Rivista di scienze storiche e sociali Rivista scientifica semestrale fondata nell’anno 2015 www.StoriaLibera.it [email protected] Anno II (2016), n. 4 ISSN 2421-0269 Direttore Beniamino Di Martino Capo Redattore Rosa Castellano [email protected] Redazione Martino Abagnale Paolo Amighetti Michele Vito Biasi Maria Rosaria Cesarano Giovanni Chierchia Nicola Langellotti Rosa Saviano Lucia Sorrentino Riccardo Zenobi StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 Direzione ed Amministrazione Via Plinio il Vecchio, 47 80053 Castellammare di Stabia (Napoli) [email protected] Editore Club di Autori Indipendenti Corso Garibaldi, 95 82100 Benevento Progetto grafico Attilio Conte Sito web Luigi Aversa Andrea Di Martino Gli elaborati pubblicati su «StoriaLibera» sono sottoposti a controllo di qualità secondo la procedura della peer review in doppio cieco. I contenuti degli articoli sono di esclusiva responsabilità degli autori. Gli autori cedono i propri contributi alla rivista gratuitamente. Anche ogni altro tipo di collaborazione alla rivista è offerta a titolo totalmente volontario e gratuito. I fascicoli della rivista vengono preparati con cadenza semestrale e vengono diffusi on line a gennaio (numero invernale) e a luglio (numero estivo). La data di uscita di ciascun numero è riportata nell’ultima pagina del fascicolo. I testi contenuti nei fascicoli della rivista sono protetti da copyright. La riproduzione, anche parziale, deve essere svolta citando con precisione la fonte. La rivista è gratuita e liberamente scaricabile in formato digitale. Il regolamento della rivista può essere visionato sul sito www.StoriaLibera.it. 2 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 Comitato Scientifico (in ordine alfabetico) Luigi Marco Bassani, Università di Milano Maurizio Brunetti, Università “Federico II”, Napoli Enrico Colombatto, Università di Torino Massimo de Leonardis, Università Cattolica S. Cuore, Milano Giovanni Dessì, Università “Tor Vergata”, Roma Antonio Donno, Università del Salento, Lecce Carmelo Ferlito, International College Subang, Subang Jaya, Malaysia - Institute for Democracy and Economic Affairs (IDEAS), Kuala Lumpur, Malaysia Giuseppe Goisis, Università “Ca’ Foscari”, Venezia Ettore Gotti Tedeschi, Banca Santander, Senior Country Head Nicola Iannello, Istituto Bruno Leoni, Torino Lorenzo Infantino, Libera Università Studi Sociali (LUISS), Roma Carlo Lottieri, Università degli Studi di Siena Claudio Martinelli, Università di Milano-Bicocca Antonio Martino, Mont Pelerin Society - Libera Università Studi Sociali (LUISS), Roma - Link Campus University, Roma Pietro Paganini, John Cabot University, Roma Roberto Palmieri, Università degli Studi di Salerno Francesco Perfetti, Libera Università Studi Sociali (LUISS), Roma 3 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 Francesco Petrillo, Università del Molise - Link Campus University, Roma Carlo Scognamiglio Pasini, Libera Università Studi Sociali (LUISS), Roma Roger V. Scruton, University of St Andrews, Scotland Serena Sileoni, Istituto Bruno Leoni, Torino Alessandro Vitale, Università di Milano Nell’elenco figurano, per la prima volta, i proff. de Leonardis, Donno, Goisis, Infantino, Martinelli, Paganini, Perfetti, Petrillo, Scognamiglio Pasini, Scruton e Sileoni. A loro il più caloroso benvenuto e il più cordiale ringraziamento. Il curriculum di ciascun membro del Comitato Scientifico è consultabile sul sito web della rivista (www.StoriaLibera.it). 4 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 Indice Editoriale. «StoriaLibera» e il suo Comitato Scientifico … p. 7-8 Saggi e articoli GUGLIELMO PIOMBINI, Il paleolibertarismo e la sua eredità culturale ………………………………………………………………… p. 11-49 BENIAMINO DI MARTINO, La “salutary neglect” e le colonie americane …………………………………………………………… p. 51-78 Note e interventi GIANANDREA DE ANTONELLIS, L’Islam per una nuova civiltà tradizionale? Considerazioni sul romanzo Sottomissione di Michel Houellebecq …………………………….………………….. p. 81-93 ALBERTO ROSSELLI, L’olocausto armeno (1914-1918). A cento anni dal genocidio …………………………….……….……….. p. 94-114 Documenti e testimonianze EZRA TAFT BENSON, In piedi per la libertà, a cura di Maurizio Brunetti …………………………………………………………….. p. 117-145 AUGUSTO DEL NOCE, L’inevitabile decomposizione del marxismo, a cura di Guido Vignelli ……………..……….. p. 146-160 5 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 Recensioni e segnalazioni Recensioni ………………………………………………………… p. 163-178 JAMES HANNAM, La genesi della scienza. Come il Medioevo cristiano ha posto le basi della scienza moderna (Andrea Bartelloni); GIUSEPPE BEDESCHI, Storia del pensiero liberale (Beniamino Di Martino). Segnalazioni ……………………………………………………… p. 179-184 UBALDO GIULIANI-BALESTRINO, Guareschi era innocente. Ecco le prove (Luciano Garibaldi); ETTORE BEGGIATO, Questione veneta. Protagonisti, documenti e testimonianze (Carlo Lottieri). Autori ………………………………………………………………… p. 185 6 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 Editoriale «StoriaLibera», una rivista “scientifica” N el precedente editoriale, presentando il terzo fascicolo della nostra rivista, mi soffermavo su quelle caratteristiche che fanno di «StoriaLibera» una “rivista scientifica”. Non è difficile né definire con sufficiente chiarezza questo requisito né determinare le modalità con cui questa peculiarità possa e debba essere applicata. Ciò che rende difficoltoso il cammino di un’iniziativa come la nostra è, piuttosto, la complicazione offerta dalla normativa che lo Stato non risparmia a nessun campo. Al pari di qualsiasi altro, anche il campo culturale o scientifico dovrebbe poter offrire contributi aspettando solo da lettori, fruitori o clienti il giudizio e la valutazione. Nessuna certificazione ministeriale può valere l’apprezzamento dei “consumatori” di un prodotto (anche se di natura scientifica), e nessun interdetto governativo è più grave della sconfessione del “mercato” (anche culturale). D’altra parte, in regime di libera concorrenza, a nessuno sta più a cuore la qualità della produzione intellettuale che ad un autore o a chi per lui (e, non certo da ultimo, il direttore di una rivista che intende contribuire al dibattito intellettuale). Ciò per dire che l’allergia per le complicazioni normative non solo non dimostra alcuna nostra disattenzione per la qualità, ma – al contrario – significa garantire esattamente la serietà del lavoro in modo sostanziale e non soltanto con comode (e farraginose) certificazioni formali. Se le rette intenzioni costituiscono un buon punto di partenza, esse, tuttavia, non bastano. Sin dal primo momento, abbiamo ribadito il proposito di essere fedeli a quel rigore metodologico che si addice al lavoro scientifico e che si deve 7 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 applicare in ogni ambito della conoscenza. Se non riusciremo in questa opera e non manterremo questo proposito, il nostro lavoro, svolto attraverso la rivista «StoriaLibera», si arenerà in un fallimento. Perché ciò non accada e per godere di tutti i consigli necessari – come ed anche più di ogni altra rivista che voglia dirsi “scientifica” –, «StoriaLibera» gode di un gruppo di autorevoli e competenti personalità accademiche che ci onorano della loro assistenza e della loro partecipazione. Si tratta di figure prestigiose che compongono il nostro Comitato Scientifico. Non mi soffermo sui compiti assegnati ai membri di questo Board. Tali funzioni sono già illustrate nel nostro regolamento interno. Tengo, piuttosto, a precisare che siamo riusciti a rispettare i tempi che ci eravamo dati per la costituzione del Comitato. Questo era stato presentato già nel colophon del numero 2 della rivista ed è entrato pienamente in funzione con la preparazione del numero 3. Rispetto ai nomi che hanno costituito il primo nucleo, già oggi – con questo quarto fascicolo – abbiamo un allargamento del numero dei cattedratici ed è probabile che altri potranno successivamente aggiungersi. A noi – redazione ed autori – la responsabilità di non far venire mai meno l’onestà intellettuale e il rigore scientifico del nostro lavoro. Agli illustri membri del Comitato Scientifico affidiamo il compito di vigilare sulla fedeltà a questi propositi. Che Dio benedica il comune sforzo e l’impegno di ciascuno. Il Direttore 8 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 Saggi e articoli 9 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 GUGLIELMO PIOMBINI* Il paleolibertarismo e la sua eredità culturale Abstract All’inizio del 1990 alcuni intellettuali libertari come Murray N. Rothbard, Llewellyn Rockwell Jr. e Hans-Hermann Hoppe diedero vita al movimento paleolibertario. I paleolibertari, sostenitori delle libertà nel campo economico, ma avversi al relativismo morale, cercarono un’alleanza con i “paleoconservatori” come Sam Francis, Tom Fleming, Paul Gottfried o Pat Buchanan. Il termine “paleolibertario”, usato per la prima volta da Rockwell, aveva lo scopo di recuperare il radicalismo e il rigore politico e intellettuale della Old Right, la “vecchia destra” precedente alla seconda guerra mondiale. La ____________________ * Brillante e vivace intellettuale, Guglielmo Piombini (1968) è una figura insolita e feconda di pensatore: imprenditore, giornalista, saggista, conferenziere e promotore culturale. Collabora con giornali e riviste. Tra i suoi libri: Privatizziamo il chiaro di luna. le ragioni dell’ecologia di mercato (Facco, 1996), La teoria liberale della lotta di classe (Il Fenicottero, 1999), La proprietà è sacra (Il Fenicottero, 2001), Il libro grigio del sindacato. Origini e natura dell’oppressione corporativa in Italia (Il Fenicottero, 2002) e Prima dello Stato, il medioevo delle libertà (Facco, 2004). Conduce la Libreria del Ponte (www.libreriadelponte.com), specializzata in libri sul pensiero liberale e libertario, sul cui sito sono raccolti molti articoli suoi e di altri esponenti della cultura libertaria contemporanea. 11 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 morte di Rothbard nel 1995 ha rappresentato un duro colpo per il movimento, ma i paleolibertari continuano la loro duplice battaglia per la difesa del libero mercato privo di vincoli, sviluppando la metodologia della Scuola Austriaca, e per la difesa dei tradizionali valori cristiani della civiltà occidentale, minacciati dalla post-moderna cultura progressista, oggi dominante tra le élites politiche e intellettuali. Parole chiave: libertarismo, conservatorismo, anti-statalismo, Rothbard, Scuola Austriaca, Stati Uniti. At the beginning of the 1990 American libertarian intellectuals such as Murray N. Rothbard, Llewellyn Rockwell Jr., and HansHermann Hoppe gave rise to the paleolibertarian movement. Paleolibertarians, who favour laissez-faire in the economic realm but oppose moral relativism, were seeking an alliance with the so-called “paleoconservatives” like Sam Francis, Tom Fleming, Paul Gottfried or Pat Buchanan. The word “paleolibertarian”, first used by Rockwell, had the purpose to recapture the radicalism and the political and intellectual rigor of the pre-war libertarian “Old right”. Rothbard’s death in 1995 was a blow, but paleolibertarians still continued their twofold battle for the defence of the unfettered free-market, developing the methodology of the Austrian School of Economics; and for the defence of the traditional Christian values of the Western Civilization, threatened by the post-modern “liberal” culture, now leading in the political and intellectual elite. Key words: libertarianism, conservatism, Rothbard, Austrian School, United States. 12 anti-statism, StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 1. La nascita di un movimento N el corso degli anni Novanta del XX secolo, all’interno del variegato mondo della Destra americana emerse un vivace e interessante movimento culturale che si distingueva per l’utilizzo del prefisso “paleo”. Questo orientamento tagliava trasversalmente i due principali raggruppamenti politici (il Grand Old Party Repubblicano e il piccolo Partito Libertario) e ideologici (il tradizionalismo conservatore e l’antistatalismo libertario) che si contrapponevano al Partito Democratico e alla sinistra liberal. La data di nascita del paleolibertarismo, così come del paleoconservatorismo, coincide con la fine della guerra fredda, evento che per una parte del mondo conservatore impose un ripensamento sul ruolo imperiale che l’America aveva finito per assumere sulla scena mondiale. All’insegna del motto “America First!” alcuni intellettuali conservatori, come Patrick Buchanan, Tom Fleming, Samuel Francis, Paul Gottfried, Allan Carlson, Clyde Wilson, rispolverano la bandiera dell’isolazionismo, e affermano che è arrivato il momento di “riportare le truppe a casa”. Per distinguersi dall’egemonia neoconservatrice, rivendicano orgogliosamente l’etichetta di paleoconservatori, cioè conservatori all’antica. Il vecchio conservatorismo della Old Right, fortemente avverso al New Deal e all’interventismo militare di Franklin Delano Roosevelt, si era infatti eclissato nel secondo dopoguerra, quando la minaccia sovietica aveva condotto quasi tutta la Destra americana sulle posizioni della New Right di William F. Buckley, James Burnham, Henry Jaffa o Frank S. Mayer, favorevoli al massimo impegno nella lotta anticomunista su scala globale. Su questa linea, diffusa principalmente dalla rivista «National Review», approdarono verso la metà degli anni Sessanta i neoconservatori, quasi tutti provenienti dalla sinistra liberal o addirittura dalla militanza trotzkysta. Grazie a questo loro passato politico, i neoconservatori resero accettabile la critica delle idee progressiste anche all’interno delle élites intellettuali, artistiche e giornalistiche, dove i vecchi 13 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 conservatori erano sempre stati guardati con snobistico sospetto. Scaltri nella gestione del potere politico e culturale, sotto la guida di personaggi come Irving Kristol e suo figlio William, Daniel Moynihan, Nathan Glazer, Daniel Bell, Jeane Kirkpatrick o Norman Podhoretz, i neoconservatori divennero col tempo la forza egemone nel panorama conservatore americano, spostandolo su posizioni sempre più favorevoli al big government in politica interna e militariste in politica estera. Durante gli anni della guerra fredda gli unici all’interno della Destra americana a sfidare questo predominio furono i libertari, i quali accusarono esplicitamente i neoconservatori di statalismo per aver accettato come un fatto compiuto sia le istituzioni del Welfare State edificate dai Democratici da Roosevelt a Johnson, sia l’idea wilsoniana di esportare con le armi la democrazia in tutto il mondo. Grazie soprattutto all’elaborazione teorica di Murray N. Rothbard, la dottrina libertaria si sviluppò in maniera sistematica, fondandosi sulla rigorosa difesa dei diritti naturali alla vita, alla libertà e alla proprietà degli individui; sulla celebrazione del libero mercato; sulla radicale condanna dello Stato moderno. Ne scaturiva un modello ideale di società, definito talora anarco-capitalista, che rifiuta ogni monopolio legale anche nei campi della sicurezza e della giustizia, e prevede al suo posto la libera concorrenza tra agenzie di protezione, arbitrali o assicurative. Realizzando una sofisticata sintesi di realismo filosofico tomista, giusnaturalismo liberale alla Locke e soggettivismo della Scuola Austriaca dell’economia, Rothbard rinnovò in una veste più coerente e radicale la lezione dei liberali classici dell’Ottocento1. 1 Cfr. MURRAY N. ROTHBARD, Per una nuova libertà, Liberilibri, Macerata 1996 e MURRAY N. ROTHBARD, L’etica della libertà, Liberilibri, Macerata 1996. Sul pensiero politico e filosofico di Murray N. Rothbard si veda: LUIGI MARCO BASSANI, L’anarco-capitalismo di Murray N. Rothbard, introduzione a MURRAY N. ROTHBARD, L’etica della libertà, cit., p. XI-XLIV; RAIMONDO CUBEDDU, Atlante del liberalismo, Ideazione, Roma 1997, p. 101-112; ROBERTA A. MODUGNO, Murray N. Rothbard e la teoria anarco-capitalista, Rubbettino, Soveria Mannelli (Catanzaro) 1997; CARLO LOTTIERI, Il 14 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 Un punto sul quale il libertarismo insisteva con vigore era il ruolo cruciale della guerra nel potenziamento dell’espansione statale a danno della libertà individuale2. Soprattutto su questo scoglio si arenò negli anni Sessanta il tentativo di Frank S. Meyer, teorico di punta della «National Review», di unificare all’interno del movimento conservatore, all’insegna del “fusionismo”, l’anima tradizionalista e l’anima libertaria. Opponendosi alla volontà del direttore della rivista Buckley di “purgare” gli elementi estremisti (libertari, randiani, birchers), Meyer, amico di vecchia data e mentore di Rothbard, era fondamentalmente un paleolibertario ante litteram, che credeva nella ragione e nella tradizione, nella libertà individuale e nel libero mercato, nel cristianesimo, nell’oggettività dell’etica, nella decentralizzazione, nei diritti degli Stati (anche del Vecchio Sud) contro la tirannia del governo federale, e detestava il sistema scolastico pubblico e l’irrazionalismo hippy. Il dibattito inaugurato da Meyer tuttavia fallì perché i libertari rothbardiani non condividevano il suo acceso anticomunismo, che lo portava a perorare le più estreme posizioni interventiste e imperialiste in politica estera, fino alla richiesta di totale annichilimento dell’Unione Sovietica mediante il bombardamento nucleare. Già membro di rilievo pensiero libertario contemporaneo, Liberilibri, Macerata 2001, p. 5175; PAOLO ZANOTTO, Il movimento libertario americano dagli anni sessanta ad oggi: radici storico-dottrinali e discriminanti ideologico-politiche, Dipartimento di Scienze Storiche, Giuridiche, Politiche e Sociali dell’Università degli Studi di Siena, Siena 2001; ENRICO DICIOTTI - CARLO LOTTIERI, Rothbard e l’ordine giuridico libertario. Una discussione, Dipartimento di Scienze Storiche Giuridiche Politiche e Sociali dell’Università degli Studi di Siena, Siena 2002; NICOLA IANNELLO, Un’immacolata concezione della libertà, in «Ideazione», 2003, n. 1, p. 182-196; PIERO VERNAGLIONE, Il Libertarismo. La teoria, gli autori, la politica, Rubbettino, Soveria Mannelli (Catanzaro) 2003, p. 197-297. 2 Sull’isolazionismo libertario, cfr. CARLO LOTTIERI, No Welfare, No Warfare, in «Ideazione», 2001, n. 3, p. 197-211; cfr. ALBERTO MINGARDI - CARLO STAGNARO, Gli Stati Uniti sono contro la guerra, in «Il Domenicale», 8.3.2003, p. 6. 15 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 del Partito Comunista americano, Meyer portava nella sua crociata anticomunista tutto lo zelo del neoconvertito, apparendo come il più falco tra tutti i falchi che affollavano la «National Review». Non solo Meyer non condivideva l’isolazionismo della Old Right, ma cercava di capovolgerlo, a costo di accettare all’interno del movimento conservatore tutti coloro che professassero convinzioni antisovietiche, fossero anche socialdemocratici, menscevichi o trotzkysti. Contro i fusionisti alla Meyer, Rothbard rimase invece sempre dell’idea che i veri nemici non fossero il comunismo o l’Unione Sovietica, ma lo statalismo e il socialismo in tutte le loro forme; e che probabilmente la minaccia maggiore per le libertà e le tradizioni americane non risiedesse a Mosca o all’Avana, ma a Washington D.C.3. Per questo motivo Rothbard, pur essendo stato da giovane vicino alle posizioni politiche della Old Right, non esitò negli anni Settanta a proporre un’alleanza tattica con la New Left, la sinistra sorta dalla contestazione, in nome della comune opposizione alla guerra del Vietnam. All’inizio degli anni Ottanta il Libertarian Party arrivò a proporsi saldamente come terzo partito organizzato americano, ma molto più dei risultati elettorali furono le idee libertarie contrarie all’eccessiva tassazione e all’invadenza governativa che iniziarono ad acquisire peso nel dibattito politico, come testimonierà il vittorioso programma elettorale di Ronald Reagan, espressione di una maggioranza d’opinione che per la prima volta dal dopoguerra ricuciva i legami fra le diverse anime della Destra americana (anche se le realizzazioni pratiche saranno dal punto di vista dei libertari più discutibili). La caduta del Muro di Berlino tornò però a scompaginare tutte le carte. La rottura tra paleoconservatori e neoconservatori sul ruolo militare dell’America nel mondo venne vista da una MURRAY N. ROTHBARD, Frank Meyer and Sidney Hook, in «Rothbard-Rockwell-Report», January 1991, ora in LLEWELLYN H. ROCKWELL JR (edited by), The Irrepressible Rothbard, The Center for Libertarian Studies, Burlingame (California) 2000, p. 20-21. Sul fusionismo si veda anche il documento Storia esemplare di un conservatorismo progressista, a cura di Marco Respinti, in «Il Domenicale», 22.11.2003, p. 6-7. 3 16 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 parte dei libertari, capeggiati dallo stesso Rothbard e da Llewellyn Rockwell (il suo più stretto collaboratore negli ultimi anni di vita, cofondatore del Mises Institute), come l’occasione propizia per far rinascere, attraverso un’alleanza con i primi, qualcosa di simile alla rimpianta Old Right: un movimento populista di destra che fosse liberale in economia, isolazionista in politica estera e attaccato ai valori tradizionali. Una delle ragioni di questa scelta politica fu quella di sfidare l’influenza sul movimento libertario di riviste come la californiana «Reason» o di think tank come il Cato Institute, troppo facili ai compromessi col potere di Washington, oppure favorevoli a mezzi statalisti e globalisti (come il NAFTA o il WTO) per raggiungere obiettivi libertari. Una seconda ragione profonda della decisione di Rothbard e Rockwell di rompere definitivamente con il Partito Libertario nacque dalla forte insofferenza per l’atteggiamento troppo “alternativo” e “controculturale” esibito da molti attivisti libertari. In un articolo intitolato The Case for Paleolibertarianism, pubblicato nel 1990, Lew Rockwell adottò per la prima volta la definizione di “paleolibertario” (in analogia con quanto fatto dai paleoconservatori) per differenziare le proprie posizioni da quelle, giudicate decadenti, edoniste, relativiste, e libertine dei left-libertarians, in uno sforzo di combinare un radicale liberalismo nel campo politico ed economico con un altrettanto deciso tradizionalismo nel campo culturale4. L’evoluzione paleo non aveva quindi il significato di un nuovo credo, ma testimoniava il recupero di radici perdute, e aveva lo scopo di riaffermare la continuità politica e culturale con la Old Right, che nei primi decenni del Novecento annoverava personalità di rilievo come Robert Taft, Henry Mencken, Albert Jay Nock, Garet Garrett, Frank Chodorov, rappresentando la tradizione americana più autentica, custode dei principi costituzionali del governo limitato dai pericoli provenienti dalle politiche progressiste. LLEWELLYN H. ROCKWELL, The Case for Paleolibertarianism, in «Liberty», 1990, n. 3 (trad. it. Il manifesto del paleolibertarismo, in «Enclave. Rivista Libertaria», 2002, n. 17. 4 17 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 Il paleolibertarismo, infatti, sostiene che vi è uno stretto collegamento tra la libertà e l’eredità culturale giudaicocristiana, dato che la distruzione degli ordinamenti tradizionali apre la strada all’edificazione dello Stato onnipotente. Se si attacca la famiglia limitandone l’autonomia, questa non potrà più servire come bastione contro il potere statale. Lo stesso effetto viene prodotto dalla retorica progressista, quando ridicolizza la religione, i costumi, le istituzioni, le usanze, e i pregiudizi delle classi medie, con l’obiettivo di estendere il raggio d’azione dei funzionari e degli “esperti” governativi nella società. In realtà Rothbard e Rockwell sono sempre stati fautori dei valori e degli stili di vita borghesi, e hanno sempre criticato l’anticristianesimo militante e le provocazioni controculturali diffuse negli ambienti libertari. L’unica vera novità nel pensiero di Rothbard durante l’ultima fase della sua vita è stata quella di incorporare esplicitamente il sostegno per la società tradizionale all’interno di una più ampia teoria della libertà. Egli si rese conto che il libertarismo, affermando la supremazia della legge naturale eterna sulla legge positiva creata dall’uomo, è quanto di più antico e tradizionale vi possa essere, e per tale motivo è anche internamente coerente con i precetti della religione. È significativo infatti che Rothbard, ebreo e agnostico, pur senza convertirsi sia arrivato al termine della sua vita intellettuale a considerarsi “un ardente sostenitore del Cristianesimo” e ad aderire ad una visione culturale in senso lato cattolica. Hans-Hermann Hoppe, l’allievo di Rothbard che gli succederà nella cattedra universitaria, svilupperà queste idee in un libro, Democracy: The God That Failed, che rappresenta a tutt’oggi la più compiuta esposizione delle posizioni paleolibertarie. Con un taglio revisionista, Hoppe arriva a rivalutare alcuni aspetti di moderazione delle monarchie tradizionali rispetto alle democrazie moderne, e indica nello 18 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 statalismo welfarista il vero distruttore dei legami comunitari e dei valori tradizionali5. Sul piano politico l’alleanza con i paleoconservatori si realizzò attraverso l’attivo sostegno di Murray N. Rothbard, Lew Rockwell e Justin Raimondo (più tardi biografo di Rothbard6) alla campagna presidenziale di Pat Buchanan con i repubblicani del 1992, nello sconcerto di molti left-libertarians (l’ala sinistra del movimento libertario) che consideravano questo candidato come un esponente della Destra religiosa. In realtà i punti d’accordo tra paleolibertari e paleoconservatori erano numerosi: in politica estera contestavano il Nuovo Ordine Mondiale e chiedevano il disimpegno dai conflitti lontani; in politica interna erano anticentralisti e favorevoli alla valorizzazione delle comunità locali; in economia criticavano gli eccessi di tassazione e assistenzialismo; sul piano sociale chiedevano limitazioni all’immigrazione indesiderata e la fine dei privilegi legali alle “minoranze”; sul piano culturale difendevano l’eredità cristiana e la tradizione morale della civiltà occidentale, minacciata dall’ideologia politicamente corretta, multiculturalista e progressista dei left-liberal, diventata dominante tra le élites intellettuali, nelle scuole, nelle università, a Hollywood e nei media. Per le elezioni del 1992 Rothbard elaborò un progetto “populista di destra” in grado di mettere d’accordo libertari e conservatori alla Buchanan, all’insegna del ritorno alla Old Republic americana delle origini, non ancora stravolta dall’avanzata del Leviatano statale. Secondo Rothbard lo scontro decisivo era tra populismo ed elitismo: da una parte c’era la vasta classe media americana, produttiva e legata ai valori tradizionali, ma necessariamente impossibilitata a dedicarsi in maniera approfondita alle questione politiche; dall’altra la classe elitaria dei politici, dei funzionari e degli intellettuali, che la opprime, la tassa, la comanda e cerca di Cfr. HANS-HERMANN HOPPE, Democrazia: il dio che ha fallito, , Liberilibri, Macerata 2005 6 JUSTIN RAIMONDO, An Enemy of The State. The Life of Murray N. Rothbard, Prometheus Books, New York (N. Y.) 2000. 5 19 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 distruggerne le tradizioni culturali e religiose. Rothbard prevedeva quindi un programma politico le cui priorità erano: 1) abbassare il più possibile le tasse, abolendo soprattutto l’imposta sul reddito; 2) ridurre al minimo tutte le misure del welfare, mettendo fine una volta per tutte ai privilegi dell’underclass parassitaria; 3) abolire i privilegi razziali o di gruppo, denunciando tutta la legislazione dei diritti civili come violatrice dei diritti di proprietà individuali; 4) riprendere il controllo delle aree urbane statalizzate, combattendo con durezza i criminali violenti (rapinatori, assassini, stupratori), e scacciando i molestatori indesiderati (punk, tossicomani, vagabondi); 5) abolire la Banca Centrale, e denunciare le manipolazioni del denaro operate dai banchieri; 6) “America First”: interrompere tutti gli aiuti e gli impegni politici e militari all’estero; 7) difendere i valori familiari, espellendo lo Stato dalla famiglia per ridare l’autorità ai genitori; 8) favorire la radicale decentralizzazione o la privatizzazione del sistema scolastico7. L’unica differenza tra paleolibertari e paleoconservatori riguardava la questione del libero scambio, a causa delle posizioni protezioniste di Pat Buchanan. Rothbard tuttavia preferì passarci sopra, dichiarando che «ad ogni uomo bisogna concedere un errore». In pratica il dissidio aveva scarse conseguenze, dato che entrambi si opponevano alla creazione di mega-burocrazie sovranazionali dotate di poteri di regolamentazione come il NAFTA e il GATT, che poco avevano a che fare con il libero commercio. Rothbard riteneva inoltre che in un sistema ampiamente decentralizzato come quello auspicato dai paleoconservatori l’imposizione di tariffe protezionistiche sarebbe stata quanto mai difficoltosa, mancando una forte autorità centrale capace di sottoporre a controllo gli spostamenti di merci e capitali. Il punto più alto di questa intesa tra libertari e conservatori all’insegna del ritorno alla Old Right si ebbe nel Cfr. MURRAY N. ROTHBARD, Right-Wing Populism, in «Rothbard-Rockwell-Report», January 1992, ora in ROCKWELL JR (edited by), The Irrepressible Rothbard, cit., p. 40-41. 7 20 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 1994, in occasione di una grande conferenza congiunta sui benefici dell’isolazionismo, i cui lavori furono pubblicati in un libro (The Costs of War) ricco di contributi di alto livello8. L’improvvisa morte di Rothbard l’anno seguente incrinò tuttavia questo stretto rapporto di collaborazione. Già nelle successive elezioni del 1996 Rockwell e Hoppe denunciarono la china statalista che aveva preso la campagna elettorale di Buchanan, troppo incentrata sul sostegno ai privilegi sindacali e sulla protezione dell’industria americana. Pur essendosi spezzata l’alleanza formale, paleolibertari e paleoconservatori continuarono a parlarsi e confrontarsi con reciproco interesse. 2. Contro i modal e left-libertarians Alla fine degli anni Ottanta la rottura di Murray N. Rothbard con il Libertarian Party, di cui era stato uno dei principali animatori fin dalla sua fondazione nei primi anni Settanta, ebbe tra i suoi motivi scatenanti anche l’immagine troppo influenzata dalla controcultura degli anni Sessanta che, a suo dire, il partito aveva assunto. Egli si era convinto che, terminata la Guerra Fredda, non ci fossero più ragioni per tenere separati gli antistatalisti libertari e quelli conservatori, nel comune obiettivo di difendere i valori borghesi, l’eredità cristiana e la tradizione morale su cui si fonda la civiltà occidentale, a suo avviso minacciata dalla dominante cultura dei left-liberal: «io, come altri paleolibertari – scrisse Rothbard – mi sono convinto che la Vecchia Cultura, la cultura che pervadeva l’America dagli anni Venti agli anni Cinquanta, era in sintonia non solo con lo spirito americano, ma anche con la legge naturale. E che la cultura nichilista, edonista, ultrafemminista, egualitaria e “alternativa” che ci è stata imposta dai liberal di sinistra non solo non è in sintonia, ma viola profondamente la concezione della natura umana che si è Cfr. JOHN V. DENSON (edited by), The Costs of War. America’s Pyrrhic Victories, Transaction Publisher, New Brunswick (New Jersey) 1997. 8 21 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 sviluppata in America e in tutta la civiltà occidentale prima degli anni Sessanta del XX secolo»9. La sensibilità più conservatrice del paleolibertarismo, che Rothbard e Rockwell propugnarono sulle pagine di combattive riviste come la «Rothbard-Rockwell-Report», non costituì affatto una deviazione dalla dottrina libertaria fondata sull’inviolabilità dei diritti naturali, sulla difesa ad oltranza della proprietà privata e del libero mercato e sulla radicale condanna dello Stato, così come esposta in For a New Liberty e The Ethics of Liberty. È pertanto da ritenersi scorretta l’affermazione polemica dei left-libertarians, secondo cui negli ultimi anni della sua vita Rothbard avrebbe abbandonato il libertarismo convertendosi al paleoconservatorismo. La stessa periodizzazione della vita intellettuale di Rothbard in quattro fasi successive (il Rothbard dell’Old Right, il Rothbard della New Left, il Rothbard libertarian, il Rothbard paleo) rischia di essere del tutto sviante, perché questi diversi momenti non significarono mai cambiamento di idee e di principi, ma solo di strategia, di interessi, di approfondimento organico del proprio pensiero. Indipendentemente dalle alleanze tattiche o dagli interessi culturali, Rothbard dal primo all’ultimo giorno della sua vita rimase sempre lo stesso libertario radicalmente antistatalista, nel senso più puro del termine: in economia, un anarchico di Scuola Austriaca favorevole alla proprietà privata e al libero mercato; in politica, un decentralista radicale; in filosofia, un tomista giusnaturalista; nella cultura, un uomo della Old Republic e del Vecchio Mondo10. Rothbard, conferma Joseph Stromberg, ha sempre difeso la “Vecchia Cultura” ed i veri film, quelli che contenevano un messaggio, avevano una trama ed erano realizzati con maestria, tanto da non rappresentare esclusivamente il mezzo scelto dal regista per esprimere il proprio nichilismo e la propria angoscia MURRAY N. ROTHBARD, “Kulturkampf!”, in «RothbardRockwell-Report», October 1992, ora in ROCKWELL (edited by), The Irrepressible Rothbard, cit., p. 289. 10 Cfr. LLEWELLYN H. ROCKWELL, Introduction to ROCKWELL (edited by), The Irrepressible Rothbard, cit., p. XV. 9 22 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 esistenziale. Avrebbe forse dovuto adottare un “stile di vita alternativo” ed adoperarsi per fare del libertarismo un rifugio per tutte le lamentazioni multiculturali?11. Sicuramente no, spiega Joseph Salerno, dato che per Rothbard la libertà non era un’arida astrazione, né un valore esistenziale da “vivere” ingerendo droghe, indulgendo in promiscuità sessuale e rompendo i legami con la famiglia, la chiesa e la comunità. Egli amava la libertà in quanto causa necessaria (ma non sufficiente) della cultura e della società americana che egli celebrò e fece propria. Rothbard fu pertanto un ammiratore della cultura americana così come esisteva, integra e non adulterata, dagli anni Trenta agli anni Cinquanta, perché la vedeva come lo specifico prodotto storico del sistema politico-economico fondamentalmente libertario dell’America, il cui declino iniziò con l’avvento del New Deal negli anni Trenta. La progressiva trasformazione di questo sistema ad opera della moderna ideologia liberal nel mostruoso welfarewarfare americano, sviluppatosi in maniera sempre più rapace e distruttiva a partire dagli anni Sessanta, non aveva solo prodotto instabilità e declino all’economia americana, ma anche una degenerazione precedentemente inimmaginabile in tutte le istituzioni della società e della cultura americana. Rothbard combatté con tutte le sue forze, fino al giorno della sua morte, le aggressioni del potere statale alla libertà, proprio perché attribuiva un alto valore ai prodotti culturali, oltre a quelli economici, della libertà – i film di John Wayne, la musica jazz dell’età d’oro, la New York della sua giovinezza, e gli intatti, uniti, e religiosi nuclei familiari che formavano l’America. Egli non poteva accettare di rimanere inattivo mentre la sua amata cultura veniva lentamente, deliberatamente, e felicemente avvelenata dagli intellettuali traditori che occupavano JOSEPH E. SALERNO (senza titolo), in LLEWELLYN H. ROCKWELL (edited by), Murray N. Rothbard. In Memoriam, Ludwig von Mises Institute, Auburn (Alabama) 1995, p. 79-81. 11 JR 23 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 Hollywood, riempivano le pagine del «New York Times», e affollavano le stanze delle università12. La polemica di Rothbard colpiva quindi non solo la cultura dominante dei progressisti liberal, ma anche un certo atteggiamento diffuso nel partito e nei movimenti libertari americani, dove trionfava l’esaltazione degli stili di vita alternativi, l’ateismo militante e l’antitradizionalismo dei leftlibertarians. Egli coniò la spregiativa definizione di modal libertarian per descrivere questa tipica figura di militante libertario americano, eterno adolescente che si ribella a tutti coloro che stanno intorno a lui: prima ai suoi genitori, poi alla sua famiglia, poi ai vicini e infine all’intera società. Il modal libertarian contesta tutte le autorità sociali e culturali, particolarmente quelle entro le quali è cresciuto, come le istituzioni borghesi e le chiese; non legge quasi nulla, a parte i pochi libri “approvati” dal circolo libertario cui appartiene (riguardanti in genere argomenti come l’uso delle droghe o dei materiali pornografici); e occupa quasi tutto il suo tempo a discutere con i suoi compagni, mediante interminabili sillogismi, su quale sia la posizione libertaria più “pura”13. La critica ai modal e left-libertarians non riguardava solo questioni culturali, ma finiva per toccare aspetti politici sostanziali in tutti i casi in cui, essendo al momento ineliminabile la presenza dello Stato e della proprietà pubblica, la dottrina libertaria non ha una soluzione univoca, ma può prestarsi a diverse interpretazioni. Posto infatti che per ogni libertario il modello puro anarco-capitalista rappresenta l’obiettivo ideale da perseguire, rimane il problema di individuare il second best nei casi in cui la privatizzazione integrale della società non sia prevedibile in tempi ragionevoli. Come vanno gestite, ad esempio, le strade, le scuole, le poste o gli ospedali pubblici? I left-libertarian ritengono che, ovunque JOSEPH STROMBERG, Rothbard contro Rothbard: un falso dilemma, in «Ideazione», 2003, n. 1, p. 212-217. 13 Cfr. MURRAY N. ROTHBARD, “Tolerance, or Manners?”, in «Rothbard-Rockwell-Report», September 1991, ora in ROCKWELL (edited by), The Irrepressible Rothbard, cit., p. 260s. 12 24 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 sia coinvolto lo Stato, occorra applicare una regola di “parità di trattamento” per tutti. Il problema di questa posizione è quello di tradursi di fatto in una opzione egualitarista e “comunista”, dato che nelle odierne società ad economia mista non esiste settore in cui il governo non sia presente, direttamente o indirettamente. Per Rothbard, invece, occorre respingere una volta per tutte la visione left-libertarian secondo cui tutte le aree gestite dal governo debbano essere considerate come una discarica, dove tutti hanno diritto di eguale accesso. In attesa della privatizzazione finale, bisogna invece far sì che le operazioni del governo siano gestite nella maniera più simile a quella di un’impresa, o di una comunità locale14. Prendiamo ad esempio in considerazione le strade pubbliche: tutti i libertari ne auspicano la privatizzazione, ma fino a quando restano pubbliche, per i left-libertarians nessuno può scacciare i disturbatori, né vietare manifestazioni rumorose e fastidiose. Rothbard fa notare che non esiste alcun principio nella dottrina libertaria dal quale si può dedurre una regola del genere. Piuttosto, dovendo trovare una soluzione che si avvicini maggiormente a quelli che sarebbero stati gli esiti del mercato, occorre chiedersi: come si comporterebbero gli abitanti della strada, in una società libertaria? Ben difficilmente lascerebbero scorrazzare indisturbati i disturbatori, come testimonia l’esperienza dei centri commerciali, dei condomini e delle aree private in genere. La soluzione paleolibertaria è dunque quella di decentrare nella maniera più localizzata possibile la decisione riguardante l’uso delle risorse pubbliche. Si ritiene infatti che vi siano delle persone che, a diverso titolo (in quanto tax-payers, residenti ecc.), possano vantare dei diritti “quasi-proprietari” sulle risorse pubbliche più rilevanti di quelli che potrebbero Cfr. MURRAY N. ROTHBARD, Right-Wing Populism, in «Rothbard-Rockwell-Report», January 1992, ora in ROCKWELL (edited by), The Irrepressible Rothbard, cit., p. 41. 14 25 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 vantare altre categorie di persone (tax consumers, ultimi arrivati, passanti occasionali, ecc.)15. Lo stesso ragionamento può essere applicato a quella istituzione statale che Rothbard ha definito “mostruosa” in più di un’occasione, la scuola pubblica: un gigantesco moloch ultrasindacalizzato e nelle mani dei progressisti, che lo utilizzano per indottrinare le nuove generazioni al culto dello Stato, all’ideologia politically correct e all’anticristianesimo militante. Con il pretesto della “separazione tra Stato e Chiesa”, i progressisti si sono infatti proposti l’obiettivo di rimuovere tutti i valori e i simboli del Cristianesimo dalle scuole e dalle aree pubbliche, come le piazze e le strade. Il crocifisso, l’insegnamento del creazionismo o le preghiere in aula rappresenterebbero secondo questo punto di vista, molto diffuso anche in Europa, delle gravi lesioni alla “laicità dello Stato”, o comunque alla neutralità verso ogni credo religioso. È spiacevole, secondo Rothbard, che molti leftlibertarians sostengano questa posizione, pur non trovando alcun fondamento nella dottrina libertaria. Se le preghiere, il crocifisso o l’insegnamento biblico non possono essere obbligatori, non per questo devono essere vietati! La soluzione paleolibertaria è ancora una volta quella di “simulare” i risultati del mercato, attraverso la massima decentralizzazione delle decisioni. In tutti questi casi, quindi, dovrebbero essere solo le singole classi (insegnanti, allievi e genitori) a decidere di volta in volta, non il governo federale, il Congresso o la Corte Suprema. Al contrario, secondo l’interpretazione del principio di separazione tra Stato e Chiesa data dai laicisti, se lo Stato nazionalizzasse tutte le scuole, la religione cristiana potrebbe essere bandita dal paese anche nel caso in cui la stragrande maggioranza dei genitori desiderasse un’educazione religiosa per i propri figli! Però allo stesso tempo nelle scuole statali sarebbe perfettamente legittimo (come di fatto avviene) diffondere la propaganda New Age, il paganesimo ecologista, il Cfr. MURRAY N. ROTHBARD, “Big-Government Libertarians”, in «Rothbard-Rockwell-Report», November 1994, ora in ROCKWELL (edited by), The Irrepressible Rothbard, cit., p. 102. 15 26 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 marxismo, il femminismo, il terzomondismo e qualche altra ideologia politically correct, perché formalmente non classificabili sotto la voce “religione” (pur avendone invece tutte le caratteristiche, come le analisi di Rothbard non hanno mai mancato di evidenziare). In questo modo, osserva Rothbard, i sostenitori dei valori cristiani tradizionali saranno sempre costretti a lottare con una mano legata dietro la schiena16. Per estirpare questa «aggressiva istituzione degenerata, oppressiva, socialistica e multiculturale»17, Rothbard e Rockwell ritengono che il sistema dei buoni-scuola proposto da alcuni economisti favorevoli al libero mercato come Milton Friedman rappresenti una soluzione peggiore del male. Con l’introduzione dei voucher si rischierebbe infatti di estendere il finanziamento statale, e quindi anche il controllo sui programmi didattici, a tutte le scuole autenticamente private e libere rimaste18. Se non è politicamente possibile privatizzare l’intero sistema scolastico, è molto meglio affidare la gestione delle scuole alle comunità locali, e valorizzare il più possibile il sistema dell’homeschooling, che Rothbard giudica come il più promettente, ispirato e libertario movimento dell’America attuale19. 3. La guerra culturale Alla convention repubblicana del 1992 Patrick Buchanan pronunciò un discorso che fece scalpore, con il quale denunciò l’esistenza di una guerra culturale e religiosa per la conquista dell’anima degli americani. Per il candidato cattolicoCfr. MURRAY N. ROTHBARD, Hunting the Christian Right, in «Rothbard-Rockwell-Report», August 1994, ora in ROCKWELL (edited by), The Irrepressible Rothbard, cit., p. 272. 17 Ibidem, p. 277. 18 Cfr. MURRAY N. ROTHBARD, Education: Rethinking Choice, in «Rothbard-Rockwell-Report», May 1991, ora in ROCKWELL (edited by), The Irrepressible Rothbard, cit., p. 72-74. 19 Cfr. MURRAY N. ROTHBARD, Hunting the Christian Right, in «Rothbard-Rockwell-Report», August 1994, ora in ROCKWELL (edited by), The Irrepressible Rothbard, cit., p. 277. 