio, ma in modo totalmente diverso: viene ripreso il Quartetto Prat, e subito si vedono due musicisti, un uomo in primo piano con una donna, che poi scopriremo essere Claire. La colonna 331 Amegual Barthélémy, Jean-Luc Godard, in Etudes Cinématographiques, n.90, dicembre 1983, p.5; qui citato in Liandrat-Guigues Suzanne e Leutrat Jean-Louis (trad. it. di Arecco S.), op.cit., p.58. 332 Godard Jean-Luc, Introduzione alla vera storia del cinema, Editori Riuniti, Roma 1983, p.242. 333 Ad esempio nei compositori Joseph Kerman («clima di mestizia senza scampo») e Daniel Gregory Mason («di grande monotonia ritmica»). Cit. in Liandrat-Guigues Suzanne e Leutrat Jean-Louis (trad. it. di Arecco S.), op.cit., p.61. 179 sonora di accompagnamento è composta in modo tale che l'inquadratura successiva, la sequenza dei titoli di testa334 che ci dice che il film sta iniziando, sia accompagnata naturalmente dalla melodia, per poi interrompersi bruscamente nella sequenza successiva all'ospedale che vede l'inserirsi di un'altra melodia, a mio avviso, fatta dallo zio Jean, che all'interno della sua stanza girovaga colpendosi alla testa o al petto, per poi sbattere le mani sulla finestra, sul tavolo, sul letto, poi muove una tazzina di caffè alla ricerca forse di una qualche sonorità, di una melodia che si conclude con il rumore di una vecchia macchina da scrivere. Lo zio Jean diventa un “musicista della quotidianità”, in quanto utilizza strumenti della vita reale, di tutti i giorni, e ne crea, a suo modo, una melodia. Poco dopo l'Andante è ripreso nell'inquadratura in cui Godard si corica nel letto, e si prolunga nel corso della scena successiva, che vede di nuovo i musicisti come protagonisti, questa volta nell'inquadratura essi sono tre (Fig.3). La musica si estende, ancora, fino ai primi dialoghi del passaggio successivo, in cui Carmen arriva all'ospedale. Il dialogo tra zio e nipote non è pulito, vi sono sempre dei rumori di piatti che sbattono e altri dialoghi fuori campo che rendono caotica la conversazione; ma lo zio Jean mostra alla donna il suo nuovo magnetofono (Fig.4), dal quale le fa ascoltare arie semplici come Frères Jacques o Au clair de la lune. Dopo che Carmen se ne va, avendo ottenuto il consenso per l'appartamento, ritorna l'inquadratura sul quartetto, questa volta in un totale con tutti e quattro i musicisti visibili. Essi interpretano sempre il Quartetto n.9, non più l'Andante, ma la fine del terzo movimento, un Minuetto grazioso, come se le sequenze intermedie, quelle non musicali, avessero creato un'ellissi temporale in cui l'esecuzione fosse proseguita comunque. Questa volta tra i musicisti si vede Claire in primo piano che, pochi secondi dopo, smette di suonare e risponde alla domanda di un personaggio non inquadrato, citando il testo 103 dei Quartetti di conversazione; nello stesso momento inizia la Fuga Finale (Allegro molto). Ma torniamo per un momento all'origine: il film comincia esplicitamente con l'immagine del Leone d'oro vinto a Venezia, alla quale si sovrappone la voce roca e bassa di Godard che annuncia la motivazione del premio: «per la qualità del suono e dell'immagine». La seconda inquadratura è costituita da un cartello che recita: «Alain 334 I titoli di testa con i nomi degli attori, essi vengono indicati in ordine alfabetico senza alcuna distinzione, come avvenne anche in Une femme mariée, in cui i nomi vennero compresi in un solo cartello. 180 Sarde presenta do re mi fa sol la produzione Sara Films - JLG Films - Films A2». Intanto si sente la gamma do-re-mi-fa-sol. La stessa gamma viene ripresa qualche inquadratura dopo quando lo zio Jean risponde ad una infermiera che vuole prendergli la temperatura: «Io so che se le metto un dito nel culo lei conterà fino a 33, la do re mi fa sol, allora avrò la febbre». Le note ritornano anche nelle sequenze finali, quando la banda si prepara per l'agguato all'imprenditore: Joseph chiede dove sia Carmen, uno della banda risponde con “do re mi fa sol” e i personaggi della banda scoppiano in una rumorosa risata generale. Questa piccola digressione era necessaria per mettere in evidenza come, fin dai primi minuti del film, l'universo dei suoni e della musica si insinui nella vicenda con ripetitività. Ma essa non è sinonimo di familiarità per Godard, che, ricordiamo, ha come fine la totale consapevolezza dello spettatore di fronte alle immagini; così tutte le volte che la musica raggiunge una certa identità armonica, è precipitosamente interrotta, provocando una scossa uditiva nel flusso narrativo. Raramente ci permette di scivolare nel senso di familiarità e sicurezza che trasmette quest'opera ben nota, che equivarrebbe quindi a non sentirla più con consapevolezza. «Il regista dunque non permette allo spettatore di familiarizzare con la musica e lo lascia stupirsi per la comparsa miracolosa della melodia»335. Il cambiamento dello stato d'animo dello spettatore non avviene solo con la musica, ma anche con la composizione dei singoli scatti in termini di composizione, i quali avvengono in modo ripetitivo. Prénom Carmen è un film composto da linee orizzontali, verticali e diagonali. Prendiamo come esempio le prime inquadrature del film, in cui si vede, in una Parigi di notte, la metropolitana di superficie che irradia luce da tutte le sue finestre e che attraversa l'inquadratura in senso orizzontale da sinistra a destra, mentre si incrocia con un altro treno nel senso opposto (Fig.5). In qualche scena successiva si compone un'immagine di linee verticali, composte dalle luci delle automobili che si spostano in diagonale verso il basso (Fig.6). Questi motivi visivi ricorrono per tutto il film e denotano una sorta di punteggiatura regolare al racconto, come ad esempio all'inizio della sequenza della rapina, quando Joseph si staglia sulla porta, il cui telaio è diviso in tre bande distinte, oppure nel momento della sparatoria tra 335 Secondo Morrey Douglas che ne parla nel sottocapitolo Music in Jean-Luc Godard, Manchester University Press, Manchester 2005, pp.138-139, (traduzione nostra). 181 Carmen e Joseph che avviene nella grande scalinata centrale, un ulteriore arco geometrico divide lo schermo in senso diagonale. Anche le scene delle prove del quartetto d'archi non vengono escluse da questa logica di ripresa: difatti i musicisti più volte si fermano e riprendono a suonare, ripetendo un pezzo particolarmente difficile e discutono i problemi che stanno avendo con esso. La ripetizione viene giocata anche nella narrazione: Godard allo stesso modo ripete i colpi e le azioni all'interno della banca, ad esempio nell'inquadratura, all'interno dell'edificio, in cui si mostra Joseph avanzare lentamente lungo un corridoio, egli impugna un fucile e mentre cammina si guarda attentamente a destra e a sinistra per controllare che non vi sia la polizia (Fig.7). Questa immagine viene poi interrotta per riprendere un breve inserto del quartetto (Fig.8), ma quando Godard, nella sequenza successiva, ritorna all'interno della banca si vedrà nuovamente la medesima inquadratura, in cui Joseph avanza lungo il corridoio compiendo le medesime azioni. L'effetto è quello di creare uno spazio e un tempo realistici della sequenza della banca, altamente confusi e frammentari. Forse Godard ha trovato la sua storia con Prénom Carmen, quella storia che tanto è stata ricercata e tormentata in Passion, quella storia che non coincide però con quella del film, o dei film, ma non è altro che la vicenda dell'indagine personale dell'autore, ovvero la costante ricerca di una classicità, la quale viene espressa nei titoli maestosi dei film. La classicità della musica rappresentata con i Quartetti di Beethoven336 in Prénom Carmen assume, a mio avviso, la stessa importanza dei tableaux vivants, celebri quadri “classici”337, ricostruiti in Passion divenendo, reciprocamente, protagonisti indiscussi del film. Godard usufruisce della luce e della musica per creare la sua opera filmica, gioca con le tecniche, con le storie e con le similitudini, dilata la ricerca di Passion in Prénom Carmen, la suddivide, la unisce e crea anche qui dei quadri, creati attraverso le composizioni geometriche delle singole inquadrature, come le spettacolari riprese dall'alto o a piombo del quartetto e delle onde del mare. La luce che egli cercava con 336 In questo caso i Quartetti di Beethoven sono definiti “classici”, in quanto il compositore appartiene alla categoria della musica cosiddetta colta, ovvero classica, che termina cronologicamente nel 1800. 337 In questo caso, con il termine classico faccio riferimento a quelle opere celebri che rappresentano la pittura moderna (periodo che va dal Rinascimento all'Espressionismo) e si collocano cronologicamente nel periodo precedente alle avanguardie artistiche del primo Novecento, in quanto le opere delle avanguardie storiche vengono inserite all'interno del termine arte contemporanea. 182 ossessione in Passion qui è ricercata, con Raoul Coutard (direttore della fotografia), nell'opposizione tra l'illuminazione fredda, come quella del cielo grigio, e quella calda, come una lampada arancione, che rimane accesa anche di giorno proprio per contrastare la luce naturale che entra dalle finestre. Ma forse Godard non si è mai fermato nella sua ricerca di una storia, della luce giusta, di una certa classicità da inserire nei propri film e, forse, mai lo farà. Anche lo zio Jean (Godard) lo afferma: «Bisogna cercare, Van Gogh quando non c'era più il sole cercò il giallo. Bisogna cercare, bisogna cercare...». 183 APPARATO ICONOGRAFICO Fig.1 Joseph (Jacques Bonaffé) abbraccia il televisore (Prénom Carmen, 1983). Fig.2 L'immagine del mare (Prénom Carmen, 1983). 184 Fig.3 Il quartetto Prat (Prénom Carmen, 1983). Fig.4 Lo zio Jean (Jean-Luc Godard) ascolta della musica (Prénom Carmen, 1983). 185 Fig.5 Taglio dell'inquadratura orizzontale (Prénom Carmen, 1983). Fig.6 Le auto di Parigi offrono un senso verticale all'inquadratura (Prénom Carmen, 1983). 186 Fig.7 Joseph in banca (Prénom Carmen, 1983). Fig.8 Claire del quartetto Prat (Prénom Carmen, 1983). 187 CAPITOLO IV CINEMA E LETTERATURA: HÉLAS POUR MOI 4.1 Analogie e differenze tra cinema e letteratura La relazione tra cinema e letteratura si fonda su due presupposti di tipo oggettivo: il primo riguarda gli elementi in comune tra il film e il romanzo; il secondo il loro legame in quanto possono essere collegati da alcuni fenomeni, che sono funzionali all'uno ma rientrano nella zona dell'altro.338 Analizzeremo ora brevemente i due punti sopra esposti, cercando di dare un quadro completo che si possa integrare con le successive teorie. Per quanto concerne gli elementi in comune tra le due arti, essi possono suddividersi in: storia. Sia il romanzo che il film raccontano una storia che viene individuata secondo una successione di eventi che si verificano al loro interno; personaggi. La storia prosegue in base ad una serie di azioni svolte da determinati personaggi; dialoghi. Ogni film possiede una componente verbale, che può assumere diverse forme, come il dialogo parlato o quello diretto con lo spettatore, che va oltre la diegesi (voice over screen). Quest'ultimo è associabile al discorso indiretto in campo letterario; didascalie, cartelli, sottotitoli. Nel cinema muto la storia era accompagnata da scritte, ossia inserzioni letterarie all'interno di una narrazione per immagini. Queste sono le didascalie, le quali sono sovrimpresse direttamente nell'inquadratura o a volte sono disposte su cartelli, che interrompono il flusso delle immagini in movimento. Anche nei film sonori questi due elementi non scompaiono completamente, molto spesso esse sono utilizzate per comunicare informazioni rilevanti per il racconto filmico, ad esempio tra i casi più classici vi sono quelle che avvertono un passaggio temporale o di un luogo. Jean-Luc Godard ha usato frequentemente il cartello, soprattutto nei film degli anni Sessanta, per fornire un commento ideologico, tramite degli slogan, alle 338 Secondo Manzoli Giacomo, Cinema e letteratura, Carrocci, Roma 2003, pp.59-63. 188 immagini. Il sottotitolo, invece, ha la funzione di tradurre in lettere il dialogo che si svolge in una lingua che lo spettatore non conosce. Ogni testo filmico, come ogni testo letterario, può essere analizzato separando i piani dell'espressione e del contenuto. Il significante (espressione), ovvero la forma che rinvia ad un contenuto, può essere ricondotto alla breve elencazione fatta in precedenza. Dall'analisi del significato (contenuto), invece, si è compreso che film e libro possono esprimere qualcosa di molto simile, nonostante la disparità tra i due mezzi espressivi, al punto da indurre gli spettatori ad associarli e la critica a compararli. Confrontando letteratura e cinema alcuni studiosi di semiotica, capeggiati da Algirdas-Julien Greimas, hanno individuato attraverso il concetto di isotopia la relazione che unisce le due arti: essi parlano di linee di coerenza testuale, che collegano un film ad un libro a partire dalla somiglianza tra le componenti del contenuto. Algirdas-Julien Greimas339 individua tre categorie che uniscono un libro ad un film: isotopie tematiche. Sono le tematiche principali di cui si occupano allo stesso modo sia il romanzo che il film; isotopie figurative. Sono i dati oggettivi in cui questi temi sono rappresentati; ad esempio l'identità dei personaggi, le loro azioni, le coordinate spaziali e temporali in cui il racconto si svolge. Questi fattori possono subire delle modifiche nel processo di traduzione dal testo scritto alle immagini filmiche, dal numero e dalla dimensione di tali modifiche si può perciò intuire la distanza tra i due; isotopie patemiche. Si tratta dei cambiamenti emotivi e caratteriali che i personaggi subiscono nel corso del racconto. Tuttavia ciò che sembra apparentemente scontato in entrambe le elencazioni è un elemento forte e comune, che unisce la letteratura al cinema fin dalle sue origini: ovvero la narrativa, il raccontare una storia. È la stessa materia di cui è fatto il cinema, 339 Des Dieux et des hommes: études de mythologie lithuanienne, P.U.F., Paris 1985; qui citato in Manzoli Giacomo, Cinema e letteratura, Carrocci, Roma 2003, pp.77-79. 189 l'immagine in movimento, ad imporre un confronto inevitabile con la narrazione. Semplicemente con l'atto di proiezione, il cinema già racconta, in quanto compie le regole che la teoria della narrazione richiede al racconto letterario, ovvero esporre una trasformazione da uno stato iniziale a uno finale. L'elemento storia è quindi il medesimo per entrambi i linguaggi, è la tecnica usata per cambiare, in quanto parole e immagini sono una serie di segni, i quali appartengono a sistemi diversi, che tuttavia si assomigliano. Questo è ciò che sostiene Keith Cohen: «entro ciascuno di tali sistemi ci sono molti diversi codici (percettuale, referenziale, simbolico). Ciò che rende possibile, quindi, uno studio delle relazioni fra due separati sistemi di segni, come il romanzo e il film, è il fatto che negli stessi codici possono riapparire in più di un sistema. Nel momento in cui elementi visuali e verbali sono visti come parti di un sistema globale di significati, le affinità fra le due arti sono messe a fuoco»340. Se in comune vi è quindi l'intenzione di comunicare una storia, diversi sono gli strumenti con cui cinema e letteratura possono trasmetterla con la conseguenza che anche la materia dell'espressione, ovvero l'insieme di quelle tecniche formali utilizzate per comunicare la storia, cambi. Allo stesso modo anche Antonio Costa dimostra in Immagine di un'immagine341 come lettura e visione siano implicate in vari snodi della storia culturale del XX secolo: entrare nel profondo di un'opera significa saper “vedere racconti” e “leggere immagini”, vuol dire essere in grado di comprendere le ragioni della convivenza dei due linguaggi; si possono vedere racconti nel momento in cui si comprendono le varie forme del visivo sul narrativo letterario e, allo stesso modo, si leggono immagini quando si traducono le immagini-inquadrature in un enunciato narrativo. Le differenze tra cinema e letteratura si fondono principalmente sulla distinzione tra la parola e per l'appunto l'immagine, che fanno del cinema e della letteratura due mezzi espressivi diversi. Allo stesso tempo, è da questa sostanziale differenza che i due mezzi si sono potuti avvicinare: il cinema, “racconto per immagini”, necessita della capacità sintetica della parola per esprimere concetti astratti, mentre la letteratura ha bisogno di creare e di comporre per immagini e sfrutta così la loro peculiarità oggettiva. «Ne derivano diverse possibilità nella rappresentazione dello spazio per cinema e 340 Cohen Keith, Cinema e narrativa. Le dinamiche di scambio, Eri, Torino 1982, p.17. 341 Costa Antonio, Immagine di un'immagine. Cinema e letteratura, Utet, Torino 1993. 190 letteratura: il primo offre raffigurazioni iconico-analogiche della realtà, la seconda propone simboli astratti che evocano una realtà che dev'essere ricostruita e immaginata dal lettore»342. Le differenze tra il mezzo cinematografico e quello letterario si basano sulla modalità di enunciazione di una storia, che cambia in base allo strumento espressivo adottato: la parola o l'immagine. «L'immagine cinematografica offre una sintesi immediata dello spazio rappresentato attraverso la rappresentazione simultanea di tutti gli elementi che la compongono, l'immagine letteraria invece può presentare una sintesi differita del suo contenuto, poiché essa dispone in successione gli elementi elencandoli uno ad uno»343. Tale concetto venne espresso dal teorico, del Nouveau Roman344, Jean Ricardou nel saggio Plume et caméra (1967), in cui ritiene che la sintesi immediata dell'immagine cinematografica sia tale in quanto non vi è alcuna costrizione per la varietà degli oggetti impressionati, mentre la descrizione letteraria si snoda tra la precisione e la lunghezza, che quel determinato oggetto reclama e tale descrizione si basa sull'elencazione dei differenti aspetti di suddetto elemento345. Lo spazio e il tempo del discorso 346 nei due mezzi si differenziano in base al linguaggio scritto o alle immagini. «Il racconto cinematografico racconta lo spazio e il tempo attraverso uno spazio ed un tempo che si offrono direttamente alla percezione, i quali si vedono e durano in una concretezza, che è sconosciuta al racconto letterario»347. È possibile distinguere il tempo di un film in tre forme, le quali lo differenziano dal tempo letterario: vi è il tempo narrativo, ovvero il tempo del discorso; vi è poi quello diegetico, il tempo della storia narrata; infine vi è il tempo di ricezione, che lo spettatore impiega per la visione del film. I primi due tempi vengono identificati anche in letteratura, mentre il terzo appare profondamente diverso: difatti per il linguaggio 342 Brandi Paolo, Parole in movimento: l'influenza del cinema sulla letteratura, Cadmo, Fiesole 2007, p.149. 343 Brandi Paolo, Parole in movimento: l'influenza del cinema sulla letteratura, Cadmo, Fiesole 2007, p.150. 344 La corrente letteraria francese verrà trattata nel paragrafo 4.3. 345 Ricardou Jean, Plume et caméra (1967), il testo è citato in italiano in Brandi P., op.cit., p.151. 346 Il tempo del discorso si riferisce all'ordine in cui vengono raccontati gli eventi. Si differenzia dal tempo della storia in quanto questa racconta gli eventi in ordine cronologico. 347 Citato in Brandi Paolo, Parole in movimento: l'influenza del cinema sulla letteratura, Cadmo, Fiesole 2007, p.195. 191 cinematografico, il tempo narrativo coincide con quello di ricezione dello spettatore; mentre il tempo della narrativa letteraria corrisponde a qualcosa di indefinito in quanto il tempo di lettura è soggettivo e non dipende da nessuna influenza determinata dal medium348. Trova validità anche il discorso speculare per cui l'evoluzione dello spazio filmico può manifestarsi solo attraverso la dimensione temporale e solo mediante lo sviluppo di momento per momento, che apporta mutamenti alla forma spaziale 349. Keith Cohen sostiene questa teoria e aggiunge: «lo spazio e il tempo del film si sintetizzano l'uno con l'altro, […] ognuno viene percepito non più separatamente ma nei termini dell'altro»350. Perciò ogni segmento spazio-temporale del film rappresenta un tempo che è sempre presente; invece in letteratura il sistema di rappresentazione spazio-temporale si basa sull'organizzazione di tempi verbali e di forme linguistiche che consentono l'indicazione dei tempi della narrazione. Una collocazione della narrazione cinematografica nel passato o nel futuro può avvenire solamente attraverso una precedente contestualizzazione delle immagini, mentre in quella letteraria lo spostamento nel tempo avviene tramite date e tempi verbali che situano il personaggio, quindi anche il lettore, in un determinato momento. 4.2 Le teorie Dalla breve trattazione precedente si può intuire quanto sia ampia e complessa la tematica del rapporto tra cinema e letteratura, la scelta di approfondire determinati temi a discapito di altri è dettata dal tentativo di dare una serie di informazioni generiche, che preparino ad introdurre la seconda parte del capitolo dedicato a Jean-Luc Godard. Finora abbiamo analizzato la relazione tra cinema e letteratura a partire dal legame fra un sistema espressivo basato sulle immagini e uno basato sulla parola: in quanto entrambi i sistemi sono narrativi essi trovano un punto di contatto nello scopo 348 Secondo Brandi Paolo, op.cit., pp.195-196: il romanzo può essere letto a più riprese e in momenti diversi, mentre al cinema il film è visto in un unico momento e in un periodo di tempo che segue la sua lunghezza. 349 Secondo Brandi Paolo, Parole in movimento: l'influenza del cinema sulla letteratura, Cadmo, Fiesole 2007, p.197. 350 Cohen Keith, Cinema e narrativa. Le dinamiche di scambio, Eri, Torino 1982, p.70. 192 comune di raccontare delle storie. Anche per la relazione teorica 351 tra i due mezzi la trattazione verterà sul legame tra immagine e parola; inoltre parleremo del linguaggio cinematografico e di quello letterario senza però addentrarci troppo nel campo della semiotica352. «Punto di riferimento imprescindibile per la comprensione delle espressioni letteraria e cinematografica, dei relativi rapporti e della comune propensione al racconto è il percorso compiuto dalla cultura sovietica nei primi decenni del Novecento, nell'obiettivo di individuare gli elementi in comune tra il linguaggio verbale articolato sulla parola e quello cinematografico costituito dall'immagine e dall'organizzazione delle inquadrature»353. Sia il cinema che la letteratura possiedono la facoltà di esprimere idee e concetti astratti legati all'ambito dell'indivisibile, nonostante entrambi comunichino tramite mezzi visibili. Questa capacità fu ben presto chiara agli esponenti del formalismo russo354, Yurij Tynjanov, Viktor Šklovskij e Boris Ejchenbaum, i quali estesero i loro studi sulla natura e struttura del linguaggio letterario al mezzo cinematografico, grazie anche all'apporto, in quegli anni, dei cineasti Sergej Michajlovič Ėjzenštejn, Vsevolod Pudovkin e Dziga Vertov che furono a loro volta grandi teorici influenzati dal formalismo. All'origine di queste teorie vi sono gli esperimenti del cineasta Lev Kulešov, maestro degli appena citati registi, il quale era riuscito a dimostrare la capacità intrinseca del cinema di esprimere concetti astratti tramite la tecnica del montaggio 355. L'effetto Kulešov, fenomeno cognitivo del montaggio cinematografico, è la 351 I testi di riferimento per la trattazione sono: Brandi Paolo, Parole in movimento: l'influenza del cinema sulla letteratura, Cadmo, Fiesole, 2007; Manzoli Giacomo, Cinema e letteratura, Carrocci, Roma 2003; Battisti Chiara, La traduzione filmica: il romanzo e la sua trasposizione cinematografica, Ombre Corte, Verona 2008. 352 La semiotica è una disciplina che studia i segni e la loro significazione. Quella del cinema è una disciplina molto vasta che raccoglie a sé numerose correnti di pensiero e di studio: la teoria del linguaggio di Metz (analisi testuale del film) o il concetto di “significante immaginario” di Lacan (studio sugli effetti provocati allo spettatore), o infine l'enunciazione. Non è di nostro interesse per la suddetta trattazione indagare i diversi studi della semiotica del cinema, il paragrafo perciò prenderà in analisi alcune teorie che vertono sul rapporto tra cinema e letteratura, nelle quali molto spesso, la semiotica è il campo comune tra le due arti. 353 Brandi Paolo, Parole in movimento: l'influenza del cinema sulla letteratura, Cadmo, Fiesole 2007, p. 129; 354 Movimento critico nato intorno al 1915 (concluso circa nel 1928) per contrastare il criticismo letterario tradizionale che si basava sull'indagare l'aspetto puramente formale dell'opera letteraria. 355 Secondo Manzoli Giacomo, Cinema e letteratura, Carrocci, Roma 2003, p.47. 