1 Rapporto di ricerca sulla giurisprudenza italiana in tema campi di

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Rapporto di ricerca sulla giurisprudenza italiana in tema campi di
applicazione della disciplina dei licenziamenti individuali
Nell’ambito del Progetto di ricerca di rilevante interesse nazionale in regime di
cofinanziamento MIUR “Sviluppo dell’occupazione e tutela del posto di lavoro. La
conciliazione possibile tra flessibilità e stabilità”, di cui è coordinatrice la
professoressa Ballestrero, mi è stato affidato il compito di mettere insieme una
raccolta sistematica e ragionata della giurisprudenza italiana (merito e Cassazione),
limitatamente al periodo 2000-2006, e di Corte Costituzionale e Corte di Giustizia,
sul tema “La disciplina dei licenziamenti individuali. Quale tutela e per chi”. Sono
state finora selezionate circa 60 sentenze tra merito e Corte di Cassazione italiana, e
18 sentenze della Corte Costituzionale.
Le suddette sentenze possono essere ripartite in 4 grandi filoni:
1. I campi di applicazione della stabilità reale e della stabilità obbligatoria e la
giustificazione della disparità di trattamento ai sensi dell’art. 3 Cost.;
2. L’estensione generalizzata della stabilità reale: il licenziamento discriminatorio;
3. Stabilità reale e stabilità obbligatoria: campi di applicazione a seconda dei
requisiti dimensionali e delle caratteristiche del datore di lavoro (organizzazioni
di tendenza);
4. Stabilità reale e stabilità obbligatoria: campi di applicazione a seconda delle
caratteristiche del lavoratore: il residuo campo di applicazione del recesso ad
nutum (licenziamento del dirigente).
A questi 4 filoni corrispondono i 4 capitoli del rapporto di ricerca, che a loro
volta sono suddivisi in una parte descrittiva della disciplina di riferimento (per la
redazione della quale mi sono largamente avvalsa di: MAZZOTTA (a cura di), I
licenziamenti. Commentario, Milano, 1999; del capitolo dedicato ai licenziamenti di
BALLESTRERO e DE SIMONE, Diritto del lavoro. Domande e percorsi di
risposta, Milano 2001 e Milano 2003; BALLESTRERO, L’estinzione del rapporto,
in corso di pubblicazione), seguita dalle schede delle sentenze – in ordine
cronologico – che ho selezionato sul tema.
1
Per quanto riguarda le schede, quelle delle sentenze della Corte Costituzionale
sono state compilate seguendo questo schema: il tipo di giudizio di cui si tratta;
l’argomento della sentenza; la massima (tratta dal sito ufficiale della Corte
Costituzionale www.cortecostituzionale.it); i parametri costituzionali e riferimenti
normativi della sentenza; i punti essenziali della motivazione (qualora non presenti
nella massima); eventuali precedenti in termini; note a sentenza.
Le sentenze di merito e Cassazione, invece, sono state compilate secondo il
seguente schema: argomento della sentenza; massima (tratta dal repertorio del Foro
Italiano); punti essenziali della motivazione (qualora non presenti nella massima);
eventuali precedenti in termini; note a sentenza.
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1. I campi di applicazione della stabilità e della stabilità obbligatoria e la
giustificazione della disparità di trattamento ai sensi dell’art. 3 Cost.
Come è noto, le espressioni stabilità reale e stabilità obbligatoria denotano due
diverse tecniche di tutela dei lavoratori contro i licenziamenti privi di giustificazione, o
altrimenti viziati nella forma o nella sostanza. La disciplina della stabilità (o tutela) che
viene detta reale è contenuta nell’art. 18 st. lav., come modificato dalla l. n. 108/1990.