16 27 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 conservatore del GOP, due americhe si fronteggiavano senza esclusione di colpi: quella legata alla vecchia cultura tradizionale giudaico-cristiana e quella proveniente dall’esperienza della contestazione degli anni Sessanta. Rothbard fu colpito molto favorevolmente dal coraggio dimostrato da Buchanan: «Sì, sì, ipocriti liberal, questa è una guerra culturale! Ed era anche ora! Il vostro atteggiamento è tipico dei nostri intellettuali e media liberal: dopo aver realizzato praticamente indisturbati, da vent’anni a questa parte (come minimo!), la conquista culturale dell’America; e dopo aver completato con successo la lunga marcia gramsciana attraverso le istituzioni, i liberal volevano sedersi e trattarci come province conquistate. Ma improvvisamente tra di noi alcuni provinciali assediati riprendono le armi, incitati dal discorso di Pat Buchanan alla convenzione nazionale repubblicana! … Questi ipocriti di liberal ci rispondono: “Come potete voi conservatori, che siete contro l’intervento statale, trattare la cultura come una questione politica? Semplice. Il motivo è che voi liberal avete usato massicciamente il potere dello Stato per distruggere la nostra cultura. Noi dobbiamo intervenire nello Stato affinché tutto questo finisca»20. Per Rothbard è giunta dunque l’ora di reagire, per salvare la libertà americana inestricabilmente legata alla cultura che l’ha generata. A questo riguardo ricordò che la Rivoluzione Culturale legata alla contestazione era riuscita ad imporsi, rovesciando le vecchie norme sociali giudicate “repressive”, grazie ad una strategia in due fasi. In un primo momento è stato distrutto l’amore e l’ammirazione per la vecchia cultura, predicando il relativismo culturale e l’irrazionalità dell’etica: tutte le culture sono uguali, non si può considerare la propria cultura superiore alle altre e così via. Questa è la fase uno. Dopo aver insistito su questi concetti e convinto tutti, si passa alla fase due: ci sono, dopotutto, dei principi morali superiori ad altri, ma il male sta proprio nella tradizione culturale occidentale, che MURRAY N. ROTHBARD, Kulturkampf!, in «RothbardRockwell-Report», October 1992, ora in ROCKWELL (edited by), The Irrepressible Rothbard, cit., p. 290. 20 28 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 è razzista, sessista, eterosessista e tutto il resto, fino alla nausea. Si compie così una trasvalutazione di valori nella quale la prima fase rappresenta il necessario processo d’addolcimento della seconda fase, che è attualmente in atto21. Rothbard procede quindi ad indicare gli innumerevoli esempi di cultura progressista imposta mediante la coercizione pubblica, che a suo avviso contraddicono palesemente il mito propagandistico della Sinistra che difende le libertà civili degli individui dall’autoritarismo della Destra. Innanzitutto i progressisti hanno usato il potere statale per creare una serie di falsi “diritti” a favore di ogni gruppo designato come vittima, allo scopo di sfruttare e ottenere vantaggi indebiti nei confronti del resto della popolazione. Sono sorti pertanto i “diritti” dei neri, dei gay, delle donne, delle lesbiche, degli handicappati, degli ispanici, degli anziani, dei bambini e ogni giorno ne nascono di nuovi. In tutti questi casi la nuova classe dei funzionari, dei tecnocrati e dei terapisti “ufficiali” garantisce a sé e a questi gruppi accreditati come “vittime” un potere sempre crescente di dominare, sfruttare e derubare il gruppo sempre più assottigliato dei bianchi, cristiani, di mezza età e di lingua inglese, particolarmente i genitori eterosessuali. L’aspetto più criticabile di questa nuova religione liberal della “vittimologia”, alla quale chi non rende omaggio è virtualmente tagliato fuori dalla vita pubblica, è quello di attribuire colpe di ogni tipo (per i secoli di schiavitù, per l’oppressione e lo stupro delle donne, per l’Olocausto, per l’esistenza degli handicappati, per aver ucciso e mangiato animali, per essere grassi, per non riciclare i rifiuti, per aver “profanato la Terra”) non confinate agli specifici individui che hanno commesso determinati fatti (anche perché, osserva ironicamente Rothbard, è difficile trovare ancora in vita qualche schiavista centocinquantenario del Vecchio Sud!) ma collettive, senza limiti geografici o temporali. Tutti i membri dei gruppi che non sono stati accreditati nel ruolo ufficiale di vittime sono considerati automaticamente criminali: come tali MURRAY N. ROTHBARD, PC Cinema: Psychobabble Gets Nasty!, in «Rothbard-Rockwell-Report», September 1991, ora in ROCKWELL (edited by), The Irrepressible Rothbard, cit., p. 419. 21 29 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 devono sentirsi in colpa e riparare le proprie “vittime” con denaro e concessioni di privilegi22. Un altro clamoroso esempio indicato da Rothbard della penetrante offensiva statalista della Sinistra nella cultura è rappresentato dal corpo «gonfiato e mostruoso» dei funzionari e degli insegnanti che spadroneggia nella scuola pubblica, inculcando nei giovani indifesi le “virtù” dello statalismo e dell’obbedienza alla élite burocratica, e infettandoli con la cultura del nichilismo, dell’anticristianesimo e dell’edonismo, anche mediante la distribuzione gratuita dei preservativi contro la volontà dei genitori. Il tutto completato con continue lezioni sul pensiero-d’odio (hate-thought), sessioni di terapia e lavaggio del cervello minacciate ai bambini e agli insegnanti sospettati di violare le norme del politically correct. «Cultura separata dal governo? – commenta Rothbard – Ma non fatemi ridere!»23. L’attacco statalista della sinistra ai valori famigliari non finisce qui. Secondo le teorie sui “diritti dei bambini” propagandate particolarmente da Hillary Clinton (uno dei personaggi politici più detestati dall’ultimo Rothbard) i piccoli vanno considerati già perfettamente competenti e liberi di condurre le proprie vite in questioni importanti come la maternità, l’aborto, la scuola, la chirurgia cosmetica, il trattamento delle malattie veneree, il lavoro – fuori dal controllo o dal consenso dei genitori. Nella disputa sui valori famigliari vi sono perciò due sole alternative: o i bambini vengono educati dai genitori, o dallo Stato mediante la nuova classe di avvocati, terapisti “autorizzati”, assistenti sociali, pedagogisti di Stato (naturalmente in nome dei “diritti dei bambini” e del loro “sviluppo”). È chiaro infatti che se un dodicenne può citare in giudizio i suoi genitori quando non si Cfr. MURRAY N. ROTHBARD, Guilt Sanctified, in «RothbardRockwell-Report», July 1991, ora in ROCKWELL (edited by), The Irrepressible Rothbard, cit., p. 259. 23 MURRAY N. ROTHBARD, Kulturkampf!, in «RothbardRockwell-Report», October 1992, ora in ROCKWELL (edited by), The Irrepressible Rothbard, cit., p. 290. 22 30 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 trovi d’accordo con l’educazione impartita, di fatto il ruolo di educatore verrà assunto dagli “specialisti” appartenenti alla nuova classe. Le posizioni sono dunque chiare: da una parte vi sono i conservatori e i paleolibertari, che vogliono preservare o restaurare la tradizionale famiglia con due genitori, così come è fiorita in Occidente; dall’altra vi sono i progressisti e la vasta schiera di insegnanti, funzionari e membri dell’élite mediatica e intellettuale, che perseguono l’antico sogno socialistico e utopistico della distruzione della famiglia e della vita famigliare privata, a vantaggio di un universale Stato-famiglia. Che fare allora? «Poiché sono profondamente convinto che la cultura left-liberal oggi dominante sia profondamente contraria alla natura umana – spiega Rothbard – ritengo che rimuovendo il veleno, cioè espellendo lo Stato dalle questioni culturali in cui oggi è impegnato, il risultato sarebbe un veloce ritorno alla Legge Naturale e alla Vecchia Cultura di un tempo»24. Questo convincimento di Rothbard e dei paleolibertari si fonda sull’idea che una società libertaria fondata sul puro laissez-faire capitalistico svilupperà con probabilità dei costumi sociali ispirati a regole di tipo tradizionale, sul genere di quelle che tramandate dall’eredità giudaico-cristiana, e non invece stili di vita permissivi, edonistici e libertini, da controcultura anni Sessanta o Settanta. Di per sé, infatti, il capitalismo non è un sistema gaudente o materialistico, ma è anzi un sistema che impone a tutti elevati livelli morali di etica del lavoro, impegno, affidabilità, responsabilità personale, risparmio, previdenza, prudenza. Chi non si attiene a questi standard viene colpito da dure sanzioni di mercato (se non produci non guadagni) e sociali (legittime discriminazioni). È solo con l’avvento dello Stato sociale e della redistribuzione statale, che spezza il legame tra comportamento responsabile e disponibilità di risorse, che a partire dagli anni Sessanta del XX secolo in Occidente si sono diffusi a livello di massa stili di vita decadenti ed edonistici. Per dare un’idea dell’arretramento della cultura conservatrice in concomitanza con l’avanzata dello statalismo è possibile prendere in considerazione le società più “liberiste” 24 Ibidem, p. 293. 31 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 dell’Ottocento, come gli Stati Uniti e l’Inghilterra vittoriana. Qui lo Stato era quasi invisibile, ma nella società civile trionfavano indiscussi i valori borghesi legati alla famiglia, all’etica del lavoro, all’indipendenza personale e all’idea di rispettabilità, anche tra le classi lavoratrici. Non è quindi un paradosso che i paesi politicamente ed economicamente più individualisti del mondo fossero anche quello dove la mentalità filantropica era più diffusa. Prima dell’avvento dell’assistenzialismo di Stato almeno l’ottanta percento delle famiglie di ceto medio-alto contribuivano alle società caritatevoli, e molti dei suoi membri dedicavano quotidianamente parte del loro tempo e delle loro energie in attività assistenziali, oppure in una delle tantissime associazioni volontarie finalizzate a risolvere i problemi più disparati. Grazie all’energica azione degli individui e delle associazioni private, gli indicatori relativi alla povertà, alla violenza, all’alcolismo, alle nascite illegittime, e alla stabilità famigliare avevano mostrato forti miglioramenti. In Inghilterra, ad esempio, i crimini violenti dal 1857 al 1901 avevano conosciuto uno spettacolare calo del 50 percento: in termini assoluti, mentre la popolazione aumentava da 19 milioni a 33 milioni, i crimini gravi calarono da 92.000 a 81.00025. Durante il Novecento questo processo si è invertito, dando ragione a coloro, come Hans-Hermann Hoppe, secondo cui i segni della decivilizzazione sono il risultato inevitabile del Welfare State e delle sue principali istituzioni, perché il gigantesco apparato di sicurezza sociale messo in piedi in Occidente ha finito inevitabilmente per colpire l’istituzione famigliare e l’idea della responsabilità personale, sussidiando tutto ciò che è negativo (e perciò moltiplicandolo) a spese di ciò che è positivo (e perciò disincentivandolo): «sollevando gli individui dall’obbligo di provvedere al proprio reddito, benessere, salute, vecchiaia, ed educazione dei figli – spiega Hoppe – si è ridotto l’arco dell’orizzonte temporale degli individui, e il valore del matrimonio, della famiglia, dei figli, e Cfr. GERTRUDE HIMMELFARB, The Demoralization of Society. From Victorian Virtues to Modern Values, Vintage, New York (N. Y.) 1994, p. 224-225. 25 32 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 dell’autorità sociale si è abbassato. Irresponsabilità, vivere alla giornata, negligenza, insanità fisica, e distruttivismo (i mali) vengono promossi, mentre la responsabilità, la previdenza, la diligenza, il mantenersi in salute e il conservatorismo (i beni) vengono puniti»26. In particolare i sistemi pensionistici pubblici obbligatori, secondo l’economista Premio Nobel Gary Becker, incoraggiano la riduzione dei tassi di natalità, poiché i genitori diventano meno dipendenti dai propri figli per il sostegno negli anni della vecchiaia: e infatti le nascite sono crollate della metà da quando sono stati istituiti i moderni sistemi di sicurezza sociale. Mentre infatti un tempo tutte le risorse risparmiate rimanevano entro il gruppo famigliare, con i sistemi a ripartizione coloro che non fanno figli possono risparmiare consistenti spese per il loro allevamento, per poi incassare in vecchiaia i contributi versati dai (sempre più pochi) figli delle altre coppie, o dagli immigrati27. L’interventismo governativo e l’economia mista, secondo i paleolibertari, hanno anche cambiato in negativo il modo in cui noi pensiamo al tempo. Tutti noi vorremmo che i nostri desideri fossero soddisfatti presto anziché tardi, ma guadagnare denaro richiede tempo, e per questo l’etica del lavoro ottocentesca insegnava che gli uomini di successo erano soprattutto quelli capaci di rinviare la gratificazione immediata in cambio di una ricompensa futura. Come ci si poteva aspettare, l’Inghilterra e l’America del XIX secolo erano società disciplinate da persone che sapevano attendere e risparmiare, perché la cultura e i valori forgiati dalla borghesia di una volta all’interno del proprio ordine sociale erano particolarmente favorevoli a lunghi orizzonti temporali: come notò Joseph Schumpeter, «l’ordine capitalista si affida agli interessi di lungo periodo dello strato alto della borghesia». HANS-HERMANN HOPPE, Democrazia: il dio che ha fallito, prefazione di Raimondo Cubeddu, Liberilibri, Macerata 2008, p. 276. 27 Cfr. GARY BECKER, Gli effetti perversi dei sistemi a ripartizione, in «Biblioteca della Libertà», n. 128, gennaio-marzo 1995, p. 11. 26 33 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 L’interventismo però ha accorciato gli orizzonti temporali della società, in primo luogo mediante l’inflazione monetaria e il credito facile, adeguando i costumi, i valori, e le opinioni alla mutata crescita dell’offerta di denaro. Nel XIX secolo, ad esempio, i debiti personali e gli acquisti a rate erano estremamente rari. In secondo luogo lo Stato assistenziale, sussidiando l’immediata soddisfazione e scoraggiando gli investimenti, abbassa ulteriormente il tasso di preferenza temporale della società. I sussidi per i disoccupati scoraggiano il risparmio per eventuali perdite del posto di lavoro, riducono la paura della disoccupazione e con questa l’incentivo a lavorare duro, e mantengono nell’indolenza per lunghi periodi, facendo aumentare il tasso di disoccupazione. Il sistema pensionistico pubblico scoraggia le persone a risparmiare per la vecchiaia. Le imposte di successione scoraggiano il risparmio a favore delle future generazioni. Le tasse sul reddito e sui patrimoni penalizzano l’accumulazione di ricchezze. Le tasse sulle imprese riducono il loro capitale e perciò anche la loro capacità di sostenere progetti di lungo periodo. Il vecchio ordine del libero mercato, dunque, non era licenzioso e libertino. Non produceva permissivismo, ma un rigido ambiente di lavoro e risparmio, come testimonia la disciplina nelle città industriali durante l’era del laissez-faire28. Naturalmente per i paleolibertari tutti hanno il diritto di intossicarsi, di praticare stili di vita alternativi o New Age, di ribellarsi alla tradizione e alle regole religiose, di rifiutare le regole della buona educazione e del decente comportamento, di contestare i genitori e gli insegnanti, e così via. Ma quanti lo farebbero in una società libertaria interamente fondata sul mercato? Forse pochi, e probabilmente meno di quanti lo facciano oggi. La vita del figlio dei fiori o del contestatore eterno adolescente non è una vita molto produttiva, e non ci sarebbe nessun ente pubblico a sussidiarla, a differenza di quanto Cfr. LLEWELLYN H. ROCKWELL, To Repair the Culture, Free the Market, in «The Freeman», March 1994, p. 114 (trad. it. Rigenerare i valori culturali, liberare il mercato, in «Élite», 2003, n. 3). 28 34 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 avviene oggi con gli oziosi frequentatori dei centri sociali, che non a caso lottano per il “salario sociale garantito” e per il “diritto di non lavorare” – ovviamente a spese altrui. Non ci sarebbe alcuno Stato Sociale a mantenere, sfamare, curare tutti coloro che vivono in maniera degradata a causa dei loro comportamenti irresponsabili (drogati, alcolizzati, sperperatori, vagabondi, oziosi). Ci sarebbe solo la carità privata, ma sappiamo che questa è sempre attentissima a distinguere i poveri meritevoli dai poveri immeritevoli, come testimonia la storia delle confraternite caritatevoli e delle società di mutuo soccorso ottocentesche. Alla luce di questa realtà storica i paleolibertari giudicano completamente errata la posizione dei communitarians, che sostengono a spada tratta le istituzioni del moderno Stato Sociale accusando il libero mercato di provocare la distruzione dei legami comunitari e dei valori tradizionali29: «mantenere le istituzioni centrali dell’attuale Stato assistenziale e pretendere il ritorno alle famiglie, norme, condotte, e culture tradizionali sono obiettivi incompatibili – spiega Hoppe –. Tu puoi avere l’uno (il socialismo del welfare) o l’altro (i valori tradizionali), ma non puoi avere entrambi, perché i pilastri del corrente Stato Sociale sono essi stessi la causa delle anomalie sociali e culturali»30. Non è un caso che in Occidente la contestazione dei valori conservatori sia iniziata, a partire dalla Rivoluzione Culturale degli anni Sessanta, proprio mentre si iniziavano a porre le basi di un vasto sistema di welfare pubblico. Quest’ultimo fornisce le basi materiali indispensabili per vivere una vita “libera” (dalla “repressione” capitalistica, famigliare, scolastica, sociale, religiosa), senza doverne pagare i prezzi. Lo statalismo ha prodotto quindi in tutto l’Occidente la proliferazione di un tipo umano, che Hoppe ha definito come «il prodotto mentale ed emozionale del Welfare State: la nuova classe degli adolescenti a vita». Ma alla lunga statalismo socialista da un lato e Rivoluzione Culturale dall’altro rischiano Per un confutazione di questa tesi si veda CARLO LOTTIERI, Denaro e Comunità, Guida, Napoli 2001. 30 HOPPE, Democrazia: il dio che ha fallito, cit., p. 275. 29 35 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 seriamente di determinare il declino e l’estinzione demografica delle società di origine europea, stando agli allarmanti dati contenuti nel recente best-seller di Patrick Buchanan, The Death of the West31. Se è corretta la tesi di Rothbard secondo cui le norme della tradizione giudaico-cristiana sono quelle più compatibili con il diritto naturale, si spiega perché la civiltà occidentale, potente ed espansiva finché si è attenuta a quegli standard, sia rapidamente decaduta una volta abbracciato lo statalismo e il relativismo. Forse questa è una ragione in più per seguire il programma indicato da Rothbard negli ultimi anni della sua vita: abrogare anche culturalmente il Novecento32. 4. Elogio del cattolicesimo Tra le ragioni della sensibilità paleolibertaria di Rothbard e Rockwell vi fu anche la sentita esigenza di recuperare gli aspetti della tradizione cristiana che permeavano la Vecchia Cultura. In pratica questo significava contrastare l’anticristianesimo laicista delle élites politiche e intellettuali, la scristianizzazione degli spazi “pubblici”, la secolarizzazione dilagante nella società, il neopaganesimo di ritorno sotto vesti ambientaliste e un certo ateismo e anticlericalismo militante diffuso negli ambienti libertari. Rockwell trovò conferma, in un sondaggio che mostrava che il 74% dei libertari negava l’esistenza di Dio, della comune percezione che i libertari fossero quasi tutti atei. Nel suo Manifesto del Paleolibertarismo rilevò con disappunto il fatto che la maggior parte di costoro fossero non solo sono irreligiosi, ma antireligiosi militanti. La sua opinione era diversa: «io naturalmente non sostengo che la fede religiosa sia indispensabile per il libertarismo – scrive Cfr. PATRICK J. BUCHANAN, The Death of the West, St. Martin Press, New York (N. Y.) 2002. Sui pregi (la diagnosi) e i difetti (la prognosi) del libro di Buchanan, si veda la recensione di HANSHERMANN HOPPE, Ridare vita all’occidente, in «Enclave. Rivista Libertaria», 2002, n. 15. 32 Cfr. MURRAY N. ROTHBARD, A Strategy for the Right, in «Rothbard-Rockwell-Report», January 1992, ora in ROCKWELL (edited by), The Irrepressible Rothbard, cit., p. 19. 31 36 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 Rockwell –. Alcune delle nostre più grandi personalità sono non credenti. I paleolibertari preferiscono però le visione di due altri non credenti: Rothbard, secondo cui “tutto quello che c’è di buono nella civiltà occidentale, dalla libertà individuale alle arti, è dovuto al Cristianesimo”, e von Hayek, il quale aggiunse che dalla religione provengono “gli insegnamenti morali e le tradizioni che ci hanno dato non solo la nostra civiltà, ma anche le nostre stesse vite”»33. La famiglia, il libero mercato, la dignità dell’individuo, i diritti di proprietà privata e lo stesso concetto di libertà, continua Rockwell, sono tutti prodotti della nostra cultura religiosa. Il Cristianesimo diede infatti origine all’individualismo enfatizzando l’importanza di ogni singola anima, perché la Chiesa insegna che Dio avrebbe mandato Suo Figlio a morire sulla croce anche se un solo essere umano avesse avuto bisogno della sua intercessione. Con la sua enfasi sulla ragione, la legge morale oggettiva, e la proprietà privata, il Cristianesimo rese possibile lo sviluppo del capitalismo. Esso affermò che tutti gli uomini sono egualmente figli di Dio (benché non uguali in ogni altro senso), e che perciò dovrebbero essere uguali davanti alla legge. Fu la Chiesa transnazionale che combatté il nazionalismo, il militarismo, la tassazione elevata e l’oppressione politica. Furono i suoi teologi a proclamare la legittimità del tirannicidio. Rockwell attaccò poi la deriva paganeggiante dell’ecologismo moderno: «il paleolibertarismo è per l’Uomo senza remore. Sostiene – e come potrebbe essere diversamente?! – che solo l’uomo ha diritti, e che le politiche pubbliche basate su mitici diritti degli animali o delle piante producono necessariamente risultati perversi. Gli ambientalisti, d’altra parte, sostengono che gli uccelli, le piante, e perfino le acque abbiano il diritto di essere protette dalla produzione d’energia e da altre attività umane. Dalla chiocciola al pidocchio alla natura selvaggia nel suo insieme, tutto merita di essere protetto dalla produzione di beni e servizi per l’umanità. Gli ambientalisti sostengono che la natura si trovava in perfetto 33 ROCKWELL, Il manifesto del paleolibertarismo, cit., p. 4. 37 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 equilibrio prima dell’era moderna, e che occorre porre rimedio al deleterio sviluppo economico umano ritornando ad un livello di vita più primitivo. […] La decristianizzazione della politica ha quindi prodotto un movimento ambientalista che non è solo anticapitalista, ma anche neo-pagano. Per il paganesimo l’uomo è solo una parte della natura – non più importante delle balene o dei lupi (e, in pratica, molto meno importante). Il Cristianesimo e il Giudaismo, invece, insegnano che Dio ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza e gli ha dato il dominio su tutta la Terra, che è stata creata per l’uso dell’uomo e non come un’entità con un autonomo valore morale. L’ordine naturale esiste per l’uomo e non viceversa; nessuna diversa concezione è compatibile con un libero mercato fondato sulla proprietà privata, e perciò con il libertarismo»34. Lo stesso Rothbard, benché agnostico, negli ultimi anni della sua esistenza sembrò essersi convinto che l’ateismo militante rappresentasse un elemento estraneo alla dottrina libertaria, che rischiava di intaccare la solidità dei suoi principi. Pur senza convertirsi, Rothbard dichiarò verso la fine della sua vita di essere diventato un ardente sostenitore del Cristianesimo, aderendo di fatto ad una visione culturale in senso lato cattolica, come appare particolarmente evidente nella sua monumentale storia del pensiero economico. In quest’opera Rothbard dimostra di aver maturato una visione storica della Cristianità medievale ben diversa da quella laico-illuminista, che descrive il Medioevo come un’epoca di barbarie, superstizione, oscurantismo e oppressione. Per Rothbard invece il Medioevo cattolico fu un periodo ricco e creativo della storia europea, soprattutto grazie al fatto che quell’ingombrante istituzione che è lo Stato moderno non aveva ancora avuto modo di crescere e svilupparsi35. Ibidem, p. 7. Per un approfondimento degli aspetti libertari del Medioevo mi permetto di rinviare a GUGLIELMO PIOMBINI, Prima dello Stato. Il Medioevo delle libertà, Facco Editore, Treviglio (Bergamo) 2004. Il libro contiene anche una serie di interventi pro e contro di Pietro Adamo, Raimondo Cubeddu, Carlo Lottieri, Marco Respinti. 34 35 38 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 Come ricorda Joseph Salerno, lo studio della storia aveva progressivamente convinto Rothbard che la religione aveva giocato un ruolo enorme sia nella politica americana sia nel pensiero economico. In particolare Rothbard, pur essendo di origini ebree, riconobbe il ruolo positivo a sostegno della libertà svolto in America dal Cristianesimo liturgico. Questo tipo di Cristianesimo, impersonato dalla Chiesa Cattolica Romana – che a suo avviso costituiva l’originale e permanente Chiesa Cristiana – enfatizza la salvezza personale per mezzo della partecipazione alle liturgie ecclesiastiche, negando che il Regno di Dio possa essere stabilito sulla Terra con i soli sforzi dell’uomo. A differenza delle sette pietistiche del protestantesimo americano, che tendono a essere millenariste, il cattolicesimo nega che la seconda venuta del Messia dipenda dall’avvenuta fondazione di un Regno di Dio sulla Terra, e perciò non impone ai suoi membri di purificare e salvare l’intera umanità attraverso “l’azione sociale” (leggi: costrizione statale)36. Le vaste ricerche storiche di Rothbard lo avevano portato a concludere che tutte le società sono inevitabilmente religiose e che l’irreligiosità su scala sociale è impossibile e indesiderabile, perché una religione formale, specificamente quella cristiana, è necessaria come naturale custode delle regole morali tradizionali: norme che sono necessarie per rinforzare e completare un codice legale liberale o libertario, al fine di permettere ad una reale società di mercato di sopravvivere e prosperare. Perfino la Germania nazista e l’URSS comunista, regimi il cui deliberato scopo era di abolire la religione, riuscirono a sostituire il Cristianesimo solo con altre forme di religione: rispettivamente, il paganesimo e il millenarismo marxista. «A rischio di alienarmi i miei amici libertari atei – affermò al riguardo Rothbard – mi sono progressivamente convinto che i conservatori hanno ragione su un punto: che in ogni società vi è sempre una qualche sorta di religione dominante. E se ad esempio il Cristianesimo viene denigrato e Cfr. SALERNO (senza titolo), in ROCKWELL (edited by), Murray N. Rothbard. In Memoriam, cit., p. 79. 36 39 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 rigettato, qualche altra orrenda forma di religione prenderà subito il suo posto: sia essa il comunismo, l’occultismo New Age, il femminismo o il puritanesimo di sinistra. Non c’è modo di aggirare questa verità fondamentale della natura umana»37. I left-libertarians rimasero prevedibilmente sbalorditi da Rothbard che difendeva il Cattolicesimo romano per la sua importante e benefica influenza nelle vicende umane, e iniziarono a inventare e spargere voci sulla sua (passata o imminente) furtiva conversione al Cattolicesimo. A questi militanti anticristiani, incapaci a suo dire di superare l’inevitabile incontro adolescenziale con la filosofia “oggettivista” radicalmente atea di Ayn Rand, Murray replicò divertito: «sembra che per costoro aderire alla Chiesa Cattolica rappresenti il peggior insulto che si può rivolgere a un nemico. Perché? Per quale motivo diventare cattolici dovrebbe essere la peggiore disgrazia? Per quanto mi riguarda, non penso che diventare cattolico equivalga a diventare un molestatore di bambini; al contrario, la considero una decisione onorevole. Sembra che costoro siano incapaci di credere che qualcuno possa apprezzare la Chiesa Cattolica anche senza essersi convertito – o, ai loro occhi, plagiato: qualcosa di simile a quanto accadeva nel film L’invasione degli ultracorpi»38. L’interesse di Rothbard per la tradizione intellettuale cattolica si spiega invece con la sua adesione alla tradizione filosofica aristotelico-tomistica, secondo la quale esiste un ordine ontologico, una natura delle cose, che comprende anche la natura umana. Del resto, come osservò egli stesso, i cattolici sono in circolazione da molto più tempo dei randiani, e nel frattempo potrebbero essere riusciti a risolvere uno o due problemini39. MURRAY N. ROTHBARD, The Great Thomas & Hill Show: Stopping the Monstruos Regiment, in «Rothbard-Rockwell-Report», December 1993, ora in ROCKWELL (edited by), The Irrepressible Rothbard, cit., p. 365. 38 Cit. in SALERNO (senza titolo), in ROCKWELL (edited by), Murray N. Rothbard. In Memoriam, cit., p. 79. 39 Cfr. STROMBERG, Rothbard contro Rothbard: un falso dilemma, cit., p. 216-217. 37 40 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 Alla luce di queste considerazioni si può comprendere più facilmente il sostegno politico alla Destra Religiosa dato da Rothbard nei primi anni Novanta, che tanto sconcertò i leftlibertarians. Lungi dal volere instaurare uno Stato teocratico abolendo la separazione tra Stato e Chiesa, secondo Rothbard la Destra cristiana si limitava a fare delle battaglie difensive: «la maggior parte dei libertari pensa ai conservatori cristiani negli stessi termini infami usati dai media di sinistra, se non peggio: crede che il loro obiettivo sia quello di imporre una teocrazia cristiana, di mettere fuori legge i liquori e altri mezzi di godimento edonistico, di far entrare la polizia nelle camere da letto. Nulla potrebbe essere più lontano dalla verità: i conservatori cristiani stanno solo cercando di difendersi da una élite progressista che usa gli apparati statali per attaccare e virtualmente distruggere i valori, i principi e la cultura cristiani. Se alcuni conservatori cristiani sono favorevoli a mantenere sulla carta delle leggi sulla moralità sessuale per ragioni simboliche, non conosco nessun gruppo cristiano che voglia imbarcarsi in una crociata per far applicare queste leggi, o che voglia che gli agenti vadano a guardare sotto le lenzuola. In queste materie vi sono ben pochi gruppi conservatori proibizionisti; se il proibizionismo si affermerà in America, sarà dovuto sicuramente a una misura voluta dai left-liberal, allo scopo di migliorare la nostra “salute” e ridurre gli incidenti sulle strade. Non c’è alcun gruppo cristiano che voglia perseguitare l’omosessualità o l’adulterio»40. Non è un caso che gli unici gruppi religiosi che nella storia degli Stati Uniti abbiano cercato di mettere fuorilegge il vizio sono stati i pietisti evangelici postmillenaristi nei primi decenni del XX secolo. Dimostrando una straordinaria conoscenza delle più sottili sfumature delle teologie cristiane, Rothbard non faceva mistero della sua avversione culturale per il protestantesimo e del suo apprezzamento per il cattolicesimo. Egli osservò che un cristiano coscienzioso cerca di conformarsi MURRAY N. ROTHBARD, The Religious Right: Toward a Coalition, in «Rothbard-Rockwell-Report», February 1993, ora in ROCKWELL (edited by), The Irrepressible Rothbard, cit., p. 26. 40 41 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 ad un’etica personale e politica, ed è difficile comprendere come possa essere utilitarista, nichilista o sostenitore dell’idea che la forza fa il diritto. A Rothbard sembrava allora che ci fossero solo due possibili sistemi etici genuini per un cristiano: il primo corrispondeva alla posizione della Scolastica (cattolica o anglicana), nella quale la ragione umana ha le capacità di scoprire le leggi naturali, mentre l’etica puramente teologica o divinamente rivelata ha una parte molto piccola e separata, benché importante, nel sistema. Il secondo sistema derivava dalla concezione calvinista secondo cui la ragione umana è così corrotta che l’unica etica praticabile, l’unica verità riguardo qualsiasi cosa, deve provenire esclusivamente dalla rivelazione divina così come presentata nella Bibbia41. Da questo atteggiamento religioso dei calvinisti deriva quella perniciosa eresia postmillenarista, ancora tanto influente nella vita politica americana soprattutto tra le fila progressiste, che Rothbard chiamava Left Neo-Puritanism o Religious Left. L’eresia postmillenarista considera dovere morale del buon cristiano stabilire il millenario Regno di Dio sulla terra come precondizione indispensabile alla seconda venuta del Messia sulla Terra (a differenza dei premillenaristi, convinti che il Regno di Dio sorgerà solo dopo la seconda venuta di Gesù Cristo). E poiché il Regno di Dio si caratterizza per definizione come una società perfetta in cui non esiste più il vizio, si capisce la foga con la quale la Sinistra Religiosa Puritana si impegni politicamente nella lotta contro i liquori, il fumo o il cibo che fa ingrassare. Rothbard ricorda ad esempio l’ostilità puritana cui dovettero subire i “gaudenti” cattolici bavaresi immigrati in America per le loro abitudini di andare a Messa vestiti di tutto punto, e di recarsi la domenica pomeriggio nelle birrerie ad ascoltare le loro musiche folcloristiche. Gli yankees protestanti crearono una scuola pubblica obbligatoria anche allo scopo di impedire ai cattolici tedeschi di mandare i figli nelle proprie scuole parrocchiali. Cfr. MURRAY N. ROTHBARD, Kingdom Come, in «Liberty», n. 3, January 1990, p. 45. 41 42 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 Hillary Clinton e Woodrow Wilson, il presidente che sosteneva il proibizionismo e che lanciò una crociata per stabilire il Regno di Dio su scala globale, rappresentano per Rothbard due perfetti esempi di questo Neopuritanesimo di sinistra, desideroso di modellare non solo gli Stati Uniti ma il mondo intero secondo i propri sogni millenaristici42. 5. Immigrazione, localismo e secessione Un altro tema dove le distanze tra paleolibertari e leftlibertarians si sono notevolmente divaricate è quello critico dell’immigrazione. La posizione classica del movimento libertario è sostanzialmente favorevole alla libertà d’immigrazione, ma senza mai sviscerare a fondo le implicazioni legate a questa scelta ideologica. Genericamente, l’idea libertaria è che non deve essere la polizia statale ma solo il mercato a regolare l’immigrazione. David Friedman e Walter Block, per citare due tra i maggiori esponenti intellettuali del movimento libertario, interpretano questa asserzione di principio chiedendo la completa apertura delle frontiere nazionali agli immigrati che provengono dall’estero43. I paleolibertari fanno però notare che una società libertaria fondata sulla proprietà privata non funzionerebbe affatto così: anzi, in un modello puro anarco-capitalista dove tutta la terra è in proprietà privata di qualcuno l’immigrazione sarebbe strettamente regolata dalle decisioni (di apertura o di chiusura) dei rispettivi proprietari. Nell’importante saggio Nazioni per Cfr. MURRAY N. ROTHBARD, America’s Most Persecuted Minority, in «Rothbard-Rockwell-Report», February 1993, ora in ROCKWELL (edited by), The Irrepressible Rothbard, cit., p. 269 (trad. it. La minoranza più perseguitata d’America, in Lord Harris of High Cross & Judith Hatton, La libertà in fumo. Quando il proibizionismo nuoce gravemente alla salute, Facco Editore, Treviglio (Bergamo) 2003, p. 103-107). 43 Cfr. DAVID D. FRIEDMAN, Senza assistenzialismo niente immigrazione, in «Enclave. Rivista Libertaria», 1999, n. 5, p. 26-27; cfr. WALTER BLOCK, A Libertarian Case for Free Immigration, in «Journal of Libertarian Studies», n. 13/2, 1998, p. 167-186. 42 43 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 consenso: decomporre lo Stato nazionale, Rothbard dichiara di aver rimeditato l’intera questione, e di essersi convinto che, essendosi oltretutto grandemente intensificati i problemi immigratori legati alla presenza del Welfare State (che grava pesantemente sugli autoctoni) e dell’invasione culturale (dato che l’immigrazione indiscriminata può portare alla cancellazione della cultura indigena, come sta avvenendo negli Stati meridionali degli USA, sempre più ispanizzati), il regime delle frontiere aperte che esiste de facto negli Stati Uniti si riduce ad un’apertura coercitiva operata dallo Stato centrale, che non riflette genuinamente i desideri dei proprietari44. Si ritorna dunque al problema di come lo Stato debba gestire, in mancanza della privatizzazione, le aree pubbliche e demaniali del territorio nazionale. I libertari dovrebbero, come second best, considerare le aree statali alla stregua di una proprietà di tutti e di nessuno, secondo la regola comunisticoegualitaria propugnata dai left-libertarians, o come una sorta di proprietà privata dei tax-payers residenti, di fatto espropriata dalla classe politico-burocratica? Hans-Hermann Hoppe è lo studioso paleolibertario che ha argomentato nella maniera più approfondita e convincente la validità della seconda ipotesi. Mentre infatti la libera circolazione di merci e capitali non può mai violare i diritti di chicchessia, essendovi sempre il consenso di chi dà e di chi riceve, lo stesso non può dirsi per la libera circolazione di persone. Gli uomini infatti, a differenza delle merci e del denaro, dispongono di una propria volontà e possono muoversi da soli. La libera circolazione delle persone può dunque configurarsi come invasione in tutti quei casi in cui è assente un rapporto volontario tra le due parti: quando manca cioè il consenso di chi riceve l’immigrato a casa propria. In tema Cfr. MURRAY N. ROTHBARD, Nazioni per consenso. Decomporre lo Stato nazionale, in ERNST RENAN - MURRAY N. ROTHBARD, Nazione cos’è, Facco Editore, Treviglio (Bergamo) 1996, p. 44-53. 44 44 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 di immigrazione, sostiene Hoppe, la regola libertaria più corretta è “libertà d’accogliere, diritto di escludere”45. Questo non significa che i libertari debbano sostenere le politiche restrittive degli Stati in tema di immigrazione. In ogni nazione vi sono infatti categorie di individui che desiderano più immigrazione (datori di lavoro, venditori di case, solidaristi) e altre categorie che invece non ne desiderano affatto; vi sono aree, come quelle residenziali o quelle già affollate, dove gli immigrati non sono graditi, e altre aree disabitate, commerciali o industriali nelle quali si cerca al contrario di attirare gente da fuori. È chiaro quindi che una decisione presa centralmente non riesce a soddisfare in maniera adeguata le diverse preferenze presenti tra la popolazione. Ancora una volta le regola paleolibertaria di previsione dei probabili risultati del mercato mediante la massima decentralizzazione possibile delle decisioni sembra la migliore. L’immigrazione, secondo questo punto di vista, andrebbe allora regolata al livello più locale possibile (di contea, di città, di quartiere, di rione, di strada) proprio come avviene in quelle autentiche realtà di “libertarismo applicato” che sono le gated communities americane, vere e prove privatopie (città private) organizzate su basi condominiali46. Questo favore dei paleolibertari per le piccole dimensioni politiche li porta a guardare con favore ai movimenti localisti e secessionisti, e a contrastare con la massima decisione ogni tentativo di costruzione di Leviatani sovranazionali, anche quando questi sono propagandati come necessari per l’affermazione della “democrazia” o addirittura del “libero mercato”. Pur se per motivi diversi, Rothbard si trovò quindi d’accordo ancora una volta con Pat Buchanan nel criticare gli Cfr. HANS-HERMANN HOPPE, Abbasso la democrazia! L’etica libertaria e la crisi dello Stato, Facco Editore, Treviglio (Bergamo) 2000, p. 58-72. 46 Sull’argomento mi sia concesso di rinviare a GUGLIELMO PIOMBINI, La proprietà è sacra, Il Fenicottero, Bologna 2001, p. 5182. 45 45 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 accordi multilaterali di “libero scambio” come il NAFTA, che prevedeva la creazione di un mercato unico americano, dal Canada alla Patagonia. Mettendo in difficoltà non pochi ambienti intellettuali libertari che avevano spinto per la conclusione dell’accordo, Rothbard faceva notare che il vero libero commercio non richiede anni di negoziazioni tra governi, né codicilli, accordi e compromessi. Se il governo americano voleva davvero il libero scambio, poteva semplicemente tagliare le quote e le tariffe, abolire la Commissione Internazionale per il Commercio, le leggi anti-dumping e tutte le altre leggi protezionistiche che danneggiano i consumatori americani sostenendo produttori inefficienti. Quello che in verità i governi miravano mediante questi negoziati governativi sul commercio non era affatto il libero mercato, ma il mercantilismo. Il risultato del NAFTA, così come del GATT o del WTO, è quello di trasferire il potere decisionale dal governo americano ad un nuovo governo sovranazionale dell’economia, completamente irresponsabile e incontrollabile. Se anche qualche tariffa venisse più o meno ridotta, i suoi vantaggi sono poca cosa rispetto alla marcia verso un super-governo regionale o mondiale. Il trattato NAFTA prevedeva ad esempio che alle tre nuove commissioni intergovernative istituite fossero attribuiti poteri di comminare sanzioni alle imprese che non rispettassero determinate regolamentazioni ambientali o del lavoro. Rothbard aveva probabilmente ben chiaro quanto era avvenuto con la Comunità Europea, che in un primo tempo era stata presentata come una semplice zona di libero scambio, ma col tempo si è trasformata in un vero e proprio super-Stato con poteri di governo. Non si era tenuto conto che l’autorità che ha il potere di aprire un mercato ha anche il potere di regolamentarlo, e che prima o poi userà questo potere nella maniera più estesa possibile. Gli euro-burocrati di Bruxelles, in quella che doveva essere un’area di libero scambio, sono infatti già da tempo al lavoro per “armonizzare” a livello continentale le tasse, la legislazione e i “diritti” sociali. Non c’è alcun dubbio che gli stessi poteri verranno pretesi ed esercitati anche dalle 46 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 Commissioni sovranazionali istituite dal NAFTA, dall’OCSE o dal WTO47. Alcuni left-libertarians, osserva Rothbard, replicano agli attacchi paleolibertari contro il governo internazionale dell’economia dicendo che solo degli xenofobi o degli statalisti possono preoccuparsi della “sovranità nazionale”, dato che nella teoria libertaria solo l’individuo è sovrano, e non la nazione. La pochezza di questa argomentazione per Rothbard era evidente, dato che per ogni libertario dovrebbe essere quasi auto-evidente che aumentare l’estensione e il livello del governo può solo aumentare lo scopo e l’intensità del dispotismo, e che più alto e lontano un governo diventa, minori sono le possibilità di essere controllato, limitato o rimosso dalla popolazione assoggettata48. 6. L’eredità del paleolibertarismo Si possono così sintetizzare gli obiettivi che Murray N. Rothbard, Lew Rockwell, Hans-Hermann Hoppe, Ralph Raico e altri studiosi di spicco si proponevano di realizzare all’inizio degli anni Novanta imprimendo al movimento libertario una sensibilità più conservatrice: ricollegarsi idealmente alle radici della Old Right, la Destra americana anti-rooseveltiana; ridare forza all’isolazionismo nell’epoca post-guerra fredda; tutelare le comunità locali dalle pretese centralizzatrici del governo federale o delle istituzioni sovranazionali; affermare l’importanza della battaglia culturale in difesa dei valori tradizionali che permeavano la Vecchia Cultura americana prima della Rivoluzione Culturale degli anni Sessanta; difendere l’eredità culturale della civiltà occidentale («l’unica che abbiamo», secondo Rothbard) dall’aggressione multiculturalista e politically correct; contestare la proliferazioni di privilegi Cfr. MURRAY N. ROTHBARD, Stop Nafta!, in «RothbardRockwell-Report», October 1993, ora in ROCKWELL (edited by), The Irrepressible Rothbard, cit., p. 142s. 48 Cfr. MURRAY N. ROTHBARD, Big-Government Libertarians, in «Rothbard-Rockwell-Report», November 1994, ora in ROCKWELL (edited by), The Irrepressible Rothbard, cit., p. 110. 