Insegnamento della filosofia e comunicazione multimediale

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA
CORSO DI PERFEZIONAMENTO IN METODOLOGIA DELL’INSEGNAMENTO FILOSOFICO
PER UN “LABORATORIO DI FILOSOFIA”
Relatore:
Ch.mo Prof. Armando GIROTTI
Tesi di Perfezionamento di
Fulvio Cesare MANARA
Anno Accademico 1997-1998
SOMMARIO
Premessa……………………………………………………………………………,… 4
Il punto di vista “interno”: la pratica del filosofare, l’insegnamento e le tecniche
…………………………………………………………………………………………… 5
Il punto di vista “esterno”: la società dell’informazione e il rinnovato bisogno della
filosofia ……………………………………………………………………………….. 18
2.1. Ci si può sottrarre all’”immersione” nei nuovi media?……………………… 20
2.2. Le paure e le resistenze………………………………………….…………….. 21
2.3. Cosa cambia nel mondo della comunicazione (tecnologia e nuovi media……………………………………………………………………………………... 25
24. Cosa cambia nella produzione di testi e negli assetti noetici e cognitivi dei saperi., Nuovi compiti per la scuola ……………………………………………….……. 32
Un punto di vista “olistico” …………………………………...………………………39
3.1. Qual è l’atteggiamento teoretico corretto?…………………………………… 39
3.2. Integrazione ……………………………………………………………..……... 41
3.3. Metacognizione ……………………………………………………..…………. 42
Progettare un laboratorio di filosofia ………………………………………………. 45
4.1. La ricerca di una comunicazione autentica ……………………….…………. 50
4.2. Didattica del filosofare e tecnologia degli ambienti formativi……………….. 52
4.3. Oralità, scrittura ………………………………………………………….……… 52
4.4. La pratica della lettura: testi, ipertesti e ricerca filosofica………………….... 53
4.5. Telematica e “supporto” dell’elaboratore per l’allargamento delle comunità di
apprendimento e ricerca……………………………………………………………… 54
4.6. Come si può trasformare la “lezione” di filosofia? ………………...…………. 55
4.7. Come si modifica la figura del docente ……………………………..………… 56
4.8. Osservazioni conclusive …………………………………………..……………. 57
Bibliografia di riferimento …………………………………………………………... 60
2
Fino a che pensiamo la tecnica come strumento,
restiamo anche legati alla volontà di dominarla.
Martin Heidegger
È un mito e un’invenzione che esista un imperativo tecnologico,
una maniera, imposta dalla natura del computer,
in cui le cose devono essere fatte. Quando i tecnoidi
cominciano a descrivere il mondo come loro lo vedono,
la gente rimane intimidita, e relegata al “proprio” posto.
Theodor Holm Nelson
Noi pensiamo nonostante le parole.
Henry Bergson
Cambiare il mondo non basta. Lo facciamo comunque.
E, in larga misura, questo cambiamento avviene persino senza
la nostra collaborazione. Nostro compito è anche d’interpretarlo.
E ciò, precisamente, per cambiare il cambiamento. Affinché il mondo non continui
a cambiare senza di noi. E, alla fine, non si cambi in un mondo senza di noi.
Günther Anders
3
Premessa
Nel presente lavoro non intendo affrontare propriamente un discorso
su filosofia e nuovi media, quanto piuttosto miro a pormi il compito di
pensare il progetto di un laboratorio di filosofia che si faccia carico di
assumere la questione delle tecnologie come sua componente sostanziale, sulla base della consapevolezza del fatto che se «le tecnologie sono artificiali», «l’artificialità è naturale per gli esseri umani», e
che, in ultima istanza, l’intelligenza umana compie la sua evoluzione
anche grazie alle “ristrutturazioni” del pensiero consentite da sempre
nuove tecnologie della parola e della comunicazione.
4
1. Il punto di vista “interno”: la pratica del filosofare,
l’insegnamento e le tecniche
1.1. Si dice, a ragione, (e non è affatto una novità) che la didattica
della filosofia abbia come suo obiettivo primario di far incontrare la
filosofia così come essa è, e che si tratta di formare al pensiero filosofico, di far fare esperienza del filosofare, di guidare quindi e condurre l’allievo nell’esercizio dell’interrogare radicale1, per fargli provare di prima mano la fatica del concetto. Si dice, e giustamente, che
non si tratta affatto di “trasmettere informazioni o conoscenze”, di
insegnare una tradizione culturale, bensì di attivare, in chi è coinvolto
attraverso di essa in un processo formativo, l’esercizio stesso del
pensiero critico e speculativo2.
1
È infatti vivo, entro la nostra tradizione, un “filo rosso” su cui si possono chiamare a testimonianza, ad esempio Montaigne, Kant, Schopenhauer, ed una infinità di
altri maestri del passato. Esso pone come compito della scuola filosofica l’obiettivo
di “Insegnare a pensare”.
2 Basti come esempio quanto afferma Carlo Sini in un suo recente intervento (in
«Informazione Filosofica», a.VII, n.32, giugno 1997, p.77): «Se si crede nella insostituibile efficacia dello studio della filosofia, bisogna prendere la filosofia per quello
che veramente è, e non surrogarla con meri e perciò fatalmente dogmatici nozionismi sociologici, psicologici, antropologici, economici, con illusorie e presunte “metodologie didattiche”, con scorciatoie “operative” (i famigerati “percorsi” all’insegna
del “taglia e cuci” e del “fai da te scopiazzando qua e là”, dell’informazione multimediale che sostituisce il pensare con il gioco dell’oca, e di altri alibi innumerevoli,
purché evitino la fatica reale di leggere e di capire, e poi di ripetere e di esprimere
in modo corretto ed efficace), infine con testi scolastici indigeribili da parte dei ragazzi e in realtà scritti per il comodo dei docenti, sempre più restii o addirittura
incapaci di studiare, inventare, sintetizzare, spiegare, cioè di amare e frequentare
davvero la filosofia (il che non potrà mai essere stabilito con decreto legge o monte ore, o suggerito dai cosiddetti corsi di aggiornamento, il cui livello è sovente
quanto di più umiliante, vergognoso e cinicamente finto che si possa immaginare).
5
Sembra che da queste premesse segua la difficoltà – o la non auspicabilità – di prendersi carico delle procedure dell’attività didattica
stessa. Sembra non sia il caso di individuare metodologie, quali che
siano, in grado di garantire il raggiungimento di un pur così complesso obiettivo, insomma, di “didattizzare” la filosofia3.
Da questo punto di vista, potrebbe sembrare perlomeno inutile affannarsi nel declinare un qualsiasi discorso metodologico, didattico, e
men che meno porsi delle domande su quali siano i mezzi e le “tecniche” adatte ad esercitare tale didattica.
Il rischio che si corre, in questa prospettiva pur assai stimolante — e
in gran parte condivisibile —, non è tanto di cadere nello spontaneismo, di affidarsi unicamente al genio del docente, al suo intuito. C’è,
in effetti, il pericolo di procedere senza meta, senza cercare di progettarsi, correndo il rischio di perdersi nella pratica, di non raggiungere alcun obiettivo, o, peggio, di non porsi obiettivi di alcun genere.
Piuttosto, il rischio più serio, è di non comprendere, ingenuamente,
che le forme del pensiero sono pratiche dipendenti da tecnologie, a
partire dalla parola orale, o nella cultura chirografica, o ancora in
quella tipografica. Si corre il rischio di dimenticare che l’intelligenza ,
la coscienza umana, nel corso del suo sviluppo ha in larga misura
La filosofia, dicevo, va presa tutta intera e per quella che veramente è. Essa non è
né agevolmente né proficuamente ripetibile in maniera metodologica (come se si
trattasse di studiare a parte la mineralogia, ecc.). Questo non significa che si debba studiare tutta la filosofia (in pratica nessun filosofo, almeno dopo Hegel, ma
anche prima, l’ha fatto). Si tratta di fare bene quello che si fa. Cioè si tratta di varcare la soglia della comprensione autentica, il che, com’è noto, non è in diretta o
automatica relazione alla quantità delle nozioni che si apprendono».
3 Si v. anche l’intervento di M. Tozzi in «Comunicazione filosofica. Rivista Telematica di Ricerca e Didattica Filosofica», n.1, giugno 1997, all’URL:
http://www.getnet.it/sfi.
6
“interiorizzato i suoi strumenti esterni”, che sono così divenuti «parte
del suo proprio processo di riflessione»4.
Ci si dovrebbe chiedere, pertanto, con estremo rigore, in che cosa
consiste il filosofare, quali abilità di pensiero vi siano coessenziali,
quali abiti di comportamento e atteggiamenti conducano a questa
meta. E, di concerto, ci si dovrà chiedere quali siano le modalità più
adeguate per far si che si produca questa acquisizione di un habitus
filosofante nei soggetti con i quali vogliamo interagire5.
In effetti, il filosofare, come pratica, non può dirsi “esente” da un
momento tecnico. In questo senso, una veloce panoramica delle
“pratiche” esercitate dai filosofi nel corso della storia, dal dialogo alla
scrittura, dall’interrogare “radicale” alla progettazione e costruzione di
sistemi di pensiero, ci conferma che non si può non riconoscere che
l’apprendimento della filosofia e del filosofare si deve svolgere mediante un addestramento ed un esercizio, comporta in ogni caso
l’acquisizione di abilità e di competenze intellettive e logiche, argomentative e critiche, e via dicendo.
4
W. J. Ong, Oralità e scrittura, Bologna, Il Mulino, 1982, p.122.
Lo stesso Sini, nel suo intervento sopra citato, indica di fatto alcune finalità ed
obiettivi che dovrebbero essere preferibili, e quindi perseguiti: così afferma che
l’insegnamento della filosofia dovrebbe guidare a “varcare la soglia della comprensione autentica”, “far amare e frequentare davvero la filosofia” stessa. E, nel suo
intervento, declina alcune abilità, attività e operazioni intellettive che si dovrebbero
realizzare per apprendere la filosofia: parla di “studiare”, “inventare” “sintetizzare”,
“spiegare”, riferito al docente, e, riferendosi agli allievi, “leggere e capire”, “ripetere
ed esprimere in modo corretto ed efficace”, di prendere “contatto diretto con la
lettura filosofica”, e infine descrive la scuola di filosofia come il “luogo di un concreto esercizio di comprensione e formazione critica”. Se un docente prende sul serio
questo punto di vista, si interrogherà di certo sulla sua stessa “frequentazione”
della filosofia, sulla sua “passione” e, poi, inevitabilmente, su “come” diffondere il
contagio di questa “passione”, di questa pratica, ai suoi allievi, su come “formare”
alla filosofia “autentica” gli adolescenti che incontra ogni giorno.
5
7
1.2. La filosofia, i filosofi, vivono oggi, così come nel passato, perlopiù all’interno delle scuole. E, in ogni caso, la filosofia si presenta
assai spesso, sia fuori che dentro le scuole, come una attività che
manifesta una spinta ad essere diffusiva di sé — a generare, in chi è
attratto dalle sue spire, nuove domande, altre ricerche: insomma,
l’attività del filosofo genera, che egli lo voglia o meno, altri filosofi.
Così, non si vede come chi esercita questa pratica non debba porsi,
forse prima di mille altri, anche il problema della comunicazione. E
tale problema piano piano tende a divenire quello centrale, nella misura in cui la “finalizzazione” dell’attività filosofica ad essere diffusiva
di sé tende ad essere consapevole ed esplicita.
Così, anche nel territorio dei docenti di filosofia ci si comincia ad interrogare sulle “tecnologie per l’educazione”, ossia i media, i processi
e strumenti, le tecniche comunicative. Si sente la necessità di far ricorso ad una comprensione più adeguata e attenta alla complessità
del fenomeno “comunicazione”, ben oltre nozioni riduttive altrimenti
supposte nel passato (comunicazione come “trasmissione di informazioni”, ad es.). Questa nuova esigenza è comunque sollecitata e
favorita dall’enorme potenziamento, dalla vera e propria rivoluzione
delle tecniche e tecnologie della comunicazione che è in corso nella
società del nostro tempo. I cambiamenti in corso nei sistemi della
comunicazione pongono interrogativi seri e significativi, che spingono
a valutare non solo le nuove tecnologie, ma anche quelle “vecchie”,
cui forse un tempo non si pensava affatto come a vere e proprie tecnologie (si pensi alla scrittura).
Sullo sfondo, ovviamente, debbono essere in ogni caso mantenuti
anche interrogativi più tradizionali, ma non per questo meno sensati
8
ed intriganti, quali ad esempio quelli sollevati da Kierkegaard, quando, ponendosi tra i primi la questione della comunicazione, rifletteva
sulla importante distinzione tra comunicazione dei saperi e comunicazione etica6.
1.3. E se la filosofia fosse semplicemente intesa come “dottrina”, ossia come una tradizione culturale, come prodotto di questa tradizione
depositato e consegnato nei testi dei filosofi del passato? È questa
una prospettiva che spesso si sente ripetere, quando si afferma che
l’insegnamento della filosofia non è diretto a creare nuovi “piccoli
filosofi”, ma solo a “istruire” sulle dottrine dei grandi pensatori del
passato.