Riassumendo per sommi capi il contenuto dell’anzidetta disposizione, la stabilità reale
consiste essenzialmente in un apparato sanzionatorio che colpisce con la invalidità il
licenziamento illegittimo; dalla invalidazione del licenziamento (da cui discende la
continuità giuridica del rapporto) sorgono il diritto del lavoratore al risarcimento del
danno ed il diritto alla effettiva reintegrazione nel posto di lavoro (vale a dire alla
ricostituzione della funzionalità del rapporto di fatto interrotta dal licenziamento
illegittimo). L’ordine di reintegrazione, che è emanato dal giudice nella sentenza in cui
dichiara l’invalidità del licenziamento, ha secondo la dottrina n atura inibitoria, ed è
costitutivo, per il datore di lavoro soccombente, dell’obbligo di reintegrare
(effettivamente) il lavoratore licenziato.
La stabilità obbligatoria è disciplinata dalla l. n. 604/1966, modificata dalla l. n.
108/1990; l’apparato sanz ionatorio (art. 8), che riguarda solo il licenziamento
ingiustificato, consiste in ciò: fissata dalla legge la regola che il licenziamento può
avvenire solo per giusta causa (art. 2119 c.c.) o per giustificato motivo (soggettivo o
oggettivo: art. 3 legge n. 604/1966), la legge medesima non sancisce l’invalidità del
licenziamento privo di giustificazione, ma prevede, al contrario, una sanzione
alternativa (risarcimento del danno forfetariamente predeterminato in una indennità di
modeste dimensioni; riammissione – e non reintegrazione – in servizio); la presenza di
tale sanzione alternativa consente al datore di lavoro di mantenere fermi gli effetti
estintivi di un licenziamento illecito (perché privo di giustificazione) pagando una
penale (decurtata rispetto al passato e variabile in funzione dell’anzianità di servizio del
prestatore di lavoro e del numero dei dipendenti).
3
La qualità della tutela garantita al lavoratore in caso di licenziamento dipende dalla
circostanza che il datore di lavoro rientri nell’ uno o nell’altro regime di stabilità: una
prima domanda alla quale dare risposta è allora se, e in che misura, possa considerarsi
razionale e ragionevole la disparità di trattamento dei lavoratori di fronte al
licenziamento, che deriva appunto dal campo di applicazione della stabilità.
L’attuale disciplina dei campi di applicazione della stabilità reale e della stabilità
obbligatoria costituisce il risultato di una travagliata vicenda alla quale ha posto fine la
l. n. 108/1990, approvata in gran fretta dal Parlamento per evitare la celebrazione di un
referendum (dichiarato ammissibile dalla Corte Costituzionale con la sentenza 65/1990)
il cui esito positivo avrebbe determinato, secondo le intenzioni dei proponenti,
l’estensione della stabilità reale a tutti i lavoratori. L’iniziativa referendaria non era,
quella volta, casuale o stravagante: a distanza di quattro anni si erano succedute due
diverse discipline, ma la successione nel tempo non aveva determinato l’espansione
della seconda più forte disciplina (art. 18 st. lav.) verso l’area delle imprese minori, e
neppure la piena sostituzione della seconda disciplina alla prima (l. n. 604/1966),
nell’ambito di applicazione di questa.
L’oscura definizione del campo di applicazione dell’art. 18 st. lav. (contenu ta
nell’art. 35 st. lav.) era stata fonte di vere difficoltà interpretative: ne è prova il
susseguirsi di interpretazioni contrastanti, alla ricerca di soluzioni
“razionali” o
“ragionevoli”, sfociate finalmente nel relativo consolidarsi della nota teoria delle
“tutele parallele”. Nell’orientamento
interpretativo
fatto
proprio
dalla
Corte
Costituzionale (con sentenza 2/1986), dalla Cassazione 1 , dalla maggioranza degli
interpreti (per quanto con molte perplessità e insoddisfazioni), le tutele dovevano cioè
intendersi come “parallele” perché la stabilità reale (art. 18 st. lav.,) aveva un suo
proprio campo di applicazione (unità produttive con più di 15 dipendenti delle imprese
industriali e commerciali, imprese agricole con più di 5 dipendenti) autonomamente
determinato, diverso e non coordinato con quello dell’art. 8, l. n. 604/1966, definito
allora dall’art. 11 della legge medesima (datori di lavoro che occupano più di 35
dipendenti). Il parallelismo delle tutele dava luogo a tre aree (appunto parallele) di
1
Orientamento pressoché costante della sez. lav. della Cassazione, successivamente accolto dalle S.U., a partire
dalla sentenza 15 ottobre 1985, n. 5050, RIDL, 1985, II, 852, e ivi riferimenti. Da ultimo: Cass. 23 novembre
1988, n. 6293, in GIR, 1988, Lav. (rapp.), n. 1619; Cass. 25 febbraio 1988, n. 2028, ivi, n. 1639. Queste sentenze
non sono schedate perché sono antecedenti al 2000.
