EUROPA E CONFINI EVROPA IN MEJE EUROPE E CUNFINS CONVEGNO NAZIONALE DELLA FISC (FEDERAZIONE ITALIANA SETTIMANALI CATTOLICI) GIOVEDÌ 3 - SABATO 5 APRILE 2014 SALA MAGGIORE DEL KULTURNI CENTER "LOJZE BRATUŽ" DI GORIZIA SALA MAGGIORE DEL KINEMAX IN PIAZZA VITTORIA A GORIZIA INDICE Giovedì 3 aprile 2014 – Prima Giornata PRESENTAZIONE IL POPOLO DI DIO, IN CAMMINO NELLA STORIA Mauro Ungaro Direttore Voce Isontina SALUTI Damjan Paulin Presidente della Società Grafica Slovena Jurij Paljk Direttore di Novi Glass Feliciano Medeot Direttore della Società Filologica Friulana Gianni Torrenti Assessore alla Cultura della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia Federico Portelli Assessore alla Cultura della Provincia di Gorizia Ettore Romoli Sindaco di Gorizia Andrea Melodia Presidente dell’Unione Cattolica Stampa Italiana Don Ivan Maffeis Vice Direttore dell’Ufficio Nazionale per le comunicazioni sociali della Cei S.E. Dino De Antoni Arcivescovo Emerito di Gorizia STORIA DI UNA CHIESA DI FRONTIERA: L’ARCIDIOCESI DI GORIZIA TRA OTTO E NOVECENTO Ivan Portelli Docente universitario NON TOGLIAMO OSSIGENO AI GIORNALI DELLE PERIFERIE Francesco Zanotti Presidente FISC BOSNIA ED ERZEGOVINA: CUORE DEI BALCANI E CARTINA DI TORNASOLE DELL'EUROPA S.E. Mons. Pero Sudar Vescovo ausiliare di Sarajevo Venerdì 4 aprile 2014 – Seconda giornata OMELIA Mons. Carlo Roberto Maria Redaelli Arcivescovo di Gorizia TAVOLA ROTONDA A GORIZIA, FRA EUROPA E ADRIATICO: DIALOGHI FRA ISTITUZIONI, GIORNALISTI E GIOVANI SUL FUTURO DELL’EUROPA, DELL’ALLARGAMENTO E DELL’INTEGRAZIONE TAVOLA ROTONDA MASS MEDIA CATTOLICI, VOCE DELLA “ECCLESIA IN EUROPA” IL RUOLO DELLE TESTATE DI ISPIRAZIONE CRISTIANA NELLA COSTRUZIONE COMUNITARIA Gianni Borsa * PRESENTAZIONE Il tema scelto per l’annuale convegno nazionale della Fisc (Federazione italiana settimanali cattolici), tenutosi dal 3 al 5 aprile 2014 – che ha goduto del patrocinio dell’Amministrazione comunale e di quella provinciale di Gorizia – è stato «Europa e confini». Un tema declinato, significativamente, nelle tre lingue (italiano, sloveno e friulano) parlate dalle popolazioni dell’Isontino per mostrare la ricchezza di un territorio che costituisce un unicum a livello continentale. Molto significativa la sede scelta, la città di Gorizia – “situata all’incrocio di correnti di pensiero, di attività e di molteplici iniziative, sembra rivestire una singolare missione, quella di essere la porta dell’Italia che pone in comunicazione il mondo latino con quello slavo: porta aperta sull’Est Europeo e sull’Europa Centrale. La vostra Terra, particolarmente provata in questo secolo da due guerre terribili, ha saputo mantenere ardente il desiderio di rinascere a una speranza fattiva. Gorizia, tu conosci il valore della cooperazione e del dialogo, dei passi solidali per realizzare un vero e integrale progresso. Sappi trarre frutto dalla tua sperimentata saggezza”, come disse in un suo discorso del 2 maggio 1992, Giovanni Paolo II – dettata essenzialmente dalla ricorrenza di due anniversari. Nel luglio di cento anni fa scoppiava quella che Benedetto XV definì “l’inutile strage” e che proprio in questi territori vide cadere centinaia di migliaia di uomini provenienti da tutta Europa. Un avvenimento le cui conseguenze ancora influiscono sulla storia del Vecchio continente ove solo si pensi alle tensioni tuttora esistenti nell’area Balcanica in Stati che molto spesso sono ancora alla ricerca di una propria identità. Nel febbraio del 1964, poi, usciva il primo numero del settimanale “Voce Isontina”. Con esso la Chiesa goriziana sceglieva, negli anni del Vaticano II, di dare nuovo slancio alla propria presenza nella società grazie a un rinnovato impegno nel mondo dei media, proseguendo in qual modo su un cammino iniziato nel lontano 1873 con la pubblicazione del periodico cattolico “L’Eco del Litorale”. Il compito che “Voce Isontina” si prefiggeva venne sottolineato nel primo editoriale: “Ne risulta l’opportunità e la necessità di dare degli avvenimenti una prospettiva ed una interpretazione tale da consentire anche ai meno provveduti un orientamento alla formazione di un’opinione che si inquadri nelle esigenze della vita comunitaria, nella precisa volontà di compiere un considerevole e doveroso servizio realizzando la visuale giusta degli avvenimenti”. Il Settimanale dell’Arcidiocesi è stato fondato nel 1964 per volere dell’allora arcivescovo monsignor Andrea Pangrazio. Con il direttore don Maffeo Zambonardi collaboravano sacerdoti e laici provenienti dal mondo dell’associazionismo cattolico diocesano. L’arcivescovo monsignor Pietro Cocolin ne affidò la direzione nel 1979 a don Lorenzo Boscarol che guidò il giornale sino all’agosto 1998. Gli successe don Andrea Bellavite che mantenne la direzione sino all’aprile 2007. Dall’aprile all’ottobre 2007 il giornale venne firmato da mons. Giuseppe Baldas. Ad ottobre 2007 l’arcivescovo mons. De Antoni ne ha affidato la direzione a Mauro Ungaro. Attualmente il settimanale stampa in media 3500 copie a numero ed esce, da gennaio 2010, con una foliazione minima di 24 pagine; è diffuso in tutto il territorio della diocesi. “Voce Isontina” ha sempre rivolto una particolare attenzione alla realtà del territorio diocesano ed anche l’attuale foliazione segue tale impostazione. Ad una prima parte generale, con le pagine dedicate alla Chiesa, alla Società, alla Cultura ed allo Sport seguono quelle riservate alle Zone Pastorali della diocesi, facenti – ciascuna – riferimento a proprie redazioni (Gorizia, Bassa Friulana, Grado, Mandamento, Cormonese-Gradiscano). Fra le pagine ospitate si segnalano quelle proposte con cadenza mensile dall’Unitalsi diocesana e, in lingua friulana, dalla Società Filologica Friulana; pagine periodiche vengono curate dalle aggregazioni laicali diocesane. Particolarmente significativa è risultata la quinquennale esperienza de "L’Eco di Gorizia", supplemento al settimanale interamente redatto dai detenuti della Casa circondariale di Gorizia. Dire Europa per dire confini superati, muri abbattuti, frontiere dilatate. Anche questa è una visione – non certo l’unica – della costruzione europea, che a partire dalle prime Comunità economiche (Ceca, Cee), negli anni Cinquanta del ‘900, ha via via preso forma, accrescendo il numero dei Paesi partecipanti, la popolazione, le competenze delle istituzioni che hanno sede a Bruxelles e Strasburgo. Una Unione europea particolarmente sotto pressione in questi anni di crisi economica, cui è corrisposta una crisi politica che ha però avuto un effetto collaterale significativo: costringere la stessa Ue e i suoi Stati membri a una sorta di esame di coscienza, con una rilettura dei pilastri che reggono l’architettura comunitaria e della stessa identità del “soggetto Europa”. Ma questo complesso processo di revisione-rilancio, tuttora in corso e dagli esiti non scontati, sembrerebbe procedere senza il pieno coinvolgimento dell’opinione pubblica, della società civile, con il rischio di approfondire quella distanza tra cittadini e istituzioni europee da più parti denunciato. È il “gap democratico” imputato al processo di edificazione dell’Europa unita e che, per ovvie ragioni, chiama in causa i mass media. Sono infatti giornali, televisioni, radio, siti internet che hanno il compito di informare sulla vita politica, sia essa locale, nazionale o europea: è mediante gli strumenti della comunicazione sociale che il singolo cittadino può seguire il dibattito politico, le decisioni assunte nei “palazzi” del potere, informarsi per giudicare, conoscere per poter essere protagonista della vita democratica. A questo proposito è convinzione diffusa che l’informazione a disposizione dei lettori italiani sulle vicende europee sia molto modesta, frammentaria, incompleta, troppe volte marcata da pregiudizi e da uno strisciante messaggio euroscettico. Così è difficile rendersi conto del lavoro svolto da Commissione, Europarlamento e Consiglio Ue; comprendere la direzione che assumono le politiche comunitarie; valutare gli innumerevoli progetti Ue in corso di realizzazione nelle sfere di sua competenza; verificare i risultati della complessiva azione Ue. Alla presenza delle autorità regionali, provinciali e comunali, il convegno si è aperto giovedì 3 aprile, presso la Sala Maggiore del Kulturni Center "Lojze Bratuž" di Gorizia, introdotto da Mauro Ungaro, direttore del settimanale goriziano “Voce Isontina”, che ha festeggiato i primi 50 anni della sua vita. «Una testata» – ha detto il suo direttore – che è sempre stata, come tutti i periodici Fisc, al servizio del territorio ma aperta al mondo, soprattutto in forza della particolare posizione di Gorizia. Sono poi intervenuti, per indirizzare i loro saluti ai convegnisti: Damjan Paulin, Presidente della Società Grafica Slovena, Jurij Paljk, Direttore di Novi Glas, Feliciano Medeot, Direttore della Società Filologica Friulana, Gianni Torrenti, Assessore alla Cultura della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia, Federico Portelli, Assessore alla Cultura della Provincia di Gorizia, Ettore Romoli, Sindaco di Gorizia, Andrea Melodia, Presidente dell’Unione Cattolica Stampa Italiana, Don Ivan Maffeis, Vice Direttore dell’Ufficio Nazionale per le comunicazioni sociali della Cei, S.E. De Antoni, Arcivescovo Emerito di Gorizia. Ha fatto seguito l’intervento del professor Ivan Portelli, cha ha tenuto una relazione storica su Storia di una chiesa di frontiera: l’Arcidiocesi di Gorizia tra Otto e Novecento, nel corso della quale, con grande maestria, ha descritto la storia di una Chiesa di grande tradizione e importanza. Il presidente della FISC, Francesco Zanotti, nel suo intervento, ha illustrato le motivazioni del convegno nella città di confine, sintetizzato i numeri e gli scopi statutari della FISC e ribadito le richieste della FISC relative alla tutela del pluralismo dell’informazione, garantendo ai settimanali cattolici la quota di contributi pubblici, decurtati negli ultimi anni, necessari alla loro sopravvivenza. La Lectio magistralis – intitolata Bosnia ed Erzegovina: cuore dei Balcani e cartina di tornasole dell’Europa – è stata tenuta da monsignor Piero Sudar, vescovo ausiliare di Sarajevo, che ha sottolineato l’importanza del dialogo e, portando l’esempio delle scuole interetniche nate in Bosnia per iniziativa della sua diocesi, ha espresso la necessità di «trovare il modo di essere una società interetnica, interreligiosa e interculturale». Monsignor Sudar chiede all’Europa più coraggio: "Dovrebbe riconoscere che la divisione fatta a Dayton nel 1995, che ha spaccato il Paese in due parti, non ha portato alcun progresso”. “È ora di cancellare questa linea che divide il Paese – ha proseguito. “Avvelenata dalle ingiustizie inflitte e patite, la gente del mio Paese non ha ancora il coraggio di levare lo sguardo, né la capacità d’intuire un futuro migliore”, ha detto Sudar. “Il peso che ci schiaccia sono le profonde ferite della guerra, che a causa di una pace ingiusta non trovano modo di guarire”. E l’Europa? Per ora resta solo a guardare, secondo il vescovo di Sarajevo. “La Bosnia si sente tradita dall’Europa e dalle potenze occidentali, che l’hanno messa in un limbo che non le appartiene e non le permette di avere un’identità”, ha sottolineato Mauro Ungaro, direttore del settimanale diocesano di Gorizia, Voce Isontina, promotore del convegno in occasione dei 50 anni di vita della testata. A prendere le redini dovrebbe essere proprio quell’Unione europea che ha precluso alla Bosnia Erzegovina la possibilità di presentare domanda di adesione finché permane l’ufficio di alta rappresentanza creato con gli accordi di Dayton, che però non può chiudere fino a quando la situazione non si è stabilizzata. All’Ue mons. Sudar ha chiesto di “avere più coraggio nel proporre soluzioni possibili e vivibili”, accantonando quella che “negli ultimi vent’anni si è dimostrata una soluzione sbagliata”. Si è poi proceduto alla cerimonia di premiazione dei partecipanti all’edizione 2013 del Concorso nazionale – giunto alla sesta edizione – dedicato alla memoria del giornalista cattolico "Giuseppe Fallani", sul tema Europa e territorio: un futuro comune. È risultata vincitrice Marilisa Della Monica, del settimanale di Agrigento L’Amico del Popolo, premiata da Letizia e Marta Fallani, rispettivamente figlia e nipote del primo direttore del Sir, nonché segretario Fisc per un trentennio, per un “articolo – riporta la motivazione del premio – che denuncia una situazione di grave ingiustizia sociale in un territorio che è ‘ultimo’ per l’Europa e ‘primo’ per chi chiede aiuto e asilo: Lampedusa e Linosa, simboli delle estreme necessità di giustizia, uguaglianza e solidarietà fra tutti i cittadini europei”. Presentando il premio, l’ex direttore del Sir Paolo Bustaffa – che fu a fianco di Fallani negli ultimi 10 anni di lavoro – ha rimarcato la sua “libertà nell’appartenenza”, usando l’immagine della sfera e del poliedro – più volte proposta da Papa Francesco – come sintesi del suo “pensiero culturale ed ecclesiale”. “Non il pensiero unico, ma il pensiero comune. La ricchezza – ha rilevato – è quella del poliedro, dove le diversità sono unite, fanno convivialità e sono la pluralità bella che i nostri settimanali, con il Sir, possono offrire oggi all’Italia e all’Europa”. Il pomeriggio si è concluso con la presentazione, da parte di Turismo FVG, di alcuni itinerari turistico-culturali su Itinerari religiosi e Grande Guerra. La giornata del 4 aprile – preceduta dalla Santa Messa nella chiesa di Sant’Ignazio, a Gorizia, celebrata da monsignor Carlo Roberto Maria Redaelli, Arcivescovo di Gorizia – si è aperta con un convegno nella Sala Maggiore del Kinemax in piazza Vittoria, a Gorizia, organizzata in collaborazione con l’Istituto di Sociologia Internazionale di Gorizia (ISIG) e resa possibile dal contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Gorizia. All’incontro – che ha avuto come tema A Gorizia, fra Europa e Adriatico: dialoghi fra Istituzioni, giornalisti e giovani sul futuro dell’Europa, dell’allargamento e dell’integrazione – hanno partecipato, insieme ai giornalisti della FISC, oltre 200 studenti delle scuole superiori di Gorizia. Il dibattito, al quale hanno partecipato Alfonso Zardi, direttore del Dipartimento per la Democrazia locale e regionale del Consiglio d’Europa, Manuela Lussi, responsabile del Dipartimento per le questioni economiche ed ambientali della missione permanente Osce in Albania, e Mateja Zorn del Gect Go, progetto di cooperazione transfrontaliera tra i comuni di Gorizia, Nova Gorica e Šempeter-Vrtojba, è stato coordinato e moderato da Daniele Del Bianco, direttore dell’ISIG, il quale ha tra l’altro affermato: “I confini, nell’Europa