Così, la filosofia e il suo insegnamento sarebbero intesi solo come un
sapere tra i saperi, e come trasmissione di un sapere precostituito.
L’insegnamento della filosofia verrebbe così a trovarsi sullo stesso
piano di un qualsiasi altro insegnamento di contenuti cognitivi. In
questa prospettiva, esso dovrebbe in ogni caso porsi, come ogni altra pratica di semplice insegnamento, le domande sul “metodo” e
sugli strumenti della didattica. Su come far “leggere” gli autori classici, come farli comprendere, e via dicendo. La didattica dovrebbe comunque guidare attraverso la pratica di alcune tecniche: appunto la
lettura, la comprensione, l’apprendimento, e via dicendo.
Questo modo di vedere, spesso presenta fra i suoi presupposti la
supposizione che la ricerca e attività di pensiero critico non siano per
tutti ma solo per pochi (almeno non per tutti allo stesso modo). Si
6
S. A. Kierkegaard, La dialettica della comunicazione etica ed etico-religiosa, in
9
sottolinea la grande e incolmabile distanza che si frapporrebbe fra
intellettuali e gente comune, e da questo si fa discendere quindi che
la filosofia non è per tutti
È certo questa prospettiva tipica della modernità. Per gli antichi, invece, poteva essere filosofo non solo chi era maestro, ma anche chi
seguiva le dottrine della propria scuola, perché la filosofia era intesa
come “maniera di vivere”, e l’apprendimento della filosofia come “esercizio spirituale”, vero e proprio “training”, capace di far compiere al
soggetto che lo pratica una “conversione” in direzione di una vita autentica e pienamente consapevole7. Con l’avvento della modernità si
è operata una profonda trasformazione nella pratica della filosofia,
che è diventata un linguaggio ed un sapere tecnico (un “discorso”
filosofico, una “teoria”), rivolto a specialisti, esercitato da professori
che parlano e scrivono per altri professori.
Così, si può oggi distinguere tra fare lezioni di filosofia (nel senso di
insegnare quanto hanno scritto i classici), da un lato, e dall’altro,
compiere un’esperienza di pensiero (filosofare), praticare la filosofia
come attivo interrogare, e, ancora, tra entrambe queste attività e la
“vita filosofica”, ossia l’esistenza filosofica (la filosofia come “maniera
di vivere”).
1.4. Da quanto accennato nei punti precedenti, dovrebbe emergere
senza ombra di dubbio non tanto e non solo che siamo di fronte alla
chiara
necessità
di
costruire
nuovi
modelli
per
la
pratica
dell’insegnamento della filosofia (magari ponendoci il compito di cerStudi Kierkegaardiani, a cura di C. Fabro, Brescia, Morcelliana, 1957, pp.359-413.
10
care una possibile integrazione fra i diversi punti di vista)8. Ma piuttosto e soprattutto intendo far presente che siamo di fronte alla opportunità di ripensare il nesso che si pone fra attività filosofica e tecniche
comunicative, tra la filosofia e i media in cui essa si esprime e si comunica.
«L’esistenza stessa della filosofia e di tutte le scienze e le “arti” (studi
analitici dei procedimenti, come la Retorica di Aristotele) dipende
dalla scrittura: questo significa che esse sono prodotte non dalla
mente umana senza aiuti, ma dalla mente che usa una tecnologia
profondamente interiorizzata, incorporata nei processi mentali stessi.
La mente interagisce col mondo materiale in modo più profondo e
creativo di quanto finora non si credesse. La filosofia, mi pare, dovrebbe avere più consapevolezza di essere un prodotto tecnologico,
il che significa un tipo speciale di prodotto molto umano. La logica
stessa emerge dalla tecnologia della scrittura»9.
Si sente quindi vivamente l’esigenza di chiarire gli indirizzi di un
“nuovo corso” didattico, che sia in grado di far tesoro della prassi sinora sperimentata, della ricchezza delle prospettive, senza didatticismi (tecnocrazia) ma anche senza soggettivismi e spontaneismi,
senza ritorni alla prospettiva ingenua dell’indifferenza verso qualsiasi
metodo e qualsiasi tecnica.
Mio intento in questo scritto è di richiamare l’attenzione sulla complessità del momento tecnico e tecnologico all’interno delle molteplici
pratiche nelle quali si attua la didattica. Inoltre, chiarire la pervasività
7
Cfr. Pierre Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, Torino, Einaudi, 1988,
p.161 e 163, ed anche Giovanni Reale, Saggezza antica, Milano, R. Cortina, 1995,
pp 233 e sg.
8 Questo è un punto infatti su cui si va dibattendo da gran lunga pezza.
9 Walter G. Ong, Oralità e scrittura, cit., p.238.
11
di questo momento, che attraversa la scuola di filosofia, in tutte le
sue dimensioni, così come del resto, la stessa pratica filosofica in sé
e per sé. E, in seconda istanza, sia pure in forma di schizzo, proporre
un
percorso
basato
sul
ripensamento
dell’intera
prassi
dell’insegnamento della filosofia alla luce del suo “momento” tecnico.
E, quindi, non solo riflettere tecnicamente sulle tecniche del filosofare, per indicare la questione sul senso del nostro “abitare tecnico e
tecnologico”, ma riflettere criticamente su tale riflessione critica, o
perlomeno identificarne l’istanza positiva. Infine, tener conto di tutto
questo domandare nel definire e progettare un “laboratorio” di filosofia.
1.5. La possibilità, e poi la necessità, di porsi il problema delle tecniche educative non è dipendente dalla opzione di fondo sui criteri e i
”principi” della didattica filosofica. La questione delle tecnologie
dell’educazione, delle tecnologie degli ambienti formativi (per usare il
linguaggio dei pedagogisti) e delle tecnologie della comunicazione si
pone dal momento stesso in cui la pratica filosofica viene esercitata
all’interno della scuola, o nella scuola si pensa di formare filosoficamente. Non è importante che si intenda la filosofia come dato culturale (insieme di un pensiero consegnato in una tradizione di testi –
per cui se ne può dare un “insegnamento” in senso stretto, perché
essa è intesa come contenuto cognitivo), oppure se si pensa che la
filosofia è una attività, un esercizio del pensiero (e allora si tratta di
educare alla pratica filosofica, al filosofare). Il problema delle “tecniche” si pone a monte di una possibile scelta fra queste due diverse
opzioni epistemologiche. In primis perché ciascuna di esse è segnata
12
al suo interno, e inevitabilmente, da tecniche. Ma, in secondo luogo,
perché tale questione è intrecciata con il classico problema di qualsiasi “metodo didattico” (e a scuola non se ne può proprio fare a meno). Ci si deve interrogare su ciò che si vuol “trasmettere” (o sulle
abilità che si devono far acquisire o si debbono addestrare), ci si deve chiedere quale sia il fine che si vuol raggiungere, quali gli obiettivi,
chi sia colui che “trasmette”, chi colui che “riceve” e in che modo
convenga procedere. E se si tratta di far compiere una esperienza,
“confilosofare”, credo sia chiaro che ugualmente non ci possiamo
porre al riparo da questi problemi.
Mi sembra che le prospettive che ci troviamo di fronte delineino un
duplice percorso, da praticare in modo integrato, pur nella “dialettica” esistente fra i due “rami”, fra le due “direzioni”.
A) Da una parte, il percorso identificato dall’esigenza ineludibile di
“immersione” nel pensiero tecnico e tecnologico, e dalla necessità di
acquisire una “padronanza” dei suoi “congegni” e “meccanismi”. Così, prima di tutto, gli insegnanti di filosofia debbono lasciarsi interrogare dall’esigenza di “razionalizzare le pratiche”, ossia dal problema
tecnico: e debbono chiedersi, con spirito di ricerca aperto e problematico, quali siano i dispositivi orientati a condizionare le interazioni
formative, in modo tale da favorire la probabilità del prodursi di determinati eventi auspicati rispetto ad altri. Non possiamo sottrarci
all’esigenza di cercare “norme e regole”, per quanto aperte e flessibili, a un “dominio di per se caotico di possibilità” come può essere
quello che si crea in una classe in cui si avvia un corso di filosofia.
Ogni pratica come la programmazione, la valutazione, o anche solo
“dare un voto”, rappresenta un “abito tecnologico” orientato, con le
sue caratteristiche. Quale sarà la consapevolezza, la “padronanza”,
13
la capacità di disporne o non disporne, che l’insegnante deve avere?
Lo stesso si può ovviamente chiedere per quanto riguarda le competenze nell’uso dell’elaboratore e dei nuovi media.
B) Dall’altra, muovere invece secondo lo spirito della filosofia (quello
indicato da Heidegger, nel saggio citato). Questa seconda prospettiva consiste nel porre la questione della tecnica nel filosofare in modo
da comprenderne il senso. Oltre che “perseguire e impiegare soltanto ciò che si disvela nell’impiegare”, come afferma Heidegger, è opportuno orientarsi a interrogarci sull’essenza della tecnica, che vuol
dire (in termini non heideggeriani), portare l’uomo che vive nella tecnica e nella tecnologia a interrogarsi con radicalità su se stesso come “homo faber” ed homo “technologicus”. Non solo abitare il mondo
nei modi della tecnica e della tecnologia, ma “criticare criticamente
questo abitare”.
Occorre infatti sempre tener ben presente che la prospettiva filosofica si pone il compito di pensare la tecnica non solo come strumento,
ma di cogliere il problema di “condurre l’uomo nel giusto rapporto con
la tecnica”10.
Occuparsi delle tecniche non sminuisce né impoverisce la pratica
filosofica (si potrebbe declinare una pletora di esempi dalla tradizione
della pratica filosofica stessa nel passato). Certo che nessun metodo
può essere appreso, né può darsi separatamente dall’esercizio della
pratica in cui esso si dispiega: ma questo non toglie che in ogni pratica ci sia un “momento” tecnico, dato non tanto dal sapere fine a se
10
La filosofia, se è vero che nasce con l’iconoclastia, dovrà anche evitare, giustamente, di cadere in una “religione della tecnica”, di abbandonarsi al “paradigma
pseudorazionale” secondo cui «la scienza e la tecnica prendono su di sé e realizzano il compimento dello sviluppo umano», E. Morin - A.B. Kern, Terra-Patria,
Milano, Cortina, 1994, p.92.
14
stesso, bensì dal “saper fare”. E, se la filosofia non si identifica né
con un contenuto cognitivo (un “saper cosa”), né con un “saper fare”
non si vede dove essa possa “prender corpo”. Interrogare radicale
che mette in discussione ogni pratica? Di nuovo, anche questa è una
pratica, segnata dalla sua tecnica. “Far essere”? Comunque serve
“addestramento”, una pratica, un “esercizio”.
Per la ricerca filosofica anche la vita in classe è un territorio da esplorare senza precomprensioni. Ogni cosa può essere messa in discussione, e deve di necessità essere posta sotto il “riflettore” della problematizzazione. Così non posso lasciar da parte le questioni legate
alle tecniche ed alle tecnologie didattico-formative11. Come docente,
debbo sapermi interrogare e debbo quindi problematizzare gli strumenti che adotto nella pratica didattica12. Nulla è scontato o scontabile: non il contesto fisico definito in cui avviene l’interazione (l’aula,
la cattedra, i banchi, la disposizione fisica di chi interagisce nella pratica); non il contesto “nascosto” ossia le aspettative di ruolo, i dispositivi fisici e simbolici che si pongono in gioco nelle interazioni; così,
infine, anche sui dispositivi “tecnodidattici” (i diversi modelli di lezione)13. E lo stesso vale per quanto riguarda la elaborazione di “progetti” dei percorsi che possano diventare significativi e siano legittimabili dal punto di vista cognitivo scientifico; e infine si può porre in
11
È del tutto illuminante una espressione sintetica di Kierkegaard (La dialettica
della comunicazione etica ed etico-religiosa, cit., p. 399), che si chiede «se la cattedra sia la situazione adeguata» per la comunicazione etica. Noi potremmo porci
la stessa domanda anche riferendoci alla filosofia intesa come interrogare
(sk»psij e z»thsij).
12 Dagli armadi ai materiali strutturati e non, ai media tradizionali (oralità, scrittura), ai “mass media” (radio, TV, stampa), i “self-media” (registratori. macchine fotografiche, videoregistratori), fino ai nuovi media (PC, teleguida).
13 V. sotto, § 4.6.
15
questione il progetto stesso degli impianti educativi, degli edifici e
degli ambienti e spazi.
Il docente è quindi interpellato in prima persona sulla questione della
ricerca del miglior modo attraverso il quale si debbono condurre le
concrete attività dei concreti esseri umani che interagiscono in classe, per conseguire un dato fine. Questo è appunto l’interrogativo tecnico e tecnologico. Si tratta di chiedersi cosa assicura o fornisce le
maggiori probabilità di efficacia (qualità e quantità degli obiettivi raggiunti) ed efficienza (miglior rapporto costi/benefici, miglior risultato
col minor dispendio di energie) rispetto ai propri scopi ed obiettivi. La
didattica filosofica esercita la sua ricerca, senza snaturare le esigenze della pratica filosofica stessa, riflettendo “sopra” le tecniche, elaborando una consapevolezza dell’operare tecnico come momento
ineludibile dell’azione umana. E quand’anche si decidesse deliberatamente per scelte non “economiche” in termini di efficienza, penso
che non si possa lo stesso rinunciare a identificare un fine e degli
obiettivi, e che quindi il criterio dell’ “efficacia” sia in ogni caso pertinente e ineludibile.