4
disciplina dei licenziamenti: l’area delle unità produttive con più di 15 dipendenti, dove
trovava applicazione la stabilità reale; l’area delle imprese e delle organizzazioni con
più di 35 dipendenti, nelle quali trovava ancora applicazione la stabilità obbligatoria, ma
limitatamente alle unità produttive con meno di 16 dipendenti; l’area delle imprese e
delle organizzazioni minori (meno di 35) dove restava operante il regime di libera
recedibilità, ma ancora una volta solo nelle unità produttive con meno di 16 dipendenti.
Dalle tutele parallele potevano scaturire disparità di trattamento delle quali non era
certo facile trovare giustificazione: lavoratori dipendenti da un’impresa di grandissime
dimensioni, ma organizzata in unità produttive di piccola dimensione, si vedevano
applicare una tutela debole contro i licenziamenti; mentre lavoratori alle dipendenze
dello stesso imprenditore potevano essere beneficiari di tutele molto diverse a seconda
che lavorassero in una o altra articolazione organizzativa della stessa impresa;
addirittura nell’ambito di un’impresa con 34 dipendenti, vi potevano essere lavoratori
addetti ad una unità con più di 15 dipendenti che godevano della stabilità reale, e
lavoratori addetti ad unità produttive di dimensioni minori praticamente privi di tutela;
infine un lavoratore che venisse trasferito dall’una all’altra unità produttiva, poteva
veder cambiare radicalmente la propria situazione giuridica pur rimanendo alle
dipendenze dello stesso datore di lavoro.
Il riferimento della soglia numerica all’unità produttiva come «autonomo centro di
imputazione e di tutela» anziché all’impresa nel suo complesso era dunque fonte di un
complicato intreccio di regimi sanzionatori diversi: ma, secondo quanto ripetutamente
affermato dalla Corte Costituzionale (con sentenze 55/1974; 152/1975; 2/1986), la
scelta del legislatore era legittima e rispettosa del principio di eguaglianza. Le ragioni
che lo avevano determinato a differenziare il trattamento tra unità produttive con più o
meno di 15 dipendenti dovevano infatti essere ravvisate: nell’elemento fiduciario che
permea il rapporto nelle piccole unità; nella necessità di non gravare di costi eccessivi le
imprese minori; nella necessità di non gravare le piccole unità delle tensioni che
potevano derivare dalla forzata reintegrazione del lavoratore licenziato. Essendo tutte
queste ragioni valide e rilevanti, il trattamento differenziato trovava adeguata
giustificazione e non erano irrazionali le norme che lo prevedevano, tenuto conto della
mancanza di omogeneità tra la situazione dei lavoratori occupati nelle unità produttive
5
con più di 15 dipendenti e quella dei lavoratori di altre imprese, e delle diverse esigenze
di politica sociale e sindacale.
SCHEDE DELLE SENTENZE
•
Corte Costituzionale, sentenza 6 marzo 1974 n. 55.
Giudizio:
GIUDIZIO
DI
LEGITTIMITA'
COSTITUZIONALE
IN
VIA
INCIDENTALE
Argomento della sentenza: LAVORO (RAPPORTO DI) - LICENZIAMENTI
INDIVIDUALI - LEGGE 15 LUGLIO 1966, N. 604, ART. 2 - COMUNICAZIONE
DEL LICENZIAMENTO E DEI MOTIVI DI ESSO - ASSENZA DI UN OBBLIGO IN
TAL SENSO PER IL DATORE DI LAVORO - SUSSISTENZA DELLA PIU' AMPIA
FACOLTA' DI INDAGINE E DI PROVA SUI MOTIVI DEL LICENZIAMENTOCOORDINAMENTO
CON
LE
DISPOSIZIONI
DELLO
STATUTO
DEI
LAVORATORI. (LEGGE 20 MAGGIO 1970, N. 300).