dei 28, non sono più quelli amministrativi dei singoli Stati, ma ce ne sono di soggettivi che ancora oggi permangono”. Del Bianco ha sottolineato l’urgenza di attuare strategie di cooperazione economica e culturale e ha spiegato l’importanza dei GECT (Gruppi Europei Cooperazione Territoriale) che, proprio a Gorizia hanno avuto il primo esempio italiano. “Di Europa non basta parlare, bisogna viverla. Per maturare davvero una coscienza europea è necessario aprirsi, andare sul posto”, ha affermato Mateja Zorn. Ecco, quindi, che tornano in gioco i giovani, sempre più numerosi in viaggio da un Paese all’altro per motivi di studio oppure per svago. Ma c’è anche un altro modo per costruire la “cittadinanza europea”. Si chiama “Erasmus+”, nome del programma comunitario che rende possibile, per tutti i giovani tra i 17 e i 30 anni residenti in un Paese dell’Ue, il Servizio volontario europeo (Sve). “È un’esperienza fondamentale per la costruzione di un’Europa davvero unita”, sottolinea Mattia Vinzi di Europe Direct Trieste, che ha illustrato le nuove modalità di partecipazione ai progetti Erasmus, «un altro modo per costruire la cittadinanza europea», «programma comunitario che rende possibile, per tutti i giovani tra i 17 e i 30 anni residenti negli Stati membri, il Servizio volontario europeo». Vinzi ha raccontato che cominciò a interessarsi di Europa nel 2001 nelle isole Azzorre, dove trascorse un periodo, grazie al Sve, in una cooperativa di recupero per tossicodipendenti. Il Servizio volontario europeo, ha detto, “si propone di promuovere la solidarietà e la tolleranza tra i giovani, al fine di rafforzare la coesione sociale dell’Ue, ma anche favorire la comprensione reciproca tra giovani di diversi Paesi e promuovere la cittadinanza attiva dei giovani, in particolare quella europea”. Perché non è la stessa cosa parlare di Europa e “mangiare alla stessa tavola con coetanei di altri Paesi”. Un po’ come il servizio civile in Italia e l’esperienza dei “caschi bianchi”, anche il Servizio volontario europeo rappresenta “un’occasione formativa, di crescita, magari per ragazzi che non hanno mai fatto un’esperienza di vita fuori dalla famiglia di origine”. La durata va dai 2 ai 12 mesi e, chi vuole farlo, deve scegliere tra i progetti proposti dai diversi enti, ovviamente in un Paese diverso dal proprio. Umberto Ademollo dell’Agenzia per la democrazia locale ha lanciato un monito, perché «se la strage dell’ex Jugoslavia è stata possibile per la debolezza dell’Unione, oggi, mentre i suoi confini si allargano, manca ancora una visione chiara su quello che l’Europa vuole diventare». Nel pomeriggio del 4 aprile, grazie al contributo della Federazione delle Banche di Credito cooperativo del Friuli Venezia Giulia, presso Palazzo Attems di Gorizia, si è svolta una tavola rotonda, moderata da Gianni Borsa, corrispondente di Sir Europa da Bruxelles, alla quale hanno partecipato: Erich Leitenberger, Johanna Touzel, Anna Kowalewska. I relatori si sono soffermati sulle modalità e le difficoltà del raccontare oggi l’Europa, le sue istituzioni e le sue problematiche attraverso i massmedia. Ne è emerso il convincimento che il deficit informativo esiste, eccome, ma che esso possa essere colmato anche grazie al contributo dei giornali del territorio quali sono i settimanali diocesani, vicinissimi – per loro storia e vocazione – ai lettori, alle famiglie, ai soggetti vivi delle città e regioni italiane. Giornali radicati nella comunità cristiana, interpreti delle specificità territoriali del Paese, senza per questo cadere nella tentazione dei particolarismi che attraversano la penisola. Giornali capaci di essere, al contempo, “di confine”, nel raccontare una determinata e circoscritta realtà diocesana, e al contempo “ponti” fra la realtà locale e quella più ampia, facendo proprio quell’universalismo che è un tratto caratterizzante la fede cristiana. Tale capacità di tenere le radici ben salde nelle città per poi alzare gli occhi verso orizzonti più distesi, sarebbe posta efficacemente al servizio di quella costruzione europea resasi necessaria nel secondo dopoguerra per ridare pace e sviluppo all’Europa, continente che oggi – è sotto gli occhi di tutti – ha ancora bisogno di pace e di sviluppo. Anna Kowalewska, giornalista di Sir Europa, facendo riferimento alla crisi Ucraina ha ricordato come in questo momento «l’Europa è in guerra sul confine russo» e, anche se appaiono fatti lontani «in un mondo globalizzato sono veramente molto vicini», da cui la necessità di «riscoprire il cuore dell’Europa, ovvero le radici, senza le quali non riusciremo a percepire ciò che ci accade intorno». Johanna Touzel, portavoce della Comece, ha ricordato l’importanza della partecipazione alla politica europea, perché l’Ue «ha competenze su immigrazione e diritto d’asilo, lotta alla disoccupazione giovanile, politiche sociali, sostegno alla famiglia», «argomenti che come cristiani ci riguardano e per i quali occorre informarsi e diventare attivi». L’Europa ha sempre avuto dalla Chiesa cattolica un’attenzione benevola e forti incoraggiamenti. I settimanali diocesani possono essere, con il loro compito informativo, parte viva di quella “Ecclesia in Europa” tratteggiata da Giovanni Paolo II con la sua esortazione apostolica del 2003. I giornali “vicini alla gente” interpreterebbero in tal senso, e in maniera originale, una sorta di “principio di sussidiarietà informativa”, portando nelle case dei lettori quell’Europa così apparentemente lontana e che invece è ormai parte della nostra vita quotidiana. La mattinata di sabato 5 aprile si è aperta con la celebrazione della Santa Messa nel santuario di Castagnevizza, presieduta da monsignor Peter Štumpf s.d.B., vescovo di Murska Sobota (Slo) e Delegato per le comunicazioni sociali della Conferenza episcopale slovena. Al termine dei lavori, i partecipanti si sono trasferiti ad Aquileia – città da dove nei primi secoli dell’era cristiana partirono i missionari che portarono il Vangelo alle popolazioni dell’Europa centrale – per una visita guidata per gruppi alla scoperta della città romana, organizzata insieme alla Fondazione "Società per la conservazione della basilica di Aquileia". PRIMA GIORNATA Giovedì 3 maggio 2014 IL POPOLO DI DIO, IN CAMMINO NELLA STORIA Mauro Ungaro * Vorrei che fossimo capaci di pensare insieme, anche solo per un istante, alla prima volta che abbiamo messo piede nella redazione di quello che poi sarebbe diventato il nostro settimanale, cercando di ritrovare, nel profondo della memoria, i volti dei presenti, magari le parole che ci rivolse il direttore o il caporedattore o il caposervizio che ci accolse. Se poi avessimo il coraggio di raccontarcelo a voce alta e di condividere insieme questo momento, probabilmente condivideremmo la trepidazione, certamente ricorderemo con riconoscenza i volti di chi ci accolse e magari anche il titolo o l’argomento del primo pezzo che ci venne commissionato, ma soprattutto l’orgoglio di vedere per la prima volta la nostra firma risaltare quasi fosse l’unica parola nera nel mare bianco della pagina. Se riflettete – spesso ce ne dimentichiamo – quello è il momento che ha segnato in maniera indelebile la nostra vita, soprattutto professionalmente, ma anche umanamente. Ed è quel momento che ci permette di essere qui oggi, in questo lembo estremo del nostro grande Paese. Con la mente, guardandovi, cerco di associare i vostri nomi, i vostri volti, al nome delle vostre Diocesi: Macerata, Udine, Avellino, Siracusa, Susa, Cava, Agrigento, Verona, Fabriano, Genova, Firenze, Albano, Jesi. Un elenco che rappresenta un viaggio lungo nell’Italia dei mille campanili. Una diversità di cui magari non è facile raccogliere l’unità, tanto siamo apparentemente diversi per storia, formato e tiratura. Ma proprio per questo – e mi permetto di sottolinearlo qui, per gli ospiti di questa serata, che magari si chiedono chi sono queste persone giunte da tutt’Italia per festeggiare l’anniversario di un giornale di periferia, di provincia – rappresenta la forza della nostra Federazione e la consapevolezza che 48 anni fa, la volontà dei padri fondatori di dare vita alla FISC, rappresentava un’intuizione veramente profetica. Per noi credenti, il dono della profezia non significa essere dei maghi, ma saper salvaguardare il futuro, facendo discernimento sui segni dell’azione dello Spirito Santo nella nostra vita, nelle nostre comunità, nelle nostre Chiese. Oggi più che mai ci rendiamo conto che da soli non riusciremo ad andare da nessuna parte. In certi momenti, nel passato anche recente, probabilmente lo abbiamo creduto, anche orgogliosamente, ma oggi sappiamo che non è più così e mi permetto di dirlo da direttore di un settimanale probabilmente tra i più piccoli, uno di quei settimanali che essendo piccolo, proprio per questo forse sente la crisi meno di tanti di voi, che professionalmente, strutturalmente e numericamente avete dimensioni più importanti. I tagli drastici statali dei contributi all’editoria, che così pesantemente stanno minando il nostro futuro, e il calo degli investimenti pubblicitari, comportano in noi la consapevolezza che solo facendo squadra riusciremo a continuare a mantenere vivo quel rapporto che abbiamo sempre saputo instaurare e far crescere in tutti questi anni con i nostri lettori. Quel rapporto che non è assolutamente e semplicemente un contratto commerciale, come quando si acquista un etto di pane al supermercato, ma costituisce quello che i cultori del diritto chiamano legame sinallagmatico, ad indicare la forza della reciprocità di un rapporto che è fondamentale, perché basato non sull’io compro e tu vendi, ma su reciproca stima e fiducia e soprattutto sulla condivisione di principi ed ideali. E questo porta a ricordare, prima di tutto a noi stessi, ma anche ai nostri editori, che il metodo di valutazione di un settimanale diocesano non può mai essere solo il numero delle copie che riusciamo a vendere. Quelle copie, che se potessero parlare, racconterebbero innanzitutto la quotidianità sempre più sofferta delle migliaia di famiglie che ci leggono e che rappresentano la Chiesa, il popolo di Dio, non chiuso nelle sacrestie, ma in cammino nella storia, come ci ricordano i padri del Concilio Vaticano II. Essere in cammino nella storia – mi permetto di ricordarlo ad alta voce, perché è una frase che mi piace rileggere ogni mattina – significa comprendere che le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri, soprattutto di tutti coloro che soffrono, sono pure le speranze, le tristezze, le angosce dei discepoli di Cristo e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nei loro cuori e forse anche nei nostri settimanali. Ho citato il Concilio Vaticano II perché Voce Isontina è uno dei fili di quel Concilio. Siamo nati il 16 febbraio 1964. Un gruppo di giovani raccolse l’invito dell’allora arcivescovo di Gorizia, Monsignor Andrea Pangrazio, attraverso il primo direttore, Monsignor Maffeo Zambonardi, perché la Chiesa diocesana di Gorizia potesse avere una rinnovata presenza nella società. Per farlo, era necessario dotarsi di un nuovo strumento di comunicazione sociale. Venne raccolta in questo modo un’eredità che può essere fatta risalire al 1871, quando vide la luce il primo periodico d’ispirazione cristiana nella Diocesi. L’intuizione di quel gruppo di fondatori – ce n’è qualcuno in sala, tra cui il professor Sergio Tavano, che saluto con riconoscenza ed affetto – fu di credere profondamente che Gorizia potesse diventare luogo d’incontro fra coloro che le ideologie non volevano più far incontrare, nella certezza che attraverso un cammino di riconciliazione e di recupero della memoria si potessero intessere i fili dei dialoghi che sembravano spezzati. Erano, non dimentichiamolo, gli anni della Guerra Fredda. Il Muro di Berlino, che aveva ancora la calce fresca, era stato preceduto, tre lustri prima, dai muri e dai fili spinati che avevano diviso questa nostra città. E così Voce Isontina si unì agli Istituti che erano già sorti, penso all’Istituto per gli Incontri Culturali Mitteleuropei, al Concorso di Canto, al Concorso folcloristico, a riviste come Iniziativa Isontina, intitolata alla memoria di quel senatore Rizzatti, di cui qui in sala – per quegli strani scherzi del destino – ci sono alcuni lontani parenti che sono presenti tra noi e collaborano ad un giornale della Sicilia. Accennavo a Monsignor Pangrazio. Fu lui, lo dico per inciso, il responsabile del settore italiano della sala stampa al Concilio Vaticano II e nella sua qualità di segretario della Commissione Episcopale per le Comunicazioni Sociali, intervenne al convegno nazionale dei direttori dei settimanali diocesani, tenuto a Verona nel maggio 1966, tenendo una prolusione su Il settimanale diocesano nella realtà odierna. Quell’assemblea fu il luogo dove si stabilì la nascita della nostra Federazione, che sarebbe avvenuta nel novembre dello stesso anno a Roma, durante la storica udienza con Paolo VI. Se andate sul sito del Vaticano e cercate il testo di quell’udienza del 1966 del Papa ai settimanali diocesani, vedrete che inizia con il ringraziamento alle parole che Monsignor Pangrazio aveva rivolto ai settimanali nel mese di maggio. Nominato segretario generale della Conferenza Episcopale Italiana, Monsignor Pangrazio rimase ancora arcivescovo a Gorizia per alcuni mesi, prima di lasciare la cattedra, nella primavera seguente, al nuovo arcivescovo. Come vedete, quindi, sono forti e particolari i legami tra la nostra Diocesi, il nostro settimanale e la Federazione, di cui ci vantiamo di essere stati tra i fondatori. Come tema di questo nostro incontro, abbiamo scelto Europa e confini. Qualcuno, in questi mesi, scherzando, mi ha chiesto se non siamo stufi di parlare di Europa. No, non lo siamo. Forse perché qui sul confine, più che altrove, sentiamo che l’Europa è la strada per il futuro dei nostri territori e dei nostri Paesi. Nel momento in cui lievita il numero di coloro che assumono posizioni populistiche anti-europee – come ci ha ben fatto conoscere il Sir, di cui saluto il direttore, Domenico Delle Foglie, qui presente – non crediamo che il dibattito sul futuro del continente possa essere strumentalmente ridotto solo ad un referendum sull’euro. L’Europa è un’opportunità, prima di tutto per i nostri giovani, ma chiede di essere guardata non più come un rubinetto di finanziamento. Chiede coinvolgimento, mentalità di dialogo. Se ognuno dei giovani funzionari delle multinazionali e del mondo delle lobby politico-finanziarie, che riempiono Place de Luxemburg a Bruxelles, davanti al Parlamento europeo, all’ora dell’aperitivo serale, portasse la bandiera del proprio Paese, ci accorgeremmo che gli italiani sono tra i meno rappresentati