EUROPA E CONFINI - Federazione Italiana Settimanali Cattolici

EUROPA E CONFINI
EVROPA IN MEJE
EUROPE E CUNFINS
CONVEGNO NAZIONALE DELLA FISC
(FEDERAZIONE ITALIANA SETTIMANALI CATTOLICI)
GIOVEDÌ 3 - SABATO 5 APRILE 2014
SALA MAGGIORE DEL KULTURNI CENTER "LOJZE BRATUŽ" DI GORIZIA
SALA MAGGIORE DEL KINEMAX IN PIAZZA VITTORIA A GORIZIA
INDICE
Giovedì 3 aprile 2014 – Prima Giornata
PRESENTAZIONE
IL POPOLO DI DIO, IN CAMMINO NELLA STORIA
Mauro Ungaro
Direttore Voce Isontina
SALUTI
Damjan Paulin
Presidente della Società Grafica Slovena
Jurij Paljk
Direttore di Novi Glass
Feliciano Medeot
Direttore della Società Filologica Friulana
Gianni Torrenti
Assessore alla Cultura della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia
Federico Portelli
Assessore alla Cultura della Provincia di Gorizia
Ettore Romoli
Sindaco di Gorizia
Andrea Melodia
Presidente dell’Unione Cattolica Stampa Italiana
Don Ivan Maffeis
Vice Direttore dell’Ufficio Nazionale per le comunicazioni sociali della Cei
S.E. Dino De Antoni
Arcivescovo Emerito di Gorizia
STORIA DI UNA CHIESA DI FRONTIERA:
L’ARCIDIOCESI DI GORIZIA TRA OTTO E NOVECENTO
Ivan Portelli
Docente universitario
NON TOGLIAMO OSSIGENO AI GIORNALI DELLE PERIFERIE
Francesco Zanotti
Presidente FISC
BOSNIA ED ERZEGOVINA: CUORE DEI BALCANI E CARTINA DI TORNASOLE DELL'EUROPA
S.E. Mons. Pero Sudar
Vescovo ausiliare di Sarajevo
Venerdì 4 aprile 2014 – Seconda giornata
OMELIA
Mons. Carlo Roberto Maria Redaelli
Arcivescovo di Gorizia
TAVOLA ROTONDA
A GORIZIA, FRA EUROPA E ADRIATICO: DIALOGHI FRA ISTITUZIONI, GIORNALISTI E
GIOVANI SUL FUTURO DELL’EUROPA, DELL’ALLARGAMENTO E DELL’INTEGRAZIONE
TAVOLA ROTONDA
MASS MEDIA CATTOLICI, VOCE DELLA “ECCLESIA IN EUROPA”
IL RUOLO DELLE TESTATE DI ISPIRAZIONE CRISTIANA
NELLA COSTRUZIONE COMUNITARIA
Gianni Borsa *
PRESENTAZIONE
Il tema scelto per l’annuale convegno nazionale della Fisc (Federazione italiana settimanali cattolici),
tenutosi dal 3 al 5 aprile 2014 – che ha goduto del patrocinio dell’Amministrazione comunale e di
quella provinciale di Gorizia – è stato «Europa e confini». Un tema declinato, significativamente,
nelle tre lingue (italiano, sloveno e friulano) parlate dalle popolazioni dell’Isontino per mostrare la
ricchezza di un territorio che costituisce un unicum a livello continentale.
Molto significativa la sede scelta, la città di Gorizia – “situata all’incrocio di correnti di pensiero, di
attività e di molteplici iniziative, sembra rivestire una singolare missione, quella di essere la porta
dell’Italia che pone in comunicazione il mondo latino con quello slavo: porta aperta sull’Est Europeo
e sull’Europa Centrale. La vostra Terra, particolarmente provata in questo secolo da due guerre
terribili, ha saputo mantenere ardente il desiderio di rinascere a una speranza fattiva. Gorizia, tu
conosci il valore della cooperazione e del dialogo, dei passi solidali per realizzare un vero e integrale
progresso. Sappi trarre frutto dalla tua sperimentata saggezza”, come disse in un suo discorso del 2
maggio 1992, Giovanni Paolo II – dettata essenzialmente dalla ricorrenza di due anniversari.
Nel luglio di cento anni fa scoppiava quella che Benedetto XV definì “l’inutile strage” e che proprio
in questi territori vide cadere centinaia di migliaia di uomini provenienti da tutta Europa. Un
avvenimento le cui conseguenze ancora influiscono sulla storia del Vecchio continente ove solo si
pensi alle tensioni tuttora esistenti nell’area Balcanica in Stati che molto spesso sono ancora alla
ricerca di una propria identità. Nel febbraio del 1964, poi, usciva il primo numero del settimanale
“Voce Isontina”. Con esso la Chiesa goriziana sceglieva, negli anni del Vaticano II, di dare nuovo
slancio alla propria presenza nella società grazie a un rinnovato impegno nel mondo dei media,
proseguendo in qual modo su un cammino iniziato nel lontano 1873 con la pubblicazione del
periodico cattolico “L’Eco del Litorale”.
Il compito che “Voce Isontina” si prefiggeva venne sottolineato nel primo editoriale: “Ne risulta
l’opportunità e la necessità di dare degli avvenimenti una prospettiva ed una interpretazione tale da
consentire anche ai meno provveduti un orientamento alla formazione di un’opinione che si
inquadri nelle esigenze della vita comunitaria, nella precisa volontà di compiere un considerevole e
doveroso servizio realizzando la visuale giusta degli avvenimenti”. Il Settimanale dell’Arcidiocesi è
stato fondato nel 1964 per volere dell’allora arcivescovo monsignor Andrea Pangrazio. Con il
direttore don Maffeo Zambonardi collaboravano sacerdoti e laici provenienti dal mondo
dell’associazionismo cattolico diocesano.
L’arcivescovo monsignor Pietro Cocolin ne affidò la direzione nel 1979 a don Lorenzo Boscarol che
guidò il giornale sino all’agosto 1998. Gli successe don Andrea Bellavite che mantenne la direzione
sino all’aprile 2007. Dall’aprile all’ottobre 2007 il giornale venne firmato da mons. Giuseppe Baldas.
Ad ottobre 2007 l’arcivescovo mons. De Antoni ne ha affidato la direzione a Mauro Ungaro.
Attualmente il settimanale stampa in media 3500 copie a numero ed esce, da gennaio 2010, con una
foliazione minima di 24 pagine; è diffuso in tutto il territorio della diocesi. “Voce Isontina” ha
sempre rivolto una particolare attenzione alla realtà del territorio diocesano ed anche l’attuale
foliazione segue tale impostazione. Ad una prima parte generale, con le pagine dedicate alla Chiesa,
alla Società, alla Cultura ed allo Sport seguono quelle riservate alle Zone Pastorali della diocesi,
facenti – ciascuna – riferimento a proprie redazioni (Gorizia, Bassa Friulana, Grado, Mandamento,
Cormonese-Gradiscano). Fra le pagine ospitate si segnalano quelle proposte con cadenza mensile
dall’Unitalsi diocesana e, in lingua friulana, dalla Società Filologica Friulana; pagine periodiche
vengono curate dalle aggregazioni laicali diocesane. Particolarmente significativa è risultata la
quinquennale esperienza de "L’Eco di Gorizia", supplemento al settimanale interamente redatto dai
detenuti della Casa circondariale di Gorizia.
Dire Europa per dire confini superati, muri abbattuti, frontiere dilatate. Anche questa è una visione
– non certo l’unica – della costruzione europea, che a partire dalle prime Comunità economiche
(Ceca, Cee), negli anni Cinquanta del ‘900, ha via via preso forma, accrescendo il numero dei Paesi
partecipanti, la popolazione, le competenze delle istituzioni che hanno sede a Bruxelles e
Strasburgo. Una Unione europea particolarmente sotto pressione in questi anni di crisi economica,
cui è corrisposta una crisi politica che ha però avuto un effetto collaterale significativo: costringere
la stessa Ue e i suoi Stati membri a una sorta di esame di coscienza, con una rilettura dei pilastri che
reggono l’architettura comunitaria e della stessa identità del “soggetto Europa”. Ma questo
complesso processo di revisione-rilancio, tuttora in corso e dagli esiti non scontati, sembrerebbe
procedere senza il pieno coinvolgimento dell’opinione pubblica, della società civile, con il rischio
di approfondire quella distanza tra cittadini e istituzioni europee da più parti denunciato. È il “gap
democratico” imputato al processo di edificazione dell’Europa unita e che, per ovvie ragioni,
chiama in causa i mass media. Sono infatti giornali, televisioni, radio, siti internet che hanno il
compito di informare sulla vita politica, sia essa locale, nazionale o europea: è mediante gli
strumenti della comunicazione sociale che il singolo cittadino può seguire il dibattito politico, le
decisioni assunte nei “palazzi” del potere, informarsi per giudicare, conoscere per poter essere
protagonista della vita democratica. A questo proposito è convinzione diffusa che l’informazione a
disposizione dei lettori italiani sulle vicende europee sia molto modesta, frammentaria, incompleta,
troppe volte marcata da pregiudizi e da uno strisciante messaggio euroscettico. Così è difficile
rendersi conto del lavoro svolto da Commissione, Europarlamento e Consiglio Ue; comprendere la
direzione che assumono le politiche comunitarie; valutare gli innumerevoli progetti Ue in corso di
realizzazione nelle sfere di sua competenza; verificare i risultati della complessiva azione Ue.
Alla presenza delle autorità regionali, provinciali e comunali, il convegno si è aperto giovedì 3 aprile,
presso la Sala Maggiore del Kulturni Center "Lojze Bratuž" di Gorizia, introdotto da Mauro Ungaro,
direttore del settimanale goriziano “Voce Isontina”, che ha festeggiato i primi 50 anni della sua vita.
«Una testata» – ha detto il suo direttore – che è sempre stata, come tutti i periodici Fisc, al servizio del
territorio ma aperta al mondo, soprattutto in forza della particolare posizione di Gorizia.
Sono poi intervenuti, per indirizzare i loro saluti ai convegnisti: Damjan Paulin, Presidente della
Società Grafica Slovena, Jurij Paljk, Direttore di Novi Glas, Feliciano Medeot, Direttore della
Società Filologica Friulana, Gianni Torrenti, Assessore alla Cultura della Regione Autonoma
Friuli Venezia Giulia, Federico Portelli, Assessore alla Cultura della Provincia di Gorizia, Ettore
Romoli, Sindaco di Gorizia, Andrea Melodia, Presidente dell’Unione Cattolica Stampa Italiana,
Don Ivan Maffeis, Vice Direttore dell’Ufficio Nazionale per le comunicazioni sociali della Cei,
S.E. De Antoni, Arcivescovo Emerito di Gorizia.
Ha fatto seguito l’intervento del professor Ivan Portelli, cha ha tenuto una relazione storica su Storia
di una chiesa di frontiera: l’Arcidiocesi di Gorizia tra Otto e Novecento, nel corso della quale, con
grande maestria, ha descritto la storia di una Chiesa di grande tradizione e importanza.
Il presidente della FISC, Francesco Zanotti, nel suo intervento, ha illustrato le motivazioni del
convegno nella città di confine, sintetizzato i numeri e gli scopi statutari della FISC e ribadito le
richieste della FISC relative alla tutela del pluralismo dell’informazione, garantendo ai settimanali
cattolici la quota di contributi pubblici, decurtati negli ultimi anni, necessari alla loro sopravvivenza.
La Lectio magistralis – intitolata Bosnia ed Erzegovina: cuore dei Balcani e cartina di tornasole
dell’Europa – è stata tenuta da monsignor Piero Sudar, vescovo ausiliare di Sarajevo, che ha
sottolineato l’importanza del dialogo e, portando l’esempio delle scuole interetniche nate in Bosnia
per iniziativa della sua diocesi, ha espresso la necessità di «trovare il modo di essere una società
interetnica, interreligiosa e interculturale». Monsignor Sudar chiede all’Europa più coraggio:
"Dovrebbe riconoscere che la divisione fatta a Dayton nel 1995, che ha spaccato il Paese in due
parti, non ha portato alcun progresso”. “È ora di cancellare questa linea che divide il Paese – ha
proseguito. “Avvelenata dalle ingiustizie inflitte e patite, la gente del mio Paese non ha ancora il
coraggio di levare lo sguardo, né la capacità d’intuire un futuro migliore”, ha detto Sudar. “Il peso
che ci schiaccia sono le profonde ferite della guerra, che a causa di una pace ingiusta non trovano
modo di guarire”. E l’Europa? Per ora resta solo a guardare, secondo il vescovo di Sarajevo. “La
Bosnia si sente tradita dall’Europa e dalle potenze occidentali, che l’hanno messa in un limbo che
non le appartiene e non le permette di avere un’identità”, ha sottolineato Mauro Ungaro, direttore
del settimanale diocesano di Gorizia, Voce Isontina, promotore del convegno in occasione dei 50
anni di vita della testata. A prendere le redini dovrebbe essere proprio quell’Unione europea che ha
precluso alla Bosnia Erzegovina la possibilità di presentare domanda di adesione finché permane
l’ufficio di alta rappresentanza creato con gli accordi di Dayton, che però non può chiudere fino a
quando la situazione non si è stabilizzata. All’Ue mons. Sudar ha chiesto di “avere più coraggio nel
proporre soluzioni possibili e vivibili”, accantonando quella che “negli ultimi vent’anni si è
dimostrata una soluzione sbagliata”.
Si è poi proceduto alla cerimonia di premiazione dei partecipanti all’edizione 2013 del Concorso
nazionale – giunto alla sesta edizione – dedicato alla memoria del giornalista cattolico "Giuseppe
Fallani", sul tema Europa e territorio: un futuro comune. È risultata vincitrice Marilisa Della
Monica, del settimanale di Agrigento L’Amico del Popolo, premiata da Letizia e Marta Fallani,
rispettivamente figlia e nipote del primo direttore del Sir, nonché segretario Fisc per un trentennio,
per un “articolo – riporta la motivazione del premio – che denuncia una situazione di grave
ingiustizia sociale in un territorio che è ‘ultimo’ per l’Europa e ‘primo’ per chi chiede aiuto e asilo:
Lampedusa e Linosa, simboli delle estreme necessità di giustizia, uguaglianza e solidarietà fra tutti i
cittadini europei”. Presentando il premio, l’ex direttore del Sir Paolo Bustaffa – che fu a fianco di
Fallani negli ultimi 10 anni di lavoro – ha rimarcato la sua “libertà nell’appartenenza”, usando
l’immagine della sfera e del poliedro – più volte proposta da Papa Francesco – come sintesi del suo
“pensiero culturale ed ecclesiale”. “Non il pensiero unico, ma il pensiero comune. La ricchezza – ha
rilevato – è quella del poliedro, dove le diversità sono unite, fanno convivialità e sono la pluralità
bella che i nostri settimanali, con il Sir, possono offrire oggi all’Italia e all’Europa”.
Il pomeriggio si è concluso con la presentazione, da parte di Turismo FVG, di alcuni itinerari
turistico-culturali su Itinerari religiosi e Grande Guerra.