Massima: Non è fondata, in riferimento all’art. 3 della Costituzionale, la questione
di legittimità costituzionale dell’art. 2 della legge n. 604 del 1966, poiché deve
escludersi che derivi disparità di trattamento ed ingiustificato pregiudizio al lavoratore
dall’assenza dell’obbligo per il datore di lavoro della comunicazione del licenziamento
e dei motivi di esso anche quando si ipotizzi che il licenziamento sia stato determinato
da motivi politici, sindacali o religiosi: trattandosi di licenziamento effettuato, in
ispregio alle libertà civili garantite dalla Costituzione, vige, infatti, il principio della più
ampia facoltà di indagine e di prova sui motivi del licenziamento, indipendentemente
dal silenzio o da eventuali comunicazioni del datore di lavoro. Ferma restando ogni altra
non contrastante disposizione della legge 1966, n. 604, l’innovazione introdotta dall’art.
18 dello Statuto alla disciplina dei licenziamenti riconosciuti illegittimi è stata dall'art.
35 resa applicabile alle imprese industriali e commerciali, purché abbiano una o più
6
unità produttive con almeno 16 dipendenti o una pluralità di unità produttive con
numero inferiore, sempre che nel complesso ne occupino più di 15 ed operino
nell’ambito dello stesso comune. L'unità produttiva assume giuridico rilievo non solo ai
fini dello svolgimento delle attività sindacali di cui al terzo titolo del c.d. Statuto dei
lavoratori, ma anche ai fini del licenziamento. Per la sua identificazione non è
necessario che esse rilevino come centri autonomi di imputazione di rapporti giuridici,
né alla loro configurazione concreta osta l’unitaria funzione dirigenziale esercitata
dall’imprenditore o la circostanza che nel quadro organizzativo dell’impresa siano
previsti centri direzionali comuni che presiedano al coordinamento produttivo e ad un
armonico sviluppo dell’attività economica complessiva.
Parametri costituzionali: Costituzione, art. 3.
Riferimenti normativi: legge 15/07/1966 n. 604 art. 2 .
Note a sentenza: MGL 1974, pp. 14 ss. e 465 ss., nota SANDULLI; RGL II/1974,
pp. 22 ss. e 543 ss., nota MENICUCCI; GIUR. IT. I/1975, pp. 25 ss., nota
CENTOFANTI.
•
Corte Costituzionale, sentenza 14 gennaio 1986 n. 2.
Giudizio:
GIUDIZIO
DI
LEGITTIMITA'
COSTITUZIONALE
IN
VIA
INCIDENTALE
Argomento della sentenza: LAVORO (RAPPORTO DI) - LICENZIAMENTO
SENZA GIUSTA CAUSA O GIUSTIFICATO MOTIVO - DIVERSITA' DI
TRATTAMENTO IN DIPENDENZA DEI LIMITI DIMENSIONALI NUMERICI
DELL'IMPRESA DI APPARTENENZA- NON FONDATEZZA DELLE QUESTIONI
- AUSPICATO INTERVENTO DEL LEGISLATORE.