193 dimostrazione di come un'inquadratura possa tramettere sensazioni diverse in base alle inquadrature che la precedono o la seguono. Ad esempio, se viene prima mostrato un volto deperito e successivamente si mostra una tavola imbandita, ciò che le due inquadrature esprimono è una condizione psicofisica “astratta”, ovvero la fame. Perciò la giustapposizione consecutiva di immagini porta lo spettatore a creare una relazione tra queste, che lo condurrà ad una riflessione sulla relazione narrativa tra gli eventi appena mostrati. Con questo metodo, Ėjzenštejn nel film Oktjabr (Ottobre, 1928) indicò le ragioni dell'ateismo di stampo marxista, associando le immagini delle chiese e dei simboli della religione cristiana ortodossa a quelli di emblemi di altre religioni, nel tentativo di veicolare il messaggio marxista della “religione come oppio dei popoli”356. Le riflessioni teoriche sul cinema del critico formalista Boris Ejchenbaum prendono avvio dal concetto di metafora cinematografica rispetto a quella letteraria: egli sostiene che la metafora filmica sia la realizzazione visiva di quella verbale e viceversa, perciò la prima viene colta in quanto essa è traducibile in parole, mentre quella letteraria è traducibile in immagini. Pertanto i due linguaggi possono essere identificati come equivalenti; tuttavia la diversa natura degli elementi linguistici delle due espressioni produce effetti e contenuti che non possono essere comparati: «la metafora visiva non è mai tradotta perfettamente in parole e quella verbale non è mai automaticamente traducibile in immagini»357. Dunque quella visiva si modella sia in corrispondenza dell'autore, sia nella comprensione dello spettatore e si basa su una metafora verbale, dalla quale dipende: «La metafora cinematografica è possibile soltanto a condizione che essa poggi sulla metafora verbale. Lo spettatore può intenderla soltanto nel caso che la sua riserva mentale comprenda una corrispondente espressione metaforica» 358. Perciò, la parola necessita di trovare un'analogia nell'immagine per riconvertirsi in forma verbale. Gli studi di Ejchenbaum si concentrano poi sulle categorie di poesia e di prosa in ambito cinematografico e verbale: il critico riteneva che la poesia, sia nel testo scritto che nel cinema, non possa essere ottenuta con la semplice riproduzione di oggetti intrinsecamente poetici, ma essa è il risultato di precise scelte stilistiche (nel cinema 356 Citato in Manzoli Giacomo, Cinema e letteratura, Carrocci, Roma 2003, p.48. 357 Manzoli Giacomo, Cinema e letteratura, Carrocci, Roma 2003, p.49. 358 Kraiski Giorgio (a cura di), I formalisti russi nel cinema, Garzanti, Milano 1987, p.50. 194 sono l'inquadratura, l'illuminazione o il montaggio), che hanno una conseguenza sul risultato semantico. Anche Viktor Šklovskij359 sostiene la medesima tesi, ritenendo inoltre che il confine tra poesia e prosa sia molto labile tanto in letteratura quanto nel cinema; talvolta la semantica è sacrificata per l'estetica o viceversa. Egli sostiene che la poesia non agisca come la prosa sul piano semantico, ma «su quello puramente compositivo, al punto che la grandezza compositiva risulti funzionalmente pari a quella semantica. La differenza fondamentale tra la poesia e la prosa risiede forse nel carattere più geometrico dei procedimenti, nel fatto che un'intera serie di soluzioni semantiche fortuite è sostituita da una soluzione puramente geometrica formale» 360 inoltre «esiste un cinema prosastico e uno poetico […] e ciò che distingue uno dall'altro non è il ritmo o non soltanto il ritmo bensì il prevalere dei momenti tecnico-formali nel cinema poetico in confronto a quelli semantici»361. Lo scrittore e cineasta Pier Paolo Pasolini, nel 1965, prosegue questo tema aperto dai formalisti russi in uno scritto dedicato al Cinema di poesia, nel quale pone una distinzione tra il cinema di prosa (associato ai film di John Ford o di Charlie Chaplin, registi che, secondo Pasolini, si sottomettono al racconto seguendo le regole del racconto filmico) e il cinema poetico (eretto su un linguaggio metaforico in quanto creatura dell'immaginazione). Secondo il famoso regista, la lingua della poesia irrompe nel linguaggio della prosa attraverso il concetto letterario del “discorso libero indiretto”, interpretato dal letterato come un espediente con cui lo scrittore si mimetizza in un personaggio. Pasolini allora cerca di capire come attuare una tecnica simile anche nel cinema e associa al termine letterario quello cinematografico di “soggettiva libera indiretta”. Il poeta giunge però alla conclusione che nel cinema non esistono strumenti in grado di esprimere direttamente colui che le pronuncia; il regista può solamente ricorrere a procedimenti stilistici che siano in grado di portare ad un effetto simile, come le inquadrature stilizzate, le posizioni della cinepresa, la messa a fuoco e 359 Nel 1917 pubblicò il saggio-manifesto del formalismo russo L'arte come artificio, nel quale elaborò la teoria dello straniamento come esperienza centrale dell'opera artistica: un procedimento che si basa sul rendere la visione deformata rendendola estranea alla propria natura. 360 Šklovskij Viktor, La poesia e la prosa nel cinema, in Kraiski G. (a cura di), I formalisti russi nel cinema, Garzanti, Milano 1987, pp.148-149. 361 Šklovskij Viktor, La poesia e la prosa nel cinema, in Kraiski Giorgio (a cura di), I formalisti russi nel cinema, Garzanti, Milano 1987, p.150. 195 l'illuminazione, in grado di sottolineare l'individualismo del personaggio senza essere delle soggettive. Tornando indietro nel tempo, l'analisi dei rapporti tra le varie arti trova riscontro negli anni Trenta nelle ricerche compiute dal critico letterario e semiologo Jan Mukařovský, il quale esamina il ruolo di ogni espressione artistica e le interferenze che ne definiscono i rapporti e pone la sua particolare attenzione sulle analogie tra il mezzo filmico e quello letterario. Presupponendo che il cinema detenga numerosi legami con la letteratura (l'epica e la lirica) ma anche con il dramma, la pittura, la musica e che con ognuna di esse abbia in comune con il cinema alcuni mezzi formali, Mukařovský afferma che i legami più stretti siano quelli con la letteratura, in quanto il film si trova tra l'epica e il dramma, poiché esse sono arti tematiche, come lo è il cinema stesso: «L'affinità permette la facile trasposizione del tema dall'una all'altra arte; inoltre ciascuna di queste tre arti può facilmente influire sulle altre due: agli inizi del suo processo per esempio il cinema subì l'influenza dell'epica e del dramma, ora questo rapporto sembra essersi invertito»362. Mukařovský sostiene che l'affinità tra il cinema, l'epica e il dramma rende possibile un legame che permette di far emergere le concordanze tra le tre arti e, allo stesso tempo, di trarre delle conclusioni generali sulle influenze tra esse. Queste teorizzazioni di Mukařovský saranno sviluppate da Roman Jakobson, il quale indagherà le proprietà del segno cinematografico e di quello linguistico dando una precisa definizione dei procedimenti metaforici e metonimici 363, termini che sono oggi la base della costruzione del discorso cinematografico: Materiale di ogni arte è il segno, e per i cineasti è evidente l'essenza segnica degli elementi cinematografici […]. È per questo che nelle riflessioni sul cinema si parla sempre metaforicamente di linguaggio del cinema, persino di “cinefrase” con tanto di soggetto e predicato, di proposizioni cinematografiche subordinate (Boris Ejchenbaum), di elementi verbali e sostantivali nel cinema. […] Il cinema lavora con frammenti di soggetti e 362 Mukařovský Jan, Il tempo nel film, in Il significato dell'estetica, Einaudi, Torino 1973, p.332; qui citato in Brandi P. op.cit., p.133. 363 Nel linguaggio verbale, la metonimia è una figura retorica basata sulla sostituzione di un termine con un altro con cui ha una relazione di contiguità, ad esempio: ascolto Mozart è riferito alle opere di Mozart. Si differenzia dalla metafora in quanto quest'ultima è una figura retorica che implica il trasferimento di significato da un termine ad un altro; ad esempio: Luca è un santo, riferendosi al fatto che Luca non commette ingiustizie. 196 con frammenti di spazio e di tempo differenti quanto alla grandezza, ne muta le proporzioni e li collega secondo la contiguità oppure secondo la similarità e il contrasto, cioè secondo la strada della metonimia oppure quella della metafora.364 Tali affinità appena analizzate tra il linguaggio verbale e quello cinematografico sono il punto d'incontro dal quale possono emergere le differenze tra le due arti. La prima sostanziale differenza che emerge tra cinema e letteratura è la distinzione del linguaggio-immagine e del linguaggio-scritto. A partire dal concetto di suddivisione della parola della lingua scritta in monema 365 e fonema366, Christian Metz, nel saggio del 1964 Il cinema: lingua o linguaggio?367, tenta di verificare la validità dell'applicazione del modello linguistico della parola al linguaggio del cinema. Metz ritiene che il cinema non possa essere confrontato ad una lingua (parlata o scritta) in quanto essa non possiede unità di senso stabilite come i monemi, dal momento che ogni ripresa è unica, e neppure ai fonemi, in quanto tutti gli elementi che compongono un'inquadratura hanno già un senso compiuto. Inoltre il cinema non possiede nessuno dei tre fenomeni che contraddistingue la lingua scritta o parlata: «esso non ha una langue, un dizionario di parole con tutte le regole che sovrintendono alla loro organizzazione in una grammatica e poi in una sintassi; non ha dei segni perché non presenta allo spettatore delle cose che rimandano ad altre cose (monemi e fonemi), bensì dei fatti che indicano prima di tutto se stessi; infine e di conseguenza, il cinema non è votato all'intercomunicazione, come la lingua, ma all'espressione»368. Per Metz dunque «rispetto al binomio letteratura/lingua, abbiamo un solo cinema, che assomiglia più alla letteratura che alla lingua»369. In base a questi concetti, egli sposta la sua attenzione sul modo in cui si costruisce un racconto e isola le regole che 364 Jakobson Roman, Cinema metaforico e metonimico, “Cinema & Film”, n.2, primavera 1967, pp.163168. Il saggio originale è del 1933; qui citato in Brandi P., op.cit., pp.133-134. 365 Un monema è il più piccolo elemento di una parola dotato di significato che non possa essere ulteriormente suddiviso. Ad esempio la parola gatto è composta dal monema (radice) gatt- e dal monema (desinenza) -o. 366 Un fonema è una unità linguistica in grado di produrre variazioni di significato se scambiata con un'altra unità. Ad esempio, la differenza di significato tra l'italiano tetto e detto è il risultato dello scambio tra il fonema-lettera t e il fonema d. 367 Saggio raccolto in Langage et cinéma (1971), trad. ita. (a cura di) Alberto Farassino, La significazione del cinema, Bompiani, Milano 1975; il saggio originale è del 1964. 368 Manzoli Giacomo, Cinema e letteratura, Carrocci, Roma 2003, p.41. 369 Metz Christian, La significazione del cinema, Bompiani, Milano 1975, p.121; qui citato in Manzoli G., op.cit., p.41. 197 sovrintendono la sintassi cinematografica, la quale si esprime attraverso il montaggio. Metz chiarisce così i quattro elementi della suddetta analisi: il testo (il film); il messaggio; il codice; il sistema singolare (regole interne che reggono l'organizzazione di un testo specifico). Qualche anno dopo, Pier Paolo Pasolini afferma, in un saggio del 1966 La lingua scritta della realtà, che il regista produce gli strumenti della propria lingua avendo a disposizione le inquadrature (simili ai monemi) e gli elementi che rientrano in ciascuna di esse, che Pasolini chiama cinémi (possono essere associati ai fonemi della lingua verbale). Perciò, secondo lui, i monemi sono le immagini che il regista porta alla memoria, le quali sono dotate di un senso proprio dato dall'esperienza del cineasta, formate da cinémi. «Il cinema sarebbe una lingua che possiede a tutti gli effetti, una doppia articolazione»370. Negli stessi anni, da questo dibattito emersero le figure di Gianfranco Bettetini 371 e di Umberto Eco372. Per Bettetini «la doppia articolazione deve essere spostata fra nuclei che danno conto di una certa situazione (gli iconémi, simili alle frasi) e i fattori tecnici che li determinano (simili alle parole); Eco, invece, propone un'articolazione divisa in tre momenti: segni che possiedono un senso autonomo, figure che sono semplici significanti, e cinemorfi, cioè gesti complessi che si dispiegano nella successione dei fotogrammi»373. Ad esempio, di fronte ad un'inquadratura che rappresenta un cavaliere medievale, lo spettatore percepisce il personaggio come segno, in quanto l'immagine rappresenta un cavaliere eroico e forte. Questi elementi donano un senso compiuto alle immagini (significato) nel momento in cui vengono sommati ad una serie di oggetti tra cui l'armatura e la spada (oggetti che, se visti isolatati da un preciso scenario non hanno alcun significato), per poi essere inseriti in un contesto di svolgimento di un'azione precisa, ad esempio il cavaliere che uccide il drago (cinemorfi). In questo dibattito c'è un aspetto che rimane ancora implicito ed è Metz a rivelarne il nodo. La letteratura utilizza una lingua verbale dove si incrociano il piano della denotazione, in cui un fatto o un evento viene riferito a titolo puramente informativo, e 370 Manzoli Giacomo, Cinema e letteratura, Carrocci, Roma 2003, p.42. 371 Bettetini Gianfranco, Cinema: lingua e scrittura, Bompiani, Milano 1968. 372 Eco Umberto, La struttura assente: introduzione alla ricerca semiologica, Bompiani, Milano 1968. 373 Manzoli Giacomo, Cinema e letteratura, Carrocci, Roma 2003, p.42. 198 il piano della connotazione. Quest'ultimo produce effetti di senso che mirano all'espressività e tenta di far scaturire il senso di un'informazione dalle parole stesse. Ogni romanzo alterna espressioni connotative ad altre denotative e, questo, può avere validità anche nel cinema, ma in forma differente. Nella sala cinematografica, vi è l'inquadratura puramente descrittiva (denotativa) ed una maggiormente elaborata sia sul piano iconografico, sia sul piano della tecnica di ripresa (connotativa). Metz ritiene che al cinema non possa esistere un piano denotativo disgiunto dall'espressione: ad esempio, nonostante le immagini di un documentario sulle operazioni a cuore aperto siano puramente descrittive-denotative, esse produrranno comunque un effetto emotivo sullo spettatore, in quanto le immagini in sé sono legate all'ambito dell'espressione. Al contrario, se portiamo le stesse immagini in parole, la descrizione dell'operazione non produrrà nello spettatore la stessa reazione emotiva che avrebbe invece nel vedere quelle immagini. Metz perciò sostiene che le immagini cinematografiche non siano puramente comunicative, ma esse sono sempre legate al piano dell'espressione. 4.3 Letteratura e cinema: una visione storica Il rapporto tra letteratura e cinema trova, a mio parere, la sua origine in un elemento che è di vitale importanza per l'opera cinematografica: la sceneggiatura. Nella cinematografia, la suddetta è l’ultima fase dell’elaborazione scritta del soggetto del film, in cui si identifica la storia. «La sceneggiatura designa la costruzione della struttura narrativa del film che precede le riprese e quindi individua un processo produttivo che va oltre il testo vero e proprio»374. La sceneggiatura di un film si divide in soggetti originali, che nascono dalla creatività dello sceneggiatore, e in soggetti derivati, i quali provengono da opere letterarie o teatrali, da eventi storici o fatti di cronaca o da altre sceneggiature cinematografiche precedenti (remake)375. Il soggetto derivato più conosciuto ed usato al cinema è la trasposizione ed avviene quando una sceneggiatura deriva dalla trama di un 374 La definizione del termine si trova in Enciclopedia Treccani.it (http://www.treccani.it/enciclopedia/sceneggiatura/ - ultima visualizzazione: 26/12/2014) 375 Secondo la suddivisione in Battisti Chiara, La traduzione filmica: il romanzo e la sua trasposizione cinematografica, Ombre Corte, Verona 2008, p.45. 199 libro; la trasposizione è il processo seguente a quello di adattamento, che è la prima fase di lavorazione nella quale si rielabora sommariamente l'opera letteraria. Solitamente la trasposizione cinematografica non è mai del tutto fedele al romanzo e il testo viene adattato privilegiando alcuni aspetti rispetto ad altri, modificando le variabili tematiche e narrative. «La traduzione cinematografica non è tesa a proporre una mera corrispondenza formale ed una precisione letterale, ma a rinnovare il romanzo di riferimento, dando vita ad un nuovo testo, che garantisca la vicinanza autentica a quello originale e che trasformi, al contempo, il modo di percepire il romanzo, rendendone possibile il durare e il progredire del tempo»376. Nei confronti dell'adattamento cinematografico le strategie possono essere molteplici377: Si attua una restrizione, quando si usano solo delle parti del testo di derivazione; viceversa, la dilatazione può riguardare sia l'intero sviluppo narrativo e, in questo caso, ciò avviene quando del racconto di base rimane solo una traccia, oppure l'attenzione può essere posta solo su singoli episodi del racconto letterario; infine, si può isolare una parte di narrazione in modo che il film divenga solo una digressione del racconto. Questa piccola digressione sul concetto di sceneggiatura e sul rapporto che può intraprendere il cinema nei confronti della letteratura con la traduzione filmica di un libro era necessaria per introdurre ciò che analizzeremo nelle pagine seguenti. Dal momento in cui il cinema ha scoperto la propria dimensione narrativa, sono stati molti i registi ad aver “tradotto” testi letterari nel nuovo linguaggio cinematografico e dal punto di vista storico questo risultò di fondamentale importanza per l'elevazione del mezzo cinematografico. L'analisi storica che ci presteremo ora ad analizzare spazierà dalla 376 Battisti Chiara, La traduzione filmica: il romanzo e la sua trasposizione cinematografica, Ombre Corte, Verona 2008, p.62. 377 Per semplificazione abbiamo preso ad esempio questa classificazione di Tinazzi Giorgio, La scrittura e lo sguardo. Cinema e letteratura, Marsilio, Venezia 2007, pp.84-85. Per un approfondimento sulle teorie dell'adattamento si consiglia Dusi Nicola, Il cinema come traduzione. Da un medium all'altro: letteratura, cinema, pittura, Utet Università, Torino 2003; Brunetta Gian Piero, Letteratura e cinema, Zanichelli, Bologna 1976. 200 traduzione filmica alle influenze più esplicite tra un movimento letterario e quello cinematografico, per terminare con un'argomentazione sull'uso della citazione letteraria al cinema, che ci introdurrà alla produzione di Jean-Luc Godard. 4.3.1 Cinema muto Nelle prime proiezioni del cinematografo Lumière l'esigenza da parte del pubblico di assistere ad una storia non era così rilevante come assistere per la prima volta ad immagini fotografiche in movimento. Il bisogno di una narrazione, emerso negli spettatori qualche mese dopo la prima proiezione378, fece intuire le potenzialità del nuovo mezzo la cui rappresentazione realistica poteva avere uno sviluppo in ambito narrativo. Vi sono alcune ragioni che spinsero l'unione definitiva tra cinema e narrazione, per semplificazione prenderemo ora in considerazione le tre principali379. La prima forte motivazione è l'immagine figurativa in movimento, difatti il cinema si propone inizialmente come mezzo di replicazione della realtà, ma il solo fatto di mostrare un oggetto in modo che sia riconosciuto è un atto che implica il voler dire qualcosa di quell'oggetto, un valore di cui esso è rappresentante. La seconda è l'immagine in movimento, in quanto essa è in continua trasformazione ed il movimento esige il tempo, e come la storia letteraria anche il cinema offre la durata e la trasformazione. Infine, la terza motivazione è da ricercare in una legittimità del cinema stesso: i primi spettacoli cinematografici erano considerati un'attrazione fieristica e un po' volgare, per riuscire ad elevarsi ed essere riconosciuto come arte, il cinema si dedicò allo sviluppo del suo potenziale narrativo. Alla nascita del cinematografo il teatro sembrava il mezzo più vicino al cinema in quanto favoriva la possibilità di riproduzione immediata, ben presto però si diffuse la pratica di usufruire di testi letterari per le sceneggiature dei film: «il ricorso fu diretto, in quanto si utilizzarono storie, impianti narrativi o semplici schemi di racconto, personaggio o vicende; fu però anche indiretto, perché si attingeva più in generale a un 378 La quale si svolse il 28 dicembre 1895 a Parigi. 379 Secondo la suddivisione posta da Aumont Jacques, Bergala Alain, Marie Michel, Vernet Marc, Esthétique du film, Nathan, Paris 1983. Trad. ita. “Cinema e narrazione” in Estetica del film, Lindau, Torino 1995, pp. 59-61. 201 immaginario diffuso creato dalla parola scritta»380. L'esigenza di avvicinarsi al mondo letterario scaturiva dal bisogno, sempre più pressante, di superare i limiti di una riproduzione imitativa del reale, nel tentativo di costruire una riproduzione che fosse narrativa in risposta alle esigenze del pubblico. Inoltre, presentare uno spettacolo con nomi illustri della letteratura o con trame e personaggi conosciuti permetteva un successo di pubblico e di botteghino assicurato. Così dal preteso di una promozione culturale e di storie da narrare, la letteratura diviene per il cinema l'occasione per elaborare nuove potenzialità espressive e artistiche e, da questo momento, la narrativa entra ufficialmente nel mondo cinematografico. A partire dal 1902, lo sviluppo tecnico in ambito filmico condusse ad una serie di cambiamenti che favorì una certa continuità nella narrazione: i film si allungarono, le storie si fecero più complesse, le trame più fitte e composte da più inquadrature. Il passaggio da una singola inquadratura, caratteristica del cinema primitivo, ad una pluralità di inquadrature, con posizioni e distanze differenti, fece emergere però le prime difficoltà nella produzione di un racconto che risultasse chiaro e comprensibile al pubblico. Per tale motivo, si ricorse all'uso degli intertitoli, dei cartelli che venivano inseriti tra un quadro e l'altro con la funzione di anticipare il contenuto dell'episodio che seguiva. Con lo scopo di sostenere una forma di continuità tra le inquadrature tale da consentire allo spettatore di cogliere ciò che avveniva in modo discontinuo nelle immagini, gli intertitoli comparvero la prima volta nel 1903, nel film Uncle Tom's cabin (La capanna dello zio Tom) del regista Edwin Porter. Nel periodo del cinema muto, gli intertitoli potevano essere di due tipologie: vi era il tipo descrittivo, il cui testo era scritto in terza persona e riassumeva le vicende che si sarebbero svolte nella scena successiva381; oppure vi erano gli intertitoli che presentavo i dialoghi, i quali potevano essere inseriti prima dell'inquadratura, in cui il personaggio parla, o a metà sequenza, subito dopo che il personaggio comincia a parlare382. Allo stesso tempo, accanto agli intertitoli, vi erano anche le figure di veri e 380 Tinazzi Giorgio, La scrittura e lo sguardo. Cinema e letteratura, Marsilio, Venezia 2007, p.10. 381 Tra gli intertitoli descrittivi vi erano testi anche più concisi, simili a titoli di un libro (ad es. “Il fidanzamento è rotto”) o infine vi erano quelli che segnalavano allo spettatore un salto temporale (ad es. “Un anno dopo”). 382 Quest'ultima soluzione venne usata abitualmente a partire dal 1914, quando si comprese che lo spettatore percepiva chiaramente il senso della scena nel momento in cui l'intertitolo coincideva con l'immagine del personaggio mentre parlava. 202 propri narratori (l'imbonitore), che tramite l'uso della parola orale svolgevano le stesse funzioni delle didascalie. Ovviamente queste figure erano affiancate ai film che non contenevano nessuna forma di scrittura extradiegetica e il loro lavoro era quello di introdurre i contenuti e il succedersi narrativo delle immagini. Parallelamente all'invenzione degli intertitoli, si stava sviluppando una forma di montaggio relativamente semplice, la quale riusciva a chiarificare alcune forme narrative, come ad esempio quella dell'inseguimento, che viene raggiunta con The Great Train Robbery383 (La grande rapina al treno, 1903) di Edwin Porter, film nel quale la linearità del racconto risulta completa al punto da essere considerato il primo film narrativo della storia del cinema. In questo periodo, i registi iniziarono a studiare e ad applicare una serie di tecniche per consentire allo spettatore la corretta comprensione temporale e spaziale tra un'inquadratura e un'altra, finché a partire dai primi anni Dieci queste serie di tecniche formarono il principio di continuità narrativa del montaggio 384 basato su la connessione, spaziale e temporale, tra un'inquadratura e quella precedente. Grazie allo sviluppo di queste tecniche, a partire dal primo decennio del Novecento la trasposizione letteraria trovò il suo sviluppo più florido in ambito cinematografico. In Francia, la casa di produzione Pathé si avvalorò della collaborazione del regista Ferdinand Zecca, il quale produceva film che traevano ispirazione dalla contemporaneità e dalla letteratura realistica di Émile Zola. Il realismo delle immagini e lo stile quasi documentaristico della rappresentazione si trovano in Les victimes de l'alcoolisme (Le vittime dell'alcolismo, 1902) o in La grève (Lo sciopero, 1903) dove emergono l'influenza sociale dei romanzi di Zola. I temi sociali e drammatici dei fatti di cronaca quotidiana non erano una critica nei confronti della società dell'epoca, ma avevano uno scopo prettamente commerciale, in quanto tali film potevano soddisfare un ampia fetta di pubblico popolare. In questa prospettiva, accanto ai drammi sociali si affiancano film di carattere storico, principalmente religioso, tratto dalle vicende della Bibbia. 383 Il film è composto da undici inquadrature in cui si narra la storia di un gruppo di ladri che assale un treno. 384 La continuità narrativa si basa su tre metodi per unire le sequenze: il montaggio alternato, il montaggio analitico, il montaggio contiguo. 