e questo vorrà pur dire qualcosa. Fare un convegno del genere a Gorizia, può magari sembrare scontato. In verità, noi non vogliamo parlare dei confini materiali o di quelli invisibili agli occhi, ma altrettanto pesanti e che anche nel nostro territorio albergano ancora nel cuore di molti. Quei confini che portano a considerare che parli una lingua diversa, che professi una religione diversa o vieni culturalmente da luoghi a noi non simili, da guardare con diffidenza, nel migliore dei casi o, più spesso, da far sparire. Vogliamo cercare di dare del confine una chiave di lettura positiva, come luogo dove gli estremi s’incontrano e incontrandosi si arricchiscono reciprocamente. Lo facciamo in questa nostra terra, dove il mondo latino, slavo e tedesco sono entrati in contatto per secoli, cercando di superare l’inevitabile differenza e donandosi quel qualcosa di reciproco, che ha arricchito ciascuno, facendo di questa terra veramente un unicum in tutto il continente, qui dove l’Europa respira – come diceva il Santo Padre Giovanni Paolo II – con due polmoni: l’occidente e l’oriente. In questa terra, eredi di quella Chiesa madre di Aquileia, dove il Vangelo è stato portato ai popoli dell’Europa centrale nei primi secoli del Cristianesimo. Non vado oltre. L’emozione rischierebbe di rendermi veramente troppo prolisso. La storia del settimanale la troverete nel numero speciale che è nelle vostre mani, che contiene il contributo di tanti ed anche l’analisi sull’oggi e sul possibile domani del nostro territorio. Concludo con i grazie. Grazie a quanti hanno contribuito alla fedeltà di Voce Isontina in questo mezzo secolo. Parto dai direttori: Monsignor Maffeo Zambonardi, Lorenzo Boscarol, Padre Antonio Vitale Bommarco, l’Arcivescovo che tenne l’interim per alcuni mesi, Andrea Bellavite, Monsignor Giuseppe Baldas. Grazie alle autorità presenti, regionali, provinciali, comunali. Alle autorità militari. Grazie agli Arcivescovi, che hanno sostenuto il giornale: da Monsignor Pangrazio a Monsignor Cocolin a Padre Bommarco; da Monsignor Dino De Antoni, presente in sala, a Monsignor Carlo Roberto Maria Redaelli, che oggi non ha potuto essere presente con noi, perché in questi momenti sta incontrando Monsignor Capovilla e sta guidando un pellegrinaggio di sacerdoti diocesani nei luoghi di Paolo VI e Giovanni XXIII. Grazie ai collaboratori, tantissimi e ce ne sono molti, anche giovani, qui in sala. Questo è un segno di speranza per il nostro futuro. Grazie agli amministratori, ai diffusori, ai sacerdoti e ai religiosi. Vi chiedo un applauso per una persona speciale che è qui presente in sala. Credo che in questo momento sia il più anziano collaboratore di Voce Isontina, Giuseppe Slanisca: 95 anni tra qualche giorno e per lunghi anni è stato colui che è riuscito a far quadrare i conti del giornale. Grazie a chi ha reso possibile quest’evento: Pierpaolo, Selina, Simonetta, ai quali si sono aggiunti Mariana e Sergio. Un grazie a chi ha ritenuto possibile tutto questo: portare un evento così grande in una città così piccola come Gorizia. Grazie all’amministrazione regionale, anche attraverso Turismo FVG, alle amministrazioni provinciale e comunale, alla Fondazione Cassa di Risparmio di Gorizia, alla Federazione delle Banche di Credito Cooperativo del Friuli Venezia Giulia, alla Coldiretti, al Centro Culturale della minoranza slovena, che ci ospita, all’Istituto di Sociologia Internazionale di Gorizia, alla Fondazione Società per la conservazione della Basilica di Aquileia. Grazie ai relatori, in primo luogo a Monsignor Sudar. Grazie soprattutto a Voi, a ciascuno di voi singolarmente. Vorrei veramente stringere la mano e dire grazie. Arrivare qui non è semplice. Vi siete sobbarcati un lungo viaggio. Di questo vi rendiamo veramente merito. Vorremmo rendere queste giornate indimenticabili. Vi porto infine i saluti di chi avrebbe voluto essere qui tra noi, ma non ha potuto: Carmine Mellone e Claudio Tracanna. *Direttore di “Voce Isontina” SALUTO di Damjan Paulin * Questo centro porta il nome di Lojze Bratuž, che era un musicista, organista, compositore, vittima del fascismo solo perché era sloveno. Vi ringrazio per aver scelto questo Centro, che è un luogo d’incontro tra comunità diverse, tra sloveni, italiani, friulani, sloveni al di là dell’ex confine e sloveni presenti nella regione Friuli Venezia Giulia. È un Centro polifunzionale, con una sala grande, una sala piccola, spazi per mostre espositive, una palestra per attività sportiva, la sede dei boy scout, un centro musicale, con tante associazioni. È un Centro vivo, che raggruppa 200 sportivi, 100 boy scout, 300 giovani musicisti, innumerevoli associazioni della provincia di Gorizia. Il lavoro che voi svolgete è importantissimo, perché informate e formate specialmente i giovani. Formulo a Voce Isontina, per il suo 50mo anniversario, i migliori auguri di continuare nella propria attività per i prossimi 50 e più anni. *Presidente della Società Grafica Slovena SALUTO di Jurij Paljk * Solo un caro saluto. Sono molto contento e ringrazio anche Mauro e la sua squadra, specialmente per una cosa: cerchiamo non solo di convivere, ma di vivere questa terra. Faccio mie le parole di Mauro, quando dice che purtroppo a Gorizia bisogna venire apposta e poiché siete venuti, anche da parte del nostro settimanale sloveno – che è il fratello di Voce Isontina oppure Voce Isontina la sorella nostra, come volete, collaboriamo insieme – il nostro augurio è che trascorriate tre giorni bellissimi. *Direttore di “Novi Glas” SALUTO di Feliciano Medeot * Il Friuli orientale è una briciola della Grande Patria, delle immense stelle che solo il Signore conosce per nome. Questo forse è il saluto migliore per queste giornate di lavoro e soprattutto un modo per conoscere Gorizia. È una città che ha una storia importante. A meno di un chilometro da qui, abbiamo un confine che non è confine. Ma proprio questo confine che non è confine è lo sguardo per domani. Dieci anni fa, il primo maggio del 2004, si apriva una nuova Europa. Cento anni fa si chiudeva un’altra Europa e questo è un discorso che deve cominciare, deve continuare. Soprattutto il mondo cattolico, dei cattolici impegnati nel giornalismo, può dare una svolta, anche per quanto riguarda la nostra esperienza. Vi voglio salutare usando una parola friulana: mandi. Vuol dire: vi mettiamo nelle mani di Dio e questo forse è l’augurio migliore. *Direttore della Società Filologica Friulana SALUTO di Gianni Torrenti * Porgo a voi tutti i saluti della Presidente, Debora Serracchiani. Sono contento di partecipare ad una riflessione, che riguarderà anche la comunicazione, nel senso che una riflessione sulla capacità di comunicare e sulle prospettive che il giornalismo ha, è fondamentale. Perché c’è un’evoluzione della comunicazione molto rapida, molto importante, che impone la sfida di riuscire a mantenere la capacità di un linguaggio realmente popolare. Quello che hanno i vostri giornali, l’incardinamento al quotidiano, sposandolo con una carica etica forte. Quindi, popolarità, facilità di lettura, ma anche capacità di orientamento. Benvenuti in Friuli Venezia Giulia. *Assessore alla Cultura della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia SALUTO di Federico Portelli * Anche da parte dell’Amministrazione Provinciale un caro saluto, un ringraziamento in realtà a chi ha così bene e con lungimiranza organizzato quest’appuntamento nel nostro territorio. Quando, più o meno un anno fa, il consigliere provinciale Silli venne a chiedermi un’opinione su come potevamo collaborare all’iniziativa, fui subito entusiasta. Il tema scelto fu il secondo motivo per cui decidemmo di sostenere l’iniziativa: l’Europa e i suoi confini, che ha visto il nostro territorio come triste protagonista del bene e del male, nella storia del Novecento. La prima parte del secolo iniziava 100 anni fa con uno dei fronti più sanguinosi di quell’inutile strage. Il ventennio fascista che seguì, in particolare in queste terre – il fascismo di confine – aggiunse altro dolore alle minoranze, in quel caso alla minoranza slovena. Ci fu poi la seconda guerra mondiale, con un supplemento di sofferenza locale: le foibe. Un confine che separa il noi da altri e così a chiudere, nel primo cinquantennio del Novecento, quella che fu, fino allo scoppio della prima guerra mondiale, prima dell’escalation dei nazionalismi europei, una terra di dialogo e di fratellanza tra culture e lingue. Credo, quindi, che nel programma che avete previsto verrà messo in luce quello che è stato questo territorio e quel filo di dialogo che non s’interruppe negli anni più duri. Verrà messo in luce chi con coraggio e con fatica seppe stare dalla parte giusta. Con questo spirito, vi rinnovo un caloroso saluto ed ascolterò con piacere il vostro dibattito e le vostre relazioni, in particolare quella di Monsignor Sudar su quella che è stata la vicenda di Sarajevo e della Bosnia, che purtroppo vide il secolo breve concludersi con un nuovo eccidio e con un’inutile strage. Grazie ancora a tutti voi e un ringraziamento particolare a Voce Isontina e un augurio per i prossimi 50 anni di vita. *Assessore alla Cultura della Provincia di Gorizia SALUTO di Ettore Romoli * Quando Mauro Ungaro mi disse per la prima volta che a Gorizia si sarebbe tenuto il convegno nazionale della FISC, il primo pensiero fu quello che oggi lo stesso Ungaro ha ripetuto più volte: a Gorizia si viene per caso e questo è un bel caso. Perché non sempre questa città ha avuto la possibilità di mettersi in mostra, di farsi conoscere. Tutte le occasioni nelle quali questo fatto può avvenire sono estremamente importanti, tanto più se di fronte ad una platea di giornalisti, ad una platea qualificata di direttori di giornali diocesani, cioè di persone che hanno la possibilità di tenere il polso della Nazione. Voi avete una posizione privilegiata, pochi come voi conoscono il territorio. Questa tre giorni sarà faticosissima, ma sarà un’occasione unica, perché questo territorio è un crogiuolo di culture, che nella storia si sono anche scontrate. Oggi, questa questione è per fortuna superata. Guardiamo con serenità al futuro, anzi cerchiamo di trarre vantaggio dalla situazione in cui ci troviamo Vi invito a far conoscere questo territorio sui vostri giornali. *Sindaco di Gorizia SALUTO di Andrea Melodia * Anzitutto, voglio dirvi che sono emotivamente coinvolto nell’essere qui, dal luogo e della storia. Credo che in un momento come questo – le elezioni europee sono vicine – sappiamo tutti quanto sia problematico pensare all’Europa oggi, per una parte significativa della Nazione italiana e non solo italiana. Dobbiamo fare grandi sforzi per ricostruire il senso dell’Europa e partire da una terra di confine come questa, con una storia così complicata alle spalle, può essere veramente una grande spinta e come comunicatori, come giornalisti dobbiamo ricordarlo. Detto questo, vorrei aggiungere poche parole in merito alla collaborazione tra UCSI e FISC. Credo che non ci sia mai stato nella storia un periodo così fecondo da questo punto di vista. Poche settimane fa, ci siamo incontrati a Roma, forse per la prima volta, ufficialmente da molto tempo a questa parte, addirittura, per far partire un programma di collaborazione rispetto alla formazione. Abbiamo stabilito che in alcune regioni, tra cui il Triveneto, ci saranno prossimamente iniziative di formazione giornalistica in collaborazione diretta tra UCSI e FISC. Credo che questo sia veramente un salto di qualità. Nel vostro ultimo convegno a Roma, il cardinal Bagnasco ha parlato della collaborazione tra UCSI e FISC come una cosa importante. Ovviamente, gliene siamo grati. Io credo che in un momento per la Chiesa italiana così importante, di trasformazione, con cose che stanno accadendo di cui non conosciamo evidentemente gli esiti, dobbiamo tutti metterci nella prospettiva di accettazione del cambiamento e di continuazione nel fare le cose bene, per essere efficaci ed efficienti nella nostra capacità di formare anzitutto la qualità della nostra professione. L’UCSI è impegnata in un grande sforzo di ricerca sull’etica dei media e sul fronte della formazione. Credo che su questo dobbiamo collaborare fino in fondo. Io mi sono chiesto più volte che senso possa avere per gli aderenti ad un’Associazione come la FISC – che è fatta fondamentalmente di settimanali e di giornalisti che hanno tutti una storia di impegno eticoprofessionale, vissuta concretamente nel territorio giorno per giorno – trovare una collaborazione con un’organizzazione un pochino più evanescente, com’è l’UCSI storicamente. Noi siamo prevalentemente giornalisti cattolici che lavorano nei media laici, in Rai o a Mediaset. Che senso ha la collaborazione fra voi, giornalisti cattolici presenti nel territorio e un’associazione un pochino più tradizionale come la nostra? Credo che il senso sia quello di far vivere entrambe le associazioni, entrambe le esperienze in un incontro comune, andando a misurarsi con la comunicazione che cambia, con la grande rivoluzione che sta avvenendo, con la necessità che tutti quanti abbiamo, sul piano professionale, di scoprire un modo nuovo di comunicare con il nostro pubblico e i nostri lettori. Per ricreare insieme il mondo della comunicazione, senza sciocche separatezze tra vecchi e nuovi media, senza contrapposizioni tra quello che si faceva una volta e quello che si dovrebbe fare oggi. Tutti quanti insieme dobbiamo crescere e trasferire il nostro impegno nel nuovo mondo della comunicazione. *Presidente dell’Unione Cattolica Stampa Italiana SALUTO di Don Ivan Maffeis * Porto qui la disponibilità del Segretario Generale ad incontrare la prossima settimana i dirigenti della FISC, per vedere insieme come accompagnare questo momento, che – com’è stato ricordato – è un momento di trasformazione, di cambiamento, dove la CEI vuole esserci e contribuire. Vengo da un paese, il Trentino nord-occidentale, dove appena sopra, in alta quota, c’era il confine. Uno di quei confini assurdi, dove ci si sparava da una cima all’altra senza sapere il perché, dove dopo ogni battaglia, venivano calate nello stesso crepaccio, vittime di una parte e dell’altra. Non voglio banalizzare quell’assurda guerra, come sono assurde tutte le guerre e prenderla come icona della situazione difficile in cui versano i giornali della FISC in questo momento. Però noi ci sporgiamo su questa situazione – il calo dei contributi, il calo degli abbonamenti, il calo a volte di una certa fiducia – ed è inevitabile che provochi inquietudine e preoccupazione. Eppure, l’alta montagna oggi ci consegna non solo la memoria di ieri, ma anche un orizzonte ampio, un respiro. Siamo qui non solo contenti di essere a Gorizia, ma anche di quest’ennesima