La giornata del 4 aprile – preceduta dalla Santa Messa nella chiesa di Sant’Ignazio, a Gorizia,
celebrata da monsignor Carlo Roberto Maria Redaelli, Arcivescovo di Gorizia – si è aperta con
un convegno nella Sala Maggiore del Kinemax in piazza Vittoria, a Gorizia, organizzata in
collaborazione con l’Istituto di Sociologia Internazionale di Gorizia (ISIG) e resa possibile dal
contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Gorizia. All’incontro – che ha avuto come tema
A Gorizia, fra Europa e Adriatico: dialoghi fra Istituzioni, giornalisti e giovani sul futuro
dell’Europa, dell’allargamento e dell’integrazione – hanno partecipato, insieme ai giornalisti della
FISC, oltre 200 studenti delle scuole superiori di Gorizia. Il dibattito, al quale hanno partecipato
Alfonso Zardi, direttore del Dipartimento per la Democrazia locale e regionale del Consiglio
d’Europa, Manuela Lussi, responsabile del Dipartimento per le questioni economiche ed
ambientali della missione permanente Osce in Albania, e Mateja Zorn del Gect Go, progetto di
cooperazione transfrontaliera tra i comuni di Gorizia, Nova Gorica e Šempeter-Vrtojba, è stato
coordinato e moderato da Daniele Del Bianco, direttore dell’ISIG, il quale ha tra l’altro affermato:
“I confini, nell’Europa dei 28, non sono più quelli amministrativi dei singoli Stati, ma ce ne sono di
soggettivi che ancora oggi permangono”. Del Bianco ha sottolineato l’urgenza di attuare strategie di
cooperazione economica e culturale e ha spiegato l’importanza dei GECT (Gruppi Europei
Cooperazione Territoriale) che, proprio a Gorizia hanno avuto il primo esempio italiano. “Di
Europa non basta parlare, bisogna viverla. Per maturare davvero una coscienza europea è necessario
aprirsi, andare sul posto”, ha affermato Mateja Zorn.
Ecco, quindi, che tornano in gioco i giovani, sempre più numerosi in viaggio da un Paese all’altro
per motivi di studio oppure per svago. Ma c’è anche un altro modo per costruire la “cittadinanza
europea”. Si chiama “Erasmus+”, nome del programma comunitario che rende possibile, per tutti i
giovani tra i 17 e i 30 anni residenti in un Paese dell’Ue, il Servizio volontario europeo (Sve). “È
un’esperienza fondamentale per la costruzione di un’Europa davvero unita”, sottolinea Mattia
Vinzi di Europe Direct Trieste, che ha illustrato le nuove modalità di partecipazione ai progetti
Erasmus, «un altro modo per costruire la cittadinanza europea», «programma comunitario che rende
possibile, per tutti i giovani tra i 17 e i 30 anni residenti negli Stati membri, il Servizio volontario
europeo». Vinzi ha raccontato che cominciò a interessarsi di Europa nel 2001 nelle isole Azzorre,
dove trascorse un periodo, grazie al Sve, in una cooperativa di recupero per tossicodipendenti. Il
Servizio volontario europeo, ha detto, “si propone di promuovere la solidarietà e la tolleranza tra i
giovani, al fine di rafforzare la coesione sociale dell’Ue, ma anche favorire la comprensione
reciproca tra giovani di diversi Paesi e promuovere la cittadinanza attiva dei giovani, in particolare
quella europea”. Perché non è la stessa cosa parlare di Europa e “mangiare alla stessa tavola con
coetanei di altri Paesi”. Un po’ come il servizio civile in Italia e l’esperienza dei “caschi bianchi”,
anche il Servizio volontario europeo rappresenta “un’occasione formativa, di crescita, magari per
ragazzi che non hanno mai fatto un’esperienza di vita fuori dalla famiglia di origine”. La durata va
dai 2 ai 12 mesi e, chi vuole farlo, deve scegliere tra i progetti proposti dai diversi enti, ovviamente
in un Paese diverso dal proprio. Umberto Ademollo dell’Agenzia per la democrazia locale ha
lanciato un monito, perché «se la strage dell’ex Jugoslavia è stata possibile per la debolezza
dell’Unione, oggi, mentre i suoi confini si allargano, manca ancora una visione chiara su quello che
l’Europa vuole diventare».
Nel pomeriggio del 4 aprile, grazie al contributo della Federazione delle Banche di Credito
cooperativo del Friuli Venezia Giulia, presso Palazzo Attems di Gorizia, si è svolta una tavola
rotonda, moderata da Gianni Borsa, corrispondente di Sir Europa da Bruxelles, alla quale hanno
partecipato: Erich Leitenberger, Johanna Touzel, Anna Kowalewska. I relatori si sono
soffermati sulle modalità e le difficoltà del raccontare oggi l’Europa, le sue istituzioni e le sue
problematiche attraverso i massmedia. Ne è emerso il convincimento che il deficit informativo
esiste, eccome, ma che esso possa essere colmato anche grazie al contributo dei giornali del
territorio quali sono i settimanali diocesani, vicinissimi – per loro storia e vocazione – ai lettori, alle
famiglie, ai soggetti vivi delle città e regioni italiane. Giornali radicati nella comunità cristiana,
interpreti delle specificità territoriali del Paese, senza per questo cadere nella tentazione dei
particolarismi che attraversano la penisola. Giornali capaci di essere, al contempo, “di confine”, nel
raccontare una determinata e circoscritta realtà diocesana, e al contempo “ponti” fra la realtà locale
e quella più ampia, facendo proprio quell’universalismo che è un tratto caratterizzante la fede
cristiana. Tale capacità di tenere le radici ben salde nelle città per poi alzare gli occhi verso
orizzonti più distesi, sarebbe posta efficacemente al servizio di quella costruzione europea resasi
necessaria nel secondo dopoguerra per ridare pace e sviluppo all’Europa, continente che oggi – è
sotto gli occhi di tutti – ha ancora bisogno di pace e di sviluppo.
Anna Kowalewska, giornalista di Sir Europa, facendo riferimento alla crisi Ucraina ha ricordato
come in questo momento «l’Europa è in guerra sul confine russo» e, anche se appaiono fatti lontani
«in un mondo globalizzato sono veramente molto vicini», da cui la necessità di «riscoprire il cuore
dell’Europa, ovvero le radici, senza le quali non riusciremo a percepire ciò che ci accade intorno».
Johanna Touzel, portavoce della Comece, ha ricordato l’importanza della partecipazione alla
politica europea, perché l’Ue «ha competenze su immigrazione e diritto d’asilo, lotta alla
disoccupazione giovanile, politiche sociali, sostegno alla famiglia», «argomenti che come cristiani
ci riguardano e per i quali occorre informarsi e diventare attivi».
L’Europa ha sempre avuto dalla Chiesa cattolica un’attenzione benevola e forti incoraggiamenti. I
settimanali diocesani possono essere, con il loro compito informativo, parte viva di quella “Ecclesia
in Europa” tratteggiata da Giovanni Paolo II con la sua esortazione apostolica del 2003. I giornali
“vicini alla gente” interpreterebbero in tal senso, e in maniera originale, una sorta di “principio di
sussidiarietà informativa”, portando nelle case dei lettori quell’Europa così apparentemente lontana
e che invece è ormai parte della nostra vita quotidiana.
La mattinata di sabato 5 aprile si è aperta con la celebrazione della Santa Messa nel santuario di
Castagnevizza, presieduta da monsignor Peter Štumpf s.d.B., vescovo di Murska Sobota (Slo) e
Delegato per le comunicazioni sociali della Conferenza episcopale slovena.
Al termine dei lavori, i partecipanti si sono trasferiti ad Aquileia – città da dove nei primi secoli
dell’era cristiana partirono i missionari che portarono il Vangelo alle popolazioni dell’Europa
centrale – per una visita guidata per gruppi alla scoperta della città romana, organizzata insieme alla
Fondazione "Società per la conservazione della basilica di Aquileia".
PRIMA GIORNATA
Giovedì 3 maggio 2014
IL POPOLO DI DIO, IN CAMMINO NELLA STORIA
Mauro Ungaro *
Vorrei che fossimo capaci di pensare insieme, anche solo per un istante, alla prima volta che
abbiamo messo piede nella redazione di quello che poi sarebbe diventato il nostro settimanale,
cercando di ritrovare, nel profondo della memoria, i volti dei presenti, magari le parole che ci
rivolse il direttore o il caporedattore o il caposervizio che ci accolse. Se poi avessimo il coraggio di
raccontarcelo a voce alta e di condividere insieme questo momento, probabilmente condivideremmo
la trepidazione, certamente ricorderemo con riconoscenza i volti di chi ci accolse e magari anche il
titolo o l’argomento del primo pezzo che ci venne commissionato, ma soprattutto l’orgoglio di
vedere per la prima volta la nostra firma risaltare quasi fosse l’unica parola nera nel mare bianco
della pagina. Se riflettete – spesso ce ne dimentichiamo – quello è il momento che ha segnato in
maniera indelebile la nostra vita, soprattutto professionalmente, ma anche umanamente.
Ed è quel momento che ci permette di essere qui oggi, in questo lembo estremo del nostro grande
Paese. Con la mente, guardandovi, cerco di associare i vostri nomi, i vostri volti, al nome delle
vostre Diocesi: Macerata, Udine, Avellino, Siracusa, Susa, Cava, Agrigento, Verona, Fabriano,
Genova, Firenze, Albano, Jesi. Un elenco che rappresenta un viaggio lungo nell’Italia dei mille
campanili. Una diversità di cui magari non è facile raccogliere l’unità, tanto siamo apparentemente
diversi per storia, formato e tiratura. Ma proprio per questo – e mi permetto di sottolinearlo qui, per
gli ospiti di questa serata, che magari si chiedono chi sono queste persone giunte da tutt’Italia per
festeggiare l’anniversario di un giornale di periferia, di provincia – rappresenta la forza della nostra
Federazione e la consapevolezza che 48 anni fa, la volontà dei padri fondatori di dare vita alla
FISC, rappresentava un’intuizione veramente profetica. Per noi credenti, il dono della profezia non
significa essere dei maghi, ma saper salvaguardare il futuro, facendo discernimento sui segni
dell’azione dello Spirito Santo nella nostra vita, nelle nostre comunità, nelle nostre Chiese.
Oggi più che mai ci rendiamo conto che da soli non riusciremo ad andare da nessuna parte. In certi
momenti, nel passato anche recente, probabilmente lo abbiamo creduto, anche orgogliosamente, ma
oggi sappiamo che non è più così e mi permetto di dirlo da direttore di un settimanale
probabilmente tra i più piccoli, uno di quei settimanali che essendo piccolo, proprio per questo forse
sente la crisi meno di tanti di voi, che professionalmente, strutturalmente e numericamente avete
dimensioni più importanti. I tagli drastici statali dei contributi all’editoria, che così pesantemente
stanno minando il nostro futuro, e il calo degli investimenti pubblicitari, comportano in noi la
consapevolezza che solo facendo squadra riusciremo a continuare a mantenere vivo quel rapporto
che abbiamo sempre saputo instaurare e far crescere in tutti questi anni con i nostri lettori. Quel
rapporto che non è assolutamente e semplicemente un contratto commerciale, come quando si
acquista un etto di pane al supermercato, ma costituisce quello che i cultori del diritto chiamano
legame sinallagmatico, ad indicare la forza della reciprocità di un rapporto che è fondamentale,
perché basato non sull’io compro e tu vendi, ma su reciproca stima e fiducia e soprattutto sulla
condivisione di principi ed ideali. E questo porta a ricordare, prima di tutto a noi stessi, ma anche ai
nostri editori, che il metodo di valutazione di un settimanale diocesano non può mai essere solo il
numero delle copie che riusciamo a vendere. Quelle copie, che se potessero parlare, racconterebbero
innanzitutto la quotidianità sempre più sofferta delle migliaia di famiglie che ci leggono e che
rappresentano la Chiesa, il popolo di Dio, non chiuso nelle sacrestie, ma in cammino nella storia,
come ci ricordano i padri del Concilio Vaticano II. Essere in cammino nella storia – mi permetto di
ricordarlo ad alta voce, perché è una frase che mi piace rileggere ogni mattina – significa comprendere
che le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri, soprattutto di tutti
coloro che soffrono, sono pure le speranze, le tristezze, le angosce dei discepoli di Cristo e nulla vi è
di genuinamente umano che non trovi eco nei loro cuori e forse anche nei nostri settimanali.
Ho citato il Concilio Vaticano II perché Voce Isontina è uno dei fili di quel Concilio. Siamo nati il
16 febbraio 1964. Un gruppo di giovani raccolse l’invito dell’allora arcivescovo di Gorizia,
Monsignor Andrea Pangrazio, attraverso il primo direttore, Monsignor Maffeo Zambonardi, perché
la Chiesa diocesana di Gorizia potesse avere una rinnovata presenza nella società. Per farlo, era
necessario dotarsi di un nuovo strumento di comunicazione sociale. Venne raccolta in questo modo
un’eredità che può essere fatta risalire al 1871, quando vide la luce il primo periodico d’ispirazione
cristiana nella Diocesi. L’intuizione di quel gruppo di fondatori – ce n’è qualcuno in sala, tra cui il
professor Sergio Tavano, che saluto con riconoscenza ed affetto – fu di credere profondamente che
Gorizia potesse diventare luogo d’incontro fra coloro che le ideologie non volevano più far
incontrare, nella certezza che attraverso un cammino di riconciliazione e di recupero della memoria
si potessero intessere i fili dei dialoghi che sembravano spezzati. Erano, non dimentichiamolo, gli
anni della Guerra Fredda. Il Muro di Berlino, che aveva ancora la calce fresca, era stato preceduto, tre
lustri prima, dai muri e dai fili spinati che avevano diviso questa nostra città. E così Voce Isontina si
unì agli Istituti che erano già sorti, penso all’Istituto per gli Incontri Culturali Mitteleuropei, al
Concorso di Canto, al Concorso folcloristico, a riviste come Iniziativa Isontina, intitolata alla
memoria di quel senatore Rizzatti, di cui qui in sala – per quegli strani scherzi del destino – ci sono
alcuni lontani parenti che sono presenti tra noi e collaborano ad un giornale della Sicilia.
Accennavo a Monsignor Pangrazio. Fu lui, lo dico per inciso, il responsabile del settore italiano
della sala stampa al Concilio Vaticano II e nella sua qualità di segretario della Commissione
Episcopale per le Comunicazioni Sociali, intervenne al convegno nazionale dei direttori dei
settimanali diocesani, tenuto a Verona nel maggio 1966, tenendo una prolusione su Il settimanale
diocesano nella realtà odierna. Quell’assemblea fu il luogo dove si stabilì la nascita della nostra
Federazione, che sarebbe avvenuta nel novembre dello stesso anno a Roma, durante la storica
udienza con Paolo VI. Se andate sul sito del Vaticano e cercate il testo di quell’udienza del 1966 del
Papa ai settimanali diocesani, vedrete che inizia con il ringraziamento alle parole che Monsignor
Pangrazio aveva rivolto ai settimanali nel mese di maggio. Nominato segretario generale della
Conferenza Episcopale Italiana, Monsignor Pangrazio rimase ancora arcivescovo a Gorizia per
alcuni mesi, prima di lasciare la cattedra, nella primavera seguente, al nuovo arcivescovo. Come
vedete, quindi, sono forti e particolari i legami tra la nostra Diocesi, il nostro settimanale e la
Federazione, di cui ci vantiamo di essere stati tra i fondatori.