203 L'importanza della letteratura come apporto al nuovo cinema nascente è riscontrabile nella fondazione nel 1907 della Sociéte Cinématographique des Auteurs et des Gens de Lettres (SCAGL), specializzata nel produrre film tratti da opere letterarie o basate su sceneggiature create da scrittori. La società, diretta da Albert Capellani, portò sullo schermo alcuni grandi capolavori letterari di Victor Hugo, Émile Zola, Jean Racine, che riscossero ancora una volta un grande successo. Fu proprio nel 1912 che la trasposizione in quattro parti del romanzo di Hugo, Les misérables (I miserabili) da parte del regista Capellani costituì un segnale inequivocabile della nuova tendenza a realizzare prodotti di maggiore durata e a costi più elevati, destinati soprattutto al mercato americano. A partire dal 1908 l'obiettivo dell'industria cinematografica era quello di avvicinare il pubblico borghese al nuovo mezzo, da cui fino ad allora aveva tenuto le distanze. Per fare questo si decise di attingere ad opere letterarie e teatrali celebri, di alto spessore culturale, in modo da riuscire ad alzare il valore dei soggetti. In Francia, a questo scopo, nacque la casa di produzione Film d'Art, il cui fine principale era quello di allargare il bacino del pubblico di cinema verso gli strati più colti della popolazione ricorrendo ad attori e registi di teatro e della Comédie-Française. La casa di produzione mise in scena spettacoli dal carattere storico mitologico come Le retour d'Ulysses (1909) o adattamenti teatrali come La Tosca (1911). Il successo giunse con L'assassinat du duc de Guise (1908) diretto da André Calmettes e Charles Le Bargy e che vide la partecipazione di attori teatrali e l'adattamento scenografico del celebre scrittore Henri Lavedan. Il rapporto tra cinema e letteratura del periodo muto raggiunge il suo apice nel ambiente italiano, secondo una strategia che fa della letterarietà un vero e proprio elemento caratterizzante385. Nei restanti Paesi europei e negli Stati Uniti il cinema assume un carattere popolare in seguito alla concezione elastica delle classi sociali, mentre in Italia è principalmente borghese. Così mentre all'estero la produzione cinematografica si specializza in forme narrative adatte anche ad un pubblico meno colto, in Italia la borghesia chiede alla nuova arte soggetti originali. Le case di produzione italiane ingaggiano letterati e scrittori di fama, in grado di donare alla 385 Secondo Manzoli Giacomo, Cinema e letteratura, Carrocci, Roma 2003, p.12. 204 rappresentazione cinematografica un valore artistico; spiccano così nomi dal calibro di Giovanni Verga, Guido Gozzano, Luigi Pirandello e, soprattutto, Gabriele D'Annunzio. Negli anni Dieci, il cinema italiano è fortemente condizionato dalla poetica dannunziana, dalla quale nascono due fenomeni che possono essere ricollegati, direttamente o indirettamente, al letterato. Difatti, in questi anni, in Italia, nasce il divismo cinematografico, alimentato dalle trame passionali, di amori torbidi e sensuali e di donne fatali386. Anche le scenografie e i costumi richiamano quel mondo dannunziano e del decadentismo europeo387 tipico del primo decennio del Novecento; inoltre le didascalie dei film storici e dei melodrammi italiani si distinguono per un uso ridondante della parola, dotate di risonanze letterarie e talvolta poetiche. Sull'altro versante, le case di produzione iniziarono a specializzarsi nella produzione di film kolossal storico-mitologico, nel quale D'Annunzio è ancora protagonista con il film Cabiria (1914) di Giovanni Pastrone, che vede l'apporto dello scrittore nel soggetto e nelle didascalie. Quasi sicuramente la stesura non fu dello scrittore, ma è indubbia la sua influenza nell'estetica e nello stile aulico e celebrativo. Ciò che importava, al pubblico e alla critica del tempo, non era tanto che il suo apporto fosse avvenuto o meno, ma che la sua firma apparisse nei cartelloni come prova di artisticità e di celebrazione del film. Nei primi anni Dieci, l'apporto letterario è per la produzione cinematografica italiana un punto di forza rispetto agli altri Paesi, ma diviene presto un forte limite nel momento in cui si iniziò ad esplorare con intensità le possibilità espressive del cinema. Difatti, la produzione muta italiana non apportò particolari novità sul piano estetico e artistico388, solamente Cabiria risultò una tappa fondamentale nel linguaggio cinematografico. Difatti, negli stessi anni oltreoceano, il cineasta David Wark Griffith sta realizzando uno dei suoi più grandi capolavori, The Birth of a Nation (1915) che ha come modello di riferimento proprio il film Cabiria389 e due testi letterari di Thomas Dixon Jr., The Leopard's Spots e The Clansman. I testi letterari vengono usufruiti come 386 Ad esempio ricordiamo gli attori-divi Lyda Borelli, Francesca Bertini, Leda Gys, Febo Mari. 387 Il Decadentismo è un movimento artistico e letterario (fine Ottocento-primi del Novecento) che si oppone alla razionalità e al positivismo del naturalismo. Coincide con la crisi dell'intellettuale in quanto essi si sentono incapaci di risolvere i mali della società, come avvenne nel Romanticismo. 388 Secondo Rondolino Gianni, Storia del cinema (vol. 1), Utet, Torino 1997, p.99. 389 Secondo Manzoli Giacomo, Cinema e letteratura, Carrocci, Roma 2003, p.15. 205 spunto per le azioni e per i personaggi che fanno da sfondo alla tematica principale sulla storia americana. Griffith sviluppa, fin dai primi anni del Novecento, le potenzialità narrative ed espressive del cinema attraverso la tecnica del montaggio 390, creando un film la cui storia narrata non ha nulla di cui invidiare ad un libro. Secondo il critico e regista sovietico Sergej Ėjzenštejn da «Dickens, dal romanzo vittoriano, nascono i primi elementi dell'estetica cinematografica americana»391 di cui Griffith, con le sue opere, è il primo rappresentante. 4.3.2 Avanguardie storiche Dalla nascita del cinema fino agli anni Venti, il rapporto tra cinema e letteratura ha dato vita a fenomeni di interazione artistica, che rappresentano un punto di vista privilegiato su quello che secondo Keith Cohen è «il periodo durante il quale le idee sperimentali dei teorici del XIX secolo sui rapporti scambievoli tra le arti furono messe in pratica con crescente sicurezza» evidenziando il «cambiamento dalla indipendenza alla interdipendenza artistica»392. È questo il periodo in cui il cinema provoca l'impatto più significativo sulle arti preesistenti e allo stesso tempo interagisce con esse in un rapporto di scambiabilità reciproca di forte rilevanza. Un ruolo determinante nel favorire l'interazione tra letteratura e cinema è rappresentato dal clima culturale suscitato dalle avanguardie storiche, i cui rappresentanti perseguivano l'obiettivo di demolire ogni forma estetica tradizionale, per un superamento dei confini fra le arti e cercando di accomunare le diverse espressioni artistiche. «In questo percorso il cinema diventa inevitabilmente il punto di riferimento privilegiato in quanto esso viene interpretato come l'arte totale che ingloba in un'unica manifestazione tutte le altre forme artistiche, garantendo esiti che superano le possibilità di ogni singola espressione»393. I percorsi delle avanguardie storiche hanno un traiettoria 390 Griffith sviluppa il cosiddetto montaggio narrativo scomponendo la scena in diverse inquadrature e in base ai collegamenti tra queste inquadrature si hanno molteplici effetti. Il montaggio analitico (o montaggio classico) è quello più conosciuto e si basa sul raccordo di movimento tra inquadrature, raccordo sull'asse, raccordo di posizione, raccordo di sguardo, raccordo di soggettiva 391 Ėjzenštejn Sergej M., La forma cinematografica, Einaudi, Torino 2003, p.204. 392 Cohen Keith, Cinema e narrativa. Le dinamiche di scambio, Eri, Torino 1982, p.11. 393 Brandi Paolo, Parole in movimento: l'influenza del cinema sulla letteratura, Cadmo, Fiesole 2007, p.40. 206 comune, basata sul rifiuto verso il cinema ufficiale e alle sue leggi discorsive, un rinnegare la rappresentatività e la narratività lineare, che giunge al concetto di interartisticità come presupposto per una elaborazione estetica del cinema in quanto arte, la quale integra alle proprie peculiarità anche quelle dei linguaggi artistici preesistenti. Le avanguardie storiche violano il modo di organizzazione visivo-narrativo fino ad allora studiato e sviluppato, nella quale le immagini fanno parte di una serie narrativa, dove i materiali filmici sono visti come una storia, ovvero come un concatenamento di unità diegetiche. Gli artisti tentano perciò di intervenire su questo schema con l'obiettivo di superarlo, di inventare nuovi modelli e di contrapporre flussi discontinui di immagini alla continuità del flusso narrativo. 4.3.3 Futurismo Questo concetto avvenne con gli artisti futuristi, i quali riconoscono nella velocità, nella modernità, nel movimento, nell'industria e nel montaggio gli elementi della loro pratica artistica per individuare poi nel cinematografo la modernità assoluta, in quanto prodotto dell'età tecnologica e industriale, fondato sulla velocità, sul movimento e sul montaggio. Nel Manifesto tecnico della letteratura futurista del 1912 si afferma appunto che «il cinematografo ci offre la danza di un oggetto che si divide e si ricompone senza intervento umano. Ci offre anche lo slancio a ritroso di un nuotatore i cui piedi escono dal mare rimbalzando violentemente sul tavolino. […] Sono altrettanti movimenti della materia, fuori dalle leggi dell'intelligenza e quindi di un'essenza più significativa»394, vengono perciò riconosciuti quei princìpi di rapidità, velocità, movimento e montaggio che scompongono e ricompongono gli elementi rappresentati, princìpi che vengono perseguiti anche dai pittori futuristi. Nel manifesto del 1913, Le parole in libertà, il cinema è citato come uno di quegli elementi della vita contemporanea che hanno operato un «completo rinnovamento della sensibilità umana» sulla «psiche» e un «acceleramento della vita» 395, il cinema è un mezzo in grado di 394 Marinetti Filippo Tommaso, Manifesto tecnico della letteratura futurista, in Teoria e invenzione futurista, (a cura di) De Maria L., Mondadori, Milano 1990, p.51. 395 Il titolo completo del manifesto di Marinetti è Distruzione della sintassi Immaginazione senza fili Parole in libertà (11 maggio 1913). Per il testo in pagina il supporto utilizzato è Bertetto Paolo, Il cinema d'avanguardia 1919-1930, Marsilio, Venezia 1987, p.29. 207 produrre emozioni e stati d'animo artificiali, alimentando quel processo di disumanizzazione della vita che gli artisti futuristi cercavano. Ben presto i futuristi si accorgono della portata innovativa del nuovo mezzo e se ne servono per creare qualcosa di nuovo. Nel Manifesto del Futurismo (1916) si afferma: «Occorre liberare il cinema come mezzo di espressione per farne lo strumento ideale di una nuova arte, immensamente più vasta e più agile di tutte quelle esistenti […] metteremo in moto le parole in libertà che rompono i limiti della letteratura marciando verso la pittura, la musica, l'arte dei rumori e gettando un meraviglioso ponte tra la parola e l'oggetto reale»396 e ancora: «il cinematografo futurista collaborerà al rinnovamento generale, sostituendo la rivista (sempre pedantesca), il dramma (sempre previsto) e uccidendo il libro (sempre tedioso e opprimente)»397 considerando infine il cinematografo un'arte in sé. Gli intellettuali futuristi, poi, stilano una breve lista di come dovranno essere i loro film: di nostro interesse, ricordiamo le proposte di «analogie cinematografiche tra immagini reali e sentimenti»; «poemi, discorsi e poesie cinematografati» (ovvero la trasposizione); «parole in libertà in movimento cinematografate» 398, le quali unite a pittura, scultura, dinamismo plastico, intonarumori, architettura, teatro sintetico danno vita alla cinematografia futurista. Tra le pellicole futuriste ricordiamo le già citate cinepitture astratte (1909) di Arnaldo Ginna e Bruno Corra, la cui finalità era quella di costruire una “musica cromatica” che fosse in grado di tramettere gli stessi sentimenti di un dipinto, di una sinfonia e di una poesia. Per quest'ultima, gli artisti scelsero la poesia Les Fleurs da Stéphane Mallarmè. 4.3.4 Espressionismo tedesco La corrente espressionista si sviluppa in diversi campi artistici: pittura, letteratura, musica, cinema e teatro. Come abbiamo visto nei capitoli precedenti, in senso generale il movimento tende ad enfatizzare l'espressività delle forme artistiche, propria di ogni corrente e caratteristica propria della corrente in sé è l'influenza reciproca tra le varie 396 Citato in Manzoli Giacomo, Cinema e letteratura, Carrocci, Roma 2003, p.16. 397 Citato in Cinquegrani Alessandro, Letteratura e Cinema, La Scuola, Brescia 2009, p.153. 398 Citato in Bertetto Paolo, Il cinema d'avanguardia 1919-1930, Marsilio, Venezia 1987, p.29. 208 arti. Il cinema espressionista venne influenzato, naturalmente, anche dalla letteratura attingendo da opere di autori letterari contemporanei a quelle del periodo gotico e della letteratura del terrore dell'Ottocento, come i romanzi di Amadeus Hoffmann o di Edgar Allan Poe, dai quali vengono acquisite le tematiche del mistero e delle tenebre popolate da creature del male. Ad esempio, per il film manifesto di questa corrente Das Cabinet des Dr. Caligari (di Robert Wiene, 1919) lo sceneggiatore Carl Mayer trasse ispirazione dalle letture di Stevenson, du Maurier e Stendhal. Allo stesso modo, anche in Nosferatu - Eine Symphonie des Grauens (1922) di Friedrich W. Murnau, risulta esplicita la derivazione dal romanzo Dracula di Brian Stoker, anche se la fonte letteraria non venne mai dichiarata, la trama appare pressoché identica mentre solo i nomi dei personaggi si differenziano dal romanzo399. Dal punto di vista citazionale poi, Murnau inserisce all'interno del racconto filmico letture e citazioni di libri da parte dei personaggi, che risultano la chiave interpretativa della stessa trama filmica: ad esempio, il testo che spiega i comportamenti dei vampiri o il diario di bordo della nave che porta in città il conte di Orlok aiutano i protagonisti, Ellen e Hutter, a sconfiggere il vampiro. 4.3.5 Dadaismo In Francia, prima dell'avvento del dadaismo cinematografico, un nuovo cinema legato all'immaginazione dell'artista e libero dalle costrizioni del mercato si era manifestato attraverso la composizione di brevi poemi cinematografici elaborati da Pierre Albert-Birot. Lo studioso Karel Teige, in uno scritto del 1929, sostiene che «il primo tentativo di una poesia filmica pura, autonoma e integrale, immune da tutte le formule alla moda dell'avanguardia, fu gli scenari di Albert-Birot, “poesie dello spazio”, scritti circa dieci anni fa, condannati poi a rimanere solo sulla carta. Sono piccole “poesie della lunghezza di cento metri”»400 che sviluppano gesti e movimenti in una dimensione a metà tra il reale e l'onirico. 399 Per questo lo sceneggiatore e la casa di produzione, Prana-Film, subirono e persero un processo che li chiamò in causa per plagio. Per una lettura più approfondita sull'argomento si consiglia Tone P.G., Friedrich Wilhelm Murnau, Firenze 1976, p.34-35. 400 Teige Karel, Per un'estetica del film, raccolto in Rondolino Gianni, Il cinema astratto: testi e documenti, Tirrenia-Stampatori, Torino 1977, p.129. 209 Poco dopo si sviluppa il movimento dada, il quale nasce in opposizione ai valori tradizionali delle arti per porre il caso e l'immaginazione alla base della creazione artistica. Il Manifesto dadaista, pubblicato nel 1917 dal poeta Tristan Tzara, nella rivista “Dada”, proponeva un programma antiartistico e antiletterario, in cui si perseguiva la libertà di espressione attraverso qualsiasi mezzo, anche mischiando e assemblando materiali e forme artistiche diverse. Il cinema di Man Ray, a posteriori di Retoun à la raison (1923), lo vede esplorare con il film Emak Bakia (1926) la costruzione di processi di automatismo visivo, fondata su concatenamenti casuali e automatici che si mescolano a materiali astratti e a immagini oniriche. Lo stesso Man Ray la descrive come una via differente dal cinema astratto e da quello narrativo: «una serie di frammenti, una cinepoesia con una certa sequenza ottica compongono un tutto che rimane ancora un frammento della cinematografia moderna. […] Il film è puramente ottico, solo da guardare: non esisteva una storia, né una sceneggiatura»401, ovvero era il risultato di un modo di pensare e di vedere. Con L'étoile de mer (1929), film che trae ispirazione da una poesia di Robert Desnos, Man Ray tenta una sorta di visualizzazione dei versi ponendo davanti all'obbiettivo una lente opaca, che rendeva le immagini sfuocate e stranianti, accentuando il carattere onirico della poesia. Nel film di Marcel Duchamp, in collaborazione con Man Ray, Anémic cinéma (1925), vi si mostra l'alternanza di dieci dischi ottici (dischi con spirali e cerchi concentrici) con nove dischi su cui sono iscritte frasi in francese disposte per formare una spirale (rotorilievi), che visti nell'insieme producono un effetto tridimensionale attraverso gli effetti percettivi della visione. Attraverso i nove dischi con i giochi di parole, Duchamp tenta di mostrare l'arbitrarietà del linguaggio e la sua eterogeneità al reale suggerendo connessioni semantiche inattese, che giocano sul loro senso e sulla loro negazione. Il film non ha una storia e non è narrativo e le frasi scritte come scioglilingua e giochi di parole sono tipici esempi del movimento dada402: Bains de gros thé pour grains de beauté sans trop de Bengué. (Bagni di tè grosso 401 Man Ray, Autoritratto, Abscondita, Milano 2010, p.222. 402 Le frasi sono state riportate in Bertetto Paolo, Il cinema d'avanguardia 1919-1930, Marsilio, Venezia 1987, pp.77-78. 210 per chicchi di bellezza senza troppo Bengué403). L'enfant qui téte est un souffleur de chair chaude et n'aime pas le chou-fleur de serre chaude. (Il bambino che poppa è un soffiatore di carne calda e non ama il cavolfiore di serra calda). Si je te donne un sou me donneras tu une paire de ciseaux? (Se ti do un soldo mi darai tu un paio di forbici?). On demande des moustiques domestiques (demi-stock) pour la cure d'azote sur la Cote d'Azur. (Si chiedono delle zanzare domestiche - mezzo stock - per la cura d'azoto sulla Costa Azzurra). Inceste ou passion de famille, à coups trop tirés. (Incesto o passione di famiglia, tirati a colpi eccessivi). Esquivons les ecchymoses des esquimaux aux mots exquis. (Schiviamo i lividi degli eschimesi con squisite parole). Avez vous deja mis la moëlle de l'épée dans le poële de l'aimée? (Avete già messo il midollo della spada nella vasca dell'amata?). Parmi nos articles de quincaillerie paresseuse, nous recommandons le robinet qui s'arrête de couler quand on ne l'écoute pas. (Tra i nostri articoli di ferramenta sfaccendata, raccomandiamo il rubinetto che smetta di colare quando non si ascolta). L'aspirant habite Javel et moi j'avais l'habite en spirale. (L'aspirante abita a Javel e io ho avuto l'abitato in spirale). Leggere le frasi scritte nei dischi risulta molto difficile per lo spettatore, ma una volta che egli ci riesce esse sembrano beffeggiarsi di lui, in tipico stile dadaista. «Le nove iscrizioni sono caratterizzate da assonanze foniche, da accostamenti semantici improbabili, da aforismi trasformati in scioglilingua che estraniano il linguaggio sottolineando l'artificialità della produzione artistica e del simbolico» 404. Anche il titolo del film è un gioco di parole e si basa sul concetto letterario di anagramma, anémic cinéma, in quanto le due parole sono composte dalle stesse lettere, trattandosi perciò di 403 Bengué era un analgesico inventato dal dottore francese Jules Bengué. 404 Secondo Bertetto Paolo, Il cinema d'avanguardia 1919-1930, Marsilio, Venezia 1987, p.78. 211 un doppio anagramma. Il film si conclude con la firma dello pseudonimo di Duchamp, Rrose Sélavy che è un ulteriore gioco di parole in Eros c'est la vie (Eros è la vita). 4.3.6 Surrealismo Il cinema surrealista ha come principale teorico André Breton, il quale fu fortemente influenzato dalla lettura de L'interpretazione dei sogni (1899) di Sigmund Freud, al punto da portare il tema dei sogni e dell'inconscio come materia fondante della corrente surrealista. Così viene definito il surrealismo nel Manifesto surrealista (1924) scritto dallo stesso Breton: «Automatismo psichico puro, attraverso il quale ci si propone di esprimere, con le parole o la scrittura o in altro modo, il reale funzionamento del pensiero»405. Gli scrittori surrealisti individuano nel cinema il mezzo da utilizzare per il perseguimento dei propri obiettivi: esso era in grado di rappresentare quell'automatismo psichico che esprime il processo del pensiero svincolato da ogni controllo razionale ed era il mezzo che meglio sapeva esprime la dimensione onirica, da sempre ricercata dagli artisti della corrente. Philippe Soupault, esponente della corrente surrealista e uno dei primi a tentare un esperimento di scrittura automatica, afferma: «il film propone delle straordinarie possibilità per esprimere, trasfigurare e realizzare i sogni. Si può dire che, dalla nascita del surrealismo, abbiamo cercato di scoprire, grazie al cinema, il mezzo per esprimere gli immensi poteri del sogno»406. Il letterato Soupault fu il primo ad elaborare una sorta di unione tra cinema e parola: questi furono i “poemi cinematografici”, pubblicati nel 1918 e nel 1925, testi in cui la libertà e l'inventiva che il cinema immaginato consente è unito a temi tipici dell'avanguardia surrealista, come l'amore, il sogno, la follia e la liberazione dell'uomo dalle convenzioni sociali. In Indifférence (1918) la descrizione di un immaginario onirico e surreale si mescola alla rivolta degli oggetti rappresentando figure da un forte impatto semantico; allo stesso tempo 405 Breton André, Manifesti del surrealismo, Einaudi, Torino 2003, qui citato in Bertetto Paolo, Il figurale tra cinema e letteratura, in Perniola Ivelise (a cura di), Cinema e letteratura: percorsi di confine, Marsilio, Venezia 2002, p.58. 406 Citato in Brandi Paolo, Parole in movimento: l'influenza del cinema sulla letteratura, Cadmo, Fiesole 2007, p.40. 212 l'intellettuale «invita i poeti a mettersi dietro la macchina da presa» 407. Nei “poemi cinematografici” successivi, Soupault trasmette l'idea di un cinema legato al sogno, ignorando la realtà per inventare gesti e azioni anomali, segnato fortemente dalle influenze surrealiste. A partire dal concetto letterario di automatismo e di scrittura automatica, ovvero una scrittura che emerge dall'inconscio, senza alcuna logica discorsiva se non dal pensiero logico dello scrittore, gli scrittori surrealisti credono che il cinema sia il mezzo che più si possa avvicinare a questa tecnica. Jean Cocteau sostiene l'idea di un cinema come poema, poesia diretta, che le immagini suscitano senza la mediazione, al punto che definisce il proprio lavoro di cinema “poésie cinématographique”. La sua ipotesi di cinema di poesia apre all'immaginazione soggettiva, personale e privata del mondo visionario del poeta: nel 1930 realizza il film Le sang d'un poète, con l'obiettivo di creare un linguaggio filmico che fosse il corrispettivo di quello poetico, in cui immagini e ritmi visivi avessero il medesimo significato emozionale e intellettuale delle parole e dei versi d'un poema. Tra le opere più volte citate nei paragrafi sul surrealismo dei capitoli precedenti, vi sono quelle nate dall'unione creativa tra il regista-poeta spagnolo Louis Buñuel e il pittore Salvador Dalí: Un chien andalou (1929) e L'Âge d'or (1930), film nei quali ritroviamo in forma cinematografica le suggestioni della scrittura automatica e della visionarietà onirica tipica delle poesie di Breton, Éluard e Desnos, il cui obiettivo era quello di spingere la letteratura al di fuori dei confini imposti, per essere sperimentata in nuovi campi di azione. 4.3.7 Cinema puro Il termine cinema puro, che circola in Francia intorno agli anni Venti, viene ricondotto al modello letterario della poesia pura, movimento che viene sancito nel 1925 dall'articolo La poésie pure di Henri Brèmond. Come la poesia, anche il cinema puro si definisce per negazione: esso è un cinema depurato da tutto ciò che non è cinema, di tutte le componenti letterarie, teatrali, dello spessore dei materiali narrativi e 407 Andreazza Fabio, Identificazione di un'arte: scrittori e cinema nel primo Novecento italiano, Bulzoni, Roma 2008, p. 126. 213 rappresentativi, della determinatezza prosaica della trama e delle azioni, dei sentimenti e delle idee408. Il cinema puro si distanzia dall'anticonformismo dada e surrealista per ridurre il cinema ai suoi elementi basilari con lo scopo di creare immagini composte da forme pure. La regista francese Germaine Dulac sostiene la concezione del ritmo puro, ovvero un processo che sottrae valore agli eventi, ai volti, alle azioni per giungere ad un'armonia delle proporzioni matematiche e geometriche di un movimento. La ricerca teorica della Dulac si direziona verso il raggiungimento del cinema puro, ossia alla sua depurazione per un'essenzialità formale. Cogliere l'essenzialità significa individuare la linea di sviluppo e il tempo di oggettivazione, cogliere il ritmo: «il ritmo dà al movimento la propria significazione interna»409. Il cinema della Dulac è concepito su strutture linguistiche basate su linee, volumi, superfici, costruzioni armoniche e ritmi fluidi nel tentativo di superare il legame tra il cinema e la realtà per raggiungere la dinamica pura degli elementi formali cinematografici. I film “puri” realizzati dalla Dulac, tra il 1928 e il 1929, sono Disque 927, Thèmes et variations, Etudes cinématographiques sur un arabesque, i quali sono una ricerca sulla purezza filmica ispirati alla partitura di testi musicali di Chopin e Debussy. 