occasione di ritrovarci come Federazione, a ridirci che abbiamo un patrimonio di presenza sul territorio, di cultura, di appartenenza ecclesiale, che fa la differenza, che può fare la differenza anche oggi. Tanto nelle nostre redazioni resta ancora da fare. Vogliamo farlo insieme e vogliamo farlo soprattutto con la fiducia che torneranno i prati. *Vice Direttore dell’Ufficio Nazionale per le comunicazioni sociali della Cei SALUTO di S.E. Dino De Antoni * Ringrazio il Vescovo Carlo dell’invito che mi ha fatto ad essere presente e a sostituirlo, almeno per questa serata. Significa che l’usato, a parte che è sicuro, è anche supplettivo. Lascerò quello che ho scritto al direttore e vorrei aggiungere che essendo l’ultimo a parlare, la brevità sarà apprezzata e mi esonera dall’essere brillante. Cosa dirvi? Due cose. Intanto ringraziare tutti voi, giornalisti della stampa settimanale cattolica, perché la vostra rilettura è spesse volte analitica della realtà del territorio. Però, per questo anche più preziosa. Raccogliete i frammenti che la stampa a più larga tiratura non riesce a raccogliere. Voi mettete sui vostri giornali la realtà delle vostre comunità. Cercate di leggere e d’interpretare gli avvenimenti alla luce di una visione cristiana della vita. E quindi vi ringrazio tutti e lasciate che io faccia un ringraziamento particolare alla direzione, alla redazione, ai collaboratori del nostro settimanale diocesano, che vi ha invitati per questo cinquantesimo. Ecco, voi sapete per esperienza personale com’è difficile portare avanti un settimanale diocesano, ancora di più con la riduzione dei contributi, fino ad arrivare a domandarsi: ma la nostra sopravvivenza è ancora per molto tempo assicurata? Io mi auguro che qualcuno capisca che importante è continuare. Non mi pare che ci sia in nessun giornale di tiratura più ampia, ad esempio, una pagina specifica per i friulani. Si perderebbe una parte importante di questa cultura. Abbiamo poi anche Novi Glas, abbiamo anche la cultura slovena che portiamo avanti. Quindi grazie a Voce Isontina, grazie a Novi Glas e ringraziamo anche Vita Cattolica, che dà spazio al friulano anche lei. *Arcivescovo Emerito di Gorizia STORIA DI UNA CHIESA DI FRONTIERA: L’ARCIDIOCESI DI GORIZIA TRA OTTO E NOVECENTO Ivan Portelli * La storia di Gorizia è caratterizzata dal fatto che il confine sembra quasi connaturato. Sembra un elemento che fa parte del paesaggio e delle persone. Un confine che per quanto sia il prodotto dell’agire umano, ha segnato a lungo e in profondità queste terre. È un confine che si è spostato, e spesso si è spostato sulla testa delle persone, che ha costretto molti a lasciare queste terre, molti ad adeguarsi, molti a nascondere la propria identità. È un confine che ha segnato la Chiesa goriziana sin dalla sua origine. Dovete pensare che quando nasce la Diocesi goriziana, nel 1751, nasce per la divisione di quella che all’epoca era la più grande Diocesi d’Europa, quella di Aquileia. E nasce per un’esigenza politica, perché il patriarcato di Aquileia incideva su due territori diversi, uno appartenente alla Repubblica di San Marco, a Venezia, e l’altro alla Casa d’Austria. Dopo quasi due secoli di trattative diplomatiche, a metà del ‘700 si riesce, per un motivo politico e giurisdizionale, a dividere quest’immensa Diocesi, che comprendeva territori vastissimi, che andavano, per la parte friulana, dall’udinese e raggiungevano la Stiria, dall’altra parte. Quindi, potete immaginare il territorio molto ampio del centro Europa che era conglobato sotto la Diocesi aquileiese. Quando nasce Gorizia, quindi, nasce per un’esigenza politica, ma anche per un’esigenza pastorale, perché bisognava dotare questi territori di un Vescovo residenziale, capace di gestire il territorio. Sarà nell’’800 che, accanto al confine politico, emerge con maggiore forza un altro confine, quello culturale, quello delle identità complesse di queste zone. La Diocesi di Gorizia, per quanto ridotta rispetto alla Diocesi settecentesca, era comunque una Diocesi molto ampia, che comprendeva oltre alla parte attualmente italiana del territorio diocesano, anche tutta la parte attualmente in territorio sloveno. Era tre volte più grande rispetto al territorio attuale. Era una Diocesi complessa, quindi, una tipica Diocesi austriaca – se vogliamo – nata per esigenze amministrative, nella quale convivevano genti di lingua diversa e nel corso dell’’800 queste diversità diventano un punto importante, perché comportano una conquista identitaria, soprattutto nella parte slovena, dove matura il percorso di identità nazionale. In questo percorso, il clero ha un ruolo fondamentale, perché spesso e volentieri sono gli intellettuali, ai quali la popolazione fa riferimento. Sono coloro che codificano la lingua, la insegnano e diventano il punto di riferimento delle loro comunità. Nella Chiesa austriaca, c’è un legame molto forte con lo Stato, spesso e volentieri si è parlato di una Chiesa legata allo Stato, che quasi facesse parte dell’amministrazione dello Stato ed in effetti nasce un po’ così. Poi, nel corso dell’’800 le cose si mettono un po’ in ordine. La Chiesa comincia ad avere linguaggi autonomi, ma comincia anche ad avere necessità, davanti alle nuove sfide che il mondo sta manifestando, a dover organizzare un laicato, a doverlo organizzare politicamente. Ecco che nella realtà goriziana quest’organizzazione politica ha delle sfaccettature molto complesse. Da un lato c’è un Magistero episcopale che cerca sempre di far emergere una dimensione politicocattolica unitaria tra italiani e sloveni, dall’altra parte c’è una realtà delle cose dove le due comunità tendono ad organizzarsi in maniera autonoma e indipendente, anche con ritmi diversi. Perché, mentre nel mondo sloveno l’identità cattolica è quasi connaturata all’identità nazionale e di conseguenza i leader politici, non solo sacerdoti ma anche laici, non conoscono una divisione, o la conoscono a fatica, tra liberali e cattolici, nel mondo italiano il clero agisce profondamente nella società, ma su posizioni che definiremmo lealiste, che non ricercano la rottura con lo Stato austriaco. All’interno della comunità italiana c’è una componente liberal-nazionale che sottolinea con più forza l’identità italiana e alla fine dell’’800 comincerà a maturare e a sviluppare un’idea che si tramuterà in irredentismo. In questa situazione, il clero ha un ruolo fondamentale. È il primo organizzatore politico del laicato, è il clero che interviene e che diventa il rappresentante del territorio, ai vari livelli, dalle Diete Provinciali fino al Parlamento a Vienna. È il clero che riuscirà, alla fine dell’’800, nella parte italiana della Diocesi, ad organizzare una rete di società, Casse Rurali, Consorzi, Società economiche, che favoriranno la rinascita del territorio. Quel movimento cristiano-sociale, che in Austria aveva dei connotati particolari, ma che nella parte italiana è un po’ a metà strada tra quella che sarà la realtà austriaca e quella che costituirà la diffusione in Italia del movimento delle Casse Rurali. Sarà un sacerdote, in particolare, Luigi Faidutti, che raccoglierà questo movimento e lo farà crescere e che a ridosso della prima guerra mondiale, nel ’14, diventerà anche la massima autorità provinciale, Capitano provinciale. Questi preti che fanno politica, che s’impegnano direttamente, vivono come un dramma profondo la prima guerra e soprattutto l’inserimento nel contesto italiano. Il passaggio della prima guerra mondiale sarà un vulnus profondo all’interno della Diocesi. Le autorità italiane interneranno gran parte del clero, perché accusato di un profondo legame con lo Stato austriaco o comunque perché dimostrava un atteggiamento lealista nei confronti della monarchia. Dopo la guerra, quest’accusa peserà notevolmente sul clero, tanto che tutto questo sistema organizzativo, politico, sociale ed economico, verrà a mancare, sostanzialmente verrà spazzato via, sarà impossibile riorganizzare effettivamente una centrale operativa cattolica nel dopoguerra italiano a Gorizia. Sarà compito di un grande vescovo, Monsignor Sedej, sloveno di nascita – come gran parte dei Vescovi goriziani dell’’800, dove era più semplice per un ecclesiastico di madrelingua slovena conoscere anche l’italiano e poter predicare – che cercherà di tenere insieme questo complesso diocesano minacciato da più fronti: da un lato, in ambito italiano, dalla fatica di dialogo con le autorità occupanti, dall’altro, in ambito sloveno, dalla minaccia della snazionalizzazione, ovvero dal tentativo operato dalle autorità italiane, di armonizzare la popolazione in qualche modo ai nuovi occupanti. Il fatto che nel 1927 scompaia la scuola pubblica in lingua slovena in un territorio in cui il 60% della popolazione era di questa lingua, rappresentò un dramma notevole. Saranno i sacerdoti, all’interno delle Parrocchie, a tener viva la lingua, costituendo delle vere e proprie scuole parrocchiali. Il fascismo, che ha bisogno di snazionalizzare e di dimostrare l’italianità, sarà vissuto con fatica in queste terre. Il fascismo si ripercuoterà sulla Diocesi. Nel clero italiano l’atteggiamento è ondivago, certamente la vicinanza con le strutture italiane, ovviamente anche attraverso punti di vista positivi, come l’inserimento dell’Azione Cattolica, che ebbe un grandissimo successo all’interno del mondo friulano e che tutti i sacerdoti cercavano di far nascere all’interno delle loro Parrocchie. L’episcopato di Monsignor Margotti, negli anni Trenta, rappresenterà il culmine di questo tentativo, dal punto di vista ecclesiastico, d’inserire il goriziano all’interno del mondo italiano. Un inserimento molto faticoso, che si scontrerà anche con un altro grande vulnus, la seconda guerra mondiale, dove un altro confine si manifesterà, che avrà una valenza ideologica: quello tra la Jugoslavia socialista e l’Italia. Un confine che porterà gravi drammi all’interno anche della Chiesa. La Diocesi verrà ridotta a quella che è attualmente. Tutta la parte oltreconfine verrà organizzata in amministrazione apostolica e, dal 1947 al 1977, quella sarà la situazione in cui la parte goriziana e triestina rimarranno nel territorio jugoslavo con tutta una serie di complicazione per cui il regime comunista, ovviamente, sarà molto pesante, soprattutto nei primi anni, verso il clero. È tristemente noto l’episodio del primo amministratore apostolico designato, che viene per due volte ributtato oltre confine dalle autorità jugoslave. Sarà anche, dal punto di vista del clero, una fatica riuscire a trovare un modus vivendi. Alcuni sacerdoti pagheranno questo anche con la vita. Altri svilupperanno un modo di concepire questa realtà partendo dal presupposto che il comunismo passerà ma la nazione resterà. La Chiesa goriziana si muoverà, nella seconda metà del Novecento, nello stesso modo della Chiesa in generale. Incontrerà tutte le sfide: quella con il mondo del lavoro, la sfida del Vaticano II. Lo farà in una dimensione periferica. Se nel mondo austriaco Gorizia era sede arcivescovile, sede metropolitana e, prima della seconda guerra mondiale, ospitava un Seminario centrale per quattro diocesi – nel quale studiavano chierici italiani, sloveni e croati – nella Repubblica Italiana il ruolo di Gorizia diventa un po’ marginale, un ruolo di ponte, di apertura e d’incontro, quello che è connaturato in questa realtà, dove culture diverse s’incontrano, si scontrano e arrivano anche a delle sintesi, a dei momenti di unione, se vogliamo, a volte faticosi a volte più semplici. Vorrei concludere raccontandovi la storia di un prete di Gorizia, che mi sembra molto significativa in questa dimensione di confine e di frontiera (la parte che segue è tratta dalla voce Luigi Fogar dell’Enciclopedia Treccani, n.d.r.). Si tratta di Luigi Fogar. Nacque a Peuma, presso Gorizia, il 27 gennaio 1882, penultimo di nove figli, da Luigi, agiato commerciante e proprietario terriero, e da Caterina Zotti. Compì gli studi ginnasiali a Gorizia e, dal 1898, nell'istituto diretto dai benedettini dell'abbazia di Marienburg (Merano), dove nel 1903 conseguì il diploma di maturità. Decise allora di intraprendere la carriera ecclesiastica, contrariando il padre, di idee liberali. Dal 1903 al 1907 frequentò la facoltà teologica di Innsbruck come allievo del "Canisianum", prestigioso collegio internazionale dei gesuiti, punto di riferimento per i chierici austriaci destinati a brillanti carriere ecclesiastiche. Ordinato nel 1907 dal vescovo di Bressanone, studiò per un anno teologia all'università Gregoriana di Roma. Nel 1908 tornò a Gorizia, dove venne nominato prefetto del Seminario minore. Dal 1910 fu insegnante di religione all'imperial-regio ginnasio di Gorizia e professore di teologia fondamentale al Seminario centrale. Allo scoppio della prima guerra mondiale si recò a Lubiana, dove si dedicò all'assistenza degli sfollati goriziani, garantendo in particolare a quelli italiani predicazione, confessione ed istruzione religiosa nella lingua madre. In qualità di presidente del comitato per i profughi visitò i campi di internamento. Continuò nel frattempo gli studi e nel 1917 conseguì ad Innsbruck il dottorato in teologia, passando poi a Graz, dove diresse il convitto per gli studenti sfollati. Dopo Caporetto tornò a Gorizia come segretario dell'arcivescovo F.B. Sedej; venne nominato inoltre professore di storia ecclesiastica e direttore spirituale al Seminario centrale, che serviva tutte le diocesi del Litorale (oltre a Gorizia, TriesteCapodistria, Parenzo-Pola e Veglia). Durante la guerra si adoperò per l'apertura del ginnasio italiano, che sarebbe stata attuata solo alla fine del conflitto. Cionondimeno al passaggio di Gorizia sotto la sovranità italiana – quando Fogar entrò a far parte del comitato che amministrava la città durante il trapasso dei poteri – la cattedra gli sarebbe stata revocata dalle autorità d'occupazione. All'accusa di "austriacantismo" contribuì sicuramente non poco la sua protesta dal pulpito per la minacciata abolizione dell'insegnamento religioso nelle scuole, prospettata dal Commissariato generale civile in uniformità con la legislazione vigente in Italia. Il vescovo lo nominò catechista dell'educandato di Nótre-Dame. Fu soprattutto però l'attività svolta nelle file del Partito popolare goriziano, schierato sino agli ultimi giorni del conflitto su posizioni lealiste nei confronti della monarchia asburgica, a renderlo sospetto alle nuove autorità, tanto più che Fogar ne capeggiava la corrente di maggioranza, che propugnava il ritorno dei deputati Faidutti e Bugatto, considerati dalle autorità d'occupazione, e da una parte stessa degli iscritti, troppo compromessi con il passato governo. Nel 1922 fondò il circolo