Come tema di questo nostro incontro, abbiamo scelto Europa e confini. Qualcuno, in questi mesi,
scherzando, mi ha chiesto se non siamo stufi di parlare di Europa. No, non lo siamo. Forse perché
qui sul confine, più che altrove, sentiamo che l’Europa è la strada per il futuro dei nostri territori e
dei nostri Paesi. Nel momento in cui lievita il numero di coloro che assumono posizioni
populistiche anti-europee – come ci ha ben fatto conoscere il Sir, di cui saluto il direttore,
Domenico Delle Foglie, qui presente – non crediamo che il dibattito sul futuro del continente possa
essere strumentalmente ridotto solo ad un referendum sull’euro. L’Europa è un’opportunità, prima
di tutto per i nostri giovani, ma chiede di essere guardata non più come un rubinetto di
finanziamento. Chiede coinvolgimento, mentalità di dialogo. Se ognuno dei giovani funzionari delle
multinazionali e del mondo delle lobby politico-finanziarie, che riempiono Place de Luxemburg a
Bruxelles, davanti al Parlamento europeo, all’ora dell’aperitivo serale, portasse la bandiera del
proprio Paese, ci accorgeremmo che gli italiani sono tra i meno rappresentati e questo vorrà pur dire
qualcosa. Fare un convegno del genere a Gorizia, può magari sembrare scontato. In verità, noi non
vogliamo parlare dei confini materiali o di quelli invisibili agli occhi, ma altrettanto pesanti e che
anche nel nostro territorio albergano ancora nel cuore di molti. Quei confini che portano a
considerare che parli una lingua diversa, che professi una religione diversa o vieni culturalmente da
luoghi a noi non simili, da guardare con diffidenza, nel migliore dei casi o, più spesso, da far
sparire. Vogliamo cercare di dare del confine una chiave di lettura positiva, come luogo dove gli
estremi s’incontrano e incontrandosi si arricchiscono reciprocamente. Lo facciamo in questa nostra
terra, dove il mondo latino, slavo e tedesco sono entrati in contatto per secoli, cercando di superare
l’inevitabile differenza e donandosi quel qualcosa di reciproco, che ha arricchito ciascuno, facendo di
questa terra veramente un unicum in tutto il continente, qui dove l’Europa respira – come diceva il
Santo Padre Giovanni Paolo II – con due polmoni: l’occidente e l’oriente. In questa terra, eredi di
quella Chiesa madre di Aquileia, dove il Vangelo è stato portato ai popoli dell’Europa centrale nei
primi secoli del Cristianesimo. Non vado oltre. L’emozione rischierebbe di rendermi veramente
troppo prolisso. La storia del settimanale la troverete nel numero speciale che è nelle vostre mani, che
contiene il contributo di tanti ed anche l’analisi sull’oggi e sul possibile domani del nostro territorio.
Concludo con i grazie. Grazie a quanti hanno contribuito alla fedeltà di Voce Isontina in questo
mezzo secolo. Parto dai direttori: Monsignor Maffeo Zambonardi, Lorenzo Boscarol, Padre Antonio
Vitale Bommarco, l’Arcivescovo che tenne l’interim per alcuni mesi, Andrea Bellavite, Monsignor
Giuseppe Baldas. Grazie alle autorità presenti, regionali, provinciali, comunali. Alle autorità
militari. Grazie agli Arcivescovi, che hanno sostenuto il giornale: da Monsignor Pangrazio a
Monsignor Cocolin a Padre Bommarco; da Monsignor Dino De Antoni, presente in sala, a
Monsignor Carlo Roberto Maria Redaelli, che oggi non ha potuto essere presente con noi, perché in
questi momenti sta incontrando Monsignor Capovilla e sta guidando un pellegrinaggio di sacerdoti
diocesani nei luoghi di Paolo VI e Giovanni XXIII. Grazie ai collaboratori, tantissimi e ce ne sono
molti, anche giovani, qui in sala. Questo è un segno di speranza per il nostro futuro. Grazie agli
amministratori, ai diffusori, ai sacerdoti e ai religiosi. Vi chiedo un applauso per una persona
speciale che è qui presente in sala. Credo che in questo momento sia il più anziano collaboratore di
Voce Isontina, Giuseppe Slanisca: 95 anni tra qualche giorno e per lunghi anni è stato colui che è
riuscito a far quadrare i conti del giornale. Grazie a chi ha reso possibile quest’evento: Pierpaolo,
Selina, Simonetta, ai quali si sono aggiunti Mariana e Sergio. Un grazie a chi ha ritenuto possibile
tutto questo: portare un evento così grande in una città così piccola come Gorizia. Grazie
all’amministrazione regionale, anche attraverso Turismo FVG, alle amministrazioni provinciale e
comunale, alla Fondazione Cassa di Risparmio di Gorizia, alla Federazione delle Banche di Credito
Cooperativo del Friuli Venezia Giulia, alla Coldiretti, al Centro Culturale della minoranza slovena,
che ci ospita, all’Istituto di Sociologia Internazionale di Gorizia, alla Fondazione Società per la
conservazione della Basilica di Aquileia. Grazie ai relatori, in primo luogo a Monsignor Sudar.
Grazie soprattutto a Voi, a ciascuno di voi singolarmente. Vorrei veramente stringere la mano e dire
grazie. Arrivare qui non è semplice. Vi siete sobbarcati un lungo viaggio. Di questo vi rendiamo
veramente merito. Vorremmo rendere queste giornate indimenticabili. Vi porto infine i saluti di chi
avrebbe voluto essere qui tra noi, ma non ha potuto: Carmine Mellone e Claudio Tracanna.
*Direttore di “Voce Isontina”
SALUTO di
Damjan Paulin *
Questo centro porta il nome di Lojze Bratuž, che era un musicista, organista, compositore, vittima
del fascismo solo perché era sloveno. Vi ringrazio per aver scelto questo Centro, che è un luogo
d’incontro tra comunità diverse, tra sloveni, italiani, friulani, sloveni al di là dell’ex confine e
sloveni presenti nella regione Friuli Venezia Giulia. È un Centro polifunzionale, con una sala
grande, una sala piccola, spazi per mostre espositive, una palestra per attività sportiva, la sede dei
boy scout, un centro musicale, con tante associazioni. È un Centro vivo, che raggruppa 200 sportivi,
100 boy scout, 300 giovani musicisti, innumerevoli associazioni della provincia di Gorizia.
Il lavoro che voi svolgete è importantissimo, perché informate e formate specialmente i giovani.
Formulo a Voce Isontina, per il suo 50mo anniversario, i migliori auguri di continuare nella propria
attività per i prossimi 50 e più anni.
*Presidente della Società Grafica Slovena
SALUTO di
Jurij Paljk *
Solo un caro saluto. Sono molto contento e ringrazio anche Mauro e la sua squadra, specialmente per
una cosa: cerchiamo non solo di convivere, ma di vivere questa terra. Faccio mie le parole di Mauro,
quando dice che purtroppo a Gorizia bisogna venire apposta e poiché siete venuti, anche da parte del
nostro settimanale sloveno – che è il fratello di Voce Isontina oppure Voce Isontina la sorella nostra,
come volete, collaboriamo insieme – il nostro augurio è che trascorriate tre giorni bellissimi.
*Direttore di “Novi Glas”
SALUTO di
Feliciano Medeot *
Il Friuli orientale è una briciola della Grande Patria, delle immense stelle che solo il Signore
conosce per nome. Questo forse è il saluto migliore per queste giornate di lavoro e soprattutto un
modo per conoscere Gorizia. È una città che ha una storia importante. A meno di un chilometro da
qui, abbiamo un confine che non è confine. Ma proprio questo confine che non è confine è lo
sguardo per domani. Dieci anni fa, il primo maggio del 2004, si apriva una nuova Europa. Cento
anni fa si chiudeva un’altra Europa e questo è un discorso che deve cominciare, deve continuare.
Soprattutto il mondo cattolico, dei cattolici impegnati nel giornalismo, può dare una svolta, anche
per quanto riguarda la nostra esperienza. Vi voglio salutare usando una parola friulana: mandi. Vuol
dire: vi mettiamo nelle mani di Dio e questo forse è l’augurio migliore.
*Direttore della Società Filologica Friulana
SALUTO di
Gianni Torrenti *
Porgo a voi tutti i saluti della Presidente, Debora Serracchiani. Sono contento di partecipare ad una
riflessione, che riguarderà anche la comunicazione, nel senso che una riflessione sulla capacità di
comunicare e sulle prospettive che il giornalismo ha, è fondamentale. Perché c’è un’evoluzione
della comunicazione molto rapida, molto importante, che impone la sfida di riuscire a mantenere la
capacità di un linguaggio realmente popolare. Quello che hanno i vostri giornali, l’incardinamento
al quotidiano, sposandolo con una carica etica forte. Quindi, popolarità, facilità di lettura, ma anche
capacità di orientamento. Benvenuti in Friuli Venezia Giulia.
*Assessore alla Cultura della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia
SALUTO di
Federico Portelli *
Anche da parte dell’Amministrazione Provinciale un caro saluto, un ringraziamento in realtà a chi
ha così bene e con lungimiranza organizzato quest’appuntamento nel nostro territorio. Quando, più
o meno un anno fa, il consigliere provinciale Silli venne a chiedermi un’opinione su come
potevamo collaborare all’iniziativa, fui subito entusiasta. Il tema scelto fu il secondo motivo per cui
decidemmo di sostenere l’iniziativa: l’Europa e i suoi confini, che ha visto il nostro territorio come
triste protagonista del bene e del male, nella storia del Novecento. La prima parte del secolo
iniziava 100 anni fa con uno dei fronti più sanguinosi di quell’inutile strage. Il ventennio fascista
che seguì, in particolare in queste terre – il fascismo di confine – aggiunse altro dolore alle
minoranze, in quel caso alla minoranza slovena. Ci fu poi la seconda guerra mondiale, con un
supplemento di sofferenza locale: le foibe. Un confine che separa il noi da altri e così a chiudere,
nel primo cinquantennio del Novecento, quella che fu, fino allo scoppio della prima guerra
mondiale, prima dell’escalation dei nazionalismi europei, una terra di dialogo e di fratellanza tra
culture e lingue. Credo, quindi, che nel programma che avete previsto verrà messo in luce quello che
è stato questo territorio e quel filo di dialogo che non s’interruppe negli anni più duri. Verrà messo in
luce chi con coraggio e con fatica seppe stare dalla parte giusta. Con questo spirito, vi rinnovo un
caloroso saluto ed ascolterò con piacere il vostro dibattito e le vostre relazioni, in particolare quella di
Monsignor Sudar su quella che è stata la vicenda di Sarajevo e della Bosnia, che purtroppo vide il
secolo breve concludersi con un nuovo eccidio e con un’inutile strage. Grazie ancora a tutti voi e un
ringraziamento particolare a Voce Isontina e un augurio per i prossimi 50 anni di vita.
*Assessore alla Cultura della Provincia di Gorizia
SALUTO di
Ettore Romoli *
Quando Mauro Ungaro mi disse per la prima volta che a Gorizia si sarebbe tenuto il convegno
nazionale della FISC, il primo pensiero fu quello che oggi lo stesso Ungaro ha ripetuto più volte: a
Gorizia si viene per caso e questo è un bel caso. Perché non sempre questa città ha avuto la
possibilità di mettersi in mostra, di farsi conoscere. Tutte le occasioni nelle quali questo fatto può
avvenire sono estremamente importanti, tanto più se di fronte ad una platea di giornalisti, ad una
platea qualificata di direttori di giornali diocesani, cioè di persone che hanno la possibilità di tenere
il polso della Nazione. Voi avete una posizione privilegiata, pochi come voi conoscono il territorio.
Questa tre giorni sarà faticosissima, ma sarà un’occasione unica, perché questo territorio è un
crogiuolo di culture, che nella storia si sono anche scontrate. Oggi, questa questione è per fortuna
superata. Guardiamo con serenità al futuro, anzi cerchiamo di trarre vantaggio dalla situazione in
cui ci troviamo Vi invito a far conoscere questo territorio sui vostri giornali.
*Sindaco di Gorizia
SALUTO di
Andrea Melodia *
Anzitutto, voglio dirvi che sono emotivamente coinvolto nell’essere qui, dal luogo e della storia.
Credo che in un momento come questo – le elezioni europee sono vicine – sappiamo tutti quanto sia
problematico pensare all’Europa oggi, per una parte significativa della Nazione italiana e non solo
italiana. Dobbiamo fare grandi sforzi per ricostruire il senso dell’Europa e partire da una terra di
confine come questa, con una storia così complicata alle spalle, può essere veramente una grande
spinta e come comunicatori, come giornalisti dobbiamo ricordarlo.
Detto questo, vorrei aggiungere poche parole in merito alla collaborazione tra UCSI e FISC. Credo
che non ci sia mai stato nella storia un periodo così fecondo da questo punto di vista. Poche
settimane fa, ci siamo incontrati a Roma, forse per la prima volta, ufficialmente da molto tempo a
questa parte, addirittura, per far partire un programma di collaborazione rispetto alla formazione.
Abbiamo stabilito che in alcune regioni, tra cui il Triveneto, ci saranno prossimamente iniziative di
formazione giornalistica in collaborazione diretta tra UCSI e FISC. Credo che questo sia veramente
un salto di qualità. Nel vostro ultimo convegno a Roma, il cardinal Bagnasco ha parlato della
collaborazione tra UCSI e FISC come una cosa importante. Ovviamente, gliene siamo grati. Io
credo che in un momento per la Chiesa italiana così importante, di trasformazione, con cose che
stanno accadendo di cui non conosciamo evidentemente gli esiti, dobbiamo tutti metterci nella
prospettiva di accettazione del cambiamento e di continuazione nel fare le cose bene, per essere
efficaci ed efficienti nella nostra capacità di formare anzitutto la qualità della nostra professione.
L’UCSI è impegnata in un grande sforzo di ricerca sull’etica dei media e sul fronte della
formazione. Credo che su questo dobbiamo collaborare fino in fondo. Io mi sono chiesto più volte
che senso possa avere per gli aderenti ad un’Associazione come la FISC – che è fatta
fondamentalmente di settimanali e di giornalisti che hanno tutti una storia di impegno eticoprofessionale, vissuta concretamente nel territorio giorno per giorno – trovare una collaborazione
con un’organizzazione un pochino più evanescente, com’è l’UCSI storicamente. Noi siamo
prevalentemente giornalisti cattolici che lavorano nei media laici, in Rai o a Mediaset. Che senso ha
la collaborazione fra voi, giornalisti cattolici presenti nel territorio e un’associazione un pochino più
tradizionale come la nostra? Credo che il senso sia quello di far vivere entrambe le associazioni,
entrambe le esperienze in un incontro comune, andando a misurarsi con la comunicazione che cambia,
con la grande rivoluzione che sta avvenendo, con la necessità che tutti quanti abbiamo, sul piano
professionale, di scoprire un modo nuovo di comunicare con il nostro pubblico e i nostri lettori. Per
ricreare insieme il mondo della comunicazione, senza sciocche separatezze tra vecchi e nuovi media,
senza contrapposizioni tra quello che si faceva una volta e quello che si dovrebbe fare oggi. Tutti quanti
insieme dobbiamo crescere e trasferire il nostro impegno nel nuovo mondo della comunicazione.
*Presidente dell’Unione Cattolica Stampa Italiana
SALUTO di
Don Ivan Maffeis *
Porto qui la disponibilità del Segretario Generale ad incontrare la prossima settimana i dirigenti
della FISC, per vedere insieme come accompagnare questo momento, che – com’è stato ricordato –
è un momento di trasformazione, di cambiamento, dove la CEI vuole esserci e contribuire.
Vengo da un paese, il Trentino nord-occidentale, dove appena sopra, in alta quota, c’era il confine.