4.3.8 Il cinema d'autore in Italia e in Francia «Con l'avvento del sonoro, i rapporti tra letteratura e cinema mutano radicalmente: il cinema sembra diventare veramente (e non solo agli occhi delle avanguardie) l'arte di tutte le arti. L'avvento della parola, sconvolge l'assetto teorico e lo sforzo espressivo di raggiungere una totale autonomia produce un immediato aumento della esigenza di collaborazione diretta di letterati alla redazione non solo di soggetti, ma anche delle sceneggiature e dei dialoghi dei film»410. Durante gli anni prebellici la tendenza degli autori letterari e cinematografici procedeva verso un'unica tendenza di esaltazione delle tradizioni del proprio Paese. Una svolta emerge nell'immediato Dopoguerra, periodo in cui il cinema moderno 408 Bertetto Paolo, Il cinema d'avanguardia 1919-1930, Marsilio, Venezia 1987, p.112. 409 Citato in Bertetto Paolo, Il cinema d'avanguardia 1919-1930, Marsilio, Venezia 1987, p.113. 410 Brunetta Gian Piero, Letteratura e cinema, Zanichelli, Bologna 1976, p.4. 214 europeo può essere descritto attraverso tre elementi stilistici e formali 411. Da una parte vi erano registi che cercavano di avvicinarsi ad una rappresentazione del reale, attraverso un realismo obiettivo, che sfocerà poi nel Neorealismo italiano. Dall'altra parte altri registi, invece, cercavano di rappresentare la realtà soggettiva, di analizzare le forze psicologiche dell'uomo e di esplorare la storia recente dal punto di vista personale e intimo del cineasta. Infine il terzo elemento è comune ad entrambi ed è il “commento narrativo dell'autore”, in cui il cineasta comunica qualcosa allo spettatore attraverso lo stile del film412. Solitamente il commento narrativo è ambiguo, nel senso che non risulta preciso nelle sue implicazioni, in quanto lo spettatore può trarre numerose interpretazioni dall'immagine. Per quanto concerne il primo elemento, ovvero la rappresentazione del reale, in Italia la “corrente” del Neorealismo ha trovato maggiore espressione in ambito letterario413 e cinematografico, sviluppandosi tra i primi anni Quaranta e la metà degli anni Cinquanta del Novecento. Entrambi i campi sono accomunati da una ricerca comune verso il realismo, in cui l'uomo-intellettuale e il cineasta si fanno portavoce della povertà della vita e della popolazione dell'Italia del secondo Dopoguerra. Affine inoltre è l'esigenza di azzerare i procedimenti espressivi, per avvicinarsi ad una forma di comunicazione più popolare e per adempire ad un impegno politico e sociale nei confronti della realtà e dei suoi problemi, così cineasti e scrittori raccontano storie dalla «comune concezione dell'arte come racconto»414. I letterati si rivolgono al cinema per costruire una narrazione che si avvicini alla cronaca, ovvero ad un racconto oggettivo: «il racconto cinematografico viene usato dalla narrativa per raggiungere più facilmente quegli effetti di verità, immediatezza, percezione visiva del reale, essenzialità linguistica»415. 411 Secondo Bordwell David, Thompson Kristin, Storia del cinema e dei film. Dal dopoguerra a oggi. Editrice Il Castoro, Milano 2003, pp.77-78. 412 Ad esempio, in un'inquadratura de Il grido (1957), Michelangelo Antonioni evoca l'arido rapporto tra i due protagonisti inquadrandoli di schiena contro un panorama deserto. L'esempio è proposto da Bordwell David, Thompson Kristin, Storia del cinema e dei film. Dal dopoguerra a oggi. Editrice Il Castoro, Milano 2003, p.78. 413 Tra gli scrittori ricordiamo Cesare Pavese, Italo Calvino, Alberto Moravia, Carlo Emilio Gadda, Primo Levi, Elio Vittorini. 414 Asor Rosa, Il neorealismo o il trionfo del narrativo, in Cinema e letteratura del neorealismo, Tinazzi Giorgio e Zancan Marina (a cura di), Marsilio, Venezia 1990, p.88. 415 Asor Rosa, Il neorealismo o il trionfo del narrativo, in Cinema e letteratura del neorealismo, Tinazzi Giorgio e Zancan Marina (a cura di), Marsilio, Venezia 1990, p.93. 215 Ciò che unisce letteratura e cinema neorealista è la figura dello scrittore e sceneggiatore Cesare Zavattini, che, con i numerosi film scritti per Vittorio De Sica 416, mostra la realtà popolare e povera dell'Italia del Dopoguerra e rinnova e aggiorna l'idea di cinema: Rinunciando progressivamente a certi vezzi letterari, a un gusto personale per il grottesco e il surreale, calandosi più concretamente nella drammaticità e problematicità della condizione dell'uomo nella società del dopoguerra, (…) richiamandosi di continuo a una militanza ideologica e politica non equivoca, Zavattini è riuscito, almeno nei suoi film migliori, a sviluppare un discorso approfondito sulle contraddizioni e sulle miserie di quegli anni.417 Per raggiungere questo, Zavattini elabora una teoria cinematografica definita del “pedinamento”, ovvero la possibilità di cogliere con la cinepresa gli elementi della realtà quotidiana e quelli del comportamento umano influenzati dalle condizioni ambientali e sociali, «Zavattini e De Sica portarono alle estreme conseguenze formali un modello di cinema “trasparente”, che avrebbe dovuto occultarsi […] come mezzo d'espressione per ridursi alla semplice funzione di riproduttore della realtà fenomenica»418. La cinepresa perciò riprendeva i personaggi seguendoli nei loro luoghi e nei loro ambienti (“pedinandoli”) al punto che essi divengono il centro dell'azione drammatica e allo stesso tempo costituiscono l'unione di una rappresentazione della realtà sociale. Accanto al cinema di Zavattini-De Sica, un gruppo di cineasti estremamente variegato sviluppava il proprio cinema richiamandosi a schemi narrativi che derivano dal romanzo popolare, il quale si proponeva di portare al centro temi della mutata realtà sociale. Luchino Visconti può ritenersi il cineasta che, con un diverso impegno politico e ideologico, ha saputo recuperare la tradizione del romanzo ottocentesco nel cinema italiano. Visconti con La terra trema (1948) rilegge in chiave moderna il romanzo verista I malavoglia, di Verga, dove l'ideologia verghiana viene aggiornata nel diverso impegno politico della condizione dei pescatori e della differente prospettiva sociale e 416 Con De Sica collaborò alla realizzazione di venti film tra cui Sciuscià (1946), Ladri di biciclette (1948), Umberto D. (1952), Miracolo a Milano (1951), quest'ultimo fu liberamente adattato dal libro omonimo di Luigi Bartolini. 417 Rondolino Gianni, Storia del cinema (vol. 2), Utet, Torino 1997, p.396. 418 Rondolino Gianni, Storia del cinema (vol. 2), Utet, Torino 1997, p.396. 216 politica dell'Italia. I personaggi, come in Verga, rimangono dei vincitori seppure in una diversa collocazione sociale e storica419. Un grande rinnovamento nel cinema italiano si ebbe, circa un decennio dopo, con il poeta e scrittore Pier Paolo Pasolini che negli anni Sessanta si dedica all'arte cinematografica, senza però trascurare la sua origine letteraria: se per i primi film (Accattone, 1961; Mamma Roma, 1962) Pasolini si limita a riprendere personaggi e ambientazioni dai suoi romanzi, è con le opere successive che la letteratura domina nei suoi film a partire dai titoli, citazioni a grandi capolavori della letteratura, come Decameron (1971), o Teorema (1968), in cui Pasolini tenta di creare un'opera che nasca contemporaneamente dal romanzo e dal film, ove entrambe hanno bisogno delle rispettive componenti per poter essere comprese e nonostante i supporti differenti siano in grado si esprimere analoghi concetti. Il lavoro di Pasolini come letterato e come cineasta risulta unitario, come lui stesso dichiara: «L'esperienza cinematografica e quella letteraria non sono antitetiche. Direi anzi che esse sono forme analoghe. Il desiderio di esprimermi attraverso il cinema rientra nel mio bisogno di adottare una tecnica nuova, una tecnica che rinnovi»420. In Accattone (1961) Pasolini riprende i temi e le forme dei suoi precedenti romanzi (la periferia romana, i ragazzi poveri, il sottoproletariato) che traspone in una dimensione artistica distaccata dal neorealismo, passando da uno stile immediato ad uno colto, in cui la realtà si fa maggiormente spettacolare. Inoltre, per Accattone e Mamma Roma, l'intellettuale sceglie di pubblicare la sceneggiatura prima della presentazione del film. Durante la lavorazione di Mamma Roma poi, Pasolini scrive le prime cinque poesie mondane, definite Le poesie di «Mamma Roma», di cui una di esse verrà recitata da Orson Welles in la Ricotta (1963), in una sorta di autocitazione. In la Ricotta emerge il tema della crisi dell'intellettuale, molto spesso identificato nella figura dello scrittore, così il regista (Orson Welles) diviene una rappresentazione critica della figura dell'intellettuale il quale celebra le proprie parole durante la messa in scena che coincide anche con la rappresentazione della Passione di Cristo. 419 Inoltre Visconti attinge al vasto repertorio letterario italiano anche per altri suoi film, ad esempio Senso (1954) è l'adattamento di una novella di Camillo Boito, Il gattopardo (1963) testo di Tomasi di Lampedusa, Morte a Venezia (1971) di Thomas Mann, L'innocente (1976) di Gabriele D'Annunzio. 420 Pasolini Pier Paolo, in Martini Daisy, L' «Accattone» di Pier Paolo Pasolini, «Cinema Nuovo», n.150, 1961; qui citato in Brandi P., op.cit., p.68. 217 Ne Il vangelo secondo Matteo (1964), Pasolini ricostruisce con le immagini il testo biblico, ma senza che risulti un adattamento. Egli recupera il mito, la storia, la poesia unendoli e creando una forte forza espressiva di carattere moderno, inoltre nel film si possono cogliere quelle teorie sul cinema di “poesia” e su quello di “prosa” espressi in precedenza nel paragrafo delle teorie. Il primo esempio di cinema di poesia si ebbe con il film Uccellacci e uccellini (1966), in cui segue la traccia narrativa di un viaggio nel tempo e nello spazio di due esseri che sono complementari l'uno all'altro e che comunicano con un corvo; la mescolanza degli stili e della mancata concordanza dei tempi storici sviluppa l'intero racconto filmico. Pasolini recupera la tradizione del mito con il film Decameron (1971), in cui il sesso acquista un diverso valore immerso in un tema mitico, la cui scelta è riconducibile a motivi politici: il film è prodotto alla fine degli anni Sessanta in un clima effervescente, e dove emerge una rivoluzione dei costumi e delle mode, dove emerge un nuovo modo di vivere la sessualità, più libero; Pasolini decide perciò di trarre ispirazione da un'opera che all'epoca mostrava l'affermazione di una nuova classe sociale, la borghesia. Il Decameron (1349-1351circa) di Giovanni Boccaccio è il testo che mostra l'ascesa di una nuova generazione, libera e spontanea, che secondo il regista è associabile alla nuova generazione degli anni Sessanta. Una tematica simile la ritroviamo anche nel film Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975), riduzione drammaturgica del testo di De Sade. Nei titoli di testa del film appaiono titoli di testi letterari di Barthes, Blanchot, de Beauvoir, Sollers, da cui ricava le citazioni del suo film e che compone in forma bibliografica, come se fosse un libro. In Francia, alla fine degli anni Cinquanta, si assiste alla nascita del movimento letterario del Nouveau Roman421 e, parallelamente, di quello cinematografico della Nouvelle Vague. La corrente letteraria può essere riassunta in queste poche righe, significative, che chiarificano quanto gli obiettivi dei suoi autori siano vicini al mezzo cinematografico: «il lavoro letterario […] elimina il rapporto con le strutture narrative, con la storia, con la psicologia, la rappresentazione delle relazioni in un quadro sociale 421 Definito anche Ecole du regard (scuola dello sguardo) nasce in Francia tra gli anni Cinquanta e Sessanta. Tra gli esponenti principali ricordiamo Gérard Bessette, Michel Butor, Marguerite Duras, Claude Ollier, Robert Pinget, Jean Ricardou, Alain Robbe-Grillet, Nathalie Sarraute, Claude Simon. 218 e, simile alla macchina da presa, si limita alla rappresentazione dei fatti» 422. «È determinante, per conseguire questi obiettivi, che l'attività del letterato si appropri direttamente del linguaggio e delle tecniche espressive del cinema» 423. I testi di Alain Robbe-Grillet, esponente di spicco del Nouveau Roman, presentano le caratteristiche della corrente: nei testi lo scrittore rifiuta il descrittivismo per una riproduzione oggettiva della realtà, la trama e i personaggi sono frammentati e l'attenzione viene rivolta alle cose, ai particolari. L'intellettuale passò dalla parola all'immagine, prima in veste di sceneggiatore e poi come cineasta: il cinema apparve subito come l'unico mezzo in grado di rappresentare la realtà oggettivamente, di scomporre la trama in una ripetizione degli eventi, in cui i dialoghi dei personaggi non determinano lo scorrere del racconto, bensì esaltano l'aspetto finzionale del cinema. Ma gli scrittori del Nouveau Roman non furono gli unici a porre una particolare attenzione al cinema: qualche anno prima, nel 1948, un articolo, pubblicato sulla rivista “L'Écran Français”, del regista e scrittore Alexandre Astruc aprirà un vero e proprio dibattito sul cinema d'autore. Astruc argomentava il principio della “caméra stylo”, ovvero proponeva una nuova tendenza per l'autore cinematografico di potersi esprimere con la stessa libertà di cui godevano gli scrittori, sia per la scelta dei temi da trattare sia rispetto allo stile migliore per metterli in scena. Ricordiamo che nei primi anni Cinquanta, in Europa, ma soprattutto negli Stati Uniti, il cinema veniva considerato a tutti gli effetti un'industria sottomessa alle leggi dello studio system e dei generi, legata perciò ad una serie di vincoli di mercato e sociali in grado di condizionare il lavoro dei singoli registi. Nell'articolo, Astruc proponeva l'utilizzo della cinepresa come fosse una penna stilografica, affermando: «la regia non è più un mezzo per illustrare o presentare una scena, ma una vera e propria scrittura» 424, il cinema perciò rivendica il proprio linguaggio espressivo personale «cioè una forma nella quale e per mezzo della quale un artista può esprimere il proprio pensiero per quanto astratto, o tradurre le proprie ossessioni, esattamente come avviene oggi per il saggio e il romanzo» 425. Dal concetto 422 Brunetta Gian Piero, Letteratura e cinema, Zanichelli, Bologna 1976, p.7. 423 Brandi Paolo, Parole in movimento: l'influenza del cinema sulla letteratura, Cadmo, Fiesole 2007, p.61. 424 Citato in Rondolino Gianni, Storia del cinema (vol.2), Utet, Torino 1997, p.501. 425 Astruc Alexandre, Nascita di una nuova avanguardia: la caméra stylo, in Barbera A. e Turigliatto R. 219 di “scrittura” e di “linguaggio” si svilupperà una teoria critica che porterà all'idea di centralità dell'autore rispetto al proprio lavoro filmico, come lo è lo scrittore del proprio romanzo. L'idea di Astruc venne perseguita e sviluppata dai critici426 della rivista “Cahiers du cinéma”, «in un discorso sul “cinema d'autore”, i quali cercano di individuare nell'opera dei registi da loro ammirati e attentamente studiati il manifestarsi di una autentica personalità artistica proprio attraverso quegli elementi caratteristici del loro stile che si identificano con con le peculiarità di una “scrittura” personale»427. Accanto alla politica degli autori, allo stesso tempo, i critici dei “Cahiers” portano alla luce anche una serie di problematiche sull'adattamento cinematografico. François Truffaut, in un articolo del 1954 intitolato Una certa tendenza del cinema francese, denuncia quelle trasposizioni letterarie poco creative e troppo convenzionali di alcuni sceneggiatori dell'epoca, come Jean Aurenche e Pierre Bost. «Ciò che il critico giudica è la formula coniata dai due sceneggiatori dell'“inventare senza tradire”, una tecnica che consisterebbe nel rispettare la fedeltà delle opere letterarie, trovando degli equivalenti per quelle scene del romanzo, che risultano impossibili da trasporre nel cinema» 428. La critica sostenuta da Truffaut comincia dall'analisi di un loro adattamento, mai realizzato, per il film di Robert Bresson tratto dal libro omonimo Journal d'un curé de campagne (Diario di un curato di campagna, 1951) di Georges Bernanos: nella stesura della sceneggiatura, Aurenche e Bost modificarono alcuni elementi significativi del romanzo per adattarli alle sequenze cinematografiche dando origine ad un adattamento infedele al testo; al contrario Bresson realizzò il proprio film creando delle sequenze, in cui il protagonista, nello scrivere il proprio diario, cita letteralmente le pagine di Bernanos; il regista decide comunque di eliminare intere parti del romanzo, ma sempre con l'intenzione di mantenere la più alta fedeltà della storia originale. Secondo Truffaut, questo approccio avrebbe reso il giusto omaggio al romanzo, limitando al minimo ogni stravolgimento. «Sviluppando la sua idea di trasposizione cinematografica l'autore trovò il metodo (a cura di), Leggere il cinema, Mondadori, Milano 1978, p.313. 426 Ricordiamo gli esponenti principali, coloro che poi diverranno i futuri cineasti della Nouvelle Vague francese: Jean-Luc Godard, François Truffaut, Jacques Rivette, Claude Chabrol, Eric Rohmer. A questi nomi è doveroso aggiungere quello di André Bazin, critico della rivista “Cahiers du cinéma” e teorico del cinema e ispiratore della corrente. 427 Rondolino Gianni, Storia del cinema (vol.2), Utet, Torino 1997, p.502. 428 Manzoli Giacomo, Cinema e letteratura, Carrocci, Roma 2003, p.24. 220 per trasporre il romanzo Jules et Jim in film nel 1962. L'opera cinematografica si basa su una costante presenza del testo di Henri-Pierre Roché, che si caratterizza attraverso la mescolanza della letterarietà con una messa in scena che costantemente lo reinventa, Truffaut ha effettuato una delle trasposizioni più audaci e per questo memorabili, di un testo letterario»429. La teoria dell'adattamento è riconducibile a molte altre opere di Truffaut, le quali possono essere suddivise in due categorie: da una parte vi sono le opere, in cui il cineasta racconta se stesso attraverso il personaggio alter-ego Antoine Doinel, interpretato da Jean-Pierre Léaud, costruendo una sorta di commedia umana alla Balzac, autore che Truffaut cita esplicitamente nella serie dei film (Les Quatre Cents Coups, 1959; Antoine e Colette, 1962; Baisers volés, 1968; Domicile conjugal, 1970); dall'altra parte invece il regista opera la trasposizione di una serie di testi letterari da lui particolarmente amati di Henri-Pierre Roché (dai romanzi omonimi produsse Jules e Jim, 1962; Les Deux Anglaises et le Continent, 1971), di Cornell Woolrich (La Mariée était en noir, 1967; La Sirène du Mississipi, 1969) e del fantascientifico Ray Bradbury (Fahrenheit 451, 1966), in cui viene narrata la distruzione dei libri in un futuro prossimo. Il legame tra cinema e letteratura viene teorizzato negli stessi anni anche da André Bazin, padre della Nouvelle Vague, che parla di “cinema impuro” 430, ovvero un cinema «aperto ai rapporti con le altre arti, coinvolto in un insieme di scambi intersemiotici dai quali […] emerge una specificità del cinema»431, la quale non è riconducibile a quella della pura visibilità avanguardistica, ma sarà ugualmente una relazione privilegiata tra un'arte e il cinema. Bazin prende quindi le distanze dal visualismo avanguardista per stabilire un legame tra la scrittura cinematografica (la sceneggiatura) e la scrittura letteraria. Il critico afferma: «il cinema è entrato nell'età della sceneggiatura»432. Il pensiero di Bazin affonda le sue radici nello strutturalismo dei formalisti russi, in 429 Secondo Volpe Sandro, La forma intermedia. Truffaut legge Roché, L'epos, Palermo 1996. 430 Saggio dal titolo Per un cinema impuro, raccolto in (trad.ita.) Bazin André, Che cosa è il cinema?, Garzanti, Milano 1986. 431 De Vincenti Giorgio, Un falso problema: la “fedeltà”, in Perniola Ivelise (a cura di), Cinema e letteratura: percorsi di confine, Marsilio, Venezia 2002, p.104.. 432 Bazin André, Per un cinema impuro, qui citato in De Vincenti Giorgio, Un falso problema: la “fedeltà”, in Perniola Ivelise (a cura di), Cinema e letteratura: percorsi di confine, Marsilio, Venezia 2002, p.104. 221 particolare nell'idea di una “materia” che determina la “forma” ricordando le formulazioni di Viktor Sklovskij: «Occorre lavorare sul materiale. Il romanzo moderno a soggetto e la novella additano una loro propria vita e dispongono delle enormi possibilità della parola. Invece il materiale del cinema sembra essere l'effetto speciale. Nel cinema il soggetto è necessario quale motivazione dell'effetto speciale»433. Anche se Bazin non parla di effetto speciale, identica appare invece la teoria per ciò che concerne la relazione tra i due materiali di base e le due forme nel linguaggio letterario e cinematografico. Questo rapporto tra forma e materia trova riscontro, in uno scritto precedente a quello di Truffaut434, nell'analisi del film di Bresson, Journal d'un curé de campagne, che, ricordiamo, è un adattamento dell'omonimo romanzo di Georges Bernanos (1936) e, in quanto adattamento, implica un doppio registro della scrittura. Il critico osserva che ad essere trasposta non è tanto la vicenda narrata nel libro, quanto il "testo letterario" di Bernanos, che viene mostrato nelle sequenze in cui il protagonista stende il proprio diario. Bazin associa il film ai documentari sulla pittura di Alain Resnais e di Luciano Emmer, nei quali ad essere ripreso non è il soggetto del quadro, ma il quadro stesso che viene filmato. Egli poi paragona le possibilità estetiche del cinema alla pagina bianca di Mallarmé e se Bresson sceglie di concludere il film solamente con la voce narrante che recita l'ultima pagina del romanzo annunciando la morte del curato, Bazin vede in questa operazione un cinema puro: «far scomparire l'immagine per cedere il posto unicamente al testo del romanzo» è per Bazin «un sublime risultato del cinema puro. […] Lo schermo vuoto di immagini e reso alla letteratura segna qui il trionfo del realismo cinematografico»435. Secondo il regista sono due le “realtà pure” con le quali il film viene messo in relazione: quella del volto dell'interprete privo di simbolismo espressivo, e quella della «realtà scritta, materiale grezzo che il film non piega alla logica della diegesi ma, conferma nella sua essenza letteraria»436. L'operazione trova il suo compimento con il sonoro, in quanto riproduce esattamente le parole del romanzo 433 Il testo si trova nel saggio originale di Viktor Sklovskij, Letteratura e cinema (1923), tradotto in italiano in I formalisti russi nel cinema, Kraiski Giorgio (a cura di), Garzanti, Milano 1971, p.124. 434 Bazin André, Le "Journal d'un curé de campagne" et la stylistique de Robert Bresson, in "Cahiers du cinéma", n.3, giugno 1951. Ricordiamo invece che lo scritto di Truffaut è del 1954. 435 Citato in De Vincenti Giorgio, Un falso problema: la “fedeltà”, in Perniola Ivelise (a cura di), Cinema e letteratura: percorsi di confine, Marsilio, Venezia 2002, p.107. 436 Citato in De Vincenti Giorgio, Un falso problema: la “fedeltà”, in in Perniola I., op.cit., p.106. 222 mediante i dialoghi e la voce narrante del protagonista che scrive il suo diario. Il testo letterario viene concepito come una realtà in sé, come “materiale” che il film riproduce nella sua materialità, solo che è tagliato dal romanzo. È da questo processo di taglio e spostamento rispetto all'opera letteraria che Journal d'un curé de campagne risulta un film-saggio sulle possibilità del cinema437. Il concetto di film-saggio (essay-film) emerge in un articolo dello stesso Bazin nel 1958438 nel quale recensisce il film Lettre de Sibérie (1957) di Chris Marker, definendolo un saggio documentato sul cinema. Bazin esprime l'idea di un cinema fondato sulla parola di una voce over che accompagna le immagini che il regista sceglie in assoluta libertà espressiva. Alcuni film della Nouvelle Vague verranno direttamente influenzati da questa concezione, specialmente quelli di Jean-Luc Godard. Lo scrittore Italo Calvino, interessato alla nuova inclinazione del cinema moderno verso il filmsaggio, cita come esempio il film Masculin féminin (1966) di Jean-Luc Godard439. Difatti sarà Godard, nel 1982, a rendere esplicita la tematica della modernità e del filmsaggio con Passion «che lavorerà proprio sullo statuto dell'immagine, ricollegandosi fin dal titolo al cinema delle origini, al primo formarsi della narrazione cinematografica, ed evidenziando la problematicità delle relazioni esistenti tra il racconto e l'immagine»440. 4.4 La citazione letteraria Prenderemo ora in analisi, all'interno dello scambio tra cinema e letteratura, quel risultato che, a mio parere, appare il più interessante per la suddetta trattazione: la citazione letteraria. Quella esplicita si basa su un procedimento che richiama un altro testo, e a vario titolo e modo lo “incorpora” togliendolo dal contesto originario 441. Nel cinema essa avviene quando la parola letteraria viene presentata nella sua interezza e l'immagine non fa nulla per trasformarla o adattarla, ma la riproduce in quanto tale. 437 Secondo De Vincenti Giorgio, Un falso problema: la “fedeltà”, in Perniola I., op.cit., p.107. 438 La prima pubblicazione avviene nel 1958 nella rivista France-Observateur. Oggi è possibile trovare il testo in Bazin André, “Bazin on Marker”, in Film Comment, vol. 39, no. 4, luglio- agosto 2003, pp. 44-45. 439 L'affermazione di Calvino si trova nell'articolo Film et roman: problèmes du recit, “Cahiers du cinéma”, 1966; qui viene citato in Tinazzi Giorgio, La scrittura e lo sguardo. Cinema e letteratura, Marsilio, Venezia 2007, p.56. 440 Secondo De Vincenti Giorgio, Un falso problema: la “fedeltà”, in Perniola I., op.cit., p.108. 441 Tinazzi Giorgio, La scrittura e lo sguardo. Cinema e letteratura, Marsilio, Venezia 2007, pp.109-110. 