47 47 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 statali concessi ad ogni gruppo che venga ufficialmente designato come “minoranza oppressa”; riconoscere l’importante ruolo giocato dalla religione cristiana, e particolarmente della filosofia cattolica, nella fondazione delle basi morali della nostra civiltà; sottolineare lo stretto collegamento che esiste tra le istituzioni di una società libertaria (mercati, diritti di proprietà, contratti, libertà individuali, libertà d’impresa) e i valori culturali tradizionali, famigliari e borghesi sottostanti; mettere in luce, correlativamente, il nesso che lega i valori controculturali, nichilisti, edonisti e libertini che celebrano l’irresponsabilità individuale con l’espansione dello statalismo e l’edificazione dell’assistenzialismo “dalla culla alla bara”. Sul piano strategico l’opzione paleolibertaria si traduceva nella difesa “populista” dei modi di vita della middle-class dagli attacchi che subisce quotidianamente dalle élites politiche e intellettuali dominanti nel ceto politico e giudiziario, nelle burocrazie legate al Welfare State (funzionari, assistenti sociali), nei media, nel cinema, nel mondo artistico, nelle università, nella scuola pubblica. Nella società i paleolibertari trovarono invece alleati in gruppi disparati come i sostenitori dell’homeschooling, i cattolici tradizionalisti, i sostenitori dei diritti di portare armi, le milizie locali, i secessionisti del Sud, i giovani Repubblicani, i difensori dei Land’s Right (i diritti di proprietà terrieri minacciati dalle regolamentazioni e dagli espropri statali), i fautori del ritorno ad una moneta aurea che criticano le alchimie monetarie operate dalla FED e delle élites bancarie e finanziarie, gli isolazionisti di destra e di sinistra, i paladini dei diritti degli Stati contro il governo federale, i “cospirazionisti” che denunciano le trame nascoste tendenti ad edificare un Nuovo Ordine diretto da un governo mondiale e così via. Oggi il paleoism non esiste più come movimento unitario di libertari e conservatori “all’antica”. Lo stesso Lew Rockwell ha affermato che l’esperienza paleolibertaria è chiusa e che non intende più utilizzare questo termine, preferendo definire le proprie posizioni come “libertarie” tout court49. Il punto LLEWELLYN H. ROCKWELL, What I Learned From Paleoism, in LewRockwell.com, 2.5.2002, 49 48 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 cruciale del paleolibertarismo, ha osservato di recente, non era tanto quello di distinguersi sul piano culturale dai leftlibertarians, quanto sul piano politico dai “libertari” moderati, sempre pronti ad approvare misure di compromesso con l’establishment di Washington50. Lo spirito del paleolibertarismo però non è morto del tutto. Hans-Hermann Hoppe infatti ha dato vita a un gruppo internazionale chiamato “Property and Freedom Society” che cerca di mantenere, su questioni come l’immigrazione o i valori culturali, una posizione più conservatrice. A questa associazione, che tiene periodicamente conferenze con ospiti provenienti da molti paesi diversi, hanno aderito non solo numerosi esponenti libertari come Guido Hülsmann, Thomas Di Lorenzo, Stephan Kinsella, Joseph Salerno o Jeffrey Tucker, ma anche studiosi più vicini alla sensibilità paleoconservatrice come Richard Lynn, Paul Gottfried, Paul Belien, Tatu Vanhanen e Peter Brimelow. È degno di nota, infine, che sul paleolibertarismo di Hans–Hermann Hoppe sia uscita nel nostro paese un’eccellente monografia scritta da Piero Vernaglione51. https://www.lewrockwell.com/2002/05/lew-rockwell/what-ilearned-from-paleoism/ (visitato il 10.12.2015). 50 LLEWELLYN H. ROCKWELL, Do You Consider Yourself a Libertarian?, in LewRockwell.com, 25.5.2007, https://www.lewrockwell.com/2007/05/lew-rockwell/do-youconsider-yourself-a-libertarian/ (visitato il 10.12.2015). Si veda anche: Arthur Pendleton, Lew Rockwell And The Strange Death (Or At Least Suspended Animation) Of Paleolibertarianism, Vdare.com, 14.5.2008, https://www.vdare.com/articles/lew-rockwell-and-thestrange-death-or-at-least-suspended-animation-ofpaleolibertarianism (visitato il 10.12.2015). 51 Cfr. PIERO VERNAGLIONE, Paleolibertarismo. Il pensiero di Hans-Hermann Hoppe, Soveria Mannelli, Rubbettino (Catanzaro) 2007. 49 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 BENIAMINO DI MARTINO* La “salutary neglect” e le colonie americane Abstract Tra dieci anni gli Stati Uniti d’America festeggeranno il 250° anniversario della loro istituzione che avvenne mediante una unilaterale dichiarazione che rese le Tredici Colonie indipendenti dalla madrepatria (4 luglio 1776). Questo 2016 è, tra l’altro, l’anno delle elezioni presidenziali negli Stati Uniti. Le richiamate due circostanze suggeriscono una rinnovata e particolare attenzione verso gli USA. È questo l’intento dell’articolo che si concentra sulla “salutare dimenticanza” cui furono oggetto le colonie nordamericane da parte del governo di sua Maestà britannica. Se l’approdo sul Nuovo Mondo avvenne ____________________ * Beniamino Di Martino (1963) è sacerdote ed è direttore di «StoriaLibera». Insegna Dottrina Sociale. Tra le sue pubblicazioni: Note sulla proprietà privata (2009), Il volto dello Stato del Benessere (2013), I progetti di De Gasperi, Dossetti e Pio XII (2014), Rivoluzione del 1789. La cerniera della modernità politica e sociale (2015), Personalità e pontificato di Benedetto XIII nell’opera di Ludwig von Pastor (2015), Povertà e ricchezza. Esegesi dei testi evangelici (2016), La Prima Guerra Mondiale come effetto dello “Stato totale”. L’interpretazione della Scuola Austriaca di economia (2016), La Dottrina Sociale Cattolica. Principi fondamentali (2016) e “Conceived in liberty”. La contro-rivoluzione americana del 1776 (2016). 51 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 all’insegna di una rottura rispetto agli orientamenti dell’Europa, i coloni americani poterono, poi, prosperare proprio grazie al modo con cui la politica assolutista della madrepatria trascurò il controllo nei nuovi insediamenti. Parole chiave: Stati Uniti d’America, indipendenza, rivoluzione, Regno Unito, libertarismo, pensiero conservatore, antistatalismo, tassazione. Ten years from now, the United States of America will celebrate the 250th anniversary of their foundation that took place through a unilateral declaration that made independent the Thirteen Colonies from the motherland (4 July 1776). This year 2016, among other things, there will be the US presidential election. The two mentioned circumstances suggest a renewed attention towards the United States. The intent of this article focuses on the "healthy forgetfulness", which the North American colonies were subjected from her British Majesty government. If the landfall in the New World was often characterized by a rupture from Europe’s guidelines, the American settlers could thrive thanks to the neglected control by the absolutist policy of motherland on the new settlements. Key words: United States of America, independence, revolution, United Kingdom, libertarianism, conservative thought, anti-statism, taxation. Un testo più ampio e completo del presente articolo sarà in BENIAMINO DI MARTINO, “Conceived in liberty”. La controrivoluzione americana del 1776, Liamar Editions, Principality of Monaco 2016. 52 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 «Conceived in Liberty» D opo un viaggio di due mesi nell’Atlantico del nord, un centinaio di persone provenienti dall’Inghilterra1, nel novembre del 1620, sbarcò sulla costa di Cape Cod, nel New England2, dando vita ad una colonia che assunse il nome dalla stessa città della madrepatria da cui erano partiti: Plymouth. Questi Pilgrim Fathers fuggivano dall’assolutismo che imperversava nel regno degli Stuart così come negli altri paesi della vecchia Europa e trovarono nel Nuovo Mondo3 le Molti di essi, a causa di dissensi religiosi, erano stati esuli in Olanda: «quando Giacomo I rese loro troppo difficile vivere in Inghilterra, essi andarono in Olanda; e molte delle istituzioni che stabilirono in seguito nella Nuova Inghilterra e che più tardi furono incorporate in quelle che chiamiamo “le istituzioni americane”, erano in realtà olandesi, anche se solitamente, quasi sempre, le attribuiamo all’Inghilterra. La loro origine era in gran parte romanisticocontinentale, ma ci furono trasmesse dall’Olanda, non dall’Inghilterra. In effetti nessuna istituzione del genere esisteva all’epoca in Inghilterra, per cui i coloni di Plymouth non avrebbero potuta vederla lì; essi potevano averla vista solo in Olanda» (ALBERT JAY NOCK, Il nostro Nemico, lo Stato, Liberilibri, Macerata 2005, p. 45-46). Questa considerazione del saggista statunitense Albert Jay Nock (1870-1945) dev’essere senz’altro tenuta presente, ma non può essere né ridimensionata, né misconosciuta la tradizione anglosassone e i suoi simboli (primi tra tutti, la Magna Charta, il diritto all’habeas corpus e il sistema di common law). 2 A sud dell’allora ancora inesistente Boston, nell’attuale Stato del Massachusetts. La regione coloniale del New England, oltre quello del Massachusetts, comprendeva il territorio che sarà poi suddiviso tra i successivi Stati del Maine, del New Hampshire, del Vermont, del Connecticut e di Rhode Island. 3 La prima precaria colonia inglese era stata impiantata nella seconda metà del Cinquecento nella zona dell’attuale North Carolina (la cui capitale porta il nome del navigatore Walter Raleigh, 1552 circa - 1618). Di lì a poco venne esplorata la zona settentrionale a cui venne dato nome di Virginia, in onore di Elisabetta, la regina vergine. Nel 1607 venne fondata Jamestown (in onore al nuovo re, Giacomo I 1 53 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 condizioni per poter fondare una società libera dalle coercizioni politiche e religiose. Il patto che questi pionieri stipularono sbarcando dalla nave Mayflower – convenzione ricordata, perciò, come il Mayflower Compact4 – «è un tipico esempio di covenant mediante il quale essi s’impegnano, davanti a Dio, a unirsi in una comunità civile e politica»5. Trent’anni prima del Leviathan di Hobbes e settant’anni prima dalla pubblicazione dei Two Treatises of Government di Locke, da covenants e agreements6 nascevano comunità libere, emancipate da quegli orientamenti politici che stavano avvelenando il Vecchio Continente. Lo sbarco degli esuli del Mayflower si riveste, perciò, di forti significati. Essi possono assumere anche coloritura romantica, ma possono – molto meglio – essere inquadrati in una vera e propria cornice epocale. La fuga – perché di una fuga, propriamente parlando, si trattò – dei Pilgrim Fathers rappresenta l’inizio della grande frattura tra il Vecchio e il Nuovo Mondo. Il viaggio del 1620 sta Stuart) che divenne un centro commerciale. A nord, poi, si costituì l’insediamento del Maryland. Quando la città britannica di Jamestown (nell’attuale Virginia) venne edificata era, quindi, trascorso più di un secolo (esattamente 115 anni) da quel 14 ottobre 1492, epocale data nella quale Cristoforo Colombo aveva messo piede sulle nuove terre. 4 Cfr. MURRAY N. ROTHBARD, Conceived in Liberty. Volume I. A New Land, A New People: The American Colonies in the Seventeenth Century, Ludwig von Mises Institute, Auburn (Alabama) 1999, p. 161162.225. 5 PAOLO MAZZERANGHI, Le tre colonizzazioni dell’America settentrionale, in GIOVANNI CANTONI - FRANCESCO PAPPALARDO (a cura di), Magna Europa. L’Europa fuori dall’Europa, D’Ettoris Editori, Crotone 2007, p. 205. 6 Cfr. LUIGI MARCO BASSANI - ALBERTO MINGARDI, Dalla Polis allo Stato. Introduzione alla storia del pensiero politico, Giappichelli Editore, Torino 2015, p. 128; cfr. GIOVANNI DESSÌ, I confini della libertà. Realismo e idealismo nel pensiero politico americano, Rubbettino, Soveria Mannelli (Catanzaro) 2015, p. 28; cfr. NICOLA MATTEUCCI, Lo Stato moderno. Lessico e percorsi, Il Mulino, Bologna 2011, p. 137. 54 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 ad indicare la necessità – che quegli esuli avvertirono – di abbandonare l’Europa e i suoi mali. L’edificazione delle nuove colonie sarebbe avvenuta, quindi, in contrasto con gli orientamenti che già stavano sviluppandosi nel vecchio Continente. Si trattava, perciò di un’emigrazione che rivelava una decadenza delle aree da cui essa aveva origine7. Il fatto che le nuove terre vennero ricercate per allontanarsi dal mondo europeo determinò una spaccatura tra le due coste dell’Atlantico che meriterebbe di essere investigata come una delle grandi questioni storiografiche degli ultimi secoli8. L’esodo – nel segno del viaggio del Mayflower – può essere considerato il primo momento di una fase nettamente caratterizzata da una sostanziale frattura tra Vecchio e Nuovo Mondo. D’altra parte il “sogno puritano” si alimentava tanto di biasimo per l’Europa (la vecchia Babilonia), quanto di speranze per gli insediamenti sulle terre americane (nuova Gerusalemme)9. La corrotta e litigiosa Europa poteva, finalmente, avere un’alternativa ed essa prendeva forma proprio sulle lontane coste nord americane, quelle di un Nuovo Mondo libero dai veleni del Vecchio. La crisi confessionale del Sedicesimo secolo aveva determinato una frattura irreversibile della cristianità occidentale lacerando in modo drammatico ed irreparabile il Continente. Il crollo dell’unità europea è sicuramente il maggiore sconvolgimento dell’epoca moderna le cui conseguenze – immediate e remote, dalle guerre religiose sino ai nazionalismi – rappresentano le condizioni culturali e sociali Quasi sempre l’emigrazione è mossa da motivi simili mentre in America Latina non fu così. In quel caso, l’emigrazione ispanica verso il nuovo continente avvenne sotto un impulso contrario: si mosse, cioè, a partire da una sorta di esuberanza, di consapevolezza (più o meno illusoria) di forza e di potenza. 8 Cfr. LUIGI MARCO BASSANI, Dalla rivoluzione alla guerra civile. Federalismo e Stato moderno in America 1776-1865, Rubbettino, Soveria Mannelli (Catanzaro) 2009, p. 3. 9 Cfr. DESSÌ, I confini della libertà. Realismo e idealismo nel pensiero politico americano, cit., p. 28. 7 55 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 dell’età moderna che è, al tempo stesso, l’evo della secolarizzazione e della ideologia. Un’intera epoca si era esaurita: ferita a morte con la Pace di Augusta (1555) e con la Pace di Cateau Cambrésis (1559) e seppellita con la Pace di Westfalia (1648)10. Ad essa subentrava il mondo dello Stato moderno che, da un lato, riduceva il Cristianesimo a fattore privato e, dall’altro, avanzava una pretesa totalizzante. È, questo, un effetto collaterale della Riforma, un paradosso dello sconvolgimento confessionale del Cinquecento: in nome della “purificazione” della fede veniva offerta non solo una formidabile occasione di rafforzamento delle istanze politiche, ma veniva anche data la stura ad una decisa “statalizzazione” della religione, cioè un assorbimento di fatto della dimensione teologale in quella politica. Da questa invasiva politica, il gruppo dei coloni del Mayflower aveva voluto allontanarsi. I Pilgrim Fathers avevano lasciato l’Inghilterra di Giacomo I (che regnò dal 1603 al 1625) segnata dalle arroganti rivendicazioni del sovrano, dai sempre più frequenti contrasti tra la Corona e il Parlamento, nonché dalle frequenti congiure. Figlio di quella Maria Stuart (15421587) – regina di Scozia, che era stata decapitata a Londra per mano della cugina Elisabetta Tudor11 (regina d’Inghilterra e d’Irlanda dal 1558 al 1603) –, Giacomo I è stato il primo sovrano di quel nuovo regno – il Regno Unito – ottenuto con l’unificazione delle corone e dei domini di Inghilterra, Scozia e Irlanda. Esauritasi la dinastia Tudor, Giacomo, succedendo ad Elisabetta (ricordata anche per le Poor laws varate negli ultimi anni del lungo regno12), instaurò la casa Stuart sul trono Cfr. CHRISTOPHER DAWSON, La divisione della Cristianità Occidentale, a cura di Paolo Mazzeranghi, presentazione di Marco Respinti, D’Ettoris Editori, Crotone 2009. 11 Cfr. GILBERT K. CHESTERTON, Elisabetta, regina delle circostanze, prefazione di Paolo Gulisano, Fede & Cultura, Verona 2015; cfr. ELISABETTA SALA, Elisabetta «la Sanguinaria». La creazione di un mito. La persecuzione di un popolo, Ares, Milano 2010. 12 Cfr. ACHILLE ARDIGÒ, Welfare State: problemi e alternative, Franco Angeli, Milano 1985, p. 140; cfr. LUIGI EINAUDI, Lezioni di 10 56 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 londinese ed aprì la strada per il trono al figlio, Carlo I (16251649). Questi, fautore delle teorie assolutistiche del diritto divino del re, ancora più del padre, non poteva non incontrare le resistenze del Parlamento. La forza della borghesia, il risentimento dell’aristocrazia e le controversie religiose condussero ai continui scontri tra la Corona e il Parlamento con i ripetuti scioglimenti della Camera da parte del sovrano e con alterne fasi notoriamente ricordate come “Corto Parlamento” e “Lungo Parlamento”. L’ispirazione religiosa, che non poteva mancare di condizionare gli eventi, segnò le vicende e caratterizzò i due schieramenti con l’episcopalismo anglicano, favorevole all’assolutismo, e con il presbiterianesimo, nettamente liberale. Alla petizione dei diritti (Petition of Rights, 1628) avanzata dalla Camera dei Comuni, Carlo I rispose in modo elusivo e con alcuni artifici fiscali. I successivi tentativi parlamentari di annullare la legislazione assolutistica condussero, poi, alla guerra civile (a partire dal 1642) che si concluse con la vittoria delle forze del Parlamento guidate dal congregazionalista Oliver Cromwell (1599-1658). Nel clima del serrato confronto tra la Corona e il Parlamento, Thomas Hobbes (1588-1679) scrisse il De Cive (1641) e fu l’istaurazione della Repubblica ad indurre il filosofo del potere regale ad elaborare il testo chiave dell’assolutismo, il Leviathan (1651). La Repubblica di Cromwell – il Commonwealth (16491660) – aveva suggellato la superiorità etico-politica degli antiassolutisti ed aveva visto anche la comparsa di forze radicali – i levellers o “livellatori” – nei quali i libertari scorgeranno non pochi motivi di richiamo13. La Repubblica aveva anche avuto il suo battesimo di sangue con il primo regicidio dell’epoca moderna (1649), anche se con il ghigliottinamento di Luigi XVI, politica sociale, introduzione di Michele Salvati, Einaudi, Torino 2002, p. 58. 13 Cfr. MURRAY N. ROTHBARD, Capitalismo contro Statalismo , in IDEM, La libertà dei libertari, a cura di Roberta A. Modugno Crocetta, Rubbettino, Soveria Mannelli (Catanzaro) 2000, p. 87; cfr. PIERO VERNAGLIONE, Il libertarismo. La teoria, gli autori, le politiche, Rubbettino, Soveria Mannelli (Catanzaro) 2003, p. 26.145. 57 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 avvenuto quasi 150 anni dopo, l’esecuzione del despota Carlo I non ha alcuna similitudine: la Francia rivoluzionaria condannerà il suo sovrano solo in quanto re e per tranciare i legami con il passato; l’Inghilterra liberale giustiziò il re in quanto criminale e facendo appello al diritto medioevale della legittimità del tirannicidio. Esauritasi la parentesi repubblicana, il figlio del re decapitato, avendo fornito sufficienti assicurazioni liberali, fu invitato a ripristinare la monarchia Stuart e così, il 23 aprile 1661, secondo la prassi, Carlo II (1630-1685) venne incoronato nell’Abbazia di Westminster. La restaurazione degli Stuart avvenne, quindi, in modo pacifico, ma solo apparentemente sembrò essere salva la causa di entrambi gli schieramenti. Infatti, Carlo, antico allievo di Hobbes, non tardò ad infrangere l’equilibrio che aveva condotto alla riconciliazione abolendo de facto il Parlamento (già dal maggio 1661 con il cosiddetto Cavalier Parliament of England) e regnando da monarca assoluto. È in questo rinnovato contesto di contrapposizione che nacquero le prime formazioni dei partiti, modernamente intesi: da un lato i whigs che rivendicavano i diritti del Parlamento e, perciò, whig venne definito il “partito del Parlamento”, dall’altro i tories che affermavano le prerogative reali e, perciò, tory fu considerato il “partito del re”14. La critica radicale al potere – che era già stata espressa pochi decenni prima dal movimento dei levellers, nel contesto che preparava la nuova rivolta del 1688 – venne manifestata da Algernon Sidney (1622-1683)15, un politico inglese che, accusato di congiurare contro il re (vicenda nella quale fu implicato anche Locke), finì poi condannato a morte. Tra i capi di accusa gli furono addebitati i suoi Discourses Concerning Government Cfr. JEAN-JACQUES CHEVALLIER, Le grandi opere del pensiero politico, Il Mulino, Bologna 1991, p. 118; cfr. JOSÉ PEDRO GALVAO DE SOUSA, La rappresentanza politica, introduzione e cura di Giovanni Turco, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2009, p. 208. 15 Cfr. MURRAY N. ROTHBARD, Conceived in Liberty. Volume II. "Salutary Neglect": The American Colonies in the First Half of the Eighteenth Century, Ludwig von Mises Institute, Auburn (Alabama) 1999, p. 188s. 14 58 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 (scritti tra il 1680 e il 1683, data della sua decapitazione)16; i Discourses contenevano richiami ad una libertà ritenuta sovversiva per l’assolutismo del sovrano. Nonostante l’Atto di esclusione (Exclusion Bill) del 1679, alla morte di Carlo II salì al trono suo fratello, il cattolico duca di York, Giacomo II (1685-1688). Autore di repressioni e di atteggiamenti impopolari, il nuovo sovrano non intese affatto distaccarsi dall’assolutismo tracciato dai predecessori. La politica accentratrice interessò anche le colonie ove il re volle istituire il Dominion of New England con a capo l’odiato governatore sir Edmund Andros (1637-1714). In tale temperie, il Parlamento dichiarò decaduto Giacomo II e, in questo modo, si aprì e, rapidamente, si esaurì quella che è passata alla storia come la Glorious revolution. La “rivoluzione pacifica” (unbloody revolution) del 1688 determinava il declino della casa Stuart e decretava il trionfo dei whigs protestanti e liberali17. Richiamando la vicenda del 1688 inglese, il pensiero corre quasi automaticamente a John Locke (1632-1704) che, avendo preso parte allo scontro, ne aveva prima patito i rovesci (pagati con l’esilio in Olanda) e poi assaporato i successi (con la fortuna di cui godette la sua opera). Il suo Essay of Civil Government (1690 ca.) è per antonomasia il testo della filosofia whig e il «catechismo protestante dell’anti-assolutismo»18. Padre nobile indiscusso del liberalismo, Locke sarà, a causa dell’affermazione dei diritti inviolabili di libertà e di proprietà, anche l’imprescindibile riferimento dei più autorevoli “ribelli” americani. 16 ALGERNON SIDNEY, Discorsi sul Governo, in AA. VV., Antologia dei costituzionalisti inglesi, a cura di Nicola Matteucci, Il Mulino, Bologna 1962, p. 131-150. 17 Giacomo II fu costretto alla fuga (trovando rifugio nella Francia assolutista del cugino Luigi XIV) e a Londra venne proclamata dal Parlamento la monarchia costituzionale di Guglielmo d’Orange (16891702), genero di Giacomo (Guglielmo ne aveva sposato la prima figlia, Maria Stuart). 18 CHEVALLIER, Le grandi opere del pensiero politico, cit., p. 133. 59 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 Nel 1689 gli inglesi si proteggevano dai sovrani con il Bill of Rights19, esattamente cento anni prima di una ben diversa rivoluzione che con quella anglosassone non avrebbe avuto nulla in comune se non l’etichetta liberale che i commentatori dell’Ottocento hanno impropriamente affibbiato ai fatti parigini. Un grande whig si incaricherà di dimostrare quanto furono distanti le due vicende; ci riferiamo a Edmund Burke (17291797) che commentò la Glorious revolution schierandosi dalla parte del costituzionalismo e contro il re Giacomo, cattolico come lui20. «Secondo il pensatore angloirlandese, il passaggio dinastico del 1688 impedì al re di sovvertire la Costituzione. Dunque, poiché era il sovrano a ribellarsi alla legge fondamentale del paese, quella “gloriosa” non fu una rivoluzione, ma una rivoluzione impedita»21. Prima di capire quali effetti provocò oltreoceano la deposizione del sovrano assolutista, è utile fare qualche considerazione circa la vita delle colonie americane. Sebbene nel New England sbarcarono e si insediarono famiglie e gruppi accomunati da un medesimo anelito per la libertà e da un simile spirito pionieristico, sarebbe, tuttavia, un errore immaginare queste comunità come una idilliaca e perfetta unione22. 19 Cfr. MATTEUCCI, Lo Stato moderno. Lessico e percorsi, cit., p. 137. Cfr. PETER J. STANLIS, Edmund Burke. The Enlightenment and Revolution, introduction by Russel Kirk, Transaction, New Brunswick (New Jersey) 1991, p. 216-254 (capitolo Burke and the Revolution of 1688). 21 PETER J. STANLIS, Rivoluzione francese, democrazia moderna e Repubblica nordamericana, in «Cristianità», anno 25 (1997), n. 269 (settembre), p. 24. 22 Scriveva con enfasi John Jay (1745-1829) nel n. 2 del Federalist: «la Provvidenza si è compiaciuta di dare un paese compaginato ad un popolo unito – un popolo che discende dagli stessi antenati, che parla la stessa lingua, che professa la stessa religione, che è fedele agli stessi principi politici, che è molto simile nei modi e nei costumi» (ALEXANDER HAMILTON - JAMES MADISON - JOHN JAY, The Federalist. The Gideon Edition, Ed. Sálvio Marcelo Soares, MetaLibri, New York (N. Y.) 2009, p. 11: «Providence has been pleased to give this one 20 60 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 Differenze culturali e religiose rendevano questi gruppi reciprocamente sospettosi e antagonisti. Le divergenze si manifestavano anche nel modo con cui le contese territoriali avevano trovato, di fatto, una iniziale soluzione confessionale23. Così che i puritani si stabilirono nel Massachusetts, i quaccheri in Pennsylvania, i cattolici nel Maryland, i luterani in Georgia e gli ugonotti in Virginia. La consapevolezza delle divergenze non fu, però, causa di contrasti aperti, bensì causa di una sana quanto opportuna separazione tra le varie comunità. «Ogni denominazione o colonia era vigile contro l’interferenza da parte di altri nei propri affari interni. Le differenze tra le colonie crearono il preconcetto che ciascuna dovesse occuparsi degli affari propri e che così dovesse fare anche qualsiasi potenziale governo centrale»24. In altri termini, lo spirito individualistico e la pretesa a veder riconosciuta la propria proprietà educarono sia al rispetto per le differenze sia al riconoscimento per l’altrui proprietà e – cosa non da poco – fomentarono l’apprezzamento per l’autogoverno e l’avversione per le imposizioni politiche esterne. Uno dei tratti caratteristici degli americani è, senz’altro, l’attaccamento alla propria comunità. «L’esperienza religiosa americana, tendenzialmente di carattere comunitario, [era] fondata sull’idea che i fedeli in Cristo potessero stringere patti anche per la gestione del potere politico»25. Un aspetto ricorrente, anche nelle immagini più stereotipe e note, è, infatti, la dedizione dei coloni alla propria società (ciò che per essi connected country to one united people --a people descended from the same ancestors, speaking the same language, professing the same religion, attached to the same principles of government, very similar in their manners and customs»). 23 Cfr. ROLAND H. BAINTON, La lotta per la libertà religiosa, Il Mulino, Bologna 1982, p. 28-30. 24 THOMAS E. WOODS JR., Guida politicamente scorretta alla storia degli Stati Uniti d’America, a cura di Maurizio Brunetti, con un invito alla lettura di Marco Respinti, D’Ettoris Editori, Crotone 2012, p. 39. 25 BASSANI - MINGARDI, Dalla Polis allo Stato. Introduzione alla storia del pensiero politico, cit., p. 128. 61 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 divenne la “nazione”)26. Ma è estremamente significativo che ciò sia stato possibile proprio grazie a quel clima individualistico che assicurava la libertà e il lavoro a tutti. Il contrario di ciò che sarebbe avvenuto in Europa dove la socializzazione imposta, di fatto, attraverso gli orientamenti politici avrebbe determinato un sempre maggiore scollamento degli individui tra loro, determinando un sempre più accentuato atomismo. Nelle colonie americane qualche rischio di “comunitarismo” si corse dove una forte impronta religiosa tendeva a scivolare verso forme di collettivismo27. Lo stesso Murray Newton Rothbard (1926-1995), il maggiore intellettuale libertario, parlerà di insuccesso del comunismo («The Fall of Communism») nel Massachusetts28: le pratiche comunitaristiche vennero superate grazie al prevalere dello spirito individuale che aiutò gli americani anche a considerare l’esperienza religiosa un riferimento imprescindibile, senza cedere a nessuna forma di teocrazia. Infatti, i Pilgrim Fathers approdarono in America per «andare alla ricerca di Dio e [per] godere di quei diritti dati da Dio e auto-evidenti [tra cui quello] alla libertà religiosa e alla libertà di coscienza»29. Se le colonie del nord America erano abbastanza disomogenee, quelle latine erano culturalmente e religiosamente uniformi. Purtroppo per esse, lo erano anche politicamente, a danno della libertà economica. «Il fatto che i primi insediamenti britannici si chiamassero New England e le prime colonie spagnole Nuova Spagna è più che simbolico. I colonizzatori inglesi, infatti, concessero ampie libertà e Cfr. MICHAEL NOVAK, Questo emisfero di libertà. Una filosofia delle Americhe, introduzione di Dario Antiseri, Liberilibri, Macerata 1996, p. 27s. 27 Cfr. WILLIAM MONTER, Riti, mitologia e magia in Europa all’inizio dell’età moderna, Il Mulino, Bologna 1987, p. 152s. 28 Cfr. MURRAY N. ROTHBARD, Conceived in Liberty. Volume I. A New Land, A New People: The American Colonies in the Seventeenth Century, cit., p. 161s. 29 EZRA TAFT BENSON, The Red Carpet, Bookcraft, Salt Lake City (Utah) 1962, p. 103 («all came seeking God and the enjoyment of God-given, self-evident rights based on eternal principles»). 26 62 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 svilupparono un’economia capitalista. Al contrario, i colonizzatori spagnoli dell’America Latina imposero un feudalesimo autoritario e improduttivo. […] L’ampio pluralismo che si sviluppò nel Nord America […] e la concorrenza che esso incoraggiò tra le confessioni, produsse un alto e ineguagliato livello di impegno religioso individuale e di influenze culturali. Invece di affidarsi al sostegno del governo, tutte le confessioni del Nord America impararono a mantenere le distanze dallo Stato; ciascuna di esse fece enormi investimenti in istituzioni indipendenti predicando le virtù dell’onestà, del lavoro duro, della parsimonia e dell’indipendenza»30. Rispetto alle colonie spagnole e portoghesi (e nonostante l’anticipo con cui queste si impiantarono), quelle inglesi raggiunsero risultati innegabilmente superiori. Il primo fattore di questo successo è quello appena accennato e sul quale meglio ci soffermeremo: l’assenza del condizionamento politico. Ed anche quando questo era presente, nella tradizione mercantile inglese, spesso prevalevano logiche commerciali. L’affermazione coloniale inglese è, infatti, fortemente dovuta al «fatto che essa si sviluppò come iniziativa privata, gestita da compagnie appositamente create per tale scopo, e non sotto la guida costante e apprensiva di un governo paternalistico, come era avvenuto nel caso spagnolo. Gli insediamenti americani si svilupparono per lo più grazie a concessioni reali a beneficio di compagnie private (royal charters) cui venivano garantiti i diritti esclusivi di commercio e di sfruttamento del territorio»31. In una concezione sociale basata sulla proprietà privata, le differenze tra le colonie nord americane, quindi, non costituirono un ostacolo allo sviluppo, così come l’amalgama interna alle varie comunità non solo non contrastava lo spirito d’iniziativa, ma da esso derivava. Fu questa la condizione che consentì il migliore sviluppo sociale. «Le colonie americane – RODNEY STARK, La vittoria della ragione. Come il cristianesimo ha prodotto libertà, progresso e ricchezza, Lindau, Torino 2006, p. 293.294. 31 BASSANI - MINGARDI, Dalla Polis allo Stato. Introduzione alla storia del pensiero politico, cit., p. 128. 30 63 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 sosteneva, infatti, Rothbard in uno scritto del 1972 – furono benedette da una corrente di pensiero individualista, ereditata dai radicali libertari e antistatalisti della rivoluzione inglese del Diciassettesimo secolo, che riuscì ad imporsi sull’autoritarismo calvinista»32. Si potrebbe semplicemente aggiungere: all’autoritarismo di ogni genere. L’assenza di questo fece la differenza tra la colonizzazione anglosassone e quella latina: il potere politico centralistico che paralizzò l’America ispanica, fu, invece, nell’America settentrionale, in genere, abbastanza leggero (in qualche caso fruttuosamente assente), determinando la nascita delle naturali organizzazioni di autogoverno. Lord Acton (John Emerich Edward Dalberg Acton, 1834-1902), consapevole di ciò, riconosceva come «le colonie erano più avanzate della Gran Bretagna sulla strada delle libere istituzioni, e la loro stessa nascita era dovuta alla determinazione di sfuggire ai vizi della madrepatria»33. «Salutary neglect» E questi vizi della madrepatria non mancavano. Già nella primavera del 1689, alla notizia della deposizione dal trono di re Giacomo II, che aveva accentuato i controlli politici, i coloni americani non persero tempo: imprigionarono il detestato governatore Andros e i suoi fiduciari e dichiararono abolito il Dominion of New England ristabilendo immediatamente il principio di autogoverno espresso nelle parole della Declaration of the Gentlemen, Merchants and Inhabitants redatta dal pastore puritano Cotton Mather (1663-1728) nell’aprile del 168934. Insofferenti alle vessazioni governative, per la prima volta e diversi decenni prima dello scontro definitivo con la madrepatria, i coloni si sollevarono in quella che sarà ricordata come la prima rivolta di Boston. ROTHBARD, Capitalismo contro Statalismo, cit., p. 86. ACTON, Storia della libertà, cit., p. 228. 34 Cfr. ROTHBARD, Conceived in Liberty. Volume I. A New Land, A New People: The American Colonies in the Seventeenth Century, cit., p. 424. 32 33 64 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 La diffidenza verso le istituzioni tese ad uniformare e ad accentrare le funzioni organizzative fu una delle principali caratteristiche della vita sociale delle colonie americane sin dal loro sorgere. D’altra parte solo gente che aveva valutato in modo pesantemente negativo le tendenze assolutistiche del potere politico – tanto da preferire l’esilio, pur di fuggire da esse – sarebbe stata disposta ad intraprendere la vita pionieristica con tutto il coraggio che questa doveva richiedere. Una cifra interpretativa fondamentale delle origini coloniali americane va, quindi, ricercata nell’avversione a tutto ciò che poteva ridurre l’autonomia di governo e l’autoregolamentazione delle singole comunità35. «In un’epoca che vedeva le monarchie europee rafforzarsi ed estendere il proprio potere, dall’altra parte dell’Atlantico, nelle colonie inglesi dell’America settentrionale iniziava a svilupparsi un’organizzazione sociale essenzialmente basata sull’autogoverno delle comunità politiche»36. In realtà, più che di uno sviluppo consapevole, si trattava, semplicemente, di dare seguito alle naturali forme di organizzazione, spontanee e pacifiche, attraverso patti e accordi (covenants e agreements), scambi e commerci. Le comunità delle colonie nacquero e rapidamente progredirono basandosi sugli accordi volontari e sugli scambi consensuali. È questa, infatti, la vera definizione di “autogoverno”: vincoli contrattuali privati come elemento fondante di ogni dimensione sociale. In questo modo l’obbligo politico – tipicamente moderno – viene sciolto sulla base di contratti volontari e di mutuo beneficio. Contratti e patti che, per rispettare il carattere totalmente volontario, non possono che essere limitati e revocabili. È, dunque, quella dell’autogoverno, una filosofia sociale che capovolge il contrattualismo di Jean Jacques Rousseau (1712-1778) il quale teorizza l’obbligo politico con cui ogni Cfr. WOODS, Guida politicamente scorretta alla storia degli Stati Uniti d’America, cit., p. 48. 36 LUIGI MARCO BASSANI - STEFANO M. GALLI - FRANCO LIVORSI, Da Platone a Rawls. Lineamenti di storia del pensiero politico, Giappichelli, Torino 2012, p. 209. 35 65 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 individuo è condannato a dipendere dal potere statale. Nelle colonie, infatti, non vi fu alcun motivo per importare le coercizioni politico-gerarchiche tipiche degli assetti che andavano consolidandosi sempre più nel Vecchio Mondo. A dispetto di questi, fu, invece, assolutamente naturale lasciar emergere i liberi contratti individuali – quali «consapevoli atti di volontà»37 – come espressione di spontanea libertà economica e di genuini rapporti sociali38. La filosofia dei covenants restaurava i diritti di ogni persona alla libera scelta e alla più completa autodeterminazione e anticipava l’etica politica del libertarismo di Rothbard. «Le principali questioni del radicalismo libertario del Diciottesimo secolo qui [nell’America coloniale, ndr] furono portate a realizzazione»39, sosterrà, infatti, lo storico della Harvard University, Bernard Bailyn (1922-viv.). Questo rispetto per i diritti naturali e per i liberi contratti individuali – gli uni e gli altri intesi quali fondamento e criterio della convivenza politica – rende facilmente comprensibile il riconoscimento assoluto della proprietà privata perché «la chiave della teoria della libertà è l’istituto dei diritti di proprietà privata, in quanto la sfera ammissibile della libera azione di ciascun individuo può essere stabilita solo una volta analizzati e determinati i suoi diritti di proprietà»40. La repulsione da parte dei coloni per l’autorità statale non riguardava solo il controllo esterno da parte delle istituzioni della madrepatria, ma, conseguentemente, si estendeva sia ad GORDON S. WOOD, I figli della libertà. Alle origini della democrazia americana, Giunti, Firenze 1996, p. 216. 38 Cfr. DESSÌ, I confini della libertà. Realismo e idealismo nel pensiero politico americano, cit., p. 21. 39 BERNARD BAILYN, The Central Themes of the American Revolution: An Interpretation, in STEPHEN G. KURTZ - JAMES H. HUTSON (edited by), Essays on the American Revolution, University of North Carolina Press, Chapel Hill (North Carolina) 1973, p. 26 («The major themes of eighteenth-century radical libertarianism [were] brought to realization here»). 40 MURRAY N. ROTHBARD, L’etica della libertà, Liberilibri, Macerata 2000, p. 9. 37 66 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 ogni ampliamento del potere governativo interno, sia ad ogni forma di unificazione e di accorpamento politico che non fosse chiaramente mirata ad obiettivi precisi e temporanei. Un esempio di istintiva reazione al pericolo costituito dall’allargamento del potere degli organi interni si manifestò già quando, nel 1641, il governatore di Massachusetts Bay, John Winthrop (1588-1649), avanzò una proposta in ordine ad un’estensione delle facoltà del governatore e dei giudici, nell’ambito di una certa discrezionalità legislativa. I coloni risposero estromettendo dall’incarico il governatore ed approvando il Massachusetts Body of Liberties. Tra l’altro, in quello stesso anno, in Irlanda scoppiava una rivolta dai caratteri indipendentisti che gli studiosi hanno assimilato a ciò che nel 1776 avverrà in America41. Ma – tornando ai coloni del New England – occorre aggiungere che al sospetto verso ogni accrescimento dei pubblici poteri si accompagnava la diffidenza verso le unioni e le aggregazioni politiche perché esse avevano come contropartita la riduzione della preziosa autonomia. Così, quando, ad esempio, nel maggio 1643, le colonie del Massachusetts, del Connecticut, di Plymouth e del New Haven decisero di costituire la Confederation of the United Colonies of New England con lo scopo di predisporsi ad un possibile conflitto con le tribù dei pellerossa, anche in questo caso di stringente necessità, i delegati del Massachusetts pretesero che venisse riaffermato il principio di recesso e di autonomia di ciascuna colonia rispetto ad ogni decisione delle altre confederate42. Mentre nella vecchia Europa si rafforzavano i concetti di sovranità nazionale, di diritto divino regale e di assolutismo politico, nel Nuovo Mondo si ammetteva la legittimità di un governo solo a condizione che le sue competenze fossero Cfr. CHARLES HOWARD MCILWAIN, The American Revolution. A Constitutional Interpretation, The Lawbook Exchange Ltd, Clark (New Jersey) 2005, p. 30s. 42 Cfr. ROTHBARD, Conceived in Liberty. Volume I. A New Land, A New People: The American Colonies in the Seventeenth Century, cit., p. 231. 41 67 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 strettamente limitate e chiaramente elencate; funzioni e competenze potevano essere – con criterio privatistico – solo delegate e, perciò, facilmente revocabili43. Sarà questa tradizione a scavare una grande distanza tra le due sponde dell’Atlantico se è vero che di tutto ciò ancora si rintraccia ben più di una pallida eco nella coscienza politica americana: «poiché Dio ha creato l’uomo con certi diritti inalienabili, e l’uomo, dal canto suo, ha creato il governo perché lo aiuti a tutelare questi diritti [vita, libertà, proprietà, ndr], ne consegue, poiché l’uomo è superiore a una propria creatura, che egli è superiore al governo e che dovrà continuare a esercitare una signoria su di esso; non vale certo il viceversa. […] È ovvio che, grossomodo, il governo non sia altro che un gruppo relativamente piccolo di cittadini ingaggiati, per così dire, da tutti gli altri per accollarsi determinate responsabilità comuni e per assolvere funzioni per le quali vengono espressamente autorizzati»44. Si può davvero ritenere che «la sfiducia nello Stato è sbarcata in America insieme alle prime navi inglesi giunte dal continente europeo»45. Non senza fondati motivi, perciò, Rothbard e i libertarians hanno ritenuto di dover collegare le posizioni libertarie alle origini stesse della vita coloniale americana. Le radici del proprietarismo libertario sarebbero, quindi, endogene alla stessa costituzione storica degli Stati Uniti. L’individualismo originario dello spirito pionieristico avrebbe, così, determinato la nascita di un sistema sociale che, Conceived in Liberty – secondo il titolo dell’opera di Rothbard Cfr. DAVID BOAZ, Libertarismo. Silloge, Liberilibri, Macerata 2010, p. 86. 44 EZRA TAFT BENSON, Il giusto ruolo del governo, a cura di Maurizio Brunetti, in «StoriaLibera. Rivista di scienze storiche e sociali», anno 2 (2016), n. 3, p. 100. 45 JOHN MICKLETHWAIT - ADRIAN WOOLDRIDGE, La destra giusta. Storia e geografia dell’America che si sente giusta perché è di destra, Mondadori, Milano 2005, p. 345. 43 68 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 –, sarebbe una mirabile realizzazione naturale, totalmente alternativa allo Stato moderno46. Alla storia dell’America Settentrionale sino alla creazione degli Stati Uniti, dalle originarie colonie sino al completamento dell’indipendenza, Rothbard ha dedicato una monumentale opera, Conceived in Liberty, in quattro volumi che vennero pubblicati tra il 1975 e il 197947. I quattro tomi si susseguivano a partire dall’esposizione dei decenni dei primi insediamenti (A New Land, A New People: The American Colonies in the Seventeenth Century, vol. I, uscito nel 1975) per procedere con la trattazione del successivo sviluppo delle colonie ("Salutary Neglect": The American Colonies in the First Half of the Eighteenth Century, vol. II, uscito nel 1975, e Advance To Revolution, 1760-1775, vol. III, uscito nel 1976) e per descrivere, infine, le fasi della guerra e, soprattutto, dei nuovi ordinamenti continentali (The Revolutionary War, 1775-1784, vol. IV, uscito nel 1979). Potremmo dire che sono due le principali idee intorno a cui ruota l’opera di Rothbard. Da un lato, la singolarità con cui viene dato vita a questa nuova compagine politica che, a differenza di ogni Stato, viene generata nella libertà: Conceived in Liberty. Dall’altro, ciò che ha reso possibile il rigoglioso sviluppo economico nell’esercizio delle libertà e cioè la latitanza del governo britannico la cui negligenza – salutary neglect – ha consentito tutto lo spazio di azione per una salutare intraprendenza individuale. Quanto alla nascita degli Stati Uniti, va effettivamente rilevato che questo è uno dei rari casi della storia in cui l’organizzazione politica non viene imposta alla popolazione, ma è la popolazione che sceglie da chi dipendere, innanzitutto facendo valere il diritto alla secessione dalla precedente compagine politica, il diritto all’indipendenza dalla madrepatria e all’autodeterminazione governativa. Cfr. BASSANI, Dalla rivoluzione alla guerra civile. Federalismo e Stato moderno in America 1776-1865, cit., p. 13-76. 