giovanile cattolico "Per crucem ad lucem", aderente all'Azione cattolica italiana: l'impegno a favore di tale organizzazione avrebbe caratterizzato anche la sua attività successiva di vescovo di Trieste. Dopo le dimissioni del vescovo Bartolomasi, il 7 luglio 1923 Pio XI lo nominò infatti vescovo di Trieste e Capodistria. La consacrazione ebbe luogo a Gorizia il successivo 14 ottobre. Si trattò di una scelta osteggiata dagli ambienti fascisti locali per la fisionomia politica del designato, ma che poté vantare numerosi argomenti a proprio favore nel momento in cui, con tutta evidenza, da parte del governo italiano si puntava all'accantonamento dei vescovi sloveni nelle diocesi del confine orientale. Fogar era italiano ed aveva avuto una formazione, oltre che di alto livello, "anomala" rispetto a quella dei corregionali, i cui studi si svolgevano normalmente presso il Seminario centrale di Gorizia, ritenuto una roccaforte dello "slavismo". Aveva una conoscenza appena sufficiente delle lingue slovena e croata e sino a quel momento non risultano sue prese di posizione in merito alle misure che sin dall'immediato dopoguerra tendevano all'assimilazione in tempi brevi delle minoranze. La procedura di insediamento non fu tuttavia semplice: Fogar rifiutò di chiedere il placet governativo, accampando motivazioni di principio. Non si può escludere che per suo tramite la S. Sede sondasse la disponibilità del nuovo governo a recepire il principio secondo cui la Chiesa conservava i suoi diritti anche di fronte ad un mutamento di confini, primo passo per riconsiderare alcuni aspetti della legislazione ecclesiastica in Italia. L'accondiscendenza di Mussolini, che permetteva l'insediamento del nuovo vescovo il 26 marzo 1924, può essere letta come uno di quei segnali di buona volontà su cui si costruirono le premesse della discussione concordataria. Fogar fu vescovo di Trieste negli anni della più dura applicazione della linea italianizzatrice. La base ideologica del blocco di forze che sosteneva Mussolini non prevedeva la permanenza di corpi estranei nel tessuto nazionale e individuava nel clero sloveno e croato un fattore decisivo di resistenza a quel processo di assimilazione che rappresentava la "inesorabile" conseguenza della "superiore" civiltà italiana. Accettando le dimissioni del Bartolomasi, la S. Sede non intendeva però cedere su punti che avrebbero rischiato di compromettere la sua presenza tra le popolazioni allogene (come venivano definite nel linguaggio burocratico le nazionalità diverse da quella dominante). Catechesi e predicazione nella lingua dei fedeli erano da sempre strumenti irrinunciabili. In questa direzione vanno lette le istruzioni inviate al Fogar nel 1924 dal Segretario di Stato Gasparri, il quale lo metteva in guardia da tutto ciò che avrebbe potuto farlo apparire corresponsabile con l'autorità civile di misure impopolari presso le popolazioni slave e lo esortava a vigilare in particolare su predicazione e catechismo in lingua materna. Il nuovo vescovo non tardò a rivolgersi alla S. Sede, lamentando (1925) le pressioni che il clero sloveno e croato subiva proprio su questo terreno, prospettando il pericolo dello scisma in direzione della Chiesa ortodossa: un'eventualità non troppo astratta se si pensa che un episodio analogo si era verificato proprio nella diocesi di Trieste appena un ventennio prima. Le rimostranze vennero trasmesse al governo dal gesuita padre Tacchi Venturi, tramite privilegiato fra la segreteria di Stato ed i vertici del regime. Le assicurazioni che ne derivarono erano destinate a restare lettera morta. Nel 1925 la prospettiva dell'assimilazione graduale di sloveni e croati (alla quale era favorevole anche parte del clero italiano) cedette il passo a quella della snazionalizzazione in tempi brevi. In particolare per quanto riguardava il clero, al sostegno finanziario a sacerdoti e religiosi attivamente schierati nell'opera di "italianizzazione" si affiancò la repressione del clero allogeno, volta ad ottenerne l'allontanamento. Accusati dalla stampa di fornire appoggio ai gruppi nazionalistici clandestini, numerosi sacerdoti allogeni si videro negata la cittadinanza italiana, mentre venivano sciolte tra il 1926 e il 1927 le organizzazioni a carattere economico e culturale di cui erano stati promotori. Su questo terreno Fogar non si sarebbe mostrato mai disposto a cedimenti. La difesa del diritto dei fedeli all'istruzione religiosa e predicazione nella lingua materna fu un punto su cui si dimostrò irriducibile. Con la pastorale del febbraio 1925 intervenne per la prima volta pubblicamente, a favore dei molti sacerdoti divenuti bersaglio di accuse "ingiuste" da parte di "persone anche influenti". La linea di difesa abbozzata in questo passaggio era quella su cui si sarebbe attestato negli anni successivi. Il 12 febbraio 1927 venne siglato un primo accordo tra il vescovo, il prefetto dell'Istria ed il Partito nazionale fascista. Introdotta ovunque la predica in italiano, come richiesto dal "trapasso etnico" in atto, il mantenimento di quella in lingua slovena e croata diventava una concessione a termine, in attesa che immigrazione e italianizzazione cambiassero il volto etnico della zona. Nel 1928, insieme con l'arcivescovo di Gorizia Sedej e con quello di Parenzo-Pola Pederzolli, mandò un memoriale a Mussolini sollecitandone l'intervento presso le autorità periferiche. Si trattava di una distinzione di responsabilità che i fatti si sarebbero incaricati di rendere più insostenibile. La decisione di ridurre drasticamente gli spazi a lingue diverse dall'italiana partiva dal centro, come avrebbe mostrato nel giugno dello stesso anno la decisione del ministro della Pubblica Istruzione di rimpiazzare in tempi brevi nelle prime tre classi elementari con l'italiano le lingue materne slave (sloveno o croato) eventualmente in uso. Proclamando, nella pastorale per la quaresima del 1928, l'impossibilità di restare neutrali di fronte ad "empietà e persecuzione", Fogar doveva registrare anche la scarsa eco dei propri sforzi tra una larga parte dei fedeli. Quella che veniva alla luce sempre più chiaramente nella sua vicenda era la netta separazione, quando non si trattava di contrapposizione, tra la componente italiana e quella slava della diocesi. Già in atto nell'ultima fase dell'Impero austro-ungarico, i contrasti nazionali venivano approfonditi dalla politica del fascismo con nuovi motivi di risentimento. Difendendo la parte discriminata, Fogar si esponeva inevitabilmente al rischio di essere identificato con essa a mano a mano che l'apparato propagandistico del regime faceva presa su una popolazione italiana già predisposta ad accogliere questo tipo di parole d'ordine. Il vescovo diventava il "paladino degli slavi", e questo nonostante l'intensa attività dispiegata in campo pastorale e a favore di iniziative – quelle di Azione cattolica in primo luogo – introdotte nella Venezia Giulia nel dopoguerra e di fatto limitate alla popolazione italiana, soprattutto giovanile, di Trieste e delle cittadine istriane. La frattura percorse lo stesso clero, come si evince da un decreto dell'aprile 1928, con cui il vescovo si trovò costretto a proibire ogni cambiamento non autorizzato di lingua nella predicazione e nelle funzioni non strettamente liturgiche. La posizione di Fogar era destinata, dopo i Patti lateranensi del 1929, a diventare sempre più isolata all'interno della Chiesa italiana, ormai sulla strada di un marcato consenso al regime. Il tema dei diritti dei fedeli allogeni sarebbe stato ripreso dall'Osservatore romano ancora il 25 gennaio 1931 (non a caso nel quadro dell'incipiente crisi sull'Azione cattolica). Nel complesso però gli ambienti vaticani lo trattavano con sempre maggiore imbarazzo, mentre si intensificava la campagna di stampa a favore della snazionalizzazione, contrappunto all'incalzare di provvedimenti ai danni di sacerdoti slavi. Nel contrasto sulle associazioni giovanili di Azione cattolica si inserì nel marzo successivo la crisi provocata dall'invito dell'arcivescovo di Zagabria a pregare per i connazionali in Italia. L'iniziale intransigenza della segreteria di Stato, che rifiutava di deplorare l'iniziativa, confortava quella del vescovo triestino, di cui erano espressione la lettera pubblica inviata nel marzo 1931 all'arcivescovo di Gorizia Sedej per il suo giubileo episcopale e un memoriale al procuratore generale della corte d'appello di Trieste. Il clero non può cedere sul punto della lingua, vi si ribadiva, pena veder svuotarsi le chiese. Nell'aprile, ricevuto da Mussolini ne venne rassicurato, ma ormai, con il ricomporsi dei rapporti tra fascismo e S. Sede, l'isolamento del Fogar era destinato ad aggravarsi ulteriormente, soprattutto dopo la morte nel 1931 dell'amico Sedej, sostituito in qualità di amministratore apostolico da G.Sirotti, un deciso fautore del programma di italianizzazione forzata e dichiarato avversario della linea del Fogar. Questi fu costretto sempre più sulla difensiva, a cercare cioè di salvare spazi sempre più esigui di sopravvivenza per il clero allogeno a prezzo di un'accettazione formale del progetto di italianizzazione, come emerge dall'accordo del 16 aprile 1932 che riproponeva per Trieste i termini di quello del 1927. Si inasprivano intanto le divisioni all'interno del clero diocesano, mentre la nomina nel 1932 a prefetto di Trieste dell'ex squadrista C. Tiengo segnava l'inizio dell'ultimo pesante attacco al vescovo. La sua posizione fu aggravata dal fatto di essere diventato agli occhi della comunità slovena e croata, e negli ambienti iugoslavi, una figura simbolo. Ebbe inizio nel 1934 la violentissima campagna di stampa che, due anni più tardi, lo avrebbe costretto alle dimissioni. In un discorso pronunciato il 3 gennaio ai chierici del seminario di Gorizia – il cui contenuto venne divulgato, in una versione fortemente strumentale, dal Piccolo di Trieste – egli deplorava le attuali divisioni e riaffermava una volta di più il diritto di ciascuno di usare la propria lingua, non senza accusare implicitamente monsignor Sirotti di aver fornito materiale agli articoli pubblicati contro di lui. La campagna, che non risparmiò al vescovo le accuse più basse ed infondate (come quella di appropriazione indebita), culminò, nella primavera del 1936, nella proibizione da parte del prefetto di celebrare la liturgia slovena in alcune chiese cittadine. Fogar replicava in maggio con una circolare ai parroci dal titolo “Siano rispettate le consuetudini diocesane per ciò che riguarda il culto”. Nella trattativa con la S. Sede il regime partiva da una posizione di forza: il ripristino della predica slovena era troppo importante per il mantenimento di una presenza, che negli ultimi anni era stata sempre più erosa, tra la popolazione di quella nazionalità. L'allontanamento di un vescovo dimostratosi, dal punto di vista romano, di costante pregiudizio ai rapporti con le autorità, diventava un prezzo tutto sommato accettabile. Le dimissioni di Fogar vennero sollecitate a questo punto dalla stessa S. Sede, che nell'ottobre 1936 lo nominò arcivescovo di Patrasso. Trasferitosi a Roma, il Fogar svolse funzioni di vicario del cardinale B. Aloisi Masella, arciprete di S. Giovanni in Laterano. Alla morte di questo diventò canonico lateranense. Nel 1941 avrebbe avuto modo di intervenire ancora una volta – ufficiosamente e senza successo – nelle vicende triestine, nel tentativo di evitare la pena di morte ad un gruppo di militanti comunisti, catturati nel corso di operazioni in collegamento con il fronte di liberazione iugoslavo. Fogar morì a Roma il 26 agosto 1971. *Docente universitario NON TOGLIAMO OSSIGENO AI GIORNALI DELLE PERIFERIE Francesco Zanotti * Non ho fatto in tempo ad andare in albergo e ho subito preso il numero di Voce Isontina, un numero molto bello. Prima cosa che ho notato: 1964 – Anno 1: Il governo adotta misure per fronteggiare la situazione economica. Non mi sembra che sia cambiato molto da allora. Seconda cosa: avrei rifatto i titoli dei tre editoriali che Mauro ha messo sapientemente in pagina, in questo modo: Le persone, il territorio: l’altra faccia della luna, cioè quello che raccontano i nostri giornali. Complimenti, Mauro, perché hai fatto dei titoli bellissimi. Questo per dire che siamo assolutamente radicati in qualcosa che vive, che è pulsante. Inizio con i saluti. Prima di tutto a Mauro e a tutta la sua squadra. Io sono passato per caso da Gorizia tre settimane fa, perché c’era la conferenza stampa di presentazione, altrimenti mai sarei venuto. Per la verità, in Romagna ne sentiamo parlare spesso di Gorizia perché bisticciano sempre chi è primo in Italia per la Facoltà di Scienze Internazionali Diplomatiche, un anno è Gorizia, un anno è Forlì. Quindi, sento spesso parlare di Gorizia, ma mai ci avevo messo piede. Quindi, grazie Mauro per quest’occasione ed un saluto caloroso a te e a tutti i tuoi. Poi, all’Arcivescovo emerito, che come ha detto Mauro è stato con noi anche l’anno scorso, Monsignor Dino De Antoni. A tutte le autorità, i presenti, gli ospiti, gli amici di Gorizia, a tutti coloro che sono intervenuti da ogni parte d’Italia, ai direttori, giornalisti, collaboratori, amici dei settimanali cattolici che, ogni volta abbiamo questi appuntamenti, desiderano essere dei nostri. Saluto gli ex presidenti della FISC. Un saluto caloroso a Don Ivan Maffeis, che ci portato la vicinanza della CEI, per chi non lo sapesse già segretario della nostra Federazione e direttore di Vita Trentina. Un saluto particolare a Monsignor Sudar, che nel 1994 è stato relatore in un nostro convegno a Teramo, che fece molto parlare perché ci portò l’esperienza che allora stava vivendo in prima persona nell’ex Jugoslavia. Un saluto a Andrea Melodia, presidente dell’UCSI, che ha già detto di questo rapporto privilegiato che ci ha raccomandato tanto il cardinal Bagnasco, presidente della CEI. Un saluto al direttore dell’Agenzia Sir, Mimmo Delle Foglie, che è qui oggi insieme al giornalista Francesco Rossi. Un saluto affettuoso alla giornalista di Avvenire. Un saluto caro e affettuoso a Letizia Fallani e a Marta Fallani, che poi saranno protagoniste del premio dedicato a Giovanni Fallani, uno dei fondatori della FISC. Un saluto a Paolo Bustaffa, per lunghi anni direttore del Sir e anima di questo premio. Grazie quindi per quest’invito e per l’accoglienza che ci avete riservato. Un grazie che va condiviso anche con la Commissione Cultura, guidata sapientemente da Carlo Camoranesi e con l’intero Consiglio Nazionale che ha dato l’ok ben volentieri a quest’appuntamento a Gorizia. Grazie perché ci fate conoscere una parte d’Italia da cui non si passa tanto facilmente. Una città che mi ha subito conquistato e oggi facevo