È chiaro che le tecniche e le tecnologie mostrano una duplice faccia,
come una medaglia: da una parte esse debbono poter essere analizzabili, scomponibili, secondo modelli descrivibili formalmente;
dall’altra, qualsiasi insegnante sa che l’interazione formativa è un
sistema complesso, che sfugge a qualsiasi possibile riduzione ad
una logica “assemblativa”, e che quindi ogni pratica è “contaminata”
e non potrà essere né descritta conclusivamente né programmata
senza che si producano eventi aleatori o indesiderabili.
Nonostante questo, non credo sia negabile che un indice di professionalità del docente (ivi compreso quello di filosofia) debba essere
16
anche indicato dalle abilità e capacità di produzione di materiali e di
media didattici, e dalla gestione e conduzione delle dinamiche comunicative in classe, così come dalla progettazione didattica e formativa, dalla valutazione e dallo sviluppo ed implementazione di nuovi
ambienti formativi e di nuovi modelli educativi. La peculiarità e
l’originalità della disciplina filosofica non fanno sì che l’insegnante di
filosofia possa sottrarsi a questa esigenza di competenza comunicativa e pedagogica. E se è vero che la filosofia non può essere ridotta
a metodo, è altresì vero che essa si può costruire solo grazie ad un
addestramento ed all’esercizio.
17
2. Il punto di vista “esterno”: la società dell’informazione e il
rinnovato bisogno della filosofia
L’ “information Technology” dagli anni Sessanta ad oggi si è sviluppata in una vera e propria rivoluzione attraverso varie fasi, dal tempo
degli «elaboratori centrali, dei mainframe, il cui paradigma di riferimento sono le istituzioni e le organizzazioni. La seconda ondata è
quella che è caratterizzata dal personal computer, che è degli anni
Ottanta; e il paradigma di riferimento a questo punto diventano gli
individui, sia gli individui all'interno delle aziende, che progressivamente vengono collegati da ponti che sono le reti locali, sia gli individui all'interno delle loro case, alla fine degli anni Ottanta. Il periodo
attuale è il periodo che è segnato dall'ascesa delle autostrade digitali,
ovvero dalla connessione, in un'unica infrastruttura a livello mondiale,
di tutte quelle isole di cui abbiamo appena parlato. Questa condizione attuale è appunto
quella che consentirà il passaggio alla quarta ondata, cioè al periodo
della costruzione della vera e propria società dell'informazione, caratterizzata dalla centralità di un contenuto completamente digitalizzato
e totalmente convergente»14.
Il futuro è in realtà abbastanza incerto. Com’è ovvio, ci troviamo di
fronte ad opposte prospettive: da una parte si situa, in primo luogo, lo
14
Passato, presente e futuro della società dell’informazione, intervista a Roberto
Masiero,
http://www.mediamente.rai.it/home/biblioteca/intervis/m/masiero.htm,
domanda 1.
18
scontro fra gli ottimisti (come ad esempio Nicholas Negroponte, fondatore del MediaLab del Massachusetts Institute of Technology) ed i
pessimisti (come ad esempio lo scrittore di fiction Gibson, o Cliff
Stoll)15.
In secondo luogo, sono in discussione gli assetti stessi dei futuri scenari, ed anche qui si scontrano due posizioni opposte: quella di Bill
Gates (fondatore della enorme multinazionale Microsoft), che sostiene che il futuro vedrà «la centralità del personal computer [...] - un
personal computer sempre più potente e intelligente, con capacità di
prestazioni sempre più elevate» e quella di Harry Harrison (presidente della Oracle), «che afferma provocatoriamente che il PC è un
oggetto ridicolo [...] perché diventa sempre più potente, più potente di
un mainframe di qualche anno fa, e quindi sempre più complesso da
gestire», e ritiene che in futuro lo sviluppo si concentrerà sempre di
più sulla rete e sull’implementazione della sua “intelligenza”16.
Non è certo del resto che il futuro della società dell’informazione
debba sorgere unicamente dall’evoluzione delle potenzialità tecnologiche dei mezzi. Quello che accadrà dipenderà altrettanto direttamente dal contesto sociale ed economico.
Non è però il luogo questo ove approfondire l’analisi di questo contesto tecnologico, sociale ed economico, ed è evidente a tutti che i
problemi che si pongono sono seri e preoccupanti17. Nella società in
15
La
rivoluzione
digitale,
intervista
a
Negroponte
in
http://www.mediamente.rai.it/home/biblioteca/intervis/n/negrop02.htm, domanda 8.
V. anche Luciano Floridi, Internet, Milano, Il Saggiatore, 1997, p.24-5.
16 R. Masiero, Passato, presente e futuro della società dell’informazione, cit., domande 2 e 3.
17 Si v. a proposito, le stimolanti analisi di Luciano Floridi, Internet, Milano, Il Saggiatore, 1997, e Idem, L’estensione dell’intelligenza, Roma, Armando, 1996, nonché il recente e altrettanto stimolante Gregory J. E. Rawlins, Le seduzioni del com-
19
cui il bene primario sarà “l’oro digitale” dell’informazione, ad esempio,
si potranno delineare nuove sacche di povertà (quelle degli “information poor”)18, così come è pensabile che lo sviluppo delle nuove tecnologie e dei nuovi mezzi non porti vantaggi indiscriminatamente a
tutti, in quanto «i modi di sviluppo di questi mezzi rischiano invece
che di ridurre gli squilibri sociali e territoriali, di accrescerli»19.
Quello che è importante è osservare che è proprio la rivoluzione in
atto nei sistemi di informazione e comunicazione, dalla quale siamo
coinvolti, che spinge a ripensare le pratiche delle trasmissioni delle
informazioni, della trasmissione dei saperi, della comunicazione, delle interazioni e relazioni umane trasformate da questo stesso processo.
2.1. Ci si può sottrarre all’ “immersione” nei nuovi media?
Sembra di no. Le innovazioni, i cambiamenti epocali delle tecnologie
comunicative e dei nuovi media sono sotto gli occhi di tutti. Si parla
della “rivoluzione digitale”, dei nuovi scenari nel mondo delle telecomunicazioni, si va parlando sempre più della futura “società
dell’informazione” , basata sulle nuove tecnologie comunicative, i
nuovi media, le reti per la comunicazione e per la fornitura di servizi.
Di fronte all’enorme sviluppo della tecnologia dei media si notano,
come si è detto, sia aperture entusiastiche ed irriflesse che chiusure
apocalittiche. Una misura di buon senso, di fronte a queste drastiche
puter, Bologna, Il Mulino,1997: questi scritti considerano attentamente anche le
conseguenze sociali e psicologiche “di questa spirale inarrestabile di innovazioni”.
18 L. Floridi, Internet, cit., pp.73-81.
19 Condizioni di base per l’affermazione dei nuovi media, intervista a Giuseppe
Richeri, in http://www.mediamente.rai.it/home/biblioteca/intervis/r/richer02.htm,
domanda 4: I rischi dei nuovi media.
20
alternative, ci invita alla cautela nelle prese di posizione. È legittimo
infatti dubitare, da una parte, che dallo sviluppo e diffusione delle
tecnologie derivi spontaneamente una crescita culturale e di pensiero. Così come, d’altra parte, è ragionevole riconoscere che non si
potrà far molto per impedire lo sviluppo e la diffusione dei nuovi
strumenti di comunicazione multimediale e telematica.
2.2. Le paure e le resistenze
«L'introduzione nella società dei nuovi mezzi e delle nuove tecnologie è qualcosa che prende forma in tempi assai lenti, e in base all'uso sociale, e non in base a quanto i tecnologi hanno pensato per
quei mezzi. Per quanto riguarda, quindi, le evoluzioni traumatiche di
cui i nuovi mezzi sarebbero portatori, credo si debba procedere con
molta cautela, perché le trasformazioni sono molto più lente e l'inerzia al cambiamento è assai più potente di quanto non si pensi»20.
È assai facile incontrare anche fra gli insegnanti di filosofia (o di discipline umanistiche in genere) dubbi ed incertezze sulle nuove tecnologie della comunicazione, e sui nuovi media.
L’obiezione fondamentale si può esprimere in una domanda: cosa
sappiamo, realmente, di quello che succede nella mente di chi fa uso
delle nuove macchine? Per quanto riguarda la filosofia, si aggiunge
la chiara comprensione da un lato che le tecnologie comunicative
adottate dalla filosofia nel passato le sono state consustanziali (ossia
che la filosofia non esisterebbe senza le tecnologie della parola orale, di quella scritta, della stampa), dall’altra, dal timore che modifi-
20
Condizioni di base per l’affermazione dei nuovi media, cit., domanda 1.
21
candosi le pratiche comunicative, si perda qualcosa di quello che in
passato è stata la filosofia ed il filosofare.
Si invita così alla prudenza, alla massima cautela, ad evitare enfasi e
trionfalismi.
Molti hanno avuto modo di osservare che una simile reazione si è
verificata nel momento del passaggio dalla oralità alla scrittura, così
anche nell’ulteriore trascendimento prodottosi con la “rivoluzione inavvertita” della stampa21.
In realtà, le paure, le cautele critiche, le osservazioni dubbiose e
pessimistiche sono sollevate proprio dalla diffusione di questi mezzi,
e, molto spesso, proprio dall’avvio del loro utilizzo. In sostanza,
prendendo atto di questi cambiamenti, sperimentandone in primis le
conseguenze, si attiva la riflessione critica che permette positivamente di distanziarsi dal processo in corso, e quindi di comprenderlo meglio, senza esserne infatuati e pensando con radicalità alle conseguenze umane e sociali di questa trasformazione. «La scrittura, la
stampa, i computer sono tutti mezzi per tecnologizzare la parola. Una
volta che ciò è avvenuto, non c’è modo efficace per criticare quel che
la tecnologia ne ha fatto senza l’ausilio della più alta tecnologia disponibile. Inoltre, la nuova tecnologia non è solo un veicolo per la
critica, in realtà, essa stessa ha fatto nascere quella critica»22.
Così, è il caso di ribadire che la minaccia vera non viene dalla tecnica23. Viene, probabilmente, dalla riduzione di ogni pensiero e di ogni
pratica alla tecnica “spersonalizzata”, senza il recupero di altre “tec-
21
Cfr W. J. Ong, Oralità e scrittura, cit, pp. 120-22.
W. J. Ong, Oralità e scrittura, cit., p.121.
23 Lo notava già M. Heidegger, in La questione della tecnica, in Saggi e discorsi,
Milano, Mursia, 1976, p.21.
22
22
niche”, più personali e capaci di permettere all’uomo una sua autenticità. Il rischio, il pericolo, è l’ “idolatria” della tecnica dei tecnici, e la
dimenticanza del fatto che «ci sono tecniche logiche, tecniche artistiche, tecniche giuridiche, tecniche etiche ed ascetiche, oltre alle tecniche di quelli che oggi si chiamano per antonomasia “i tecnici”, cioè
gli ingegneri, i costruttori, gli operai specializzati, ecc.»24.
È inoltre chiaro che proprio la riflessione critica esercitata nel territorio della filosofia può sviluppare una adeguata consapevolezza dei
rischi e delle possibili conseguenze negative di ogni pratica e di ogni
tecnica. Così, ad es., in Dialettica dell’ illuminismo, Horkheimer e Adorno ci hanno messo in guardia dal pericolo dell’”isolamento per
comunicazione”25. Oppure già Kierkegaard, in quel poco noto saggio,
già
citato,
scrisse
con
lucidità
dei
mali
della
società
dell’informazione26. Per non dire di riflessioni filosofiche ancora più
fondanti, quali ad es. quella sul rapporto mezzi-fine27.
24
Augusto Guzzo, L’uomo, la macchina, la tecnica, in L’uomo e la macchina, Atti
del XXI Congresso Nazionale di Filosofia, Pisa, 22-25 aprile 1967, vol. I, Relazioni, Torino, Edizioni di «Filosofia», 1967, p.23. Sulla necessità di non”idolatrare” la
tecnocrazia, v. anche E. Morin - A.B. Kern, Terra-Patria, cit.