47 MURRAY N. ROTHBARD, Conceived in Liberty, Ludwig von Mises Institute, Auburn (Alabama) 1999, 4 volumes. 46 69 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 Le teorie circa la nascita dello Stato hanno infiammato il dibattito tra pensatori sociali e tra attivisti politici. Se si puntualizza la distinzione tra governo e Stato (il governo appartiene senz’altro alla dimensione naturale della vita sociale, mentre lo Stato è quella entità centralistica e monopolistica dell’esercizio della politica)48, comprendiamo facilmente come per gli autori libertari lo Stato ha sempre un’origine violenta. Negli anni della guerra d’indipendenza americana, fu Thomas Paine (1737-1809) a sostenere la tesi secondo cui, sin dalle età più remote, regni e monarchie non sono altro che legalizzazione di saccheggi e razzie49. Pochi decenni dopo anche il pensatore libertario Lysander Spooner (1808-1887) affermava l’immoralità di fondo su cui si regge la finzione degli obblighi verso lo Stato, riconoscendo a questo una genesi fatta di prepotenze50. Sarà poi il sociologo tedesco Franz Oppenheimer (1864-1943) a riprendere questi concetti descrivendo la criminale nascita di ogni Stato51. Non dissimilmente, Albert Jay Nock (1870-1945) presentava il potere statale come il supremo usurpatore52. A dare compimento a questa linea di pensiero provvederà Rothbard per il quale all’origine dello Stato non vi è Nel linguaggio politico anglosassone e specialmente statunitense, i termini subiscono un’inversione di significato rispetto alle parole italiane. Infatti, Government indica, generalmente, il potere politico e, quindi, il suo vertice che è lo Stato, mentre State (da qui United States) indica l’amministrazione locale e, quindi, la nazione che si autogoverna. 49 Cfr. THOMAS PAINE, I diritti dell’uomo e altri scritti politici, a cura di Tito Magri, Editori Riuniti, Roma 1978, p. 240. 50 Cfr. LYSANDER SPOONER, Contro il potere legislativo, in NICOLA IANNELLO (a cura di), La società senza Stato. I fondatori del pensiero libertario, Rubbettino, Soveria Mannelli (Catanzaro) 2004, p. 153161. 51 Cfr. FRANZ OPPENHEIMER, The State, Free Life Editions, New York (N. Y.) 1975. 52 Cfr. NOCK, Il nostro Nemico, lo Stato, cit. 48 70 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 il bisogno di difesa dalla sopraffazione, ma la stessa sopraffazione di alcuni a danno di altri53. Che non si tratti di una interpretazione insostenibile o anche solo azzardata stanno a dimostrarlo le parole di sant’Agostino d’Ippona (354-430) per il quale gli Stati, perdendo il senso della giustizia, non sono che delle grandi bande di ladri54. Certamente questa visione dello Stato smaschera in maniera inappellabile l’idea del “contratto sociale” su cui sono costruite le moderne teorie politiche. Rifiutando l’ineluttabilità dell’obbligo politico, Rothbard e gli autori della tradizione libertaria hanno considerato caratteristiche essenziali dello Stato la prevaricazione e la tassazione, elementi che negano i diritti naturali e la proprietà. Per la tutela della sicurezza e dei propri beni, gli uomini si uniscono in società e creano alcune modalità per difendersi dalle ingiustizie. Il giornalista newyorkese jacksoniano William Leggett (1801-1839), a riguardo, scriveva: «tutti i governi vengono istituiti per la protezione della persona e della proprietà; e la gente si limita a delegare ai governanti quei poteri che sono indispensabili a tal fine. La gente non vuole che il governo regolamenti le sue faccende private, e decida il corso o distribuisca i profitti del suo lavoro. Protegga le persone e le loro proprietà, e per tutto il resto essi sapranno arrangiarsi da soli»55. Peculiarità dello Stato (non di ciò che chiameremmo semplicemente “governo”) è, invece, il ribaltamento di questi criteri e l’esercizio di un’ampia coercizione; perciò, un classico della letteratura liberale dei primi decenni del Settecento, così si esprimeva: «ci sono stati tempi e paesi in cui gli amministratori pubblici e i nemici della società erano le stesse persone. Quale malinconica riflessione è questa: che i peggiori e più dannosi Cfr. MURRAY N. ROTHBARD, L’etica della libertà, Liberilibri, Macerata 2000, p. 362; cfr. MURRAY N. ROTHBARD, Per una nuova libertà. Il manifesto libertario, Liberilibri, Macerata 2004, p. 92s.99. 54 Cfr. AGOSTINO (SANT’), La Città di Dio, Città Nuova, Roma 1978, volume 1, p. 257 (libro IV, 4). 55 Cit. in RALPH RAICO, La storia del liberalismo e della libertà occidentale. IBL Occasional Paper n. 1, Istituto Bruno Leoni, Torino 2004, p. 5. 53 71 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 nemici delle nazioni siano i loro stessi magistrati! E tuttavia in tutti i paesi schiavizzati, il che significa in quasi ogni paese, questa è la loro disgraziata condizione»56. Ebbene, l’originalità degli USA sarebbe contenuta già tutta nel modo con cui l’insieme delle comunità del nord America si è formato: non come gli Stati che spadroneggiano attraverso poteri estesi e che vessano la proprietà mediante la tassazione, ma per contrastare la coercizione politica e per garantire il rispetto di quei diritti naturali che la Dichiarazione di Indipendenza poneva a base della ribellione nei confronti del governo britannico57. Le colonie americane – Conceived in Liberty – si costituirono in nuova entità politica senza quella violenza sulla libertà individuale che, invece, contraddistingue l’azione degli Stati. È questa la ragione per cui la filosofa “oggettivista” Ayn Rand (Alissa Zinovievna Rosenbaum, 19051982) descriveva gli USA come «la prima società morale della storia»58. Va osservata un’altra peculiarità delle comunità nord americane. Questa riguarda direttamente le ragioni del loro portentoso sviluppo economico e sociale59. Il rapido progresso che le colonie conobbero dalla fine del Diciassettesimo secolo e nella prima metà del Diciottesimo fu, paradossalmente, dovuto all’assenza dell’organizzazione statale. Infatti, per quanto strano ciò possa apparire alla mentalità moderno-europea, fu proprio la negligenza con cui Londra si JOHN TRENCHARD - THOMAS GORDON, Cato’s Letters. Antologia, introduzione e cura di Carlo Lottieri, Liberilibri, Macerata 1997, p. 31. 57 «Noi riteniamo che sono per se stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la Vita, la Libertà, e la ricerca della felicità». 58 AYN RAND, La virtù dell’egoismo. Un concetto nuovo di egoismo, a cura di Nicola Iannello, Liberilibri, Macerata 2010, p. 109. 59 Cfr. THOMAS DILORENZO, How Capitalism Saved America. The Untold History of Our Country, from the Pilgrims to the Present, Crown Forum, Danvers (Massachusetts) 2005; cfr. DOUGLASS C. NORTH, The Economic Growth of the United States. 1790-1860, The Norton Library, New York (N. Y.) 1966. 56 72 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 occupò dei possedimenti di oltre Atlantico ad essere causa immediata e principale del rapido rigoglio non solo economico, ma anche ed innanzitutto sociale delle terre del Nuovo Mondo. I coloni, sollevati dalle costrizioni statali e dagli appesantimenti tributari, poterono dedicarsi in libertà alla costruzione della propria prosperità e all’edificazione di ordinamenti naturali locali. È in questo spirito di autogoverno e di libertà, nell’ordine naturale, che studiosi come Rothbard hanno, con non pochi argomenti, considerato come lo sviluppo venga non garantito, ma danneggiato e compromesso da una forte iniziativa politica. Quanto meno questa è soffocante, tanto più libertà individuale ed intraprendenza creano benessere economico e progresso sociale. La ricostruzione di Rothbard in campo americano va ad affiancare e ad allargare gli studi sullo sviluppo delle aree capitalistiche europee. Molti di questi studi60 concordano nella tesi di fondo, ravvisando nell’assenza di costrizioni politiche l’essenziale causa della prosperità e dell’espansione economica. Così è avvenuto per lo sviluppo dell’Italia settentrionale comunale e delle aree dell’Europa (Paesi Bassi, Confederazione elvetica, Repubblica di Venezia, Baviera, Lega anseatica) in cui non vigevano forme rigide e centralistiche di organizzazione politica. Lì le attività commerciali furono libere di espandersi e il progresso civile si realizzò meglio che altrove. Il secondo volume di Conceived in Liberty – la richiamata imponente storia delle colonie americane scritta da Rothbard –, volume che ha per oggetto la vicenda dei possedimenti durante la prima metà del Settecento, porta un titolo assai emblematico: salutary neglect. Questa sapida formula che sta ad indicare come la fortuna delle popolazioni del Nuovo Continente fu costruita non nonostante, ma grazie allo scarso controllo delle Cfr. JEAN BAECHLER, Le origini del capitalismo, prefazione di Luigi Marco Bassani e Alberto Mingardi, Istituto Bruno Leoni Libri, Torino 2015; cfr. JACQUES ELLUL, Storia delle istituzioni. Il Medioevo, Mursia, Milano 1976; cfr. RODNEY STARK, La vittoria della ragione. Come il cristianesimo ha prodotto libertà, progresso e ricchezza, Lindau, Torino 2006. 60 73 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 istituzioni londinesi, venne, con tutta probabilità, coniata da sir Robert Walpole (1676-1745). Considerato il politico che per primo ha esercitato de facto, dal 1721 al 1742, l’ufficio di Prime Minister del Regno Unito (ruolo, allora, non ancora definito legalmente), Walpole, esponente del partito whig, descrisse positivamente il ruolo del governo britannico delle colonie proprio a causa della sua «salutary neglect»61. Anche il già richiamato pensatore inglese di origini irlandesi Edmund Burke, che dedicò molta attenzione alla storia delle colonie e che anticipò l’analisi libertaria, parlò di «negligenza saggia e salutare»62 in limpida coerenza con ciò che espresse circa la rivoluzione del 1776. Quindi, la fortuna dei coloni americani va attribuita al fatto che essi furono quasi dimenticati dal potere politico: lo Stato, in buona misura, abbandonò a se stesse le comunità americane. Perciò, scriveva il grande economista Ludwig von Mises (1881-1973), «gli insediamenti d’oltre mare dei cittadini britannici restarono fuori dallo Stato»63. Per un buon secolo e mezzo, il potere politico centrale trascurò la diretta amministrazione dei lontani e troppo vasti territori americani; un «salutare oblio»64 che educò i coloni all’autogoverno e all’esercizio delle libertà. E proprio questa salutary neglect va considerata la condizione essenziale del rigoglio della vita sociale e del progresso economico del Nuovo Mondo. Sollevata da impedimenti, sgravata dalle prerogative Cfr. JOHN C. MILLER, The Origins of the American Revolution, Stanford University Press, Stanford (California) 1959, p. 37. 62 EDMUND BURKE, Scritti politici, a cura di Anna Martelloni, UTET, Torino 1963, p. 85. 63 LUDWIG VON MISES, Lo Stato onnipotente. La nascita dello Stato totale e della guerra totale, Rusconi, Milano 1995, p. 115. 64 Cfr. RUSSELL KIRK, Le radici dell’ordine americano. La tradizione europea nei valori del Nuovo Mondo, a cura di Marco Respinti, con un epilogo di Frank Shakespeare jr., Leonardo Mondadori, Milano 1996, p. 317-363 (capitolo 9, «Un salutare oblio: l’ordine coloniale»). 61 74 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 dei regnanti, libera dal carico fiscale, la proprietà privata poté fiorire in modo singolare65. «Dove c’è libertà ci sono incoraggiamenti al lavoro, perché la gente si impegna per se stessa e nessuno può toglierle i frutti della propria fatica»66, scrivevano all’inizio del Settecento due libellisti inglesi di cui subito parleremo. Ed anche a distanza di tempo, chi si interroga sulle ragioni del successo degli USA non può che riconoscere nella libertà individuale e nel governo limitato «la vera causa della prosperità americana»67. Quella nazione rimarrà a lungo un prodigio nel contesto internazionale, ma, rispetto agli ordinamenti europei, rappresentò sin da subito un’eccezione che lo storico Ralph Raico (1936-viv.) conferma con questa testimonianza: «nel Nuovo Mondo, come avevano notato con sgomento i viaggiatori europei, era perfino difficile dire se il governo esistesse davvero. Questa era l’America che divenne un modello per il mondo»68. Se è vero che «il commercio non può a lungo sussistere e tantomeno fiorire sotto governi dispotici»69, nelle colonie, al contrario, si realizzarono le migliori condizioni per l’espansione economica, una ricchezza materiale che non va disprezzata perché presupposto e requisito della crescita della civiltà. Una civiltà che, oltreoceano, ha conservato ed incrementato le vestigia dell’antico mondo che nel Vecchio Continente erano già in crisi70. E fu così che «fieri dell’indipendenza, gli americani [che] erano dediti al pacifico (e redditizio) scambio di beni»71 salvarono il patrimonio della civiltà occidentale che il Cfr. ROTHBARD, L’etica della libertà, cit., p. 117s.240. TRENCHARD - GORDON, Cato’s Letters. Antologia, cit., p. 59. 67 BENSON, Il giusto ruolo del governo, cit., p. 111. 68 RALPH RAICO, La storia del liberalismo e della libertà occidentale. IBL Occasional Paper n. 1, Istituto Bruno Leoni, Torino 2004, p. 5. 69 TRENCHARD - GORDON, Cato’s Letters. Antologia, cit., p. 52. 70 Cfr. GIOVANNI CANTONI - FRANCESCO PAPPALARDO (a cura di), Magna Europa. L’Europa fuori dall’Europa, D’Ettoris Editori, Crotone 2007. 71 RAICO, La storia del liberalismo e della libertà occidentale, cit., p. 8-9. 65 66 75 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 giacobinismo, prima, e il socialismo, poi, si apprestavano a distruggere. Risalgono al periodo del fruttuoso disimpegno statale che consentì la fioritura delle colonie americane, due produzioni letterarie (entrambi inglesi) che avrebbero avuto notevole recezione tra i coloni americani. Il primo riferimento è agli scritti di sir William Blackstone (1723-1780)72, il giurista di Oxford che, tra il 1765 e il 1769, elaborò un trattato sulla tradizione del common law britannico, Commentaries on the Laws of England73. Alcuni decenni prima, esattamente dal 1720 al 1723, due libellisti inglesi, John Trenchard (1662-1723) e Thomas Gordon (ca. 1692-1750), scrissero su alcuni giornali londinesi una serie di articoli in opposizione all’invasiva azione governativa in Gran Bretagna74. Firmandosi “Cato”, i due giornalisti si assumevano il compito che era stato di Catone il Giovane (95-46 a.C.), il celeberrimo difensore della Roma repubblicana contro le prevaricazioni di Giulio Cesare. Le “lettere”, che affrontavano molteplici e vari temi, ebbero una vasta approvazione dimostrata dalle numerose edizioni, a partire già dal 1721, della pubblicazione che le raccoglieva e che fu titolata Cato’s Letters. Tra i coloni del nord America il testo di Trenchard e Gordon ebbe la massima diffusione, tanto da divenire «una sorta di breviario laico delle libertà politiche, economiche, religiose irrinunciabili per i cittadini dell’America nascente»75. Cfr. MURRAY N. ROTHBARD, Conceived in Liberty. Volume III. Advance To Revolution, 1760-1775, Ludwig von Mises Institute, Auburn (Alabama) 1999, p. 335-336. 73 Cfr. WILLIAM BLACKSTONE, Commentari delle leggi d’Inghilterra, in AA. VV., Antologia dei costituzionalisti inglesi, a cura di Nicola Matteucci, Il Mulino, Bologna 1962, p. 166-171. 74 Gli articoli comparsi sul London Journal, sull’Independent Whig e sul British Journal nella forma di “lettere” sono centotrentotto (settantasei furono scritte da Gordon, cinquantasei da Trenchard, sei da entrambi). 75 PAOLO ZANOTTO, Il movimento libertario americano dagli anni Sessanta ad oggi: radici storico-dottrinali e discriminanti 72 76 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 Rothbard76 era convinto che le Cato’s Letters, con i loro forti e chiari contenuti antistatalisti, avessero talmente influito sulla cultura americana da dover considerare tali scritti una delle più genuine e più incisive fonti ispiratrici dei coloni che presto avrebbero alimentato la rivolta contro gli arbitrî fiscali e contro la violazione delle libertà individuali: «oltre gli scrittori antichi, tre fonti furono molto frequentemente utilizzate e citate nell’America del Diciottesimo secolo, specialmente nella prima metà del secolo: Algernon Sidney, John Locke e Trenchard e Gordon, gli autori delle Cato’s Letters. Essi diedero un intenso contributo alla crescita e allo sviluppo del pensiero libertario in America»77. Va certamente fugata l’immagine di un paese rozzo e incolto; a dimostrarlo basterebbe la creazione delle prestigiose università78, la prima delle quali, quella di Harvard, appena quindici anni dopo che i Pilgrim Fathers avevano messo piede sul selvaggio suolo del New England. È sicuramente un pregiudizio quello che accompagna la cultura europea, ideologico-politiche, Università degli Studi di Siena, Siena 2001, p. 55. 76 Rothbard, negli anni Settanta del Novecento, partecipando in prima persona alla nascita del think tank libertario di Charles Koch (1935-viv.), volle rifarsi a Trenchard e Gordon nel battezzare “Cato Institute” il nuovo organismo culturale. 77 ROTHBARD, Conceived in Liberty. Volume II. "Salutary Neglect": The American Colonies in the First Half of the Eighteenth Century, cit., p. 188 («Apart from ancient writers, three sources were the most frequently cited and quoted in eighteenth-century America, especially in the first half of the century: Algernon Sidney, John Locke, and Trenchard and Gordon of Cato’s Letters. Each made a profound contribution to the growth and development of libertarian thought in America»). 78 Cfr. STARK, La vittoria della ragione. Come il cristianesimo ha prodotto libertà, progresso e ricchezza, cit., p. 330-333; cfr. PAOLO L. BERNARDINI, America. Un liberale guarda alla terra della libertà, Liberilibri, Macerata 2008, cap. 19. 77 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 responsabile di snobbare i costumi e la mentalità americana79. Pur tuttavia, sarebbe un errore ritenere che la ribellione contro il dominio britannico sia stato mosso più dalle idee teoriche che dalle necessità pragmatiche. Anche a fronte di una cultura che aveva saputo alimentarsi delle pagine di Sidney, di Locke, di Trenchard e Gordon, di Blackstone e che aveva saputo esprimere autori come Paine e Jefferson, l’indipendenza fu proclamata non per il gusto della novità o per l’ebbrezza dell’utopia, ma solo come estremo impegno per rispondere al dovere di conservare integra la propria libertà. Non furono tanto quegli autori ad insegnare la libertà, quanto la tassazione inglese a dare il senso di ciò che si sarebbe perso per sempre. A quegli autori spettò solo il compito di esplicitare e manifestare ciò che i coloni potevano limitarsi ad intuire e a percepire: «quando la libertà viene persa, la vita diventa precaria, sempre miserabile e spesso intollerabile»80. Cfr. DARIO CARONITI, Studi sul pensiero politico americano. Dalla nascita della nazione all’antiamericanismo cattolico, Aracne, Roma 2008, p. 16.18. 80 JOHN TRENCHARD - THOMAS GORDON, Cato’s Letters, Liberty Fund Inc., Indianapolis (Indiana) 2005, p. 267 («Where liberty is lost, life grows precarious, always miserable, often intolerable»; il testo manca nell’antologia in italiano). 79 78 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 Note e interventi 79 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 GIANANDREA DE ANTONELLIS* L’Islam per una nuova civiltà tradizionale? Considerazioni sul romanzo Sottomissione di Michel Houellebecq Indubbiamente la strage che ha falcidiato la redazione del settimanale «Charlie Ebdo» del 7 gennaio 2015 si è rivelata una inattesa fonte di pubblicità per il romanzo Sottomissione di Michel Houellebecq, allora appena edito in Francia (Flammarion, Paris 2015) e sul punto di essere pubblicato in Italia (Bompiani, Milano 2015). La vicenda parla di François, disincantato docente universitario quarantacinquenne, apprezzato studioso di Huysmans che vive di rendita intellettuale per la sua ponderosa tesi di dottorato e che passa la maggior parte del tempo (si reca ____________________ * Gianandrea de ANTONELLIS (1964) ha insegnato Letteratura italiana presso l’Università Europea di Roma e Letteratura cristiana e Storia della Chiesa presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Benevento. Tra le sue pubblicazioni la cura dell’edizione critica del cantare cinquecentesco Libro del Gigante Morante (2006), il contributo sulla permanenza del diritto longobardo in età comunale, in occasione del XVI Congresso internazionale di studi sull’alto medioevo, pubblicato in I Longobardi dei Ducati di Spoleto e Benevento (2003), la monografia Enrico Annibale Butti. L’Ibsen italiano (2012), la traduzione e la prefazione a Francisco Elias de Tejada, Napoli spagnola. Le Spagne argentee (2012). È capo redattore della rivista «Veritatis diaconia» ed è membro della redazione della rivista «StoriaLibera». 81 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 in università un solo giorno alla settimana) a chiedersi come riempire dal punto di vista sentimentale (eufemismo) la sua vuota esistenza. Siamo nel maggio 2022, durante le settimane delle elezioni presidenziali: i due candidati che accedono al ballottaggio sono Marine Le Pen, ampiamente prima con il 34% dei voti e Muhammad Ben Abbes, della Fratellanza Musulmana, che si attesta al 22%, superando di misura il candidato socialista. Contro il Fronte Nazionale, naturalmente, si compatta lo schieramento di sinistra, in nome del sempre utile antifascismo. Ad esso aderisce anche il partito di centro-destra, che con i suoi voti (12%) avrebbe potuto permettere l’elezione della Le Pen. Le urne portano all’Eliseo il primo presidente musulmano e il protagonista, che si era allontanato da Parigi per timore di scontri, al proprio ritorno si ritrova forzatamente pensionato (ma con un mensile equivalente allo stipendio). François vivrà per qualche tempo ai margini della società, fino a che non sarà ripescato per curare una edizione delle opere complete di Huysmans nella prestigiosissima collana della Pléiade delle edizioni Gallimard; quindi gli sarà proposto di riprendere l’insegnamento, in cambio dell’adesione all’Islam. Per François, che ha anche per un momento accarezzato l’idea di seguire il percorso dell’amato Huysmans, finendo i suoi giorni in un convento di trappisti, è più facile passare dal proprio agnosticismo alle comodità dell’islam piuttosto che al rigore del cattolicesimo tradizionale: accetta quindi di diventare musulmano, attratto soprattutto dalla prospettiva di uno stipendio da favola e dei piaceri della poligamia. Non a caso, il romanzo si chiude con la domanda rivolta al nuovo rettore ed eminenza grigia del presidente della repubblica: «Quale sarà il mio stipendio? A quante donne avrò diritto?»1, che sintetizza mirabilmente le vere ragioni della sua decisione di convertirsi. Non motivazioni spirituali, bensì un calcolo opportunistico basato esclusivamente sul sesso e sul denaro. 1 MICHEL HOUELLEBECQ, Sottomissione, Bompiani, Milano 2015, p. 247. 82 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 L’immarcescibile fronte antifascista A fianco di questa non esaltante vicenda di un “fallito di successo”, simile per impostazione ad altri romanzi di Houellebecq, anch’essi basati sulla miseria affettiva dell’uomo contemporaneo, vi sono una serie di riflessioni sulla realtà socio-politica del nostro tempo, sulle quali, prima che sulle qualità stilistiche dello scrittore, desideriamo soffermarci. Intanto lo sfondo è tutt’altro che assurdo: l’avanzata del Fronte Nazionale alle elezioni presidenziali nel 2017 vede coalizzarsi il vetusto fronte “antifascista” per riportare all’Eliseo uno spento Hollande («La stampa internazionale, basita, aveva potuto assistere allo spettacolo vergognoso, ma aritmeticamente ineluttabile, della rielezione di un presidente di sinistra in un paese sempre più dichiaratamente a destra»2); cinque anni più tardi lo stesso fronte si ricompatta per permettere l’ascesa del partito islamista, che altrimenti non avrebbe in numeri sufficienti per governare. Con grande “coerenza”, nei giorni cruciali che precedono il ballottaggio i media francesi riservano poco spazio all’imponente manifestazione del Fronte Nazionale, ma in compenso si affannano a dipingere il candidato islamico come un “moderato” i cui principi sono perfettamente in linea con quelli della Francia tradizionale: «Quanto alla restaurazione della famiglia, della morale tradizionale e, implicitamente, del patriarcato, davanti a lui [Muhammad Ben Abbes] si apriva un’autostrada che né i rappresentanti della destra né tantomeno quelli del Fronte nazionale potevano percorrere senza farsi dare dei conservatori o addirittura dei fascisti dagli ultimi sessantottini, mummie progressiste moribonde, sociologicamente esangui ma rifugiate nelle cittadelle mediatiche che continuavano a dar loro la possibilità di inveire contro i guasti dell’epoca e l’aria mefitica che pervadeva il paese; solo Ben Abbes era al riparo da qualsiasi pericolo. Paralizzata dal suo antirazzismo costitutivo, la sinistra era stata sin 2 Ivi, p. 46. 83 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 dall’inizio incapace menzionarlo»3. di combatterlo e anche solo di Un credibile panorama politico Per giungere ad un’alleanza elettorale, la sinistra ha un solo punto di frizione con gli islamici: la gestione del ministero dell’istruzione, da sempre roccaforte socialista: «Per loro [la Fratellanza Musulmana] l’essenziale è la demografia, e l’istruzione; il sottogruppo demografico che dispone del miglior tasso riproduttivo, e che riesce a trasmettere i propri valori, trionfa; per loro è tutto qua, l’economia e la stessa geopolitica non sono che fumo negli occhi: chi controlla i bambini controlla il futuro, stop. Perciò l’unico punto cruciale, l’unico punto sul quale vogliono assolutamente soddisfazione, è l’istruzione dei bambini»4. Invece, paradossalmente, il centro-destra non considera questo punto un reale motivo di scontro: «ciò che divide l’UMP [“Union pour un mouvement populaire”, coalizione di partiti moderati di ispirazione gollista fondata da Sarkozy] dalla Fratellanza musulmana è persino meno di ciò che la separa dal Partito socialista. […] La cosa sarà meno difficile per l’UMP, che è ancor più vicino alla disintegrazione, e che non ha mai dato la minima importanza all’istruzione, concetto che gli è pressoché estraneo»5. Houellebecq non risparmia strali ai politici, di centrodestra e di sinistra: per il presidente uscente Hollande si parla apertamente di «due quinquennati catastrofici»6, mentre per il cattolico progressista François Bayrou si afferma che «la cosa straordinaria di Bayrou, quella che lo rende insostituibile […] è che è perfettamente stupido, il suo progetto politico si è sempre limitato al personale desiderio di accedere con qualsiasi mezzo alla cosiddetta “carica suprema”; non ha mai avuto, e nemmeno Ivi, p. 132. Ivi, p. 73. 5 Ivi, p.126. 6 Ivi, p.101. 3 4 84 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 finto di avere, la minima idea personale – cosa molto rara di questi tempi. Questo lo rende l’uomo politico ideale per incarnare la nozione di umanesimo, tanto più che si crede Enrico IV7 e si spaccia per grande pacificatore del dialogo interreligioso; tra l’altro gode di una certa popolarità nell’elettorato cattolico, che si sente rassicurato dalla sua idiozia. È esattamente quello di cui ha bisogno Ben Abbes, che innanzitutto desidera incarnare un nuovo umanesimo, presentare l’islam come forma compiuta di un umanesimo inedito, unificatore, e che d’altronde è perfettamente sincero quando proclama il suo rispetto per le tre religioni del Libro»8. Ma anche il centro-destra viene bastonato: molto grave è l’affermazione sulla sua sudditanza politica all’Europa: «Il vero programma dell’UMP, così come quello del Partito socialista, è la scomparsa della Francia, la sua integrazione in un insieme federale europeo. I suoi elettori, chiaramente, non approvano questo obiettivo; ma da anni i dirigenti riescono a evitare di parlarne apertamente»9. La congiura del silenzio contro il Fronte Nazionale E che dire del Fronte Nazionale? Nonostante l’ampio seguito è messo in disparte dai media e ghettizzato nella provincia (tra parentesi: la provincialità della cultura francese – e la spocchia di quella parigina in particolare – è evidenziata da una frase del protagonista: «Conoscevo poco la Francia, in generale. Dopo un’infanzia e un’adolescenza trascorse a Maisons-Laffitte, periferia borghese per eccellenza, mi ero trasferito a Parigi, e non me n’ero più andato; non avevo mai realmente visitato quel paese del quale ero, in maniera un po’ teorica, cittadino»10) nella letteratura come nella realtà: colpisce ancora il rifiuto opposto dai “democratici” alla leader Marine Le Pen di sfilare nella manifestazione parigina dell’11 gennaio. Per L’allusione risulta ancor più sferzante se si pensa che François Bayrou ha scritto una biografia del Re per cui Parigi valeva bene una messa (Henri IV : Le roi libre, Flammarion, Paris 1994). 8 M. HOUELLEBECQ, op. cit., p. 131. 9 Ivi, p. 125-126. 10 Ivi, p. 109-110. 7 85 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 la “cultura” che conta, quella dei salotti mediatici e delle stanze del potere, un Francese su quattro (uno su tre nel 2022) semplicemente non esiste. E, tornando al romanzo, poiché il Fronte Nazionale viene cancellato dai media, dopo la vittoria l’opposizione è appannaggio, più che della sinistra, degli estremisti salafiti, che pretendono l’introduzione della sharia11. Dal canto suo, il governo musulmano riconosce la bontà del distributivismo cattolico, paradossalmente riprendendo le teorie di due oppositori del colloquio tra le religioni come Chesterton e Belloc12. E Houllebecq, che en passant ha messo in bocca al suo protagonista un rimpianto per l’epoca in cui il divorzio non esisteva («Adesso Bruno e Annelise avevano sicuramente divorziato, ormai era così che andavano le cose; un secolo prima, all’epoca di Huysmans, sarebbero rimasti insieme, e forse non sarebbero stati così infelici, tutto sommato»13) riconosce il valore fondamentale della famiglia: «l’individualismo liberale era tanto destinato a trionfare finché si limitava a dissolvere quelle strutture intermedie che erano le patrie, le corporazioni e le caste, quanto, aggredendo quella struttura ultima che era la famiglia, e quindi la demografia, firmava il suo fallimento finale; a quel punto, logicamente, arrivava il momento dell’islam»14. Possibile che non esista una forte opposizione nazionalista? Esiste, ma è divisa. Impietoso il giudizio dell’autore – messo in bocca ad un docente che ne ha fatto parte: «in realtà il Blocco identitario era tutto fuorché un blocco, era diviso in varie fazioni che si capivano male e s’intendevano peggio: cattolici, solidaristi collegati con “Terza via”, realisti, neopagani, laici duri e puri venuti dall’estrema sinistra… Ma tutto è cambiato con la nascita degli Indigeni europei. […] Per riassumere la loro tesi, la trascendenza è un vantaggio selettivo: le coppie che si riconoscono in una delle tre Cfr. ivi, p. 172 Cfr. ivi, p. 173. 13 Ivi, p. 83. 14 Ivi, p. 229. 11 12 86 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 religioni monoteistiche, che hanno preservato i valori patriarcali, hanno più figli rispetto alle coppie atee o agnostiche; le donne sono meno istruite, l’edonismo e l’individualismo meno pregnanti. Tra l’altro la trascendenza è, in grande misura, un carattere geneticamente trasmissibile: le conversioni, o il rifiuto dei valori familiari, hanno una rilevanza molto marginale; nella stragrande maggioranza dei casi, le persone restano fedeli al sistema metafisico nel quale sono state educate. Pertanto l’umanismo ateo, sul quale poggia il “vivere insieme” laico, non resisterà a lungo, la percentuale della popolazione monoteista è destinata ad aumentare rapidamente, specie nel caso della popolazione musulmana – e questo senza tener conto dell’immigrazione, che accentuerà ulteriormente il fenomeno. Per gli identitari europei è assodato in partenza che tra i musulmani e il resto della popolazione debba necessariamente, presto o tardi, scoppiare una guerra civile. La loro conclusione è che, se vogliono avere una speranza di vincerla, gli conviene che questa guerra scoppi il più presto possibile – in ogni caso prima del 2050, preferibilmente molto prima»15. Il riconoscimento (postumo) alla Chiesa: l’applicazione del principio di sussidiarietà Oltre all’introduzione del distributivismo, il nuovo regime si distingue per la lotta alla criminalità (non si spiega bene come: è lecito immaginare una tensione in precedenza rinfocolata ad arte nelle banlieues? Oppure alla debolezza dei giudici paurosi di punire i colpevoli ed al conseguente timore reverenziale delle forze di polizia nei confronti dei criminali?) e alla disoccupazione, quest’ultima vinta grazie all’uscita delle donne dal mercato del lavoro e dalla «notevole rivalutazione dei sussidi familiari»16; abbassato l’obbligo scolastico alle medie inferiori, incoraggiato l’artigianato e lasciato l’insegnamento superiore ai privati secondo il principio di sussidiarietà17 Ivi, p. 61-63. Ivi, p. 171. 17 Cfr. ivi, p. 180: «Secondo tale principio, nessuna entità (sociale, economica o politica) doveva farsi carico di funzioni affidabili a entità più 15 16 87 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 (citando direttamente il testo dell’enciclica Quadragesimo anno di Pio XI), l’autore immagina una Francia molto meno lontana dall’ideale cattolico di quanto si sarebbe temuto: «Tutte queste riforme miravano a “restituire il suo posto e la sua dignità alla famiglia, cellula di base della nostra società”»18. Riconoscimento – va aggiunto – in un certo senso “postumo” perché l’adozione della dottrina sociale della Chiesa non era assolutamente dovuta alla necessità di accattivarsi l’elettorato di matrice cattolica19. Certo, con un siffatto finale che descrive una apprezzabile “pax islamica” Houellebecq ha evitato di farsi bollare come anti-islamico e può continuare a girare tranquillo per Parigi. Quello che descrive è una sorta di “catto-islamismo” o meglio di islamismo “ecumenico”, giustificato dal guenonismo imposto da Rediger, l’eminenza grigia del presidente (Rediger è anche un ex nicciano e vale la pena riportare a tal proposito un aforisma di Houellebecq: «Invecchiando, anch’io mi riavvicinavo a Nietzsche, com’è senz’altro inevitabile quando si hanno problemi di idraulica»20). piccole. Papa Pio XI, nella sua enciclica Quadragesimo anno, dava una definizione di detto principio: “Come è illecito togliere all’individuo e affidare alla comunità ciò che l’impresa privata e l’industria sono in grado di realizzare, così è una grossa ingiustizia, un grave danno e uno sconvolgimento del retto ordine che una maggiore e più alta società si arroghi le funzioni che possono essere svolte con efficacia da comunità minori e inferiori”. Nella fattispecie, Ben Abbes si era appena accorto che la nuova funzione di cui l’attribuzione a un livello troppo alto “sconvolgeva il retto ordine” non era altro che la solidarietà sociale. Cosa c’è di più bello, si era commosso Ben Abbes nel suo ultimo discorso, della solidarietà esercitata nell’ambito caloroso della cellula familiare?… In quella fase, l’“ambito caloroso della cellula familiare” era ancora ampiamente un programma; ma, più in concreto, il nuovo progetto del bilancio statale prevedeva nel triennio una diminuzione dell’85 per cento della spesa sociale del paese». 18 Ivi, p. 171, il virgolettato è una frase di Ben Abbas. 19 «In Francia i cattolici erano praticamente scomparsi», ivi, p. 132. 20 Ivi, p. 231. Più seriamente, Houellebecq scrive: «In un altro articolo, Rediger si dichiarava nettamente in favore di una suddivisione nient’affatto egualitaria delle ricchezze. Se la povertà propriamente detta andava esclusa da una società musulmana autentica (il sostegno con l’elemosina costituendo addirittura uno dei cinque pilastri dell’islam), quest’ultima doveva comunque mantenere un notevole scarto tra la grande massa della 88 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 Il nuovo Islam tra Nietzsche e Guénon Quella dello scrittore francese può essere considerata una provocazione, una provocazione intelligente, peraltro, soprattutto se depurata delle eccessive descrizioni delle avventure “galanti” (altro eufemismo) del protagonista. All’avanzata dell’islamismo non riesce ad opporre resistenza né il mondo della sinistra, né quello della destra, troppo diviso e senza chiari punti di riferimento; l’ex (ma non poi tanto) nicciano passato all’Islam sostiene che il solo fascismo, senza l’apporto cattolico, non può sorreggere il nazionalismo: «Ho sempre considerato i fascismi come un tentativo spettrale, da incubo e fallace di ridar vita a nazioni morte; senza la cristianità, le nazioni europee non erano più che corpi senza anima – zombie»21, ma si fa musulmano quando si rende conto del suicidio dell’Europa («se la Francia e la Germania, le due nazioni più avanzate, le più civili del mondo, potevano abbandonarsi a quella carneficina insensata, significava che l’Europa era morta»22, dice a proposito della prima guerra mondiale), suicidio inverato per lui nella chiusura del bar dell’hotel Métropole di Bruxelles «il massimo dell’arredamento Art Nouveau»23. D’altro canto, anche il protagonista, pur non essendo un esteta come il rettore Robert Rediger o come Huysmans, percepisce il decadimento, tra l’altro, nell’avanzare della nuova architettura sacra: «La chiesa moderna, costruita nella cinta del monastero, era di sobria bruttezza – richiamava un po’, per l’architettura, il centro commerciale Super-Passy di Rue de l’Annonciation – e le sue vetrate, semplici chiazze astratte e colorate, non meritavano alcuna attenzione; ma tutto ciò non popolazione, vivente in una miseria decorosa, e una ridottissima minoranza di individui smodatamente ricchi, tanto da potersi abbandonare a spese esagerate e folli che assicurassero la sopravvivenza del lusso e delle arti. Una posizione aristocratica che derivava, in questo caso, direttamente da Nietzsche; in fondo, Rediger era rimasto fedele ai pensatori della sua giovinezza» (p. 230). 21 Ivi, p. 216. 22 Ivi, p. 218. 23 Ivi p. 217. 89 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 aveva molta importanza ai miei occhi: non ero un esteta, infinitamente meno di Huysmans, e l’uniforme bruttezza dell’arte religiosa contemporanea mi lasciava pressoché indifferente»24. François, leggendo alcuni scritti di Rediger, gli perdona il passato nicciano, dato che, in fondo, «nel XX secolo tanti intellettuali avevano sostenuto Stalin, Mao o Pol Pot senza che questo venisse mai loro realmente rimproverato; in Francia l’intellettuale non era tenuto a essere responsabile, non era nella sua natura»25, ma nota come il suo articolo sia «un plateale ammiccamento ai suoi ex camerati tradizionalisti e identitari. Era tragico, sosteneva con fervore, che un’irragionevole ostilità nei confronti dell’islam impedisse loro di riconoscere un fatto evidente: sulle cose essenziali erano in perfetto accordo con i musulmani. Sul rifiuto dell’ateismo e dell’umanesimo, sulla necessaria sottomissione della donna, sul ritorno al patriarcato: la loro battaglia, da tutti i punti di vista, era esattamente la stessa. Tale battaglia, necessaria per l’instaurazione di una nuova fase organica di civiltà, ormai non poteva più essere condotta in nome del cristianesimo; era l’islam, religione sorella, più recente, più semplice e più vera (perché, infatti, Guénon si era convertito all’islam? Guénon era innanzitutto una mente scientifica, e aveva scelto l’islam da scienziato, per economia di concetti; e altresì per evitare certe marginali credenze irrazionali, come la presenza reale nell’eucaristia), era dunque l’islam, oggi, ad aver preso il testimone. A furia di moine, smancerie e vergognosi strofinamenti dei progressisti, la chiesa cattolica era diventata incapace di opporsi alla decadenza dei costumi. Di rifiutare decisamente ed energicamente il matrimonio omosessuale, il diritto all’aborto e il lavoro delle donne. Bisognava arrendersi all’evidenza: giunta a un livello di decomposizione ripugnante, l’Europa occidentale non era più in grado di salvare se stessa – non più di quanto lo fosse stata la Roma del V secolo della nostra era. Il massiccio arrivo di popolazioni immigrate fedeli a una cultura 24 25 Ivi, p. 186. Ivi, p. 229. 90 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 tradizionale ancora modellata sulle gerarchie naturali, sulla sottomissione della donna e sul rispetto dovuto agli anziani, costituiva un’occasione storica per il riarmo morale e familiare dell’Europa, creava la possibilità di una nuova età dell’oro per il Vecchio Continente. Quelle popolazioni erano in certi casi cristiane; ma più spesso, bisognava riconoscerlo, erano musulmane. Era lui, Rediger, il primo a riconoscere che la cristianità medievale era stata una grande civiltà, i cui risultati artistici sarebbero rimasti eternamente vivi nella memoria degli uomini; ma a poco a poco aveva perso terreno, aveva dovuto venire a patti con il razionalismo, rinunciare ad annettersi il potere temporale, finendo per condannarsi all’insignificanza, e questo perché? In fondo, era un mistero: Dio aveva deciso così»26. Islam: comunismo del XXI secolo o cristianesimo del nuovo millennio? C’è chi ha proposto di invertire il detto «il comunismo è l’Islam del XX secolo»27 aggiornandolo a «l’Islam è il comunismo del XXI secolo»28, per la sua valenza ideologica (ma c’è anche chi propone il paragone a causa dei milioni di morti Ivi, p. 233-234. Corsivo nostro. La frase deriva dal titolo di un saggio postumo di Jules Monnerot (1908-1995): L’Islam du XXe siècle (2004), primo volume dell’imponente Sociologie du communisme (prima edizione: Gallimard, Paris 1949). 28 «Se il comunismo è stato definito l’Islam del XX secolo, per il suo totalitarismo secolarista, l’Islam può essere definito a sua volta il comunismo del XXI secolo per il suo totalitarismo religioso, che unisce Chiesa e Stato, fede e politica». ROBERTO DE MATTEI, Chiesa e Stato: divisione o armonia dei ruoli e delle responsabilità?, in «Radici Cristiane», novembre 2009. Tra gli altri studiosi che hanno più o meno esplicitamente affermato questo concetto vanno ricordati BAT YE’OR, Eurabia. Come l’Europa è diventata anticristiana, antioccidentale, antiamericana, antisemita, Lindau, Torino 2007; ALEXANDRE DEL VALLE, Verdi, rossi, neri. L’alleanza fra l'islamismo radicale e gli opposti estremismi, Lindau, Torino 2009; ROBERT SPENCER, Guida (politicamente scorretta) all'Islam e alle crociate, Lindau, Torino 2008; nonché ILICH RAMIREZ SANCHEZ [alias Carlos “lo Sciacallo”], L’Islam révolutionnaire, a cura di Jean-Michel Vernochet, Editions du Rocher, Monaco 2003. 26 27 91 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 provocati nei secoli da questa religione che ci si continua ostinatamente a considerare “essenzialmente pacifica”29). Houellebecq compie un interessantissimo parallelo tra Islam e comunismo, prima sottolineando l’onnipresenza di quest’ultimo nella cultura politica europea dopo la seconda guerra mondiale: «Tutto il dibattito intellettuale del XX secolo si era riassunto in un’opposizione tra il comunismo – la variante hard, diciamo così, dell’umanesimo – e la democrazia liberale – la sua variante morbida»30 e quindi affermando il loro comune disegno egemonico: «Tornava ancora una volta sul fallimento del comunismo […] per sottolineare che alla fine Trockij aveva avuto ragione rispetto a Stalin: il comunismo non avrebbe potuto trionfare che a condizione d’essere mondiale. La stessa regola, ammoniva Rediger, valeva per l’islam: doveva essere universale, altrimenti non sarebbe stato»31. Inoltra, denuncia il tentativo di trasbordo dal comunismo all’islamismo, una volta constato il fallimento dell’ideologia marxista: «l’islamosinistrismo […] era un tentativo disperato dei marxisti decomposti, putrefatti, in stato di morte clinica, di tirarsi fuori dalle pattumiere della storia aggrappandosi alle forze crescenti dell’islam»32. L’Islam, a dispetto di ogni considerazione sul suo passato, viene proposto quindi come nuovo cristianesimo o, meglio, come nuovo propulsore di una futura società come quella 29 «Sommando tutte queste cifre si giunge alla conclusione che dal settimo secolo a oggi approssimativamente 270 milioni di “infedeli” sono morti per la gloria politica dell’islam: un numero di vittime che probabilmente supera quelle del comunismo, e che fa dell’islam la più grande macchina di oppressione e di sterminio della storia». GUGLIELMO PIOMBINI, L’islam, una micidiale macchina di oppressione, postfazione a MARCO CASETTA, Il grande tradimento. Come intellettuali e politici illiberali favoriscono la conquista islamica dell'Europa, Facco Editore, Treviglio (Bergamo) 2009 (ebook). 