un po’ da guida a quelli che erano nel pulmino con me come se fossi un esperto. Ho dovuto dire che sono venuto qui solo tre settimane fa, però mi ha talmente appassionato e sapere che su queste montagne si sono combattute, come ricordava Don Ivan, battaglie pazzesche per la storia del nostro Paese, è davvero incredibile. Per chi non ci conosce, i numeri: 189 testate; quasi un milione di copie ogni settimana; oltre 500 dipendenti, di cui 250 giornalisti; migliaia e migliaia di collaboratori. L’esperienza della FISC è prima di tutto un’esperienza di condivisione, di comunione, un’esperienza ecclesiale. Ha scopi ben precisi, indicati dai fondatori: scopi istituzionali e di circolazione di idee, di esperienza, nel Paese e nella Chiesa. Questo era valido per i nostri fondatori, nel 1966, ed è valido ancora oggi. I cinquant’anni di Voce Isontina sono occasione per noi per fare festa e per gioire di un appuntamento importante, come facciamo una volta all’anno, da tanti anni. È un’occasione bella ed è per questo che vogliamo esserci, perché prima di tutto vogliamo condividere quest’amicizia e quest’esperienza, nata da un impegno, da una passione, che sono nate quando i cristiani erano fuori dalla vita politica. Come ha ricordato prima Mauro, il primo impegno dei cattolici di Voce Isontina nella stampa diocesana, è stato quello degli anni ’70 del 1800. Veniamo al tema del convegno. Molte sono state in questi giorni le domande che ho ricevuto a questo proposito. Perché Europa e confini? Perché è un tema intrigante, che ci interpella. L’Europa a due polmoni era un tema caro a Giovanni Paolo II. Rappresenta per noi la storia, il presente e il futuro. Per quanto riguarda la storia, siamo a cent’anni dalla prima guerra mondiale, che in questi territori è iniziata nel 1914. Parlare della prima guerra mondiale, vuol dire, più che altro, tacere e far conoscere quello che è successo alle nuove generazioni. Il presente è questa città sul confine. Una città rivolta ad est, all’Europa, soprattutto dopo la caduta dei muri. Raccontava Mauro che quando il regime jugoslavo ha costruito Nova Gorica, l’ha fatto continuando le strade che già c’erano a Gorizia, pensando che sarebbero state tutte una città, ovviamente Nova Gorica, non Gorizia. Quindi, ogni angolo di questa città racchiude un momento di storia, che noi vogliamo conoscere ed approfondire. Questa è una città che ha i confini dentro le case, che ha diviso le famiglie. Il futuro è quello immediato, quello delle elezioni europee, con un senso crescente nella gente di insoddisfazione, verso l’Unione europea e verso l’Euro. Ha ancora un senso parlare di Casa comune, di confini? Nel mondo globalizzato, l’Europa ha ancora un ruolo da giocare? L’Italia ha un ruolo da giocare? A volte, ho l’impressione che viviamo troppo del nostro localismo, di questioni di casa nostra. Questa è un’occasione propizia per alzare lo sguardo e guardare lontano. Il futuro è oggi per noi, anche la sfida della rete. Carta stampata e rete sono due luoghi da abitare, ci siamo detti in più occasioni. È una sfida che non possiamo non cogliere, che può dilatare i nostri confini di carta, che sono limitati. Il ruolo dei nostri giornali. Vado a prestito del Messaggio per la Giornata delle Comunicazioni Sociali di Papa Francesco e prendo due immagini: la cultura dell’incontro il Buon Samaritano e i discepoli di Emmaus. Mimmo Delle Foglie ricorda spesso Curare le ferite e riscaldare i cuori, citando Papa Francesco. Ecco, noi siamo chiamati anche a farci compagni di viaggio, di questo popolo. Sondare e alzare lo sguardo. Dare voce alle periferie, tutte, quelle geografiche e quelle esistenziali. Il Vangelo incarnato, vissuto nelle storie dei testimoni, possibile oggi per tutti. Cosa c’è di meglio da comunicare, dice Papa Francesco nell’Evangeli Gaudium? Dare voce ai senza voce, come luoghi di confronto e di dialogo. Vogliamo essere giornali popolari, giornali di popolo, come dicono le nostre testate. Prendo l’occasione di quest’appuntamento, per dire una cosa che anche Mauro ha avuto occasione di dire con una certa forza qualche settimana fa: è scaturita un’interpellanza in Senato, a seguito delle nostre richieste fatte a Gorizia a metà marzo. È la questione dei contributi per l’editoria. Ne ha accennato prima anche l’Arcivescovo emerito. Noi siamo confinati in una sorta di riserva indiana del fondo, del 5%, e chiediamo che questa riserva venga alzata almeno dal 5 al 7%, per riequilibrare il danno. Ci sono stati in passato dei danni, perché negli ultimi due anni i contributi ai nostri giornali sono calati di oltre due terzi. Chiediamo anche una seconda cosa: rifinanziare il fondo per l’editoria, oggi a 50 milioni di euro, a 90-100 milioni. Non vogliamo nessun privilegio. Si tratta solamente di favorire il pluralismo dell’informazione, come avviene – contrariamente a quanto si dice e si vuole millantare – in gran parte dei Paesi europei. I contributi pubblici all’editoria servono per la democrazia informativa e non sono un lusso, ma un diritto necessario per uno Stato democratico. Una battaglia che è solo nostra e che portiamo avanti con convinzione, certi che si tratti di una buona battaglia. Chiuderei con uno slogan: non togliamo ossigeno ai giornali delle periferie; siamo convinti che nessuno vorrà prendersi questa responsabilità. *Presidente FISC BOSNIA ED ERZEGOVINA: CUORE DEI BALCANI E CARTINA DI TORNASOLE DELL'EUROPA S.E. Mons. Pero Sudar * Introduzione Non ricordo più come e perché abbiamo concordato un tema ed un intervento così intitolato. Mi sono accorto della sua delicatezza e complessità solo quando mi sono messo a pensare a come impostarlo e a cosa dirvi. Riconosco che non di rado mi capita di riscontrare le maggiori difficoltà a presentare realtà che, ad un primo sguardo, mi sembrano semplici. Così mi accorgo quanto è vera l'affermazione secondo cui conosciamo davvero solo quelle realtà che siamo in grado di comunicare, in modo chiaro, agli altri. Penso che anche voi, da giornalisti, spesso facciate l'esperienza di una difficoltà del genere. Sono profondamente convinto che la fedeltà al dovere di pensare e riflettere su di sé e sul mondo in cui si vive conferma o smentisce la dignità fondamentale di ogni persona. Infatti, proprio per la sua capacità di pensare, l'uomo si differenzia dal resto del creato e risulta essere il più perfetto di tutto il creato (san Tommaso d'Aquino). Temo che la carenza fondamentale dell'uomo di oggi sia proprio da individuare in una certa fuga da questo dono e dovere per eccellenza. Le condizioni e le circostanze della vita non mi hanno permesso di studiare, più di tanto, e di approfondire certi campi d'interesse scientifico. Però, l'ambiente e il tempo in cui vivo mi hanno costretto a pensare molto. Allora, io non vi presenterò teorie scientifiche, ma piuttosto il mio modo di riflettere sulla realtà in cui vivo e che mi sta a cuore. Proprio per questo la relazione non ha la pretesa di essere magistrale, come gli organizzatori l'hanno voluta chiamare, ma piuttosto una riflessione. Ringrazio il direttore, egregio signor Mauro Ungaro e l'amico don Ruggero di avermi invitato a questo Convegno. Saluto tutti i partecipanti e vi auguro un lavoro buono e fruttuoso in queste giornate. Pur trovandomi davanti ad esperti della materia, mi è sembrato importante, soffermarmi sul significato dei concetti che si trovano nel titolo di questa relazione e sulla natura della loro correlazione. Perciò, questo intervento si articolerà in tre punti. 1. Bosnia ed Erzegovina Il primo fatto che rende questo tema complesso è la realtà stessa della Bosnia ed Erzegovina (BeE). Si tratta di un piccolo paese (51.209,2 kmq) sul cui significato etimologico del nome gli esperti in materia non sono d'accordo. A me piacerebbe fosse vera la teoria che il nome Bosnia provenga dalla parola illirica bos che significa sale. Temo però che il comportamento dei suoi abitanti smentisca assai velocemente questa ipotesi. Il nome Erzegovina, secondo il governatore che portò il titolo erzeg, è stato aggiunto nel secolo quindicesimo per la parte meridionale del Paese. Quanto sia stata travagliata la storia di questo Paese ce lo indica anche il fatto che da un piccolo territorio, l'odierna fascia centrale della BeE, in un certo momento storico, il Paese si è esteso fino a raggiungere gli 80.000 chilometri quadrati, cioè quasi doppio rispetto ad oggi. Secondo il censimento fatto nel 1991, cioè prima dell'ultima guerra, in BeE vivevano 4.377.033 di abitanti. I risultati preliminari del censimento fatto nell'ottobre scorso parlano di 3.791.662 di abitanti. Quindi un Paese piccolo sia per territorio e sia per numero di abitanti, ma grande e complesso per i suoi, a volte sembra, irrisolvibili problemi. E questo non da ieri! Trovatosi nella zona che dai tempi dell'impero romano divide e contrappone mondi sempre più diversi, la BeE già da quindici secoli vive una storia travagliata. Ricordo che la linea che divideva l'impero romano in due era il fiume Drina. Questa linea che, prima di tutto, ha spaccato il mondo dei popoli slavi, ha lasciato impronte profonde anche nel senso della loro appartenenza culturale e religiosa. A causa delle continue guerre tra i grandi, motivate con la tendenza a spostare la magica linea di divisione a vantaggio dell'uno o dell'altro, in BeE si è insediato un modo di vita sociale e religiosa del tutto particolare e, fino ad oggi, non del tutto chiaro. Mi riferisco ad una sorta di setta chiamata i cristiani bosniaci, un modo autonomo ed autoctono nel senso della tendenza ad organizzare la vita ecclesiale indipendentemente da Roma e da Costantinopoli e, politicamente, dai loro alleati politici. Le pretese politiche, specialmente quelle del regno ungarico, autorizzate da Roma, hanno stigmatizzato e indebolito il regno bosniaco in modo da renderlo facile preda per l'avanzata ottomana. Da quel periodo (1463) la BeE, dal punto di vista sociale, culturale e religioso, è fuori dall'Europa. Nel corso di 420 anni di occupazione ottomana si è creata una società non soltanto interetnica e interreligiosa, ma anche, nel modo di vivere e di accettarsi a vicenda, meticcia. Però la convivenza, come frutto del desiderio e della necessità di sopravvivenza, non è mai stata senza tensioni e conflitti, senza gravi perdite e sofferenze. Come immagine evocativa basti ricordare che durante il periodo ottomano il numero dei cattolici è passato da circa l'88% sul totale della popolazione al 18.08% (Vukšić e Mandić). Nel corso dei cinquant’anni di comunismo è stata inoltre aggiunta un'altra dimensione a questa convivenza dei diversi, e cioè quella apparentemente neutrale e svuotata del senso etico e religioso. Il peso delle ingiustizie e delle memorie storiche, poco chiarite e mai purificate, le differenze ideologicamente negate e lo svuotamento morale, hanno creato una convinzione piuttosto subconscia, ma molto diffusa, che la convivenza tra i diversi sia una sfortuna perché, in realtà, risulta sempre essere a danno di uno o più gruppi, di norma i più deboli. Queste forze inconsce e oscure hanno sempre tentato di promuoversi in circostanze di tensioni e conflitti, condizioni ad esse sempre favorevoli. Ecco perché ogni conflitto armato, cominciando dall'occupazione austroungarica fino all'ultima guerra degli anni novanta, ha spaccato la nostra società in almeno due parti contrapposte. Tutte le nostre guerre che, in realtà, per i veri motivi non erano nostre, sono state guerre intestine e di sterminio perché fatte tra popoli fraterni. Lo Stato in cui si trova la BeE oggi è assai artificiale dal punto di vista politico e, di conseguenza, da tutti gli altri punti di vista. Al bagaglio pesante delle vecchie ingiustizie e diffidenze si sono aggiunte le nuove. Una guerra orribile, causata dall'imperialismo di stampo comunista e realizzata con l'ardore dei risentimenti storici della povera gente, è terminata con una pace invivibile perché ispirata e imposta, anche questa volta, per soddisfare interessi che non hanno niente a che vedere con il bene degli abitanti della BeE. Il risultato è che vent'anni dopo la guerra, la BeE, per molti, risulta una società moribonda e un Paese senza prospettiva, da cui chi può fugge. 2. Cuore dei Balcani In che senso la BeE può definirsi cuore dei Balcani? Fino alla seconda metà del diciannovesimo secolo i popoli che abitavano la regione balcanica o, come si è solito dire oggi, la parte sudorientale dell'Europa hanno avuto, più o meno, la stessa sorte. Tutti erano, dove più dove meno, etnicamente e religiosamente mescolati e assoggettati all'impero ottomano. L'identità etnica era proibita e quella religiosa molto sospetta e oppressa. Quella cattolica in modo particolare, perché sempre sospettata di essere serva di Roma da cui - si è verificato - invano gli Ottomani temevano che possa esser istrumento per unire gli altri principi della cristianità (Alberti, 307). Come conseguenza delle guerre nella seconda metà del diciannovesimo secolo, i popoli balcanici hanno creato propri stati nazionali. Solo la BeE è rimasta così come si era creata sotto gli ottomani perché, nel frattempo, è entrata a far parte dell'impero austro-ungarico che, per i propri interessi, cercava di promuovere una società amalgamata. Per comprendere meglio in che cosa consista quindi la differenza tra la BeE e gli altri paesi balcanici potrebbe servire, come illustrazione, un piccolo particolare che dice che, nei tempi degli ottomani, a Belgrado c'erano più moschee che a Sarajevo. Oggi si calcola che a Sarajevo ce ne siano più di cento. A Belgrado, invece, solo una. Le vecchie tensioni, le rivalità e le questioni fondamentali irrisolte che hanno caratterizzato i paesi e popoli balcanici, in quanto società interetnica e interreligiosa, si sono concentrate continuando ad esistere in BeE. In essa oggi convivono ortodossi, cattolici, musulmani ed ebrei, oltre a diciassette minoranze nazionali legalmente riconosciute. Si tratta dei rappresentanti dei mondi divisi da quella linea mitica di cui si è già accennato, le cui conseguenze non sono mai sparite dalla vita dei popoli e che, nello stesso tempo, li divide e li unisce. Avvelenata dalle ingiustizie inflitte agli altri e patite dagli altri e piegata sotto il giogo degli interessi dei potenti, la gente del mio Paese non ha ancora né il coraggio di levare lo sguardo né la capacità di intuire il proprio migliore futuro. Tutti i paesi dell'Europa sud-orientale sono già membri dell'Unione Europea o hanno iniziato il processo d'integrazione. La stessa Turchia, erede e nucleo dell'Impero ottomano, ha aperto i negoziati di adesione all'Unione quasi dieci anni fa! La BeE, però, non è neppure candidata, perché l'Unione Europea ha stabilito che la Bosnia ed Erzegovina non potrà ufficialmente presentare domanda di adesione prima che l'ufficio di alta rappresentanza in Bosnia ed Erzegovina, creato al termine del processo di pace di Dayton, non venga chiuso. Osservandola, la configurazione della BeE assomiglia ad un cuore, però un po' malformato. Anche per questo può essere definita cuore dei Balcani. Ma se questo cuore smette di battere, cioè se la BeE non troverà la formula per esistere come società multietnica, interculturale e multi religiosa, sarà inviato il messaggio che al mondo oggi non ci può essere un confine che unisce, ma solo quello che separa, riconoscendo la legge del più forte come unica legge. 