Uno di quei confini assurdi, dove ci si sparava da una cima all’altra senza sapere il perché, dove
dopo ogni battaglia, venivano calate nello stesso crepaccio, vittime di una parte e dell’altra. Non
voglio banalizzare quell’assurda guerra, come sono assurde tutte le guerre e prenderla come icona
della situazione difficile in cui versano i giornali della FISC in questo momento. Però noi ci
sporgiamo su questa situazione – il calo dei contributi, il calo degli abbonamenti, il calo a volte di
una certa fiducia – ed è inevitabile che provochi inquietudine e preoccupazione. Eppure, l’alta
montagna oggi ci consegna non solo la memoria di ieri, ma anche un orizzonte ampio, un respiro.
Siamo qui non solo contenti di essere a Gorizia, ma anche di quest’ennesima occasione di ritrovarci
come Federazione, a ridirci che abbiamo un patrimonio di presenza sul territorio, di cultura, di
appartenenza ecclesiale, che fa la differenza, che può fare la differenza anche oggi. Tanto nelle
nostre redazioni resta ancora da fare. Vogliamo farlo insieme e vogliamo farlo soprattutto con la
fiducia che torneranno i prati.
*Vice Direttore dell’Ufficio Nazionale per le comunicazioni sociali della Cei
SALUTO di
S.E. Dino De Antoni *
Ringrazio il Vescovo Carlo dell’invito che mi ha fatto ad essere presente e a sostituirlo, almeno per
questa serata. Significa che l’usato, a parte che è sicuro, è anche supplettivo. Lascerò quello che ho
scritto al direttore e vorrei aggiungere che essendo l’ultimo a parlare, la brevità sarà apprezzata e mi
esonera dall’essere brillante.
Cosa dirvi? Due cose. Intanto ringraziare tutti voi, giornalisti della stampa settimanale cattolica,
perché la vostra rilettura è spesse volte analitica della realtà del territorio. Però, per questo anche più
preziosa. Raccogliete i frammenti che la stampa a più larga tiratura non riesce a raccogliere. Voi
mettete sui vostri giornali la realtà delle vostre comunità. Cercate di leggere e d’interpretare gli
avvenimenti alla luce di una visione cristiana della vita. E quindi vi ringrazio tutti e lasciate che io
faccia un ringraziamento particolare alla direzione, alla redazione, ai collaboratori del nostro
settimanale diocesano, che vi ha invitati per questo cinquantesimo. Ecco, voi sapete per esperienza
personale com’è difficile portare avanti un settimanale diocesano, ancora di più con la riduzione dei
contributi, fino ad arrivare a domandarsi: ma la nostra sopravvivenza è ancora per molto tempo
assicurata? Io mi auguro che qualcuno capisca che importante è continuare. Non mi pare che ci sia
in nessun giornale di tiratura più ampia, ad esempio, una pagina specifica per i friulani. Si
perderebbe una parte importante di questa cultura. Abbiamo poi anche Novi Glas, abbiamo anche la
cultura slovena che portiamo avanti. Quindi grazie a Voce Isontina, grazie a Novi Glas e
ringraziamo anche Vita Cattolica, che dà spazio al friulano anche lei.
*Arcivescovo Emerito di Gorizia
STORIA DI UNA CHIESA DI FRONTIERA:
L’ARCIDIOCESI DI GORIZIA TRA OTTO E NOVECENTO
Ivan Portelli *
La storia di Gorizia è caratterizzata dal fatto che il confine sembra quasi connaturato. Sembra un
elemento che fa parte del paesaggio e delle persone. Un confine che per quanto sia il prodotto
dell’agire umano, ha segnato a lungo e in profondità queste terre. È un confine che si è spostato, e
spesso si è spostato sulla testa delle persone, che ha costretto molti a lasciare queste terre, molti ad
adeguarsi, molti a nascondere la propria identità. È un confine che ha segnato la Chiesa goriziana
sin dalla sua origine. Dovete pensare che quando nasce la Diocesi goriziana, nel 1751, nasce per la
divisione di quella che all’epoca era la più grande Diocesi d’Europa, quella di Aquileia. E nasce per
un’esigenza politica, perché il patriarcato di Aquileia incideva su due territori diversi, uno
appartenente alla Repubblica di San Marco, a Venezia, e l’altro alla Casa d’Austria. Dopo quasi due
secoli di trattative diplomatiche, a metà del ‘700 si riesce, per un motivo politico e giurisdizionale, a
dividere quest’immensa Diocesi, che comprendeva territori vastissimi, che andavano, per la parte
friulana, dall’udinese e raggiungevano la Stiria, dall’altra parte. Quindi, potete immaginare il
territorio molto ampio del centro Europa che era conglobato sotto la Diocesi aquileiese. Quando
nasce Gorizia, quindi, nasce per un’esigenza politica, ma anche per un’esigenza pastorale, perché
bisognava dotare questi territori di un Vescovo residenziale, capace di gestire il territorio. Sarà
nell’’800 che, accanto al confine politico, emerge con maggiore forza un altro confine, quello
culturale, quello delle identità complesse di queste zone. La Diocesi di Gorizia, per quanto ridotta
rispetto alla Diocesi settecentesca, era comunque una Diocesi molto ampia, che comprendeva oltre
alla parte attualmente italiana del territorio diocesano, anche tutta la parte attualmente in territorio
sloveno. Era tre volte più grande rispetto al territorio attuale. Era una Diocesi complessa, quindi,
una tipica Diocesi austriaca – se vogliamo – nata per esigenze amministrative, nella quale
convivevano genti di lingua diversa e nel corso dell’’800 queste diversità diventano un punto
importante, perché comportano una conquista identitaria, soprattutto nella parte slovena, dove
matura il percorso di identità nazionale. In questo percorso, il clero ha un ruolo fondamentale,
perché spesso e volentieri sono gli intellettuali, ai quali la popolazione fa riferimento. Sono coloro
che codificano la lingua, la insegnano e diventano il punto di riferimento delle loro comunità. Nella
Chiesa austriaca, c’è un legame molto forte con lo Stato, spesso e volentieri si è parlato di una
Chiesa legata allo Stato, che quasi facesse parte dell’amministrazione dello Stato ed in effetti nasce
un po’ così. Poi, nel corso dell’’800 le cose si mettono un po’ in ordine. La Chiesa comincia ad
avere linguaggi autonomi, ma comincia anche ad avere necessità, davanti alle nuove sfide che il
mondo sta manifestando, a dover organizzare un laicato, a doverlo organizzare politicamente. Ecco
che nella realtà goriziana quest’organizzazione politica ha delle sfaccettature molto complesse. Da
un lato c’è un Magistero episcopale che cerca sempre di far emergere una dimensione politicocattolica unitaria tra italiani e sloveni, dall’altra parte c’è una realtà delle cose dove le due comunità
tendono ad organizzarsi in maniera autonoma e indipendente, anche con ritmi diversi. Perché,
mentre nel mondo sloveno l’identità cattolica è quasi connaturata all’identità nazionale e di
conseguenza i leader politici, non solo sacerdoti ma anche laici, non conoscono una divisione, o la
conoscono a fatica, tra liberali e cattolici, nel mondo italiano il clero agisce profondamente nella
società, ma su posizioni che definiremmo lealiste, che non ricercano la rottura con lo Stato
austriaco. All’interno della comunità italiana c’è una componente liberal-nazionale che sottolinea
con più forza l’identità italiana e alla fine dell’’800 comincerà a maturare e a sviluppare un’idea che
si tramuterà in irredentismo. In questa situazione, il clero ha un ruolo fondamentale. È il primo
organizzatore politico del laicato, è il clero che interviene e che diventa il rappresentante del
territorio, ai vari livelli, dalle Diete Provinciali fino al Parlamento a Vienna. È il clero che riuscirà,
alla fine dell’’800, nella parte italiana della Diocesi, ad organizzare una rete di società, Casse
Rurali, Consorzi, Società economiche, che favoriranno la rinascita del territorio. Quel movimento
cristiano-sociale, che in Austria aveva dei connotati particolari, ma che nella parte italiana è un po’
a metà strada tra quella che sarà la realtà austriaca e quella che costituirà la diffusione in Italia del
movimento delle Casse Rurali. Sarà un sacerdote, in particolare, Luigi Faidutti, che raccoglierà
questo movimento e lo farà crescere e che a ridosso della prima guerra mondiale, nel ’14, diventerà
anche la massima autorità provinciale, Capitano provinciale. Questi preti che fanno politica, che
s’impegnano direttamente, vivono come un dramma profondo la prima guerra e soprattutto
l’inserimento nel contesto italiano. Il passaggio della prima guerra mondiale sarà un vulnus
profondo all’interno della Diocesi. Le autorità italiane interneranno gran parte del clero, perché
accusato di un profondo legame con lo Stato austriaco o comunque perché dimostrava un
atteggiamento lealista nei confronti della monarchia. Dopo la guerra, quest’accusa peserà
notevolmente sul clero, tanto che tutto questo sistema organizzativo, politico, sociale ed economico,
verrà a mancare, sostanzialmente verrà spazzato via, sarà impossibile riorganizzare effettivamente
una centrale operativa cattolica nel dopoguerra italiano a Gorizia. Sarà compito di un grande
vescovo, Monsignor Sedej, sloveno di nascita – come gran parte dei Vescovi goriziani dell’’800,
dove era più semplice per un ecclesiastico di madrelingua slovena conoscere anche l’italiano e poter
predicare – che cercherà di tenere insieme questo complesso diocesano minacciato da più fronti: da
un lato, in ambito italiano, dalla fatica di dialogo con le autorità occupanti, dall’altro, in ambito
sloveno, dalla minaccia della snazionalizzazione, ovvero dal tentativo operato dalle autorità italiane,
di armonizzare la popolazione in qualche modo ai nuovi occupanti. Il fatto che nel 1927 scompaia
la scuola pubblica in lingua slovena in un territorio in cui il 60% della popolazione era di questa
lingua, rappresentò un dramma notevole. Saranno i sacerdoti, all’interno delle Parrocchie, a tener
viva la lingua, costituendo delle vere e proprie scuole parrocchiali. Il fascismo, che ha bisogno di
snazionalizzare e di dimostrare l’italianità, sarà vissuto con fatica in queste terre. Il fascismo si
ripercuoterà sulla Diocesi. Nel clero italiano l’atteggiamento è ondivago, certamente la vicinanza
con le strutture italiane, ovviamente anche attraverso punti di vista positivi, come l’inserimento
dell’Azione Cattolica, che ebbe un grandissimo successo all’interno del mondo friulano e che tutti i
sacerdoti cercavano di far nascere all’interno delle loro Parrocchie. L’episcopato di Monsignor
Margotti, negli anni Trenta, rappresenterà il culmine di questo tentativo, dal punto di vista
ecclesiastico, d’inserire il goriziano all’interno del mondo italiano. Un inserimento molto faticoso,
che si scontrerà anche con un altro grande vulnus, la seconda guerra mondiale, dove un altro
confine si manifesterà, che avrà una valenza ideologica: quello tra la Jugoslavia socialista e l’Italia.
Un confine che porterà gravi drammi all’interno anche della Chiesa. La Diocesi verrà ridotta a
quella che è attualmente. Tutta la parte oltreconfine verrà organizzata in amministrazione apostolica
e, dal 1947 al 1977, quella sarà la situazione in cui la parte goriziana e triestina rimarranno nel
territorio jugoslavo con tutta una serie di complicazione per cui il regime comunista, ovviamente,
sarà molto pesante, soprattutto nei primi anni, verso il clero. È tristemente noto l’episodio del primo
amministratore apostolico designato, che viene per due volte ributtato oltre confine dalle autorità
jugoslave. Sarà anche, dal punto di vista del clero, una fatica riuscire a trovare un modus vivendi.
Alcuni sacerdoti pagheranno questo anche con la vita. Altri svilupperanno un modo di concepire
questa realtà partendo dal presupposto che il comunismo passerà ma la nazione resterà. La Chiesa
goriziana si muoverà, nella seconda metà del Novecento, nello stesso modo della Chiesa in
generale. Incontrerà tutte le sfide: quella con il mondo del lavoro, la sfida del Vaticano II. Lo farà in
una dimensione periferica. Se nel mondo austriaco Gorizia era sede arcivescovile, sede
metropolitana e, prima della seconda guerra mondiale, ospitava un Seminario centrale per quattro
diocesi – nel quale studiavano chierici italiani, sloveni e croati – nella Repubblica Italiana il ruolo di
Gorizia diventa un po’ marginale, un ruolo di ponte, di apertura e d’incontro, quello che è
connaturato in questa realtà, dove culture diverse s’incontrano, si scontrano e arrivano anche a delle
sintesi, a dei momenti di unione, se vogliamo, a volte faticosi a volte più semplici.
Vorrei concludere raccontandovi la storia di un prete di Gorizia, che mi sembra molto significativa
in questa dimensione di confine e di frontiera (la parte che segue è tratta dalla voce Luigi Fogar
dell’Enciclopedia Treccani, n.d.r.). Si tratta di Luigi Fogar. Nacque a Peuma, presso Gorizia, il 27
gennaio 1882, penultimo di nove figli, da Luigi, agiato commerciante e proprietario terriero, e da
Caterina Zotti. Compì gli studi ginnasiali a Gorizia e, dal 1898, nell'istituto diretto dai benedettini
dell'abbazia di Marienburg (Merano), dove nel 1903 conseguì il diploma di maturità. Decise allora
di intraprendere la carriera ecclesiastica, contrariando il padre, di idee liberali. Dal 1903 al 1907
frequentò la facoltà teologica di Innsbruck come allievo del "Canisianum", prestigioso collegio
internazionale dei gesuiti, punto di riferimento per i chierici austriaci destinati a brillanti carriere
ecclesiastiche. Ordinato nel 1907 dal vescovo di Bressanone, studiò per un anno teologia
all'università Gregoriana di Roma. Nel 1908 tornò a Gorizia, dove venne nominato prefetto del
Seminario minore. Dal 1910 fu insegnante di religione all'imperial-regio ginnasio di Gorizia e
professore di teologia fondamentale al Seminario centrale. Allo scoppio della prima guerra
mondiale si recò a Lubiana, dove si dedicò all'assistenza degli sfollati goriziani, garantendo in
particolare a quelli italiani predicazione, confessione ed istruzione religiosa nella lingua madre. In
qualità di presidente del comitato per i profughi visitò i campi di internamento. Continuò nel
frattempo gli studi e nel 1917 conseguì ad Innsbruck il dottorato in teologia, passando poi a Graz,
dove diresse il convitto per gli studenti sfollati. Dopo Caporetto tornò a Gorizia come segretario
dell'arcivescovo F.B. Sedej; venne nominato inoltre professore di storia ecclesiastica e direttore
spirituale al Seminario centrale, che serviva tutte le diocesi del Litorale (oltre a Gorizia, TriesteCapodistria, Parenzo-Pola e Veglia). Durante la guerra si adoperò per l'apertura del ginnasio
italiano, che sarebbe stata attuata solo alla fine del conflitto. Cionondimeno al passaggio di Gorizia
sotto la sovranità italiana – quando Fogar entrò a far parte del comitato che amministrava la città
durante il trapasso dei poteri – la cattedra gli sarebbe stata revocata dalle autorità d'occupazione.