30 M. HOUELLEBECQ, op. cit., p. 215. Evidentemente, a voler parlare di dibattito intellettuale per l’intero XX secolo e non per la sola sua seconda metà, si deve considerare il Fascismo come prassi e non mero gioco intellettuale. 31 Ivi, p. 232. 32 Ivi, p. 231. 92 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 cristiana che aveva reso grande l’Europa nel Medioevo? Se Houellebecq può permettersi di non dare una risposta diretta – il suo è un romanzo, non un saggio – sicuramente è palese la mancanza di una presa di posizione netta sui punti fondamentali del diritto naturale, almeno da parte di molti esponenti dell’attuale Chiesa cattolica post-conciliare, troppo preoccupati a “rincorrere il mondo” e a “piacere a tutti” per farsi baluardo dei principi tradizionali. E, mentre – tornando al romanzo – il Belgio è la seconda nazione ad islamizzarsi («mentre i partiti nazionalisti fiammingo e vallone, di gran lunga le prime formazioni politiche nelle rispettive regioni, non erano mai riusciti a intendersi e nemmeno a instaurare un vero dialogo, i partiti musulmani fiammingo e vallone, sulla base di una religione comune, avevano facilmente raggiunto un accordo di governo»33) e si profila l’Eurabia profetizzata da Bat Ye’or34, conviene concludere ricordando l’esergo dell’ultimo capitolo, certo inserito non a caso: «Se l’islam non è politico, non è niente»35. Firmato: Ayatollah Khomeyni. Perché è vero che esiste un Islam moderato, con il quale è possibile dialogare, come è stato più volte ricordato36, ma è anche vero che, sia a livello percentuale, sia come forza economico-politica, conta assai poco, succubo com’è dell’estremismo islamista. Ivi, p. 236. La saggista è espressamente citata a p. 136. 35 Ivi, p. 189. 36 Per tutti cfr. ALFREDO MANTOVANO, Come affrontare l'emergenza dopo Parigi, in La Nuova Bussola Quotidiana, 10 gennaio 2015: «Va messo da parte il buonismo di chi pensa che nel confronto con i fedeli dell’islam il problema siamo noi e non loro, ma anche il radicalismo di chi afferma che tutti i musulmani sono terroristi. È un’illusione immaginare di sconfiggere il terrorismo senza un collegamento organico con le comunità islamiche presenti in Italia non connotate da tendenze ultrafondamentaliste» [url consultato il 24.01.2015]. 33 34 93 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 ALBERTO ROSSELLI* L’olocausto armeno (1914-1918). A cento dal genocidio Storia di un genocidio per certi versi dimenticato che coinvolse tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo più di un milione di persone, colpevoli soltanto di appartenere ad un’etnia e cultura diverse e di professare un culto di minoranza. L a grande persecuzione avviata tra il 1915 e il 1918 dalla Turchia nei confronti del popolo armeno rappresentò il primo tentativo di genocidio sistematico dell’epoca contemporanea perpetrato ai danni di una delle più antiche minoranze etniche della regione anatolico-caucasica. E questa campagna di eliminazione, che per motivi non ancora del tutto chiari non ha mai goduto della giusta attenzione da parte degli storici e dei politologi italiani, fu in larga misura il risultato concreto dell’adozione di un’ideologia scopertamente razzista, le cui radici non affondano soltanto nel credo nazionalista del Partito dei Giovani Turchi, ma anche – particolare meno noto – ____________________ * Alberto Rosselli è laureato in Scienze Politiche e in Storia e Filosofia è scrittore e saggista in campo storico, storico-militare, geopolitico e religioso. È giornalista e collabora con diversi periodici nazionali ed esteri. Partecipa a trasmissioni radiofoniche e televisive non solo italiane in qualità di consulente ed esperto di storia e geopolitica. È autore di numerose pubblicazioni, tra libri, servizi ed articoli, ed ha ricevuto diversi riconoscimenti, soprattutto per i suoi saggi storici. 94 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 nell’insofferenza e nell’odio manifestato dalla seconda, grande minoranza etnica dell’Impero Ottomano, quella curda. Ma andiamo per ordine e cerchiamo di capire le motivazioni e la genesi di uno dei più orribili e meno pubblicizzati fenomeni di intolleranza etnico-religiosa verificatisi nel corso dei secoli. Il genocidio degli armeni, portato a compimento dai nazionalisti, sedicenti “modernisti”, i Giovani Turchi, tra il 1915 e il 1918, non rappresenta che l’apice, e il completamento tecnico e scientifico, di una lunghissima campagna di persecuzioni e discriminazioni iniziata in Turchia vent’anni prima, tra il 1894 e il 1896, sotto il sultanato di Abd ul-Hamid. E in tali massacri, che suscitarono indignazione – se non orrore – in Europa occidentale e nella Russia zarista legata per motivi religiosi alla nazione armena, si poterono individuare i prodromi di una ben più sistematica “risoluzione finale”1. La La storia del popolo armeno ha radici profonde. Gli armeni, intesi come etnia, derivano da una commistione, avvenuta in tempi remoti, tra elementi indoeuropei (gli “armenoi” che sia Erodoto che Eudossio collegano ai Frigi) ed elementi asianici o anatolici, cioè quelle popolazioni che in antichità abitavano la parte orientale della penisola anatolica, e che non appartengono né al ceppo semita né a quello indoeuropeo. La prima apparizione degli armeni sul palcoscenico della storia avviene, molto probabilmente, nel VII secolo a.C. quando gli attacchi e le migrazioni dei cimmeri, degli sciti e dei medi da un lato e le pressioni degli assiri dall’altro, contribuirono alla caduta del regno di Urartù (Ararat, secondo gli scritti biblici). Da quel periodo, gli armeni, la cui lingua era di origine indoeuropea, si stabilirono nella regione del lago Van (Anatolia orientale), assumendo con rapidità una netta ed autonoma fisionomia culturale. Gli armeni, che si autodefiniscono haik (dal nome di un loro leggendario eroe nazionale) sono soliti chiamare la propria terra Hayastan. Inizialmente vassalli dei medi e dei persiani, gli armeni cercarono di rendersi indipendenti sotto Tigrane il Grande (I secolo a.C.) entrando a fare parte prima dell’Impero Romano (e successivamente di quello bizantino) e sasanide. Verso la fine del III secolo, gli armeni si convertirono al cristianesimo che ancora oggi rappresenta l’elemento fondamentale della loro autocoscienza etnica: peculiarità che ha assicurato a questo popolo l’odio di tutte le popolazioni anatoliche 1 95 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 mussulmane. Dal 639 d.C. gli armeni furono dominati dagli arabi. Prima dal califfo Uthman (645) e poi dalla dinastia degli Omayyadi, la cui dominazione fu più volte spezzata da violente rivolte. Dopo la pesante sconfitta subita dai bizantini ad opera dei persiani a Manzikerk (1071), la regione armena cadde sotto il dominio dell’Impero selgiuchide. Sudditi dell’Impero Ottomano a partire dalla fine del XIV secolo, gli armeni furono costretti ad adottare la lingua turca, pur conservando la propria compattezza etnico-culturale grazie alla specificità religiosa. Dopo la conquista di Costantinopoli da parte dei turchi (1453), Maometto II il Conquistatore chiamò a sé nella capitale il vescovo armeno di Brussa (Bursa), elevandolo alla dignità di patriarca, con prerogative pari a quelle del patriarca grecoortodosso. Nasceva così ufficialmente il millet, o nazione degli armeni, che assunse presto grande importanza, soprattutto economica e culturale, in seno all’impero. La comunità armena forniva infatti ai sultani banchieri, imprenditori, mercanti, funzionari, ministri, contribuendo molto alla rinascita economica di un Impero sostanzialmente incapace, attraverso la classe di potere mussulmana, di badare al suo ammodernamento interno. Fino dal XII secolo diversi missionari cattolici inviati in Anatolia dal Papa cercarono di convincere gli armeni ad abbandonare la Chiesa ortodossa e questa politica (mal tollerata dagli ottomani) venne intensificata dopo il Concilio di Firenze (1438-1445) e sotto Sisto V, fino a raggiungere un significativo successo con la conversione, ad opera dei gesuiti, di Mechitar (Sivas 1675 - Venezia 1749), fondatore dell’Ordine da cui prende il nome e che ha sede nell’isola veneziana di San Lazzaro. Gli armeno-cattolici, perseguitati a più riprese dalle autorità ottomane e criticati dagli armeno-ortodossi, cercarono e spesso ottennero l’appoggio di potenze occidentali, prima fra tutte la Francia che nel 1866 ottenne che questa minoranza armena venisse inquadrata e tutelata sotto un’organizzazione ecclesiastica separata: il patriarcato armeno-cattolico di Cilicia. In ogni caso, fino verso la metà del XIX secolo, la nazione armena, nel suo complesso, fu considerata dagli ottomani alla stregua di una minoranza “leale” nei confronti del potere centrale di Costantinopoli, anche se, nell’ultimo scorcio dell’Ottocento, l’intensificarsi della contrapposizione diplomaticomilitare tra l’Impero Ottomano e quello Russo e i sempre più frequenti attacchi delle minoranze curde e circasse di recente immigrazione (appoggiate più o meno apertamente da 96 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 persecuzione contro gli armeni da parte degli ottomani va vista come il risultato di complessi processi storici, accelerati dagli avvenimenti che tra la seconda metà del XIX secolo e i primi tredici anni del XX determinarono lo sgretolamento del potere ottomano in Africa Settentrionale e nei Balcani. Dopo avere perso, in seguito alla guerra con l’Italia del 1911-1912 e alla Prima Guerra Balcanica (1913) gran parte dei suoi ultimi possedimenti (Libia, Albania, Macedonia e Isole dell’Egeo), il governo ottomano, temendo la completa dissoluzione dell’Impero (che comprendeva oltre che l’intera penisola anatolica, anche i territori corrispondenti all’attuale Siria, Libano, Irak, Israele e alle regioni della penisola araba occidentale e meridionale dell’Hegiaz, dell’Asir e dello Yemen) assunse un atteggiamento sempre più nazionalista, accentratore e razzista nei confronti di quelle minoranze (come quella greca, bulgara, ebraica, beduina e armena) nelle quali intravedeva pericolosi e destabilizzanti elementi di diversità e frammentazione nocivi all’unità del traballante Impero. E in quest’ottica, la minoranza armena fu quella a destare i maggiori sospetti prima da parte del Sultano Hamid e in seguito da parte del Movimento dei Giovani Turchi di Enver Pascià. La ragione stava innanzitutto sui legami, ai quali si è già accennato, tra la nazione armena e il più acerrimo avversario dell’Impero Ottomano, cioè quello Russo, che già fino dai tempi di Pietro il Grande (1682-1725) e di Nicola I (1825-1855) aveva apertamente parteggiato per le minoranze slave balcaniche, caucasiche e armene cristiane sottoposte alla potestà d’imperio turca. Senza contare che, dalla fine del XVII e quella del XIX secolo, la Russia aveva intrapreso diverse guerre contro i turchi per strappare loro territori sempre più vasti e strategici, sia nell’area del Mar Nero che in quella caucasica e persiana settentrionale. Anzi, si può dire che fu proprio uno di questi ultimi, duri conflitti, cioè la Guerra russo-turca del 1877-1878, a fare emergere in maniera eclatante ed incontestabile l’insopportabile situazione di soggezione nella quale viveva la Costantinopoli) convinsero i sultani a comprimere sempre di più i diritti elementari dell’intera etnia armena. 97 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 minoranza armena, e non solo quella. Infatti, fu proprio in seguito agli eccidi perpetrati nel 1876 dai turchi nei confronti dei bulgari, che le armate dello zar invasero i Balcani costringendo infine Costantinopoli ad una resa umiliante. A guerra finita, i russi imposero ai turchi, attraverso il Trattato di Santo Stefano, di cedere diverse aree dell’Anatolia nord settentrionale e, nel contempo, di garantire il rispetto e la salvaguardia della minoranza armena e bulgara. Tuttavia, il Trattato di Santo Stefano, non divenne mai del tutto operativo, in buona parte a causa delle pressioni esercitate dal Primo Ministro inglese Benjamin Disraeli, ostile ad una eccessiva espansione politica e militare russa soprattutto sui Balcani. In forza dell’intervento di altre potenze occidentali (come la Francia e la Prussia) ostili anch’esse alla Russia, il trattato venne così parzialmente modificato, con l’eliminazione della clausola relativa alla tutela dell’“autonomia armena”. Nonostante le proteste dei rappresentanti della minoranza armena che si recarono anche nelle capitali estere per fare valere i loro diritti sanciti dal trattato, nessuna potenza volle intervenire con decisione in loro favore per rigide “ragioni di Stato”, anche se l’articolo 61 del successivo Trattato di Berlino del 1878 garantiva, almeno formalmente, la tutela fisica degli armeni. Di questa situazione ne approfittò naturalmente il Sultano Abd ul-Hamid che poco dopo soppresse la fragile Costituzione concessa nel 1876, abolendo tutte le libertà più elementari e costituendo nel contempo un’efficientissima polizia segreta incaricata di arrestare tutti i membri del neonato Movimento Indipendentista Armeno. Il Sultano incoraggiò inoltre le tribù curde mussulmane ad emigrare verso le tradizionali zone rurali armene della Turchia orientale. I curdi, appoggiati dalla Polizia Segreta e dall’Esercito Ottomano, iniziarono ad insediarsi nella regione, scacciando con la forza gli armeni dalle loro abitazioni e dai loro campi. Costretti alla fuga, gli armeni furono quindi obbligati a trasferirsi sempre più a nord est in direzione delle regioni caucasiche russe, venendo subito accusati dai turchi di connivenza con il nemico zarista. La situazione precipitava. E nel tentativo di difendersi da quei continui soprusi, alcuni coraggiosi esponenti della 98 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 minoranza cristiana iniziarono a creare diversi gruppi politici e società segrete, tra cui l’Armenakan (1885), il partito socialdemocratico Hunchak (1887) e il movimento estremista Dashnak (1890). Ma la risposta del Sultano non si fece attendere. Il despota di Costantinopoli organizzò i membri delle tribù curde nei cosiddetti reggimenti di cavalleria Hamidye: autentiche bande armate di predoni che ben presto, sempre con la connivenza dell’esercito turco, iniziarono a perseguitare e a massacrare quelle migliaia di armeni che si erano rifugiati nelle vallate dell’Anatolia Orientale. Ma se gli armeni rimasti in Anatolia se la passavano male, anche quelli che erano riusciti a rifugiarsi in Russia dopo la Guerra turco-russa del 1877-1878 non poterono certo dirsi in salvo. In seguito all’assassinio dello zar Alessandro II (1881), il primo ministro liberale di origine armena Loris Melikov, dovette rassegnare immediatamente le dimissioni, in quanto ritenuto incapace di governare il sempre crescente malcontento e le sommosse dei nazionalisti georgiani e armeni del Caucaso, proprio quelle contro le quali Alessandro II e Nicola II erano in rotta. Dalla destituzione di Melikov, quindi, i successivi governi di San Pietroburgo iniziarono a distaccarsi dalle drammatiche vicende che vedevano coinvolta la minoranza armena sotto il giogo ottomano. Addirittura, nel 1903, lo zar Nicola II tentò di confiscare le proprietà della Chiesa Nazionale Armena e a chiudere le scuole e le altre istituzioni della Transcaucasia russa. Forte dell’indiretto sostegno fornito dal tradizionale ed acerrimo nemico, e confidando nell’appoggio del kaiser tedesco Guglielmo II desideroso di appoggiare la Turchia in funzione anti-inglese e anti-francese, il Sultano Abd ul-Hamid alzò il tiro contro l’odiata minoranza, approfittando, tra l’altro, di alcuni gravi attentati compiuti, tra il 1890 e il 1894, dalle frange estreme del Movimento Indipendentista Armeno. Ma l’inizio del vero confronto armato tra armeni e governo ottomano venne provocato nel 1894, quando un affiliato del Hunchak, un certo Murat, convinse le popolazioni di montagna armene del distretto di Sassun a rifiutarsi di pagare ai capi curdi locali l’odioso hafir, o contributo per la protezione. L’hafir era in realtà una forma di estorsione regolarizzata dal governo turco 99 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 a tutto beneficio delle bande curde che in questo modo potevano arricchirsi alle spalle dei contadini e dei montanari armeni. L’11 marzo 1895, Gran Bretagna, Francia e Russia cambiarono improvvisamente atteggiamento e intimarono al Sultano di allentare la morsa e di concedere almeno una forma di seppur limitata autonomia alle sei province dell’Armenia turca. La richiesta venne naturalmente respinta da Hamid che per contro intensificò la sua politica repressiva nei confronti dei sudditi cristiani, arrivando a compiere vere e proprie stragi, anche nelle principali città dell’Impero. Secondo precise testimonianze scritte dell’epoca vergate da diplomatici italiani, francesi, inglesi e americani, in più di un’occasione, le truppe turche e curde saccheggiarono villaggi, rubarono bestiame, violentarono donne e bambini e costrinsero i prelati armeni a riunirsi nelle loro chiese alle quali appiccarono fuoco dopo averne inchiodato le porte. Tra il 1894 e il 1896, secondo cifre attendibili, le forze ottomane e curde eliminarono nei modi più barbari dai 200 ai 250.000 armeni. Questa ondata di violenza raggiunse livelli tali da indurre diversi Stati, soprattutto l’Inghilterra di Gladstone, la Francia e gli Stati Uniti, ad invocare la destituzione del Sultano: manovra che pur essendo condivisa in linea di principio anche dalla Russia, preoccupava non poco lo zar Nicola II, timoroso che i governi di Londra e di Parigi (che nutrivano da tempo chiare mire espansionistiche sull’area mediorientale ottomana) potessero in qualche modo approfittare del vuoto di potere che si sarebbe venuto a creare a Costantinopoli. Dal canto suo, il kaiser Guglielmo II, che nel 1889 aveva già effettuato una visita di Stato nella capitale del Bosforo, decise invece di mantenere un atteggiamento addirittura amichevole nei confronti del Sultano, al punto da fargli nuovamente visita nel 1898. L’atteggiamento del kaiser scaturiva da ben precise considerazioni di carattere politico ed economico. Guglielmo II era infatti desideroso di portare a termine uno dei suoi progetti più ambiziosi, la costruzione della linea ferroviaria Berlino-Baghdad: un’arteria che, una volta ultimata, avrebbe consentito alla Germania di intensificare i suoi scambi commerciali con la Turchia e, soprattutto, di permettere all’Impero tedesco di allargare la sua sfera di 100 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 influenza verso il Medio Oriente e la Mesopotamia centromeridionale, cioè in direzione del Canale di Suez e dei giacimenti petroliferi del Golfo Persico. L’ultimo decennio del lungo regno di Abd ul-Hamid fu caratterizzato da una situazione politica molto incerta e da enormi difficoltà economiche. Nel 1898 il sultano fu costretto a lasciare sotto il controllo internazionale l’isola di Creta. E proprio in quel periodo, in alcuni circoli di Salonicco, un gruppo di giovani ufficiali dell’esercito, i Liberi Massoni, assieme ad alcuni esiliati politici turchi confluiti nella società segreta di Unione e Progresso, stavano mettendo a punto una nuova ideologia rivoluzionaria che sarebbe poi sfociata del Movimento dei Giovani Turchi, che aveva come obiettivo il rovesciamento del sultano e l’avvio di un ambizioso, rapido e radicale processo di modernizzazione socio-politica, economica e culturale dell’Impero. La rivolta scoppiò nel 1908, a Monastir, quando il comandante in capo turco della Macedonia settentrionale venne assassinato da un gruppo di ufficiali ribelli. Il 23 luglio dello stesso anno, il Comitato Centrale di Unione e Progresso intimò al Sultano di ripristinare immediatamente la Costituzione del 1876 (da lui soppressa nel 1878), intimando che in caso di rifiuto l’intero Terzo Corpo d’Armata turco, ormai sotto controllo degli ufficiali “modernisti”, avrebbe marciato su Costantinopoli. Il Sultano questa volta cedette e la Costituzione venne ripristinata ufficialmente il 24 luglio 1908. Seguì un breve periodo di euforia con grandi festeggiamenti a Costantinopoli, Damasco, Baghdad e nelle città e regioni popolate dalle minoranze etniche e religiose armene, ebraiche, slave e arabe che vedevano nella rivolta militare contro il Sultano l’inizio di un nuovo periodo caratterizzato da maggiori libertà. Effettivamente, in un primo tempo, i giovani ufficiali turchi che avevano costretto Hamid a cedere, arringarono ovunque la folla proclamando che mussulmani, cristiani ed ebrei non sarebbero più stati divisi e avrebbero contribuito, tutti insieme e su uno stato di completa parità, alla gloriosa rinascita economica e sociale della nazione ottomana. Dopo un tentativo, sanguinoso ma fallito, da parte dei sostenitori del regime assolutista di 101 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 Hamid di riprendere il controllo del potere (1909), durante il quale parecchi ufficiali e altri appartenenti al movimento costituzionale e al Comitato di Unione e Progresso, vennero uccisi dalla polizia segreta del Sultano, gli ufficiali “modernisti” di Taalat Pascià (appoggiati dagli armeni) riuscirono a riprendere le redini del potere e a deporre definitivamente Hamid che lasciò il posto a suo fratello, assumendo il titolo di sultano Muhammad (Mehemet) V. Quest’ultimo accettò di buon grado le direttive del Comitato di Unione e Progresso che nel frattempo aveva iniziato a palesare una sempre più forte connotazione nazionalista e razzista nei confronti delle minoranze che fino a poco tempo prima aveva dichiarato di volere tutelare se non addirittura favorire (subito dopo la caduta di Hamid, i Giovani Turchi avevano dato vita ad un regime parlamentare e a riforme liberali, concedendo ad elementi cristiani, ebrei e arabi di entrare nella pubblica amministrazione e di prestare servizio nell’esercito). Tuttavia, dopo la sconfitta subita ad opera dell’Italia nel 1912 per la contesa sulla Libia e i primi rovesci subiti nell’ambito della Prima Guerra Balcanica, le cose cambiarono e il 26 gennaio 1913 si verificò a Costantinopoli un nuovo colpo di Stato. Il colonnello Enver Pascià e Taalat Pascià e circa 200 loro seguaci fecero irruzione nella sede del governo, eliminando fisicamente il Ministro della Difesa, il liberale Nazim Pascià e deponendo all’istante il Gran Visir Kiamil Pascià. Subito dopo, Enver, alla testa di un esercito, strappò Adrianopoli ai bulgari e in virtù di questa brillante vittoria venne nominato Ministro della Difesa. Ristabilita la situazione militare, anche gli altri alti esponenti del Partito dei Giovani Turchi si insediarono nei posti chiave. Taalat Pascià divenne Ministro degli Interni e Ahmed Gemal Pascià Ministro della Marina, dando vita, con Enver, ad una sorta di triumvirato. Abbandonati ben presto gli ideali liberali e parlamentari, il triumvirato militare iniziò, come si è detto, a pianificare la costituzione di una dittatura militare fondata su principi fortemente nazionalisti e razzisti, dando vita ad un capillare processo di “turchizzazione” dell’Impero Ottomano (alla nuova politica venne data una parvenza di rispettabilità attraverso l’adozione dei principi del “pan- 102 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 turanismo”, la corrente ideologica della “rinascita ottomana” sostenuta da Ziya Gok Alp, discepolo del sociologo francese Emile Durkheim). Imbevuti della dottrina pan-turanica, che magnificava le virtù degli antichi statisti, guerrieri e condottieri turchi, il mai completamente sopito e sostanziale atteggiamento di intolleranza dei Giovani Turchi nei confronti delle minoranze dell’Impero, soprattutto quella armena cristiana, iniziò ad emergere con estremo quanto rapido vigore; proprio nel mentre il governo ottomano intensificava contestualmente i suoi rapporti di cooperazione militare ed economica con la Germania del kaiser Guglielmo (nel dicembre 1913, una speciale delegazione militare comandata dal generale Liman von Sanders giunse a Costantinopoli per iniziare ad addestrare i quadri del nuovo esercito turco voluto da Enver). Verso la primavera del 1914, proprio alla vigilia dello scoppio della Prima Guerra Mondiale (che, in seguito all’assassinio a Sarajevo dell’Arciduca Francesco Ferdinando e della moglie, avrebbe poi visto l’Impero Ottomano allearsi alla Germania, all’Austria-Ungheria e alla Bulgaria, contro Russia, Francia, Inghilterra. Italia ed in seguito Stati Uniti), la Giunta dei Giovani Turchi, iniziò a pianificare scientificamente quello che si sarebbe ben presto rivelato il primo “genocidio” programmato dell’era moderna. Dopo l’entrata ufficiale in guerra dell’Impero Ottomano (29 ottobre 1914), la comunità armena, dimentica dei molteplici soprusi subiti in passato, e allo scuro delle manovre segrete dei Giovani Turchi, volle comunque dimostrare a Costantinopoli la sua fedeltà alla nazione ottomana. E nell’estate del 1914, in occasione dell’ottavo congresso armeno di Erzerum, i leader del Partito Dashnak invitarono tutti gli iscritti ad assolvere ai loro doveri di fedeli sudditi e soldati dell’Impero. E nel giro di poche settimane ben 250.000 armeni si arruolarono nelle forze armate turche, dimostrando, già a partire dalla sfortunata campagna, scatenata nel successivo mese di dicembre da Enver nel Caucaso contro i russi, una assoluta quanto ingenua correttezza e lealtà nei confronti del governo di Costantinopoli, che nel frattempo stava ultimando i preparativi per incominciare, con il totale sostegno delle solite bande prezzolate curde, un vero e proprio massacro 103 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 a sorpresa. All’inizio del 1915, nel corso di una riunione segreta del Comitato di Unione e Progresso, il segretario esecutivo Nazim concluse testualmente i lavori: «Siamo in guerra; e non potrebbe verificarsi un’occasione migliore per sterminare tutta la popolazione armena. In un momento come questo è estremamente improbabile che vi siano interventi da parte delle grandi potenze e proteste da parte della stampa; e se anche ciò accadesse tutti si troverebbero di fronte ad un fatto compiuto». Un altro dei presenti, Hassan Fehmin, aggiunse poi: «Siamo nelle condizioni ideali per spedire sul fronte caucasico tutti i giovani armeni ancora in grado di imbracciare un fucile. E una volta là, possiamo intrappolarli e annientarli con facilità, chiusi come saranno tra le forze russe che si troveranno davanti e le forze speciali che piazzeremo alle loro spalle». In quella data il Comitato decise che “lo sterminio degli armeni” sarebbe stato affidato ad una speciale Commissione a tre, comprendente lo stesso segretario esecutivo Nazim, Behaettin Shakir e il Ministro della Pubblica Istruzione, Shoukrie, sotto il diretto controllo di Taalat Pascià. All’inizio della primavera 1915, in seguito ad una pericolosa offensiva russa e allo sbarco anglo-francese a Gallipoli (Dardanelli), i capi turchi accelerarono ulteriormente la realizzazione del loro piano, scatenando innanzitutto la polizia segreta contro i villaggi armeni che, con la scusa di semplici perquisizioni di guerra, vennero sistematicamente depredati. Successivamente, bande armate curde e reparti dell’esercito e della polizia, incominciarono ad arrestare, accusandoli di connivenza con il nemico russo, tutti gli esponenti del Movimento Armeno. Nel giro di poche settimane, decine di migliaia di cristiani vennero imprigionati e sottoposti a spaventose e documentate torture. I curdi mussulmani si accanirono in modo particolare contro i sacerdoti ai quali strapparono le unghie con le tenaglie, furono tolti i denti uno ad uno, bruciata la barba e strappati gli occhi. Geudet Bey, vali (governatore) della città di Van e cognato del Ministro della Difesa Enver Pascià fu visto dare ordine ai suoi uomini di inchiodare ferri di cavallo ai piedi delle vittime, costringendo 104 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 poi quei disgraziati ad effettuare improbabili danze, fino allo sfinimento. Il 24 aprile 1915, a Costantinopoli, nel corso di una gigantesca retata, circa 500 esponenti del Movimento Armeno vennero incarcerati e poi strangolati con filo di ferro nel profondo di sordide segrete. Stando ad un rapporto ufficiale del console statunitense ad Ankara, nel luglio 1915, duemila soldati di etnia armena, reduci dalla campagna del Caucaso, vennero spediti, disarmati, nella regione della città di Kharput con il pretesto di utilizzarli nella costruzione di una strada. Giunti in una vallata, i militari armeni vennero circondati da un battaglione della polizia turca e massacrati a colpi di moschetto. Tutti i cadaveri vennero poi scaraventati in una profonda grotta. Identico destino toccò ad altri 2.500 militari armeni, anch’essi preventivamente disarmati, vennero condotti nei pressi di una cava di pietra, in località Diyarbakir, e lì trucidati da un grosso reparto misto formato da soldati e miliziani curdi. Sempre secondo i resoconti del console statunitense, i corpi delle vittime vennero seviziati, spogliati e lasciati a marcire nella cava. Nel giugno 1916, dopo avere eliminato circa 150.000 militari di origine armena, i turchi, non contenti, decisero di fare fuori anche un terzo degli operai armeni impiegati nella costruzione e manutenzione dell’importante linea ferroviaria Berlino-Costantinopoli-Baghdad. Ma a questo punto, anche gli alleati tedeschi e austriaci, che da tempo avevano palesato il loro disappunto per le orrende carneficine, denunciarono finalmente, e in maniera ufficiale, il governo turco. L’ambasciatore tedesco a Costantinopoli, il conte von WolffMetternich, si precipitò alla Sublime Porta, accusando direttamente Taalat Pascià e il Ministro degli Esteri Halil Pascià «di inutili atrocità e persino di sabotaggio», ma le vibranti proteste dell’ambasciatore lasciarono praticamente impassibili i capi turchi. Fu allora che, presi dalla disperazione ma decisi a vendere cara la pelle, molti ufficiali e sottufficiali scampati ai massacri tentarono di organizzare sui monti la resistenza, provando in taluni casi anche a difendere con le armi gli ultimi villaggi e città armene non ancora travolte dal ciclone turcocurdo. 105 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 Nell’aprile 1915, nella città di Van, alcune migliaia di soldati e civili armeni riuscirono a disarmare la locale guarnigione turca, barricandosi nel nucleo urbano dove resistettero per molti giorni alla controffensiva ottomana e curda; fino all’arrivo, provvidenziale, di una divisione di cavalleria russa che nel mese maggio liberò dall’assedio quei disperati. Eguale successo ebbe poi la storica e ormai famosa resistenza del massiccio montuoso del Musa Dagh, nei pressi di Antiochia (Golfo di Alessandretta). Su questo acrocoro non meno di 4.000 armeni si trincerarono decisi a vendere cara la pelle. Resistettero per ben quaranta giorni agli attacchi dei bene armati reparti regolari dell’esercito ottomano, segnando una delle pagine più eroiche della storia di questa nazione. Alla fine, proprio quando la resistenza sembrava dovere cedere di fronte alle preponderanza dell’avversario, i reduci vennero salvati dal provvidenziale arrivo nel Golfo di Alessandretta di una squadra navale francese che riuscì in gran parte a trarli in salvo (l’epopea del Musa Dagh venne in seguito narrata da Franz Werfel nel suo celebre romanzo storico I quaranta giorni di Musa Dah). Purtroppo, altri tentativi di resistenza da parte di gruppi armati armeni non ebbero la medesima fortuna, come nel caso della resistenza di Urfa (Edessa). Qui, tutta la guarnigione armena, composta di ex-militari e civili, dovette soccombere alle soverchianti forze ottomane che, a battaglia conclusa, massacrarono tutti i difensori ancora in vita, compresi i feriti. Verso l’autunno del 1915, una volta eliminata la parte più giovane e combattiva della nazione armena, il Ministero degli Interni Turco iniziò a pianificare lo sterminio di tutti gli adulti di età superiore ai 45 anni, che fino ad allora erano stati risparmiati per utilizzarli nel lavoro delle campagne, e degli ultimi prelati. Ma in questa operazione vennero poi incluse anche le donne e i bambini. Come testimonia questo brano tratto da un dispaccio inviato dal Ministro Taalat Pascià al governatore turco di Aleppo il 15 settembre 1915. «Siete già stato informato del fatto che il Governo ha deciso di sterminare l’intera popolazione armena… Occorre la vostra massima collaborazione… Non sia usata pietà per nessuno, tanto meno per le donne, i bambini, gli invalidi… Per quanto tragici possano 106 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 sembrare i metodi di questo sterminio, occorre agire senza alcuno scrupolo di coscienza e con la massima celerità ed efficienza». Per risparmiare denaro e per razionalizzare al massimo l’operazione, la Giunta dei Giovani Turchi diede il via ad una deportazione di massa (dalla quale talvolta vennero però risparmiati i medici o i tecnici utili al governo, come accadde nella città di Kayseri) in modo da concentrare in pochi siti, considerati adatti, tutti gli armeni ancora in vita. Una delle destinazioni prescelte fu la desolata e poverissima regione siriana di Deir al-Zor, dove, dopo una marcia a piedi di centinaia di chilometri, intere famiglie armene – strappate alle loro abitazioni e ai loro poderi – vennero poi ammassate e trucidate nei modi più raccapriccianti, tanto da sollevare le violente ma inutili proteste di un gruppo di ufficiali tedeschi e austriaci che assistette a quei tragici eventi. Queste deportazioni vennero architettate per consentire un più agevole esproprio dei beni immobili armeni. Abbandonata la precedente prassi della distruzione dei villaggi, molti dirigenti del partito dei Giovani Turchi e moltissimi funzionari di polizia e comandanti delle famigerate bande a cavallo curde si arricchirono proprio in virtù di questi lasciti forzati (è da notare, a questo proposito, che i turchi evitarono di effettuare espropri clamorosi nelle principali città dell’Impero, come Costantinopoli, Smirne e Aleppo, per cercare di evitare le proteste delle numerose delegazioni diplomatiche occidentali presenti). Tuttavia, nell’inverno del ‘15 il rappresentante tedesco a Costantinopoli, conte Wolff-Metternich – che, come si è già detto, non aveva mai mancato di stigmatizzare «il crudele e controproducente comportamento degli ottomani nei confronti delle minoranze cristiane» – denunciò, in una missiva inviata a Berlino, questa «orribile prassi», accusando nuovamente i Giovani Turchi di «tradimento nei confronti della comune causa tedesco-ottomana». Il coraggioso ambasciatore tedesco agì in maniera talmente vibrante e diretta da indurre Enver Pascià e Taalat Pascià a chiederne a Berlino la sua sostituzione, cosa che in effetti avvenne nel 1916. A testimonianza delle dimensioni del fenomeno “espropriazioni”, dopo la fine della guerra, nel 1919, lo scrittore 107 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 e storico tedesco J. Lepsius nel suo Deutschland und Armenien stimò che nel 1916 «i profitti derivati all’oligarchia dei Giovani Turchi e ai suoi lacché dai beni rapinati agli armeni fossero arrivati a toccare la cifra astronomica di un miliardo di marchi». Per onestà va comunque detto che, in certi casi, alcuni governatori (i vali) turchi, come quello di Angora (Ankara), città nella quale vivevano 20.000 armeni, mostrarono una maggiore tolleranza, arrivando anche a disubbidire alle direttive di deportazione o sterminio. Tanto che, nel luglio del ‘15, il governatore di Ankara (l’antica Angora) e i suoi collaboratori – che avevano dichiarato di potere garantire circa la assoluta fedeltà all’Impero della locale comunità armena e che quindi si erano opposti ad ogni iniziativa governativa – vennero subito rimossi e sostituiti con altri funzionari più solerti. Come il vali Geudet che, nell’estate del ‘15, a Siirt, a sud di Bitlis, «fece massacrare – come testimonia Rafael de Nogales, un mercenario venezuelano che nel 1915 si era arruolato nell’esercito turco – oltre 10.000 tra armeni, cristiani nestoriani e giacobiti, lasciando i loro corpi ignudi in pasto agli avvoltoi e ai cani randagi». Identici resoconti possono riscontrarsi anche nei documenti e nelle memorie di numerosissimi addetti diplomatici tedeschi, americani, svedesi e anche italiani. Sull’edizione del quotidiano Il Messaggero di Roma (25 agosto 1915) venne pubblicata la denuncia del console generale a Trebisonda, Giovanni Gorrini. Costui affermò che «degli oltre 14.000 armeni legalmente residenti a Trebisonda all’inizio del 1915 [dal punto di vista religioso la comunità era composta da cristiani gregoriani, cattolici e protestanti, nda] il 23 luglio dello stesso anno non ne rimanevano in vita che 90. Tutti gli altri, dopo essere stati spogliati di ogni avere, erano stati infatti deportati dalla polizia e dall’esercito ottomani in lande desolate o in vallate dell’entroterra e massacrati». E intanto proseguiva senza soste la deportazione degli armeni destinati ai famigerati campi di raccolta (e di sterminio) della città di Deir al-Azor. Questi, privi di baracche, servizi igienici, iniziarono ad accogliere all’interno dei loro perimetri cintati da fitti sbarramenti di filo spinato sorvegliato da guardie armate, 108 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 decine di migliaia di profughi. «Ben presto – come narra lo scrittore David Marshall Lang nel suo eccellente e ben documentato Armeni, un popolo in esilio – in questi recinti, rigurgitanti in gran parte di vecchi, donne e bambini, scoppiarono terribili epidemie di tifo e vaiolo che si allargarono a gran parte della popolazione siriana… Solo ad Aleppo, tra l’agosto 1916 e l’agosto 1917, circa 35.000 persone morirono di tifo». Queste epidemie si rivelarono così devastanti da mettere in allarme lo stesso generale Otto Liman von Sanders, comandante delle forze turco-tedesche in Medio Oriente. Questi, nel 1916, cercò di attivare, attraverso il suo Servizio Sanitario, una qualche forma di assistenza, sempre contrastato dalle autorità ottomane che, accecate dall’odio verso gli armeni, non si rendevano conto dell’immane disastro che avevano provocato. In terra siriana, qualche centinaio di ragazzine e di bambini armeni riuscì però a scampare alla morte per fame, malattia o alle fucilate degli aguzzini turchi. Le ragazze, soprattutto le più giovani e graziose, vennero infatti vendute per poche piastre dai loro guardiani ottomani ad alcuni possidenti arabi che le rinchiusero nei bordelli, non prima di essere state convertite all’Islam con la forza. Nell’autunno del 1918, quando le forze inglesi del generale Edmund Allenby sconfissero i turco-tedeschi e occuparono la Palestina e la Siria, trovarono ancora in vita alcune decine di queste derelitte, tutte marchiate a fuoco dagli stenti e dalle malattie veneree. Sorte ancora peggiore toccò ai bambini armeni rinchiusi nei campi siriani. Gran parte di questi vennero infatti sottratti alle madri e inviati anch’essi in bordelli per omosessuali o in speciali orfanotrofi per essere rieducati come turchi mussulmani da Halidé Edib Adivart, una mostruosa virago alla quale il governatore della Siria aveva affidato il compito di «raddrizzare la schiena alla ribelle gioventù armena». Nonostante tutto, il governo ottomano non si reputava ancora soddisfatto della risoluzione del “problema armeno”. Nei campi, gli armeni morivano infatti troppo lentamente. Quindi, nel 1916, Enver Pascià, Taalat Pascià e Ahmed Gemal diedero 109 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 un ulteriore giro di vite alla loro politica di sterminio, intimando ai loro governatori e capi di polizia di «eliminare con le armi, ma se possibile, con mezzi più economici, tutti i sopravvissuti dei campi siriani e anatolici». In questa seconda fase del massacro ebbe modo di distinguersi proprio il governatore del distretto di Deir al-Azor, certo Zekki, che ogni mattina era solito «cavalcare nei campi tra i profughi, tirare su un bambino, farlo roteare in aria, e scagliarlo contro le rocce». Zekki – secondo quanto scrive J. Bryce (The Treatment of Armenians) –, «rinchiuse 500 armeni all’interno di una stretta palizzata, costruita su una piana desertica, e li fece morire di fame e di sete». E a dimostrazione dello zelo di questo governatore, basti pensare che, durante l’estate del 1916, i suoi uomini eliminarono oltre 20.000 armeni. Taalat Pascià, divenuto Gran Visir, arrivò addirittura a vantarsi dell’efficienza del suo governatore con l’esterrefatto ambasciatore americano Morgenthau, al quale egli ebbe anche l’ardire di chiedere «l’elenco delle assicurazioni sulla vita che gli armeni più ricchi (deceduti nei campi di sterminio) avevano precedentemente stipulato con compagnie americane, in modo da consentire al Governo di incassare gli utili delle polizze». Intanto, nelle regioni orientali e settentrionali dell’Impero Ottomano, la situazione delle comunità armene che erano riuscite a trovare rifugio nelle valli del Caucaso si fece improvvisamente drammatica. In seguito alla rivoluzione bolscevica del 1917, l’esercito russo aveva infatti iniziato a ritirarsi dall’Anatolia orientale e dalla Ciscaucasia, abbandonando gli armeni, fino a quel momento protetti, al loro destino. Rioccupata l’importante città-fortezza di Kars, le forze ottomane, ormai libere di agire, iniziarono una meticolosa caccia all’uomo, arrivando a sopprimere circa 20.000 persone in poche settimane. Identica sorte che toccò a quei profughi cristiani che, rifugiatisi preventivamente in Transcaucasia, soprattutto in Cecenia e nella regione caspica di Baku, vennero massacrati dalle locali minoranze mussulmane tartare e, appunto, cecene. Tra il dicembre del ‘17 e il febbraio del ‘18, nella sola area di Baku furono eliminati 15.000 armeni. Ma la guerra stava 110 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 volgendo ormai al termine e nell’imminenza del crollo della Sublime Porta – determinato dalle offensive britanniche del 1918 in Palestina e Mesopotamia – i responsabili turchi delle stragi iniziarono a sparire nell’ombra, onde evitare il peggio. Quando, nell’ottobre 1918, la Turchia si arrese alle forze dell’Intesa (Francia, Inghilterra, Italia e Stati Uniti), i principali dirigenti e responsabili del partito dei Giovani Turchi e del Comitato di Unione e Progresso vennero arrestati dagli inglesi e internati per un breve periodo a Malta. Successivamente, un tribunale militare turco condannò a morte, in contumacia, Enver Pascià, Ahmed Gemal e Nazim, accusati di avere architettato e portato a compimento, tra il 1914 e il 1918, l’olocausto armeno. Ormai espatriati, nessuno dei condannati finì però nelle mani della giustizia regolare. Ci pensò il destino e, come spesso accade, lo spirito vendicativo dell’uomo a colpire chi si era macchiato di tanti efferati crimini. Il 15 marzo 1921, Taalat Pascià, forse il più crudele dei tre triumviri di Costantinopoli, venne assassinato a Berlino da uno studente armeno; sorte che toccò il 21 luglio 1922 anche ad Ahmed Gemal, che venne ucciso da un altro giovane armeno a Tbilisi, in Georgia. «Strana e sotto molti aspetti decisamente consona al personaggio fu invece la fine di Enver Pascià, il più intelligente e “idealista” dei tre: il “Piccolo Napoleone” dell’Impero, il propugnatore fanatico e determinato del Pan-Turanismo» (D.M. Lang). Rifugiatosi tra le tribù turche della remota regione asiatica centrale di Bukhara, dove pensava di portare a compimento la realizzazione del suo sogno, cioè la creazione di una Grande Nazione Turca, agli inizi degli anni Venti, Enver si mise a capo di una rivolta turcomussulmana contro il potere sovietico. Ma il 4 luglio 1922, egli venne circondato dai bolscevichi con il suo piccolo esercito e ucciso. Con la morte di Enver tramontava per sempre il progetto revanchista, di chiara matrice nazionalista e razzista, che non soltanto aveva trascinato la Turchia nel disastro del Primo Conflitto, ma che aveva contribuito a riaccendere l’atavico e mai sopito odio della popolazione turca nei confronti della minoranza armena cristiana. Oggi, a distanza di tanti anni, quell’impetuoso rigurgito di intolleranza etnico-religiosa che 111 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 scatenò la persecuzione contro gli armeni, sta – paradossalmente – interessando un’altra minoranza, quella curda, che da colpevole fiancheggiatrice di una strage si è trasformata a sua volta in vittima di una logica di persecuzione assurda e spietata. Bibliografia E. ALIPRANDI, 1915, cronaca di un genocidio: il massacro degli armeni raccontato dai giornali italiani dell’epoca, &MyBook, Vasto (Chieti) 2009. F. AMABILE - M. TOSATTI, La vera storia del Mussa Dagh, Guerini e Associati, Milano 2003. F. AMABILE - M. TOSATTI, Mussa Dagh. 