25 Max Horkheimer - Theodor W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Torino, Einaudi, 1966, p.239 segg.
26 «Che affaccendarsi! Che confusione, come in un terremoto! Giovani, quasi
ancor bambini, hanno conoscenza come tutto è fallace, e che non conta nulla essere un uomo! Che si tratta di accodarsi alla generazione, di seguire le esigenze
del tempo che però sono continuamente fluttuanti! Così fermenta e ribolle la vita
della generazione, senza soste, benché tutto sia vortice, si sente lo squillo della
carica, il rintocco della campana, che significa il Singolo ora, ora in questo secondo, si scansa: scaccia tutto da te, la riflessione, la tranquilla meditazione, il pensiero riposante dell’eternità, altrimenti arrivi tropo tardi così che non arrivi con la spedizione della generazione che proprio ora sta passando. Ed allora? allora, quale
orrore! Quale orrore, ahimé! E dire che tutto è calcolato per alimentare la confusione, questa disgraziata fretta di caccia selvaggia. I mezzi di comunicazione diventano sempre più progrediti, si stampa sempre più in fretta, con una fretta incredibile. Le comunicazioni diventano sempre più attive e sempre più confuse. E se qualcuno ora in nome sia della primitività come di Dio, si pronunciasse contro, guai a
lui! Come il Singolo è afferrato dal vortice dell’impazienza per farsi subito intende-
23
Detto questo, è altresì da ribadire che «in un momento in cui il mondo cambia a velocità sempre più sostenuta, è da incoscienti rifugiarsi
nella propria torre d’avorio, dove si interloquisce solo con altri colleghi»28. Ed inoltre, sembra anche a me che sia «opportuno sgombrare
una volta per tutte il campo dagli scenari apocalittici, dal catastrofismo paralizzante», per rendersi disponibili ad identificare i rischi ed i
problemi connessi all’impiego delle nuove tecnologie in modo da poterli affrontare consapevolmente, ma anche per sviluppare appieno le
nuove opportunità di sviluppo della coscienza, delle capacità espressive e della comunicazione umana, per sperimentare nuovi territori
nello sviluppo del pensiero. «Urge un cambiamento concettuale nella
riflessione educativa sulle tecnologie (o sui media), un’assunzione
netta, a 360 gradi dei media, nelle loro potenzialità più ampie», dalla
multimedialità all’intelligenza collettiva ed al pensare collaborativo in
rete. «I media vanno valorizzati in quanto strumenti attivi, supporti
interni per l’elaborazione -strutturazione delle conoscenze e per la
comunicazione interpersonale»29
2.3. Cosa cambia nel mondo della comunicazione (tecnologie e nuovi
media)
re, così la generazione è ambiziosa di voler subito intendere il Singolo. Ecco, questo lo dà la disonestà. Scompaiono i concetti, la lingua diventa confusa, ci si combatte gli uni gli altri a destra e a sinistra; condizioni più felici non ci potrebbero mai
essere per tutti i chiacchieroni perché la confusione generale nasconde il loro equilibrio mentale (quanto essi son confusi!). È l’età d’oro dei chiacchieroni». S. A.
Kierkegaard, La dialettica..., cit., pp.394-95.
27 V. il bel saggio di Giuliano Pontara, Se il fine giustifichi i mezzi, Bologna, Il Mulino, 1974.
28 L. Floridi, Internet, cit., p.10-11.
24
Non è tanto l’aspetto dell’incremento quantitativo delle possibilità di
informazione e di apprendimento la vera questione (anche se si possono delineare ovviamente, problemi sociali: “information rich - information poor”; sperequazioni nella rete; problemi di ridondanza di
informazione, ecc.)
Senza voler né poter descrivere esaurientemente tutti i cambiamenti
in corso, né tantomeno entrare in merito ai complessi problemi sollevati da questi fenomeni in atto, mi soffermerò qui brevemente su tre
aspetti di questo nuovo universo dei media, considerati unanimemente come i principali aspetti del nuovo assetto dei sistemi di comunicazione sociale. Si tratta della questione dell’interattività, della
multimedialità, e della telematica.
Interattività. Su tale questione intendo qui affermare solo un punto: in
base alla mia esperienza, ed alla luce delle mie valutazioni (che sono
date, giocoforza, da esigenze “educative”), l’interattività dei media, in
genere (e dei nuovi media in specifico) non deve essere considerata
solo in prospettiva del rapporto uomo-medium30, bensì anche in relazione dell’apertura o chiusura del medium stesso nei confronti di altri
media , e, più ancora, come variabile solo relativa rispetto
all’interazione personale, intellettiva, emotiva ed esistenziale, che
interviene fra i partecipanti all’azione educativa. I nuovi media possono costituire certamente un nuovo, stimolante ambiente per
29
Antonio Calvani, Iperscuola. Tecnologia e futuro dell’educazione, Padova, Muzzio, 1994, p.153.
30 Da questo punto di vista, molto spesso, nel confronto fra vecchi e nuovi media
(ad es. ipertesti, ipermedia, videotel, sistemi telematici) i primi si dice che si mostrano carenti dal punto di vista dell’ “interattività”: v. la tabella comparativa propo-
25
l’apprendimento e per l’interazione educativa, ma processi di questo
genere sono comunque più complessi, e coinvolgono, oltre
all’ambiente, anche gli attori protagonisti dell’azione. Di fatto, la principale differenza che si instaura fra i due diversi modi di intendere il
paradigma dell’interattività è che nella seconda (quella che privilegio)
non si tratta più di fare “economia” di tempo: al contrario, la questione è proprio che il tempo dei processi educativi si dilata, si espande,
e pone problemi precisi per le agenzie educative che intendono muoversi su questi binari.
Del resto, se ci riflettiamo bene, si fa un gran parlare di interattività,
quasi ad esaltare i poteri taumaturgici o catartici dei nuovi mezzi di
comunicazione, ma in realtà si dovrebbe ben tenere presente che
cosa si intende con questo termine, che risulta abbastanza ambiguo
e spesso viene usato senza adeguata definizione31. Così si scoprirebbe che, se è magari esagerato parlare di un vero e proprio “inganno” dell’interattività32, non siamo però di tanto lontani da un rischio simile. L’interattività dei nuovi media si rivela infatti più presunta che reale. Se definiamo questo termine adeguatamente scopriamo
che si tratta di identificare e descrivere quello che gli elaboratori (o i
mezzi di comunicazione in genere) possono fare nell’imitare le funzioni della comunicazione interpersonale. Interattività sarebbe infatti
«l’imitazione dell’interazione da parte di un sistema meccanico o elet-
sta da Marino Cavallo, Formazione e nuove tecnologie, Bologna, CLUEB, 1993,
p.140.
31 E questo vale anche per altri neologismi utilizzati nel campo semantico relativo
ai nuovi media.
32 Cfr quanto sostiene Renato Parascandolo (progettista e direttore esecutivo
dell’EMSF), nell’intervista Il paradosso multimediale e l’inganno interattivo, pubblicata
nella
“Biblioteca
digitale”
di
Mediamente,
all’URL
http://194.183.2.229/home/biblioteca/interviste
26
tronico che contempli come suo scopo principale o collaterale anche
la funzione di comunicazione con un utente (o fra utenti)»33.
L’interattività sarebbe la prestazione consentita da un dispositivo artificiale capace di “simulare interazioni comunicative”. Ma non è tutto:
scopriamo anche che «ci sono motivi per sostenere che non esiste
ancora nessun sistema realmente interattivo ad eccezione dei pace
maker e dei defibrillatori cardiaci; per il resto sono i simulatori di volo
che soprattutto si avvicinano ai modelli teorici»34. E veniamo così a
renderci conto che la nozione “forte” di interattività può essere, come
ho detto sopra, solo quella relativa alle interazioni interpersonali dirette, ed ai processi comunicativi fra persone, piuttosto che alle interazioni uomo-macchina. Si può parlare infatti di interazione comunicativa in senso stretto (e quindi di “interattività”) se e solo se si soddisfano i seguenti criteri: a) apertura e pluridirezionalità dello scambio; b) invertibilità dei ruoli tra emittente e destinatario; c) attenzione
al feed-back ed agli effetti dell’azione comunicativa; d) condizione
paritetica nel processo comunicativo dei partecipanti al processo
stesso35.
Che dire poi della “multimedialità”? “Multimediale”, vocabolo derivato dall’espressione “multi-media”, presa da identica locuzione
inglese, è un termine già segnato da un uso tanto frequente quanto
incerto e flessibile
36.
Grosso modo, si possono individuare almeno
33
Gianfranco Bettetini - Fausto Colombo, Le nuove tecnologie della comunicazione, Milano, Bompiani, 1993, p.15.
34 Calvani, Manuale di tecnologie dell’educazione, Pisa, ETS, 1995, p.75.
35 Ibidem, p.73.
36 È già entrata nel Vocabolario della lingua italiana dell’Istituto dell’Enciclopedia
Treccani, dove, s.v., si dice «forma di comunicazione che utilizza e integra tecniche e strumenti diversi, quali proiezioni di filmati e diapositive, riproduzione di suo-
27
due diversi significati di questo neologismo: in senso lato, si intende
con “multimedialità” il semplice concorso, in un processo di comunicazione, di strumenti di trasmissione ed elaborazione di scritti, suoni
e immagini, veicolati da vari e diversi dispositivi di elaborazione di
informazioni. In senso stretto, invece, si può dire che questo termine
indica le capacità di un medesimo strumento il quale permette, mediante un unico e identico sistema di elaborazione di informazioni
(quello digitale) di trattare ed elaborare diversi tipi di codici. Questo
significato più restrittivo è stato veicolato da taluni con l’espressione
alternativa “ipermedialità”, più corretta, ad indicare appunto la radicale trasformazione del media stesso che, in un certo senso, è “potenziato”, reso più che un semplice media, in quanto concentra possibilità di veicolare messaggi e contenuti che sono per loro natura assai
diversi tra loro proprio nel codice espressivo del messaggio stesso.
L’ipermedialità, su cui si concentra maggiormente l’attenzione del
pubblico, è una nozione “ristretta” e “centripeta” della multimedialità:
essa infatti prevede la convergenza su di un unico supporto di prodotti provenienti da molti e diversi media (televisione, videoregistratore, macchina per scrivere, fotografia, cinema, giradischi, ecc.), e, paradossalmente, è un solo e unico media (il CD-ROM e l’elaboratore
elettronico che lo “legge”) a permettere la riproduzione dei diversi
codici comunicativi specifici dei media originari37.
La difficoltà, forse l’impossibilità, nel definire in un modo univoco o specifico il concetto di “multimedialità” è anche dovuta a questo
sovrapporsi delle innovazioni tecnologiche, ed alla complessità delle
ni e immagini registrate su supporti magnetici, elaborazione elettronica di informazioni, ecc».
37 Renato Parascandolo, Il paradosso multimediale e l’inganno interattivo, cit.
28
inedite interazioni tra media che esse permettono38. Ad esempio, la
multimedialità nel primo senso — che esiste dalle origini della nostra
specie, ed è connaturata alle attività complessive del pensiero stesso
39
— è resa più pregnante dalle nuove possibilità offerte dalle tele-
comunicazioni. La comunicazione interpersonale a distanza è stata
potenziata oggi, grazie alla telematica, permettendo di interagire attraverso questi media secondo modalità inedite (forse un po’ più vicine alla comunicazione interpersonale diretta), che pongono pertanto
in discussione la convergenza stessa dei mezzi grazie al supporto
delle tecnologie digitali.
Se la parola “multimediale” si è rivelata ambigua, va però detto
che un punto fermo, dal punto di vista teorico, è acquisito, ed è il seguente: “multimedialità” non va intesa come unione estemporanea e
semplice giustapposizione di materiali comunicativi di provenienza
disparata.
Di fronte a questa polisemia del termine, può essere assai interessante la proposta di trovare un significato più “allargato” di multimedialità, di sperimentare in una direzione non convergente con le tendenze dell’industria informatica e delle imprese editoriali e televisive.
Questa proposta è stata avanzata dalla RAI ed implementata con
l’esperienza ormai decennale dell’Enciclopedia Multimediale delle
38
V. Anche Luciano Rosso, Per una tipologia dei prodotti multimediali, in Antonio
Calvani (cur.), Multimedialità nella scuola, Roma, Garamond, 1996, pp.30-59; e
Gianfranco Bettetini - Fausto Colombo, Le nuove tecnologie della comunicazione,
Milano, Bompiani, 1993.
39 «Pensare significa proiettare sullo schermo della mente immagini, ricordi, nomi,
segni, i quali sono tutti espressioni, differenti ma connesse, di un qualcosa che
viene definito pensiero»: Giuliano Minichello, Apprendere con le nuove tecnologie,
in «Nuova Secondaria», a. XV, n.4, 15 dicembre 1997, p,.39. Se la multimedialità è
dimensione essenziale del pensare, lo è anche quindi, giocoforza, nel processo di
apprendimento.
29
Scienze Filosofiche40. L’EMSF infatti rappresenta un’idea di multimedialità intesa come «progettazione di un'opera realizzata contemporaneamente in più versioni ciascuna delle quali rispondenti alle caratteristiche formali ed espressive dei singoli media». Si tratta di una
nozione “letterale” di multimedialità: si tratta infatti di «produrre un'opera per molti-media». La produzione multimediale intesa in questo
senso è “centrifuga” «da una sola materia prima si irradiano tanti
differenti prodotti ciascuno destinato ad un medium diverso e complementari l'uno all'altro»41: esattamente l’inverso di quanto accade
con l’elaboratore elettronico, che è il centro verso cui tutte le diverse
macchine per comunicare fanno convergere, grazie alla tecnologia
digitale, i loro dati.