223 La citazione letteraria si può presentare in vari modi che presuppongono a sua volta diverse forme specifiche. Qualunque sia il genere assunto dalla citazione letteraria all'interno del mezzo filmico, è essenziale, secondo Antonio Costa 442, ai fini della citazione il suo riconoscimento da parte dello spettatore; è perciò determinante il regime differente che è assunto dal brano citato, che si trova a metà tra un riferimento diretto ad un testo e ciò che si allude con quella frase. Quello che rende difficile il riconoscimento di una citazione letteraria in un film è l'assenza di una caratteristica che la contraddistingua: la differenza con la citazione letteraria nel testo scritto è che, quest'ultima, è avvisata da particolari caratteri di scrittura, le virgolette o il corsivo, mentre lo spettatore cinematografico non ha nessuna peculiarità che lo avvisa che le parole che sta udendo siano una citazione. Le conoscenze dello spettatore divengono perciò essenziali, se non determinanti, per la riuscita della comprensione della citazione. Se questa non viene decifrata, il riferimento non esiste in quanto tale ma rimane destinato a funzionare come un qualsiasi altro segmento testuale. Secondo Antoine Compagnon più che la citazione in sé, è importante cogliere la natura metaforica della stessa, in quanto qualsiasi definizione di metafora può essere usata per definire la citazione: «presentare un'idea sotto il segno di un'altra idea più efficace o più conosciuta, la quale, d'altra parte, non ha con la prima altro legame se non quello di una certa conformità o analogia» 443, definizione che egli stesso “cita” da Pierre Fontanier. Le forme della citazione letteraria nel film sono molteplici ed in base al loro uso hanno anche numerosi significati. Per semplificazione verranno ora analizzate le cinque categorie principali proposte da Giorgio Tinazzi444, a cui verranno associati altrettanti esempi relativi alla filmografia godardiana. Spesso la citazione è un omaggio ad un autore o ad un'opera che per il cineasta è significativa e può avvenire associando il nome di un personaggio che è celebre 442 Costa Antonio, Nel corpo dell'immagine, la parola: la citazione letteraria nel cinema, in Perniola Ivelise (a cura di), Cinema e letteratura: percorsi di confine, Marsilio, Venezia 2002, pp.33-48. 443 Compagnon Antoine, La seconde main ou le travail de la citation, Seuil, Paris, 1979, p.19; qui citato in Costa Antonio, Nel corpo dell'immagine, la parola: la citazione letteraria nel cinema, in Perniola Ivelise (a cura di), Cinema e letteratura: percorsi di confine, Marsilio, Venezia 2002, p.40. 444 Tinazzi Giorgio, La scrittura e lo sguardo. Cinema e letteratura, Marsilio, Venezia 2007, pp.110-116. 224 in un romanzo, oppure mostrando direttamente il libro o mettendolo in mano a uno dei protagonisti445. Ad esempio, Godard in Les enfrants jouent à la Russie mostra pagine di grandi romanzi russi dell'Ottocento in omaggio alla Russia, presentata come “madre della fiction”. La citazione letteraria può avvenire attraverso la lettura di uno o più testi all'interno del racconto filmico, con lo scopo di rafforzare la qualità di un personaggio. Ad esempio, in La chinoise il libretto rosso di Mao Tse-Tung diviene tema e significante del film stesso e dei suoi personaggi: i ragazzi di ideologia maoista leggono il testo simbolo del periodo comunista, rafforzando quelle idee sulla politica e sulla società che i personaggi esprimono nel corso del film. La citazione può anticipare gli eventi che accadranno in seguito o un tema dominante. In Vivre sa vie un personaggio legge un brano del Ritratto ovale di Edgar Allan Poe, il quale ha come tema il rapporto tra la bellezza e la morte che richiamerà il fascino della protagonista, il cui “ritratto ovale” sarà composto più volte tramite la macchina da presa; inoltre la lettura evoca la morte della donna che giungerà nel finale del film. Al contrario può avvenire una discordanza tra il testo citato e ciò che viene rappresentato, si crea così un effetto straniante, voluto dal regista, che rompe il rapporto tra immagine e parola. In Bande à part, Godard associa la protagonista Odile al romanzo di Raymond Queneau (Odile) nel momento in cui Franz leggerà un passo del libro (dalla copertina ben visibile). Quella citazione però proviene dal romanzo di Breton, Nadja, da cui si riconoscono i personaggi Delouit e Anglarès. Vi è poi l'uso della citazione che rimanda a testi che hanno una diversa impronta rispetto a quello che si sta osservando con lo scopo di sancire un confronto tra 445 Simone Arcagni definisce questo tipo di citazione con il termine intratitolo, ovvero un intervento di visualizzazione della parola scritta, una porzione di un testo letterario (libro, lettera, manoscritto, insegne, biglietti) incorporato all'immagine filmica. L'intratitolo è una pratica del cinema moderno, usata da Jean-Luc Godard per mettere in evidenza il lavoro sul film e allo stesso tempo per riflettere sul cinema stesso: i testi divengono materiale cinematografico e parte della sua poetica. ( in Colombi Matteo, Fusillo Massimo, Esposito Stefania, L'immagine ripresa in parola: letteratura, cinema e altre visioni, Meltemi, Roma 2008, pp.77-94.) 225 scritture diverse, ad esempio tra immagine e parola detta o tra parola scritta e immagine, in una sorta di inclinazione autoriflessiva. Ad esempio, la citazione può avvenire attraverso la didascalia, in questo caso emerge l'immobilizzazione della parola letteraria nella scrittura rispetto alle parole dette nel film. Molto spesso accade che alla didascalia venga associata una voce fuori campo, in modo da accrescere l'enfasi sulla citazione446. A queste forme di citazioni letterarie, Giorgio Tinazzi ne aggiunge una tipologia che avviene attraverso l'uso di brani dalla prosa originaria e di espliciti rimandi commentativi con una voce fuori campo: la letterarietà.447 Tinazzi propone tra gli esempi di questa categoria il primo film di Jean-Pierre Melville Le silence de la mer (Il silenzio del mare, 1949), tratto dal libro omonimo di Vercors. La specificità cinematografica è marcata attraverso un processo di riduzione degli elementi espressivi che porta a potenziare i caratteri allusivi dell'immagine, in modo che lo spettatore possa concentrare la propria attenzione sui gesti, sui particolari degli ambienti, sui colori, sui rumori e sulla musica. Le uniche due variazioni al testo 448 appaiono fondamentali in quanto evidenziano l'opposizione ad una tendenza di adesione, di “fedele riproduzione” al libro. La voce fuori campo è quella di un anziano signore, zio della protagonista femminile449, che si fa voce narrante dell'intera vicenda del film. Così dichiara Melvielle la propria trasposizione: «quello che mi era piaciuto enormemente nel Silenzio era l'aspetto anticinematografico del racconto, che mi aveva immediatamente indotto a pensare di fare un film anticinematografico»450. 446 L'uso della didascalia e della parola nei film di Godard sarà presa in esame, con i relativi esempi, nel paragrafo successivo. 447 Definizione di Tinazzi Giorgio, La scrittura e lo sguardo. Cinema e letteratura, Marsilio, Venezia 2007, p.99. 448 L'incontro tra i due personaggi e la frase finale di Anatole France. 449 La ragazza pronuncerà solo una parola nel film e la comunicazione con lo zio viene colta con i gesti e gli sguardi della ragazza. 450 Noguiera R. (a cura di), Le cinéma selon Melvielle (1973); trad.it Il cinema secondo Melvielle, Le Mani, Genova 1994, p.28; qui cit. in Tinazzi G., Parole di tendenza, in Perniola I. (a cura di), op.cit., p.115. 226 4.5 Godard poeta451 Abbiamo potuto constatare come la letteratura non venga considerata dai cineasti solo come mero supporto da cui trarre storie, la parola viene usata secondo le sue molteplici articolazioni: essa può essere detta, dialogata, scritta. La citazione può assumere molteplici forme e aspetti, articolazioni che suggeriscono allo spettatore altrettanti significati. Testimone esemplare dell'uso della parola nel cinema è Jean-Luc Godard che, nella sua carriera cinematografica, ha utilizzato tutti i connubi nati dalla relazione tra la letteratura e il cinema. I suoi film sono spesso di derivazione letteraria e non c'è pellicola cinematografica che non mostri almeno un libro: Godard sperimenta e gioca con la parola, con i suoi molteplici significati e con i suoni che essa produce, cita testi letterari stravolgendoli ed estraniandoli dal loro contesto per inserirli in dialoghi omaggiando, allo stesso tempo, i grandi autori e la parola stessa. Difatti, per Jean-Luc Godard prima della citazione e della letteratura vi è la scrittura, la sua carriera di cineasta è preceduta da quella di critico cinematografico. Nei primi anni Cinquanta inizia a scrivere per la rivista “Cahiers du Cinéma” articoli in cui afferma la continuità di tutte le forme di espressione, tesi che sarà perseguita, come abbiamo potuto vedere, anche nel corso di tutta la sua produzione. Se negli anni di critico Godard si definisce anche un regista, viceversa negli anni di cineasta si considera anche un critico, più precisamente uno scrittore, un autore di saggi in forma di romanzo e di romanzi in forma di saggi452. Ma il legame tra Godard e la parola scritta è da ricercare ancora più indietro nel tempo, nella sua infanzia, quando scoprì la letteratura a quattordici anni con il saggio Nutrimenti terrestri di André Gide453. Godard ricorda che passò la sua infanzia e giovinezza a leggere i libri che trovava in casa della madre o del nonno, tant'è che la sua aspirazione più grande era quella di riuscire a pubblicare un romanzo da Gallimard, una delle più prestigiose case editrici francesi. I romanzi e gli scrittori che, secondo il cineasta, hanno segnato il suo operato cinematografico sono Musil, Broch, Thomas Mann, il Gide dei Falsari, il Green di 451 Secondo Claude Chabrol (Come fare un film) il cineasta poeta è colui che ha una visione del mondo, ovvero che sviluppa le proprie idee e spiega contemporaneamente perché le idee degli altri non sono altrettanto buone. Si differenzia dal cineasta narratore, in quanto quest'ultimo non ha specifici messaggi da trasmettere, ma si limita a raccontare delle storie inventate da altri. 452 Godard Jean-Luc, Il cinema è il cinema, Garzanti, Milano 1971, pp.164-198. 453 Godard Jean-Luc, Due o tre cose che so di me. Scritti e conversazioni sul cinema, a cura di Orazio Leogrande, Minimum Fax, Roma 2007, p.263. 227 Léviathan e di Mezzanotte, Bernanos, Chardonne, Jouhandeau e gli scritti di André Malraux, uomo politico e di cultura che ebbe una forte influenza anche sulla Nouvelle Vague, con Sul cinema: appunti per una psicologia, Psicologia dell'arte, I noci di Altenburg e soprattutto La condizione umana. Definisce poi i grandi narratori, ovvero coloro che hanno uno stile, «un luogo in cui l'anima possa posarsi»454 come Balzac, Stendhal, Flaubert, Tolstoj, Dostoevskij, Dickens, Thomas Hardy, George Meredith e Virginia Woolf. Secondo Godard, è la letteratura ad avergli trasmesso un modo di pensare più sperimentale, in quanto è attraverso la letteratura che approfondì la sua visione del mondo ed ebbe una lezione di morale artistica in grado di creare quella coscienza morale che è in lui ancora adesso455. Negli anni di cineasta l'idea di una purezza della letteratura e dei suoi autori 456 si rafforza, al punto che suddivide romanzi adattabili al cinema e «romanzi impossibili da adattare»457. Quando un libro non è possibile trasporlo in film, significa che si tratta di un buon libro, poiché non esiste romanzo che ha dato origine anche ad un grande film: i capolavori devono essere letti e non filmati e sono solo i romanzi mediocri a diventare film458. Questa è l'idea che Jean-Luc Godard ha della trasposizione cinematografica, ma non per questo egli rinuncia alla letteratura come fonte per le sue sceneggiature. Molte sue opere sono state tratte da romanzi, o liberamente interpretate, ma solo una è rimasta abbastanza fedele al romanzo originale al punto da essere ricordata anche per il suo adattamento al libro. Il film in questione è Le Mépris (1963), che deriva dal romanzo di Alberto Moravia Il disprezzo (1954), di cui Godard mantiene i temi fondamentali della trama: entrambi presentano una storia di interpretazioni contrastanti e derivanti da uno stesso testo, ovvero l'Odissea, unito alla crisi dei coniugi Javal. 454 Godard Jean-Luc, Due o tre cose che so di me. Scritti e conversazioni sul cinema, a cura di Orazio Leogrande, Minimum Fax, Roma 2007, p. 264. 455 Godard Jean-Luc, Due o tre cose che so di me. Scritti e conversazioni sul cinema, a cura di Orazio Leogrande, Minimum Fax, Roma 2007, p. 271. 456 Godard afferma: «i libri mi hanno detto cose che gli esseri viventi non mi hanno mai detto […] la letteratura è stata la mia madrina». Cit. in Godard Jean-Luc, Due o tre cose che so di me. Scritti e conversazioni sul cinema, a cura di Orazio Leogrande, Minimum Fax, Roma 2007, p.271. 457 Affermazione tratta dall'intervista raccolta da Pierre Assouline, “Lire”, n.255, maggio 1997, in Godard Jean-Luc, Due o tre cose che so di me. Scritti e conversazioni sul cinema, a cura di Orazio Leogrande, Minimum Fax, Roma 2007, p.263. 458 Godard Jean-Luc, Due o tre cose che so di me. Scritti e conversazioni sul cinema, a cura di Orazio Leogrande, Minimum Fax, Roma 2007, pp.263-264. 228 L'idea esposta in precedenza sulla trasposizione cinematografica è presente anche in Le Mépris, in cui è lo stesso Godard a commentare la sua trasposizione al romanzo: Il romanzo di Moravia è un romanzo volgare e grazioso, tipo quelli che si acquistano nelle stazioni ferroviarie, pieno di sentimenti classici e desueti, a discapito della modernità delle situazioni. Ma è da romanzi di questo genere che si ricavano spesso bei film. Io ne ho conservato la sostanza, e ho semplicemente trasformato alcuni dettagli partendo dal principio per cui ciò che viene filmato è automaticamente diverso da ciò che è scritto, quindi è originale. Non occorre cercare di renderlo diverso, di adattarlo in previsione dello schermo, occorre semplicemente filmarlo così com'è: limitarsi a filmare ciò che è stato scritto […].459 In quest'opera, il regista attua quella teoria della trasposizione, analizzata in precedenza, sostenuta da André Bazin e poi dall'amico Truffaut, in cui il film viene considerato come un testo autonomo, ma che riesce ad essere coerente con il tema del romanzo, quello che Godard chiama “la morale della storia”, attraverso scelte stilistiche legate all'uso dello spazio, alla forma delle figure e delle inquadrature, a componenti cromatiche e a scelte ritmiche460. Secondo il cineasta: Il soggetto del Disprezzo non è più quello di uno sceneggiatore che scopre e soffre per il disprezzo di cui è oggetto da parte della moglie, ma è soprattutto quello di una moglie che disprezza. Il soggetto si riduce quindi alle incertezze dei personaggi che si contemplano gli uni con gli altri, e che il cinema a sua volta contempla, incertezze moderne che vengono raffrontate, sempre grazie al cinema, con l'armonia e l'intelligenza classica che, in fin dei conti, rimane l'unica. La morale del film si riallaccia dunque a quella del libro, rendendola più evidente.461 Perciò Godard distoglie l'attenzione dai sentimenti “piccolo-borghesi” del romanzo per proporre un'accurata riflessione sull'arte del cinema. La cronologia degli eventi, invece, rimane simile a quella del romanzo. I personaggi sono un regista tedesco, interpretato (nel ruolo di se stesso) da Fritz Lang 462, il quale sta girando un film tratto dall'Odissea, sceneggiatore e protagonista del film è Paul Javal (Michel Piccoli) con la 459 Godard Jean-Luc, Due o tre cose che so di me. Scritti e conversazioni sul cinema, a cura di Orazio Leogrande, Minimum Fax, Roma 2007, p.61. 460 Secondo Dusi Nicola, Il cinema come traduzione. Da un medium all'altro: letteratura, cinema, pittura, Utet Università, Torino 2003, p.215. 461 Godard Jean-Luc, Il cinema è il cinema, Garzanti, Milano 1981, p.248. 462 Lang diventa una sorta di citazione vivente nel film di Godard, poiché il regista interpreta sé stesso, uomo di cinema, e il cinema stesso. 229 moglie Camille (Brigitte Bardot). Quando Paul viene ingaggiato per creare una sceneggiatura che potesse essere più vicina al pubblico, l'uomo con la moglie si reca a Cinecittà, dove conosceranno il produttore americano Prokosch, che si invaghisce di Camille e la corteggia spudoratamente. Paul non interviene e la moglie, una volta tornati a casa, esterna il suo disprezzo per il marito. Partono per Capri con l'intera troupe, Paul continua a non preoccuparsi della relazione della moglie finché Camille e Prokosch non decidono di tornare a Roma e la donna di lasciare il marito. Il finale vede il montaggio alternato della lettera della donna indirizzata all'uomo e il viaggio dei due in auto che si concluderà con un incidente mortale, mentre a Capri le riprese continuano463. Godard concentrerà la vicenda, che nel libro dura all'incirca due anni, in soli due giorni, uno a Roma e uno a Capri; inoltre i personaggi che nel libro erano di nazionalità italiana cambiano tutti cittadinanza: i coniugi parlano francese, il produttore americano nella sua lingua, mentre il regista rimane tedesco464. Il romanzo di una sceneggiatura da scrivere a partire dall'Odissea diviene un film che è già, in parte, stato girato: Friz Lang rappresenta la classicità del cinema in quanto sostiene la fedeltà nell'adattamento dell'opera di Omero, al contrario Paul rappresenta la modernità, in quanto lo sceneggiatore diviene complice delle tattiche di commercializzazione attuate dal produttore nel tentativo di attualizzare l'Odissea. Il sistema corrotto e fatiscente del cinema viene esternato dallo stesso Lang che recita la poesia di Bertold Brecht, Hollywood: «Ogni mattina, per guadagnarmi da vivere, Vado al mercato dove si comprano le bugie. Pieno di speranza, mi metto tra chi vende». 463 L'analisi sulla versione italiana del film è stata argomentata anche nel capitolo precedente, per la suddetta trattazione ricordiamo i tagli di alcune scene da parte del produttore Carlo Ponti: ad esempio i titoli di testa pronunciati dalla voce dello stesso Godard vengono sostituiti da didascalie, viene anche tagliata una citazione di Bazin che recita «Il cinema sostituisce al nostro sguardo un mondo che accorda ai nostri desideri»; le scene di nudo della Bardot; vengono tagliate anche le numerose citazioni da quella di Lang dei versi danteschi su Ulisse alla lettura di un testo erotico da parte di Paul, alle citazioni dei film Rio bravo, Dietro allo specchio e Qualcuno verrà; la scena in cui Camille scopre che il marito è iscritto al partito comunista e quella in cui la donna riporta alla memoria i tempi felici con il marito; infine anche la scena finale viene manipolata e termina con la morte dei due amanti e non, come nella versione francese, con l'immagine del film di Lang in corso di elaborazione. Il film subisce anche un'alterazione cromatica e altre modifiche nel montaggio. Le manipolazioni del sonoro sono state trattate nel capitolo precedente (c.f.r. 3.4). 464 Un maggiore approfondimento sulle differenze tra il libro e il suo adattamento sono argomentate in Dusi Nicola, Il cinema come traduzione. Da un medium all'altro: letteratura, cinema, pittura, Utet Università, Torino 2003, p.213-251. 230 Il suo legame con la letteratura durante gli anni di cineasta si trasforma in una sorta di omaggio che Godard rivolge agli scritti e agli scrittori da lui amati attraverso l'uso della citazione. Egli ammette di non leggere mai un libro per intero, ma di leggerne solo tre o quattro pagine465 e se di una pagina ricorda anche solo tre o quattro righe, queste poche righe verranno sicuramente inserite all'interno di un film, difatti il suo obiettivo è quello di inserire nelle sue opere una sorta di esperienza letteraria che ha vissuto tra le pagine del libro. Utilizza perciò la citazione soprattutto nei dialoghi, i quali si frammentano in parole, frasi e titoli talvolta disparati, che sembrano non avere un rapporto diretto e coerente tra loro. Questa stessa discontinuità e senso di rottura diviene l'elemento chiave dell'uso della parola godardiana, la quale si presenta come un nesso di citazioni, in interazione le une con le altre, che conduce lo spettatore a coglierne i significati all'esterno dell'azione cinematografica. La citazione in Godard è spesso ripetitiva, quando è colpito da un autore o da una frase egli tende a riportare le sue citazioni di film in film e riesce ad adattare perfettamente la frase ad un nuovo contesto, ad un nuovo personaggio e ad una nuova tematica. Ad esempio, in una sequenza di King Lear viene menzionato un testo di Pierre Reverdy del 1918, che sarà riportato poi anche nei film Passion, Grendeur et décadence d'un petit commerce de cinéma, On s'est tous défilés, JLG/JLG, Historie(s) du cinéma: L'immagine è una creazione pura dello spirito. Essa non può nascere da una comparazione, ma dall'avvicinamento di due realtà più o meno lontane fra loro. Quanto più i rapporti fra queste due realtà accostate saranno lontane e giusti, tanto più l'immagine sarà forte - e più essa sarà dotata di potenza emotiva e di realtà poetica. Due realtà che non hanno alcun rapporto non possono essere utilmente accostate. Non c'è creazione di immagine. Due realtà contrarie non si accostano. Si oppongono. Raramente si ottiene una forza da tale opposizione. Un'immagine non è forte perché è brutale o fantastica - ma perché l'associazione delle idee è lontana e giusta466. La frase riesce ad adattarsi perfettamente a ogni opera cinematografica, facendo 465 Citato in Douchet Jean, Il filo spezzato del film, in Turigliatto Roberto (a cura di) Passion Godard. Il cinema (non) è il cinema. Il castoro, Milano 2011, p.43. 466 Reverdy Pierre, L'image, “Nord/Sud”, 13/1918, qui citato in Chiesi Roberto, Jean-Luc Godard, Gremese Editore, Roma 2003, p.6. 231 quasi dimenticare allo spettatore che essa è già stata udita più volte, al punto da risultare una citazione completamente “nuova”. Un'analisi più esaustiva delle citazioni letterarie verrà svolta nelle pagine successive, quando sarà direttamente approfondita nella cinematografia godardiana. Ci soffermiamo ora sui risultati che sono emersi dalle sperimentazioni di Godard sulla parola scritta, le quali hanno dato vita, all'interno dei suoi film, a fortunati giochi di parole, ad un uso innovativo della didascalia e ad un utilizzo originale della parola, studiata fino al particolare. L'utilizzo della parola come elemento non funzionale all'immagine viene usata dal regista fin dai suoi primi film attraverso l'uso dell'intertitolo, o didascalia, tecnica che abbiamo già esaminato (c.f.r. 4.3.1). In À bout de souffle il cineasta dichiara: «volevo dare l'impressione di scoprire o di sentire i procedimenti del cinema per la prima volta»467 e tornare all'origine significa utilizzare la parola scritta, la quale torna ad assumere le stesse funzioni del cinema muto. «Godard prova nostalgia per un'epoca, quella del muto, in cui il film intratteneva un rapporto quasi privilegiato con il linguaggio verbale»468, cerca quindi di ritornare a quell'unione tra parola e immagine scoprendo felicemente che la parola scritta inserita in un cinema sonoro assume delle peculiarità del tutto nuove e lo spettatore riesce a darle un valore maggiore. L'utilizzo della parola scritta all'interno dell'immagine filmica denota inoltre l'alternanza di partecipazione e distacco nello spettatore: come in Les Carabiniers, a cui la scrittura personale del regista ripresa sullo schermo dà una connotazione di non distanza; mentre Vivre sa vie utilizza scritte oggettive per scandire i capitoli del film, che si presentano come vere e proprie didascalie del cinema muto, in cui la scrittura rivela i fatti e anticipa l'immagine. La didascalia può inoltre contribuire all'andamento stilistico: sempre in Vivre sa vie, nella scena in cui viene letto un testo di Edgar Allan Poe, il dialogo, che precede la lettura, presenta i sottotitoli, mentre alla lettura del libro la parola non viene mostrata ma udita. L'uso della parola nei titoli di testa è anche uno dei problemi che si pone Godard 467 Citato in Tinazzi Giorgio, La scrittura e lo sguardo. Cinema e letteratura, Marsilio, Venezia 2007, p.32. 468 Secondo Liandrat-Guigues Suzanne, Leutrat Jean-Louis (tr. it. di Arecco S.), Godard alla ricerca dell'arte perduta, Le Mani, Recco 1998, p.34. 232 negli anni Sessanta, ovvero come creare il passaggio da essi alla narrazione. In À bout de souffle l'artista decide di eliminare i titoli di testa e di far comparire solo il titolo e la dedica (alla casa di produzione Monogram Pictures, la quale produceva B-movies negli anni Trenta e Quaranta). Nei lungometraggi successivi, Godard inizia così ad escogitare tre modi per inserire i titoli di testa nella narrazione: fa recitare i titoli, ad esempio è la voce fuori campo di Godard che pronuncia i titoli di testa di Le Mépris469 (1963) accompagnando la scena in cui viene mostrata una donna camminare lungo una strada seguita a lato da una troupe cinematografica470; oppure dilata i titoli, le scritte dei nomi appaiono quindi ad intermittenza come nel film Pierrot le fou (1965); o infine opera un processo di scambio tra titoli e sequenza d'apertura, ad esempio in Une femme mariée (1964) le posizioni del corpo della protagonista Charlotte evocano lettere in una sorta di calligrafia organizzata. Tipicamente godardiano è anche il gioco di parole, che compone anche con intere frasi in un'ossessiva ripetizione di concetti e significati. Il gioco di parole, come abbiamo già potuto vedere, è un tipico metodo della poetica surrealista che torna in Godard nell'esasperazione ricercata degli elementi linguistici. Non è un caso che l'uomo sia affascinato da scrittori quali Céline, Queneau e soprattutto da Michel Leiris con il suo Glossaire j'y serre mes glosses (1925-26), un libro che è una sorta di controdizionario nel quale le voci sono scritte in forma di calligrammi e anagrammi in pieno stile surrealista. Il cineasta è influenzato anche da Jean-Pierre Brisset, autore che fonda la scrittura sull'omofonia, le allitterazioni e il non senso. Per comprendere la scrittura di Brisset è fondamentale riportare questo passo de La science de Dieu (1900): «Per l'analisi delle parole andiamo allora a sentire parlare gli antenati che vivono in noi, attraverso i quali noi viviamo. Vediamo dove questi antenati erano logés (alloggiati): l'eau j'ai (ho l'acqua oppure io mi trovo nell'acqua). L'haut j'ai - sono in alto, al di sopra dell'acqua perché i primi antenati costruirono le loro prime capanne (loges) sull'acqua (palafitte)»471. Il medesimo gioco di parole nel testo scritto di Brisset è riscontrabile 469 Ci si riferisce alla versione originale, nella versione italiana di Carlo Ponti i titoli di testa compaiono sullo schermo. 