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Ha conseguito il Master of Science e il Ph.D. in Matematica presso l’università di Warwick (Regno Unito), nonché il Dottorato di Ricerca in Italia. La sua attività di ricerca si svolge prevalentemente nell’ambito della topologia algebrica e nell’algebra omologica con incursioni nella storia della matematica, e si è concretizzata in varie decine di pubblicazioni apparse su riviste specializzate nazionali e internazionali. Sono oggetto dei suoi studi para-accademici le questioni epistemologiche relative alla storia della scienza, l’evoluzione della musica classica occidentale – in particolare del Novecento – e il conservatorismo anglosassone. Per la D’Ettoris Editori ha curato l’edizione italiana dei seguenti volumi: Guida politicamente scorretta alla storia degli Stati Uniti d’America di Thomas J. Woods Jr. (2011), Lo spirito del Natale di Gilbert K. Chesterton (2013), La genesi della scienza di James Hannam (2015) e Hobbit Party. Tolkien e la visione della libertà che l'Occidente ha dimenticato di Jonathan Witt e Jay W. Richards (2016). 117 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni – la più numerosa delle denominazioni mormoni – di cui sarebbe diventato più tardi presidente. Oratore di successo, infiammò l’America conservatrice dell’epoca con numerosi discorsi in cui si faceva paladino del governo limitato, del ruolo pubblico della religione e della famiglia, di una risposta militare forte per contenere l’espansionismo sovietico. Il discorso In piedi per la libertà (Stand up for freedom), il cui testo è qui riprodotto per la prima volta in lingua italiana, fu tenuto l’11 febbraio 1966 nell’Assembly Hall di Temple Square, a Salt Lake City (Utah), dinanzi a membri e simpatizzanti del The Utah Forum for the American Idea. Secretary of Agriculture in the cabinet of U.S. President Dwight D. Eisenhower (1890-1969), Ezra Taft Benson (1899-1994) gave a lot of talks and published several books in the Sixties concerning the U.S. political situation, in a manner consistent with his obligations as member of the second-highest governing body in the Church of Jesus Christ of Latter-day Saints, the largest Mormon denomination. A successful speaker, Benson inflamed the hearts of U.S. conservatives, praising the limitedgovernment idea, the public role of family and religion, and strong national defense to face Soviet expansionism. The address “Stand up for freedom”, here translated in Italian for the first time, was first given on February 11, 1966, at the Utah forum for the American Idea in the Assembly Hall, Temple Square, Salt Lake City (Utah). Un’ampia presentazione di Benson è in MAURIZIO BRUNETTI, Ezra Taft Benson. Profilo di un conservatore americano, in «StoriaLibera. Rivista di scienze storiche e sociali», anno 2 (2016), n. 3, p. 11-39. 118 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 Sono qui dinanzi a voi con umiltà e gratitudine: grato del fatto che esistano patrioti come voi; umile dinanzi alla grandezza del compito che ci attende. Vi parlo nella veste di un cittadino degli Stati Uniti d’America che, come voi, è fortemente preoccupato per il benessere della nostra amata Patria. Non sono qui per lusingarvi o intrattenervi. Vi parlerò con franchezza e onestamente. Il messaggio che vi porto non è di quelli lieti, ma è la verità, e il tempo è sempre dalla parte della verità. Come disse il filosofo tedesco Goethe [Johann Wolfgang von (1749-1832)]: «Non bisogna mai stancarsi di ribadire la verità, poiché l’errore non smette mai di essere predicato»1. Mi rendo conto che un latore di cattive notizie è sempre impopolare. Come popolo, noi amiamo la dolcezza e la luce – specialmente la dolcezza. Ralph Waldo Emerson (1803-1882) diceva che ogni uomo dotato di ragione deve fare una scelta tra la verità e la tranquillità2. Quelli che non imparano niente dalla storia sono condannati a ripeterla. Ed è quello che sta succedendo nelle Americhe oggi. George Washington affermava: «La verità alla fine prevale ove ci sia chi ha sofferto per portarla alla luce»3. Portare alla luce la verità è la sfida a cui siamo chiamati in questo giorno e in quelli che verranno. «Conoscerete la verità, e la verità vi farà liberi» (Gv 8,32). Ritornare in patria dopo aver passato due anni all’estero4 mi ha portato a riflettere seriamente sulle tendenze più recenti e JOHANN W. VON GOETHE - JOHANN PETER ECKERMANN - FRÉDÉRIC JACOB SORET, Conversations of Goethe with Eckermann and Soret, vol. 2, trad. ing., Smith Elder & Co., London 1850, p. 110. La conversazione citata è del 1828. 2 Cfr. RALPH WALDO EMERSON, Essay 11 “Intellect”, in IDEM, Essays, James Munroe & Co., Boston (Massachusetts) 1841, p. 282. 3 GEORGE WASHINGTON, Lettera a Charles M. Thurston del 10.8.1794, in JARED SPARKS (edited by), The Writings of George Washington, vol. X, Harpers & Brothers, New York (N. Y.) 1847, p. 427. 4 Ezra Taft Benson aveva vissuto in Europa ventuno mesi tra il 1964 e il 1965. 1 119 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 sulle condizioni del nostro caro Paese. Ciò che ho constatato mi indigna e mi addolora. Con dispiacere devo dire che non tutto va bene nella cosiddetta “America prospera, opulenta e potente”. Avevamo già fatto un bel po’ di strada lungo la via autodistruttiva del socialismo, e ora ci stiamo spingendo ancor più oltre e più rapidamente. La prova è lampante – scandalosamente lampante per tutti quelli che sono disposti a vederla. Con il nostro prestigio nazionale molto vicino a un imbarazzante minimo storico, continuiamo a indebolire la nostra economia interna con malsane politiche fiscali, economiche ed estere che indeboliscono la nostra valuta nazionale. Una sempre crescente centralizzazione del potere nelle mani del governo federale con sede a Washington sta riducendo i governi locali e di Stato a mere succursali federali e, allo stesso tempo, sta indebolendo l’iniziativa, l’intrapresa e il carattere individuale. Alla luce dell’usurpazione di potere spudorata e incostituzionale da parte dell’organo del governo federale cui compete il potere esecutivo, e viste anche le decisioni antireligiose della Corte Suprema – tutte approvate, a quanto pare, da un Congresso passacarte debole e sottomesso –, il prossimo futuro si presenta sinistro e raccapricciante. Non v’è dubbio che spetti a patrioti come voi incontrarsi e riflettere insieme sulle attuali condizioni della nostra amata nazione. È assolutamente necessario che i cittadini americani siano informati e messi in guardia riguardo a ciò che minaccia il nostro benessere, la felicità e la libertà. Un americano che non si faccia attivamente coinvolgere in queste grandi questioni non è degno della cittadinanza che questa grande terra gli dona. Di questa grande nazione cristiana è in gioco, infatti, tutto ciò che ci è caro. Partendo due anni fa per l’Europa, non potevo fare a meno di sentire un profondo senso di inquietudine per questa grande terra che è l’America, avendo essa appena subito una terribile crisi. Aver avuto un presidente strappato via dalla sua alta 120 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 carica dalla mano violenta di un assassino è stato un atto insidioso e vigliacco che ha colpito duramente le fondamenta più profonde della nostra Repubblica. Ognuno di noi ha accusato il colpo. Ognuno di noi ha colto lo spirito sinistro della tragedia e la sofferenza che l’ha accompagnata. Ognuno di noi ha vissuto in un modo tutto personale il dolore profondo che ha investito la famiglia Kennedy. Ma, una volta terminati i servizi funebri e la sepoltura, ci siamo anche accorti di qualcos’altro. La nuda e cruda realtà era che l’assassinio del presidente Kennedy era l’ennesima mostruosa macchinazione nella lunga lista di crimini contro l’umanità ispirata nel corso degli anni dalla filosofia atea del comunismo. È stato il comunismo a piantare il seme del tradimento nella mente dell’assassino del presidente Kennedy. È una cosa, questa, da non dimenticare. Oggi, a due anni e un mese di distanza, rimango sgomento constatando quanto corta sia la nostra memoria. Quando, nel dicembre scorso, si è provato a ricostruire gli eventi intorno all’assassinio del presidente Kennedy, non è stata fatta, in pratica, menzione né delle affiliazioni comuniste di Oswald5, né del fatto che il comunismo continui a minacciare la nostra società. Abbiamo troppo presto dimenticato che l’odio che ha annientato il nostro presidente è germogliato da un seme piantato dal comunismo e che, inoltre, i tentativi da parte del comunismo di sovvertire e distruggere l’intero nostro modo di vivere proseguono senza sosta. L’assassinio del presidente Kennedy, il massacro quotidiano cui sono esposti i nostri ragazzi in Vietnam, i disordini a Berkeley manovrati dai comunisti e le dimostrazioni da una costa all’altra, pure di ispirazione comunista, dovrebbero fungere da terapia shock per quel segmento della nostra popolazione a cui piace definirsi “liberal”. L’America è Lee Harvey Oswald (1939-1963) è l’uomo che fu incriminato per aver assassinato il presidente Kennedy il 22 novembre 1963. Oswald fu ucciso, però, solo due giorni dopo e, perciò, non fu mai processato. 5 121 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 sufficientemente grande perché vi trovino spazio diversi modi di pensare ma, per quanto mi riguarda, non sono mai stato in grado di trovare quelle virtù che molti liberal sostengono di vedere nel socialismo e nel comunismo. Per promuovere le loro idee, i liberal americani si sono trasformati in uno schieramento compatto e altamente organizzato che coccola il comunismo e gli fa concessioni, e con il quale si è indulgenti sulla base del fatto che, così facendo, i liberal si dimostrano “tolleranti”, “di mente aperta”, e “lavorano per la pace”. Eppure, l’assassinio del presidente Kennedy avrebbe dovuto farli sobbalzare e, finalmente, far loro comprendere che essi avevano viziato, protetto e promosso proprio il nido di serpenti che ha prodotto un Lee Harvey Oswald. Lo spirito diabolico dell’omicidio e della violenza che ha abbattuto il presidente è per l’appunto quello della violenza comunista, cui è stato permesso di diffondere il terrore nel cuore di ogni continente sulla faccia della Terra. Forse, chi ha fatto da apologeta del vittorioso movimento socialcomunista e marxista sarà ora disposto a ritornare sui propri passi fatali. Sono successe almeno altre due cose collegate a questa tragedia e degne di commento. La prima è la velocità con cui i leader comunisti hanno fatto circolare per il mondo la tesi secondo cui l’assassinio del presidente doveva essere per forza opera di americani conservatori. Mosca ha per cinque anni condotto una campagna propagandistica volta a far sembrare gli americani conservatori come una cricca di fanatici isterici, definendoli “destrorsi”, “estremisti”, se non anche “fascisti”. Non era passata neanche un’ora dall’assassinio – Oswald non era stato ancora catturato – che Mosca già annunciava al mondo che di questo crimine erano responsabili movimenti “di destra” operanti negli Stati Uniti. La seconda cosa accaduta è l’incredibile rapidità con cui i liberal americani hanno fatto propria la linea moscovita. Anche loro individuarono molto in fretta chi incolpare ben prima che avessero il benché minimo sospetto su chi avesse commesso materialmente il crimine. C’è da chiedersi che cosa sarebbe successo se Oswald non fosse stato catturato e identificato come un attivista comunista che era in diretto contatto con la sede 122 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 centrale del partito a New York City. Sicuramente, i liberal starebbero ancora oggi accusando i conservatori di aver commesso il misfatto. E anche dopo che Oswald fu catturato e identificato come un comunista che aveva contatti con Mosca, c’è stato chi ha insistito sul fatto che chiunque avesse in qualche modo osteggiato il presidente, nel periodo in cui questi rivestiva quest’alta carica, era colpevole di aver condiviso lo stesso “spirito d’odio” che ne aveva causato la morte. Sulla stampa, alla radio e in TV sono stati in molti a sostenere questa tesi che a me parve inconcepibile. Mettere l’odio e il livore omicida di Oswald sullo stesso piano di quei patrioti americani che si sono talvolta opposti alle politiche dell’amministrazione presidenziale è stato il culmine di un modo di ragionare fallace e bugiardo. Il popolo americano può avere rispetto per il suo presidente, può pregare per lui, può anche provare per lui molto affetto e, ciò nonostante, avere un’onesta diversità di vedute nel merito del suo programma. Recentemente, poi, va di moda fare appelli all’unità nazionale. Io credo che questo Paese abbia certamente bisogno di un’unità, a patto, però, che non sia un’unità cieca, insensata e irresponsabile. Una “unità per l’unità” non ha alcun senso. C’è piuttosto bisogno di un’unità fondata su solidi principi. Noi americani ci siamo allontanati di molto dal sentiero dei solidi principi – dal punto di vista sia morale, sia costituzionale, sia storico. E la cosa ci sta causando un sacco di guai, ovunque nel mondo e, specialmente, in casa nostra. L’americano comune ha il sentore che il proprio stile di vita sia minacciato: nel corso degli ultimi anni, abbiamo assistito a un’ondata crescente di resistenza contro il trend politico dominante. I compromessi con il comunismo all’estero e i flirt con il socialismo entro i nostri confini hanno suscitato opposizioni in entrambi i partiti politici. Se questo ha portato a una disunione, allora, da tutti i punti di vista, si ritorni ai sani principi costituzionali: quelli sì che ci potranno nuovamente riunire. Non c’è virtù negli appelli all’unità finalizzati all’approvazione di alcune norme sgradite alla maggioranza 123 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 degli americani. Il fatto che una certa legislazione sia osteggiata al Congresso tanto da Democratici che da Repubblicani mostra che, forse, l’organo del governo detentore del potere esecutivo non stia più andando al passo con la volontà popolare. Sono convinto che il popolo americano sappia ciò che vuole. Ciò che appare è che il popolo vorrebbe la tutela dei propri diritti civili, ma non che i diritti dei singoli Stati vengano schiacciati. Gli agricoltori vorrebbero poter contare su un ragionevole reddito garantito, ma non instaurare un regime di “sicurezza agricola” da Stato dittatoriale. I genitori vogliono per i propri figli scuole migliori, ma non un sussidio federale che, come corollario, comporti un controllo sui libri di testo, su ciò che viene insegnato e sul modo di pensare dei bambini. Il popolo vuole programmi di spesa pubblica che non prevedano indebitamenti e un bilancio virtuoso, non programmi scialacquatori e riduzioni delle tasse con aumento del debito pubblico. Ove ci sia bisogno di un rinnovamento urbano6, il popolo vuole che siano le autorità locali a occuparsene e non i burocrati di Washington muniti di poteri confiscatori sulla proprietà. Il popolo vuole lo sviluppo delle centrali idro-elettriche, ma non lo strangolamento delle compagnie energetiche gestite da privati che si sono dimostrate di gran lunga più efficienti ed economicamente vantaggiose dei servizi analoghi offerti dal governo. In altre parole ci sono funzioni e servizi che il governo federale può e deve gestire; ma chi vuole concedergli un potere che la Costituzione non gli ha delegato, incontrerà l’opposizione trasversale di Democratici e di Repubblicani. È quello che sta L’espressione Urban Renewal, «rinnovamento urbano», fu usato negli Stati Uniti a partire dall’approvazione, avvenuta nel 1949, dell’Housing Act, in base al quale, per riqualificare gli slums, i quartieri identificati come bassifondi, il governo federale metteva a disposizione dei comuni i due terzi del prezzo di acquisizione dei siti su cui costruire nuovi fabbricati o far passare autostrade. 6 124 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 già accadendo in alcuni distretti. Speriamo che questi casi siano in futuro sempre meno isolati. Chiunque spacci, poi, questo amore per i principi esposti nella Costituzione per disprezzo nei confronti dei nostri leader di governo sta confezionando una frode degna di Goebbels [Joseph Paul (1897-1945)]. La storia ha sempre dimostrato che l’opposizione conservatrice ai leader nazionali non è mai animata dall’“odio”; si tratta, piuttosto, di tentativi di dare loro una mano. Consentitemi di fare qualche esempio. È stato forse l’odio che ha spinto il generale Albert C.[oady] Wedemeyer (1897-1989) a supplicare il generale Marshall [George Catlett (1880-1959)] e il presidente Truman [Harry S. (1884-1972)] di cambiare linea politica prima che la Cina fosse perduta7? Si trattava forse di odio quando Whittaker Chambers (1901-1961) provò nel 1939 ad avvertire il presidente Roosevelt che Alger Hiss (1904-1996) stava passando all’Unione Sovietica più informazioni di ogni altra spia infiltratasi a Washington8? Nel luglio del 1947, Wedemeyer fu mandato in missione in Cina e in Corea per fare il punto della situazione politica, economica, psicologica e militare. Nel “Rapporto Wedemeyer” consegnato al presidente Truman, il generale evidenziò l’esigenza che le armate nazionaliste in lotta contro la fazione comunista fossero finanziate e addestrate dagli Stati Uniti. Il presidente Truman, convinto che un Chiang-Kai-Shek troppo potente avrebbe danneggiato gli interessi economici degli Stati Uniti in Estremo Oriente, non solo non ascoltò i consigli del generale, ma impedì con un embargo ulteriori approvvigionamenti di armi destinati al governo nazionalista. George C. Marshall, che era segretario di Stato sposò, con grande scandalo del personale militare, il punto di vista del presidente. (Cfr. ALBERT C. WEDEMEYER, Wedemeyer Reports!, Henry Holt Co., New York (N. Y.) 1958 e ANN W. CARROLL, Who Lost China?, in «Faith & Reason», Spring 1989 (disponibile sul sito <http://www.ewtn.com/library/HOMELIBR/FR89102.TXT> visitato il 4.5.2016). 8 In un’udienza privata col sottosegretario di Stato Adolf Berle (1895-1971), Whittaker Chambers, membro dell’American Communist Party fino al 1938, «fece un racconto dettagliato della rete 7 125 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 Si trattava forse di odio quando John Edgar Hoover (18951972) provò ad avvertire il presidente Truman del fatto che Harry Dexter White (1892-1948) era un membro dello spionaggio sovietico e, come sottosegretario al Tesoro, stava mettendo in serio pericolo la nazione9? di spionaggio comunista di cui aveva fatto parte. Fornì a Berle i nomi di almeno una ventina di spie sovietiche che lavoravano per l’amministrazione Roosevelt. Tra di loro c’era Alger Hiss, un alto funzionario del dipartimento di Stato, e il fratello Donald. Berle riferì immediatamente al presidente Roosevelt il contenuto del colloquio con Chambers, e fece il nome di Alger Hiss. Il presidente rise e disse a Berle di andare a farsi f…» (ANN COULTER, Tradimento, trad. it., Rizzoli, Milano 2004, p. 30). «Quasi cinquant’anni dopo, la divulgazione dei messaggi sovietici decodificati ha dimostrato incontrovertibilmente che Hiss era una spia sovietica» (Ibidem, p. 39). Per tutti gli anni 1940, Roosevelt non nutrì alcun sospetto sulla fedeltà di Hiss, tanto da volerlo accanto a lui a Yalta. Fu solo nel 1950, al termine del “Processo del Secolo” di cui Chambers fu il testimone chiave, che si arrivò alla sua incriminazione. Nel 1984, Chambers ha ricevuto postuma la Presidential Medal of Freedom. Sul processo Chambers-Hill, cfr. WHITTAKER CHAMBERS, Witness, Random House, New York (N. Y.) 1952. 9 Nonostante le informazioni passategli da Hoover, che era a capo del Federal Bureau of Investigation (FBI), Truman mantenne White al Tesoro per poi nominarlo alto funzionario al Fondo Monetario Internazionale. Con l’incarico di sottosegretario, White riuscì a far assumere al ministero altre undici spie, a far affossare un prestito decisivo alla Cina Nazionalista e cercò di convincere Roosevelt a concedere un prestito di dieci milioni di dollari all’Unione Sovietica a condizioni estremamente favorevoli. Anche Henry Dexter White, come Alger Hiss, figura nei dati del Venona Project, i file che contengono la trascrizione di migliaia di messaggi dei servizi di intelligence sovietica intercettati nel corso degli anni 1940 dal governo degli Stati Uniti e, ancora negli anni 1970, solo parzialmente decriptati; nel 1995 è stato tolto loro il sigillo della segretezza. Cfr. COULTER, Tradimento, cit., p. 55 e THOMAS E. WOODS JR., Guida politicamente scorretta alla storia degli Stati Uniti d’America, trad. it., D’Ettoris Editori, Crotone 2011, p. 168. 126 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 Fu forse l’odio a spingermi ad andare dal segretario di Stato ai tempi di Eisenhower e a implorarlo di non dare alcun supporto al comunista Fidel Castro10? Si trattava forse di odio quando sollecitai il presidente degli Stati Uniti a intervenire a fianco dei coraggiosi combattenti per la libertà in Ungheria11? Si trattava forse di odio quando il senatore democratico del Connecticut, Thomas [Joseph] Dodd (1907-1971), provò per due anni a convincere il presidente che bisognava opporsi al bagno di sangue compiuto dalle truppe delle Nazioni Unite ai danni del popolo libero del Katanga12? Eisenhower sospese nel marzo del 1958 l’invio di armi che l’esercito di Fulgencio Batista (1901-1973) avrebbe utilizzato contro i guerriglieri castristi e, il 14 dicembre, informò l’autocrate cubano che il suo regime non avrebbe più avuto l’appoggio degli Stati Uniti. Fuggito Batista dall’isola e insediatisi gli uomini di Fidel Castro agli inizi del 1959, i primi rapporti che arrivarono a Eisenhower furono a dir poco fuorvianti: «Nessun membro del [nuovo] governo sembra essere filo-comunista o antiamericano» scrisse al Dipartimento di Stato lo staff dell’ambasciata statunitense a Cuba. Cfr. ALAN H. LUXENBERG, Did Eisenhower Push Castro into the Arms of the Soviets?, in «Journal of Interamerican Studies and World Affairs», Vol. 30, No. 1, Spring 1988, p. 37-71. 11 La rivolta popolare anticomunista in Ungheria durò dal 23 ottobre al 4 novembre 1956. Com’è tristemente noto, dagli Stati Uniti non venne alcun aiuto, né politico né militare. Eisenhower non rispose all’appello degli insorti, né a quello del cardinale primate Joszef Mindszenty (1892-1975), né a quello ufficiale del governo ungherese guidato da Imre Nagy (1896-1958) che il 29 ottobre aveva coraggiosamente dichiarato la neutralità dello Stato ungherese e l’uscita dal Patto di Varsavia. Il 4 novembre i carri armati sovietici aprivano il fuoco a Budapest. I membri del governo saranno deportati in Romania per poi essere processati e condannati a morte, all’ergastolo o a pene minori. Cfr. MARCO INVERNIZZI, Ungheria 1956: cronaca dell’insurrezione popolare contro il regime comunista, in «Cristianità», anno XIV (1986), n. 138 (ottobre), p. 7-9. 12 L’11 luglio 1961, undici giorni dopo che l’ex Congo belga era stato riconosciuto indipendente, il Katanga, la regione sudorientale ricca di giacimenti minerari, annunciava la sua secessione per voce di Moise 10 127 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 Si tratta di odio quando capi eminenti delle forze armate spiegano che uno sforzo militare incondizionato e senza tentennamenti porrebbe fine alla guerra in Vietnam nel giro di poche ore? Potremmo continuare all’infinito con questo elenco di azioni compiute da cittadini benintenzionati il cui solo scopo era ed è quello di far sì che il loro presidente non commetta gravi errori. Tutti, comunque, conforterebbero la stessa tesi. La Storia mostrerà un giorno quanti e terribili siano stati gli errori compiuti a causa del fatto che l’opinione di tutti questi cittadini ben informati e benintenzionati non sia stata presa in debita considerazione. Quindi, ripeto, questo tipo di opposizione a un leader nazionale si fonda sull’amore e sul rispetto, non sull’odio. Qualunque sia il partito politico al potere, nessuno di voi desidera che il vostro presidente commetta errori grossolani. Non vorreste che perdesse la Cina, non vorreste che permettesse ad agenti nemici di prendersi gioco di noi. Non vorreste che Kapenda Tshombe (1919-1969), leader della Confederazione delle Associazioni Tribali del Katanga (CONAKAT). Le Nazioni Unite inviarono un contingente il 14 su richiesta del primo ministro congolese Patrice Lumumba (1925-1961). Quando, però, il segretario generale dell’ONU Dag Hammarskjöld (1905-1961) vietò che le truppe venissero impiegate in azioni offensive in Katanga o nella regione ribelle del Sud Kasai, Lumumba chiese e ottenne anche l’intervento militare dell’Unione Sovietica. Nel gennaio del 1961, Lumumba venne arrestato e brutalmente assassinato per ordine del capo delle sue forze armate Joseph Mobutu (1930-1997); l’Unione Sovietica scatenò, allora, contro Hammarskjöld una campagna internazionale, facendo ricadere sull’ONU e sul suo Segretario la responsabilità per l’accresciuta instabilità politica di quell’area. Sotto pressione, il 21 febbraio 1961 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite approvò la prima di varie risoluzioni che autorizzeranno le proprie truppe a un uso sempre più massiccio delle armi contro le forze del Katanga. La posizione di Tshombe, considerata troppo ancorata al vecchio regime coloniale, non incontrava le simpatie dell’Occidente progressista: dopo l’ultima e sanguinosa offensiva ONU nota come “Grande Slam”, Elizabethville cade nel gennaio del 1963 e le Nazioni Unite potranno consegnare il Katanga nelle mani dello spietato Mobutu. 128 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 perdesse Cuba. Non vorreste vederlo soffrire l’umiliazione di un disastro tipo “Baia dei Porci”13 o che fosse consentita la costruzione di una Gibilterra sovietica a novanta miglia dalle nostre coste. Ognuno di questi eventi così disastrosi che hanno privato della libertà centinaia di milioni di nostri alleati poteva essere evitato. E la voce di chiunque abbia cercato di avvertire Washington di ciò che stava accadendo non può essere attribuita all’odio. Al contrario, sono l’amore per la nostra Patria e il rispetto portato ai nostri leader che fanno levare le voci ammonitrici. 13. Il 17 aprile 1961, sbarcò a Cuba nella Baia de Cochinos – la Baia dei Porci – una brigata di circa millecinquecento uomini formata, per la maggior parte, da esuli cubani addestrati negli Stati Uniti. Il piano, sponsorizzato dalla Central Intelligence Agency (CIA), prevedeva che la brigata, per almeno una settimana, mantenesse il controllo di una striscia di terra sulla quale fare, poi, atterrare un governo provvisorio che gli Stati Uniti avrebbero riconosciuto. Alla formale richiesta di sostegno militare da parte di quest’ultimo, gli Stati Uniti avrebbero dichiarato guerra a Cuba. Il neo-eletto presidente Kennedy approvò il piano, ma vietò la copertura aerea dello sbarco che esso prevedeva. La missione fallì: Castro era a conoscenza dell’operazione “segreta” e le due navi che trasportavano munizioni, carburanti, cibo e trasmittenti furono immediatamente bombardate e affondate. Gli uomini, sbarcati in una zona paludosa e semidesertica, capirono, già ventiquattro ore dopo lo sbarco, di essere in una situazione disperata: si ritrovavano senza viveri né avevano munizioni per l’artiglieria pesante che avevano portato con sé; erano, inoltre, circondati dai carri armati che Castro aveva ricevuto in dotazione dall’Unione Sovietica ed erano, peraltro, tagliati fuori dai cubani anti-castristi che combattevano in un’altra regione. L’intervento della marina militare statunitense, che si trovava poco lontano dalle acque territoriali, avrebbe potuto rovesciare la situazione, ma Kennedy non ne autorizzò l’impiego. Riuscirono a mettersi in salvo solo in ventisei, recuperati da un sottomarino. Ne morirono 104 – le perdite delle milizie comuniste furono almeno dieci volte maggiori – e più di mille furono fatti prigionieri. Cfr. LYNCH GRAYSTON, Decision for Disaster: Betrayal at the Bay of Pigs, Brassey’s Washington, Dulles (Virginia) 1998. 129 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 Ciò che sicuramente desta meraviglia è il perché questi ammonimenti non siano stati presi mai seriamente in considerazione e non si sia agito di conseguenza. Come è potuto succedere che quegli uomini ai più alti posti di comando nel governo siano stati ingannati, a qualunque partito appartenessero? Personalmente, sono convinto che la causa principale risieda in una cospirazione socialcomunista condotta da maestri dell’inganno che, volta per volta, raggirano chi è stato eletto. J. Edgar Hoover lo spiegò bene, quando disse: «Non avrei alcun timore se più americani avessero lo zelo, il fervore, la perseveranza e la diligenza necessaria per tenersi informati sul pericolo pubblico costituito dal Fascismo Rosso. Mi preoccupano i liberal e i progressisti che si sono lasciati gabbare fino al punto di desiderare di unirsi ai comunisti»14. Perciò, guardatevi da chi lancia appelli all’unità e all’eliminazione dell’odio: il suo vero scopo potrebbe essere quello di mettere a tacere gli amici della libertà. Questi sì che hanno veramente rispetto per i loro leader, cui si oppongono solo quando sembra che la via per la quale si è stati condotti porti verso la catastrofe. Quale patriota americano potrebbe rimanere in silenzio, se si accorgesse che il proprio presidente, per essere stato mal consigliato o per aver commesso un errore di giudizio sui fatti, sia sul punto di commettere un grosso sbaglio? Dal mio punto di vista, tra gli errori più gravi che potrebbe commettere un presidente c’è quello di indebolire la Costituzione. Da quando ero solo un ragazzino, mi è sempre stato insegnato che la Costituzione americana è un documento ispirato. Mi è stato anche insegnato che sarebbe venuto il giorno in cui la Costituzione sarebbe stata in pericolo e come appesa a un filo. E mi è stato insegnato che dovremmo studiare la Costituzione, preservarne i principi e difenderla da chiunque voglia distruggerla. Ho sempre dato il meglio di me su questo fronte e ho tutte le intenzioni di continuare a spendere le mie Il testo è estratto dalla testimonianza resa da Hoover il 26 marzo 1947 dinanzi alla Commissione sulle Attività Antiamericane (HUAC). 14 130 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 energie per sostenere, proteggere e salvaguardare la nostra ispirata Costituzione. Circa due anni fa, un critico di Washington sostenne che una persona al servizio di una Chiesa non dovrebbe intervenire in materie come questa. Secondo lui, la separazione tra lo Stato e la Chiesa imporrebbe che chi ha incarichi istituzionali in una Chiesa debba limitare la propria attenzione agli affari interni della Chiesa. Anche io, com’è naturale, credo che le istituzioni ecclesiastiche e lo Stato dovrebbero rimanere separate, ma non sono d’accordo sul fatto che un leader spirituale non possa esprimere un’opinione su questioni fondamentali che riguardano ciò che è veramente fondativo per la libertà americana. Accettando quella posizione dovremmo buttare via una parte consistente della Bibbia. Parlare apertamente contro le azioni ingiuste o immorali di leader politici è stato sempre il fardello di profeti e discepoli di Dio da tempi immemorabili. Ed è anche la vera ragione per cui molti di loro furono perseguitati. Alcuni furono lapidati, altri bruciati vivi, molti furono imprigionati. Eppure il compito loro affidato da Dio, come guardiani dalle torri, consisteva proprio nel parlare apertamente e senza paura. Oggi, le cose non stanno certo diversamente. A Mosè, Dio disse: «[…] e proclamerete la liberazione nella terra per tutti i suoi abitanti» (Lv 25,10). Perché? Poiché Dio sa bene che il Vangelo – il suo piano perché tutti i Suoi figli siano benedetti – può prosperare solo in un’atmosfera di libertà. Ai moderni, Dio ha detto: la Costituzione «[dovrebbe] essere mantenuta per preservare i diritti e la protezione di ogni carne» (Dottrine e Alleanze 101,77). Come sta, oggi, la Costituzione? Gode di buona salute o è in pericolo? Il senatore dell’Arkansas J.[ames] William Fulbright (1905-1995) afferma che la Costituzione non è altro che un mero prodotto della società rurale del diciassettesimo 131 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 secolo. Al giorno d’oggi, sostiene, è obsoleta15. Il senatore della Pennsylvania Joseph S. Clark (1901-1990) dice che la separazione dei poteri con i suoi pesi e contrappesi deve essere ridimensionata, perché impedisce al presidente di dar subito corso a disposizioni decisive e urgenti16. Gus Hall (1910-2000), capo del Partito Comunista degli Stati Uniti, si dice d’accordo con i due senatori. Proprio così. E auspica un nuovo statuto federale che abolisca i diritti degli Stati. Secondo Walt [Whitman] Rostow (1916-2003), capo del Policy Planning Council del Dipartimento di Stato, l’America dovrebbe rinunciare alla propria sovranità nazionale. Egli ha senza vergogna affermato di esigere «una fine dell’essere nazione come si è andata definendo nel corso della storia»17. Gli stessi uomini che ho citato sono tra quelli che individuano grandi virtù in una società collettivizzata, socializzata. Tutti costoro vorrebbero concentrare vasti poteri a Washington. Samuel Adams (1722-1803), uno dei Padri Fondatori, disse una volta che era proprio per evitare questo che il Governo Costituzionale era stato predisposto18. Fulbright espresse queste opinioni in un discorso alla Stanford University tenuto nell’agosto del 1961. Cfr. G. EDWARD GRIFFIN, The Fearful Master. A second look at the United Nations, Western Islands Publisher, Appleton (Wisconsin) 1964, p. 192. 16 Anche Ronald Reagan aveva citato, l’una dopo l’altra, le opinioni dei due senatori nel discorso A time for choosing. Cfr. RONALD WILSON REAGAN, Tempo di scegliere, trad. it., in «Cristianità», anno XXIX (2011), n. 359 (gennaio-marzo 2011), p. 66. 17 Citato in un intervento al Senato di James Strom Thurmond (1902-2003), senatore del South Carolina. Congressional Records del 6 giugno 1963, vol. 109, 88° Congresso, p. A3362-3. 18 «[…] Mai alla suddetta Costituzione si potrà fare appello per autorizzare il Congresso a violare la giusta libertà di stampa o i diritti della coscienza; o a impedire al popolo degli Stati Uniti, costituito da cittadini pacifici, di detenere le proprie armi; o a mettere in piedi milizie permanenti, a meno che ciò non sia necessario per la difesa degli Stati Uniti, o di almeno uno di essi; o a impedire che il popolo possa fare petizioni ed esprimere lagnanze, in modo ordinato e pacifico, contro la legislazione federale; o a sottoporre il popolo a ingiustificate perquisizioni o sequestri della loro persona, dei loro 15 132 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 Arthur M.[eier] Schlesinger Jr. (1917-2007) è un altro personaggio molto influente che, nel passato, è stato anche consulente presidenziale19. Non soltanto egli desidera il socialismo per gli Stati Uniti d’America, ma crede, inoltre, che in un futuro potremo formare un’alleanza permanente con il comunismo. Dice che questo obiettivo potrà essere raggiunto se gli Stati Uniti si sposteranno verso sinistra e i comunisti verso destra. Ci incontreremmo, allora, nel centro vitale costituito dalla sinistra socialista. La Costituzione americana, naturalmente, verrebbe automaticamente messa da parte. Arthur Schlesinger e quelli come lui sono anche contrari alla liberazione delle nazioni prigioniere, persino quando queste riescono a liberarsi da sole. Questi uomini non guardano al comunismo come a un nemico. Piuttosto considerano i leader comunisti come alleati solo un po’ troppo zelanti che si riuscirà ad ammansire. Credono, per di più, di poter contenere il comunismo; fornendogli aiuti, però; non ostacolandolo! E poi sostengono che, ove dei regimi socialisti o comunisti fossero al collasso, dovremmo essere proprio noi a puntellarli, a nutrirli, a commerciare con loro e a garantirgli prestiti e credito a lungo termine. Basta leggere i quotidiani per rendersi conto che, sfortunatamente, le idee di questi uomini sono state già fatte proprie da Washington e diventate la politica ufficiale degli Stati Uniti. Ora mi domando: in un grande Paese libero come il nostro, se questi uomini propugnano dottrine suicide spesso ai limiti dell’alto tradimento, non sarà libero ogni patriota americano di parlare apertamente contro di loro? In questo particolare momento della storia degli Stati Uniti, la Costituzione è senza alcun dubbio minacciata e ogni cittadino dovrebbe esserne informato. Il monito dell’ora documenti o della loro proprietà» (SAMUEL ADAMS, Debates and Proceedings in the Convention and Proceedings in the Convention of the Commonwealth, Held in the Year 1788, Pierce & Hale ed., Boston (Massachusetts) 1850, p. 86-87). 19 Lo storico fu consulente di John Fitzgerald Kennedy. 133 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 presente dovrebbe riecheggiare lungo i corridoi di ogni istituzione americana – scuole, chiese, aule parlamentari, stampa, radio e televisione – e, per quanto concerne me e – sono sicuro – per quanto concerne voi, riecheggerà, con l’aiuto di Dio. Mentre continua il lavorio per distruggere la nostra Repubblica e la nostra Costituzione, i nemici della libertà vengono foraggiati. In che modo? In almeno dieci modi differenti: i. Mediante il riconoscimento diplomatico, il soccorso, il commercio e i negoziati con i comunisti. ii. Mediante il disarmo delle nostre difese militari. iii. Depotenziando le leggi sulla sicurezza e promuovendo l’ateismo a colpi di sentenze della Corte Suprema. iv. Mediante la perdita di sovranità, l’assolvimento di impegni internazionali, nonché l’appartenenza a organizzazioni mondiali. v. Mediante l’indebolimento delle forze dell’ordine territoriali e delle commissioni parlamentari di inchiesta. vi. Mediante usurpazioni da parte degli organi del potere esecutivo e giudiziario del nostro governo federale. vii. Mediante atti illegali compiuti in nome dei diritti civili. viii. Aggravando il debito pubblico con politiche inflattive e la svalutazione della moneta. ix. Mediante una miriade di ordini esecutivi e di programmi federali che indeboliscono gravemente i governi di Stato e locali. x. Sacrificando uomini americani, intervenendo in guerre che, con ogni evidenza, non si ha alcuna intenzione di vincere. Ho sempre cercato di parlare apertamente, ovunque ne abbia avuta la possibilità. È proprio per questa ragione che alcuni, a Washington, hanno iniziato a criticarmi aspramente. Non vogliono che questo tipo di messaggio arrivi al popolo perché li imbarazza: le cose che stanno distruggendo la Costituzione sono precisamente quelle a favore delle quali hanno votato. Metterle in evidenza potrebbe compromettere le 134 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 loro carriere politiche. Ecco perché provano a far tacere chiunque trasmetta il messaggio – chiunque si alzi in piedi e prenda posizione. Questi uomini politici progressisti non sono gli unici che provano a silenziare i richiami di allarme dei patrioti americani. Anche Mosca è ugualmente preoccupata. Risale al 1960 la decisione dei leader comunisti di fare qualcosa di drastico per reagire alla crescente ondata di patriottismo negli Stati Uniti. La perdita di Cuba a vantaggio dell’Unione Sovietica aveva messo in guardia molti americani. Aumentavano i partecipanti a gruppi di studio, a seminari, a scuole della libertà. Più si studiava, più si acquisiva consapevolezza del fatto che il comunismo stava avanzando su tutti i fronti. Con grande sorpresa, si apprese che la maggior parte dei politici a Washington non stava facendo praticamente nulla per impedirlo. Anzi, in molti casi molte loro iniziative sembravano mirare a incoraggiarlo. Fu così che le proteste iniziarono a convergere a Washington da ogni Stato dell’Unione. Sembrava che tutta l’America si stesse risvegliando. I leader sovietici sapevano che questi sviluppi avrebbero potuto creare disagi per il comunismo non solo negli Stati Uniti, ma in ogni altra parte del mondo. Perciò convocarono a Mosca delegati comunisti provenienti da ottantuno paesi. Nel dicembre del 1960, giusto cinque anni fa, questa convention comunista dispose che la crescente ondata di patriottismo e di anticomunismo andasse neutralizzata. Specialmente negli Stati Uniti. Contro i patrioti americani avrebbero perciò fatto ricorso a campagne denigratorie di ogni tipo. Ora, se i comunisti fossero stati costretti a fare questo lavoro da soli, sarebbero andati incontro a un altro fallimento. Gli americani avrebbero semplicemente serrato i ranghi e ritrovato un’unità ancora maggiore. Ciò che riesce a raggirare tante persone è il fatto che gli attacchi al patriottismo e al movimento anticomunista non siano provenuti direttamente da Mosca, ma da molti autorevoli americani che hanno sposato la prospettiva socialcomunista. 135 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 Si tratta di un blocco minoritario di progressisti, di liberal americani, che formano una sorta di coalizione ideale con i comunisti. La strategia è stata geniale. In pochissime ore sono riusciti a spostare il fuoco di tiro che fino allora puntava contro la cospirazione comunista, concentrandolo in un attacco contro i patrioti. Come ci sono riusciti? Semplicemente dicendo di essere sì contro il comunismo, ma anche contro l’anticomunismo, sostenendo che gli uni erano cattivi esattamente quanto gli altri. Che razza di logica era mai questa? E se avessimo fatto nostro questo approccio nella lotta contro il nazionalsocialismo? I patrioti più consapevoli la identificarono come una miscela di confusione e di illusione. In ogni circostanza, questa linea ingannevole di propaganda aveva il suo effetto. Le voci progressiste iniziavano col denunciare il comunismo ma, cambiato improvvisamente registro, esponevano pappagallescamente punti di vista comunisti. Asserivano di essere anticomunisti, ma passavano la maggior parte del tempo a combattere quelli che anticomunisti lo erano sul serio. Mi capitava, all’epoca, di domandare a qualcuno di loro: «State combattendo contro il comunismo o no? Sostenete che state contrastando il fuoco, ma quasi tutto il vostro tempo lo spendete a contrastare i pompieri!». Entro la fine del 1962 questi americani progressisti erano pressoché riusciti a vanificare la rinascita del patriottismo in America. Erano riusciti a spaventare i cittadini meno informati e ad allontanarli dai gruppi di studio e dai raduni patriottici. Grazie a loro, era diventato di moda definire il patriottismo una “materia controversa” da non discutere in riunioni scolastiche e nelle chiese. Da Washington, la Commissione Federale per le Comunicazioni diramò un provvedimento rivolto alle stazioni radio-televisive: se all’interno della programmazione avessero dato spazio a materie controverse come l’americanismo20, Cioè la prospettiva politica e sociale che ha, come presupposto, una stima senza riserve per i modelli economici e istituzionali elaborati e adottati negli Stati Uniti. 