Della “società dell’informazione” futura la “rete globale”, la “ragnatela
mondiale” è certo un elemento portante. Essa rappresenta la globalizzazione delle comunicazioni , come percorso inedito della civilizzazione umana. La diffusione di Internet ha costituito infatti a terza fase
della “rivoluzione” digitale (dopo l’età dei grandi elaboratori centrali e
quella della diffusione dei “personal computer”), e la sua caratteristica è derivata dalla fusione delle potenzialità dell’elaboratore elettronico con le possibilità di trasmissione di dati per via telematica grazie
alle nuove tecnologie delle fibre ottiche. Non c’è spazio adeguato qui
40
Da qui in avanti mi riferirò ad essa con la sigla EMSF. È possibile ottenere informazioni di prima mano, nonché costantemente aggiornate sullo stato del progetto, al sito internet dell’EMSF stessa all’indirizzo: http://www.emsf.rai.it. A titolo di
presentazione e come esemplificazione di una prima valutazione critica del progetto stesso, si possono vedere le pagine di Filosofia e Informatica. Atti del Primo
incontro sulla applicazioni informatiche e multimediali nelle discipline filosofiche, a
cura di Luciano Floridi, SFI/IISF/Paravia, Torino, 1996, in particolare, nella II parte
(La didattica elettronica), gli interventi di L. Rossetti; R. Parascandolo. Si v. anche
l’intervista a Renato Parascandolo, Il paradosso multimediale ... cit..
41 Renato Parascandolo, o.p cit., domanda 7.
30
per una analisi dettagliata della natura complessa, a tre dimensioni,
della rete globale42; ma è certo che si pongono nuovi problemi, di
enorme interesse, quali la nuova natura di “merce” di quel “bene immateriale” che è l’informazione, e quindi le connessioni fra sviluppo
della rete e nuove forme dell’economia e del mercato, così come sui
possibili scenari di quel mondo futuro che comunicherà attraverso
questi nuovi sistemi43
Per riassumere: siamo di fronte ad una svolta epocale nella storia
della comunicazione umana44: la “questione multimediale”, con la
sua ambivalenza e polisemia, si propone come un terreno fertile ma
complesso, in cui è bene evitare di prendere posizioni restrittive o
aprioristiche. Si incontrano definizioni diverse del termine “multimedia” e suoi derivati. Abbiamo visto come in taluni casi è meglio utilizzare vocaboli più specifici ed appropriati (ad es., per quanto riguarda
la “multimedialità” elaborata con il calcolatore elettronico, è meglio
parlare di “ipermedialità”). La necessità di prestare attenzione a questa polisemia è utile anche per evitare ingenuità, o veri e propri inganni, e ci ricorda che è opportuno analizzare con attenzione i prodotti di cui si parla, i loro paradigmi comunicativi e di fruizione: perché anche troppo spesso si fa passare per “multimediale” tutto e il
contrario di tutto45. La “questione telematica” e infine la “questione
42
L.Floridi, Internet. pp.14-25.
Pe run’attenta analisi critica ed un tentativo (riuscito) di saggio di “filosofia
dell’informatica”, Ibidem, pp. 37-111, ma anche L’estensione dell’intelligenza, Roma, Armando, 1996.
44 Ho esposto alcune osservazioni sul “trascendimento evolutivo” cui siamo di
fronte nei §§ 1-3 di Didattica della filosofia e multimedialità, in «Orientamenti Pedagogici», a. XLIV, n. 2 (260), marzo-aprile 1997, pp. 429-439.
45 Lo stesso, come ho detto sopra, vale per “interattivo” e “interattività”: altri termini
usati ed abusati, vere e proprie parole-feticcio dei nostri tempi.
43
31
della realtà virtuale” sono altrettanti nodi problematici di questa svolta
epocale46.
2.4. Cosa cambia nella produzione dei testi e negli assetti noetici e
cognitivi dei saperi. Nuovi compiti per la scuola.
Senza dubbio ci si rende conto sempre più esplicitamente che ipertesti, ipermedia, oggetti virtuali «chiedono alla mente di muoversi
secondo strategie nuove»47, e che quindi non è sufficiente solamente
chiedere a chi ne deve far uso una competenza funzionale
nell’utilizzo di questi strumenti, ma anche una competenza “metacognitiva”, “metanoetica”. Non basta una conoscenza informatica, né
tantomeno l’acquisizione di una dimestichezza con elaboratori e
nuovi media. Occorre acquisire consapevolezza delle modalità di
pensiero, di apprendimento e di comunicazione che sono rese da
essi possibili.
Si modificano infatti, a seconda delle diverse tecniche di comunicazione adottate, le nostre funzioni rappresentative, quelle comunicative e quelle conoscitive, così come le nostre procedure di apprendimento. La variazione dei processi cognitivi si riflette infatti sulle modalità di apprendimento delle conoscenze stesse, sul loro accrescimento, sulla loro messa a punto e sulla loro ristrutturazione.
46
V. Claude Cadoz, La realtà virtuale, Milano, Il Saggiatore, 1995, e Jean Gabriel
Ganascia, L’intelligenza artificiale, Milano, Il Saggiatore, 1996.
47 G. Minichello, Apprendere con le nuove tecnologie, cit., p.39.
32
La sfida della cultura del nostro tempo è quella, credo, che ci
spinge a riscoprire, da un punto di vista olistico, la cultura stessa come un tutto, un testo unitario, in cui le integrazioni fra i codici sono
auspicate, ricercate, facilitate, alla ricerca di una nuova e superiore
sintesi, o, comunque, certamente, un nuovo paradigma comunicativo, aperto ed intersemiotico. E la scuola si riavvicinerebbe alla società ed alla cultura del nostro tempo non solo ripetendo che il nostro
futuro è alle nostre spalle, ma anche e piuttosto riorganizzandosi in
un “laboratorio intersemiotico”, capace di far rivolgere le nuove generazioni verso una rinnovata esplorazione della realtà. Esso potrebbe
offrire le possibilità di elaborare e tradurre medesimi contenuti in diversi sistemi semiotici, in simbiosi l’uno con l’altro, secondo una linea
d’apertura ed integrazione, piuttosto che di esclusione e di lontananza. La scuola è così investita da un appello a nuove responsabilità, e
la direzione in cui si auspica ci muoviamo è quella che punta tutto
sull’uscita dall’ordinamento disciplinare e mira invece ad affrontare la
realtà in modo globale48.
L’insegnamento dovrebbe permettere agli allievi di «entrare nella forma del discorso, imparare il codice espressivo del linguaggio
più diffuso della nostra epoca»49.
Ma soprattutto – e questo è lo specifico contributo della filosofia
– l’esperienza formativa deve consentire anche all’allievo di speri48 Alberto Oliverio, Apprendere nell’era della realtà virtuale, in «Res», , a. VI, n. 11,
febbraio 1996, p.7.
49 Liliana Cavani, Cinema: nuovo linguaggio e media, in «L’informazione bibliografica», n.1, gennaio-marzo 1997, p.13. Un testo di cui consiglio la lettura, perché
nella sua stringatezza espone a parer mio l’intero ventaglio dei problemi che anche
qui intendo sollevare. V. anche Derrick De Kerkhove, La mente umana e le nuove
tecnologie della comunicazione, intervista della Biblioteca di MediaMente, all’url:
33
mentare un distacco dal mezzo, di rielaborare interiormente i messaggi che riceve, di esercitare una raffinata introspezione finalizzata
alla scoperta dei paradigmi stessi che stanno alla base di questi modi
nuovi e complessi di comunicare, così come interrogarsi sui significati e sul senso dei messaggi stessi.
L’esperienza scolastica deve poter permettere all’allievo di fare
esperienza delle pratiche comunicative del nostro tempo in modo
approfondito ed olistico, privilegiando però la dimensione intensiva
della formazione. Quella che consiste nel “rendersi conto” di ciò che
si riceve, nel leggere dentro di noi, per acquisire consapevolezza dei
nostri propri “gesti mentali”. «Tramite un paradosso che è
l’espressione di una verità» afferma ancora De la Garanderie «nel
momento in cui io rientro in me stesso per esaminarmi, per interrogarmi sui mezzi che impiego per apprendere e comprendere, o “mi
immedesimo” o mi individualizzo al massimo tramite questa domanda, posso aprirmi nel migliore dei modi possibili alla partecipazione
dell’intelligenza»50.
Parole, suoni e immagini sono linguaggi e forme attraverso cui
il pensiero si elabora e prende consistenza: parole, suoni e immagini
si incontrano, si intersecano nella nostra esperienza comunicativa.
Perché la filosofia non dovrebbe essere in grado di aprirsi ad una
comprensione non più e non solo “logocentrica” dei processi di pensiero?51
http://www.mediamente.rai.it/home/bibliote/intervis/d/dekerckh.htm, in particolare
dom. 6.
50 Antoine De la Garanderie, Profili pedagogici, Firenze, La Nuova Italia, 1989,
p.192.
51 Ho abbozzato alcune riflessioni sul tema del “pensiero per immagini” in Didattica della filosofia e comunicazione multimediale, in «Comunicazione Filosofica.
34
2.5. Così, non sappiamo ancora con sufficiente precisione cosa
cambierà nel nostro modo di pensare, di conoscere: eppure
l’universo dei media e dei nuovi sistemi comunicativi sta già cambiando. Non sappiamo con precisione se e come i nuovi media potranno facilitare i processi di apprendimento, e lo sviluppo delle abilità cognitive e intellettive, così come si crede52. Si può decidere di
pensarci su, di farne esperienza con l’atteggiamento e lo spirito della
critica e dell’interrogare, oppure ci si può anche ritrarre, più o meno
inorriditi, e aspettare.
Del resto, per rendersi conto che le prospettive non sono del tutto
rosee, basta riflettere su quello che è successo nella scuola italiana
nell’epoca della disponibilità di strumenti audiovisivi: in sostanza, si è
trattato di un “non uso”, o di un evidente sottoutilizzo53.
Infine, è in discussione anche la responsabilità dei filosofi e dei docenti di filosofia nell’attivare e condurre un dialogo autentico con le
generazioni presenti e future, immerse in questo contesto comunicativo. Si può comunicare agli uomini del nostro tempo senza il ricorso
ai media del nostro tempo? Il ricorso a questi mezzi può rivelarsi, ed
a quali condizioni, una risorsa di rinnovamento e di crescita di co-
Rivista Telematica di Ricerca e Didattica Filosofica», n.2, novembre 1997, all’URL:
http://www.getnet.it/sfi.
52 In realtà, nell’area anglosassone si vanno elaborando da un po’ di tempo esperienze e riflessioni di questo tipo.
53 Ad una inchiesta degli inizi degli anni ‘90 risultò che nella scuola italiana si faceva ricorso nella stragrande maggioranza (93,4%) a sussidi didattici tradizionali, e
che solo una minima parte faceva ricorso a tecnologie innovative (6,6%). Inoltre,
solo il 49,8% degli strumenti veniva utilizzato più di dieci volte l’anno! V. L. Mason Bianca Maria Varisco, Mente umana e mente artificiale, Milano, Angeli, 1990, p.18.
35
scienza per la stessa ricerca filosofica? Questa è la pista di ricerca
che si apre dinanzi a noi.
Di fronte a queste specifiche esigenze, il compito di chi ricerca (problematizzare, informare, segnalare) e il compito di chi forma (che,
oltre che informare e segnalare, presuppone il comunicare) si dovranno integrare e connettere in modo più complesso di quanto non
sia avvenuto in passato, per evitare che i diversi livelli e caratteri delle reciproche responsabilità e dei rispettivi progetti prendano strade
divergenti e non comunicanti.
In questo contesto, quale potrà essere, e in che cosa si potrà fondare, il rinnovato “bisogno della filosofia”? È già stato notato che, tra le
varie funzioni che non potranno essere “spersonalizzate”, trasferite in
una macchina vicaria e autonoma rispetto all’uomo, si troverà nel
futuro anche l’esercizio dell’insegnamento filosofico, inteso come
processo di «riunificazione della coscienza individuale attraverso la
messa in evidenza di alcuni problemi esistenziali (conoscenza e morale)»54. Così, il “laboratorio di autocoscienza”, ossia quello dedicato
allo spazio delle attività filosofiche, è ritenuto “il più importante di tutti
i laboratori”. Già Mathieu, nel lontano 1967, aveva modo di osservare
che «se per il progressivo svuotarsi di tecniche meno interessanti,
l’uomo si rende disponibile per il possesso di altre tecniche personali,
più interessanti (quali possono essere, ad es., le tecniche artistiche,
e “sportive” in senso lato) la spersonalizzazione della tecnica precedente può considerarsi un beneficio essenziale»55. Perché non ag-
54
A. Calvani, Iperscuola, cit., pp.118-9.
Vittorio Mathieu, La spersonalizzazione della tecnica, in L’uomo e la macchina,
Atti del XXI Congresso Nazionale di Filosofia, Pisa, 22-25 aprile 1967, vol. I, Relazioni, Torino, Edizioni di «Filosofia», 1967, p.39-40.
55
36
giungere all’elenco delle tecniche interessanti la meditazione, il dialogo socratico, la lettura, e via dicendo? Una grandissima parte delle
tecniche di cui è fatta la pratica filosofica può rientrare a pieno titolo
entro la sfera di queste attività personali, gratificanti, significative.