3. Cartina di tornasole dell'Europa Cosa vuol dire l'espressione BeE cartina di tornasole dell'Europa? Quale senso ed eventualmente quale messaggio potrebbe avere un'affermazione del genere? Prima di tutto, sono convinto che il significato negativo dei Balcani quale polveriera d'Europa e regione dei conflitti sia strettamente legato, in buona parte, all'atteggiamento storico di quel mondo da cui, dopo la scomparsa dell'Impero romano, nascerà l'idea e la realtà dell'Europa. Basti ricordare i tragici e scandalosi eventi legati al comportamento di quel mondo occidentale nei confronti dei cristiani dell'Oriente lungo i secoli che precedettero e contribuirono alla caduta di Costantinopoli (Frank). Roma, come centro religioso e politico di allora, ha svolto un ruolo per cui papa Giovanni Paolo II sentì il bisogno di chiedere perdono. La brama di potere e gli interessi politici hanno gettato un seme che ha portato i suoi frutti, il cui veleno ed amarezza sentiamo ancora oggi. Dopo tanti secoli, il rancore e le diffidenze sono più che palpabili. Come ho accennato, l'avanzata ottomana ha trasformato l'area dell'Europa sud-orientale in una regione che, fin ad oggi, non ha trovato il modo di liberarsi dal peso del passato e sentirsi davvero parte dell'Europa. Invece di provare a guarire le vecchie ferite, s'infliggono a vicenda le nuove. Questo peso storico si è accumulato lungo i secoli anche come conseguenza del comportamento dell'Occidente. È indicativo che proprio negli anni in cui gli Ottomani conquistano i paesi e i popoli collocati sulla mitica linea tra l'oriente e l'occidente europeo, il papa Pio II scrive la sua Disputa sullo stato d'Europa (Koch-Smith, 28). Il grido del re della BeE Tomašević rivolto al Papa, di cui fu incoronato legato qualche anno prima, di aiutarlo contro l'avanzata degli Ottomani restò senza risposta. Questo silenzio non meraviglia se si ha in mente che lo stesso Papa, qualche decennio dopo, si è sentito costretto a chiedere agli Ottomani di proteggerlo dal re di Francia, primogenita figlia della Chiesa! Mentre una parte sud-orientale d'Europa sanguinava e moriva sotto lo stivale ottomano, i regni europei (Francia e Inghilterra) stipulavano patti con gli stessi Ottomani per combattere gli altri regni europei (Austria). L'epoca del colonialismo può essere indicata come la terza grande pietra d'inciampo. È impressionante e spaventosa la rete degli interessi e dei conflitti nati sempre lungo la linea che divide e unisce il continente anche nel periodo del colonialismo. Quest'anno si ricorda l'inizio della prima guerra mondiale. La città di Sarajevo è al centro dell'attenzione a causa dell'assassinio del principe ereditario Ferdinando e della moglie incinta. Oggi sappiamo che Sarajevo, come luogo, e la BeE, come Paese, non avevano molto a che fare con i veri motivi della guerra. I motivi e le ragioni, come in tutte le guerre precedenti, erano collocati ben lontano dalla BeE. Però, il peso intero di quella guerra e delle due successive (1945 e 1991) lo hanno subito, perché hanno fatto maturare il seme subdolo dell'odio seminato per secoli tra popoli fraterni che, nonostante tutto, non avevano mai prima di allora fatto la guerra gli uni contro gli altri. Come piccola illustrazione, vi racconto la storia di una famiglia che conosco, proveniente dalla parte povera della BeE, dove la gente, da semplici contadini, viveva più di ciò in cui credeva che da quel poco che riusciva ad ottenere da un suolo poco fecondo. Essendo nato nel 1890, nonno Nicola, croato cattolico, fu costretto a combattere nella prima guerra mondiale per l'Impero austriaco contro la Serbia, ed in guerra è caduto. A casa lasciò un figlio e la moglie incinta. Finita la guerra, la moglie si risposò e i due figli furono fatti crescere dalla zia, anche lei vedova. Nella seconda guerra mondiale, che per le parti in conflitto fu una sorta di continuazione della prima, i due figli di Nicola, nel frattempo già sposati l'uno con tre e l'altro con un figlio, furono costretti a combattere per la Germania che aveva occupato quella zona. Di nuovo i nemici erano i loro concittadini capitati nelle forze serbe o partigiane. Durante la guerra (6.10.1942), una pattuglia di guerriglieri serbi massacrò tutti gli abitanti trovati nel villaggio in cui essi vivevano. La moglie del figlio maggiore di nonno Nicola si salvò fuggendo con il figlio di due anni tra le braccia. Sopravvissuto per miracolo alla mortale via crucis partigiana dall'Austria alla Macedonia, il figlio maggiore tornò dalla guerra. Una volta giunto a casa, il governo comunista decise di condannarlo a morte perché aveva servito l'esercito nazista. Lo salvò l'intervento di un alto ufficiale partigiano musulmano che lo aveva conosciuto nel servizio militare prestato insieme prima della guerra. Questo figlio di Nicola ha cresciuto i suoi sei figli e quello del fratello, rimasto in guerra, la cui moglie morì durante il parto. Durante la guerra degli anni novanta, le forze musulmane hanno cacciato via quasi tutti i Croati cattolici di quella zona. Dell'intera famiglia di nonno Nicola, nel frattempo diventata numerosa, compresi cinque preti e una suora, in Patria sono rimaste solo due persone anziane. Lo so che una storia del genere si potrebbe raccontare per milioni di famiglie in tutte le parti dell'Europa. Infatti, le due guerre mondiali sono costate cento milioni di morti (Koch-Smith, 24). Però, in BeE, oltre alle vittime e alla miseria materiale comuni a tutti i popoli europei, le guerre mondiali hanno lasciato ferite che, secondo molti, sembrano inguaribili. Dalle sue conseguenze, partendo dal numero dei caduti e dalla miseria che ne è seguita, comprese le conseguenze politiche, la BeE non si è ancora ripresa. Questo lo abbiamo sperimentato, in tutta la sua brutalità, nell'ultima guerra in BeE, che ha mostrato tutta la debolezza morale, la divisione e il disorientamento politico dell'Europa, unito al machiavellismo del governo statunitense. Il bilancio tragico conta centomila morti, due milioni seicento ottantamila persone cacciate dai luoghi in cui vivevano, vale a dire il 63,8 % di tutta la popolazione. Conclusione Invece di concludere una riflessione che, in senso logico, non si può neppure concludere, mi pongo la domanda se ci può essere una prospettiva e quale? Questa domanda viene posta, sempre più spesso e da più parti, incluso il vertice dell'Unione Europea. Certo, che ci sarebbe una soluzione! Però, essendo la BeE, come ho cercato di presentare, un Paese particolare, differente dagli altri, avrebbe anche bisogno di un trattamento particolare. Questo trattamento postula, prima di tutto, un radicale cambiamento della mentalità della nostra gente. La mentalità, purtroppo o per fortuna, non si cambia dall'oggi al domani. I vecchi nemici non diventano spontaneamente o per caso amici. Ci vuole un impegno serio e duraturo. Questo significa una vera conversione umana, vale a dire un cambiamento del modo di pensare e, soprattutto, di sentire. Per questo ci vorrebbe un impegno sincero comune e sincronizzato della cultura e della religione, cioè delle istituzioni civili non governative e delle Chiese e comunità religiose. Vent'anni fa ho preso parte a questo vostro convegno annuale. Il mio Paese era ancora in guerra. Anche allora vi presentai le ragioni della guerra. Tra le altre, mi fu rivolta la domanda: cosa si può fare per sradicare questa radice della guerra fratricida, che si ripete periodicamente? Risposi allora e lo ripeto anche oggi: bisogna educare le nuove generazioni a vivere con un altro spirito. Per noi cristiani significa lo spirito del Vangelo, che nell'incontro con gli appartenenti alle altre religioni o convinzioni significa cultura del rispetto e della collaborazione per il bene comune. Questa cultura non è possibile senza il reciproco riconoscimento. Temo che proprio questo manchi alle Chiese e alle religioni! Noi, nel nostro intimo, non ci riconosciamo come figli di un unico Dio. Mi dispiace tanto doverlo dire, ma sento in tutti i buoni e lodevoli tentativi dell'ecumenismo e del dialogo interreligioso questa incapacità a trattarci da fratelli e amici. Se ormai per tutto il mondo vale la costatazione che senza la pace tra le religioni non vi può essere la pace tra i popoli, questo vale ancora di più per la BeE. Vent'anni fa vi presentai l'esperienza delle scuole cattoliche interetniche e interreligiose come un piccolo tentativo della Chiesa di porre un segno di speranza e dare un contributo alla convivenza in pace tra diversi. Quest'anno a novembre queste scuole ricorderanno i vent'anni dall'inizio della loro esistenza. Nel frattempo il numero delle scuole e degli alunni è cresciuto. Le scuole sono quindici e gli alunni circa cinquemila. Esse sono solo una piccola prova che il dialogo vivo e la convivenza concreta tra i diversi è, non soltanto possibile, ma bello! Però il processo che tende a cambiare la mentalità verso una convivenza percepita e vissuta come un'opportunità e ricchezza e non come una condanna e minaccia permanente, risulta impossibile se viene a mancare la giustizia, come strumento con cui lavorare e obiettivo verso cui tendere. Il peso che ci schiaccia e rende il futuro del nostro Paese così difficile sono le profonde ferite della guerra che, a causa delle conseguenze di una pace ingiusta, non trovano il modo di guarire. L'accordo di pace imposto dagli Stati Uniti a Dayton e protetto già da vent'anni dal gruppo di contatto, rende il nostro Paese ingovernabile. Che questo sia vero, ne è prova la situazione socio-politica che oggi è anche peggiore dell'immediato dopoguerra. Ecco ancora un piccolo e tragico esempio che attesta l'inutilità di tutti i tentativi a livello culturale e religioso, quando manca quello socio-politico. Quattro anni fa la nostra scuola a Zenica ha ricordato il suo quindicesimo anniversario. I dirigenti scolastici sono venuti all'idea di invitare i suoi quindici alunni dell'anno, cioè i migliori alunni di ogni anno scolastico, dal 1995. Dei quindici studenti rintracciati solo uno è rimasto a vivere e studiare in BeE! E anche lui, dopo essersi laureato in lettere, lavora in un'organizzazione internazionale. Se i nostri migliori giovani continuano ad andarsene via, la BeE non potrà essere un Paese di convivenza e d'incontro, ma la prova che una società mista e meticcia, in cui ognuno rimane ciò che è, insieme agli altri, nell'Europa di oggi non è realizzabile. Qual è allora l'alternativa che si pone da sola? Il processo di disintegrazione, come quello attuale in Ucraina, si estenderà sempre di più. E questo raramente avviene senza versare il sangue. Questa realtà postula da parte di tutti un approccio responsabile, morale e delicato. I mass media, anche quelli più piccoli, hanno la loro grande missione, e cioè mettersi dalla parte della giustizia perché solo da quella parte può giungere il contributo umano alla causa della pace, che è il grande dono di Dio. Temo che al sopra accennato stato in cui versa la BeE possa essere, sebbene in tracce, sempre di più riconosciuto anche il rifesso di un nuovo scontro di cui parla il pensatore francese, Alain Finkielkraut. Lui scrive: In Europa divampa lo scontro tra le civilizzazioni e tutti fanno finta di non vederlo. Mentre io parlo di questo, mi accusano per il razzismo, ma io non faccio altro che dare le brutte notizie. (Oslobodjenje, 7.2.2014) *Vescovo ausiliare di Sarajevo SECONDA GIORNATA Venerdì 4 aprile 2014 OMELIA Mons. Carlo Roberto Maria Redaelli * Sono rientrato ieri da un pellegrinaggio con un gruppo di sacerdoti ai luoghi di papa Giovanni XXIII e papa Paolo VI. Due grandi pontefici, decisivi per la storia della Chiesa non solo del secolo scorso, ma anche dell’attuale e dei futuri. Decisivi soprattutto per quel dono che lo Spirito Santo ha fatto alle nostre generazioni, quell’evento di grazia che è stato il Concilio Vaticano II. Uno dei frutti più evidenti del Concilio è costituito dalla riscoperta della Parola di Dio, a cominciare dalla sua abbondante presenza nella liturgia. Decenni ormai di ascolto di questa Parola non sono ancora bastati affinché essa divenga sempre più, come afferma il salmo 118, “lampada per i nostri passi” e “luce per il nostro cammino”. È un processo lungo che esige costanza, apertura di mente, rottura dei nostri schemi mentali anche “religiosi”, conversione dei cuori e della vita. Certamente, siamo diventati più esigenti nei confronti della stessa Parola presente nella liturgia. Per esempio, è cresciuta la convinzione della necessità di un accostamento integrale alla Parola di Dio, così come ci viene presentata dalla Sacra Scrittura, senza che essa venga per così dire adattata alle nostre esigenze o, peggio, senza che il suo filo di spada tagliente (cf Ebrei 4,12) venga in qualche modo smussato dalle nostre paure e precomprensioni. Il brano di Vangelo di oggi è appunto uno dei casi – per fortuna pochi… - dove la scelta liturgica non presenta il testo nella sua integralità, ma ne taglia alcuni versetti in due punti. Mi fermo solo sul primo “taglio”. Il nostro brano passa dal v. 2: «Si avvicinava intanto la festa dei Giudei, quella delle Capanne» al v. 10: «Quando i suoi fratelli salirono per la festa, vi salì anche lui: non apertamente, ma quasi di nascosto». Appaiono improvvisamente questi “fratelli” e si dice che anche Gesù va alla festa: sembra in loro compagnia, anche se di nascosto. In realtà, non è così. Vi leggo i versetti dal 3 al 9: «I suoi fratelli gli dissero: “Parti di qui e va’ nella Giudea, perché anche i tuoi discepoli vedano le opere che tu compi. Nessuno infatti, se vuole essere riconosciuto pubblicamente, agisce di nascosto. Se fai queste cose, manifesta te stesso al mondo!”