20 136 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 l’anticomunismo o i diritti dei singoli Stati avrebbero dovuto concedere senza alcun compenso lo stesso tempo a chiunque avesse voluto sostenere l’opinione contraria. Vi immaginavate che una cosa del genere potesse accadere in un Paese libero? Dissi alla mia famiglia: «È incredibile che sia accaduta in America una cosa simile». Al socialcomunismo dobbiamo opporci tutti, perché è il nostro nemico mortale e spirituale – il male più grande che il mondo oggi conosca. Ma la ragione per cui molti progressisti non vogliono che il popolo americano formi gruppi di studio per capire veramente e, dunque, combattere il socialcomunismo è che, quando gli americani sapranno come stanno le cose, a poco a poco si renderanno anche conto del fatto che molte delle cose che i liberal patrocinano sono di fatto un aiuto dato al nemico. I progressisti sperano che voi prestiate loro fede quando vi dicono di essere molto anticomunisti. Poi, però, si allarmano se voi stessi decidete di acculturarvi sul tema del socialcomunismo. Potrebbe accadere, infatti, che, compiuti questi studi, vi venga voglia di studiare quello che i liberal hanno votato in passato. E questa indagine vi mostrerebbe quanto i liberal stiano dando aiuti e man forte al nemico e come stiano di fatto conducendo l’America verso il socialismo. Del resto il comunismo, come il fascismo, è un particolare tipo di socialismo. Adesso il quadro è completo. Questi progressisti ci tengono a farvi sapere quanto stanno realizzando per voi – col denaro delle vostre tasse, si intende. Ma non vogliono che voi realizziate che la via che stanno perseguendo è socialista e che, alla lunga, il socialismo avrà sulle nostre libertà lo stesso effetto del comunismo. Se esprimete quest’osservazione ad alta voce, vorranno zittirvi – vi diranno che li state calunniando, o denigrando, o siete animati da faziosità politica. Atteggiamento liberal, progressismo, riformismo sociale: qualunque etichetta mettano sulla loro bottiglia, io so soltanto che la bottiglia contiene veleno per questa repubblica e “veleno” è proprio la parola che userò per descriverne il contenuto. Non è necessario interrogarsi sulle motivazioni che muovono questi liberal. Potrebbero essere al cento per cento in buona fede. Ma il punto non è la sincerità, la presunta 137 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 generosità o la bravura. La domanda giusta da formulare è: «Salveremo, così facendo, questo Paese dalle mani dei suoi nemici e dagli illusi?». Come diceva J. Edgar Hoover, «[…] la tragedia della generazione passata negli Stati Uniti è che troppe persone, inclusi statisti di alto rango, funzionari pubblici, educatori, ministri del Vangelo e professionisti sono stati gabbati e spinti a favorire il comunismo. I leader comunisti hanno proclamato che il comunismo è destinato a essere costruito in parte da mani non comuniste, e questo, in larga misura, è vero»21. «Né il socialismo, né il laicismo, né il pacifismo, né tantomeno le concessioni o l’arrendevolezza ci consentiranno di sconfiggere il comunismo. Solo un genuino americanismo ci metterà in condizione di riuscirci»22. In questa campagna avviata da Mosca e volta a fermare il movimento anticomunista in questo paese, la strategia comunista prevedeva per i loro amici liberal un ruolo importante, consistente nel condurre un attacco contro le associazioni patriottiche. Naturalmente, i comunisti sapevano quanto poco efficace sarebbe stato attaccare tutti i gruppi patriottici in un colpo solo. La loro strategia è consistita nel concentrare l’attacco su una singola organizzazione, tanto da renderla così detestabile e repellente per l’opinione pubblica da farne una specie di “bambino di pece”23 da usare, poi, per infangare tutti gli altri individui o gruppi appartenenti alla stessa categoria. JOHN EDGAR HOOVER, Masters of Deceit: The Story of Communism in America and How to Fight It, Henry Holt and Company, New York (N. Y.) 1958, p. 93. 22 La citazione è tratta dal Discorso fatto al Convegno Nazionale della Legione Americana, tenuto a Las Vegas il 9 ottobre 1962. 23 Cioè qualcosa il cui solo contatto può essere dannoso. “Tar baby” (bambino di pece) è il titolo di una favola di origini Cherokee confluita nei “Racconti dello zio Remo” di Joel Chandler Harris (1845-1908) pubblicati nel 1870. Si tratta un pupazzo di pece e trementina fabbricato per far cadere in trappola Br’er Rabbit (Fratel Coniglietto). Nella favola, più il coniglio tocca e colpisce il bambino di pece, più si invischia e rimane intrappolato. 21 138 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 Da dove i comunisti avrebbero cominciato il loro sporco lavoro? Quale organizzazione sarebbe stata scelta tra le tante per essere coperta di fango e catrame? La cosa suscitava un certo interesse. Forse la scelta sarebbe caduta sull’American Farm Bureau, che dai comunisti aveva già subito consistenti attacchi. O, magari, sarebbe toccato alla Legione Americana, o ai Veterans of Foreign Wars, o alle Figlie della Rivoluzione Americana (DAR), o, chissà, ai Figli della Rivoluzione Americana. Tutte queste associazioni, a dire di J. Edgar Hoover e dell’FBI, erano state già in passato bersagli privilegiati da parte dei comunisti. Invece, come si scoprì poi, non si trattò di nessuna di quelle: i comunisti decisero di concentrare il proprio attacco contro un’associazione costituitasi alquanto di recente e di cui pochi, incluso me stesso, avevano mai sentito parlare. Essi decisero di scaricare il loro intero arsenale sulla John Birch Society, poiché la non-partitica Birch Society possedeva tattica, programma e personale adatti per contribuire a battere il comunismo in questo Paese. E i comunisti, che ne avevano osservato i risultati, lo sapevano. Il «People’s world», organo ufficiale comunista che esce in California, sparò la raffica iniziale il 25 febbraio 1961. Denunciava l’esistenza negli Stati Uniti di una nuova associazione fascista segreta organizzata in “cellule”, sostenendo che costituisse il pericolo più serio che avesse mai minacciato l’America e il suo modo di vivere. Era il segnale convenuto perché il blocco di liberal americani sollevasse le torce. E questi lo fecero. In poche ore l’attenzione sulla campagna dei patrioti contro il comunismo fu dirottata sull’eroica cavalcata dell’intera schiera dei vigilantes progressisti per salvare la Patria dagli “orribili Birchers”. Non scesero in battaglia solo gli ultra-progressisti. Iniziò a gridare “Al ladro!” persino parte della migliore stampa conservatrice, e molti eminenti americani degni del più alto rispetto caddero nel tranello. I comunisti intendevano confondere il popolo americano e ci riuscirono. La tattica del “bambino di pece” infangò talmente la giovane e piccola – seppure in rapida ascesa – John Birch 139 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 Society che molta gente finì per considerarla un gruppo neonazista o un revival del Ku Klux Klan. E alcuni uomini, eminenti e molto rispettabili, furono ingannati a tal punto da dichiarare che la penetrazione della John Birch Society era pericolosa quanto quella della cospirazione atea e comunista. La John Birch Society reagì fin da subito perorando un qualche tipo di indagine ufficiale che avrebbe potuto restituire all’opinione pubblica un’immagine veritiera di sé. Essi ritenevano che fosse questo l’unico modo per andare al contrattacco e fronteggiare l’onda di deformante propaganda che li stava sommergendo. I tempi dell’investigazione, però, sono stati lunghi abbastanza perché la coalizione liberal-comunista centrasse in pieno i suoi obiettivi. E, probabilmente, ci vorrà ancora molto tempo prima che si presti un’attenzione priva di pregiudizi alle conclusioni del rapporto ufficiale. L’indagine è stata condotta da investigatori esperti che stavano lavorando per la Sottocommissione Investigativa del Senato californiano sulle Attività Anti-Americane. L’indagine è durata due anni. Sono state raccolte testimonianze sotto giuramento e analizzati tutti gli attacchi subiti dalla Society. Sono stati sentiti suoi detrattori e suoi simpatizzanti. Agenti sotto copertura hanno partecipato agli incontri della Birch. Le conclusioni delle indagini senatoriali sono state pubblicate nel giugno del 1963. Anche questo documento, tuttavia, ha subito a bella posta delle deformazioni nelle cronache apparse sulla stampa progressista. In quanto a me, sono, però, riuscito a procurami una copia del documento e ho potuto leggerne io stesso il contenuto. È un rapporto lungo sessantadue pagine; è stato firmato da tutti i membri della commissione ed è stato emanato dal presidente pro-tempore del Senato della California, il senatore Hugh M. Burns (1902-1988), un Democratico. Ecco alcuni stralci da questo rapporto: «L’associazione è stata pubblicamente accusata di essere un’organizzazione segreta, fascista, sovversiva, non-americana e antisemita. Abbiamo scoperto che nessuna di queste accuse è supportata da prove». 140 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 Ed eccovi un altro passaggio dallo stesso rapporto: «Riteniamo che la ragione per cui la John Birch Society abbia attirato un numero così alto di membri sta nel semplice fatto che questi hanno visto in essa la più efficace organizzazione – l’unica, in effetti – attraverso cui formare un movimento nazionale per comprendere la reale entità della minaccia comunista e per compiere azioni di qualche tipo, positive e concertate, al fine di osteggiarla». In questo rapporto c’è pure scritto che gli attacchi alla John Birch Society iniziarono, come vi ho detto anch’io, con un articolo pubblicato sul periodico comunista californiano «People’s world». Ora, alla luce di ciò che vi ho appena raccontato, capirete i miei sentimenti quando le persone, a causa della propaganda tremendamente efficace messa in atto contro la John Birch Society, mi chiedevano che cosa pensassi di essa; difendere questo gruppo era diventato veramente impopolare. Ricordo bene, del resto, i tempi in cui era impopolare anche difendere la Chiesa cui appartengo. Ebbene, non appena compresi che cosa comunisti e liberal stavano facendo alla John Birch Society, mi indignai fortemente; la stessa reazione che avrei avuto se, a essere attaccato, ci fosse stato un altro gruppo patriottico e non partitico di cittadini americani. Mi resi conto che era solo una questione di disonesta, immorale e crassa ipocrisia. Ed è il modo in cui la penso ancora oggi. […] A titolo di curiosità, a qualcuno di voi potrebbe far piacere sapere in poche righe ciò che la John Birch Society veramente è e per che cosa combatte; magari solo per farsi un’idea più precisa sulle ragioni che hanno spinto molti di noi a porci in sua difesa. Anche se la cosa migliore sarebbe che voi stessi consultaste i testi che la Birch Society pubblica. […] L’associazione mira, attraverso corsi di formazione ed eventi a cadenza mensile, a proteggere, usando tutti i mezzi legali e moralmente leciti, la nostra ispirata Costituzione. […] È contraria a sostenere economicamente i Paesi comunisti all’estero, è contraria all’imposta progressiva sui redditi di stampo marxista ed è, infine, contraria alla competizione ingaggiata dal governo federale contro l’iniziativa privata dei 141 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 contribuenti. In breve, la John Birch Society si batte per un governo meno centralizzato, per una maggiore responsabilità personale e per un mondo migliore. Io non appartengo alla John Birch Society, ma l’ho sempre difesa, come del resto ho fatto con l’American Farm Bureau, il DAR, la Legione Americana, i Veterans of Foreign Wars e gli altri gruppi patriottici che cercano di metter in guardia gli americani contro la minaccia socialcomunista. […] Quando a mio figlio Reed fu offerta l’opportunità di diventare uno State coordinator della John Birch Society, lui mi chiese se avrebbe dovuto accettare. […] Sapevo che, così facendo, Reed avrebbe abbracciato una causa impopolare. E che sarebbe stato vittima di calunnie se avesse accettato quell’incarico. Tuttavia gli dissi di andare avanti se pensava che questo fosse il modo più adeguato per difendere la Costituzione e combattere la minaccia socialcomunista. Gli avrei dato lo stesso incoraggiamento se mi avesse detto che stava prendendo in considerazione la possibilità di entrare nell’FBI o in un’altra associazione patriottica impegnata a combattere la cospirazione dei senza Dio che minaccia tutto ciò che ci è caro. Quando decise di accettare, dissi pubblicamente che, per me, la John Birch Society era, tra le organizzazioni non ecclesiastiche, quella che con più efficacia combatteva contro il socialismo strisciante e il comunismo ateo; e ho detto pure di aver ammirato il coraggio di Reed e di aver applaudito alla sua decisione. Alcune persone, sono sicuro, in buona fede vennero a dirmi che era stata una mossa strategicamente inopportuna; ma io non sono d’accordo. È sempre strategicamente opportuno prendere apertamente posizione per ciò che è giusto, anche quando ciò dovesse essere impopolare. Forse dovrei dire specialmente se dovesse essere impopolare. Ho dovuto prendere spesso questo stesso tipo di decisioni, come quando al presidente David O. McKay (1873-1970) giunse un invito da parte dell’ex-deputato John Rousselot (1927-2003), che gli chiedeva di autorizzarmi a tenere un discorso patriottico a un banchetto in onore di Robert Welch (1899-1985) [cofondatore della John Birch Society, ndr]. Il presidente, dopo 142 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 un’attenta valutazione, mi disse che avrei dovuto fare quel discorso e che avevo il suo permesso e la sua benedizione. E così l’invito fu accettato. Feci il discorso all’Hollywood Palladium il 23 settembre 1963. Quella sera mi ascoltarono duemila persone e, il giorno dopo, rivolsi lo stesso discorso a quattromila kiwaniani24 al loro convegno annuale. Entrambi gli interventi riguardavano la difesa della Costituzione e la necessità di resistere alla minaccia comunista. Al banchetto encomiai la John Birch Society incoraggiandoli a proteggere i principi della libertà in tutto il Paese. Come tutti voi ben sapete, questo discorso scatenò la reazione immediata di alcuni esponenti liberal di Washington. Per costoro io, in quanto funzionario di una Chiesa, non sarei dovuto intervenire al banchetto per Robert Welch. Questo faceva di me una persona “controversa”. Pure Patrick Henry (1736-1799) e gli altri Padri Fondatori erano “controversi”, come è giusto che siano sempre i veri patrioti. Forse quelli che mi criticavano non sapevano che avevo accettato quell’incarico con la piena approvazione del presidente McKay. E forse neanche sapevano che il presidente David O. McKay non ha esitato a parlare in difesa della libertà anche quando qualcuno giudicava “controverso” il suo patriottismo. Neanche io esiterò. Non c’è nulla di controverso nella battaglia per la tutela della Costituzione, né in quella contro il comunismo. Si tratta, infatti, di una guerra contro il demonio – di Cristo contro l’Anticristo – ed io desidero combatterla. È una battaglia contro il peggiore male di questo mondo, contro una cospirazione atea, potente e spietata. John Edgar Hoover ci ha avvertiti: la Guerra Fredda è una guerra vera e propria e sta diventando sempre più pericolosa. Io sono d’accordo e questa guerra, sfortunatamente, noi la stiamo perdendo. […] Kiwanis è il nome di un’associazione umanitaria fondata nel 1915 con sede principale a Indianapolis. Il nome deriva da un’espressione di lingua Otchipew degli indiani d’America che significa “noi commerciamo” o “noi condividiamo i nostri talenti”. 24 143 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 In conclusione, potrei dire che uno dei nostri problemi più seri è il complesso di inferiorità che le persone patiscono quando sono poco informate e disorganizzate. In questo caso non si ha il coraggio di prendere una decisione su questioni vitali. Si lascia che altri decidano al proprio posto. Le persone cercano di evitare un ostacolo al centro della carreggiata sperando che nessuno li accusi, così, di essere “controversi”, ma finiscono per essere investiti dal traffico che va nella direzione opposta. Ai patrioti dico questo: guardate lontano, verso l’eternità. Alzatevi in piedi per la libertà, costi quello che costi. Potrebbe servire a salvare le vostre anime e, forse, anche la vostra patria. Questa è una terra eletta… eletta sopra tutte le altre. Sia benedetto l’Onnipotente, come hanno fatto e hanno continuato a fare i nostri antenati. Continuerà a essere una terra di libertà nella misura in cui sapremo progredire nella luce dei sani e durevoli principi della giustizia. Sacrificare tali principi in nome di una momentanea convenienza – spesso motivata dall’egoismo – significa mettere in pericolo la nostra nobile eredità e non è degno di questo grande popolo americano. Con tutto il cuore io amo questa grande nazione. Ho vissuto e viaggiato all’estero quanto basta per farmi apprezzare senza riserve ciò che abbiamo qui. Per me, questa non è una delle tante nazioni, né è un membro qualunque di una famiglia di nazioni. Questa è una nazione che ha un grande compito da portare a termine a beneficio e per la benedizione di tutti quei popoli del mondo che sono amanti della libertà. È mia ferma convinzione che la Costituzione di questo Paese fu promulgata da uomini che il Dio dei cieli aveva chiamato alla vita proprio per questo compito. Ciò è parte integrante della mia fede religiosa. I giorni che ci aspettano sono impegnativi e potranno farci rinsavire, ma richiedono la fede, le preghiere e la lealtà di ogni americano. Come dichiarava l’antico apostolo: «La notte è avanzata, il giorno è vicino. Perciò gettiamo via le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce» (Rm 13,12). Possa Dio donarci la saggezza di riconoscere i pericoli 144 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 dell’autocompiacimento e la minaccia che incombe sulla libertà; e possa anche donarci la forza per affrontare questo pericolo coraggiosamente. La nostra sfida consiste nel preservare l’America forte e libera – forte socialmente, forte economicamente e, soprattutto, forte spiritualmente, se vogliamo che il nostro modo di vivere continui a durare. Non c’è altra strada. Solo lungo questa via la nostra nazione troverà la salvezza. In questa grande battaglia ognuno di voi ha una parte. Ogni persona che oggi vive sulla Terra scelse la parte giusta nella guerra in cielo25. Ponetevi dalla parte giusta anche ora. Alzatevi in piedi e prendete posizione. E nei momenti di scoraggiamento, ricordatevi le parole di Edward Everett Hale (1822-1909): «Io sono soltanto uno, ma uno è già qualcosa. Non potrei fare tutto, ma posso fare qualche cosa. Ciò che potrei fare è quello che devo fare; e quello che dovrei fare, per grazia di Dio, lo farò!»26. E questa è la mia preghiera per tutti voi oggi. Che Dio benedica ognuno di voi. Molte grazie. Secondo la dottrina mormone, gli uomini e le donne sono incarnazione di spiriti o “intelligenze” preesistenti che hanno accettato il piano di Dio: per progredire in Cielo, accettano un corpo in carne e ossa sulla Terra e qui operano la scelta del bene e del male, con il contrappunto della sofferenza e della morte. Cfr. MASSIMO INTROVIGNE, I mormoni dal Far West alle Olimpiadi, Elledici, Leumann (Torino) 2002, p. 70. 26 In una forma sintatticamente variata, la preghiera del pastore unitariano congregazionalista apparve in JEANIE ASHLEY BATES GREENOUGH, A Year of Beautiful Thoughts? (1902), Meredith Press, New York 2007 (N. Y.), p. 172. 25 145 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 AUGUSTO DEL NOCE L’inevitabile decomposizione del marxismo* A cura di Guido Vignelli** Il suicidio del comunismo In un colloquio con Del Noce, egli una volta mi disse che il celebre motto, secondo cui historia magistra vitae, purtroppo non gli pareva realistico, perché proprio la storia dimostra che l’umanità non riesce a imparare dalla esperienza passata e quindi tende a ripetere sempre gli stessi errori. È però anche vero che la divina Provvidenza suscita pensatori capaci, col loro acume profetico, di far tesoro degli errori passati e anche di prevedere quelli futuri. Del Noce è stato uno di questi pensatori profetici, soprattutto illuminando la tragedia del XX secolo: il comunismo, del quale previde con grande anticipo la crisi e il suicidio. ____________________ * Il testo è tratto dal mensile «30 Giorni», anno 8 (1990), n. 2 (febbraio), p. 68-73. ** Guido Vignelli (1954) è studioso etica, filosofia politica e scienza delle comunicazioni. Nel 1982 è stato tra i fondatori del Centro Culturale Lepanto e nel 1987 dell’associazione Famiglia Domani. Dal 2001 al 2006 è stato membro della Commissione di Studio sulla Famiglia istituita dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Ha tenuto vari corsi di aggiornamento per docenti ed è autore di numerosi libri. 147 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 Secondo Del Noce, l’avvento del Sessantotto segnò insieme il successo e la definitiva crisi del comunismo come ideologia e come movimento. Fin dall’inizio degli anni Settanta, egli profetizzò il crollo del mondo sovietico e Il suicidio della rivoluzione, come testimonia questo titolo di un suo celebre libro (Rusconi, Milano 1978). Ma egli temeva che questo avvenimento non sarebbe stato davvero liberatore, perché non era risultato di un processo di conversione e di riscatto, ma solo del fallimento del progetto costruttivo sovietico. Pertanto, il vuoto che ne risultava rischiava di essere riempito da un radicalismo libertino e permissivo, come quello promosso in Italia dall’avvento di un “partito radicale di massa”. Del Noce ribadì questa previsione nell’articolo che qui presentiamo, pubblicato postumo sulla rivista «30 Giorni»; essendo egli morto il 30 dicembre 1989, fece appena in tempo a vedere la caduta del Muro di Berlino, ma non il successivo crollo del sistema sovietico; vide l’avvento del radicalismo, ma non i recenti segni di riscossa morale ch’egli aveva a lungo auspicato e per i quali aveva tanto operato. Per Del Noce, il crollo degli Stati comunisti non va attribuito alla globalizzazione dell’economia o delle comunicazioni, come pretendono i liberali, bensì alla resistenza, e poi alla rinascita, del sentimento patriottico e di quello religioso. Parimenti, la crisi degli Stati non va attribuita alla rivolta del neo-proletariato terzomondiale, come pretendono i socialisti, ma alla riscossa della coscienza civile e religiosa. Com’è noto, oggi l’Unione Europea tenta di rimediare alla crisi del comunismo realizzando una “nuova sintesi” tra socialismo e radicalismo che dovrebbe animare la nuova epoca “postmoderna”. Ma questo tentativo sta provocando non la nascita di una nuova società, ma solo la dissoluzione finale della vecchia società, il crollo di tutte le certezze e sicurezze tradizionali delle quali tuttora sopravvive: dilaga insomma un nichilismo che si realizza nell’anarchia. Quindi, secondo Del Noce, il XX secolo si conclude non solo con un fallimento, ma anche con una sorta di “catastrofe”, nel senso sia etimologico (rovesciamento) che filosofico (mutamento globale): infatti tutte le ideologie che avevano 148 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 progettato la deificazione dell’uomo si sono “rovesciate” producendo l’opposto di quanto avevano promesso, e in tal modo avviano un mutamento epocale dalle imprevedibili conseguenze (si vedano al riguardo le dichiarazioni delnociane rese nel 1987 a Vittorio Messori, poi riportate nel libro Pensare la storia, Edizioni San Paolo, Milano 1992). Si è quindi realizzata quella che Del Noce, nell’articolo che qui riportiamo, chiama «eterogenesi dei fini che colpisce tutte le forme rivoluzionarie dell’Ottocento; (…) la decomposizione del marxismo coincide con la crisi della modernità»; dunque, per uscire dalla crisi attuale, s’impone una rinascita culturale che parta dalla «critica delle idee di modernità e di secolarizzazione». Il fallimento della Rivoluzione L’attuale crisi non colpisce solo il socialismo e il liberalismo, ma anche la loro radice storico-ideologica, ossia la “modernità”, intesa in senso non cronologico ma assiologico, ossia come tentativo di realizzare l’Assoluto nella Storia e il Paradiso sulla Terra, mediante la divinizzazione dell’uomo con le sue sole forze naturali: è quella che il Magistero pontificio ha chiamato Rivoluzione. Negli anni tra il 1980 e il 1995, poco prima della loro morte, due fra i massimi esponenti della cultura e dell’apostolato cattolico mondiale, l’italiano Augusto Del Noce e il brasiliano Plinio Corrêa de Oliveira, separatamente previdero che il suicidio del comunismo avrebbe coinvolto l’intera Rivoluzione, il che avrebbe comportato la fine della “modernità”. Secondo loro, la Rivoluzione è ormai moribonda perché divorata dal suo stesso nichilismo; ciò non deve stupire poiché, nella stessa essenza della Rivoluzione, «si trovano già inscritti il suo destino di sconfitta e la sua condanna alla infamia» (A. Del Noce, Cristianità e laicità, Giuffré, Milano 1998, p. 317). L’ultimo saggio pubblicato da Del Noce ancora in vita fu significativamente intitolato Secolarizzazione e crisi della modernità (E.S.I., Napoli 1989). 149 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 I più lucidi ideologi rivoluzionari hanno ammesso che il loro progetto è fallito e che stanno marciando nel buio verso la rovina. Un amico-nemico di Del Noce, il politologo Norberto Bobbio, già nel 1989 ammise sconsolato: «noi corriamo spensierati verso l’abisso, dopo esserci messi davanti agli occhi qualcosa che c’impedisce di vederlo» (cfr. «L’Espresso», 19 marzo 1989, p. 3). Sono ciechi che pretendono ancora di condurre altri ciechi! Ciò dimostra il grave errore commesso dai cristiani progressisti. Convinti della irreversibilità del processo di secolarizzazione e di socializzazione, dominati da un complesso d’inferiorità verso la “cultura moderna”, essi ne hanno recepito acriticamente il pensiero e vi si sono subordinati nell’azione; vedendone oggi la crisi mortale, essi tentano invano di rianimarla fornendole un mero “supplemento d’anima” e rischiando quindi di esserne coinvolti nel fallimento. Per contro, il primo dovere della cultura cristiana sta nel «prendere coscienza del valore e della conferma che trova oggi quella critica della modernità che ha ispirato la filosofia della storia cattolica dell'Ottocento, e che invece, in questo dopoguerra, molta parte della cultura cattolica, nuovi teologi in testa, ha ripudiato» (Augusto Del Noce, Cristianità e laicità, p. 146). Pertanto, la “catastrofe” della Rivoluzione va vista non come una sciagura ma anzi come una provvidenziale possibilità di riscatto; essa infatti demolisce gl’idoli della “modernità” e apre la strada a un rinnovamento spirituale che favorirà l’avvento di una nuova epoca cristiana e quindi di una “nuova Cristianità” che però, a differenza di quella auspicata da Maritain, non sarà profana e secolare ma sacrale e religiosa. Guido Vignelli 150 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 Le mie tesi nei riguardi di un’interpretazione filosofica della storia contemporanea mi separano da gran parte degli studiosi così di destra come di sinistra, così dai marxisti come dai laici, come pure dalla cultura cattolica prevalente e dalle forme di progressismo, ora temperate ora estremiste, che generalmente essa professa. Ricordo quello che mi scriveva Ernst Nolte mesi fa: in questa linea interpretativa, che pure assume notevoli differenze in lui e in me, ci troviamo pressoché isolati nel mondo. Se dovessi dire le ragioni per cui essa si distingue, il discorso andrebbe innanzi per ore e ore. Premetterò un insieme di proposizioni che non posso compiutamente giustificare, ma che sono il presupposto di quel che dirò: la prima è che la storia del nostro secolo è quella della completa riuscita del marxismo – nel senso che realmente ha mutato il mondo e non soltanto quella parte del mondo in cui il comunismo è riuscito – ed insieme del completo suo scacco, nel senso che le posizioni così ideali come pratiche del pensiero razionalistico-laicistico successivo sono aspetti della sua decomposizione e in quello che il processo dall’iniziale filosofia di Marx a quel che viene detto “socialismo reale” è estremamente razionale e necessario (trovo una conferma di queste tesi in Vittorio Strada, che parte dalla considerazione della realtà sovietica attuale, per arrivare alle sue condizioni ideali; nonché in Solzenicyn che vede nel comunismo un realtà che non si spiega con l’anima russa, e che in qualche modo le si è sovrapposto). Ora, è ovvio che questo giudizio non può essere espresso né da un marxista né da chi escluda il marxismo dalla storia della filosofia (ultima versione Popper); può imparentarsi invece con Nietzsche, se si vede la sua opera all’inizio e al fondo della letteratura della crisi. Le tesi della completa riuscita e del completo fallimento allontanano da quelle così della rivoluzione tradita come da ogni reminiscenza di kautskismo o mondolfismo. La seconda. La tesi che ho enunciato, secondo cui quel che oggi viene detto “socialismo reale” è la realizzazione prima di quel che era già presente nell’iniziale filosofia marxista e insieme il completo rovesciamento delle speranze e delle 151 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 profezie marxiste (non semplicemente nel senso che abbia dato origine a qualcosa di altro, ma in quello che ha realizzato l’esatto opposto di quel che prometteva), rientra in un’altra tesi più generale sull’eterogenesi dei fini che colpisce tutte le forme rivoluzionarie dell’Ottocento. Lo stesso, infatti, si deve dire, a mio giudizio, rispetto a Mazzini. Può sembrare strano asserire che l’epilogo affatto imprevisto della rivoluzione mazziniana sia stato il fascismo; pure lo è meno se si pensa come sia attraverso Mazzini che si abbia l’incontro tra Gentile e Mussolini nel primo dopoguerra. La terza. Se all’inizio del periodo storico che viviamo c’è un fatto filosofico – la filosofia di Marx – la storia contemporanea offre il vantaggio euristico di una piena razionalità. Ho letto di recente una frase di Norberto Bobbio, secondo cui la realtà contemporanea smentisce l’assunto che la storia delle idee e la storia dei fatti corrano sullo stesso binario, così da mostrare che non c’è nulla di meno razionale della credenza nella razionalità della storia; e non si tratta di una battuta perché questo giudizio è il punto di arrivo di una delle direzioni prevalenti della cultura filosofico-politica italiana, quella che prende le mosse da Gobetti e che si ispira Cattaneo, del liberalsocialismo insomma. Per Bobbio il mondo contemporaneo è segnato dalla lotta della modernità-eguaglianza-democrazia, tra idee per lui unite, contro l’irrazionalismo, dall’antitesi di Rousseau e di Nietzsche. Per me, invece, per intendere la sua storia, cioè quella che va dalla prima guerra mondiale e dalla Rivoluzione d’ottobre ad oggi, occorre dare priorità alla causalità ideale, quanto a dire al momento filosofico e religioso: essa, considerata da questo punto di vista, manifesta una razionalità nei suoi momenti essenziali, come espressione, e vedremo tra un momento quale sia il senso di questa affermazione, dell’articolarsi di un sistema filosofico. Al termine di “secolarizzazione” è toccata una sorte, a ben guardare, non troppo diversa da quella di “umanismo”. Ha finito cioè col perdere ogni significato preciso. Resta tuttavia innegabile la correlazione tra l’idea di secolarizzazione e quella di modernità. Per il pensiero laico il termine di modernità è legato all’idea di un processo irreversibile verso l’immanenza 152 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 radicale. Anche i teologi che hanno parlato di secolarizzazione ne hanno unito l’idea a quella di modernità. Ricordiamo la celebre frase di Bonhoeffer secondo cui si avrebbe oggi il passaggio dell’umanità all’età adulta, onde la necessità di presentare la verità religiosa in un altra forma all’uomo moderno. A mio giudizio il termine di secolarizzazione acquisisce tutto il suo significato se lo pensiamo in rapporto a quella che possiamo chiamare la controreligione marxista: Marx vuole realizzare il rifiuto radicale della dipendenza dell’uomo, dunque dell’aspetto per cui la religione significa dipendenza da un Dio creatore. Tuttavia neppure si può dire che la controreligione marxista si riduca a un semplice rifiuto della religione. Nella letteratura marxista si trovano alternativamente i termini del radicale ateismo e della “religione che deve ammazzare i cristianesimo” per servirmi di una celebre frase di Gramsci. Il rifiuto della dipendenza dal Dio creatore si accompagna infatti con la radicale estremizzazione dell’aspetto per cui religione significa liberazione, redenzione. La rivoluzione marxista mantiene l’aspetto di religione per la conversione che essa implica come passaggio a una realtà superiore, totalmente altra, anche se non affatto trascendente o soprannaturale. Credo che sotto questo riguardo il termine di secolarizzazione sia più adeguato rispetto a tanti discorsi che furono fatti e che hanno finito col tediare sul messianismo, millenarismo, profetismo del marxismo o sulla presenza inconscia nell’animo di Marx di archetipi religiosi. È da osservare che l’idea della convenienza prioritaria al marxismo del termine di secolarizzazione includa in sé anche quel che c’è di valido nell’interpretazione del marxismo in termini di nuovo gnosticismo, così che la sua comparsa a conclusione della filosofia classica tedesca segna la riapertura nell’Ottocento del conflitto tra la religiosità cristiana e una religiosità di tipo gnostico. È nei testi gnostici, infatti, che troviamo l’idea di due mondi ognuno dei quali ha il suo Dio, e quella che il vero Dio è il Dio del mondo “nuovo”, di un mondo di là da venire, del tutto contrario al mondo presente in cui l’uomo vive come uno “straniero”. Il “futuro” o l’“avvenire” dei rivoluzionari sembra la traduzione moderna del “vero” Dio degli 153 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 gnostici. Così che sembra si abbia l’autorizzazione a parlare nei riguardi del pensiero rivoluzionario, di una gnosi “postcristiana”, vale a dire di una gnosi rinnovata dopo l’affermazione cristiana della trascendenza dell’uomo alla natura, e passata quindi da una veduta cosmologica a una antropologica. Il discorso dovrebbe qui naturalmente venire allargato, ricevendo nuove prove; si potrebbe illustrare come nel suo tentativo di risolvere il cristianesimo in filosofia Hegel avesse incontrato la gnosi; e ciò era già stato osservato nei primi decenni dell’Ottocento. Se noi guardiamo alle tesi delle varie teologie della secolarizzazione è abbastanza facile accorgersi come l’occasione storica del loro sorgere sia sempre da cercare in un giudizio sulla storia contemporanea e un giudizio generalmente favorevole alla rivoluzione marxista; o all’idea del processo irreversibile per cui nel corso dei secoli moderni si è affermata la mondanità del mondo. Per questa ricerca di compromesso con la modernità intesa come processo irreversibile basterebbe considerare quelle delle loro tesi che sono venute a far parte del patrimonio comune della cultura. Le forme della teologia della secolarizzazione, tutte fondate sulla distinzione tra secolarizzazione e secolarismo, oscillano tra la risoluzione più o meno dissimulata della religione nel pensiero rivoluzionario e una distinzione, che in realtà è separazione, tra il temporale e il sacro, che riduce la grazia a una aggiunta che non si riesce a capire come possa inserirsi nella nostra vita. Ma, ora, se per un verso si può dire che il marxismo – e qui concordo con Lukàcs, Bloch, Gramsci – si presenta come il punto più alto della modernità quando questa venga intesa nel senso di un rifiuto della dipendenza e che in questo senso debba anche venire intesa la sostituzione del materialismo al sempre teologico immanentismo (Deus manet in nobis), tuttavia esso rappresenta pure la crisi della modernità, crisi non superabile perché il marxismo va soggetto a decomposizione, ma non è passibile di inveramento, e in questa crisi si può vedere esattamente quel correre sullo stesso binario della storia delle idee e della storia di fatti che Bobbio nega. Osservazione: il marxismo si presenta infatti come la maggiore sintesi di opposti 154 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 che mai si sia data nella storia del pensiero. Del massimo dell’utopia del massimo del realismo politico. Dell’estremo materialismo ed insieme del pensiero dialettico, liberato dalle remore che portavano al sistema chiuso. E l’idea della rivoluzione totale importa questa sintesi degli opposti. Del massimo dell’utopia, e infatti non a caso, a differenza di altri utopisti, Marx non indugia nella descrizione della società futura, e si limita genericamente a darne i caratteri per via negativa: ciò perché la sua società futura è pensata come talmente altro rispetto all’esistente che cercare di descriverne i caratteri sarebbe cadere nella fantasticheria; dunque si deve parlare nel suo riguardo non di utopismo moderato che pensa ad una realtà presente liberata dalle contraddizioni e che è l’utopismo che egli critica, ma di utopismo portato all’estremo per cui la realtà nuova deve generarsi in conseguenza dello scoppio delle contraddizioni. Al tempo stesso viene portato all’estremo il momento del realismo politico perché la rivoluzione totale, perché totale, non può avvenire in nome di valori universali già presenti nella realtà da evertire, di libertà e di giustizia, ma per il movimento stesso della realtà; il materialismo di Marx è appunto negazione di valori etici universali, in nome della rivoluzione totale. L’inglobamento dei valori nell’unico valore della rivoluzione non può non portare alla totale dissoluzione dell’etica nella politica. Possiamo a questo punto intendere il senso profondo di una frase pronunciata da Lenin nel corso della Rivoluzione di Ottobre, e che a prima vista può sembrare un’affermazione troppo a punta, uno slogan propagandistico enunciato in un momento di particolare tensione: “Morale è ciò che serve al successo della rivoluzione proletaria”. È tanto poco uno slogan propagandistico che sarebbe assai facile trovarne gli antecedenti nei giudizi così di Marx come di Engels rispetto all’etica e i susseguenti nelle affermazioni dei teorici del marxismo-leninismo secondo cui il criterio supremo e unico della morale comunista è ciò che è utile alla lotta per il comunismo. Ora la storia della realizzazione del marxismo mostra come i due momenti si scindano, a favore del momento realistico-politico, portato all’estremo come totale inclusione dell’etica nella politica. In ragione del superamento della 155 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 filosofia nella politica, nel suo essere cioè il marxismo, nella contrapposizione a Hegel una filosofia ante factum volta alla realizzazione di una totalità, anziché una filosofia post factum come consapevolezza di una realtà già realizzata, la nuova idea marxiana dell’uomo ha soltanto nella realizzazione storica la misura della sua validità, e potrà essere realizzata solo attraverso una rivoluzione totale, come passaggio da uno stato del mondo a uno stato contrario. Si può trattare oggi della filosofia e dell’economia di Marx come se la rivoluzione russa non ci fosse stata? Molti hanno l’aria di pensare così, nella persuasione che una cosa è il modello, altra cosa la sua riproduzione nella realtà empirica. Ma ciò non è affatto valido nei riguardi del marxismo. In conseguenza della sua negazione di verità assolute, Marx deve porre il criterio di verità della sua filosofia nella verifica sperimentale, nel risultato storico cui ha dato luogo (si ricordi la celebre seconda tesi su Feuerbach). Ci si può domandare se questa verifica ci sia stata. C’è un’interpretazione trotzkista per cui la rivoluzione era iniziata bene con Lenin nel ’17 e negli anni successivi, ma era poi stata tradita da Stalin. C’è un’altra interpretazione periodicamente riaffiorante che intende dissociare marxismo e leninismo: le radici della cultura e dell’opera pratica di Lenin dovrebbero essere cercate nel “populismo rivoluzionario russo” dal cui incontro il marxismo sarebbe stato completamente trasfigurato. Per altro avviso Lenin avrebbe introdotto sin dal Che fare? del 1903 nel marxismo la teoria delle élites in esso contraddittoria; il suo volontarismo e soggettivismo contrasterebbero con quel rispetto delle leggi della storia che è necessario perché si possa parlare di una rivoluzione marxista. Per tutte queste interpretazioni il marxismo diventa o una specie di fantasma che non si sa quando mai avrà occasione di provarsi con la storia oppure un’utopia ottocentesca che il più maturo pensiero occidentale avrebbe definitivamente liquidato. Dissento da questo punto di vista: il marxismo non poteva a mio giudizio realizzarsi che nel preciso modo in cui si è realizzato, cioè che la sua verifica c’è stata, in quanto alla potenza, e insieme la smentita, in quanto a risultato. La vecchia tesi di Lukàcs su Lenin come il maggior pensatore che il 156 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 movimento rivoluzionario abbia avuto da Marx in poi, e come colui che ha ristabilito la dottrina di Marx nella sua purezza, mi pare ancora oggi pienamente persuasiva, anche se, naturalmente, la mia valutazione diverge completamente da quella del filosofo ungherese. Consideriamo le frasi del Che fare? che suscitarono allora maggiore scandalo negli ambienti socialisti: «la coscienza politica di classe può essere portata all’operaio solo dall’esterno» perché con le sue sole forze la classe operaia è in grado di elaborare soltanto una coscienza “tradeunionista” e che «dal punto di vista della posizione sociale, i fondatori del socialismo scientifico contemporaneo erano degli “intellettuali borghesi”». Ossia il giudizio degli appartenenti alla classe proletaria è inquinato dalla cultura di quegli intellettuali che sono diventati i cani da guardia della borghesia e può ritrovare la sua purezza solo in seguito all’azione di intellettuali di altra specie; facile sarebbe mostrare come il giudizio di Lenin non faccia che ricalcare un passo del Manifesto. Certo, che la classe che ha avuto dalla storia il compito di attuare la redenzione universale non possa svolgerlo che sotto la direzione di una cultura che le viene dall’esterno e, di più, da intellettuali che appartengono alla classe che deve evertire, può apparire singolare; né veramente mi pare che nella storia del marxismo sia mai stata data una risposta esauriente al problema delle conversioni per cui alcuni borghesi possono sottrarsi alla “falsa coscienza” di cui sono prigionieri in ragione della loro classe. Anche se è innegabile quel che Lenin sosteneva: la filosofia vera è immanente al proletariato soltanto in forma virtuale e confusa, non foss’altro perché non può non subire l’inquinamento che il pensiero borghese egemone della cultura gli trasmette; occorre, perché questa filosofia possa passare all’atto, l’azione di intellettuali che non sono però intellettuali comuni il cui sguardo non va oltre l’orizzonte della borghesia, ma intellettuali in possesso di una conoscenza superiore, che li renda capaci di intendere il processo della storia nella sua totalità. Dunque i nuovi gnostici che, nei tempi moderni, hanno assunto la fisionomia dei “rivoluzionari di professione”. Eppure Lenin continua Marx e l’alternativa che egli pone è esatta: o 157 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 rivoluzione resa possibile soltanto da una coscienza di classe attribuita al proletariato dall’esterno, o un riformismo che rinuncia definitivamente alla rivoluzione. Anche se, a questo punto, alla priorità della causalità materiale succede quella della “causalità ideale” e in ciò sta la legittimazione prima dell’interpretazione transpolitica della storia contemporanea. Ora la tesi leninista si apre la via verso quel che viene detto “socialismo reale” attraverso una serie di anelli così saldamente legati che rompere la catena è impossibile: dittatura del partito sul proletariato – costituirsi sulla base del partito di una classe tecnoburocratica dai caratteri particolari – incontro con populismo russo. Su ognuno di questi punti esiste una bibliografia sovrabbondante, che ha però in generale il torto di non venire ricollegata alle premesse filosofiche di cui invece chiarisce il significato. Quanto al discorso sul populismo russo penso non ci sia contraddizione nel riconoscere insieme che Lenin è stato il più coerente tra gli interpreti di Marx, e che la rivoluzione non poteva riuscire che incontrandosi con la tradizione populistica russa. L’intervento in quella prima guerra mondiale a cui non si poteva in alcun modo assegnare un carattere religioso, almeno da parte di quella che allora veniva detta l’Intesa, aveva rappresentato per lo zarismo un giudizio di condanna a morte che pronunciava su se stesso; aveva infatti liquidato il suo sostegno essenziale che poggiava sulla fede popolare nel primato russo per un’opera di redenzione del mondo. È per questo tema del primato russo nella causa rivoluzionaria che Stalin si connette a Lenin; e si può dire contro di lui tutto quello che si vuole ma non che non abbia operato la giuntura (forse oggi in crisi) tra tradizione russa e marxismo; e negare che senza la sua opera nessuno oggi si ricorderebbe più del marxismo. Particolarmente importante è poi l’altro punto, la frattura tra i due momenti filosofici entrambi necessari alla rivoluzione totale, il materialismo e la dialettica. Questa frattura mostra che la decomposizione del marxismo non è stata oltrepassata e che essa coincide con la crisi della modernità. 