470 La suddetta scena si chiude con l'operatore che punta la macchina da presa verso lo spettatore ed accompagna quella successiva che apre la narrazione. 471 La traduzione del passo di Brisset si trova in Breton, L'antologia dello humor nero, Einaudi, Torino 1970, pp.192-201; alcune parti sono state tradotte anche in Liandrat-Guigues Suzanne, Leutrat JeanLouis (tr. it. di Arecco S.), Godard alla ricerca dell'arte perduta, Le Mani, Recco 1998, pp.34-35. 233 anche nel cinema di Godard. Il cineasta sembra “trasporre” nelle immagini e nei dialoghi le onomatopee, le metafore e i doppi sensi del genere verbale. Il gioco allusivo delle parole con la trama, ovviamente attraverso una lettura in lingua originale, è possibile coglierla fin dal suo primo lungometraggio, À bout de souffle, ad esempio quando Michel appoggiato ad un cancello (grille) fuma continuamente sigarette (griller des sèches) nell'intrepida attesa di vedere Patricia; egli è come sulla graticola (grillé) che brucia (flambé) di impazienza e allo stesso tempo vi è anche un'allusione al suo destino bruciato, segnato dalla futura morte. È anche lo stesso poliziotto che lo segue in moto ad avvertirlo: «Fermo o ti brucio!» mentre il doppiaggio italiano pronuncia un semplice «Fermo o sparo!». Allo stesso modo, Godard gioca anche con i nomi dei personaggi, i quali contengono molteplici allusioni: in Pierrot le fou, il nome assegnato al protagonista quando diventa bandito (Pierrot) richiama anche il titolo del libro Pierrot mon Ami (Pierrot amico mio) di Raymond Queneau; la canzone mon ami Pierrot cantata anche nel film riconduce anche al Pierrot di Picasso. Le fou invece richiama il cantante Raymond Devos (dites que je suis fou) e j'm'en fous (me ne infischio), frase pronunciata dallo stesso Pierrot-Ferdinand. Sui giochi di parole poi il regista crea un'intera scena in Une femme est une femme, in cui Émile e Angéla chiedono aiuto all'amico Alfred per risolvere un loro dilemma, ovvero Angéla vuole un figlio mentre Émile non ne sente ancora il bisogno. Mentre discutono, accanto a Émile sul tavolo spiccano un mazzo di fiori gialli, simbolo di tradimento, la donna poi esclama «C'est le bouquet!» che in gergo significa anche «È il colmo!», mentre Angéla guarda il traditore Alfred. In mezzo alla stanza vi è poi una bicicletta (gialla) di Émile e Godard decide di associare i tubolari (pneu), che l'uomo controlla con ossessività, ad Alfred quando Émile afferma: “è bello gonfio”, ovvero Alfred è pieno di “arie”. La bicicletta (vélo), e la gelosia di Émile, ritornano quando Alfred richiama un testo di Alfred Jarry sulla Passione, che rappresenta come una corsa ciclistica in salita durante la quale Cristo buca una ruota (pneu) passando sopra una corona di spine. Il gioco di parole viene usato in Godard nel tentativo di mostrare come sia la realtà filmica a mimare quella reale, più precisamente egli utilizza gli stessi metodi del 234 gioco di parole della parola scritta, ovvero lo inserisce nell'immagine filmica senza che nulla possa preannunciarlo, creando nello spettatore, in grado di cogliere i nessi, un effetto di sorpresa. Superiamo per un momento la tematica dell'uso della parola e della citazione in Godard per soffermarci sul “tentativo di mostrare come sia la realtà filmica a mimare quella reale”, ovvero ciò che caratterizza la narrativa del suo primo periodo, il tentativo di filmare la realtà, lo “splendore del vero”. Ma la sua narrativa è caratterizzata anche dalla frammentarietà del testo, ed egli esplora la narratività cinematografica scandagliando ogni logica narrativa classica e privilegiando una frammentarietà del racconto, che secondo Luigi Allegri472, si avvicina in parte alle teorie che la corrente letteraria del Nouveau Roman stava esplorando negli stessi anni. Secondo Allegri vi è un legame che unisce l'estetica cinematografica della Nouvelle Vague e la sua vocazione realistica con l'estetica letteraria del Nouveau Roman francese, corrente che come abbiamo già visto non costringe la narrativa entro i confini di una immediata referenzialità fenomenica, ma piuttosto rimanda il lettore verso la scoperta che può scaturire dall'imprevisto delle situazioni più inusuali. Questo ricorda, in parte, anche le dinamiche della Nouvelle Vague, in cui i cineasti erano soliti filmare soggetti del quotidiano che, attraverso la lentezza dello sguardo e dei dialoghi, conduce ad una narrativa non più teleologica. I romanzieri del Nouveau Roman sostengono poi un tipo di narrativa in cui i personaggi e le vicende vengono escluse per concentrarsi sulla realtà che si discosta dai sentimenti umani; allo stesso modo anche i cineasti della Nouvelle Vague, con l'obiettivo di eliminare ogni artificio di rappresentazione della realtà, ingaggiano attori poco noti e girano i loro film in città e non tra le finte scenografie degli studi cinematografici. Allegri associa perciò il realismo di Godard a quello dello scrittore Michel Butor473, in quanto ambedue gli intellettuali rifiutano l'idea di un oggetto artistico come mimesi dei fenomeni reali ed entrambi pongono una particolare attenzione alle possibilità espressive del loro mezzo, che conduce all'omologia di strutture tra l'opera e 472 Allegri Luigi, Ideologia e linguaggio nel cinema contemporaneo: Jean-Luc Godard, Università di Parma, Centro studi e archivio della comunicazione, Parma 1976. 473 Allegri Luigi, Ideologia e linguaggio nel cinema contemporaneo: Jean-Luc Godard, Università di Parma, Centro studi e archivio della comunicazione, Parma 1976, pp.64-69. 235 la società. Nel libro Mobile (1963), Butor rifiuta l'idea di libro come un continuum, come una compresenza di elementi che talvolta sono estranei alla letteratura; egli studia la strutturazione delle pagine, in particolare la composizione tipografica cambiando i margini delle righe e le varianti tipografiche. All'interno del testo sono numerosi i richiami a tematiche esterne e si spazia dalla pittura di Pollock ai discorsi politici, fino ai manuali di cucina. In questo modo, il lettore è costretto ad intervenire nel corpo stesso dell'opera nel tentativo di comprenderne il significato. Allo stesso modo Godard utilizza la citazione come elemento in grado di offrire una carica semantica forte che rimanda a diverse entità culturali. 4.5.1 Le citazioni letterarie nella filmografia di Godard In tutti i film di Jean-Luc Godard la parola e la scrittura, in generale il linguaggio, assumono un'importanza particolare. L'artista imprime ed esprime i segni del linguaggio tramite scritte luminose, lettere, cartoline, pagine scritte a mano, titoli di testa particolari, testi recitati e citazioni. Come abbiamo già potuto appurare, Godard utilizza la citazione letteraria come repertorio, una traccia culturale su cui iscrivere un discorso e non una narrazione. La scrittura nel film fa parte della poetica del cineasta, sia come momento di straniamento dalla narrazione cinematografica, sia come interruzione e intersezione, presentando il cinema come un testo filosofico sul reale e non come una rappresentazione di esso. Molto spesso le citazioni letterarie di cui lui si serve sono composte da titoli di libri, brani di romanzi o poesie viste all'interno dell'immagine o dette a voce, tuttavia queste citazioni non sono quasi mai interamente riportate, ma vengono trasformate, deformate e riassemblate a seconda del gusto del cineasta. Cercheremo ora di dare un quadro generale delle diverse forme di citazioni letterarie nei film di Godard negli anni, per giungere infine all'analisi più approfondita della pellicola che racchiude tutte queste citazioni, dal gioco di parole alla didascalia, dalla citazione fino alla trasposizione, ovvero Hélas pour moi, film che ho scelto come esemplificazione di questo connubio tra cinema e letteratura, oltre che per la sua indubbia bellezza. 236 Le citazioni letterarie nei film di Godard le ritroviamo fin dal primo lungometraggio À bout de souffle, intessuto di talmente tante citazioni, allusioni e riferimenti al punto che Alberto Farassino afferma che il film «dovrebbe essere letto in edizioni con note a piè di pagina»474. Parole e poesie sono l'omaggio del regista ad una scrittura da lui sempre amata e che onora anche in articoli precedenti al film. Ad esempio, nel 1950 egli cita una poesia di Aragon (Au biseau des baisers/ Les ans passent trop vite/ Èvite évite évite/ Les souvenirs brisés 475) in un suo scritto476 ed essa sarà ripresa quasi dieci anni dopo in À bout de souffle. Tra le citazioni dei romanzi, i cui titoli sono anche all'interno dei dialoghi stessi, ricordiamo Dans un mois dans un an e Aimez-vous Brahms? di Francoise Sagan e Abracadabra di Maurice Sachs. I personaggi discutono, oltre che di pittura e di musica, anche di letteratura e parlano di Faulkner, Rilke, Cocteau; celebre è la sequenza in cui Patricia e Patrick si scambiano battute, sentenze e speranze finché la donna non chiede all'uomo cosa sceglierebbe tra il dolore e il nulla dopo aver letto la frase scritta da Faulkner: «Tra il dolore e il nulla io scelgo il dolore». Une femme est une femme è un film omaggio alla commedia musicale che Godard filtra attraverso gli echi letterari di de Musset e Giraudoux. Ad esempio, Alfred racconta una storia ad Émile che dice di aver letto sul “Paris jour”, storia che invece è tratta da un racconto di Giraudoux, che narra di una ragazza che manda due lettere ai suoi due fidanzati ma ne scambia le buste. Godard poi darà una definizione concisa e pungente della donna, nel finale, quando Émile dice ad Angela: «Tu es infame», e lei risponde: «Non, je suis une femme», ancora un sublime gioco di parole che sostituisce “une femme” ad “une infame”. Incantevole è la scena in cui Angela ed Émile, dopo un litigio, decidono di non rivolgersi più la parola e di comunicare tra loro tramite i titoli sulle copertine dei libri, che vengono parzialmente coperti, dimezzati e articolati in modo che si trasformino in frasi e in espressioni verbali. Da questo nasce uno degli stilemi più ricorrenti anche nei suoi film successivi, l'utilizzo della parola scritta con il linguaggio delle cose. 474 Farassino Alberto, Jean-Luc Godard, Il Castoro, Milano 2007, p.31. 475 Traduzione di Aprà A. in J-L Godard, Il cinema è il cinema, p.125: Sul filo dei baci/ Gli anni scorrono troppo rapidi/ Evita evita evita/ I ricordi infranti. 476 Nella recensione di The Great Mc Ginty di P. Sturges, “La Gazette du Cinéma”, n.5, novembre 1950. 237 Vivre sa vie è un film diviso in dodici quadri che evoca il cinema muto con l'uso delle didascalie che riassumono il contenuto dell'azione successiva. “Un film in dodici quadri” è il titolo d'apertura, che introduce esplicitamente la scelta della suddivisione delle parti che dal punto di vista narrativo si presentano come autosufficienti e distinte, sul piano temporale dalle ellissi e sul piano spaziale da vuoti diegetici. Nel film vi sono parecchie analisi della parola e del linguaggio: dalla discussione al bar tra Nanà e il filosofo Brice Parain, che riflettono sulle meditazioni, sul pensiero e sul linguaggio a partire da Kant, Hegel, Platone, fino alla lettura di un passo del Ritratto ovale di Edgar Allan Poe, recitato dallo stesso regista, che altro non è se non la storia di un pittore che fa il ritratto di una donna sottraendole a poco a poco la vita. In questa sequenza, i sottotitoli sostituiscono i dialoghi per lasciare la purezza delle parole udite. Il personaggio di Nanà richiama le figure femminili della tragica eroina di Zola, della Nanà di Jean Renoir e della Giovanna d'arco di Dreyer477. In Bande à part le associazioni e le citazioni letterarie sono frammentate e atte a confondere lo spettatore. Innanzitutto, il cineasta associa, attraverso il nome, la protagonista femminile Odile Monod a un romanzo di Raymond Queneau dal titolo Odile. L'associazione viene enfatizzata dalla lettura, da parte di Franz, di un passo del romanzo con il libro ben visibile in mano: la storia di Delouit raccontata da Anglarès. Ma in realtà sorge una discontinuità in quanto, nel romanzo, Anglarès non è autore di questo piccolo racconto, il quale è invece tratto da Nadja di Breton. La discontinuità ritorna quando il narratore afferma: «Arthur, Odile e Franz attraversarono, sotto un cielo di cristallo, ponti sospesi su fiumi impossibili. Nulla ancora si muoveva sulle facciate dei palazzi. L'acqua era morta. Un sapore di cenere si spandeva nell'aria». Una frase in cui si riconosce l'unione di quattro testi di Rimbaud, I ponti, Il battello ebbro, Alba e Frasi in una sorta di montaggio scritto. La spensieratezza infantile dei due uomini è velata da una malinconia che emerge quando Odile canta una poesia di Aragon in metropolitana e si affiancano immagini di barboni, passanti immersi nei sotterranei del metrò o nel grigiore della città. Godard interpreta la voce over del narratore e rivela i pensieri più intimi dei personaggi, altre volte invece ironizza sulla propria funzione narrativa: «Dovrei aprire una parentesi per parlare dei sentimenti dei personaggi, ma è 477 Quest'ultimo appare un richiamo esplicito nel film, nella scena in cui Nanà, al cinema, si identifica con la Giovanna d'Arco di Dreyer piangendo con lei per la condanna subita. 238 tutto così chiaro che chiudo la parentesi»; altre volte invece tende a sottolineare l'intensità lirica di alcune sequenze con un testo poetico. Successivamente sarà Godard stesso a fornire una scheda su personaggi e interpreti in cui afferma che il personaggio di Odile ha collegamenti con il personaggio di Tess di Thomas Hardy, Sarn-Becco-di-Lepre di Mary Webb, il romanticismo inglese dell'Ottocento e il classicismo tedesco del Settecento come richiamo all'Ottilia delle Affinità elettive di Goethe, Marianne di de Musset, la Berenice di Racine e il romanzo di Queneau. Ma la protagonista è Leslie Caron, Cathy O'Donnell, Jennifer Jones, Sylvia Sydney. Quanto all'attrice interprete di Odile, Anna Karina, Godard la collega a Greta Garbo, Asta Nielsen, Pola Negri. Il protagonista maschile Arthur è legato a Queneau, Les enfants du limon, Loin de Rueil, L'explication des métaphores e a Rimbaud. Dal punto di vista cinematografico, invece, Arthur richiama René Clair e i film Per le vie di Parigi e Sotto i tetti di Parigi. Il terzo personaggio, Franz, ha richiami di genere teatrale (il Cid, Lorenzaccio, Orfeo, Riccardo III, Brecht e Claudel) e letterario (Franz de Galais, Augustin Meaulnes, i ragazzi umiliati di Bernanos, Simeon Novalis, Bousset, Nadja di Breton e William Wilson di Poe)478. La citazione letteraria ritorna in Alphaville, une étrange aventure de Lemmy Caution, in una scena, in una camera d'albergo, in cui Lemmy Caution recita una poesia di Paul Eluard a Natacha: «La tua voce, i tuoi occhi, le tue mani, le tue labbra, il silenzio, le nostre parole, la luce che se ne va, la luce che ritorna». Nel frattempo il libro Capitale del dolore di Eluard è in mano a Lemmy Caution, nell'atto di mostrarlo a Natacha. Ma il testo in realtà non deriva dal libro ma dalle raccolte Le dur désir de durer, Le temps déborde, Corps mémorable, Le Phénix...479. I restanti riferimenti sono principalmente a Dick Tracy, Guy L'Eclair, Pascal (Il silenzio di questi spazi infiniti mi sgomenta), Bergson (Io credo ai dati immediati della coscienza) e lo stesso Lemmy Caution incarna un eroe di romanzi e film polizieschi popolari, ovvero il detective Lemmy Caution creato dalla penna di Peter Cheyney. 478 In questi anni Godard accompagna all'uscita dei suoi film, testi o articoli di giornale, i quali diventano parte integrante dell'opera pur essendo materialmente distinti. Godard pubblica una scheda degli attori per Band à part e il pezzo Fuoco sui carabinieri per l'uscita di Les carabiniers. Negli anni Ottanta Godard realizza dei volumi che pubblica sotto il titolo Phrases (sortie d'un film) in cui raccoglie le frasi più significative dei suoi dialoghi. 479 Il testo è sempre dell'autore Paul Eluard. L'edizione italiana è uscita con il titolo Ultime poesie d'amore, Lerici, Milano 1965. 239 Pierrot le fou è un film diviso in capitoli, ma molti di questi sono invertiti o vengono saltati secondo l'idea di frammentazione e dissoluzione della continuità narrativa che ricorda la scrittura automatica e onirica del surrealismo. Anche la stessa narrazione a volte viene affidata a voci fuori campo, altre volte a scritte e cartelli, altre volte ancora alle pagine del diario di Pierrot, con la scrittura di Godard. I titoli dei capitoli sono parodie di citazioni o pastiches: Capitolo secondo. Una surprise-party dal signore e dalla signora Expresso, la cui figlia è mia moglie. Capitolo seguente. Disperazione.. memoria e libertà.. amarezza... speranza.. la ricerca del tempo scomparso. Marianne Renoir. Capitolo ottavo. Una stagione all'inferno. Capitolo ottavo. Attraversammo la Francia... come apparizioni... come in uno specchio. Il paesaggio s'innalzò lentamente. Secoli e secoli fuggirono lontano come tempeste. Capitolo ottavo. Una stagione all'inferno. L'amore deve essere reinventato di nuovo. La vera vita è altrove. Secoli e secoli fuggirono lontano come tempeste. La strinsi al mio petto... e mi misi a piangere. Era il primo... era l'unico sogno480. Non manca nel film una riflessione sul concetto di parola: «la musica viene dopo la parola» dice Ferdinand a Marianne, dopo che la donna torna a casa con un nuovo disco, ribadendo «un disco deve essere acquistato ogni cinquanta libri»481. Ferdinand sembra sostenere la supremazia della parola, e quindi della letteratura, rispetto alla musica. Inoltre la parola è anche il modo con cui Ferdinand riflette sull'esistenza dopo l'abbandono della vita borghese attraverso le pagine del diario, che diviene uno degli inserti più ricorrenti insieme alle citazioni di poeti e scrittori come Balzac, Céline, Hugo, Rimbaud, Lorca, Robert Browning e i romanzieri del mare e dell'avventura, Melville, London, Conrad, Stevenson, Faulkner, Chandler; anche se il meno citato è Lionel White, autore del romanzo Obsession da cui è tratto il film. All'origine della parola vi è la lettera, con cui Godard gioca nei titoli di testa, i quali appaiono lettera per lettera in ordine alfabetico. Anche il linguaggio viene scomposto nelle sue unità elementari e dall'insegna “riviera” esce la parola “vie”, mentre dal logo “ESSO” le 480 Dai dialoghi dell'edizione italiana, in “Filmcritica”, n.165, marzo 1966, pp.156,157, 163-165; qui citato in Liandrat-Guigues Suzanne, Leutrat Jean-Louis (tr. it. di Arecco S.), Godard alla ricerca dell'arte perduta, Le Mani, Recco 1998, p.41. 481 Dialoghi tratti da Pierrot le fou (1965). 240 lettere “SS”; inoltre il nome di Marianne diviene nel diario di Pierrot un anagramma di mare (mer), anima (âme) e arma (arme), quest'ultima parola si collega sia alla banda di contrabbandieri di cui la donna fa parte, sia, secondo la mia interpretazione, all'arma che la ucciderà per mano dello stesso Ferdinand nelle ultime scene del film. In Deux ou trois chose que je sais d'elle ci si interroga su cosa sia un oggetto e Godard risponde con una citazione filosofica richiamando Georges Perec e il testo Le cose, da cui aveva già citato un passo in Masculin féminin. Mentre ci mostra un'immagine di una tazzina di caffè, l'accompagnamento della voce dello stesso Godard recita: Forse un oggetto è un legame che ci permette di passare da un soggetto all’altro, di vivere in società di stare insieme. Ma poiché i rapporti sociali sono sempre ambigui e il pensiero divide così come unisce e le parole uniscono per quello che esprimono… e separano per quello che omettono, un grande abisso separa la mia certezza soggettiva dalla verità oggettiva degli altri. Poiché so di essere colpevole anche se mi sento innocente, perché ogni evento trasforma la mia vita quotidiana, poiché sbaglio a comunicare, a capire. Ad amare o esser amato. Poiché ogni fallimento mi confina nella solitudine, poiché non posso divincolarmi dall’obbiettività che mi opprime… né dalla soggettività che mi esilia. Poiché non mi è possibile innalzarmi sino all’essere né cadere nel nulla… bisogna che ascolti. Bisogna che guardi intorno a me più che mai: il mondo, il mio simile, mio fratello. […] Dio creò il cielo e la terra. Certo, ma è un po' troppo comodo e facile... si deve poter dire meglio. Dire che i limiti del linguaggio sono quelli del mio mondo. E che parlando io limito il mondo...482 La riflessione di Godard sembra però concludersi con un fallimento e nel finale egli recita: «Ascolto la pubblicità sul mio transistor, metto una tigre nel motore e dimentico Hiroshima, Auschwitz e il Vietnam». In una scena Godard fa partecipare i due intellettuali Claude Miller e Jean-Patrick Lebel ripresi sommersi dai libri mentre leggono e citano frasi a caso. I loro nomi sono, rispettivamente, Bouvard e Pécuchet che corrispondono al titolo del romanzo incompiuto di Gustave Flaubert, Bouvard et Pécuchet483. L'opera narra le vicende di due amici, Bouvard e Pécuchet, i quali dopo aver lasciato il lavoro di proprietari terrieri decidono di avvicinarsi alla cultura e quindi ai libri nel tentativo di intraprendere una 482 In Farassino Alberto, Jean-Luc Godard, Il Castoro, Milano 2007, pp.90-91. 483 Pubblicato postumo nel 1881. 241 nuova professione: nell'opera letteraria i due saranno immersi nelle letture di testi di chimica, filosofia, teologia, archeologia, medicina e letteratura. Allo stesso modo, Godard riprende i due intellettuali-sceneggiatori sommersi di libri nell'atto di leggerli; i due leggono velocemente, citano frasi da diversi testi senza un ordine preciso e senza comprendere, a mio avviso, il reale contenuto di ciò che stanno leggendo. L'associazione alle azioni compiute dai due protagonisti del romanzo è indubbio: anche Bouvard e Pécuchet leggono molti libri e di diverso contenuto, senza riuscire però a raggiungere il loro scopo di cambiare professione. Il romanzo è anche una critica alla borghesia francese e alla politica del governo democratico socialista, la Comune di Parigi; allo stesso modo, anche Godard si serve del cinema per esprimere le proprie riflessioni politiche e sociali, soprattutto con La Chinoise. Nel film Godard utilizza la parola come mezzo principale rispetto all'immagine per trasmettere l'ideologia comunista del marxismo-leninismo, e sposta l'importanza dal visivo al parlato che non può essere definito dialogo, ma diviene commento, dichiarazione, intervista, lettura, citazione per rendere posizioni ideologiche484, poiché anche secondo l'idea maoista «è della parola che ci si può fidare più che l'immagine» 485. Per questo il film è ricco di citazioni che provengono dal libretto rosso di Mao, il quale si trova, in più copie, tra gli scaffali dell'appartamento parigino dove vivono cinque studenti di ideologia maoista; inoltre la pellicola è ricca di materiali figurativi, come fumetti, ritratti di politici comunisti (Bukarin, Stalin, Lenin) ed esempi di arte “socialista”, che vengono inseriti «come necessari strumenti di una scrittura che vuole sperimentare nuovi rapporti scientifici fra immagini e suoni»486. Godard, attraverso lo studio dell'immagine e del suono, riflette anche sul linguaggio del cinema stesso. Il rivoluzionario studente Kirilov pronuncia nel film una frase cara a Godard e cioè che l'immaginario dell'effetto estetico non è “le reflet du réel, il est le réel de ce reflect”487, che verrà ripresa anche da Véronique in qualche scena successiva. Questa frase rimanda al gusto godardiano per il paradosso e il gioco di parole, ovvero che la realtà a cui il cinema rimanda non può essere il mondo esterno, ma il film stesso, ovvero la stessa scrittura cinematografica. La 484 Secondo Allegri Luigi, Ideologia e linguaggio nel cinema contemporaneo: Jean-Luc Godard, Università di Parma, Centro studi e archivio della comunicazione, Parma 1976, p.174. 485 Ivi. 486 Farassino Alberto, Jean-Luc Godard, Il Castoro, Milano 2007, p.100. 