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Massima: Secondo i principi già più volte affermati dalla Corte, e ormai condivisi
dai giudici di merito ed anche dalla Cassazione, le ragioni che, riguardo alle garanzie e
al trattamento economico dei lavoratori dipendenti in caso di licenziamento, hanno
determinato il legislatore a differenziare le imprese che impegnano meno di
trentacinque lavoratori e lavoratori occupati da datori di lavoro non imprenditori,
rispetto agli altri, occupati in imprese di maggiori dimensioni (con più di trentacinque
dipendenti) e cioè l’elemento fiduciario che permea il rapporto datore di lavoro lavoratore, la necessità di non gravare di costi eccessivi le imprese minori, la necessità
di evitare tensioni nella fabbrica, conservano tutt’oggi la loro rilevanza e la lo ro validità
per cui il trattamento differenziato trova adeguata giustificazione e non sono irrazionali
le norme che lo prevedono, dettate dal legislatore nell’esercizio della sua discrezionalità
e della politica economico-sociale che attua. Inoltre, sempre per le esigenze di politica
sociale e sindacale tutt’ora attuali e valide, non è irrazionale il diverso trattamento
previsto per i lavoratori delle unità produttive con più di quindici dipendenti. La più
intensa tutela (la cd. tutela reale), assicurata a questi lavoratori, continua a trovare
adeguata giustificazione nella necessità di svolgimento dell’attività sindacale in
fabbrica, introdotta dallo Statuto dei lavoratori. Ed il diverso trattamento è altresì
giustificato dalla mancanza di omogeneità tra la situazione di questi lavoratori e quella
di lavoratori di altre imprese. Peraltro, nelle ipotesi di imprese, o non imprese, con
meno di trentacinque dipendenti, o unità produttive con meno di quindici dipendenti,
nelle quali trova attuazione, in base all’ art. 2118 cod. civ., il recesso ad nutum, resta
auspicabile che il legislatore nell’attuazione di una politica sociale ed anche in adesione
ai principi ed alle indicazioni internazionali, possa nel futuro introdurre la previsione di
una giusta causa o di un giustificato motivo del licenziamento dal datore di lavoro
intimato. (Non fondatezza delle questioni di legittimità costituzionale, in riferimento
all’art. 3 Cost. relative agli artt. 8 e 11 l. 15 luglio 1966, n. 604 (risarcimento danni
conseguenti al licenziamento senza giusta causa o giustificato motivo); artt. 35, primo e
secondo comma, l. 20 maggio 1970, n. 300, e 11, primo comma, l. 15 luglio 1966, n.
604 (vigenza del recesso ad nutum per le imprese di minori dimensioni) e degli artt.
2118 cod. civ., 35 l. 300/1970 e 11 l. n. 604/1966 (inesistenza della tutela reale per i
lavoratori di imprese di minime dimensioni)).
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Motivazioni (punti essenziali): La Corte Costituzionale ha ribadito che il
legislatore dello Statuto ha guardato «non più alla dimensione globale dell'impresa ma
alla struttura organizzativa di essa nelle singole unità produttive e nell’ambito
territoriale». In questa prospettiva, la esclusione della stabilità reale per i lavoratori che
prestino la loro opera in strutture imprenditoriali con meno di 16 dipendenti è
giustificata, secondo la Corte, dalla «esigenza di salvaguardare la funzionalità dell’unità
produttiva ed in specie di quelle con minor numero di dipendenti nelle quali la
reintegrazione nel medesimo ambiente del lavoratore licenziato avrebbe potuto
determinare il verificarsi di una tensione nelle quotidiane relazioni umane e di lavoro».
La stessa Corte, tuttavia, lascia aperta la porta ad una futura modifica della disciplina
limitativa dei licenziamenti – che si può considerare realizzata, in larga parte, ad opera
della legge n. 108/1990 – chiarendo che il pluralismo di tutele, così come articolato
dopo l’entrata in vigore della legge n. 604/1966 e degli artt. 18 e 35 dello Statuto, è il
frutto, contingente, di «valutazioni e di scelte discrezionali di politica legislativa e
relative a condizioni economico-sociali che potrebbero anche mutare nel tempo e
determinarne, quindi, la modificazione».
Parametri costituzionali: Costituzione, art. 3.
Riferimenti normativi: legge 15/07/1966 n. 604 art. 8; legge 05/07/1966 n. 604 art.
11; legge 20/05/1970 n. 300 art. 35 co. 1; legge 20/05/1970 n. 300 art. 35 co. 2.