All'accusa di "austriacantismo" contribuì sicuramente non poco la sua protesta dal pulpito per la
minacciata abolizione dell'insegnamento religioso nelle scuole, prospettata dal Commissariato
generale civile in uniformità con la legislazione vigente in Italia. Il vescovo lo nominò catechista
dell'educandato di Nótre-Dame. Fu soprattutto però l'attività svolta nelle file del Partito popolare
goriziano, schierato sino agli ultimi giorni del conflitto su posizioni lealiste nei confronti della
monarchia asburgica, a renderlo sospetto alle nuove autorità, tanto più che Fogar ne capeggiava la
corrente di maggioranza, che propugnava il ritorno dei deputati Faidutti e Bugatto, considerati dalle
autorità d'occupazione, e da una parte stessa degli iscritti, troppo compromessi con il passato governo.
Nel 1922 fondò il circolo giovanile cattolico "Per crucem ad lucem", aderente all'Azione cattolica
italiana: l'impegno a favore di tale organizzazione avrebbe caratterizzato anche la sua attività successiva
di vescovo di Trieste. Dopo le dimissioni del vescovo Bartolomasi, il 7 luglio 1923 Pio XI lo nominò
infatti vescovo di Trieste e Capodistria. La consacrazione ebbe luogo a Gorizia il successivo 14 ottobre.
Si trattò di una scelta osteggiata dagli ambienti fascisti locali per la fisionomia politica del
designato, ma che poté vantare numerosi argomenti a proprio favore nel momento in cui, con tutta
evidenza, da parte del governo italiano si puntava all'accantonamento dei vescovi sloveni nelle
diocesi del confine orientale. Fogar era italiano ed aveva avuto una formazione, oltre che di alto
livello, "anomala" rispetto a quella dei corregionali, i cui studi si svolgevano normalmente presso il
Seminario centrale di Gorizia, ritenuto una roccaforte dello "slavismo". Aveva una conoscenza
appena sufficiente delle lingue slovena e croata e sino a quel momento non risultano sue prese di
posizione in merito alle misure che sin dall'immediato dopoguerra tendevano all'assimilazione in
tempi brevi delle minoranze.
La procedura di insediamento non fu tuttavia semplice: Fogar rifiutò di chiedere il placet
governativo, accampando motivazioni di principio. Non si può escludere che per suo tramite la S.
Sede sondasse la disponibilità del nuovo governo a recepire il principio secondo cui la Chiesa
conservava i suoi diritti anche di fronte ad un mutamento di confini, primo passo per riconsiderare
alcuni aspetti della legislazione ecclesiastica in Italia. L'accondiscendenza di Mussolini, che
permetteva l'insediamento del nuovo vescovo il 26 marzo 1924, può essere letta come uno di quei
segnali di buona volontà su cui si costruirono le premesse della discussione concordataria.
Fogar fu vescovo di Trieste negli anni della più dura applicazione della linea italianizzatrice. La
base ideologica del blocco di forze che sosteneva Mussolini non prevedeva la permanenza di corpi
estranei nel tessuto nazionale e individuava nel clero sloveno e croato un fattore decisivo di
resistenza a quel processo di assimilazione che rappresentava la "inesorabile" conseguenza della
"superiore" civiltà italiana. Accettando le dimissioni del Bartolomasi, la S. Sede non intendeva però
cedere su punti che avrebbero rischiato di compromettere la sua presenza tra le popolazioni allogene
(come venivano definite nel linguaggio burocratico le nazionalità diverse da quella dominante).
Catechesi e predicazione nella lingua dei fedeli erano da sempre strumenti irrinunciabili. In questa
direzione vanno lette le istruzioni inviate al Fogar nel 1924 dal Segretario di Stato Gasparri, il quale
lo metteva in guardia da tutto ciò che avrebbe potuto farlo apparire corresponsabile con l'autorità
civile di misure impopolari presso le popolazioni slave e lo esortava a vigilare in particolare su
predicazione e catechismo in lingua materna.
Il nuovo vescovo non tardò a rivolgersi alla S. Sede, lamentando (1925) le pressioni che il clero
sloveno e croato subiva proprio su questo terreno, prospettando il pericolo dello scisma in direzione
della Chiesa ortodossa: un'eventualità non troppo astratta se si pensa che un episodio analogo si era
verificato proprio nella diocesi di Trieste appena un ventennio prima. Le rimostranze vennero
trasmesse al governo dal gesuita padre Tacchi Venturi, tramite privilegiato fra la segreteria di Stato
ed i vertici del regime. Le assicurazioni che ne derivarono erano destinate a restare lettera morta.
Nel 1925 la prospettiva dell'assimilazione graduale di sloveni e croati (alla quale era favorevole anche
parte del clero italiano) cedette il passo a quella della snazionalizzazione in tempi brevi. In particolare
per quanto riguardava il clero, al sostegno finanziario a sacerdoti e religiosi attivamente schierati
nell'opera di "italianizzazione" si affiancò la repressione del clero allogeno, volta ad ottenerne
l'allontanamento. Accusati dalla stampa di fornire appoggio ai gruppi nazionalistici clandestini,
numerosi sacerdoti allogeni si videro negata la cittadinanza italiana, mentre venivano sciolte tra il
1926 e il 1927 le organizzazioni a carattere economico e culturale di cui erano stati promotori.
Su questo terreno Fogar non si sarebbe mostrato mai disposto a cedimenti. La difesa del diritto dei fedeli
all'istruzione religiosa e predicazione nella lingua materna fu un punto su cui si dimostrò irriducibile.
Con la pastorale del febbraio 1925 intervenne per la prima volta pubblicamente, a favore dei molti
sacerdoti divenuti bersaglio di accuse "ingiuste" da parte di "persone anche influenti". La linea di difesa
abbozzata in questo passaggio era quella su cui si sarebbe attestato negli anni successivi.
Il 12 febbraio 1927 venne siglato un primo accordo tra il vescovo, il prefetto dell'Istria ed il
Partito nazionale fascista. Introdotta ovunque la predica in italiano, come richiesto dal "trapasso
etnico" in atto, il mantenimento di quella in lingua slovena e croata diventava una concessione a
termine, in attesa che immigrazione e italianizzazione cambiassero il volto etnico della zona. Nel
1928, insieme con l'arcivescovo di Gorizia Sedej e con quello di Parenzo-Pola Pederzolli, mandò
un memoriale a Mussolini sollecitandone l'intervento presso le autorità periferiche. Si trattava di
una distinzione di responsabilità che i fatti si sarebbero incaricati di rendere più insostenibile. La
decisione di ridurre drasticamente gli spazi a lingue diverse dall'italiana partiva dal centro, come
avrebbe mostrato nel giugno dello stesso anno la decisione del ministro della Pubblica Istruzione
di rimpiazzare in tempi brevi nelle prime tre classi elementari con l'italiano le lingue materne
slave (sloveno o croato) eventualmente in uso.
Proclamando, nella pastorale per la quaresima del 1928, l'impossibilità di restare neutrali di fronte
ad "empietà e persecuzione", Fogar doveva registrare anche la scarsa eco dei propri sforzi tra una
larga parte dei fedeli. Quella che veniva alla luce sempre più chiaramente nella sua vicenda era la
netta separazione, quando non si trattava di contrapposizione, tra la componente italiana e quella
slava della diocesi. Già in atto nell'ultima fase dell'Impero austro-ungarico, i contrasti nazionali
venivano approfonditi dalla politica del fascismo con nuovi motivi di risentimento. Difendendo la
parte discriminata, Fogar si esponeva inevitabilmente al rischio di essere identificato con essa a
mano a mano che l'apparato propagandistico del regime faceva presa su una popolazione italiana
già predisposta ad accogliere questo tipo di parole d'ordine. Il vescovo diventava il "paladino degli
slavi", e questo nonostante l'intensa attività dispiegata in campo pastorale e a favore di iniziative –
quelle di Azione cattolica in primo luogo – introdotte nella Venezia Giulia nel dopoguerra e di fatto
limitate alla popolazione italiana, soprattutto giovanile, di Trieste e delle cittadine istriane. La
frattura percorse lo stesso clero, come si evince da un decreto dell'aprile 1928, con cui il vescovo si
trovò costretto a proibire ogni cambiamento non autorizzato di lingua nella predicazione e nelle
funzioni non strettamente liturgiche.
La posizione di Fogar era destinata, dopo i Patti lateranensi del 1929, a diventare sempre più isolata
all'interno della Chiesa italiana, ormai sulla strada di un marcato consenso al regime. Il tema dei diritti
dei fedeli allogeni sarebbe stato ripreso dall'Osservatore romano ancora il 25 gennaio 1931 (non a
caso nel quadro dell'incipiente crisi sull'Azione cattolica). Nel complesso però gli ambienti vaticani lo
trattavano con sempre maggiore imbarazzo, mentre si intensificava la campagna di stampa a favore
della snazionalizzazione, contrappunto all'incalzare di provvedimenti ai danni di sacerdoti slavi.
Nel contrasto sulle associazioni giovanili di Azione cattolica si inserì nel marzo successivo la crisi
provocata dall'invito dell'arcivescovo di Zagabria a pregare per i connazionali in Italia. L'iniziale
intransigenza della segreteria di Stato, che rifiutava di deplorare l'iniziativa, confortava quella del
vescovo triestino, di cui erano espressione la lettera pubblica inviata nel marzo 1931 all'arcivescovo
di Gorizia Sedej per il suo giubileo episcopale e un memoriale al procuratore generale della corte
d'appello di Trieste. Il clero non può cedere sul punto della lingua, vi si ribadiva, pena veder
svuotarsi le chiese. Nell'aprile, ricevuto da Mussolini ne venne rassicurato, ma ormai, con il
ricomporsi dei rapporti tra fascismo e S. Sede, l'isolamento del Fogar era destinato ad aggravarsi
ulteriormente, soprattutto dopo la morte nel 1931 dell'amico Sedej, sostituito in qualità di
amministratore apostolico da G.Sirotti, un deciso fautore del programma di italianizzazione forzata
e dichiarato avversario della linea del Fogar.
Questi fu costretto sempre più sulla difensiva, a cercare cioè di salvare spazi sempre più esigui di
sopravvivenza per il clero allogeno a prezzo di un'accettazione formale del progetto di
italianizzazione, come emerge dall'accordo del 16 aprile 1932 che riproponeva per Trieste i termini
di quello del 1927. Si inasprivano intanto le divisioni all'interno del clero diocesano, mentre la
nomina nel 1932 a prefetto di Trieste dell'ex squadrista C. Tiengo segnava l'inizio dell'ultimo
pesante attacco al vescovo. La sua posizione fu aggravata dal fatto di essere diventato agli occhi
della comunità slovena e croata, e negli ambienti iugoslavi, una figura simbolo.
Ebbe inizio nel 1934 la violentissima campagna di stampa che, due anni più tardi, lo avrebbe
costretto alle dimissioni. In un discorso pronunciato il 3 gennaio ai chierici del seminario di Gorizia
– il cui contenuto venne divulgato, in una versione fortemente strumentale, dal Piccolo di Trieste –
egli deplorava le attuali divisioni e riaffermava una volta di più il diritto di ciascuno di usare la
propria lingua, non senza accusare implicitamente monsignor Sirotti di aver fornito materiale agli
articoli pubblicati contro di lui. La campagna, che non risparmiò al vescovo le accuse più basse ed
infondate (come quella di appropriazione indebita), culminò, nella primavera del 1936, nella
proibizione da parte del prefetto di celebrare la liturgia slovena in alcune chiese cittadine. Fogar
replicava in maggio con una circolare ai parroci dal titolo “Siano rispettate le consuetudini
diocesane per ciò che riguarda il culto”. Nella trattativa con la S. Sede il regime partiva da una
posizione di forza: il ripristino della predica slovena era troppo importante per il mantenimento di
una presenza, che negli ultimi anni era stata sempre più erosa, tra la popolazione di quella
nazionalità. L'allontanamento di un vescovo dimostratosi, dal punto di vista romano, di costante
pregiudizio ai rapporti con le autorità, diventava un prezzo tutto sommato accettabile.
Le dimissioni di Fogar vennero sollecitate a questo punto dalla stessa S. Sede, che nell'ottobre 1936 lo
nominò arcivescovo di Patrasso. Trasferitosi a Roma, il Fogar svolse funzioni di vicario del cardinale
B. Aloisi Masella, arciprete di S. Giovanni in Laterano. Alla morte di questo diventò canonico
lateranense. Nel 1941 avrebbe avuto modo di intervenire ancora una volta – ufficiosamente e senza
successo – nelle vicende triestine, nel tentativo di evitare la pena di morte ad un gruppo di militanti
comunisti, catturati nel corso di operazioni in collegamento con il fronte di liberazione iugoslavo.
Fogar morì a Roma il 26 agosto 1971.
*Docente universitario
NON TOGLIAMO OSSIGENO AI GIORNALI DELLE PERIFERIE
Francesco Zanotti *
Non ho fatto in tempo ad andare in albergo e ho subito preso il numero di Voce Isontina, un numero
molto bello. Prima cosa che ho notato: 1964 – Anno 1: Il governo adotta misure per fronteggiare la
situazione economica. Non mi sembra che sia cambiato molto da allora. Seconda cosa: avrei rifatto
i titoli dei tre editoriali che Mauro ha messo sapientemente in pagina, in questo modo: Le persone, il
territorio: l’altra faccia della luna, cioè quello che raccontano i nostri giornali. Complimenti,
Mauro, perché hai fatto dei titoli bellissimi. Questo per dire che siamo assolutamente radicati in
qualcosa che vive, che è pulsante.
Inizio con i saluti. Prima di tutto a Mauro e a tutta la sua squadra. Io sono passato per caso da
Gorizia tre settimane fa, perché c’era la conferenza stampa di presentazione, altrimenti mai sarei
venuto. Per la verità, in Romagna ne sentiamo parlare spesso di Gorizia perché bisticciano sempre
chi è primo in Italia per la Facoltà di Scienze Internazionali Diplomatiche, un anno è Gorizia, un
anno è Forlì. Quindi, sento spesso parlare di Gorizia, ma mai ci avevo messo piede. Quindi, grazie
Mauro per quest’occasione ed un saluto caloroso a te e a tutti i tuoi. Poi, all’Arcivescovo emerito,
che come ha detto Mauro è stato con noi anche l’anno scorso, Monsignor Dino De Antoni. A tutte
le autorità, i presenti, gli ospiti, gli amici di Gorizia, a tutti coloro che sono intervenuti da ogni parte
d’Italia, ai direttori, giornalisti, collaboratori, amici dei settimanali cattolici che, ogni volta abbiamo
questi appuntamenti, desiderano essere dei nostri. Saluto gli ex presidenti della FISC. Un saluto
caloroso a Don Ivan Maffeis, che ci portato la vicinanza della CEI, per chi non lo sapesse già
segretario della nostra Federazione e direttore di Vita Trentina. Un saluto particolare a Monsignor
Sudar, che nel 1994 è stato relatore in un nostro convegno a Teramo, che fece molto parlare perché
ci portò l’esperienza che allora stava vivendo in prima persona nell’ex Jugoslavia. Un saluto a
Andrea Melodia, presidente dell’UCSI, che ha già detto di questo rapporto privilegiato che ci ha
raccomandato tanto il cardinal Bagnasco, presidente della CEI. Un saluto al direttore dell’Agenzia
Sir, Mimmo Delle Foglie, che è qui oggi insieme al giornalista Francesco Rossi. Un saluto
affettuoso alla giornalista di Avvenire. Un saluto caro e affettuoso a Letizia Fallani e a Marta
Fallani, che poi saranno protagoniste del premio dedicato a Giovanni Fallani, uno dei fondatori
della FISC. Un saluto a Paolo Bustaffa, per lunghi anni direttore del Sir e anima di questo premio.