487 Il riflesso della realtà, ma la realtà di ciò che riflette. (traduzione nostra) 242 realtà del cinema è il linguaggio cinematografico. Come abbiamo appena visto, nei film d'esordio degli anni Sessanta regna la rottura del linguaggio e della parola ottenuta con giochi di parole ed associazioni; in ogni film Godard moltiplica le rotture, i frammenti e le digressioni verbali. Al contrario, negli anni Ottanta il cineasta cerca di ricostruire e riavvicinare quello che aveva rotto nel ventennio precedente: le citazioni si amalgamano all'interno del racconto filmico trasformandosi in dialoghi e le trame sono incentrate su storie da narrare, bibliche, mitologiche o di cinema. Innanzitutto vi è Je vous salue, Marie film provocatorio poiché porta sullo schermo la storia più conosciuta al mondo che deriva dalla Bibbia, ovvero la nascita di Gesù trasposta in chiave moderna. L'obiettivo di Godard non era tanto creare scalpore, ma ricercare una sorta di purezza dell'immagine e del cinema e invece di raccontare, ancora una volta, la genesi di un film (Passion, Prénom Carmen) egli decide di raccontare la storia e la sua purezza. Détective è un film di cui per la prima volta Godard non firma neppure il soggetto, che viene accreditato al produttore Alain Sarde. Il titolo del film rimanda ad una vecchia rivista francese di storie vere e poliziesche; il protagonista Jean-Pierre Léaud è il detective Isidore che legge a sua volta queste storie, a testimonianza sul suo comodino vi è una pila di romanzi noir. Ogni personaggio legge un libro che lo identifica e molti dialoghi sono costruiti da letture o da citazioni degli stessi; ad esempio lo zio William Prospero legge sempre La tempesta (di William Shakespeare) libro che richiama il nome della fidanzata del détective, Arielle, per l'associazione con lo spirito dell'aria, Ariel, della commedia inglese; Jim si porta sempre in tasca Lord Jim, di Conrad, che però non ha mai letto, il capo mafia Luciano legge Sciascia, Françoise legge Madame Bovary; la donna, che ha avuto una relazione con Jim, nel finale legge un passo di Lord Jim mentre l'amante muore. Il titolo del film On s'est tous défilé (1988) richiama un gioco di parole del poeta Mallarmé, il quale riconosce al verbo e alla pagina bianca un ruolo fondamentale. Godard ci pone di fronte all'interrogativo del posto del linguaggio all'interno di un mezzo che è visivo. Alla base della poetica di Mallarmé vi è tale formula: «Tutto l'atto 243 disponibile, per sempre e soltanto, resta per ora quello di afferrare i rapporti» 488. I testi di Mallarmè sono tratti da Divagations (Le Nénuphar blanc, Crayonné au théâtre, La Cour, Sauvegarde) associate ad un défilé di moda dei sarti Marithé e François Girbaut. Uno dei brani che Godard spesso cita a partire da Passion fino a JLG/JLG, è la celebre frase di Pierre Reverdy, che diviene uno dei pilastri della sua poetica: L'immagine è una creazione pura dello spirito, essa non può nascere da un raffronto, ma dall'accostamento di due realtà lontane. Più i rapporti di due realtà saranno lontani e precisi, tanto più l'immagine sarà forte. Due realtà che non hanno alcun rapporto non possono essere utilmente accostate. […] Un'immagine non è forte perché è brutale e fantastica, ma perché l'associazione delle idee è lontana e precisa.489 Il cineasta analizza la questione dei rapporti tra immagine e parola e non risulta casuale come, ancora una volta, faccia riferimento alla poetica surrealista, in quanto il poeta fu lungamente ammirato dalla corrente. Fin dai primi minuti del film si può constatare come, attraverso l'uso sapiente del montaggio visivo, Godard associ alcuni primi piani di cittadini a personaggi di Lettre à Freddy Buache, a cui somigliano; ai personaggi di Longhi (Le Rhinocéros), di Gainsborough (Heneage Lloyd et sa soeur) e di Boucher (La marquise de Pompadour). Questi ultimi vengono intercalati dal viso di François Girbaut e da quello di una giovane donna, che solleva le gambe nell'atto di slacciarsi i sandali. L'associazione che è alla base del film, Mallarmé-défilé490, induce lo spettatore a cogliere tra le righe del testo del poeta una possibile meditazione del sarto Girbaut491. Le cinghie dei sandali della donna che si vedono nelle prime inquadrature sono una sorta di “firma” del sarto, in quanto vi sono le sue iniziali; inoltre si può constatare che nei défilé le modelle calzano sandali con stringhe di cuoio, allacciate alle caviglie, che a loro volta richiamano l'antica Roma e Gradiva. Inoltre la gonna e i pantaloni a righe che indossa la giovane donna ci rimandano ai costumi delle bagnanti del 1900; non a caso il testo di Mallarmé ruota intorno all'incontro, lungo una riva, con una donna misteriosa dalla bellezza evanescente. 488 Citato in Leutrat Jean-Louis, Potenza del linguaggio, in Perniola (a cura di) letteratura e cinema, Percorsi di confine, Marsilio, Venezia, 2002, p.96. 489 Citato in Leutrat Jean-Louis, Potenza del linguaggio, in Perniola (a cura di) letteratura e cinema, Percorsi di confine, Marsilio, Venezia 2002, p.97. 490 Mallarmé è stato per qualche tempo giornalista di moda. 491 Il testo è recitato dalla voce dello stesso Jean-Luc Godard. 244 Questo passaggio appena citato rievoca poi un “fuori testo”, ovvero il busto della giovane donna non viene mostrato e ricorda una traccia della poesia Nénuphar blanc che recita: «sottile segreto dei piedi che vanno, vengono, conducendo lo spirito là dove vuole la cara ombra dissimulantesi nella batista e nei pizzi della veste...»492. Anche in questo film Godard ricorre a giochi di parole come langage, che si scinde in l'ange, gage e in l'engagement, o come défilé in dès-filés. Il cineasta assembla immagini e suoni attraverso una serie di associazioni che sono visive e verbali. Anche il titolo stesso On s'est tous défilé sembra associarsi a qualcuno o qualcosa che sembra fuggito o scappato. Il pronome indefinito on sembra richiamare la Svizzera, neutrale al conflitto bellico della Seconda guerra mondiale, in quanto Godard utilizza il brano sinfonico di Arthur Honneger, di origini svizzere, Liturgique, che fa da pedant al film. La marcia dei robot poi rinvia alla sfilata militare, passando dal défilé di moda a quello bellico. Sia il poeta che il cineasta lavorano sull'idea del rapporto. Secondo Michel Collot493, Godard riesce ad avvicinare il mondo profano della strada al mondo dell'arte o della moda, laddove vi era per Mallarmé una frattura incolmabile. La poesia rimane uno strato del linguaggio, estraneo ad ogni utilizzo volgare e commerciale e secondo Mallarmé i rapporti devono costruire un'unità che si esemplifica nell'idea del libro. Al contrario il regista non crede nella possibilità dell'unità, secondo lui il libro è un oggetto ambivalente, e ha dichiarato che ha quasi sempre girato un film con un libro in mano 494 e aggiunge che fa più cinema quando legge che quando gira un film, poiché «è esattamente in quel momento che vado alla ricerca di alleati»495. 492 Citato in Leutrat Jean-Louis, Potenza del linguaggio, in Perniola (a cura di) letteratura e cinema, Percorsi di confine, Marsilio, Venezia 2002, p.100. 493 Le Commentaire et l'art abstrait, PSN, Paris, 1999, pp.199-205, qui in Leutrat Jean-Louis, Potenza del linguaggio, in Perniola (a cura di) letteratura e cinema, Percorsi di confine, Marsilio, Venezia 2002, p.100. 494 Positif, n.456, febbraio 1999, p.50, qui in Leutrat Jean-Louis, Potenza del linguaggio, in Perniola (a cura di) letteratura e cinema, Percorsi di confine, Marsilio, Venezia 2002, p.95. 495 Jean-Luc Godard par Jean-Luc Godard, Cahiers du Cinéma, Paris 1998, p.39. 245 4.6 Hélas pour moi Nel 1993 Godard realizza Hélas pour moi, uscito in Italia con il titolo Peggio per me, in cui dialogo, pensieri e narrazione esterna sono costruiti quasi unicamente da testi letterari di Shakespeare, Conrad, Falubert, Musil, Balzac, Hammet, Mallarmé, San Paolo, Renan, Léon Brunshwicg solo per citarne alcuni. Lo stesso cineasta dirà che di suo ha scritto solo i “buongiorno” e i “buonasera”496. L'opera cinematografica non è solamente intrisa di citazioni, essa ha uno spunto letterario che deriva da Giacomo Leopardi, dalla Storia del genere umano, la prima delle Operette morali, in cui si narra la vicenda della discesa del dio Amore sulla terra a consolare l'infelicità degli uomini. Godard stesso rivelerà le fonti letterarie in un'intervista: L'idea del film è nata da un testo di Leopardi. Il grande poeta italiano nel descrivere il percorso lento e difficile dell'umanità mostra le angosce, le pene e lo scoramento permanente del suo creatore davanti alle tante disavventure degli uomini. Il film si ispira anche al mito greco di Alcmena e Anfitrione, drammatizzato prima da Plauto e poi da Molière, Kleist, Giraudoux, e cerca di mostrare il desiderio di un dio di provare in corpo la verità del desiderio umano, dove si confondono giovinezza e piacere. Si tratta quindi di sapere dove comincia l'amore nel momento stesso in cui accade e come infine inizia la creazione. Come vi invade le dita, il petto, e sale poi alla fronte e agli occhi, qual è quel fascino eterno e potente che si trasforma quasi immancabilmente in liti e pianti, sangue e guerre. Ma cosa potrà offrire una povera mortale al dio, se lei rifiuta di conoscere l'immortalità?497 La storia del mito classico di Alcmena narra che, mentre il suo sposo Anfitrione era partito per combattere una guerra, la donna ricevette la visita di Zeus sotto le false sembianze del marito e dal loro incontro nacque il semidio Eracle. Della trama esistono numerose versioni teatrali e letterarie e Godard sceglie di attingere da tre: dalla commedia di Plauto il cineasta prende in prestito il personaggio di Mercurio; dall'Amphitryon di Molière il tema dell'ospitalità, difatti nella commedia il servitore di Anfitrione sentenzia che il vero Anfitrione umano è “quello in cui si cena”, poiché l'uomo era conosciuto per la generosità e l'ospitalità nei riguardi degli ospiti a pranzo 496 Citato in Farassino Alberto, Jean-Luc Godard, Il Castoro, Milano 2007, p.214. 497 Citato in Farassino Alberto, Jean-Luc Godard, Il Castoro, Milano 2007, p.216. 246 (Godard trasforma l'idea dell'ospitalità in chiave moderna in quanto Simon [AnfitrioneZeus] oltre ad essere un ristoratore diviene, alla fine del film, un albergatore); infine, da Jean Giraudoux (Anfitrione 38), il regista riprende il tema principale della commedia incentrata sulla coppia umana, colta nella sua dimensione quotidiana, ma riprende anche l'idea moderna del desiderio di dio di provare l'amore umano. La sfida di Godard questa volta è rivolta dunque alla produzione letteraria. Se in Passion diviene pittore e ricostruisce quadri celebri, in Prénom Carmen il suo grande amore per Beethoven diventa un omaggio al compositore e alla musica classica; con Hélas pour moi i dialoghi si trasformano in libri e la trama può essere riconducibile, ancora una volta, ad un testo classico. Ma nonostante il film si presenti come un elogio alla letteratura, egli si dichiara fin da subito poco soddisfatto della sua opera cinematografica, in quanto ritiene di essere stato costretto a consegnare un'opera che non considerava ancora completata498; così nei titoli di testa presenta il proprio film come «una proposta di cinema», come se si trattasse di una pellicola non finita, di un abbozzo che deve ancora giungere alla sua conclusione e alla sua completezza. Questa insoddisfazione di Godard nei confronti del proprio film appare forse il motivo che giustifica l'assenza del nome del regista nei titoli di testa; o forse, con la sua assenza, il cineasta rende omaggio all'intera troupe di tecnici e attori che compaiono e a cui viene attribuito, quasi automaticamente, il film. 4.6.1 Sinossi499 In un piccolo villaggio sul lago di Ginevra giunge l'editore Abraham Klimt (Bernard Verley) in cerca dei coniugi Rachel e Simon Donnadieu (Laurence Masliah, Gérard Depardieu). Klimt li cerca in quanto è interessato a comprare la loro storia come lui stesso afferma: «Per agire sul mondo abbiamo perso i gesti, le parole, i luoghi ma si deve poter raccontare una storia». Una volta arrivato in paese inizia a chiedere di loro ai vari abitanti: al libraio, al medico, al pastore e a sua moglie, ad uno spagnolo, 498 Citato in Farassino Alberto, Jean-Luc Godard, Il Castoro, Milano 2007, p.214. 499 Di supporto alla sinossi sono stati usati i testi: Farassino Alberto, Jean-Luc Godard, Il Castoro, Milano 2007 e Chiesi Roberto, Jean-Luc Godard, Gremese Editore, Roma 2003. 247 all'adultero, ai gestori di una videoteca. La coppia Donnadieu gestisce un ristorante, un giorno (24 luglio 1989) Simon è spinto dall'amico Paul ad andare in Italia a visitare un albergo in vendita; la coppia per la prima volta si separa e mentre Rachel piange, l'uomo la tranquillizza dicendole che tornerà l'indomani. Ma durante la notte Simon torna inaspettatamente, la moglie quasi sviene e poco dopo fanno l'amore. Il mattino seguente parlano di quello che è accaduto e lo fanno come mai era capitato prima, parlano di amore, di fedeltà, di corpi e di emozioni. Rachel si confida poi con il pastore riferendogli la stranezza del marito, quell'uomo era talmente diverso ed inoltre le aveva promesso l'immortalità, la donna scopre così che l'amore può essere triste. Ma non poteva essere altro che Simon, oppure poteva essere un dio, incarnato nell'uomo per conoscere cos'è l'amore. Così Klimt cerca di ricostruire questa storia tramite i racconti degli abitanti del luogo, ognuno dei quali ne conosce solo una parte, un frammento che può essere completato in modi diversi. Tutti gli abitanti intervistati comunicano che qualcosa di strano è accaduto nel villaggio, qualcosa di divino, perché ricordano che quel giorno in paese erano apparsi due strani personaggi, uno dei quali, Max-Mercurio, girovagava cercando un'amante per il suo dio. Alla fine del film, Klimt se ne andrà senza avere né una storia, né una verità sulla vicenda e poco dopo si vede Rachel raggiungere il marito che acquisterà l'hotel. 4.6.2 Analisi Quello che accade a Rachel e a Simon è l'avvenimento su cui è incentrato l'intero film, ma l'importanza di quell'evento sta nei dialoghi, le parole che la coppia si scambia la mattina successiva. È l'incontro di un uomo e una donna mai avvenuto prima, in cui la comunicazione diventa essenziale, quasi pura, in cui scompare quel disprezzo che aveva Camille per Paul in Le Mépris; è un dialogo senza quella violenza, che pare l'unico modo per raggiungere l'altro in Sauve qui peut (la vie); senza la sofferenza e l'ossessione di Joseph in Prénom Carmen; senza la sottomissione o la passività di un partner rispetto all'altro in Nouvelle Vague. Per la prima volta un uomo e una donna sono stati in grado di comunicare senza violenza, senza esasperazione, senza interferenze, anche di tipo sonoro, in quanto tutto il testo del film è perfettamente 248 udibile e comprensibile. Simon-Zeus e Rachel parlano di cose semplici, quotidiane, ma allo stesso tempo molto intime, le quali solitamente non vengono pronunciate, neppure se un uomo e una donna vivono insieme, perché sono indicibili. I coniugi Donnadieu parlano a voce bassa, sembra quasi che sussurrino parlando a se stessi tanto quanto all'altro, comunicando cercano di mettersi in contatto con l'altro come se fosse un grande Altro (dio500) in un dialogo che sembra una preghiera, facendo apparire il colloquio tra Rachel e Simon come qualcosa di sacro. La trama del film La Déesse (La dea, 1960) del regista indiano Satyajit Ray appare molto simile a quella del mito greco di Anfitrione. Ray allontana per qualche tempo il marito da sua moglie e quando l'uomo torna al villaggio scopre che la donna non è una creatura terrena, ma è una reincarnazione della dea Kali 501. Con il tempo l'uomo torna a vederla di nuovo come sua moglie, ma allo stesso tempo la vede come si vede qualcuno per la prima volta, mettendo in dubbio tutto ciò che riguarda il futuro di un sentimento e di un rapporto non ancora nato. La stessa sorte era toccata a Joseph in Je vous salue, Marie (1985) quando assiste all'annuncio divino, da parte dell'angelo Gabriele, che comunica a Marie, la sua compagna, che presto avrebbe avuto un bambino. Joseph, turbato e con un po' più di sofferenza rispetto ad altri uomini, si trova davanti alla moglie Marie, incinta, intoccabile e refrattario nasconde il suo segreto. Ma anche lui, con il tempo, acquisterà fiducia nella donna e crederà alla sincerità sulla sua verginità. In Hélas pour moi Godard inverte la situazione: la donna rimane umana, sarà l'uomo che verrà abitato, durante la notte, da una divinità. Ma Rachel non ne sarà mai totalmente certa e si domanda se sia l'uomo a essere diventato divino o se è dio che è divenuto il suo uomo (Fig.1). L'unica certezza è che questi dubbi hanno fatto sorgere tra loro sguardi, gesti timidi, parole, al punto che qualche cosa dell'amore indicibile della vita quotidiana sembra essere risalito in superficie e il non-detto sia divenuto parzialmente visibile. Questo episodio diviene perciò un evento mitologico, ecco perché necessita di 500 Alberto Farassino (op.cit., p.217) utilizza sia il termine “dio” (dio pagano Zeus) che “Dio” (in quanto Godard fa pronunciare battute a Depardieu con espliciti riferimenti al Dio cristiano). Per questa analisi si è scelto di utilizzare la parola dio, poiché la trama della pellicola si basa sul mito greco di Zeus e Almena. 501 Il confronto tra il mito di Anfitrione e il film La Déesse si trova in Bergala Alain, Nul mieux que Godard, Editions du Cahiers du cinéma, Paris 1999, pp.172-173, (traduzione nostra). 249 qualcuno che lo racconti e di un coro che amplifichi la narrazione 502. Quel qualcuno sarà l'editore Abrahm Klimt, il quale inizia ad indagare, come un detective, su quello che è avvenuto quel giorno tra Simon e Rachel raccogliendo le testimonianze dei personaggi del paese per cercare di avvicinarsi al mistero che si è verificato. Il coro è rappresentato dagli abitanti del villaggio, ventiquattro personaggi che, quasi per rifrazione, appaiono scossi per quanto accaduto. Anche l'arrivo in paese di due individui, ovvero due angeli annunciatori, Max-Mercurio, primo assistente di dio, e Sosia503 creerà scompiglio in quanto si presentano alla popolazione come due collaboratori scesi sulla terra per cercare la futura amante del loro dio. Secondo Douglas Morrey504 Hélas pour moi è un film che mette in discussione il materiale su cui è composta la storia, ovvero la manifestazione divina: sia lo spettatore che Abraham Klimt tentano di scoprire quale sia la verità, ciò che è realmente accaduto quella notte, ma le informazioni che ricevono sono spesso discordanti e nessuno, se non la coppia Donnadieu, saprà mai cosa sia realmente accaduto. Perciò, la storia viene raccontata in modo da preservare il suo mistero, così da evitare di far ricadere la narrazione in una realtà banale o in una fantasia assurda. Fin dall'apertura il film mette in discussione la natura e lo stato del racconto: il titolo ci informa che il racconto si basa su una leggenda, mentre una voce fuori campo racconta la pratica della narrazione del rito sacro: «Ci viene detto che i padri dei nostri padri dei nostri padri, quando dovevano affrontare un compito difficile si ritiravano in un posto nella foresta, accendevano un fuoco e si immergevano in preghiera. Quando, più tardi, il padre di mio padre si trovò di fronte allo stesso problema, decise di andare nello stesso posto nella foresta e disse: "Non sappiamo accendere il fuoco, ma sappiamo ancora dire la preghiera". Quando fu il turno di mio padre [...] anche lui andò nella foresta e disse: "Noi non sappiamo accendere il fuoco, non sappiamo più i misteri della preghiera, ma sappiamo ancora la posizione specifica nella foresta o quello che è successo e ciò dovrebbe essere sufficiente." E questo è stato sufficiente […]. Ma quando venne il mio turno io rimasi a casa e dissi: “Non sappiamo accendere il fuoco, non sappiamo dire le preghiere, non 502 Secondo Bergala Alain, Nul mieux que Godard, Editions du Cahiers du cinéma, Paris 1999, p.172 (traduzione nostra). 503 Nella commedia greca è il servo di Anfitrione. 504 Morrey Douglas, Jean-Luc Godard, Manchester University Press, Manchester 2005. 250 sappiamo nemmeno il posto nella foresta, ma sappiamo ancora raccontare la storia”»505. Raccontare una storia vuol dire raccontare il passato. In questo caso la narrazione è legata ad una sapienza antica, tanto quanto lo è in un testo di Walter Benjamin che Godard cita più volte nei suoi film negli anni Novanta 506. Benjamin sostiene che l'arte della saggezza, vale a dire la conoscenza radicata nell'esperienza attraverso il racconto, sia stata persa. La trasmissione orale di storie richiede una profonda assimilazione di narrazioni e le condizioni per questa ricezione non esistono più. Queste storie non devono essere confuse con le informazioni, che assumono valore nel momento in cui esse sono nuove; il racconto tradizionale può contenere poco del romanzo, ma il suo particolare potere è quello di offrire materiale per ulteriori riflessioni. In Hélas pour moi la storia viene ricreata attraverso una serie di informazioni, che Klimt raccoglie dalle interviste ai compaesani della coppia, allo stesso modo, a mio avviso, Godard ricrea la medesima storia con le stesse informazioni di cui Klimt è a conoscenza, allo spettatore non viene mostrato nulla di più di quello che i racconti non dicano. In questa direzione, surrogato dello spettatore all'interno del film è l'editore Abraham Klimt, che ricerca una storia da vendere. La quale Abraham Klimt cerca di ricostruire e si rivela essere intrigante e come ogni produttore cerca di ricostruirla a tutti i costi, ma anche per lui, come per gli abitanti del villaggio, essa appare una storia troppo misteriosa e difficile da poter ricreare. Per tutti gli anni Ottanta e ancora una volta in Hélas pour moi Godard mette in scena personaggi nell'atto di cercare una storia, ma in questo caso non si tratta, come in Passion o in Prénom Carmen, di mettere in scena un'opera cinematografica, di fare cinema, si cerca piuttosto una trama per un libro (Klimt è un editore), che possa quindi essere scritta e non vista. Abrahm Klimt diventa, ancora una volta, una sorta di alter-ego del regista, che, ancora una volta, si rispecchia nel personaggio, in questo caso l'editoredetective, che fallisce nel suo compito di trovare la storia, e Godard vi si rispecchia nel suo fallimento personale di rappresentare il presente, ovvero l'istante. Alain Bergala 507 505 Citato in Morrey Douglas, Jean-Luc Godard, Manchester University Press, Manchester 2005 (traduzione nostra), alcune parti sono state integrate con la visione del film. 506 Si fa riferimento al testo di Benjamin Walter, Il narratore, (1936), ed.ita. Einaudi, Torino 2011. Il testo viene citato in Morrey Douglas, Jean-Luc Godard, Manchester University Press, Manchester 2005, pp.211-212. 507 Bergala Alain, Nul mieux que Godard, Editions du Cahiers du cinéma, Paris 1999, pp.175-182. (traduzione nostra). 251 afferma che la questione chiave del cinema di Godard sia il tentativo di rappresentare l'istante in tempo, in questo caso l'istante è la definizione di un evento, che può durare una frazione di secondo508. Il cineasta indaga con il suo cinema il modo per rappresentare il presente ed intuisce che non si possono affrontare questi momenti senza prima distruggerli, ovvero invece di rappresentare la frazione di tempo bisogna tornare indietro, partire da un nuovo approccio, in modo tale che ciò che si rappresenta non sia mai esattamente al tempo presente. Lo spettatore può catturare il senso della fugacità dell'istante e quindi del presente attraverso la ripetizione, di una scena o di un'inquadratura, che può essere colta dallo stesso punto di vista o meno, così facendo l'immagine verrà decimata, frantumata, potenzialmente all'infinito, così come verrà scisso l'istante, che non sarà mai in un tempo presente ma vivrà in un continuo passato che ritorna. Godard si rifiuta di rappresentare un tempo definito in quanto la vocazione del cinema non è più quella di riprodurre il presente, ma di ripresentarlo, di farlo rinascere sotto un'altra forma. Per questo in Hélas pour moi il presente viene rappresentato con dio che si fa uomo sulla terra, un dio che cerca di diventare come un uomo mortale e ordinario ma che non comprende, una volta entrato in Simon, se stia davvero vivendo l'essenza umana, poiché egli non vive nell'ordinarietà e nel presente umano, ma nell'eternità509. Inoltre, Bergala sostiene che la ricerca godardiana basata sul tentativo di rappresentare l'istante, il presente, possa essere ricondotta anche all'etica cinematografica del regista: se il cinema non è riuscito a catturare quel singolo momento cruciale che erano i campi di sterminio nazisti 510, Godard sembra voler lavorare faticosamente, attraverso la storia del cinema, alla ricerca del momento preciso in cui l'errore è stato commesso. Allo stesso tempo, intraprende una ricerca di un nuovo tipo di immagine, un'immagine-resurrezione o immagine-redenzione, che potrebbe 508 Secondo Alain Bergala l'esempio di questo concetto di istante-evento è riscontrabile nell'episodio di Hélas pour moi in cui Dio si incarna in Simon. 509 In una scena Dio-Simon incapace di capire l'uomo e sofferente si morde le labbra come segno di difficoltà, lui che è l'Eterno. Inoltre quando Dio-Simon parla è facilmente intuibile come non si tratti di un uomo; in una battuta egli afferma: «Ho fatto tre passi sulla veranda» e non nella veranda, in quanto lui, l'Eterno, vive al di fuori della terra e le azioni che solitamente compie sono sulla terra. 510 Godard afferma: «I film non producono più quel genere di contatto con il reale. Il cinema ha annunciato i campi di concentramento […] però non li ha mostrati. È stata la letteratura a farlo. Il cinema è venuto meno al suo compito» in Godard J.L., Due o tre cose che so di me. Scritti e conversazioni sul cinema, p.271. 