Precedenti in termini: sentenze nn. 81/1961; 45/1965; 81/1969; 194/1970;
55/1974; 152, 178 e 189/1975; 256/1976.
Note a sentenza: Giur. Cost. I/1986, pp. 235 ss., nota PERA; RGL II/1986, pp. 230
ss., nota GRANATO; FI I/1986, pp. 1785 ss., nota D’ANTONA.
•
Corte Costituzionale, sentenza 18 gennaio 1990 n. 65.
Giudizio: GIUDIZIO SULL'AMMISSIBILITA' DI REFERENDUM
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Argomento della sentenza: LAVORO (RAPPORTO DI) - LICENZIAMENTI
INDIVIDUALI - LICENZIAMENTO SENZA GIUSTA CAUSA O GIUSTIFICATO
MOTIVO - REINTEGRAZIONE NEL POSTO DI LAVORO 'EX' ART. 18 DELLO
STATUTO DEI LAVORATORI - INAPPLICABILITA' AI LAVORATORI DI
IMPRESE DI PICCOLA DIMENSIONE - AMMISSIBILITA' DELLA RICHIESTA DI
'REFERENDUM' ABROGATIVO.
Massima: La richiesta di 'referendum' per l’abrogazione dell'art. 35, comma primo,
della legge 20 maggio 1970 n. 300, limitatamente alle parole "dell’art. 18 e", non rientra
in alcuna delle ipotesi di inammissibilità 'ex' art. 75 Cost., e risponde ai necessari
requisiti di chiarezza, univocità ed omogeneità del quesito, essendo l’eventuale
abrogazione referendaria diretta ad ampliare, in caso di licenziamento senza giusta
causa o giustificato motivo, la tutela dei lavoratori nelle unità produttive
indipendentemente dal numero dei relativi dipendenti.
Parametri costituzionali: Costituzione, art. 75.
Riferimenti normativi: legge 20/05/1970 n. 300 art. 35 comma 1.
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2. L’estensione generalizzata della tutela reale: il licenziamento
discriminatorio
Ai sensi dell’art 3, l. n. 108/1990, è nullo indipendentemente dalla motivazione
addotta il licenziamento determinato da ragioni discriminatorie ai sensi dell’art. 4 l. n.
604/1966 (nullità del licenziamento determinato da ragioni di credo politico, fede
religiosa, dall’appartenenza ad un sindacato e dalla partecipazione ad attività sindacali)
e dell’art. 15 st. lav. (già modificato dall’art. 13 l. n. 903/1977, e ora ulteriormente
modificato dall’art. 4, 1° co., d.lg. n. 216/2003: attualmente sono nulli i licenziamenti
discriminatori per ragioni di affiliazione o attività sindacale e di partecipazione ad uno
sciopero, per ragioni di sesso, politiche, religiose, di razza, di lingua, di handicap, di età,
per ragioni basate sull’orientamento sessuale o sulle convinzioni personali). Ai
licenziamenti nulli, perché determinati dalle ragioni di discriminazioni sopra richiamate,
si applica, indipendentemente dal numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro,
la disciplina della reintegrazione nel posto di lavoro di cui all’art. 18 st. lav.: l’art. 3, l.
n. 108/1990, porta così a termine quell’unificazione del regime sanzionatorio che, prima
dell’espressa previsione contenuta in questa disposizione , non riusciva ad oltrepassare la
soglia del campo di applicazione dell’art. 18 st. lav. (benché la forza “espansiva” del
regime sanzionatorio previsto dall’art. 18 nei confronti dei casi non espressamente
previsti fosse stata affermata dalla Corte Costituzionale con sentenza 17/1987, in
riferimento alla discriminazione per ragioni di genere).
Pare opportuno sottolineare che la formulazione adottata dall’art. 3 ricollega tuttavia
la nullità – e le particolari conseguenze che ne derivano in forza della stessa
disposizione – non ad una concezione generale e astratta di “licenziamento
discriminatorio” (espressione presente soltanto nella rubrica dell’art. 3), ma al
licenziamento determinato da una serie di fattori di discriminazione “ai sensi” delle
disposizioni previgenti in materia (art. 4 l. n. 604/1966 e art. 15 l. n. 300/1970 come
modificato dall’art. 13 l. n. 903/1977): la presenza dell’elenco induce gli interpreti ad
interrogarsi sul carattere tassativo o solo esemplificativo di esso.