158 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 Consideriamo infatti: in che cosa sta la contraddizione del materialismo dialettico, sostanzialmente già ben vista, nonostante la forma dissueta, ne La filosofia di Marx di Gentile del 1899? In questo: se si porta allo sviluppo estremo il momento dialettico, accolta la critica che Marx aveva opposto a Hegel e andando oltre, si deve congedare il momento materialistico; se all’opposto, si porta alle conseguenze estreme il momento materialistico si deve congedare il momento dialettico. Ora gran parte della filosofia contemporanea, o almeno quella che ha più inciso nella politica di costume, si muove in questo orizzonte. Si pensi ad esempio alla filosofia di Gentile, che può essere anche (dico “anche” perché è suscettibile di altre definizioni che pur non contraddicono questa) intesa come sviluppo rigoroso del momento dialettico del marxismo in ciò che vuol andare oltre Hegel ed esprimersi come filosofia della prassi; si pensi per altro verso al materialismo presente nelle scienze umane e alle forme occidentali del materialismo contemporaneo. Non dirò certo che tutte le filosofie di oggi rientrino in questa sistematizzazione e in questa crisi senza soluzione; ma penso che per uscirne davvero devono operare la critica delle idee di modernità e di secolarizzazione al cui rapporto ho sia pur brevemente accennato. Un ultimo breve accenno rispetto all’asserzione secondo cui la rivoluzione marxista, pur smentendosi, è stata però in certo senso mondiale; e non soltanto nel senso che abbia già conquistato più di un terzo del mondo. Perché è ben vero che non sono comunisti gli stati dell’Occidente, ma non si può dire che i loro popoli non abbiano sentito il contraccolpo del marxismo nella cultura e nel costume. Il marxismo non alimenta oggi più una fede rivoluzionaria, nei comunisti stessi, ma le negazioni filosofiche che il marxismo ha pronunciato sono entrate nei giudizi correnti. Si pensi alla diffusione di parole come “alienazione” (che per altro designa un fenomeno reale, però diverso nella sua forma attuale da quello descritto dal marxismo), “mistificazione”, “falsa coscienza”, “mascheramento” o la stessa “realizzazione”; o ad altre espressioni, che se anche non sono iniziate dal marxismo rientrano nella sua scia, come “demitizzazione”, “sindrome del 159 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 sospetto”, “tecnica della diffidenza”. Nichilismo è il termine oggi d’uso per significare la caduta nel mondo occidentale dei valori finora considerati come supremi. Occorre dire che Marx non aveva affatto previsto il suo sorgere: la scomparsa della religione avrebbe dovuto coincidere per lui con il recupero da parte dell’uomo di quei poteri di cui si era alienato nel corso della storia per proiettarli su Dio. La cultura marxista è stata invece, nell’Occidente, per quel che riguarda la sua ripresa dopo la seconda guerra mondiale, produttrice di nichilismo; non è stata la sola a promuoverlo, è vero, ma la funzione che ha avuto in questo fenomeno è stata primaria e determinante. 160 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 Recensioni e segnalazioni 161 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 Recensioni JAMES HANNAM, La genesi della scienza. Come il Medioevo cristiano ha posto le basi della scienza moderna, a cura di Maurizio Brunetti, D’Ettoris Editori, Crotone 2015 (pagine 493; euro 26,90). La ricerca della verità fa parte del percorso di ogni essere umano che voglia sinceramente confrontarsi con la realtà delle cose. Quando tale ricerca avviene in ambito scientifico o storico, essa si attua nell’indagine sui fatti e sulle fonti. A maggior ragione, quindi, essa dovrebbe restare lontana da ogni ideologia. Abbiamo imparato da grandi storici che le “leggende nere” sono, appunto, leggende, invenzioni nate allo scopo di denigrare (quelle nere) o esaltare (quelle rosa). Di qualunque tipo siano, esse rimangono falsità elaborate al servizio di un’ideologia che, in quanto tali, distorcono la verità sui fatti. Ecco perché la pubblicazione di un volume dedicato alla storia del pensiero scientifico durante un periodo, il Medioevo, che è stato per decenni oggetto di leggende nere, è solo una bella notizia. Resta opportuno ricordare, a mo’ di premessa, che «la vita nel Medioevo era spesso breve e violenta. La gente comune veniva colpita da malattie che non riusciva ad identificare; era alla mercé di una classe dirigente distante e di uomini di Chiesa che solo raramente si dimostravano all’altezza di chi l’aveva fondata. Sarebbe sbagliato idealizzare il periodo, e si può essere contenti di non essere costretti a viverci. Ma la vita dura che le persone conducevano non fa che rendere ancora più emozionanti i progressi da loro 163 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 conseguiti nel campo della scienza e in molti altri ambiti. Sarebbe ingiusto liquidarli come primitivi e superstiziosi. Essi meritano, infatti, la nostra gratitudine» (pp. 451-452). Con queste parole termina il saggio La genesi della scienza. Come il Medioevo cristiano ha posto le basi della scienza moderna, per scrivere il quale James Hannam ha adottato uno stile molto originale. La citazione la dice lunga sull’autore e sul suo equilibrio di storico. Il volume, 493 pagine (D’Ettoris Editori, 2014), si legge come un romanzo di avventure con venature gialle e scorre come nessun altro volume sul tema, arrivando alla conclusione che il Medioevo ha «posto le basi per la più grande conquista della civiltà occidentale: la scienza moderna» (p. 15). Il lavoro di Hannam si pone in continuità con quelli di Pierre Duhem (1861-1916), tra i primi a squarciare i veli sulla vera storia della scienza del Medioevo, Edward Grant (1926-viv.) e David Lindberg (1935-2015). L’introduzione al volume ricorda che la parola “scienza” deriva dal latino scientia, cioè “conoscenza”. Essa dunque include ogni tipo di elaborazione razionale, dalla politica alla teologia alla filosofia. Lo studio della natura veniva chiamato “filosofia naturale” dai medievali, fra i quali troviamo i primi uomini di scienza in senso moderno. Furono i filosofi, naturali e non, a illuminare con la luce della ragione quelli che ormai nessuno osa più chiamare i “secoli bui”. La parola “scienziato” è, invece, relativamente recente. Fu coniata da William Whewell (17941866) e se ne parla nelle conclusioni. James Hannam, che prima di diventare storico della scienza si laurea in fisica e lavora nella city di Londra, descrive nelle prime pagine del volume oggetti di raro splendore ritrovati nella tomba di un re anglosassone del secolo VII, frutto dell’opera di uomini che non erano sicuramente dei selvaggi. Per sbarazzarsi dell’espressione “secoli bui”, Hannam cita una frase di uno storico, Roger Collins, che, riferendosi al suo manuale dedicato all’Europa al164 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 tomedioevale, dice: «I secoli di cui questo libro s’interessa costituiscono un periodo di grandissima importanza per il futuro dello sviluppo non solo dell’Europa, ma, nel più lungo termine, anche di molti altri luoghi del mondo» (p. 28). Poi Hannam si addentra nella vita quotidiana di un uomo vissuto attorno all’anno 1000. È l’occasione per elencare alcune mirabili innovazioni tecnologiche di quel periodo: il pesante aratro di ferro che rivolta la terra in profondità e la rende più fertile; la staffa che consente ai cavalieri di restare più saldamente in sella; il bilancino che riduce di molto lo sforzo del traino dei carri; il ferro di cavallo che migliora le prestazioni dell’animale. Si perfeziona il sistema di rotazione dei campi. La diffusione del mulino ad acqua e la comparsa di quelli a vento portano a un aumento della produzione di cibo con conseguente esplosione demografica e un continuo e inarrestabile progresso. Il testo riporta che, contrariamente a quanto si pensa, un uomo o una donna dell’anno 1000 erano perfettamente al corrente che la Terra fosse sferica, né è vero che la Chiesa avesse appoggiato l’ipotesi della forma piatta. Un altro punto interessante è la discussione sulla posizione della Terra nell’universo e la sua presunta centralità, che non era motivo di esaltazione giacché la struttura dell’universo era gerarchica: più ci si allontanava dalla terra e più ci sia avvicinava al paradiso celeste. Il Medioevo è anche l’epoca dell’ascesa della ragione. L’autore si serve di due figure per introdurci a tale tema: sant’Anselmo d’Aosta (1033-1109) e Abelardo (1079-1142). Anselmo si pone l’obiettivo di usare la logica per dimostrare l’esistenza di Dio (argomento ontologico) e subisce numerosi attacchi e critiche: si temeva che, facendo intervenire la ragione in un ambito di competenza della sfera religiosa, essa sarebbe potuta diventare l’arbitro della verità religiosa stessa. Abelardo eccelleva nella logica, ma la storia della sua vita, riassunta in modo affascinante, è degna di un romanzo di ap165 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 pendice. Le sue idee sulle potenzialità della ragione per meglio comprendere la fede arrivarono peraltro a essere le linee guida del modo di fare teologia nel mondo cristiano. Il “rinascimento” del secolo XII, cui è dedicato il capitolo IV, vede al suo inizio la traduzione di opere provenienti dalla cultura greca e araba che entrano subito a far parte del cursus studiorum. Gli arabi chiaramente non cedettero le loro biblioteche “pacificamente” (quella di Toledo fu dai cristiani acquisita nel 1085 in seguito a una conquista armata). Va detto, comunque, che tali biblioteche non subirono la sorte di quella di Alessandria d’Egitto, incendiata e distrutta nel 630 su ordine del califfo Omar. Le prime università (tra queste Bologna) traggono subito grandi benefici da queste nuove conoscenze. In quelle di Parigi e Oxford, in particolare, si instaura un rapporto di “tensione positiva” con il pensiero di Aristotele, la cui forma mentis torna utile anche nella lotta contro le eresie. Domenico di Guzman (1170-1221), in particolare, comprende quanto sia opportuno istruire il popolo sulle verità della fede, in un’epoca in cui il basso clero era piuttosto ignorante e si disinteressava delle parrocchie. La fondazione dell’Ordine dei Predicatori (1216) è pressoché contemporanea a quella dei Frati Minori da parte di san Francesco (1181-1226) che cominciano a frequentare le università e ad affiancare i domenicani nella lotta contro gli eretici. Tornando alla scienza, uomini del Medioevo portano al centro degli studi scientifici la matematica come «rivelatrice di ogni verità autentica, perché conosce ogni segreto nascosto e possiede la chiave per ogni sottigliezza delle lettere. Chiunque abbia la sfrontatezza di proseguire gli studi di fisica trascurando la matematica sappia fin dall’inizio che non riuscirà mai a fare il suo ingresso attraverso i portali della sapienza» (p. 227). Così si esprime Thomas Bradwardine (1290-1344), il primo dei calculatores del Merton College di Oxford, sfidando il pensiero di Aristotele. I calculatores enunciano e dimo166 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 strano alcuni teoremi importanti della fisica, come quello della velocità media. La matematica e la filosofia naturale iniziano a integrarsi, ma proprio nello stesso tempo inizia il declino di Oxford e la crescita di Parigi grazie a Giovanni Buridano (1300 ca.-1361 ca.), filosofo che non studia teologia, che arriva alla formulazione della teoria dell’impeto, così spiegando quella sorta di “carica” che ha messo in moto, come un orologio, la macchina del mondo. Tale impeto, in assenza di resistenze, mantiene sfere e pianeti in movimento. Si scopre il principio di inerzia, anche se non nella formula corretta che ne dà Isaac Newton (1642-1727), ma la teoria di Buridano getta le basi «per una nuova scienza della meccanica» (p. 254). Un altro personaggio che dà grande lustro all’Università di Parigi è Nicola d’Oresme (1338-1380), maestro di meccanica e di matematica, religioso e vescovo, che propone la soluzione ad alcune difficoltà riguardanti il movimento della Terra. E la Chiesa? È tale istituzione a sponsorizzate le uni- versità, concedendo ai filosofi naturali grande libertà purché stiano attenti a non innescare controversie teologiche. Molti di questi filosofi sono religiosi e anche con alti incarichi nella gerarchia come il d’Oresme o Alberto di Sassonia (1316-1390). Il cammino della scienza viene frenato dalla peste, la “morte nera” che fra il 1347 e il 1353 porta via tra il 30 e il 50% della popolazione tra i quali molti studiosi con le loro teorie e le loro speranze. Nel secolo XV, emerge l’ecclesiastico Niccolò Cusano (1400-1464), che sottolinea l’importanza della sperimentazione nella ricerca scientifica: solo «pensando, cronometrando, misurando i materiali e fenomeni con precisione» si sarebbero potuti acquisire «dati sufficienti per costruire una descrizione matematica della natura» (p. 271). Siamo nel secolo delle grandi scoperte: la carta, la stampa (1455) e con essa la diffusione delle opere di Buridano, di d’Oresme e di Heytesbury. Il Tractatus proportionum di Alberto di Sassonia (13161390) è un best seller: avrà in pochi anni nove edizioni ed è 167 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 infarcito di citazioni sia di Buridano che di d’Oresme. Il secolo che si chiude con la scoperta del Nuovo Mondo (1492) è anche il secolo che vede la nascita dell’Umanesimo, con la sua ossessione per la classicità. È in tale contesto culturale che avviene l’abbandono e l’oblio di molti traguardi raggiunti dagli studiosi medievali e, allo stesso tempo, un ritorno acritico ad Aristotele. Tutto ciò che aveva preceduto il pensiero dell’Umanesimo è cancellato: si fa tabula rasa degli autori scolastici non solo letteralmente ma anche fisicamente. L’avvento della stampa, infatti, trasforma in carta straccia i vecchi manoscritti; molte biblioteche sono messe a rischio e smembrate. Oxford arriva addirittura a vendere gli scaffali. Si sfiora la distruzione di 300 anni di progressi nel campo della filosofia naturale facendo retrocedere l’orologio del progresso scientifico «tanto che Einstein si sarebbe potuto ritrovare a fare il lavoro di Newton» (p. 298). Fortunatamente la stampa, se da un lato causa la perdita di molti manoscritti, garantisce anche la sopravvivenza di molti libri dimenticati dai più, che persone come Galileo Galilei consulteranno traendone ispirazione. Più profondamente dell’Umanesimo, la Riforma protestante (1517) rivoluziona il modo di pensare. Hannam si sofferma a lungo sul pensiero di Lutero e le conseguenze per l’Europa dell’epoca. Anche il pensiero scientifico viene influenzato dalle idee protestanti, ma la sua rappresentazione storica e il suo ruolo nella nascita della scienza moderna è sovradimensionato: le ricostruzioni storiche degli autori di lingua inglese danno l’impressione che dopo Galilei «quasi tutte le scoperte scientifiche più importanti abbiano avuto luogo in Inghilterra» (p. 309). Ma non è così, la Francia porta il suo notevole contributo al progresso scientifico, per non dire della Compagnia di Gesù che, oltre al suo impegno missionario, si dedica attraverso la formazione dei sacerdoti della Compagnia, allo studio scientifico e alla ricerca producendo più di seimila lavori scientifici tra il 168 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 1600 e il 1773, anno della sua soppressione. Un altro dei luoghi comuni che viene messo in discussione da Hannam è quello relativo alla magia. La sua massima diffusione fu raggiunta nei secoli XVI e XVII, agli inizi dell’età moderna, e si espande dagli ambienti frequentati da «preti eruditi e aristocratici annoiati» (p. 317) al mondo dell’arte che si riempie di riferimenti astrologici. Ma il problema più grande è legato alla scarsissima attendibilità delle previsioni astrologiche alla quale si cerca di ovviare ricercando delle connessioni con la matematica (John Dee, 1527-1609), ma con scarsi risultati. Coltivava l’astrologia anche il poliedrico Girolamo Cardano (1501-1576), medico di Pavia di grande intuito e talento, che guariva i suoi pazienti prescrivendo non salassi o pozioni – invero rilevatisi inutili o dannosi nella maggior parte dei casi –, ma una dieta sana associata al riposo. Cardano ha lasciato anche decisivi contributi alla matematica e all’ingegneria. Un altro medico che si era allontanato dall’ortodossia ga- lenica, Paracelso (14931541), ebbe con la sua teoria delle segnature, meno successo. Hannam riporta che, nel Medioevo, i chirurghi erano considerati alla stregua dei macellai, dei lavoratori manuali. Furono loro, comunque, a sperimentare innovazioni fondamentali come la disinfezione, l’asciugatura e la fasciatura delle ferite. I chirurghi iniziano anche la dissezione dei cadaveri, uno degli eventi più sorprendenti nella storia della scienza, sancito da un documento di papa Innocenzo III (1198-1216) che ordina una vera e propria autopsia sulla vittima di un omicidio. Da allora la dissezione del corpo umano diviene parte integrante della formazione medica. Mondino dei Liuzzi (+1326 ca.) scrive un manuale sul tema senza alcuna obiezione da parte della Chiesa. Il volume dello storico inglese si chiude con cinque capitoli dedicati all’astronomia, riportando le vite e le scoperte di Georg von Peurbach (1423-1461), Niccolò Copernico (1473-1543), Giovanni Keplero (1571-1630), Gior169 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 dano Bruno (1548-1600) e Galileo Galilei (1564-1642). Tra i precursori che scrutando il cielo hanno pensato a qualche cosa di diverso rispetto all’idea della Terra ferma al centro dell’universo troviamo il greco Aristarco di Samo (310-230 a.C.) o il vescovo Nicola d’Oresme, ma anche molti occultisti che misero il Sole al centro dell’universo o ipotizzarono il movimento di rotazione della Terra. Già Buridano, nel 1350, rilevava che il moto del Sole poteva essere solo apparente. La sua argomentazione è del tutto sovrapponibile a quella espressa da Copernico duecento anni dopo: «Quando una nave naviga nella bonaccia, i navigatori vedono tutte le cose che sono fuori di essa muoversi ad immagine del suo movimento e, inversamente, credono se stessi e tutto ciò che hanno con sé in riposo. Così di certo può accadere anche per il movimento della Terra, in modo che si creda che tutto quanto il mondo giri attorno ad essa» (p. 368). Sebbene i contemporanei di Copernico non ritennero il modello eliocentrico partico- larmente convincente, fu a quello cui ricorse la Chiesa Cattolica nel secolo XVI per la revisione del calendario. La questione della rotazione della Terra intorno al Sole rimase, per una cinquantina di anni, in secondo piano. Anche Keplero posizionò il Sole al centro dell’universo conosciuto e, da grande matematico qual era, comprese la natura ellittica delle orbite dei pianeti, ma, a differenza del pisano Galileo Galilei, fu un pessimo divulgatore di se stesso, non riuscendo ad avere credito se non dopo molti anni. Gli ultimi capitoli di questo saggio sono dedicati a Galileo Galilei, uomo sinceramente religioso i cui problemi con l’Inquisizione, riassume sinteticamente Hannam in una recente intervista a un quotidiano italiano, ebbero «più a che fare con la politica che con la scienza». L’opera per la quale Galileo merita di essere annoverato fra i grandi della scienza moderna non è né il Saggiatore (1623), né il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (1632), ma il trattato Discorsi e dimostrazioni matematiche 170 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 intorno a due nuove scienze attinenti alla meccanica e ai moti locali (1638). «Il grande successo di Galileo è consistito nell’aver messo insieme tutto quanto era stato fatto prima di lui, nel riuscire a isolare la grande quantità di dati irrilevanti o erronei e, infine, a dimostrare le ipotesi rimanenti con esperimenti accuratamente controllati e acute argomentazioni. Una sorta di nuova scienza ebbe inizio proprio con lui, ma non si può negare che egli l’abbia costruita su fondamenta medievali. Senza di queste – e nonostante la vita lunga concessagli – non avrebbe potuto coprire se non una minima frazione del suo percorso» (p. 442). Andrea Bartelloni GIUSEPPE BEDESCHI, Storia del pensiero liberale, Rubbettino, Soveria Mannelli (Catanzaro) 2015 (p. 348, euro 14) A dieci anni di distanza dall’ultima edizione per i tipi della Laterza (la prima uscita del volume risale, però, al 1990), la Rubbettino riedita Storia del pensiero liberale di Bedeschi. Giuseppe Bedeschi (1939-viv.) ha insegnato a lungo Storia della filosofia all’Università “La Sapienza” di Roma ed è noto anche per altre fortunate monografie su aspetti del pensiero politico contemporaneo. Il suo studio più recente risale a due anni fa ed aveva ad oggetto la storia politica italiana della cosiddetta prima Repubblica (La prima Repubblica (19461993). Storia di una democrazia difficile, anch’esso per i tipi della Rubbettino). L’opera di cui ci occupiamo ha, invece, una prospettiva differente ed un tema che non può essere affrontato solo attraverso lo scorrimento storico. Infatti, oltre che dei pensatori che hanno fatto la storia del liberalismo, non ci si può non occupare anche delle idee che hanno costituito ciò che chiamiamo liberalismo. La parte teoretica non ha subìto mutazione rispetto alla precedente edizione. Si tratta dell’introduzione (p. 966) che ora ingloba anche la premessa presente nell’edizione della Laterza. È, 171 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 questa, però, una parte del volume che meriterebbe una più adeguata valorizzazione, ben maggiore, cioè, di quanto di solito si affida ad una introduzione. Infatti sono proprio le considerazioni teoretiche presenti nelle pagine dell’introduzione a rappresentare, probabilmente, la sezione più densa e, al tempo stesso, la più fruibile. Per come essa si porge, infatti, potrebbe fornire una prima lettura, un manualetto di base anche per i non esperti che con essa si troverebbero subito a contatto con i grandi temi che attraversano il liberalismo. La prima questione è la più immediata, ma è tutt’altro che banale. Ci riferiamo alla definizione del liberalismo, che rappresenta un primo terreno di confronto, se non addirittura di scontro tra le varie posizioni liberali. Considerando la varietà delle identificazioni «alcuni studiosi hanno negato la legittimità stessa del concetto di liberalismo in quanto categoria storicopolitica, e hanno preferito parlare di molti e diversi “liberalismi”» (p. 10). Bedeschi rifiuta questa posizione giudicandola estrema ed inaccettabile perché, se così fosse, la parola “liberalismo” non rappresenterebbe nulla di preciso. Ci permettiamo di obiettare che l’esistenza di diversi “liberalismi” è un dato difficilmente confutabile (in modo non dissimile a come è sempre avvenuto anche nel campo avverso con l’esistenza di vari “socialismi”). Per aprire il sipario sul confronto tra Locke e Hume (le cui concezioni sono «radicalmente contrapposte nei metodi e negli strumenti concettuali, ma aventi entrambe come obiettivo l’istaurazione di un governo libero e di una società libera», p. 17), Bedeschi cita la definizione elaborata da Norberto Bobbio secondo il quale «la dottrina liberale è l’espressione, in sede politica, del più maturo giusnaturalismo: essa, infatti, si appoggia sull’affermazione che esiste una legge naturale precedente e superiore allo Stato e che questa legge 172 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 attribuisce diritti soggettivi, inalienabili, agli individui singoli prima del sorgere di ogni società, e quindi anche dello Stato». La seconda questione sollevata da Bedeschi per identificare il liberalismo è la garanzia di cui l’individuo deve sempre godere contro ogni possibile abuso da parte del potere politico. Passando da Locke (che respinge la concezione paternalistica dello Stato e demolisce la concezione dispotica del potere) a Montesquieu (che cerca di frenare il potere con lo stesso potere), da Kant (che immagina uno Stato ideale in quanto Stato di diritto) a Constant (per il quale la sovranità «può esistere solo in maniera limitata e relativa», p. 25), Bedeschi trae ancora le sue conclusioni da Bobbio: «la dottrina dei diritti naturali inverte l’andamento del corso storico, ponendo all’inizio come fondamento e quindi come prius quello che storicamente è il risultato, il posterius» (p. 19) dove per prius deve intendersi l’accordo fra individui liberi per meglio tutelare la loro libertà. Un altro tema indispensabile al chiarimento sul liberalismo è il rapporto con la rivoluzione francese. Qui tutte le ambiguità della galassia liberale si manifestano ed esse sono pari ai fraintendimenti che vengono a galla circa la vera natura della vicenda del 1789. Con Burke, sono stati pochi coloro in grado di scorgere il carattere tirannico dell’intero processo rivoluzionario, senza escludere neanche i suoi primi momenti che davano, sì, una sensazione di liberalità, ma che, in realtà, erano già tendenzialmente assolutistici. La gran parte (da Kant a Paine, da Constant a Guizot) ha, purtroppo, fatto propria una concezione dualistica della rivoluzione ritenendo che «la prima fase fosse stata buona e necessaria; mentre la seconda, giacobina e terroristica, una negazione della prima e una deviazione da essa» (p. 29). Tra i grandi temi del liberalismo non può non essere richiamato quello della proprietà. Bedeschi sembra non dimostrarsi esente da quell’edulcorazione 173 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 tipica del liberalismo latino che per prima vittima ha il carattere decisivo della difesa della proprietà. Le argomentazioni in materia, infatti, sono deboli, esangui e poco convincenti. Indugia sull’analisi di Laski – senza, ovviamente, condividerla – secondo cui il liberalismo è un mero fenomeno della società borghese, capace solo di esprimere gli interessi e la mentalità delle classi medie. Mancano, in queste pagine, le sapide affermazioni di von Mises anche se ci si limita a riconoscere che «se l’idea della proprietà privata registra significativi mutamenti nella storia del pensiero liberale, essa resta, però, fondamentale per tutti i pensatori liberali, i quali vedono in essa una garanzia irrinunciabile: la garanzia che venga riconosciuta all’individuo un sfera di autonomia (dal potere statale, dalle intromissioni – comunque giustificate – della collettività). […] La proprietà, insomma, è per i pensatori liberali la prima (anche se, certo, non l’unica) garanzia di libertà» (p. 40). Bedeschi, poi, unisce in un solo punto («Fecondità dell’antagonismo, della varietà, del dissenso») altri temi assai cari al liberalismo. Anche in questo caso – ci sia permesso dire – si sarebbe potuto affrontare le questioni in modo maggiormente mirato. Ciò vale soprattutto per l’antagonismo («il confronto e il conflitto fra interessi e opinioni diversi non sono fattori negativi, ma altamente positivi», p. 42) che avrebbe potuto essere spiegati non con la lotta, bensì dalla competizione. Ma l’autore utilizza alcune testimonianze (Einaudi e Kant) che vanno nella prima direzione. Il secondo aspetto è quello della varietà, che esclude sia la rigida uniformità sia l’assenza di libertà. Von Humboldt, de Tocqueville e Stuart Mill vengono richiamati come attenti critici «verso il crescente intervento dello Stato nella vita civile [che] comporta un aumento costante della regolamentazione della società dall’alto, e un progressivo indebolimento dell’iniziativa individuale dal basso. Senonché l’intelletto umano si educa solo attraverso la propria attività 174 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 autonoma, la propria inventività o la personale utilizzazione di invenzioni altrui. Le istituzioni statali e le iniziative da esse promosse comportano invece sempre costrizione, oppure abituano a contare su direttive, controlli e aiuti esterni, invece che a pensare e ad agire autonomamente» (p. 44). Altro elemento tipico della tradizione liberale è la più che giustificata diffidenza nei confronti dello Stato che sempre attenta alla libertà individuale. È, questa, la grande questione del liberalismo: vigilare sullo Stato attraverso il controllo dei suoi poteri, delle sue funzioni, dei suoi uomini. Per far questo occorre teorizzare e realizzare uno “Stato minimo” mantenendo l’azione pubblica entro limiti molto ristretti e molto precisi. «Lo Stato, dunque, deve intervenire il meno possibile nello svolgimento e nella libera crescita della società civile, che ha in se stessa tante energie, tanto rigoglio e tanta forza da assicurare senz’altro, nel modo più ampio, quello svolgimento e quella crescita, i quali possono essere invece solo inceppati e compromessi dall’intervento della pubblica autorità» (p. 49). Un tema assai caldo per il liberalismo è il suo rapporto con la democrazia. Solo superficialmente la società democratica può essere assimilata alla società liberale. Al contrario, ogni vero liberale scorge nella democrazia grandi pericoli totalitari: da un lato la tirannia della maggioranza, dall’altro la legittimazione delle strutture politicoamministrative. Già de Tocqueville aveva messo in guardia nei confronti dei rischi contenuti nell’uniformità democratica, pur tuttavia, oggi, la maggior parte dei liberali (o sedicenti tali), sulla scia di Stuart Mill, si chiede non se democrazia e liberalismo possano coniugarsi, ma quali siano le modalità con le quali ciò possa avvenire. «D’altro canto, che liberalismo e democrazia non siano inconciliabili, e che anzi la democrazia possa essere considerata come il naturale sviluppo dello Stato liberale (se la si prende, beninteso, 175 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 non dal lato del suo ideale sociale egualitario, bensì dal lato della sua formula politica, che è la sovranità popolare), è un risultato acquisito da tempo dal pensiero liberale» (p. 53). Ma le rassicurazioni non bastano e gli equivoci sulla democrazia si moltiplicano anche in ambito liberale. Un ultima grande questione viene presentata da Bedeschi. Essa è strettamente connessa alla precedente e riguarda il rapporto tra libertà ed eguaglianza. In realtà, più che di rapporto, si tratta di un conflitto così espresso dalle parole di Bobbio: «libertà ed eguaglianza sono valori antitetici, nel senso che non si può attuare pienamente l’uno senza limitare fortemente l’altro: una società liberal-liberista è inevitabilmente inegualitaria, così come una società egualitaria è inevitabilmente illiberale» (p. 56). Almeno, in questo modo, torna la chiarezza e le posizioni riprendono i propri confini naturali. Ma le sintesi liberal-socialiste (da Stuart Mill a Dewey) sono troppo perseguite per passare di moda. Anche nel testo di Bedeschi. Abbiamo ritenuto più proficuo soffermarci sulla lunga introduzione teoretica sebbene le parti del volume inizino ad enumerarsi solo dopo l’introduzione. Infatti, ora il testo di Bedeschi prevede cinque raggruppamenti (cinque parti) contro la progressione lineare dei quindici capitoli presenti nell’edizione Laterza. Rispetto a quella, l’attuale non porta solo la dedica alla memoria dello storico del pensiero politico Nicola Matteucci (19262006), ma anche differenze nella scelta degli autori trattati. Si parte dal Locke, Montesquieu, Smith, Kant e von Humboldt per precisare i presupposti sociali e culturali del liberalismo. Da tali presupposti intellettuali, Bentham viene estromesso perché – presente nella prima edizione – il capitolo a lui dedicato è espunto nella nuova pubblicazione. La seconda parte discute il liberalismo francese nell’età della Restaurazione con un capitolo sui “dottrinari” (assente precedentemente) 176 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 ed uno su Constant. La terza parte approfondisce il rapporto fra liberalismo e democrazia riprendendo Tocqueville e Stuart Mill. Facendo venir meno il capitolo sul pensiero liberale inglese dalla fine dell’Ottocento all’inizio del Novecento, la quarta parte esamina il liberalismo fra le due guerre e, nel quadro di famiglia dei grandi liberali, Bedeschi pone Kelsen, Croce, Einaudi, De Ruggiero. Omettendo il capitolo sul pensiero liberale italiano nel secondo dopoguerra (Antoni e Calogero, ma anche Mosca), la nuova edizione si conclude con la quinta parte, improntata al pensiero liberale dopo la seconda guerra mondiale con le esposizioni su Popper, Hayek e Aron. Bedeschi è noto per le sue posizioni; lo studioso non solo riconosce un’ampia compatibilità tra liberalismo e cristianesimo, ma considera le radici del liberalismo ben impiantate nella tradizione cristiana ed indissociabili da essa. Questa Storia del pensiero liberale certamente rivela molto dell’autore, ma mette anche in luce alcune lacune tipiche di una prospettiva latina ed italiano-centrica che impedisce di verificare senza pregiudizi il liberalismo al di là degli autori obbligati (Kant, Croce, Kelsen). Sarà un caso, ma nel volume non sono mai citate figure come Carl Menger (1840-1921), l’involontario fondatore della Scuola austriaca e padre del marginalismo, o come Murray Newton Rothbard (1926-1995), il maggiore intellettuale libertario; ed appena un cenno è rivolto al grande economista Ludwig von Mises (1881-1973). Sarà difficile che magnifici liberali come questi abbiano rilievo nelle lezioni delle nostre università quando ancora mancano di ogni spazio anche nei testi di storia del pensiero liberale. Beniamino Di Martino 177 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 Segnalazioni UBALDO GIULIANIBALESTRINO, Guareschi era innocente. Ecco le prove, I libri del Borghese, Roma 2015 (p. 280, euro 18) Con il titolo Guareschi era innocente. Ecco le prove, l’avvocato professor Ubaldo Giuliani-Balestrino ha dato alle stampe, per le edizioni “I libri del Borghese”, un volume che rappresenta la conferma definitiva dell’innocenza del grande giornalista Giovannino Guareschi, condannato sessant’anni or sono a un anno di reclusione per aver diffamato Alcide De Gasperi. La presunta diffamazione era consistita nel fatto che Guareschi aveva pubblicato, sul suo diffuso settimane «Candido», due lettere a firma De Gasperi inviate nel 1944, in piena guerra, al colonnello inglese Bonham Carter, con la richiesta di bombardare la periferia di Roma e l’acquedotto della capitale. E ciò per spingere i romani a ribellarsi contro l’occupazione tedesca. Le lettere facevano parte dell’ormai mitico dossier venduto alla Rizzoli due anni prima da Enrico De Toma, ex ufficiale della RSI che aveva ricevuto un gruppo di preziosi documenti da Mussolini, con l’ordine di metterli al sicuro in Svizzera. Tra quelle carte, la corrispondenza segreta tra il Duce e Churchill, e, appunto, carte compromettenti come le due lettere di De Gasperi, che non erano mai giunte a destinazione, ma erano state intercettate da militari della Repubblica Sociale Italiana prima che potessero essere recapitate al destinatario, oltre le linee di combattimento. Come pochi ricordano, i contenuti di quel dossier iniziarono ad essere pubblicati sul settimanale 178 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 «Oggi» sollevando un grande clamore, ma poi, improvvisamente, la loro pubblicazione fu sospesa senza una attendibile spiegazione ai lettori e all’opinione pubblica. Giovannino Guareschi, che, in quanto direttore di «Candido», faceva parte del gruppo dirigente della Rizzoli e poteva disporre di quelle carte, decise di pubblicare le lettere di De Gasperi, suo avversario politico, per vibrare un duro colpo alla sua credibilità. Seguirono la querela dell’uomo politico democristiano e la condanna di Guareschi che, per orgoglio e dignità, rifiutò l’arresto domiciliare e volle andare in galera per un anno. Ora, Ubaldo GiulianiBalestrino, che è un affermato giurista e docente di diritto penale, già autore del libro Il carteggio Churchill-Mussolini alla luce del processo Guareschi, con questo suo nuovo libro prova, senza più ombre di dubbio, che le due lettere con le quali De Gasperi chiedeva agli inglesi di bombardare la periferia di Roma al fine di esasperare la popolazione e indurla ad insorgere contro i tedeschi, erano autentiche. Il libro di GiulianiBalestrino contesta la sentenza di condanna di Guareschi, la quale non tenne conto del fatto che De Gasperi, informato nel 1952 del contenuto del dossier De Toma finito nelle mani dell’editore Rizzoli, non aveva sentito il dovere di smentire ufficialmente, con un comunicato-stampa all’ANSA, di essere l’autore delle due compromettenti missive. Ma c’è dell’altro. De Gasperi giurò come teste, in tribunale, che si era disinteressato del carteggio giudicandolo assurdo e incredibile. Mentre invece – come ricostruisce nel dettaglio Giuliani-Balestrino – aveva mandato il suo segretario Canali all’ambasciata britannica a Roma per chiedere appoggio nella causa contro Guareschi, e in seguito lo stesso Canali si era recato a Londra per contattare personalmente sia il colonnello Bonham Carter, sia lo stesso Winston Churchill, onde avere il loro 179 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 totale appoggio in cambio, evidentemente, dei documenti del carteggio De Toma relativi ai rapporti segreti Mussolini-Churchill che stavano evidentemente molto a cuore allo statista inglese. Sulla base di questi elementi, GiulianiBalestrino formula la richiesta, al Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Milano (per competenza territoriale), di riaprire il caso Guareschi per giungere alla revisione di quella iniqua condanna che confinò il grande giornalista per oltre un anno in carcere. La revisione del processo che condannò Guareschi renderebbe possibile ricercare serenamente la verità storica sul carteggio Mussolini-Churchill. E sarebbe un risultato di forte impatto storico. Luciano Garibaldi ETTORE BEGGIATO, Questione veneta. Protagonisti, documenti e testimonianze, prefazione di Francesco Jori, Raixe Venete, Padova 2015 (p. 293, euro 15) Un saggio di Ettore Beggiato ricostruisce la storia di una regione che si sente nazione. E poco italiana. Una storia di più mille anni non può dissolversi senza lasciare tracce: e questo è ancor più vero se a quella vicenda plurimillenaria appartengono figure come Marco Polo e Paolo Sarpi, Tiziano Vecellio e Antonio Vivaldi. La Repubblica di Venezia muore a Campoformio, per volontà di Napoleone, ma da quel 1797 in poi numerosi episodi hanno visto i veneti sognarne la rinascita. E non ci si riferisce solo alla Repubblica di San Marco guidata da Daniele Manin (un’esperienza istituzionale che durò quasi un anno e mezzo, dal marzo del 1848 all’agosto del 1849), poiché spinte ribelli si sono avute in varie circostanze. 180 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 L’ultimo lavoro di Ettore Beggiato (Questione veneta. Protagonisti, documenti e testimonianze edito da Raixe Venete e in vendita a 15 euro) accende i riflettori su questa costante aspirazione all’indipendenza. L’obiettivo dell’autore è aiutare a comprendere il profondo malcontento di un Veneto che continua a non sentirsi a proprio agio all’interno delle istituzioni italiane, così come era analogamente riottoso quando a governarlo erano i francesi o gli austriaci. Dalla documentazione raccolta nel volume emerge una storia in parte sorprendente, se si considera che perfino il 12 giugno del 1945, poco dopo la conclusione della Seconda guerra mondiale, un telegramma del ministro dell’Interno si rivolgeva al prefetto di Venezia per avere informazioni sulle spinte separatiste. Il motivo di quella richiesta stava nel fatto che su «L’Avanti!», organo del partito socialista, un’intervista al professor Ugo Morin (presidente del CLN del Veneto) aveva richiamato l’attenzione su un gruppo volto a ottenere «una autonomia integrale del Veneto e alla costituzione di una Repubblica di San Marco». Ma spinte centripete di questo tipo si incontrano di continuo, come un fiume carsico che periodicamente viene alla luce. La prima importante manifestazione di questo spirito si ebbe nel 1809. Contro i francesi e in sintonia con altre rivolte in varie parti d’Europa, in Veneto hanno luogo ribellioni popolari che il 10 luglio portano addirittura alla nascita di un governo provvisorio con sede a Schio, nel Vicentino. In quegli anni le “insorgenze” anti-napoleoniche sono molte, dal Tirolo di Andreas Hofer alla Spagna della guerra d’indipendenza, ma ciò che colpisce della vicenda veneta è il silenzio successivo: il quasi totale oblio di quelle iniziative politiche che tentarono di riportare in vita la Serenissima. La tesi di Beggiato è che studiare il passato aiuta a comprendere come il 181 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 disagio del Veneto contemporaneo affondi in un’identità lungamente negata e in una serie di soprusi causati da un potere statale sempre più oppressivo. Da oltre due secoli il Veneto soffre una grave mancanza di libertà ed è vittima di malgoverni di ogni genere. Con determinazione esso ha manifestato a più riprese questa sua voglia di autogoverno in molteplici modi e, soprattutto, ha sempre coltivato un forte sentimento di ostilità verso le istituzioni. Il volume sottolinea come taluni scrittori abbiano bene compreso questa difficoltà veneta a sentirsi a proprio agio in Italia. Nel 1982 sul «Corriere della Sera» Goffredo Parise scrisse un articolo memorabile che iniziava in questo modo: «Il Veneto è la mia patria». E qualche anno dopo Indro Montanelli parlò senza mezzi termini della Repubblica Veneta come di «una civiltà non italiana, ma europea e cristiana». Quello che questi e altri autori colgono in forma intuitiva è una volontà indipendentista che, sul piano politico, si traduce in un susseguirsi ininterrotto di iniziative e movimenti più o meno spontanei, più o meno organizzati. Quanti pensano che parole come indipendenza o autodeterminazione siano apparse nel dibattito pubblico veneto solo a partire dalla nascita della Liga Veneta, nel 1980, forse non sanno che all’indomani della Grande Guerra l’onorevole Luigi Luzzatti, già presidente del Consiglio dei ministri, mise in guardia Vittorio Emanuele Orlando in merito alla possibilità di “un’Irlanda Veneta”, e cioè di una rivolta separatista. Non erano timori infondati, se si considera che nel 1921 alle elezioni politiche si presentò una lista “Leone di San Marco” che in provincia di Treviso ottenne il 6,1% dei voti. Parallelamente operava un socialista anomalo come il deputato Guido Bergamo, il quale arrivò ad affermare: «Ora basta! Il problema veneto è così acuto che noi da oggi predicheremo la ribellione dei veneti. Cittadini, non paghiamo le 182 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 tasse, non riconosciamo il governo centrale di Roma, cacciamo via i prefetti, tratteniamo l’ammontare delle imposte dirette nel Veneto». Come Beggiato sottolinea, è sempre un intreccio di motivi anche diversi a tenere in vita il desiderio dei veneti di essere “padroni a casa loro”. Ci sono ragioni culturali e perfino linguistiche (se si considera l’attaccamento dei veneti alla lingua di Carlo Goldoni e Giacomo Casanova), motivazioni storiche e simboliche, frustrazioni economiche, aspirazioni libertarie. Se la Repubblica di Venezia era stata uno dei centri economici della prima globalizzazione, con la perdita dell’autogoverno questo territorio è entrato in un declino causato dalle tasse, dalla devastazione delle guerre, dalla coscrizione obbligatoria. In tal senso a più riprese il leone di San Marco ha finito per incarnare un passato glorioso che fa sfigurare il presente, ma al tempo stesso è pure divenuto il simbolo di una battaglia ideale volta a restituire ai veneti la libertà di governarsi da sé. Non è un caso se qualche settimana fa il sistema politico italiano, su richiesta del governo Renzi, ha dovuto scomodare la Corte costituzionale affinché annullasse una legge regionale veneta che istituiva un referendum consultivo sull’indipendenza. A Venezia si era pensato che se un plebiscito (truffaldino) nel 1866 aveva decretato il passaggio del Veneto all’Italia, un altro voto popolare potesse restituire ai veneti la facoltà di costruire proprie istituzioni. La repubblica italiana ha negato ai veneti la facoltà di votare, ma è forte la sensazione che – oggi come ieri – sotto la cenere vi siano braci che continuino ad ardere. Carlo Lottieri 183 StoriaLibera Anno II (2016) n. 4 Gli Autori Hanno finora collaborato a «StoriaLibera»: Dario Antiseri Andrea Bartelloni Maurizio Brunetti Matteo Candido Gianandrea de Antonellis Beniamino Di Martino Maria Drago Flavio Felice Giovanni Formicola Luciano Garibaldi Carlo Lottieri Guglielmo Piombini Daniele Premoli Marco Respinti Alberto Rosselli Piero Vernaglione Guido Vignelli Alessandro Vitale Il curriculum di ciascun autore (con il riferimento ai contributi apparsi su «StoriaLibera») è presente sul sito della rivista (www.StoriaLibera.it) alla pagina “Autori”. Fascicolo pubblicato il 1 giugno 2016 185