252 compensare l'errore precedente; qualcosa che diventa possibile solo dando una concezione non lineare di tempo, in cui ogni momento presente comunichi con il passato e corregga quanto riprende. Questo ultimo concetto può ricondursi anche all'uso della citazione letteraria all'interno del film. A partire dagli anni Ottanta, Godard, in alcuni suoi film, non concepisce più le frasi dei propri dialoghi ma inserisce testi di altri autori 511; la citazione non è mai esatta ma spesso approssimativa, perché è solo grazie a questa piccola differenza che la frase può essere riportata in vita in una sorta di resurrezione della parola. Godard perciò frammenta il tempo, carica il film di citazioni letterarie, molto spesso leopardiane, inserisce la musica classica (Bach, Beethoven, Honegger, Šostakovič, Čajkovskij) con allusioni alla pittura classica (il pittore Klimt) e divide le sue composizioni visive con giochi di parole, le quali sono unite a frammenti di testo, anch'essi molto classicheggianti (Fig.2). La classicità ritorna anche nei nomi dei personaggi, biblici, come Abramo, Simone, Rachele e il gioco di parole, amato da Godard, evoca la classicità del personaggio più controverso della storia, ovvero dio, nel nome dell'attore che interpreta Simon-Dio. Il regista conosce il gioco di parole che spesso giornalisti e titolisti hanno fatto del suo cognome, God - Dio, ma questa volta decide di giocarci lui stesso: Simon ha come cognome Donna-Dieu512 e il protagonista che lo interpreta sarà Gerarde Depar-Dieu; un richiamo alla figura di dio difficile da non notare. Inoltre, la classicità del cinema muto rappresentato dalla didascalia ritorna in Hélas pour moi nella suddivisione del film in sezioni chiamate libri (quattro), che vengono accompagnate da cartelli, intertitoli, i quali su sfondo nero comunicano con lo spettatore attraverso la parola scritta (Fig.3), ma allo stesso tempo lo distraggono in quanto la colonna sonora non viene interrotta alla comparsa delle didascalie, ma i 511 Prima di Hélas pour moi, per il film Nouvelle Vague (1990) Godard crea dialoghi tratti da poesie e romanzi che lui stesso affermò di aver mescolato e, in taluni casi, anche parzialmente riscritto al punto da non riconoscere più nemmeno a chi appartengono (cit. Farassino A., op.cit., p.211). Il riconoscimento delle frasi da cui Godard trae i dialoghi non sono facilmente intuibili, allo stesso modo in Hélas pour moi le citazioni letterarie sono talvolta indecifrabili, tuttavia sono stati riconosciuti in Nouvelle Vague citazioni di Rimbaud, Rousseau, de Rougermont, Faulkner, Dostoevskij, Schnizler, Chandler, Chardonne, Renard, Mary Shelley, Rivarol, Dante Alighieri che è il più citato con la sua Divina commedia. 512 Dieu in francese significa Dio. 253 dialoghi visti nella scena precedente si protraggono, altre volte vengono anticipati quelli della scena successiva. Ad esempio quando compare la scritta: «Ainsi, peu à peu, le passé revient - il au présent, à travers la mise en scène imaginaire d'une expérience visuelle qui toujours sollicite plusieurs regards»513 si sente una voce fuori campo che dice “Wild Orgy”, che poi scopriremo nell'immagine seguente essere quella di una donna in un negozio di noleggio video. Infine, la tematica della classicità e del mitologico ritorna in Hélas pour moi attraverso il desiderio di dio di conoscere le emozioni delle sue creature, gli uomini. Dio, assistito dai suoi fedeli servitori, giunge sulla terra, in un piccolo paese vicino ad un lago514, in Svizzera, e prende le sembianze di Simon, diventa un uomo e prova le emozioni umane, la passione e l'amore: «per ogni donna che ama un uomo esso è già l'ombra di dio»515. E così Simon-Dio si comporta come un uomo normale, gira con un impermeabile e i giornali sotto braccio, ma invece di camminare sulle acque entra nel lago, nella scena più celebre del film, finendo sul fondo (Fig.4). «Non è la prima volta che Godard mette in opera dispositivi complessi, come la classicità e il mito, per riuscire ad affrontare la quotidianità e le cose più semplici, l'amore tra gli uomini. Negli anni Sessanta porta in scena il grande regista Friz Lang insieme ad una seconda troupe, la quale doveva mettere in scena L'Odissea, per indagare l'amore di Camille per Paul che forse si era trasformato in disprezzo. Negli anni Settanta sfida le immagini e cerca di abbatterle per vedere i gesti quotidiani di un ragazzo e di una ragazza in France Tour Détour. Negli anni Ottanta ricostruisce L'entrata dei Crociati a Costantinopoli in cui i metodi di lavoro vengono mostrati senza nessun imbarazzo. Sembra quasi che per Godard più qualcosa è semplice e più è difficile metterlo sullo schermo. Da Le Mépris in poi Godard sa che ciò che succede tra le persone e che solitamente dura una frazione di secondo, non può essere afferrato nelle sceneggiature cinematografiche, le quali appaiono molto spesso troppo grossolane; 513 Così, a poco a poco, il passato ritorna al presente, attraverso il palcoscenico immaginario di un palcoscenico visionario che attira sempre l'attenzione. (traduzione nostra) 514 Nel 1979, Godard e la Miéville si trasferiscono a Rolle, un piccolo paese sulla sponda settentrionale del lago di Ginevra, divenendo set di numerosi film. Rolle riveste un significato quasi simbolico per Godard e per la «mia situazione di franco-svizzero e di cineasta abitante delle città che ha messo un tempo incredibile per vedere che non c'era più nulla da vedere nelle città» (Cit. in Chiesi R., JeanLuc Godard, Gremese Editore, Roma 2003, p.65). Godard ricomincia dal suo paese natale ma senza abbandonare mai totalmente Parigi, in cui spesso ritornerà per girare alcuni film. 515 Citata in Hélas pour moi e prima ancora in Je vous salue, Marie. Qui in Farassino A., op.cit., p.217. 254 perciò egli si accontenta di raccontare una storia che avviene tramite una successione di scene, ovvero attraverso una simulazione di blocchi del presente»516. Godard osserva che nel cinema narrativo gli spettatori possono dimenticare le singole scene, ma rimangono sempre con un vago ricordo di esse, che viene creato dalla scena presente in un dato momento (questo è il cinema narrativo classico, dove la logica di causa ed effetto tra le scene è sempre trasparente) 517. «In Hélas pour moi lo spettatore non ricorda nulla delle scene precedenti, in quanto il film è composto dalla pura presenza di immagini che non dipendono da ciò che è venuto prima, ma da ciò che sta per venire dopo e che lo spettatore non può sapere. Nei film di Godard l'immagine attuale prepara il futuro, come nel cinema narrativo classico, ma lo attende con il fiato sospeso»518. Il tempo del film è un presente frammentato, come se la presenza di quel dio in terra avesse sconvolto l'ordine del quotidiano e questo si ripercuotesse sulla presenza che si ha del film, nel quale ogni piano sembra cancellare quello precedente alimentando una successione anti-narrativa. Questo è ben visibile in una scena nella prima metà del film, che si svolge presso il ristorante gestito dalla coppia. La vicenda inizia mostrando una coppia seduta ad un tavolo, accompagnata da una voce fuori campo, quella di Max-Mercure, che consiglia al suo padrone di prendere una posizione all'angolo e di osservare gli umani. Mentre la camera inquadra altri tavoli, un giovane uomo legge ad alta voce un testo su alcuni fenomeni che, poco plausibili, possono costituire un articolo di fede. Ad un altro tavolo una coppia discute con termini che vanno dal romantico al pornografico. Si sente poi una voce fuori campo che cita una frase di Robert Musil: «siamo incapaci di liberarci, non c'è dubbio. E questo è ciò che chiamiamo democrazia». Un altro tavolo con quattro persone che discutono: uno afferma che il Manifesto del Partito comunista sia stato pubblicato nello stesso anno di Alice nel paese delle meraviglie, un altro afferma che l'ascensione di Cristo sia una vecchia idea, che esiste da 2000 anni. Si afferma poi che durante la guerra del Golfo nessuno abbia pensato di parlare dello ziggurat 516 Secondo Bergala Alain, Nul mieux que Godard, Editions du Cahiers du cinéma, Paris 1999, pp.174175, (traduzione nostra). 517 Godard Jean-Luc, Jean-Luc Godard par Jean-Luc Godard, tome 2: 1984-1998, Cahiers du cinéma, Paris 1998, p.276. 518 Secondo Morrey Douglas, Jean-Luc Godard, Manchester University Press, Manchester 2005, (traduzione nostra). 255 mesopotamico, la grande pietra degli dei. Rachel entra da destra e Simon da sinistra, qualcuno ordina un bicchiere di rosso, Simon dice che il rosso è terminato e, con un gioco di parole, continua: «non più rosso, nemmeno per l'ultimo comunista della nostra giovane Europa». La scena tenta di coprire in un paio di minuti un arco di storia che va dalla Mesopotamia alla guerra del Golfo, dirigendosi verso un futuro non immaginabile, in cui dio scende sulla Terra e si fa uomo. Anche la stessa ricostruzione della vicenda dei coniugi appare frammentata e priva di collegamenti. Quando Klimt interroga i compaesani su quello che poteva essere successo in quel pomeriggio del 28 febbraio 1989, egli riceve una serie di risposte diverse: molte persone ricordano una discussione tra Simon e Rachel nata dalla partenza dell'uomo per l'Italia, ma molti non sono d'accordo sulle circostanze precise della controversia. Un personaggio ricorda Rachel seduta sul lungomare in riva al lago, un altro la vide nuotare, un terzo ricorda l'immagine di lei guardare l'acqua. Il film, a sua volta, offre rappresentazioni visive di tutte queste possibilità, in quanto, secondo la tesi prima sostenuta, Godard intende mostrarci solo ciò che Klimt scopre dalle interviste. L'atto stesso della dimenticanza, da parte dei personaggi, interferisce nella ricostruzione sia della storia in sé, sia della messa in scena di questi episodi: ad esempio in un'inquadratura vediamo Simon e Rachel parlare insieme su una panchina, poco dopo l'uomo se ne va. Tuttavia, una volta che abbiamo assistito alla partenza di Simon, la scena torna a Simon e Rachel ancora seduti sulla panchina, mentre la donna si gira verso di lui, egli scompare con un taglio, la stessa inquadratura è ripetuta per tre volte di seguito nel tentativo, come abbiamo visto, di ricreare il presente, quell'istante essenziale, in cui per l'ultima volta Simon (uomo) vede Rachel (Fig.5-6). Ancora, in un'altra scena appare dio, che lamentandosi con Max-Mercure che la notte sulla Terra è troppo breve, decide di prolungarla e trasferire la luce del giorno in piena notte. Intervallati da questa lunga sequenza vi è il dialogo tra Klimt e Aude, una giovane donna che esprime i suoi dubbi sul fatto che un evento di questa natura possa essere visto da tutti, ad un certo punto quindi lei sostiene di aver sentito e non più visto quanto è successo quella notte, affermando che non ci possa essere un'immagine di dio e dice: «l'invisibile è faticoso». Questo è il Godard di Hélas pour moi, creatore di scene apparentemente casuali 256 con personaggi che recitano frasi disconnesse, ma che testimoniano l'incredibile condensazione di temi politici, religiosi e mitologici in un unico lavoro. In tutto questo dio guarda, a volte dimenticato ma, come dice Max-Mercure, «risiede comunque in ognuno di noi». 4.6.3 Passion, Prénom Carmen, Hélas pour moi: la loro storia. Ancora una volta, il film si apre con l'obiettivo di cercare una storia da raccontare, anche se in Hélas pour moi essa deve essere prima ricostruita o almeno vi è il tentativo di farlo. Come abbiamo già potuto vedere in Passion e Prénom Carmen, i film degli anni Ottanta e Novanta di Godard sono incentrati sulla memoria e sulla storia, sia pubblica che privata, e sia politica che cinematografica. Una storia da raccontare, da ricercare e da ricostruire minuziosamente è il fil rouge che unisce, a mio parere, i tre film finora analizzati. Ricordiamo quanto il cinema necessiti di una narrazione nel film in costruzione di Passion, in cui si insegue costantemente la trama cinematografica attraverso le domande senza risposta a Jerzy: «Qual è la storia?». Significativo è anche il quesito che Godard pone a tre personaggi, nelle prime scene di apertura del film, ovvero «che cos'è questa storia?», ma le risposte date sono differenti e talvolta contrastanti le une dalle altre al punto che la domanda rimane senza risposta. In Passion, come abbiamo visto (c.f.r. 2.5.2), Godard trova un apparente soluzione al problema dell'individuazione di una storia, organizzando il film attraverso tre serie: quella dei tableaux vivants, quella della vita (associata all'operaia Isabelle) e infine la serie dell'arte (rappresentata dal regista Jerzy). Le serie si compenetrano nel film e sono unite l'una all'altra tramite il sistema metaforico, ovvero le esperienze di vita dei due protagonisti, Isabelle e Jerzy, vengono associate ai tableaux vivants tramite le inquadrature, le tematiche o i sentimenti dei personaggi. Ma la storia ricercata ossessivamente in Passion non verrà mai trovata: Jerzy, sconfitto, abbandonerà il suo film e, di conseguenza, la narrazione da lui anelata. Dal mio punto di vista, Godard ritorna a esplorare la ricerca di una storia anche in Prénom Carmen: il film diviene una sorta di continuazione simbolica di Passion e Jerzy evolve in un altro regista, lo zio Jean, il quale è interpretato dallo stesso Godard. 257 Questa volta, il cineasta indaga in prima persona la vicenda, la medesima di Passion, quella di un film in elaborazione. Abbiamo già analizzato le dinamiche che hanno condotto ad associare Prénom Carmen al film precedente (c.f.r. 3.5.2), ma è indispensabile sottolineare che, anche in questo caso, sarà proprio la ricerca di una storia di cinema ad unire le due serie che compongono il film: l'arte (Claire e il quartetto Prat) e la vita (Carmen). Infine, ancora con Hélas pour moi, Godard insegue una storia mediante il proprio alter-ego Klimt. Il personaggio si discosta visibilmente dai due precedenti: innanzitutto, Klimt è un editore e non un cineasta ed appare fin da subito come un uomo riservato, schivo, il cui unico scopo è quello di raccogliere le informazioni necessarie per ricostruire la vicenda dei coniugi Donnadieu; inoltre l'uomo non intreccia nessun tipo di rapporto con gli altri personaggi del film, a differenza di Jerzy e zio Jean 519. Klimt pare entrare in punta di piedi all'interno del racconto, non ne diviene il protagonista, ma si fa portavoce degli avvenimenti. A mio parere, egli è una timida presenza, un personaggio che sembra farsi da parte di fronte alla grandezza degli eventi; difatti nel momento in cui comprende che non vi può essere nessuna storia da scrivere, o da raccontare, uscirà di scena, silenziosamente, senza scappare520. Questa volta, Godard sembra aver capito come raccontare la storia e lo afferma fin dalle prime inquadrature: «Non sappiamo accendere il fuoco, non sappiamo dire le preghiere, non sappiamo nemmeno il posto nella foresta, ma sappiamo ancora raccontare la storia»521; e per raccontarla, egli si serve di Klimt in modo da mostrarci solo ciò che l'editore conosce. Ma anche per quest'ultimo, come avvenne prima per Jerzy e per lo zio Jean, la storia non giungerà al suo termine, l'episodio che sconvolge i coniugi Donnadieu non verrà ricostruito e sia Klimt che lo spettatore non conosceranno mai la verità. In Hélas pour moi, Godard divide il film in quattro capitoli, come un libro e anche le citazioni sembrano ricondurre lo schema di un testo narrativo: i dialoghi sono 519 Ricordiamo il legame profondo che lega lo zio Jean alla nipote Carmen e la relazione amorosa di Jerzy con Hanna. 520 Jerzy in Passion, dopo aver abbandonato il film, decide di scappare in Polonia; lo zio Jean invece, nella scena finale di Prénom Carmen scappa dalla sparatoria messa in atto dalla banda di Carmen, inoltre l'uomo in passato era “scappato” dal mondo opprimente del cinema per rifugiarsi in un ospedale-manicomio. 521 Tratto da Hélas pour moi (1993). 258 magnifiche creazioni di frasi prese in prestito da libri e poesie, la trama del film è di derivazione letteraria e poi vi è Klimt, l'editore, il quale giunge in un piccolo paese sulle sponde di un lago per scrivere una storia. Senza l'arte le storie di Godard non possono dirsi realizzate. Ed è su questo concetto che, secondo la mia interpretazione, egli sceglie di focalizzare la propria ricerca: il cineasta non impiega le citazioni esclusivamente in omaggio agli autori da lui amati, ma l'arte, la citazione, diventa coprotagonista dell'opera cinematografica: i tableaux vivants sono il trait d'union tra i diversi personaggi, tra il lavoro in fabbrica e quello di cinema; così la musica classica di Beethoven (Quartetti) unisce le vicende del quartetto Prat con quelle di Carmen e dello zio; infine è l'atto dello scrivere una storia da parte di Klimt che, associato all'atto del mostrare da parte di Godard, è in grado di realizzare, a mio avviso, il racconto. In questo modo Jean-Luc Godard si fa pittore, compositore e infine scrittore per realizzare le sue storie, quelle di cinema, e diventa God-Art, in omaggio ai migliori giochi di parole giustappunto godardiani. 259 APPARATO ICONOGRAFICO Fig.1 L'immagine accompagna la voce di Rachel mentre espone i suoi dubbi al marito (Hélas pour moi, 1993). Fig.2 In primo piano il libro Il pirata di Joseph Conrad (Hélas pour moi, 1993). 260 Fig.3 La suddivisione del film in capitoli (Hélas pour moi, 1993). Fig.4 Simon-Dio non cammina sulle acque ma entra nel lago (Hélas pour moi, 1993). 261 Fig.5 Rachel (Laurence Masliah) e Simon (Gérard Depardieu), (Hélas pour moi, 1993). Fig.6 Nel fotogramma successivo Simon scompare con un taglio (Hélas pour moi, 1993). 262 BIBLIOGRAFIA AA.VV., Peinture, cinema, peinture, Direction des musees de Marseille, Paris 1989. Adorno Theodor Wiesengrund ed Eisler Hanns, La musica per film, Newton Compton, Roma 1975. 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Adieu au langage (Addio al linguaggio), 2014. 272 FILMOGRAFIA 2/60 48 Köpfe auf dem Szondi Test, regia di Kurt Kren, 1960. 2001: A Space Odyssey (2001: Odissea nello spazio), regia di Staley Kubrick, 1968. A Bigger Splash, regia di Jack Hazan, 1975. A Clockwork Orange (Arancia meccanica, 1971), regia di Staley Kubrick, 1971. A Movie, regia di Bruce Conner, 1958. A Streetcar Named Desire (Un tram che si chiama desiderio), regia di Alex North, 1951. Accattone, regia di Pier Paolo Pasolini, 1961. Aleksandr Nevskij, regia di Sergej Michajlovič Ėjzenštejn, 1938. Alien, regia di Ridley Scott, 1979. Andrej Rublëv, regia di Andrej Arsen'evič Tarkovskij, 1966. Anémic cinéma, regia di Marcel Duchamp, 1926. Anticipation of the Night, regia di Stan Brakhage, 1958. Barry Lyndon, regia di Staley Kubrick, 1975. Bells of Atlantis, regia di Ian Hugo, 1952. Blackmail (Ricatto), regia di Alfred Hitchcock, 1929. Bronenosec Potëmkin (La corazzata Potёmkin), regia di Sergej Michajlovič Ėjzenštejn, 1926. Cabiria, regia di Giovanni Pastrone, 1914. Canon, regia di Norman McLaren, 1964. Caravaggio, regia di Umberto Barbaro e Roberto Longhi, 1948. Carpaccio, regia di Umberto Barbaro e Roberto Longhi, 1948. Citizen Kane (Quarto potere), regia di Orson Welles, 1941. Das Cabinet des Dr. Caligari (Il gabinetto del dottor Caligari), regia di Robert Wiene, 1919. Deposizione di Raffaello , regia di Carlo Ludovico Ragghianti, 1948. Deserto rosso, regia di Michelangelo Antonioni, 1964. Dezertir (Il disertore), regia di Vsevolod Pudovkin, 1933. Diagonal Symphonie, regia di Viking Eggeling, 1925. Disque 927, regia di Germaine Dulac, 1928. Dog Star Man, regia di Stan Brakhage, 1961. Don Juan, regia di Alan Crosland, 1926. Don't Come Knocking (Non bussare alla mia porta), regia di Wim Wenders, 2005. Eclisse, regia di Michelangelo Antonioni, 1962. El Dorado, regia di Marcel l'Herbier, 1921. Emak Bakia, regia di Man Ray, 1926. Empire, regia di Andy Warhol, 1965. 273 En mer par gros temps, regia di Auguste e Louis Lumière, 1895. Entr'acte, regia di René Clair, 1924. Etudes cinématographiques sur un arabesque, regia di Germaine Dulac, 1929. F for Fake (F come Falso), regia di Orson Welles, 1975. Fireworks, regia di Kenneth Anger del film, 1947. Flesh of Morning, regia di Stan Brakhage, 1956. Gattopardo, regia di Luchino Visconti, 1963. Glens Falls Sequence, regia di Douglass Crockwell, 1946. Gli ultimi giorni di Pompei, regia di Eleuterio Rodolfi, 1913. Horizontal-vertical Orchestra, regia di Viking Eggeling, 1921. Hôtel du Nord (Albergo Nord), regia di Marcel Carné, 1938. Identificazione di una donna, regia di Michelangelo Antonioni, 1982. Il Decameron, regia di Pierpaolo Pasolini, 1971. Il dramma di Cristo/Giotto, regia di Luciano Emmer, 1948. Il Gattopardo, regia di Luchino Visconti, 1963. Il Trovatore, regia di Lamberto e Azeglio Pineschi, 1908. Il vangelo secondo Matteo, regia di Pier Paolo Pasolini, 1964. Ivan Groznyj (Ivan il Terribile), regia di Sergej Michajlovič Ėjzenštejn., 1944. Ivan Groznyj II: Bojarskij zagovor (La congiura dei boiardi) regia di Sergej Michajlovič Ėjzenštejn, 1944. Journal d'un curé de campagne (Diario di un curato di campagna), regia di Robert Bresson, 1951. Jules et Jim (Jules e Jim), regia di François Truffaut, 1961. Kameradschaft (La tragedia della miniera), regia di Georg Wilhelm Pabst, 1931. King Kong, regia di Ernest Beaumont Schoedsack, 1933. Kiss, regia di Andy Warhol, 1963. L'âge d'or, regia di Luis Buñuel e Salvador Dalí, 1930. L'arrivée d'un train à la gare de La Ciotat (L'arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat), regia di Auguste e Louis Lumière, 1895. L'Atalante, regia di Jean Vigo, 1934. L'étoile de mer, regia di Man Ray, 1929. L'Hypothèse du tableau volé, regia di Raúl Ruiz, 1978. L’assassinat du duc de Guise, regia di André Le Bargy e Charles Calmettes, 1908. La canzone dell'amore, regia di Gennaro Righelli, 1930. La Déesse (La dea), regia di Satyajit Ray, 1960. La démolition d'un mur (Demolizione di un muro), regia di Auguste e Louis Lumière, 1895. La grève (Lo sciopero), regia di Ferdinand Zecca, 1903. La Kermesse héroïque (La kermesse eroica), regia di Jacques Feyder, 1935. 274 La leggenda di S.Orsola, regia di Luciano Emmer, 1948. La ricotta, episodio di RoGoPaG, regia di Pier Paolo Pasolini, 1963. La roue (La rosa sulle rotaie), regia di Abel Gance, 1922. La terra trema, regia di Luchino Visconti, 1948. Le ballet mécanique, regia di Fernand Léger, 1924. Le cocu magnifique (Il magnifico cornuto) regia di Fernand Crommelynck, 1922. Le Dernier métro (L'ultimo metrò), regia di François Truffaut, 1980. Le dernier milliardaire (L'ultimo miliardario), regia di Renè Clair, 1933. Le jour se lève (Alba tragica), regia di Marcel Carné, 1939. Le mystère Picasso (Il mistero di Picasso), regia di Henti-Georges Clouzot, 1955. Le Quai des brumes (Il porto delle nebbie), regia di Marcel Carné, 1938. Le sang d'un poète, regia di Jean Cocteau, 1930. Le silence de la mer (Il silenzio del mare), regia di Jean-Pierre Melville, 1949. Les misérables (I miserabili), regia di Albert Capellani, 1912. Les Quatre cents coups (I quattrocento colpi), regia di François Truffaut, 1959. Les victimes de l'alcoolisme (Le vittime dell'alcolismo), regia di Ferdinand Zecca, 1902. Lettre de Sibérie, regia di Chris Marker, 1957. Life Lessons (Lezioni dal vero), episodio di New York Stories, regia di Martin Scorsese, 1989. Loving, regia di Stan Brakhage, 1956. Lust for Life (Brama di vivere), regia di Vincente Minnelli, 1956. Mamma Roma, regia di Pier Paolo Pasolini, 1962. Mothlight, regia di Stan Brakhage, 1963. Napoléon (Napoleone), regia di Abel Gance, 1927. Neighbours, regia di Norman McLaren, 1952. Nightcats, regia di Stan Brakhage, 1956. No. 1 (A Strange Dream), regia di Harry Smith, ca. 1946-48. Non c'è pace fra gli ulivi, regia di Giuseppe De Santis, 1950. Nosferatu - Eine Symphonie des Grauens (Nosferatu il vampiro), regia di Friedrich Wilhelm Murnau, 1922. Nosferatu: Phantom der Nacht (Nosferatu, il principe della notte), regia di Werner Herzog, 1979. Novecento, regia di Bernardo Bertolucci, 1976. Novyj Vavilon (La nuova Babilonia), regia di Grigorij Kozincev e Leonid Trauberg, 1929. Oktjabr (Ottobre), regia di Sergej Michajlovič Ėjzenštejn, 1928. Olympia, regia di Leni Riefenstahl, 1938. Opus I, regia di Walter Ruttmann, 1921. Ossessione, regia di Luchino Visconti, 1943. 275 Planet of the Apes (Il pianeta delle scimmie), regia di Franklin Schaffner, 1968. Professione: reporter, regia di Michelangelo Antonioni, 1975. Psyco, regia di Alfred Hitchock, 1961. Pull My Daisy, regia di Alfred Leslie e Robert Frank, 1959. Quatorze juillet (Per le vie di Parigi), regia di Renè Clair, 1934. Quo vadis?, regia di Enrico Guazzoni, 1913. Recreation, regia di Robert Breer, 1956. Retour à la raison, regia di Man Ray, 1923. Rhythmus 21, regia di Hans Richter, 1921. Richard Wagner, regia di Carl Froelich, 1913. Riso amaro, regia di Giuseppe De Santis, 1949. Salò o le 120 giornate di Sodoma, regia di Pier Paolo Pasolini, 1975. Senso, regia di Luchino Visconti, 1954. She Wore a Yellow Ribbon (I cavalieri del Nord-Ovest), regia di John Ford, 1949. Sleep, regia di Andy Warhol, 1964. Stomboli - Terra di Dio, regia di Roberto Rossellini, 1950. Street Scene (Scena di strada), regia di King Vidor, 1931. Sweet Smell of Success (Piombo rovente) regia di Elmer Bernstein, 1957. Teorema, regia di Pier Paolo Pasolini, 1968. Thaïs, regia di Anton Giulio Bragaglia, 1917. The April Fools (Sento che mi sta succedendo qualcosa), regia di Stuart Rosenberg, 1969. The Birth of Nation (La nascita di una nazione), regia di David Wark Griffith, 1914. The Good, the Bad & the Ugly (Il buono, il brutto e il cattivo), regia di Sergio Leone, 1966. The Great Train Robbery (La grande rapina al treno), regia di Edwin Porter, 1903. The Jazz Singer (Il cantante di jazz), regia di Alan Crosland, 1927. The King of Kings (Il Re dei Re) regia di Cecil Blount De Mille, 1927. The Long Bodies, regia di Douglass Crockwell, 1947. The Lost Patrol (La pattuglia sperduta), regia di John Ford, 1934. The Magnificent Seven (I magnifici sette), regia di John Sturges, 1960. The man with the golden arm (L'uomo dal braccio d'oro), regia di Otto Preminger, 1955. Thèmes et variations, regia di Germaine Dulac, 1928. Triumph des Willens (Il trionfo della volontà), regia di Leni Riefenstahl, 1935. Uccellacci e uccellini, regia di Pier Paolo Pasolini, 1966. Ultimo tango a Parigi, regia di Bernardo Bertolucci, 1972. Un chien andalou (Un cane andaluso), regia di Luis Buñuel e Salvador Dalí, 1929. Uncle Tom's cabin (La capanna dello zio Tom), regia di Edwin Porter, 1903. 276 Van Gogh, regia di Alain Resnais, 1948. Vincent & Théo, regia di Robert Altman, 1990. Vita fururista, regia di Arnaldo Ginna, 1916. Wavelenght, regia di Michael Snow, 1967. Zéro de conduite (Zero in condotta), regia di Jean Vigo, 1933. 277