Mathieu aggiungeva: «E se l’uomo non sapesse trovare per sé sempre nuove funzioni, e funzioni da sviluppare con una tecnica personale, appropriata, per dir così, privatamente, allora veramente la
“tecnica” , divenuta soggetto anziché strumento, inaridirebbe l’uomo
e lo svuoterebbe della sua umanità, senza sostituirla con nulla»56. Il
bisogno di ritrovarsi, di seguire un percorso capace di portare ciascuno a rendersi conto di sé, a cercare vie attraverso le quali estrinsecarsi personalmente, evitando che la crescita delle tecniche si
tramuti in un progressivo svuotamento e de-centramento del soggetto, può essere perseguito anche attraverso l’esercizio del pensiero
filosofico57.
56
Ibidem, p.40.
Sulla valenza della pratica filosofica nel favorire e facilitare lo sviluppo del Sé, la
“funzione egoica” della filosofia, v. Mario De Pasquale, Didattica della filosofia. La
funzione egoica del filosofare, Milano, Angeli, 1994, in particolare alle pp.69-70.
57
37
3. Un punto di vista “olistico”
La direzione in cui sembra orientarsi la messa in atto dai nuovi media
sembra indicare, come si è visto, il potenziamento dei media in grado
di elaborare ed esprimere informazioni in una forma non vincolata ai
soli linguaggi verbali. Ho già detto sopra della necessità di un progetto capace di costruire un nuovo paradigma comunicativo, aperto ed
intersemiotico, di natura olistica. Questo deve valere, in primis, penso proprio per la pratica della comunicazione filosofica. Suggerisco
qui di seguito alcune prime considerazioni in vista di questo progetto,
identificando quindi, poi, sia pure in modo schematico, le linee direttrici dell’elaborazione di un progetto per un laboratorio di filosofia che
si prenda in carico integralmente questi problemi.
3.1. Quale l’atteggiamento teoreticamente corretto? Integrazione e
metacognizione.
La necessità di identificare il profilo di un atteggiamento “corretto”,
non preconcetto o preclusivo, sul tema delle tecniche, degli strumenti
e dei metodi nella pratica filosofica e nell’insegnamento della filosofia
è pertanto urgente. In questo compito però ci viene in soccorso la
tradizione stessa della pratica filosofica: prendiamo ad esempio il
caso di Platone.
38
L’esercizio della filosofia è atto personale, atto di pensiero, opzione
interiore dello spirito, che si produce e si trova. La filosofia è conquista ed esercizio di libertà interiore che si dispiega e si comunica. È
nota la posizione di Platone, che, nella Lettera VII, sostiene che questa scienza, «non è come le altre, non si può in alcun modo comunicare» perché come fiamma s’accende da fuoco che balza: nasce
d’improvviso nell’anima»58:
il filosofare è insomma un’esperienza
interiore, personale, unica e non trasferibile. Nello stesso tempo, come è stato notato, a Platone succede che egli elabora una sua ricerca e la comunica muovendo già all’interno del paradigma di pensiero
permesso dalla scrittura, pur essendo egli (e non tanto paradossalmente) critico verso questa tecnica.
La filosofia, d’altro canto (sempre secondo Platone), comporta esercizio, addestramento, studio, si basa su un rigoroso percorso di apprendimento59.
Ci troviamo quindi di fronte a due ordini di problemi:
a) Da una parte, si tratta di comprendere i nessi e le differenze tra
atto interiore, “libertà dello spirito”, attività spirituale
“spontanea”,
“naturale” e automatismi della tecnica, che richiedono metodo, sistematicità, regole di formazione e di pratica, strategie di gestione,
fredda “routine”60.
b) D’altra parte, si tratta di chiarire i nessi intrinseci e profondi che si
pongono in essere tra pensiero/medium/comunicazione
58
59
60
Platone, Lettera VII, 341 c-d.
Ibidem, 340b-1a.
Cfr ad es. A Guzzo, op. cit., p.23-4.
39
3.1.1. Integrazione
La filosofia può utilizzare indifferentemente una qualsiasi fra le tecniche della parola. Solo che se si esprime un pensiero scrivendo un
graffito su una colonna di pietra o piuttosto lo si formula lanciandolo
in una rete telematica via e-mail o su una URL di Internet, o mediante una poesia, cambia completamente l’assetto dell’elaborazione del
pensiero stesso. È certo questione di padronanza del mezzo e della
sua fruibilità. Solo che la scelta di quale medium usare non è indifferente per il processo elaborativo del pensiero come per la sua comunicazione.
Così, filosofare non è semplicemente un qualunque pensare, che si
concretizza e si estrinseca in una qualsiasi operazione e/o attività
umana, ma è un atto che nel pensare si ritrova, ossia fa si che
l’attività del pensiero si rivolga a se stessa ed acquisti e sviluppi autocoscienza.
Ci si dovrà pertanto chiedere, in primo luogo e certamente, quale
“uso” fare della parola, quale della scrittura, quale delle nuove forme
del testo (ipertesti ed ipermedia), quale della comunicazione telematica.
Il criterio della integrazione sembra rispettare la natura del processo
evolutivo con il quale i media si sono mutualmente interrelati durante
la “mediamorfosi”: e mi sembra che il concetto di “trascendimento
evolutivo” possa valere, come ho detto altrove61, non solo per
l’evoluzione in genere, ma proprio anche per l’evoluzione interna della nostra stessa specie, della cultura e dei sistemi di comunicazione
in essa elaborati ed utilizzati. Infatti, «i mass media non si succedono
40
l’uno all’altro, sradicandosi a vicenda in successione cronologica, ma
si adattano mutualmente [...]. Il modello di sviluppo di questa mediamorfosi non è perciò sostitutivo e lineare, ma accrescitivo e ramificato»62.
È evidente che al pensiero filosofico si pongono pure inediti problemi,
quali quelli indicati dal fatto che i nuovi media sono centrati su una
non ancora ben nota correlazione comunicativa tra i diversi sensoria
(udito, vista, ma anche tatto, combinati e interrelati). Il problema infatti diventa quale relazione può esserci fra i diversi media della comunicazione e il logos, e, nel pensiero, fra la parola e il resto. Per
dirlo brutalmente: se è vero, come afferma Bergson, che pensiamo
nonostante le parole, significa forse anche che pensiamo nonostante
le immagini, nonostante il suono, nonostante la percezione? Si può
pensare senza parole? e senza scrittura?, e senza ipertesti, ipermedia, senza nuovi media? Quali forme del pensiero si rendono effettive
al di là della parola? E come la parola e il logos entrano in relazione
con esse? Possiamo pensare alla problematizzazione senza il ricorso al logos?63 I termini “Pensare” ,“Pensiero” sono generici, certo:
ma non è più possibile semplicemente appiattire la complessità di
questo fenomeno riducendolo a “logos unico”.
Così, più in particolare, la ricerca didattica in filosofia è bene che si
interroghi sulla totalità dei criteri e dei metodi che permettono di individuare, allestire e modificare i più diversi dispositivi (simbolici o fisi61
V. Didattica della filosofia e multimedialità, in «Orientamenti Pedagogici», anno
XLIV, n.2, 1997, pp. 429-452, in part. alle pp.430-32.
62 Luciano Floridi, Internet, Milano, Il Saggiatore, 1997, p. 82.
63 Quel che qui mi importa è che tutte queste pur rozze domande (le prime che
sorgono alla mente riflettendo su queste questioni) nascono dalla nuova consape-
41
ci) in grado di renderci capaci di favorire gli scambi di comunicazione
che ci permettano di raggiungere finalità formative64.
3.1.2. Metacognizione
Ma nel momento in cui l’esercizio di un pensiero filosofico si rende
effettivo, producendosi in una espressione, in un medium, esso, se
vuole restare fedele a se stesso, si interroga anche su quali siano le
precomprensioni, i paradigmi noetici cognitivi e comunicativi del
mezzo che si è utilizzato. È esercizio di consapevolezza filosofica
comprendere le pratiche comunicative ed espressive dal punto di
vista metanoetico e metacognitivo, anche “metacostruttivo”, se vogliamo, e metacomunicativo.
Porre in questione, quindi, i sistemi di preconoscenze, i paradigmi e
le visioni del mondo, le nozioni di senso comune, eventuali stereotipi
e atteggiamenti mentali incongruenti fra loro, errori cognitivi nascosti.
Questo orientamento sottolinea il “debito” che la ricerca filosofica
deve contrarre nei confronti delle scienze che si occupano di questi
fenomeni, la capacità di dialogare con i diversi saperi specifici, quali
ad esempio la conoscenza psicologica del soggetto che apprende, le
scienze cognitive; la conoscenza dello status quaestionis nel campo
volezza aquisita della intima relazione e frammistione tra tecniche dell’espressione
e della comunicazione e pensiero.
64 Ed è certo bene che la riflessione sulla tecnologia degli ambienti formativi sia
condotta in prima persona da parte di chi si occupa direttamente di insegnamento
della filosofia, piuttosto che da tecnocrati dell’istruzione che si presumono esperti
di tecnologia sic et simpliciter, quasi che questa possa esistere disincarnatamente
da un processo comunicativo vivo e concreto, dalle pratiche di ricerca educativa
condotte “sul campo”, dalla fattiva sperimentazione didattica. Detto questo, sottolineo che ho utilizzato in ogni caso le pur utili indicazioni di Antonio Calvani, Manuale ... cit., passim.
42
delle scienze delle comunicazione e delle scienze dell’informazione;
ma anche le nuove discipline di frontiera (società dell’informazione,
infosfera) e via dicendo.
43
4. Progettare un laboratorio di filosofia
La pratica filosofica, come ogni pratica umana, è attraversata da tecniche e tecnologie, che è il caso di considerare attentamente e di
riscoprire organicamente, per progettare un laboratorio di filosofia
come luogo in cui si possano mettere in atto ed esercitare, sulla base
della possibilità di scegliere, nel più ampio e completo spettro di possibilità, le pratiche di cui la filosofia è costituita, apprendendone, appunto, le tecniche. Proprio come nel mondo greco, quando si poteva
connettere il termine “tecnica” a buona parte, se non a tutte, le pratiche di cui era costituito il filosofare: ad es., dialektik» tšcne, logik»
t.,
etorik» t., e via dicendo.
D’altro canto, è evidente, agli occhi di chi frequenta le scuole secondarie, che è oggi urgente superare un modello didattico obsoleto,
centrato (più che su una presunta monomedialità) piuttosto sulla
standardizzazione e ripetitività, su un atteggiamento riduttivo di fronte
alla complessità delle interazioni che avvengono in classe, ed anche
nel rispetto della ampiezza di opportunità offerta dalla ampia varietà
di tecniche di cui la pratica filosofica si è servita nel corso della storia. È necessario comprendere che la progettazione di una attività di
insegnamento della filosofia richiede di mettere in atto un sistema
complesso, e che occorre pensare a tale sistema secondo modelli
del tutto nuovi. Cuore della questione è l’esigenza di “recuperare” il
sapere tecnico e tecnologico (o il pensiero “strategico”), come momento portante di questa attività di progettazione (occorre non lascia-
44
re al caso e sottrarre all’aleatorietà parti e momenti del processo e
dell’interazione formativa).
Al centro di questo ripensamento si situano, da un lato, la necessità
di condurre la comunicazione in modo autentico, efficace e significativo, dall’altro l’acquisizione di abilità e competenze volte ad un attento utilizzo di una pluralità di dispositivi e strumenti, vecchi e nuovi, di
per poterne far uso intelligente e mirato in tempi e modi opportuni65.
Senza questa “immersione” nella tecnica sarebbe del resto impossibile proporsi di esercitare il soggetto coinvolto nell’esercizio del filosofare anche a “distanziarsi” dal messo che usa, ad acquisire consapevolezza del dominio che le tecniche esercitano in lui mentre fa pratica di esse, per porre la questione del senso dell’esser soggetto alla
tecnica, del praticare un metodo, ecc. Non credo che alcuna attività
condotta dall’uomo possa sottrarsi a questo “sguardo filosofico”. Ma
è appunto solo con l’esercizio della filosofia, che si prende coscienza
di tutto questo, che si acquisisce questo “sguardo”.
Così, non si risolve il problema proponendo di continuare a limitarsi
alle abituali pratiche del passato, come il “discorso” filosofico, la “lettura dei testi” o, men che meno, all’esercizio del “dialogo” nell’oralità
(come se fossero attività così “semplici”, o, peggio, senza alcuna attenzione alla “componente” tecnica e tecnologica in esse racchiusa).
In questa sezione intendo tracciare, per cenni e solo a grandi linee,
le direttrici del “progetto” per un laboratorio di filosofia, tentando di
individuare gli snodi attorno ai quali strutturare il progetto stesso66.
65
V. anche A. Calvani, op. cit. p.10.
Ragioni di spazio mi impediscono di elaborare in modo più articolato questo
progetto, ma mi propongo di farlo in una sede più adeguata. Se la mia esposizione
dà l’impressione di un sogno con molti elementi di utopia, si attribuiscano queste
impressioni non alla natura del progetto stesso, bensì alla brevità con la quale lo
66
45
Penso ovviamente a come potrebbe essere una “classe di filosofia”
in una scuola comunque un po’ diversa da quella tradizionale.