Grazie quindi per quest’invito e per l’accoglienza che ci avete riservato. Un grazie che va condiviso
anche con la Commissione Cultura, guidata sapientemente da Carlo Camoranesi e con l’intero
Consiglio Nazionale che ha dato l’ok ben volentieri a quest’appuntamento a Gorizia. Grazie perché
ci fate conoscere una parte d’Italia da cui non si passa tanto facilmente. Una città che mi ha subito
conquistato e oggi facevo un po’ da guida a quelli che erano nel pulmino con me come se fossi un
esperto. Ho dovuto dire che sono venuto qui solo tre settimane fa, però mi ha talmente appassionato
e sapere che su queste montagne si sono combattute, come ricordava Don Ivan, battaglie pazzesche
per la storia del nostro Paese, è davvero incredibile.
Per chi non ci conosce, i numeri: 189 testate; quasi un milione di copie ogni settimana; oltre 500
dipendenti, di cui 250 giornalisti; migliaia e migliaia di collaboratori. L’esperienza della FISC è
prima di tutto un’esperienza di condivisione, di comunione, un’esperienza ecclesiale. Ha scopi ben
precisi, indicati dai fondatori: scopi istituzionali e di circolazione di idee, di esperienza, nel Paese e
nella Chiesa. Questo era valido per i nostri fondatori, nel 1966, ed è valido ancora oggi.
I cinquant’anni di Voce Isontina sono occasione per noi per fare festa e per gioire di un
appuntamento importante, come facciamo una volta all’anno, da tanti anni. È un’occasione bella ed
è per questo che vogliamo esserci, perché prima di tutto vogliamo condividere quest’amicizia e
quest’esperienza, nata da un impegno, da una passione, che sono nate quando i cristiani erano fuori
dalla vita politica. Come ha ricordato prima Mauro, il primo impegno dei cattolici di Voce Isontina
nella stampa diocesana, è stato quello degli anni ’70 del 1800.
Veniamo al tema del convegno. Molte sono state in questi giorni le domande che ho ricevuto a
questo proposito. Perché Europa e confini? Perché è un tema intrigante, che ci interpella. L’Europa
a due polmoni era un tema caro a Giovanni Paolo II. Rappresenta per noi la storia, il presente e il
futuro. Per quanto riguarda la storia, siamo a cent’anni dalla prima guerra mondiale, che in questi
territori è iniziata nel 1914. Parlare della prima guerra mondiale, vuol dire, più che altro, tacere e far
conoscere quello che è successo alle nuove generazioni. Il presente è questa città sul confine. Una
città rivolta ad est, all’Europa, soprattutto dopo la caduta dei muri. Raccontava Mauro che quando il
regime jugoslavo ha costruito Nova Gorica, l’ha fatto continuando le strade che già c’erano a
Gorizia, pensando che sarebbero state tutte una città, ovviamente Nova Gorica, non Gorizia. Quindi,
ogni angolo di questa città racchiude un momento di storia, che noi vogliamo conoscere ed
approfondire. Questa è una città che ha i confini dentro le case, che ha diviso le famiglie. Il futuro è
quello immediato, quello delle elezioni europee, con un senso crescente nella gente di
insoddisfazione, verso l’Unione europea e verso l’Euro. Ha ancora un senso parlare di Casa
comune, di confini? Nel mondo globalizzato, l’Europa ha ancora un ruolo da giocare? L’Italia ha un
ruolo da giocare? A volte, ho l’impressione che viviamo troppo del nostro localismo, di questioni di
casa nostra. Questa è un’occasione propizia per alzare lo sguardo e guardare lontano.
Il futuro è oggi per noi, anche la sfida della rete. Carta stampata e rete sono due luoghi da abitare, ci
siamo detti in più occasioni. È una sfida che non possiamo non cogliere, che può dilatare i nostri
confini di carta, che sono limitati.
Il ruolo dei nostri giornali. Vado a prestito del Messaggio per la Giornata delle Comunicazioni
Sociali di Papa Francesco e prendo due immagini: la cultura dell’incontro il Buon Samaritano e i
discepoli di Emmaus. Mimmo Delle Foglie ricorda spesso Curare le ferite e riscaldare i cuori,
citando Papa Francesco. Ecco, noi siamo chiamati anche a farci compagni di viaggio, di questo
popolo. Sondare e alzare lo sguardo. Dare voce alle periferie, tutte, quelle geografiche e quelle
esistenziali. Il Vangelo incarnato, vissuto nelle storie dei testimoni, possibile oggi per tutti. Cosa c’è
di meglio da comunicare, dice Papa Francesco nell’Evangeli Gaudium? Dare voce ai senza voce,
come luoghi di confronto e di dialogo. Vogliamo essere giornali popolari, giornali di popolo, come
dicono le nostre testate. Prendo l’occasione di quest’appuntamento, per dire una cosa che anche
Mauro ha avuto occasione di dire con una certa forza qualche settimana fa: è scaturita
un’interpellanza in Senato, a seguito delle nostre richieste fatte a Gorizia a metà marzo. È la
questione dei contributi per l’editoria. Ne ha accennato prima anche l’Arcivescovo emerito. Noi
siamo confinati in una sorta di riserva indiana del fondo, del 5%, e chiediamo che questa riserva
venga alzata almeno dal 5 al 7%, per riequilibrare il danno. Ci sono stati in passato dei danni,
perché negli ultimi due anni i contributi ai nostri giornali sono calati di oltre due terzi. Chiediamo
anche una seconda cosa: rifinanziare il fondo per l’editoria, oggi a 50 milioni di euro, a 90-100
milioni. Non vogliamo nessun privilegio. Si tratta solamente di favorire il pluralismo
dell’informazione, come avviene – contrariamente a quanto si dice e si vuole millantare – in gran
parte dei Paesi europei. I contributi pubblici all’editoria servono per la democrazia informativa e
non sono un lusso, ma un diritto necessario per uno Stato democratico. Una battaglia che è solo
nostra e che portiamo avanti con convinzione, certi che si tratti di una buona battaglia. Chiuderei
con uno slogan: non togliamo ossigeno ai giornali delle periferie; siamo convinti che nessuno vorrà
prendersi questa responsabilità.
*Presidente FISC
BOSNIA ED ERZEGOVINA:
CUORE DEI BALCANI E CARTINA DI TORNASOLE DELL'EUROPA
S.E. Mons. Pero Sudar *
Introduzione
Non ricordo più come e perché abbiamo concordato un tema ed un intervento così intitolato. Mi
sono accorto della sua delicatezza e complessità solo quando mi sono messo a pensare a come
impostarlo e a cosa dirvi. Riconosco che non di rado mi capita di riscontrare le maggiori difficoltà a
presentare realtà che, ad un primo sguardo, mi sembrano semplici. Così mi accorgo quanto è vera
l'affermazione secondo cui conosciamo davvero solo quelle realtà che siamo in grado di
comunicare, in modo chiaro, agli altri. Penso che anche voi, da giornalisti, spesso facciate
l'esperienza di una difficoltà del genere. Sono profondamente convinto che la fedeltà al dovere di
pensare e riflettere su di sé e sul mondo in cui si vive conferma o smentisce la dignità fondamentale
di ogni persona. Infatti, proprio per la sua capacità di pensare, l'uomo si differenzia dal resto del
creato e risulta essere il più perfetto di tutto il creato (san Tommaso d'Aquino). Temo che la carenza
fondamentale dell'uomo di oggi sia proprio da individuare in una certa fuga da questo dono e
dovere per eccellenza. Le condizioni e le circostanze della vita non mi hanno permesso di studiare,
più di tanto, e di approfondire certi campi d'interesse scientifico. Però, l'ambiente e il tempo in cui
vivo mi hanno costretto a pensare molto. Allora, io non vi presenterò teorie scientifiche, ma
piuttosto il mio modo di riflettere sulla realtà in cui vivo e che mi sta a cuore. Proprio per questo la
relazione non ha la pretesa di essere magistrale, come gli organizzatori l'hanno voluta chiamare, ma
piuttosto una riflessione.
Ringrazio il direttore, egregio signor Mauro Ungaro e l'amico don Ruggero di avermi invitato a questo
Convegno. Saluto tutti i partecipanti e vi auguro un lavoro buono e fruttuoso in queste giornate.
Pur trovandomi davanti ad esperti della materia, mi è sembrato importante, soffermarmi sul
significato dei concetti che si trovano nel titolo di questa relazione e sulla natura della loro
correlazione. Perciò, questo intervento si articolerà in tre punti.
1. Bosnia ed Erzegovina
Il primo fatto che rende questo tema complesso è la realtà stessa della Bosnia ed Erzegovina (BeE).
Si tratta di un piccolo paese (51.209,2 kmq) sul cui significato etimologico del nome gli esperti in
materia non sono d'accordo. A me piacerebbe fosse vera la teoria che il nome Bosnia provenga dalla
parola illirica bos che significa sale. Temo però che il comportamento dei suoi abitanti smentisca
assai velocemente questa ipotesi. Il nome Erzegovina, secondo il governatore che portò il titolo
erzeg, è stato aggiunto nel secolo quindicesimo per la parte meridionale del Paese. Quanto sia stata
travagliata la storia di questo Paese ce lo indica anche il fatto che da un piccolo territorio, l'odierna
fascia centrale della BeE, in un certo momento storico, il Paese si è esteso fino a raggiungere gli
80.000 chilometri quadrati, cioè quasi doppio rispetto ad oggi. Secondo il censimento fatto nel
1991, cioè prima dell'ultima guerra, in BeE vivevano 4.377.033 di abitanti. I risultati preliminari del
censimento fatto nell'ottobre scorso parlano di 3.791.662 di abitanti. Quindi un Paese piccolo sia per
territorio e sia per numero di abitanti, ma grande e complesso per i suoi, a volte sembra, irrisolvibili
problemi. E questo non da ieri!
Trovatosi nella zona che dai tempi dell'impero romano divide e contrappone mondi sempre più
diversi, la BeE già da quindici secoli vive una storia travagliata. Ricordo che la linea che divideva
l'impero romano in due era il fiume Drina. Questa linea che, prima di tutto, ha spaccato il mondo dei
popoli slavi, ha lasciato impronte profonde anche nel senso della loro appartenenza culturale e
religiosa. A causa delle continue guerre tra i grandi, motivate con la tendenza a spostare la magica
linea di divisione a vantaggio dell'uno o dell'altro, in BeE si è insediato un modo di vita sociale e
religiosa del tutto particolare e, fino ad oggi, non del tutto chiaro. Mi riferisco ad una sorta di setta
chiamata i cristiani bosniaci, un modo autonomo ed autoctono nel senso della tendenza ad organizzare
la vita ecclesiale indipendentemente da Roma e da Costantinopoli e, politicamente, dai loro alleati
politici. Le pretese politiche, specialmente quelle del regno ungarico, autorizzate da Roma, hanno
stigmatizzato e indebolito il regno bosniaco in modo da renderlo facile preda per l'avanzata ottomana.
Da quel periodo (1463) la BeE, dal punto di vista sociale, culturale e religioso, è fuori dall'Europa.
Nel corso di 420 anni di occupazione ottomana si è creata una società non soltanto interetnica e
interreligiosa, ma anche, nel modo di vivere e di accettarsi a vicenda, meticcia. Però la convivenza,
come frutto del desiderio e della necessità di sopravvivenza, non è mai stata senza tensioni e
conflitti, senza gravi perdite e sofferenze. Come immagine evocativa basti ricordare che durante il
periodo ottomano il numero dei cattolici è passato da circa l'88% sul totale della popolazione al
18.08% (Vukšić e Mandić). Nel corso dei cinquant’anni di comunismo è stata inoltre aggiunta
un'altra dimensione a questa convivenza dei diversi, e cioè quella apparentemente neutrale e
svuotata del senso etico e religioso.
Il peso delle ingiustizie e delle memorie storiche, poco chiarite e mai purificate, le differenze
ideologicamente negate e lo svuotamento morale, hanno creato una convinzione piuttosto
subconscia, ma molto diffusa, che la convivenza tra i diversi sia una sfortuna perché, in realtà,
risulta sempre essere a danno di uno o più gruppi, di norma i più deboli. Queste forze inconsce e
oscure hanno sempre tentato di promuoversi in circostanze di tensioni e conflitti, condizioni ad esse
sempre favorevoli. Ecco perché ogni conflitto armato, cominciando dall'occupazione austroungarica fino all'ultima guerra degli anni novanta, ha spaccato la nostra società in almeno due parti
contrapposte. Tutte le nostre guerre che, in realtà, per i veri motivi non erano nostre, sono state
guerre intestine e di sterminio perché fatte tra popoli fraterni. Lo Stato in cui si trova la BeE oggi è
assai artificiale dal punto di vista politico e, di conseguenza, da tutti gli altri punti di vista. Al
bagaglio pesante delle vecchie ingiustizie e diffidenze si sono aggiunte le nuove. Una guerra
orribile, causata dall'imperialismo di stampo comunista e realizzata con l'ardore dei risentimenti
storici della povera gente, è terminata con una pace invivibile perché ispirata e imposta, anche
questa volta, per soddisfare interessi che non hanno niente a che vedere con il bene degli abitanti
della BeE. Il risultato è che vent'anni dopo la guerra, la BeE, per molti, risulta una società
moribonda e un Paese senza prospettiva, da cui chi può fugge.
2. Cuore dei Balcani
In che senso la BeE può definirsi cuore dei Balcani? Fino alla seconda metà del diciannovesimo
secolo i popoli che abitavano la regione balcanica o, come si è solito dire oggi, la parte sudorientale dell'Europa hanno avuto, più o meno, la stessa sorte. Tutti erano, dove più dove meno,
etnicamente e religiosamente mescolati e assoggettati all'impero ottomano. L'identità etnica era
proibita e quella religiosa molto sospetta e oppressa. Quella cattolica in modo particolare, perché
sempre sospettata di essere serva di Roma da cui - si è verificato - invano gli Ottomani temevano
che possa esser istrumento per unire gli altri principi della cristianità (Alberti, 307). Come
conseguenza delle guerre nella seconda metà del diciannovesimo secolo, i popoli balcanici hanno
creato propri stati nazionali. Solo la BeE è rimasta così come si era creata sotto gli ottomani perché,
nel frattempo, è entrata a far parte dell'impero austro-ungarico che, per i propri interessi, cercava di
promuovere una società amalgamata. Per comprendere meglio in che cosa consista quindi la
differenza tra la BeE e gli altri paesi balcanici potrebbe servire, come illustrazione, un piccolo
particolare che dice che, nei tempi degli ottomani, a Belgrado c'erano più moschee che a Sarajevo.
Oggi si calcola che a Sarajevo ce ne siano più di cento. A Belgrado, invece, solo una. Le vecchie
tensioni, le rivalità e le questioni fondamentali irrisolte che hanno caratterizzato i paesi e popoli
balcanici, in quanto società interetnica e interreligiosa, si sono concentrate continuando ad esistere
in BeE. In essa oggi convivono ortodossi, cattolici, musulmani ed ebrei, oltre a diciassette
minoranze nazionali legalmente riconosciute. Si tratta dei rappresentanti dei mondi divisi da quella
linea mitica di cui si è già accennato, le cui conseguenze non sono mai sparite dalla vita dei popoli e
che, nello stesso tempo, li divide e li unisce. Avvelenata dalle ingiustizie inflitte agli altri e patite
dagli altri e piegata sotto il giogo degli interessi dei potenti, la gente del mio Paese non ha ancora né
il coraggio di levare lo sguardo né la capacità di intuire il proprio migliore futuro. Tutti i paesi
dell'Europa sud-orientale sono già membri dell'Unione Europea o hanno iniziato il processo
d'integrazione. La stessa Turchia, erede e nucleo dell'Impero ottomano, ha aperto i negoziati di
adesione all'Unione quasi dieci anni fa! La BeE, però, non è neppure candidata, perché l'Unione
Europea ha stabilito che la Bosnia ed Erzegovina non potrà ufficialmente presentare domanda di
adesione prima che l'ufficio di alta rappresentanza in Bosnia ed Erzegovina, creato al termine del
processo di pace di Dayton, non venga chiuso. Osservandola, la configurazione della BeE
assomiglia ad un cuore, però un po' malformato. Anche per questo può essere definita cuore dei
Balcani. Ma se questo cuore smette di battere, cioè se la BeE non troverà la formula per esistere
come società multietnica, interculturale e multi religiosa, sarà inviato il messaggio che al mondo
oggi non ci può essere un confine che unisce, ma solo quello che separa, riconoscendo la legge del
più forte come unica legge.