Certamente questo interrogativo aveva maggior peso in passato, quando l’elenco dei
fattori di discriminazione era assai più breve di quanto non lo sia attualmente, dopo la
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riforma che ha inserito nell’ultimo comma dell’art. 15 st. lav. una serie tanto lunga di
fattori da potersi considerare esaustiva . Tuttavia l’interrogativo ha ancor oggi un senso:
lo vedremo meglio guardando alla controversa inclusione tra i licenziamenti
discriminatori del licenziamento della lavoratrice madre durante il periodo coperto da
divieto, del licenziamento della lavoratrice per causa di matrimonio, nonché del
licenziamento di cui all’art. 54, comma 6, d.lg. n. 151/2001 (licenziamento causato dalla
domanda o dalla fruizione del congedo parentale e per malattia del bambino da parte
della lavoratrice o del lavoratore).
Tenuto conto della pluralità dei fattori di discriminazione che attualmente sono
espressamente previsti dall’art. 3, l. n. 108/1990, l’interrogativo in realtà non verte tanto
sul carattere tassativo o esemplificativo dell’elenco dei f attori, al quale pare risponda nel
senso della tassatività la tecnica del rinvio agli artt. 4, l. n. 604/1966, e 15 st. lav.
utilizzata
dal
legislatore,
quanto
piuttosto
sull’estensione
della
nozione
di
discriminazione alla quale si debba riportare la qualificazione del licenziamento. Per
essere più precisi: si tratta di sapere se la ragione che (indipendentemente dalla
motivazione addotta) determina un certo licenziamento sia riconducibile o meno ad uno
dei fattori di discriminazione elencati. Come diremo meglio oltre, il caso più importante
è quello del licenziamento della lavoratrice madre, dove si tratta appunto di decidere se
la maternità sia riconducibile o meno al fattore di discriminazione “sesso”; ma altri
esempi si potrebbero fare, guardando ad esempio alla controversa riconducibilità di
fattispecie concrete a fattori come l’orientamento sessuale o le convinzioni personali.
La qualificazione di un licenziamento come discriminatorio presuppone una nozione
di discriminazione, sulla quale non è ovviamente possibile soffermarsi in questa sede .
Non si può tuttavia omettere di richiamare le disposizioni recenti e recentissime nelle
quali hanno trovato disciplina la discriminazione per ragioni di razza e di etnia (d.lg. n.
215/2003), la discriminazione per ragioni di religione, convinzioni personali, età,
handicap, orientamento sessuale (d.lg. n. 216/2003), la discriminazione per ragioni di
genere (d.lg. n. 145/2005), con le quali sono state trasposte nel diritto interno tre
direttive comunitarie (Direttive CE 2000/43, 2000/78, 2002/73) . Le definizioni di
discriminazione (diretta e indiretta) contenute in queste tre fonti sono diverse tra loro e
presentano rilevanti elementi di novità, su cui non è il caso di diffondersi. In comune
queste definizioni hanno però: anzitutto una qualificazione “oggettiva” della
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discriminazione (la definizione guarda cioè agli effetti pregiudizievoli o di particolare
svantaggio del trattamento meno favorevole, prescindendo dalla considerazione delle
intenzioni
del
responsabile
della
discriminazione);
in
secondo
luogo
un
“alleggerimento” dell’onere della prova che grava sul ricorrente (tenuto ad allegare
elementi di fatto idonei a fondare una presunzione semplice, e dunque valutabili dal
giudice ai sensi dell’art. 2729 c.c.); l’a lleggerimento, nel caso della discriminazione per
ragioni di genere, diviene una vera e propria inversione dell’onere della prova sulla base
della verosimiglianza (elementi di fatto idonei a fondare la presunzione) della
discriminazione (art. 4, 6° co., l. n. 125/1991 come modificato dal d. lg. n. 196/2000).