Per delineare un progetto, si dice, occorre muovere da alcuni saperi:
saper “cosa” si vuole fare; sapere “come”. Sapere cosa: la filosofia
penso debba essere intesa non tanto come una tradizione tramandataci in testi più o meno classici, quanto soprattutto come una tradizione viva di ricerca e di esercizio del pensiero, che esige non solo il
recupero dei “prodotti” del pensiero nei testi (mediante una sempre
rinnovata lettura dei testi della tradizione), quanto sempre anche la
presa di coscienza delle “procedure” e tecniche che li hanno prodotti,
e che, come processi e tecniche, giacciono nascoste “dentro” i prodotti stessi che si tramandano. Si deve inoltre trattare di
un’esperienza che porta chi la compie ad una trasformazione, perlomeno delle proprie concezioni epistemiche ed esistenziali.
Sapere come: si dovrà decidere, una buona volta, sulle alternative
poste all’inizio67? No: tutte insieme fanno la ricchezza e la varietà
dell’esperienza filosofica: una ricerca aperta che trova un perno nella
continua riflessione “metatecnica”. Non ritengo sia utile riproporre
viete (e solo presunte) alternative. L’idea stessa del “laboratorio” pre-
espongo qui, ed alla mia incapacità di dire in breve tutto quanto possa mostrarne
la fattibilità: lo penso infatti proprio come un progetto fattibile, anche a diversi livelli
di realizzazione e di approfondimento, in buona misura già da oggi.
67
V. sopra, § 1 (in part. 1.3). Resta auspicabile anche una più ap-
profondita ricognizione storica delle pratiche e delle attività nelle
scuole di filosofia (quale ad es. quella che ha svolto in uno splendido
saggio Pierre Hadot, Esercizi spirituali e filosofia greca, Torino, Einuadi, 1986).
46
suppone che vi si possano trovare le più diverse pratiche, svolte per
scopi anche diversi.
Muovo anche da un semplice assunto: è necessario ristrutturare
l’impianto della scuola di filosofia, destrutturando le pratiche tradizionali ed ampiandone lo spettro, in direzione di una possibile panoramica a 360 º. Si tratta di un progetto che potrebbe mirare ad essere
centro fecondo per una “riscoperta” della attività filosofica come
prassi viva e vitale, significativa per gli uomini del nostro tempo e per
le generazioni future.
Il “Laboratorio” è prima di tutto uno spazio, in cui raccogliamo i materiali, i dispositivi, le installazioni e gli apparecchi utili per compiere
esperienze tecniche o scientifiche, esperimenti, ricerche, studi. È un
luogo in cui si compiono attività di ricerca e costruzione (in questo
caso, di apprendimenti, ma non solo: del proprio stesso senso del
Sé). È un’officina: una “impresa collettiva”, fondata su una rete di
rapporti e interazioni tra tutti i partecipanti al lavoro stesso; richiede
un lavoro comune, collaborativo, quindi dev’essere luogo di una vera
interazione comunicativa la quale, se è autentica, come tale è formativa. In un laboratorio c’è chi è già pratico dell’arte (o del mestiere) e
c’è chi è apprendista.
Così, il laboratorio di filosofia è lo spazio in cui, con la disponibilità di
tutte le possibili risorse materiali (strumenti atti a far pensare), permetta alle risorse umane, intellettuali e scientifiche, di “autoprogettarsi” nella definizione di progetti formativi e di solidi percorsi di apprendimento, ma soprattutto di autentiche esperienze e cammini di pensiero.
Non solo luogo in cui le risorse possano dispiegarsi, ma anche luogo
in cui al centro non si situano gli strumenti, bensì i comportamenti
47
basati sul mettere in comune le esperienze individuali, le pratiche
stesse dei saperi, sulla loro elaborazione critica, e quindi su un comportamento che nelle relazioni interpersonali si basi sulla cooperazione e sulla compartecipazione. Non si teme un continuo aggiornamento di metodi e di approcci.
L’esercizio della filosofia non solo e non tanto come “progetto conoscitivo” (semplicemente un sapere tra i saperi), ma “exemplum” via
iniziatica alla scoperta:
a) della “questione del sapere” (coscienza teoretica): strumenti non
solo e non tanto per acquisire ed accrescere le conoscenze, quanto
piuttosto per metterle a punto, e soprattutto, ristrutturarle, prendendo
consapevolezza dei paradigmi noetici ed epistemologici su cui poggiano (o sulla loro “assenza”), acquisendo consapevolezza della fragilità nel senso della difficoltà di fondare adeguatamente i saperi
b) della “questione dell’esistere” (coscienza etica e coscienza cosmica).
Luogo, spazio in cui c’è qualcuno che pensa, che compie
un’esperienza di pensiero attraverso la quale apprende a ridefinire,
senza posa, la propria stessa autocoscienza68.
Progettare un laboratorio presuppone non solo che si definiscano gli
spazi, i protagonisti del lavoro (le risorse intellettive e umane) e i loro
modelli e sistemi di interazione, ma si definiscano anche le strategie
da adottare nel lavoro comune, si pianifichino ed organizzino le attività, rispettando spazi e tempi dati, si programmi l’attività stessa prima
di implementarla e porla in atto.
68
A. Calvani, Iperscuola, cit., p.119, definisce il laboratorio di filosofia come un
laboratorio di autocoscienza, come lo spazio in cui si elabora la propria consapevolezza epistemica.
48
4.1. La ricerca di una comunicazione autentica e la preoccupazione
per il monitoraggio dei processi comunicativi (tecnologie della comunicazione e dialogo filosofico)
In un laboratorio di filosofia, concepito in questi termini, è centrale
senza dubbio il processo comunicativo che si instaura tra i partecipanti.
Comunicare, com’è noto, non è solo trasmissione di informazioni, né
“segnalazione”: si tratta di una vera interattività: si comunicare per
essere, si comunica per cambiare.
Abbastanza significativo è che nella prassi del laboratorio di filosofia
la comunicazione come sistema di procedure interattive e di mezzi
non può essere gestito solo tecnicamente. Serve infatti quella che
Kierkegaard ha chiamato la “reduplicazione”: non solo “padronanza
del mezzo comunicativo”, per cui si pensa di “dominare il mezzo che
domina la comunicazione”, ma piuttosto far ”avvenire una situazione”, far accadere un evento, trasformare l’esistenza: e questo vale
sia per l’attivazione dell’esperienza della “paralisi attiva” (che riguarda l’aspetto teoretico ed epistemologico della ricerca)69 sia per la “filosofia come maniera di vivere” (ossia l’aspetto esistenziale e morale). L’autenticità della comunicazione è una finalità da mantenere ben
ferma: praticare questo laboratorio è un evento che coinvolge le persone implicate in esso, le loro opinioni, le loro visioni del mondo, e il
loro modo di essere70.
69
V. Carlo Sini, Pensare il progetto, cit., p.
V. almeno Mario De Pasquale, La relazione educativa nell’insegnamento della
filosofia, in «Bollettino della SFI» n.161, maggio-agosto 1997, p.111-131.
70
49
Per questo i docenti in un laboratorio debbono essere buoni comunicatori, in grado di instaurare relazioni con gli allievi non solo in una
dimensione di controllo, ma anche in quella emozionale e di congruenza (Franta). Ai docenti è richiesto di acquisire le abilità adatte a
questo scopo, e grande consapevolezza e padronanza delle tecniche
(e delle tecnologie) delle diverse forme di comunicazione.
La comunicazione è evento esistenziale, non limitata alla gestione
delle interazioni materiali e dei passaggi di informazioni o segnali,
bensì aperta a permettere lo sviluppo di relazioni empatiche (o meglio, legate alla platonica eÜnoia), solidali, che consentono ad ogni
persona coinvolta di costruirsi secondo un progetto di cui conquista
la consapevolezza71.
Il dialogo filosofico è ovviamente la pratica fondante della comunicazione in un laboratorio di filosofia72. Esso si traduce, oggi,
nell’esercizio dell’interrogare radicale73.
4.2. Didattica del filosofare e tecnologia degli ambienti formativi
71
La comunicazione educativa consente, secondo il noto detto di Paulo Freire,
che “ci si educhi tutti insieme”. Essa è una interazione bidirezionale, presuppone
l’accettazione integrale dell’altro, una partecipazione senza reattività immediata, e
la comunicazione sulla comunicazione (procedura “metacomunicativa” che in
sostanza consiste nel far prendere coscienza a chi partecipa ad un processo comunicativo della “gabbia” stessa della comunicazione e della relazione, per far sì
che nessuno resti “imprigionato”).
72 Non mi soffermo su questo punto perché questa è tecnica assai nota e credo
che sia unanime il consenso a proposito del dovere di praticarla per fare autenticamente filosofia.
73 V. Wilhelm Weischedel, Il Dio dei filosofi, Genova,Il Melangolo, vol. I, 1988,
pp.50-8; vol. III, 1994, pp.201-8.
50
Ho già accennato alla necessità di considerare come necessario
momento tecnico dell’attività docente quello di riappropriarsi della
libertà di progettare persino gli spazi fisici degli ambienti della scuola.
Si dovrà re-imparare a dis-porre (riprogettare) gli spazi, i materiali, gli
strumenti (oltre la cattedra e i banchi)74. Si dovrà pensare a scegliere
i materiali da utilizzare per le pratiche che si svolgeranno in laboratorio: la scrittura (lavagna, supporti cartacei, elaboratori di testi) e la
riproduzione di testi (o immagini): fotocopiatore, ma soprattutto lo
scanner; e poi materiali per la lettura (biblioteche su carta, o digitali –
CD Rom, in rete); e infine le tecnologie per la comunicazione non
diretta e telematica (sincrona o asincrona).
4.3. Oralità, scrittura
Questo aspetto delle tecniche della filosofia si scontra con uno dei
più vieti pregiudizi della nostra tradizione italiana: la presunta, insuperabile “oralità” della disciplina filosofica. Già nei nuovi programmi
Brocca si muove qualche passo in direzione utile a smantellare definitivamente questo preconcetto. Vero che la filosofia probabilmente
nacque in un contesto prevalentemente orale, e che ciascuno di noi
entra nell’universo del linguaggio, nasce alla parola nell’oralità, ed ivi
esercita, sotto forma di apprendistato, il “training” del suo apprendimento della lingua.
Lo studio, però, è fin dallo stesso momento, invece sviluppato nel
contesto della cultura chirografica, facendo ricorso alle tecnologie
74
Penso, solo per fare un esempio, a quanto sia scomodo per condurre una lezione basata sul metodo socratico, oppure sul brainstorming la disposizione tradizionale degli allievi in banchi in cui l’interazione faccia-a-faccia è impedita e frenata.
51
della scrittura (ambiente nel quale la più gran parte dei prodotti
dell’attività filosofica si sono poi materializzati).
Il tema dell’oralità ci rimanda al discorso sopra svolto sull’aspetto
della comunicazione interpersonale diretta.
Il tema della scrittura invece ci spinge a considerare come per un
adeguato addestramento alla pratica filosofica necessiti di esercizi di
scrittura (nelle più diverse forme) oltre che di semplice dialogo.
4.4. La pratica della lettura: testi, ipertesti, ipermedia e ricerca filosofica
Fra i profeti della società multimediale circolano anche catastrofiche
previsioni in merito al libro: Negroponte sostiene che sia un medium
obsoleto, destinato ad essere rimpiazzato da ipertesti, ipermedia e
realtà virtuale. Si è detto, piuttosto, della non linearità del processo di
mediamorfosi (sulla mia scrivania, vicino all’elaboratore, troviamo la
penna stilografica e la matita, che non sono divenute affatto obsolete).
Non è possibile qui entrare nei dettagli illustrando le tecniche da mettere in conto per poter gestire le poliedriche possibilità dell’esercizio
della lettura (ne siamo, credo, tutti consapevoli)75. È indubbio che
sull’importanza della lettura degli autori in questi ultimi anni
l’evoluzione della didattica filosofica si è accelerata molto. Ed è ovviamente un bene. Posso dire solo che leggere un libro è cosa diversa dal navigare in un ipertesto, e altro ancora è navigare in un ipermedia: sono attività e pratiche di lettura distinte, ciascuna con la sua
valenza e le sue possibilità (nonché con i suoi limiti).
52
4.5. Telematica e “supporto” dell’elaboratore per l’allargamento delle
comunità di apprendimento e ricerca
L’aspetto più affascinante nel definire la novità del laboratorio rispetto
ad una classe tradizionale è legata alle possibilità di “aprire” il gruppo
classe (in direzioni diverse) ma soprattutto in direzione della creazione di interazioni comunicative con soggetti o gruppi altri, a distanza,
mediante le tecnologie telematiche.
Su questo debbo dire che le prospettive segnate dalla nuova disciplina del Computer Support for Cooperative Learning sono a dir poco
coinvolgenti76.
Lo sviluppo dell’aspetto della cooperazione all’interno del laboratorio
può proseguire anche quando il gruppo classe si apre, ed entra in
relazione con altri gruppi a distanza per lavorare su un progetto comune.
È il territorio concreto in cui si può sviluppare quella intelligenza collettiva, quel pensiero globale di cui si è detto.