3. Cartina di tornasole dell'Europa
Cosa vuol dire l'espressione BeE cartina di tornasole dell'Europa? Quale senso ed eventualmente
quale messaggio potrebbe avere un'affermazione del genere? Prima di tutto, sono convinto che il
significato negativo dei Balcani quale polveriera d'Europa e regione dei conflitti sia strettamente
legato, in buona parte, all'atteggiamento storico di quel mondo da cui, dopo la scomparsa
dell'Impero romano, nascerà l'idea e la realtà dell'Europa. Basti ricordare i tragici e scandalosi
eventi legati al comportamento di quel mondo occidentale nei confronti dei cristiani dell'Oriente
lungo i secoli che precedettero e contribuirono alla caduta di Costantinopoli (Frank). Roma, come
centro religioso e politico di allora, ha svolto un ruolo per cui papa Giovanni Paolo II sentì il
bisogno di chiedere perdono. La brama di potere e gli interessi politici hanno gettato un seme che ha
portato i suoi frutti, il cui veleno ed amarezza sentiamo ancora oggi. Dopo tanti secoli, il rancore e
le diffidenze sono più che palpabili.
Come ho accennato, l'avanzata ottomana ha trasformato l'area dell'Europa sud-orientale in una
regione che, fin ad oggi, non ha trovato il modo di liberarsi dal peso del passato e sentirsi davvero
parte dell'Europa. Invece di provare a guarire le vecchie ferite, s'infliggono a vicenda le nuove.
Questo peso storico si è accumulato lungo i secoli anche come conseguenza del comportamento
dell'Occidente. È indicativo che proprio negli anni in cui gli Ottomani conquistano i paesi e i popoli
collocati sulla mitica linea tra l'oriente e l'occidente europeo, il papa Pio II scrive la sua Disputa
sullo stato d'Europa (Koch-Smith, 28). Il grido del re della BeE Tomašević rivolto al Papa, di cui fu
incoronato legato qualche anno prima, di aiutarlo contro l'avanzata degli Ottomani restò senza
risposta. Questo silenzio non meraviglia se si ha in mente che lo stesso Papa, qualche decennio
dopo, si è sentito costretto a chiedere agli Ottomani di proteggerlo dal re di Francia, primogenita
figlia della Chiesa! Mentre una parte sud-orientale d'Europa sanguinava e moriva sotto lo stivale
ottomano, i regni europei (Francia e Inghilterra) stipulavano patti con gli stessi Ottomani per
combattere gli altri regni europei (Austria).
L'epoca del colonialismo può essere indicata come la terza grande pietra d'inciampo. È
impressionante e spaventosa la rete degli interessi e dei conflitti nati sempre lungo la linea che
divide e unisce il continente anche nel periodo del colonialismo. Quest'anno si ricorda l'inizio della
prima guerra mondiale. La città di Sarajevo è al centro dell'attenzione a causa dell'assassinio del
principe ereditario Ferdinando e della moglie incinta. Oggi sappiamo che Sarajevo, come luogo, e la
BeE, come Paese, non avevano molto a che fare con i veri motivi della guerra. I motivi e le ragioni,
come in tutte le guerre precedenti, erano collocati ben lontano dalla BeE. Però, il peso intero di
quella guerra e delle due successive (1945 e 1991) lo hanno subito, perché hanno fatto maturare il
seme subdolo dell'odio seminato per secoli tra popoli fraterni che, nonostante tutto, non avevano
mai prima di allora fatto la guerra gli uni contro gli altri.
Come piccola illustrazione, vi racconto la storia di una famiglia che conosco, proveniente dalla
parte povera della BeE, dove la gente, da semplici contadini, viveva più di ciò in cui credeva che da
quel poco che riusciva ad ottenere da un suolo poco fecondo. Essendo nato nel 1890, nonno Nicola,
croato cattolico, fu costretto a combattere nella prima guerra mondiale per l'Impero austriaco contro
la Serbia, ed in guerra è caduto. A casa lasciò un figlio e la moglie incinta. Finita la guerra, la
moglie si risposò e i due figli furono fatti crescere dalla zia, anche lei vedova. Nella seconda guerra
mondiale, che per le parti in conflitto fu una sorta di continuazione della prima, i due figli di Nicola,
nel frattempo già sposati l'uno con tre e l'altro con un figlio, furono costretti a combattere per la
Germania che aveva occupato quella zona. Di nuovo i nemici erano i loro concittadini capitati nelle
forze serbe o partigiane. Durante la guerra (6.10.1942), una pattuglia di guerriglieri serbi massacrò
tutti gli abitanti trovati nel villaggio in cui essi vivevano. La moglie del figlio maggiore di nonno
Nicola si salvò fuggendo con il figlio di due anni tra le braccia. Sopravvissuto per miracolo alla
mortale via crucis partigiana dall'Austria alla Macedonia, il figlio maggiore tornò dalla guerra. Una
volta giunto a casa, il governo comunista decise di condannarlo a morte perché aveva servito
l'esercito nazista. Lo salvò l'intervento di un alto ufficiale partigiano musulmano che lo aveva
conosciuto nel servizio militare prestato insieme prima della guerra. Questo figlio di Nicola ha
cresciuto i suoi sei figli e quello del fratello, rimasto in guerra, la cui moglie morì durante il parto.
Durante la guerra degli anni novanta, le forze musulmane hanno cacciato via quasi tutti i Croati cattolici
di quella zona. Dell'intera famiglia di nonno Nicola, nel frattempo diventata numerosa, compresi cinque
preti e una suora, in Patria sono rimaste solo due persone anziane. Lo so che una storia del genere si
potrebbe raccontare per milioni di famiglie in tutte le parti dell'Europa. Infatti, le due guerre mondiali
sono costate cento milioni di morti (Koch-Smith, 24). Però, in BeE, oltre alle vittime e alla miseria
materiale comuni a tutti i popoli europei, le guerre mondiali hanno lasciato ferite che, secondo molti,
sembrano inguaribili. Dalle sue conseguenze, partendo dal numero dei caduti e dalla miseria che ne è
seguita, comprese le conseguenze politiche, la BeE non si è ancora ripresa. Questo lo abbiamo
sperimentato, in tutta la sua brutalità, nell'ultima guerra in BeE, che ha mostrato tutta la debolezza
morale, la divisione e il disorientamento politico dell'Europa, unito al machiavellismo del governo
statunitense. Il bilancio tragico conta centomila morti, due milioni seicento ottantamila persone cacciate
dai luoghi in cui vivevano, vale a dire il 63,8 % di tutta la popolazione.
Conclusione
Invece di concludere una riflessione che, in senso logico, non si può neppure concludere, mi pongo
la domanda se ci può essere una prospettiva e quale? Questa domanda viene posta, sempre più
spesso e da più parti, incluso il vertice dell'Unione Europea. Certo, che ci sarebbe una soluzione!
Però, essendo la BeE, come ho cercato di presentare, un Paese particolare, differente dagli altri,
avrebbe anche bisogno di un trattamento particolare. Questo trattamento postula, prima di tutto, un
radicale cambiamento della mentalità della nostra gente. La mentalità, purtroppo o per fortuna, non
si cambia dall'oggi al domani. I vecchi nemici non diventano spontaneamente o per caso amici. Ci
vuole un impegno serio e duraturo. Questo significa una vera conversione umana, vale a dire un
cambiamento del modo di pensare e, soprattutto, di sentire. Per questo ci vorrebbe un impegno
sincero comune e sincronizzato della cultura e della religione, cioè delle istituzioni civili non
governative e delle Chiese e comunità religiose. Vent'anni fa ho preso parte a questo vostro
convegno annuale. Il mio Paese era ancora in guerra. Anche allora vi presentai le ragioni della
guerra. Tra le altre, mi fu rivolta la domanda: cosa si può fare per sradicare questa radice della
guerra fratricida, che si ripete periodicamente? Risposi allora e lo ripeto anche oggi: bisogna
educare le nuove generazioni a vivere con un altro spirito. Per noi cristiani significa lo spirito del
Vangelo, che nell'incontro con gli appartenenti alle altre religioni o convinzioni significa cultura del
rispetto e della collaborazione per il bene comune. Questa cultura non è possibile senza il reciproco
riconoscimento. Temo che proprio questo manchi alle Chiese e alle religioni! Noi, nel nostro
intimo, non ci riconosciamo come figli di un unico Dio. Mi dispiace tanto doverlo dire, ma sento in
tutti i buoni e lodevoli tentativi dell'ecumenismo e del dialogo interreligioso questa incapacità a
trattarci da fratelli e amici. Se ormai per tutto il mondo vale la costatazione che senza la pace tra le
religioni non vi può essere la pace tra i popoli, questo vale ancora di più per la BeE. Vent'anni fa vi
presentai l'esperienza delle scuole cattoliche interetniche e interreligiose come un piccolo tentativo
della Chiesa di porre un segno di speranza e dare un contributo alla convivenza in pace tra diversi.
Quest'anno a novembre queste scuole ricorderanno i vent'anni dall'inizio della loro esistenza. Nel
frattempo il numero delle scuole e degli alunni è cresciuto. Le scuole sono quindici e gli alunni
circa cinquemila. Esse sono solo una piccola prova che il dialogo vivo e la convivenza concreta tra i
diversi è, non soltanto possibile, ma bello!
Però il processo che tende a cambiare la mentalità verso una convivenza percepita e vissuta come
un'opportunità e ricchezza e non come una condanna e minaccia permanente, risulta impossibile se
viene a mancare la giustizia, come strumento con cui lavorare e obiettivo verso cui tendere. Il peso
che ci schiaccia e rende il futuro del nostro Paese così difficile sono le profonde ferite della guerra
che, a causa delle conseguenze di una pace ingiusta, non trovano il modo di guarire. L'accordo di
pace imposto dagli Stati Uniti a Dayton e protetto già da vent'anni dal gruppo di contatto, rende il
nostro Paese ingovernabile. Che questo sia vero, ne è prova la situazione socio-politica che oggi è
anche peggiore dell'immediato dopoguerra. Ecco ancora un piccolo e tragico esempio che attesta
l'inutilità di tutti i tentativi a livello culturale e religioso, quando manca quello socio-politico.
Quattro anni fa la nostra scuola a Zenica ha ricordato il suo quindicesimo anniversario. I dirigenti
scolastici sono venuti all'idea di invitare i suoi quindici alunni dell'anno, cioè i migliori alunni di ogni
anno scolastico, dal 1995. Dei quindici studenti rintracciati solo uno è rimasto a vivere e studiare in
BeE! E anche lui, dopo essersi laureato in lettere, lavora in un'organizzazione internazionale.
Se i nostri migliori giovani continuano ad andarsene via, la BeE non potrà essere un Paese di
convivenza e d'incontro, ma la prova che una società mista e meticcia, in cui ognuno rimane ciò che
è, insieme agli altri, nell'Europa di oggi non è realizzabile. Qual è allora l'alternativa che si pone da
sola? Il processo di disintegrazione, come quello attuale in Ucraina, si estenderà sempre di più. E
questo raramente avviene senza versare il sangue. Questa realtà postula da parte di tutti un
approccio responsabile, morale e delicato. I mass media, anche quelli più piccoli, hanno la loro
grande missione, e cioè mettersi dalla parte della giustizia perché solo da quella parte può giungere
il contributo umano alla causa della pace, che è il grande dono di Dio.
Temo che al sopra accennato stato in cui versa la BeE possa essere, sebbene in tracce, sempre di più
riconosciuto anche il rifesso di un nuovo scontro di cui parla il pensatore francese, Alain
Finkielkraut. Lui scrive: In Europa divampa lo scontro tra le civilizzazioni e tutti fanno finta di non
vederlo. Mentre io parlo di questo, mi accusano per il razzismo, ma io non faccio altro che dare le
brutte notizie. (Oslobodjenje, 7.2.2014)
*Vescovo ausiliare di Sarajevo
SECONDA GIORNATA
Venerdì 4 aprile 2014
OMELIA
Mons. Carlo Roberto Maria Redaelli *
Sono rientrato ieri da un pellegrinaggio con un gruppo di sacerdoti ai luoghi di papa Giovanni
XXIII e papa Paolo VI. Due grandi pontefici, decisivi per la storia della Chiesa non solo del secolo
scorso, ma anche dell’attuale e dei futuri. Decisivi soprattutto per quel dono che lo Spirito Santo ha
fatto alle nostre generazioni, quell’evento di grazia che è stato il Concilio Vaticano II.
Uno dei frutti più evidenti del Concilio è costituito dalla riscoperta della Parola di Dio, a cominciare
dalla sua abbondante presenza nella liturgia. Decenni ormai di ascolto di questa Parola non sono
ancora bastati affinché essa divenga sempre più, come afferma il salmo 118, “lampada per i nostri
passi” e “luce per il nostro cammino”. È un processo lungo che esige costanza, apertura di mente,
rottura dei nostri schemi mentali anche “religiosi”, conversione dei cuori e della vita.
Certamente, siamo diventati più esigenti nei confronti della stessa Parola presente nella liturgia. Per
esempio, è cresciuta la convinzione della necessità di un accostamento integrale alla Parola di Dio,
così come ci viene presentata dalla Sacra Scrittura, senza che essa venga per così dire adattata alle
nostre esigenze o, peggio, senza che il suo filo di spada tagliente (cf Ebrei 4,12) venga in qualche
modo smussato dalle nostre paure e precomprensioni.
Il brano di Vangelo di oggi è appunto uno dei casi – per fortuna pochi… - dove la scelta
liturgica non presenta il testo nella sua integralità, ma ne taglia alcuni versetti in due punti. Mi
fermo solo sul primo “taglio”.
Il nostro brano passa dal v. 2: «Si avvicinava intanto la festa dei Giudei, quella delle Capanne» al v.
10: «Quando i suoi fratelli salirono per la festa, vi salì anche lui: non apertamente, ma quasi di
nascosto». Appaiono improvvisamente questi “fratelli” e si dice che anche Gesù va alla festa:
sembra in loro compagnia, anche se di nascosto.
In realtà, non è così. Vi leggo i versetti dal 3 al 9: «I suoi fratelli gli dissero: “Parti di qui e va’ nella
Giudea, perché anche i tuoi discepoli vedano le opere che tu compi. Nessuno infatti, se vuole essere
riconosciuto pubblicamente, agisce di nascosto. Se fai queste cose, manifesta te stesso al mondo!”.
Neppure i suoi fratelli infatti credevano in lui. Gesù allora disse loro: “Il mio tempo non è ancora
venuto; il vostro tempo invece è sempre pronto. Il mondo non può odiare voi, ma odia me, perché di
esso io attesto che le sue opere sono cattive. Salite voi alla festa; io non salgo a questa festa, perché il
mio tempo non è ancora compiuto”. Dopo aver detto queste cose, restò nella Galilea».