. Neppure i suoi fratelli infatti credevano in lui. Gesù allora disse loro: “Il mio tempo non è ancora venuto; il vostro tempo invece è sempre pronto. Il mondo non può odiare voi, ma odia me, perché di esso io attesto che le sue opere sono cattive. Salite voi alla festa; io non salgo a questa festa, perché il mio tempo non è ancora compiuto”. Dopo aver detto queste cose, restò nella Galilea». A questo punto, continua il v. 10: «Quando i suoi fratelli salirono per la festa, vi salì anche lui: non apertamente, ma quasi di nascosto». Potremmo dire – un po’ scherzando…- che i versetti tagliati sono imbarazzanti perché presentano una “bugia” di Gesù: dice che non andrà alla festa, ma poi ci va… Al di là però di questa curiosa annotazione, risulta importante il contrasto tra i fratelli e lo stesso Gesù. Sembra semplicemente una difformità di strategia comunicativa. I fratelli sostanzialmente dicono a Gesù: approfitta della festa, del grande concorso di folla a Gerusalemme per la ricorrenza delle Capanne, per farti conoscere. Se hai un messaggio valido, se hai qualcosa da dire, se vuoi farti conoscere come Messia, che cosa c’è di meglio di una grande festa? Se poi, invece, di fare discorsi complicati o esigenti, compi qualche bel miracolo, ecco che il gioco è fatto e anche i tuoi discepoli ne usciranno confortati e sostenuti nella loro decisione di seguirti. Ottimo suggerimento, da ufficio di comunicazione sociale, se non persino da società leader di consulenza nel campo dei mass media. L’evangelista però annota al v. 5: «Neppure i suoi fratelli infatti credevano in lui». Giudizio chiaro: quanto suggeriscono non c’entra niente con la fede, anzi dimostra proprio la loro non fede (notate l’infatti che collega direttamente il suggerimento con l’incredulità: “neppure i suoi fratelli infatti credevano in lui”). Gesù ovviamente non si sottrae al confronto con la folla, con i Giudei e persino con i propri nemici, non opera di nascosto. Durante la passione affermerà con verità, nell’interrogatorio cui lo sottoporrà il sommo sacerdote che indagava «riguardo ai suoi discepoli e al suo insegnamento»: «Io ho parlato al mondo apertamente; ho sempre insegnato nella sinagoga e nel tempio, dove tutti i Giudei si riuniscono, e non ho mai detto nulla di nascosto. Perché interroghi me? Interroga quelli che hanno udito ciò che ho detto loro; ecco, essi sanno che cosa ho detto» (Gv 18,19-21). Il problema non è che la Parola sia tenuta nascosta: deve essere comunicata. La persona stessa di Gesù, che è il Verbo, la Parola fatta carne, deve essere conosciuta. La questione è invece di fondo, di logica. La logica di Gesù è quella dell’essere, del servizio, dell’autenticità. Quella dei suoi fratelli è invece la logica dell’avere, del potere, dell’apparire. Tre realtà che si rafforzano a vicenda: se hai, puoi apparire di più – pagando chi ti fa questo servizio… – e così aumenti il tuo potere, che, a sua volta, aumenta il tuo avere e la tua possibilità di apparire. Avere, potere, apparire: è la logica dei fratelli di Gesù, ma è anche la logica del mondo. Noi non siamo immuni dal mondo: ci siamo dentro e le sue logiche ci sembrano, appunto, logiche. Non sono però la logica della croce. Quanto tutto ciò sia determinante per il vostro importante e delicato compito, lo lascio alla vostra riflessione. Buon lavoro. *Arcivescovo di Gorizia TAVOLA ROTONDA A GORIZIA, FRA EUROPA E ADRIATICO: DIALOGHI FRA ISTITUZIONI, GIORNALISTI E GIOVANI SUL FUTURO DELL’EUROPA, DELL’ALLARGAMENTO E DELL’INTEGRAZIONE Organizzata in collaborazione con l’Istituto di Sociologia Internazionale di Gorizia (ISIG) e resa possibile dal contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Gorizia. All’incontro – che ha avuto come tema A Gorizia, fra Europa e Adriatico: dialoghi fra Istituzioni, giornalisti e giovani sul futuro dell’Europa, dell’allargamento e dell’integrazione – hanno partecipato, insieme ai giornalisti della FISC, oltre 200 studenti delle scuole superiori di Gorizia. Il dibattito, al quale hanno partecipato Alfonso Zardi, direttore del Dipartimento per la Democrazia locale e regionale del Consiglio d’Europa, Manuela Lussi, responsabile del Dipartimento per le questioni economiche ed ambientali della missione permanente Osce in Albania, e Mateja Zorn del Gect Go, progetto di cooperazione transfrontaliera tra i comuni di Nova Gorica, Gorizia e Šempeter-Vrtojba, è stato coordinato e moderato da Daniele Del Bianco, direttore dell’ISIG, il quale ha tra l’altro affermato: “I confini, nell’Europa dei 28, non sono più quelli amministrativi dei singoli Stati, ma ce ne sono di soggettivi che ancora oggi permangono”. Del Bianco ha sottolineato l’urgenza di attuare strategie di cooperazione economica e culturale e ha spiegato l’importanza dei GECT (Gruppi Europei Cooperazione Territoriale) che, proprio a Gorizia hanno avuto il primo esempio italiano. “Di Europa non basta parlare, bisogna viverla. Per maturare davvero una coscienza europea è necessario aprirsi, andare sul posto”, ha affermato Mateja Zorn. Ecco, quindi, che tornano in gioco i giovani, sempre più numerosi in viaggio da un Paese all’altro per motivi di studio oppure per svago. Ma c’è anche un altro modo per costruire la “cittadinanza europea”. Si chiama “Erasmus+”, nome del programma comunitario che rende possibile, per tutti i giovani tra i 17 e i 30 anni residenti in un Paese dell’Ue, il Servizio volontario europeo (Sve). “È un’esperienza fondamentale per la costruzione di un’Europa davvero unita”, sottolinea Mattia Vinzi di Europe Direct Trieste, che ha illustrato le nuove modalità di partecipazione ai progetti Erasmus, «un altro modo per costruire la cittadinanza europea», «programma comunitario che rende possibile, per tutti i giovani tra i 17 e i 30 anni residenti negli Stati membri, il Servizio volontario europeo». Vinzi ha raccontato che cominciò a interessarsi di Europa nel 2001 nelle isole Azzorre, dove trascorse un periodo, grazie al Sve, in una cooperativa di recupero per tossicodipendenti. Il Servizio volontario europeo, ha detto, “si propone di promuovere la solidarietà e la tolleranza tra i giovani, al fine di rafforzare la coesione sociale dell’Ue, ma anche favorire la comprensione reciproca tra giovani di diversi Paesi e promuovere la cittadinanza attiva dei giovani, in particolare quella europea”. Perché non è la stessa cosa parlare di Europa e “mangiare alla stessa tavola con coetanei di altri Paesi”. Un po’ come il servizio civile in Italia e l’esperienza dei “caschi bianchi”, anche il Servizio volontario europeo rappresenta “un’occasione formativa, di crescita, magari per ragazzi che non hanno mai fatto un’esperienza di vita fuori dalla famiglia di origine”. La durata va dai 2 ai 12 mesi e, chi vuole farlo, deve scegliere tra i progetti proposti dai diversi enti, ovviamente in un Paese diverso dal proprio. Umberto Ademollo dell’Agenzia per la democrazia locale ha lanciato un monito, perché «se la strage dell’ex Jugoslavia è stata possibile per la debolezza dell’Unione, oggi, mentre i suoi confini si allargano, manca ancora una visione chiara su quello che l’Europa vuole diventare». TAVOLA ROTONDA MASS MEDIA CATTOLICI, VOCE DELLA “ECCLESIA IN EUROPA” IL RUOLO DELLE TESTATE DI ISPIRAZIONE CRISTIANA NELLA COSTRUZIONE COMUNITARIA Gianni Borsa * Dire Europa per dire confini superati, muri abbattuti, frontiere dilatate. Anche questa è una visione – non certo l’unica – della costruzione europea, che a partire dalle prime Comunità economiche (Ceca, Cee), negli anni Cinquanta del ‘900, ha via via preso forma, accrescendo il numero dei Paesi partecipanti, la popolazione, le competenze delle istituzioni che hanno sede a Bruxelles e Strasburgo. Una Unione europea particolarmente sotto pressione in questi anni di crisi economica, cui è corrisposta una crisi politica che ha però avuto un effetto collaterale significativo: costringere la stessa Ue e i suoi Stati membri a una sorta di esame di coscienza, con una rilettura dei pilastri che reggono l’architettura comunitaria e della stessa identità del “soggetto Europa”. Ma questo processo di revisione-rilancio, tuttora in corso e dagli esiti non scontati, sembrerebbe procedere senza il pieno coinvolgimento dell’opinione pubblica, della società civile, con il rischio di approfondire quella distanza tra cittadini e istituzioni europee da più parti denunciato. È il “gap democratico” imputato al processo di edificazione dell’Europa unita e che, per ovvie ragioni, chiama in causa i mass media. Sono infatti giornali, televisioni, radio, siti internet che hanno il compito di informare sulla vita politica, sia essa locale, nazionale o europea: è mediante gli strumenti della comunicazione sociale che il singolo cittadino può seguire il dibattito politico, le decisioni assunte nei “palazzi” del potere, informarsi per giudicare, conoscere per poter essere protagonista della vita democratica. A questo proposito è convinzione diffusa che l’informazione a disposizione dei lettori sulle vicende europee sia mediamente modesta, frammentaria, incompleta, troppe volte marcata da pre-giudizi e da uno strisciante messaggio euroscettico. Così è difficile rendersi conto del complesso lavoro svolto da Commissione, Europarlamento e Consiglio Ue; comprendere la direzione che assumono le politiche comunitarie; valutare gli innumerevoli progetti Ue in corso di realizzazione nelle sfere di sua competenza; verificare i risultati della complessiva azione Ue. Gli elettori – chiamati ogni cinque anni a esprimere il loro voto per il Parlamento europeo – sulla base di quali informazioni possono scegliere i loro rappresentanti in Europa, tenuto anche conto che la campagna elettorale in genere si svolge, come avvenuto in passato, non attorno a una seria discussione politica sull’Ue ma sulle vicende congiunturali interne degli Stati e sulle contrapposizioni nazionali? Anche di questo si è discusso nel corso del convegno promosso a Gorizia - città italiana sul confine con la Slovenia, dove il crollo della Cortina di ferro 25 anni fa si è avvertito profondamente - dal settimanale cattolico “Voce isontina”, in collaborazione con la Federazione italiana dei settimanali cattolici e con l’Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali della Conferenza episcopale. Una tre-giorni non a caso intitolata “Europa e confini”, che ha analizzato nel corso di una tavola rotonda il tema “In Europa da giornalisti cattolici”. Ne è emerso il convincimento che il deficit informativo sul processo di integrazione comunitaria esiste, eccome, ma che esso possa essere colmato anche grazie al contributo dei giornali del territorio quali sono i settimanali diocesani e diverse altre testate cattoliche in Europa, vicinissimi – per loro storia e vocazione – ai lettori, alle famiglie, ai soggetti vivi delle città e regioni. In Italia tali giornali, diffusi in un milione di copie, sono radicati nella comunità cristiana, interpreti delle specificità territoriali del Paese, senza per questo cadere nella tentazione dei particolarismi che attraversano la Penisola. Giornali capaci di essere, al contempo, “di confine”, nel raccontare una determinata e circoscritta realtà diocesana, e al contempo “ponti” fra la realtà locale e quella più ampia, facendo proprio quell’universalismo che è un tratto caratterizzante la fede cristiana. Tale capacità di tenere le radici ben salde nelle città per poi alzare gli occhi verso orizzonti più distesi, può essere posta efficacemente al servizio di quella costruzione europea resasi necessaria nel secondo dopoguerra per ridare pace e sviluppo all’Europa, continente che oggi – è sotto gli occhi di tutti - ha ancora bisogno di pace e di sviluppo. Un’Europa che ha sempre avuto dalla Chiesa cattolica un’attenzione benevola e forti incoraggiamenti. Le testate cristianamente ispirate (carta stampata, siti internet, altri media) presenti in vari Paesi europei possono essere, con il loro compito informativo, parte viva di quella “Ecclesia in Europa” tratteggiata da Giovanni Paolo II con la sua esortazione apostolica del 2003. Questi strumenti di comunicazione sociale “vicini alla gente” interpreterebbero in tal senso, e in maniera originale, una sorta di “principio di sussidiarietà informativa”, portando nelle case dei lettori quell’Europa così apparentemente lontana e che invece è ormai parte della nostra vita quotidiana. *Corrispondente Agenzia Sir in Europa Alla tavola rotonda hanno partecipato: Erich Leitenberger, Johanna Touzel, Anna Kowalewska. I relatori si sono soffermati sulle modalità e le difficoltà del raccontare oggi l’Europa, le sue istituzioni e le sue problematiche attraverso i massmedia. Ne è emerso il convincimento che il deficit informativo esiste, eccome, ma che esso possa essere colmato anche grazie al contributo dei giornali del territorio quali sono i settimanali diocesani, vicinissimi - per loro storia e vocazione - ai lettori, alle famiglie, ai soggetti vivi delle città e regioni italiane. Giornali radicati nella comunità cristiana, interpreti delle specificità territoriali del Paese, senza per questo cadere nella tentazione dei particolarismi che attraversano la penisola. Giornali capaci di essere, al contempo, “di confine”, nel raccontare una determinata e circoscritta realtà diocesana, e al contempo “ponti” fra la realtà locale e quella più ampia, facendo proprio quell’universalismo che è un tratto caratterizzante la fede cristiana. Tale capacità di tenere le radici ben salde nelle città per poi alzare gli occhi verso orizzonti più distesi, sarebbe posta efficacemente al servizio di quella costruzione europea resasi necessaria nel secondo dopoguerra per ridare pace e sviluppo all’Europa, continente che oggi - è sotto gli occhi di tutti - ha ancora bisogno di pace e di sviluppo. Anna Kowalewska, giornalista di Sir Europa, facendo riferimento alla crisi Ucraina ha ricordato come in questo momento «l’Europa è in guerra sul confine russo» e, anche se appaiono fatti lontani «in un mondo globalizzato sono veramente molto vicini», da cui la necessità di «riscoprire il cuore dell’Europa, ovvero le radici, senza le quali non riusciremo a percepire ciò che ci accade intorno». Johanna Touzel, portavoce della Comece, ha ricordato l’importanza della partecipazione alla politica europea, perché l’Ue «ha competenze su immigrazione e diritto d’asilo, lotta alla disoccupazione giovanile, politiche sociali, sostegno alla famiglia», «argomenti che come cristiani ci riguardano e per i quali occorre informarsi e diventare attivi». L’Europa ha sempre avuto dalla Chiesa cattolica un’attenzione benevola e forti incoraggiamenti. I settimanali diocesani possono essere, con il loro compito informativo, parte viva di quella “Ecclesia in Europa” tratteggiata da Giovanni Paolo II con la sua esortazione apostolica del 2003. I giornali “vicini alla gente” interpreterebbero in tal senso, e in maniera originale, una sorta di “principio di sussidiarietà informativa”, portando nelle case dei lettori quell’Europa così apparentemente lontana e che invece è ormai parte della nostra vita quotidiana.