Un
secondo
aspetto
non
trascurabile
di
questo
“supporto”
dell’elaboratore nella sua funzione telematica è che cambia radicalmente la natura del fenomeno della pubblicazione dei prodotti del
pensiero. La pubblicazione è prima di tutto un “pensare collettivamente in tempo reale”77. In secondo luogo, essa diviene ulteriormen-
75
Qualche osservazione ho svolto sull’utilizzo di ipertesti ed ipermedia altrove
(cfr. bibliografia).
76 Mi preme rimandare almeno ad alcuni siti in cui (ovviamente in rete) si possono
trovare informazioni adeguate e di prima mano: v. bibliografia, sezione apposita.
77 D. De Kerkhove, intervista cit., domanda 8.
53
te più facile: e segnala che rispetto alle corporazioni editoriali, ora è
possibile che il cittadino privato si riappropri del “potere del libro” 78.
4.6 Come si può trasformare la “lezione” di filosofia
Tutti noi conosciamo per esperienza diretta cosa ha significato nel
nostro recente passato, in prevalenza, una “lezione” di filosofia. La
lezione ex cathedra: una pratica centrata sull’oralità (tutt’al più con il
supporto della lettura di qualche citazione, spesso nemmeno disponibile a chi ascolta se non attraverso la lettura ad alta voce), in sostanza su un discorso pronunciato dal docente, del quale gli studenti
sono “riceventi”, ascoltatori, destinatari.
A tutti è noto che da tempo si declinano altri modelli, rispetto a questo. L’intento del docente qualificato nel laboratorio è quello di disporre ogni possibile procedura di lezione in un approccio sistemico e
flessibile. Ciascun modello di lezione si presta a specifiche e precise
finalità: si deve poter scegliere quale impostazione dare al lavoro per
poter ottimizzare l’attività stessa.
La lezione ex cathedra avrà “basso livello tecnologico”, è strutturale e
non procedurale, a bassa interazione, mentre la lezione euristicodialogica, basata sul problem-solving e/o sulle “domande legittime”,
la simulazione, la pratica della “scoperta guidata”, l’esperienza di laboratorio, ecc., spostano l’attenzione sulla gestione delle interazioni
interne al processo stesso di apprendimento79.
Mi sembra che si debba tener presente a questo riguardo soprattutto
un punto: qualsiasi sia il modello di lezione dobbiamo ricordare che
78
Ibidem, dom.2-3.
54
nell’applicarle semplicemente non abbiamo risolto alcun problema«ma anzi ne abbiamo creato uno nuovo, e precisamente quello di
scoprire in quale contesto queste cose possano essere viste in modo
da creare nei loro percettori nuove intuizioni, nuovi pensieri e nuove
azioni»80.
2.7. Come si modifica la figura del docente
Per terminare, qualche parola sul destino riservato all’insegnante in
questo laboratorio. Il termine “insegnare” e derivati ha sempre evocato in me un significato negativo, perché esso include in sé l’assunto
ed il presupposto secondo cui l’attività del docente è quella di trasferire informazioni attraverso un canale quale che sia a un destinatario
che le immagazzini. E questa è una idea assai riduttiva della comunicazione e del processo di apprendimento. Letteralmente, insegnante significa colui che “mette il segno dentro”. Da qui l’immagine
dell’”imbuto di Norimberga” ricordato da Foerster:
«Non c’è da meravigliarsi che un sistema di istruzione il quale confonda il processo di creare nuovi processi con l’elargizione di un bene chiamato “sapere” o “conoscenza” possa causare qualche delusione negli ipotetici destinatari, in quanto, semplicemente, non viene
loro trasmetto alcun bene: di beni non ce ne sono. Storicamente,
credo, l’equivoco per il quale si attribuisce alla conoscenza una realtà
sostanziale nasce con un volantino umoristico stampato a Norimberga nel sedicesimo secolo. Esso mostra uno studente seduto; in testa
ha un buco, nel quale è inserito un imbuto. Accanto a lui è ritto in
79
Cfr con Calvani, Iperscuola, pp.27-35.
55
piedi il maestro, che versa nell’imbuto un secchio pieno di “conoscenza”, ossia di lettere dell’alfabeto, numeri e semplici equazioni»81.
Se il processo di “insegnamento” non consiste in un “trasmettere”
conoscenze, che resta da fare al docente? La sua principale funzione non può più essere (non può essere mai stata) quella di “diffondere le conoscenze”. «La sua competenza deve spostarsi dalla parte
della provocazione che spinge ad apprendere e a pensare.
L’insegnante diventa un animatore dell’intelligenza collettiva dei
gruppi di sua competenza. La sua attività sarà incentrata
sull’accompagnamento e la gestione degli apprendimenti: incitamento allo scambio delle conoscenze, alla mediazione razionale e simbolica, al pilotaggio personalizzato dei percorsi di apprendimento»82
La sua funzione si professionalizza e si complica notevolmente: egli
è chiamato a divenire un “tutor”, un animatore di processi di comunicazione e di progetti di apprendimento.
5. Osservazioni conclusive
«Abbiamo bisogno di ricerche su come servirci della tecnologia per
creare istituzioni che permettano un’interazione personale creativa
ed autonoma e per far emergere nuovi valori che i tecnocrati non
siano sostanzialmente in grado di controllare», suggerisce Ivan Illich83.
80
Heinz Von Foerster, Sistemi che osservano, Roma, Astrolabio, 1987, p.120.
Ibidem, p.119.
82
Pierre
Lévy,
La
cibercultura
e
l’educazione,
http://www.comune.re.it/crin/intlev2.htm.
83 Cit. da A. Calvani, Iperscuola.., cit., p.39.
81
56
Per “ricominciare il discorso” sulla scuola, e la scuola di filosofia, occorre forse rinunciare a difendere gli obiettivi e le finalità intrinseche
in buona parte della scuola odierna, almeno di quelli che sono divenuti indifendibili. Siamo del resto in una situazione in cui è assolutamente necessario riassumersi il compito di progettare gli ambienti
formativi, ripensare per intero il processo educativo scolastico, “concepire diversamente l’istituzione scolastica”, e i compiti ed i mezzi
dell’educazione filosofica in particolare. Sono altresì convinto che la
ricchezza della tradizione filosofica è stata spesso nascosta e giace
obliterata da pratiche che si sono disorientate, si son disancorate da
un centro, anche per la crisi attraversata in questo secolo dalla ricerca filosofica (oltre che dalla crisi, più recente, della didattica della
filosofia).
E c’è un enorme spazio per la riscoperta del senso delle pratiche
filosofiche, mi pare, proprio a partire dalla attenta riconsiderazione
del problema delle tecniche del filosofare e della scuola di filosofia, e
c’è spazio per avviare una ricerca aperta ad affrontare i dilemmi reali, le “domande legittime” sul nostro futuro e sul futuro della filosofia e
del suo insegnamento84.
Così, uno dei padri della nuova comunicazione ipermediale, Theodor
Holm Nelson, in merito alle prospettive sul futuro, osserva: «I computer saranno al centro del mondo in cui, nel futuro, lavoreremo, scriveremo e disegneremo. Tutte queste attività saranno svolte davanti ad
uno schermo. Ma quale tipo di mondo ci verrà proposto da questo
schermo? Questa è la domanda cruciale»85. Se non possiamo prevedere il futuro, possiamo certamente inventare nuovi modelli di futu84
Nello stile indicato anche da L. Floridi, Internet, cit., pp.10-12.
57
ro, ma certamente il compito di chi vorrà insegnare a filosofare alle
generazioni future prevederà che, oltre a costruire possibili modelli di
futuro, si debba decidere per uno di questi e ci si scommetta responsabilmente sopra.
85
Ibidem.
58
Bibliografia di riferimento
1. PARTE GENERALE
Indagine conoscitiva sull’informatica, Studi e documenti degli Annali
della Pubblica Istruzione, n.11, Firenze, Le Monnier, 1980
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dell’Informatica nelle Scuola Secondarie Superiori”]
Le nuove tecnologie nei processi formativi: informatica e telematica,
Studi e documenti degli Annali della Pubblica Istruzione,
n.41/42, Firenze, Le Monnier, 1988
L’introduzione delle tecnologie informatiche nella gestione della scuola italiana, Studi e documenti degli Annali della Pubblica Istruzione, n.51, Firenze, Le Monnier, 1990
La verifica del piano Nazionale di Informatica nelle scuole secondarie
superiori, Studi e documenti degli Annali della Pubblica Istruzione, n.55, Firenze, Le Monnier, 1991
Il sapere minimo sull’utilizzo delle tecnologie nella didattica, Studi e
documenti degli Annali della Pubblica Istruzione, n.65, Firenze,
Le Monnier, 1993
Bettetini G., Colombo F., Le nuove tecnologie della comunicazione,
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59
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formazione, Firenze, La Nuova Italia, 1990
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Antonio Calvani, Iperscuola. Tecnologia e futuro dell’educazione,
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Ipertesti, micromondi e orizzonti formativi, Padova, CLUEP,
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http://www.scintille.it/App7.htm;
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distanza,
http://server.forcom.unito.it:8000/baudhaus/risorse/edonline.htm
;
G. Olimpo, G. Trentin (ITD), La telematica nella didattica: come e
quando (I parte)
http://paradiso.itd.ge.cnr.it/td/td_fr.htm;
G. Olimpo, G. Trentin (ITD), La telematica nella didattica: come e
quando (II e III parte)
http://paradiso.itd.ge.cnr.it/td/td2/td2oltr2.htm;
2. PARTE SPECIFICA
61
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italiano sulle applicazioni informatiche e multimediali nelle disciplie filosofiche, SFI-IISF-Paravia, Torino, 1996.
Vincenzo Bitti - Francesco Dipalo, Filosofia e scuola. Due percorsi
sulla rete internet italiana, Società filosofica italiana/Euroma,
Roma, 1997 (sSupplemento al n. 160, gennaio-aprile 1997, del
“Bollettino della SFI”.
Luciano Floridi ha dedicato una serie di articoli ai problemi che ci interessano: Divide et computa: la filosofia e il computer, in «Informazione Filosofica», a.IV, n13-4, giugno 1993; Da Teuth a
CAL: la didattica elettronica in filosofia, in «Informazione Filosofica», a.IV, n.15, settembre-ottobre 1993, pp.25-7; Menone e
l’ago nel pagliaio: le banche dati per la filosofia, in «Informazione Filosofica», a.IV, n.16, dicembre 1993, pp.31-5; Su carta o in
floppy disk? I filosofi in formato elettronico, in «Informazione Filosofica», a.IV, n.17/18, febbraio-aprile 1994, pp.40-3; La comunicazione elettronica in filosofia, in «Informazione Filosofica», a.IV, n.19, giugno 1994, pp.38-41; Alle soglie della terza
rivoluzione digitale, in «Informazione Filosofica», a.IV, n.20, agosto 1994, p.39.
Luciano Floridi, L’estensione dell’intelligenza. Guida all’informatica
per filosofi, Roma, Armando Armando, 1996: alle pp.249-256
troviamo una bibliografia.
Fulvio C. Manara, Insegnamento della filosofia e comunicazione multimediale, in «Bollettino della Società Filosofica Italiana», N.S.,
153 (settembre-dicembre 1994), pp.33-48.
Fulvio C. Manara, Didattica della filosofia e multimedialità, in «Orientamenti Pedagogici», a. XLIV, n. 2 (260), marzo-aprile 1997, pp.
62
429-452. Una versione leggermente ridotta è apparsa anche
nel «Bollettino della Società Filosofica Italiana», n.s., n.160,
pp.41-62.
Fulvio C. Manara, Didattica della filosofia e comunicazione multimediale, in «Informazione filosofica», a.VII, n.32 (giugno 1997),
pp.63-65.
Fulvio C. Manara, Didattica della filosofia e comunicazione multimediale, in «Comunicazione filosofica. Rivista Telematica di Ricerca
e
Didattica
Filosofica»,
novembre
1997,
all’URL:
http://www.getnet.it/sfi.
Antonio Cosentino, Scuola dell’informatica e insegnamento della filosofia, in «Bollettino della Società Filosofica Italiana», n.s.,
n.137, mag-ag. 1989, pp.40-6.
Marco Veneziani, La ricerca filosofica e le tecnologie informatiche, in
«Bollettino della Società Filosofica Italiana», n.s., n.139, gen.apr. 1990, pp.4-12.
Amedeo Pignatelli, Il computer nell’ora di filosofia. I sistemi ipertestuali, in «Bollettino della Società Filosofica Italiana», n.s.,
n.139, gen.-apr. 1990, pp. 13-25.
Ho fatto inoltre riferimento a:
Pierre Hadot, Esercizi spirituali e filosofia greca, Torino, Einuadi,
1986
Martin Heidegger, La questione della tecnica, in Saggi e Discorsi,
Milano, Mursia, 1976
Carlo Sini, Pensare il progetto, Milano, Tranchida, 1992
63
Günther Anders, L’uomo è antiquato. Sulla distruzione dellla vita
nell’epoca della terza rivoluzione industriale, Torino, Boringhieri,
1992.
André Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola, Torino, Einaudi, 1977
Walter G. Ong, Oralità e scrittura, Bologna, Il Mulino, 1986
Mario De Pasquale, Didattica della filosofia. La funzione egoica del
filosofare, Milano, Angeli, 1994
Heinz Von Foerster, Sistemi che osservano, Roma, Astrolabio, 1987
***
64