A questo punto, continua il v. 10: «Quando i suoi fratelli salirono per la festa, vi salì anche lui: non
apertamente, ma quasi di nascosto». Potremmo dire – un po’ scherzando…- che i versetti tagliati sono
imbarazzanti perché presentano una “bugia” di Gesù: dice che non andrà alla festa, ma poi ci va…
Al di là però di questa curiosa annotazione, risulta importante il contrasto tra i fratelli e lo stesso
Gesù. Sembra semplicemente una difformità di strategia comunicativa.
I fratelli sostanzialmente dicono a Gesù: approfitta della festa, del grande concorso di folla a
Gerusalemme per la ricorrenza delle Capanne, per farti conoscere. Se hai un messaggio valido, se
hai qualcosa da dire, se vuoi farti conoscere come Messia, che cosa c’è di meglio di una grande
festa? Se poi, invece, di fare discorsi complicati o esigenti, compi qualche bel miracolo, ecco che il
gioco è fatto e anche i tuoi discepoli ne usciranno confortati e sostenuti nella loro decisione di
seguirti. Ottimo suggerimento, da ufficio di comunicazione sociale, se non persino da società leader
di consulenza nel campo dei mass media.
L’evangelista però annota al v. 5: «Neppure i suoi fratelli infatti credevano in lui». Giudizio chiaro:
quanto suggeriscono non c’entra niente con la fede, anzi dimostra proprio la loro non fede (notate
l’infatti che collega direttamente il suggerimento con l’incredulità: “neppure i suoi fratelli infatti
credevano in lui”).
Gesù ovviamente non si sottrae al confronto con la folla, con i Giudei e persino con i propri nemici,
non opera di nascosto. Durante la passione affermerà con verità, nell’interrogatorio cui lo sottoporrà
il sommo sacerdote che indagava «riguardo ai suoi discepoli e al suo insegnamento»: «Io ho
parlato al mondo apertamente; ho sempre insegnato nella sinagoga e nel tempio, dove tutti i Giudei
si riuniscono, e non ho mai detto nulla di nascosto. Perché interroghi me? Interroga quelli che
hanno udito ciò che ho detto loro; ecco, essi sanno che cosa ho detto» (Gv 18,19-21).
Il problema non è che la Parola sia tenuta nascosta: deve essere comunicata. La persona stessa di
Gesù, che è il Verbo, la Parola fatta carne, deve essere conosciuta. La questione è invece di fondo,
di logica. La logica di Gesù è quella dell’essere, del servizio, dell’autenticità. Quella dei suoi fratelli
è invece la logica dell’avere, del potere, dell’apparire. Tre realtà che si rafforzano a vicenda: se hai,
puoi apparire di più – pagando chi ti fa questo servizio… – e così aumenti il tuo potere, che, a sua
volta, aumenta il tuo avere e la tua possibilità di apparire.
Avere, potere, apparire: è la logica dei fratelli di Gesù, ma è anche la logica del mondo. Noi non
siamo immuni dal mondo: ci siamo dentro e le sue logiche ci sembrano, appunto, logiche. Non sono
però la logica della croce.
Quanto tutto ciò sia determinante per il vostro importante e delicato compito, lo lascio alla vostra
riflessione. Buon lavoro.
*Arcivescovo di Gorizia
TAVOLA ROTONDA
A GORIZIA, FRA EUROPA E ADRIATICO:
DIALOGHI FRA ISTITUZIONI, GIORNALISTI E GIOVANI SUL FUTURO DELL’EUROPA,
DELL’ALLARGAMENTO E DELL’INTEGRAZIONE
Organizzata in collaborazione con l’Istituto di Sociologia Internazionale di Gorizia (ISIG) e resa
possibile dal contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Gorizia. All’incontro – che ha
avuto come tema A Gorizia, fra Europa e Adriatico: dialoghi fra Istituzioni, giornalisti e giovani
sul futuro dell’Europa, dell’allargamento e dell’integrazione – hanno partecipato, insieme ai
giornalisti della FISC, oltre 200 studenti delle scuole superiori di Gorizia. Il dibattito, al quale
hanno partecipato Alfonso Zardi, direttore del Dipartimento per la Democrazia locale e regionale
del Consiglio d’Europa, Manuela Lussi, responsabile del Dipartimento per le questioni
economiche ed ambientali della missione permanente Osce in Albania, e Mateja Zorn del Gect Go,
progetto di cooperazione transfrontaliera tra i comuni di Nova Gorica, Gorizia e Šempeter-Vrtojba,
è stato coordinato e moderato da Daniele Del Bianco, direttore dell’ISIG, il quale ha tra l’altro
affermato: “I confini, nell’Europa dei 28, non sono più quelli amministrativi dei singoli Stati, ma ce
ne sono di soggettivi che ancora oggi permangono”. Del Bianco ha sottolineato l’urgenza di attuare
strategie di cooperazione economica e culturale e ha spiegato l’importanza dei GECT (Gruppi
Europei Cooperazione Territoriale) che, proprio a Gorizia hanno avuto il primo esempio italiano.
“Di Europa non basta parlare, bisogna viverla. Per maturare davvero una coscienza europea è
necessario aprirsi, andare sul posto”, ha affermato Mateja Zorn.
Ecco, quindi, che tornano in gioco i giovani, sempre più numerosi in viaggio da un Paese all’altro
per motivi di studio oppure per svago. Ma c’è anche un altro modo per costruire la “cittadinanza
europea”. Si chiama “Erasmus+”, nome del programma comunitario che rende possibile, per tutti i
giovani tra i 17 e i 30 anni residenti in un Paese dell’Ue, il Servizio volontario europeo (Sve). “È
un’esperienza fondamentale per la costruzione di un’Europa davvero unita”, sottolinea Mattia
Vinzi di Europe Direct Trieste, che ha illustrato le nuove modalità di partecipazione ai progetti
Erasmus, «un altro modo per costruire la cittadinanza europea», «programma comunitario che rende
possibile, per tutti i giovani tra i 17 e i 30 anni residenti negli Stati membri, il Servizio volontario
europeo». Vinzi ha raccontato che cominciò a interessarsi di Europa nel 2001 nelle isole Azzorre,
dove trascorse un periodo, grazie al Sve, in una cooperativa di recupero per tossicodipendenti. Il
Servizio volontario europeo, ha detto, “si propone di promuovere la solidarietà e la tolleranza tra i
giovani, al fine di rafforzare la coesione sociale dell’Ue, ma anche favorire la comprensione
reciproca tra giovani di diversi Paesi e promuovere la cittadinanza attiva dei giovani, in particolare
quella europea”. Perché non è la stessa cosa parlare di Europa e “mangiare alla stessa tavola con
coetanei di altri Paesi”. Un po’ come il servizio civile in Italia e l’esperienza dei “caschi bianchi”,
anche il Servizio volontario europeo rappresenta “un’occasione formativa, di crescita, magari per
ragazzi che non hanno mai fatto un’esperienza di vita fuori dalla famiglia di origine”. La durata va
dai 2 ai 12 mesi e, chi vuole farlo, deve scegliere tra i progetti proposti dai diversi enti, ovviamente
in un Paese diverso dal proprio. Umberto Ademollo dell’Agenzia per la democrazia locale ha
lanciato un monito, perché «se la strage dell’ex Jugoslavia è stata possibile per la debolezza
dell’Unione, oggi, mentre i suoi confini si allargano, manca ancora una visione chiara su quello che
l’Europa vuole diventare».
TAVOLA ROTONDA
MASS MEDIA CATTOLICI, VOCE DELLA “ECCLESIA IN EUROPA”
IL RUOLO DELLE TESTATE DI ISPIRAZIONE CRISTIANA
NELLA COSTRUZIONE COMUNITARIA
Gianni Borsa *
Dire Europa per dire confini superati, muri abbattuti, frontiere dilatate. Anche questa è una visione
– non certo l’unica – della costruzione europea, che a partire dalle prime Comunità economiche
(Ceca, Cee), negli anni Cinquanta del ‘900, ha via via preso forma, accrescendo il numero dei Paesi
partecipanti, la popolazione, le competenze delle istituzioni che hanno sede a Bruxelles e
Strasburgo. Una Unione europea particolarmente sotto pressione in questi anni di crisi economica,
cui è corrisposta una crisi politica che ha però avuto un effetto collaterale significativo: costringere
la stessa Ue e i suoi Stati membri a una sorta di esame di coscienza, con una rilettura dei pilastri che
reggono l’architettura comunitaria e della stessa identità del “soggetto Europa”.
Ma questo processo di revisione-rilancio, tuttora in corso e dagli esiti non scontati, sembrerebbe
procedere senza il pieno coinvolgimento dell’opinione pubblica, della società civile, con il rischio
di approfondire quella distanza tra cittadini e istituzioni europee da più parti denunciato. È il “gap
democratico” imputato al processo di edificazione dell’Europa unita e che, per ovvie ragioni,
chiama in causa i mass media. Sono infatti giornali, televisioni, radio, siti internet che hanno il
compito di informare sulla vita politica, sia essa locale, nazionale o europea: è mediante gli
strumenti della comunicazione sociale che il singolo cittadino può seguire il dibattito politico, le
decisioni assunte nei “palazzi” del potere, informarsi per giudicare, conoscere per poter essere
protagonista della vita democratica.
A questo proposito è convinzione diffusa che l’informazione a disposizione dei lettori sulle vicende
europee sia mediamente modesta, frammentaria, incompleta, troppe volte marcata da pre-giudizi e
da uno strisciante messaggio euroscettico. Così è difficile rendersi conto del complesso lavoro
svolto da Commissione, Europarlamento e Consiglio Ue; comprendere la direzione che assumono le
politiche comunitarie; valutare gli innumerevoli progetti Ue in corso di realizzazione nelle sfere di
sua competenza; verificare i risultati della complessiva azione Ue. Gli elettori – chiamati ogni
cinque anni a esprimere il loro voto per il Parlamento europeo – sulla base di quali informazioni
possono scegliere i loro rappresentanti in Europa, tenuto anche conto che la campagna elettorale in
genere si svolge, come avvenuto in passato, non attorno a una seria discussione politica sull’Ue ma
sulle vicende congiunturali interne degli Stati e sulle contrapposizioni nazionali?
Anche di questo si è discusso nel corso del convegno promosso a Gorizia - città italiana sul confine
con la Slovenia, dove il crollo della Cortina di ferro 25 anni fa si è avvertito profondamente - dal
settimanale cattolico “Voce isontina”, in collaborazione con la Federazione italiana dei settimanali
cattolici e con l’Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali della Conferenza episcopale. Una
tre-giorni non a caso intitolata “Europa e confini”, che ha analizzato nel corso di una tavola rotonda
il tema “In Europa da giornalisti cattolici”. Ne è emerso il convincimento che il deficit informativo
sul processo di integrazione comunitaria esiste, eccome, ma che esso possa essere colmato anche
grazie al contributo dei giornali del territorio quali sono i settimanali diocesani e diverse altre testate
cattoliche in Europa, vicinissimi – per loro storia e vocazione – ai lettori, alle famiglie, ai soggetti
vivi delle città e regioni.
In Italia tali giornali, diffusi in un milione di copie, sono radicati nella comunità cristiana, interpreti
delle specificità territoriali del Paese, senza per questo cadere nella tentazione dei particolarismi che
attraversano la Penisola. Giornali capaci di essere, al contempo, “di confine”, nel raccontare una
determinata e circoscritta realtà diocesana, e al contempo “ponti” fra la realtà locale e quella più
ampia, facendo proprio quell’universalismo che è un tratto caratterizzante la fede cristiana.
Tale capacità di tenere le radici ben salde nelle città per poi alzare gli occhi verso orizzonti più
distesi, può essere posta efficacemente al servizio di quella costruzione europea resasi necessaria
nel secondo dopoguerra per ridare pace e sviluppo all’Europa, continente che oggi – è sotto gli
occhi di tutti - ha ancora bisogno di pace e di sviluppo. Un’Europa che ha sempre avuto dalla
Chiesa cattolica un’attenzione benevola e forti incoraggiamenti.
Le testate cristianamente ispirate (carta stampata, siti internet, altri media) presenti in vari Paesi
europei possono essere, con il loro compito informativo, parte viva di quella “Ecclesia in Europa”
tratteggiata da Giovanni Paolo II con la sua esortazione apostolica del 2003. Questi strumenti di
comunicazione sociale “vicini alla gente” interpreterebbero in tal senso, e in maniera originale, una
sorta di “principio di sussidiarietà informativa”, portando nelle case dei lettori quell’Europa così
apparentemente lontana e che invece è ormai parte della nostra vita quotidiana.
*Corrispondente Agenzia Sir in Europa
Alla tavola rotonda hanno partecipato: Erich Leitenberger, Johanna Touzel, Anna Kowalewska.
I relatori si sono soffermati sulle modalità e le difficoltà del raccontare oggi l’Europa, le sue
istituzioni e le sue problematiche attraverso i massmedia. Ne è emerso il convincimento che il
deficit informativo esiste, eccome, ma che esso possa essere colmato anche grazie al contributo dei
giornali del territorio quali sono i settimanali diocesani, vicinissimi - per loro storia e vocazione - ai
lettori, alle famiglie, ai soggetti vivi delle città e regioni italiane. Giornali radicati nella comunità
cristiana, interpreti delle specificità territoriali del Paese, senza per questo cadere nella tentazione
dei particolarismi che attraversano la penisola. Giornali capaci di essere, al contempo, “di confine”,
nel raccontare una determinata e circoscritta realtà diocesana, e al contempo “ponti” fra la realtà
locale e quella più ampia, facendo proprio quell’universalismo che è un tratto caratterizzante la fede
cristiana. Tale capacità di tenere le radici ben salde nelle città per poi alzare gli occhi verso
orizzonti più distesi, sarebbe posta efficacemente al servizio di quella costruzione europea resasi
necessaria nel secondo dopoguerra per ridare pace e sviluppo all’Europa, continente che oggi - è
sotto gli occhi di tutti - ha ancora bisogno di pace e di sviluppo.
Anna Kowalewska, giornalista di Sir Europa, facendo riferimento alla crisi Ucraina ha ricordato
come in questo momento «l’Europa è in guerra sul confine russo» e, anche se appaiono fatti lontani
«in un mondo globalizzato sono veramente molto vicini», da cui la necessità di «riscoprire il cuore
dell’Europa, ovvero le radici, senza le quali non riusciremo a percepire ciò che ci accade intorno».
Johanna Touzel, portavoce della Comece, ha ricordato l’importanza della partecipazione alla
politica europea, perché l’Ue «ha competenze su immigrazione e diritto d’asilo, lotta alla
disoccupazione giovanile, politiche sociali, sostegno alla famiglia», «argomenti che come cristiani
ci riguardano e per i quali occorre informarsi e diventare attivi».
L’Europa ha sempre avuto dalla Chiesa cattolica un’attenzione benevola e forti incoraggiamenti. I
settimanali diocesani possono essere, con il loro compito informativo, parte viva di quella “Ecclesia
in Europa” tratteggiata da Giovanni Paolo II con la sua esortazione apostolica del 2003. I giornali
“vicini alla gente” interpreterebbero in tal senso, e in maniera originale, una sorta di “principio di
sussidiarietà informativa”, portando nelle case dei lettori quell’Europa così apparentemente lontana
e che invece è ormai parte della nostra vita quotidiana.