Di tutto ciò, almeno per ora, non si trova traccia nella giurisprudenza in materia di
licenziamento discriminatorio: la casistica continua ad essere povera, ma nelle non
frequenti occasioni nelle quali i giudici hanno occasione di intervenire la
discriminazione continua ad essere qualificata in senso soggettivo (come atto
intenzionale), e l’onere di provare l’intento discriminatorio è fatto gravare per intero sul
ricorrente. Ciò dipende probabilmente dal fatto che il contenzioso più classico e
cospicuo continua ad essere quello relativo ai licenziamenti c.d. “di ritorsione”, fondati
su motivi sindacali, che trovava in origine disciplina nel solo art. 4, l. n. 604/1966:
rispetto ad esso la S.C. continua a ripetere che per stabilire il carattere “ritorsivo” e
quindi la nullità del licenziamento occorre specificamente dimostrare, con onere a
carico del lavoratore, che l’intento discriminatorio o di rappresaglia per l’attività svolta
abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà del datore di lavoro (Cass.
26 maggio 2001, n. 7188). Il motivo discriminatorio deve dunque risultare l’unico
motivo determinante del recesso: ancora di recente la Cassazione ha affermato in tal
senso, che ove il lavoratore impugni il licenziamento deducendo il difetto di giusta
causa o giustificato motivo, l’eventuale motivo discriminatorio, pure ricavabile da
circostanze di fatto allegate, integra un ulteriore motivo di illegittimità del recesso,
come tale non rilevabile d’ufficio e neppure configurabile come diversa qualificazione
del licenziamento (Cass. 21 dicembre 2004, n. 23683).
Riguardo all’ambito di applicazione dell’art. 3, l. n. 108/1990 resta ancora da dire
che il legislatore ha espressamente previsto l’estensio ne ai dirigenti della nullità del
licenziamento discriminatorio; dubbi permangono invece per quanto riguarda
l’applicazione nei confronti dei «datori di lavoro non imprenditori che svolgono, senza
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fini di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di
religione o di culto» rispetto ai quali si pongono i maggiori interrogativi. Nelle c.d.
“organizzazioni di tendenza” (su cui torneremo nel Capitolo successivo), si pone,
infatti, un potenziale contrasto tra l’identità del lavo ratore, intesa come insieme di
caratteristiche personale e scelte ideologiche, e la “tendenza” dell’organizzazione stessa.
Ora, secondo la giurisprudenza prevalente la “neutralità” delle mansioni svolte dal
lavoratore (intesa come non riconducibilità diretta alla tendenza dell’organizzazione)
non sempre è ritenuta sufficiente a garantirgli la tutela reale, quando comunque sia stato
licenziato da un datore di lavoro che rientri fra le organizzazioni di tendenza escluse
espressamente dall’ambito di applicazio ne di detta tutela. La questione si complica
quando la ragione del licenziamento sia riconducibile, direttamente o indirettamente, a
uno dei fattori di discriminazione espressamente vietati dal legislatore. Secondo l’art. 3
l. n. 108/1990, qualunque licenziamento determinato da ragioni discriminatorie è infatti
nullo e comporta in ogni caso, come abbiamo visto, l’applicazione del regime della
stabilità reale. Il contrasto tra tutela della libertà del lavoratore e tutela della ideologia
del datore di lavoro si trasforma così nel potenziale contrasto tra la norma espressa
dall’art. 3 e la norma espressa dal successivo art. 4, che disegna un’area di non
applicazione della tutela reale a favore della organizzazioni di tendenza.
La giurisprudenza (come peraltro la dottrina) appare divisa in merito alla
“prevalenza” dell’uno o dell’altro principio: nullità del licenziamento discriminatorio,
con diritto alla tutela reale, quale regola cardine a presidio della dignità e della libertà
del lavoratore, da una parte; legittimità del licenziamento ed esclusione (anche in questo
caso) della tutela reale, quale regola a presidio della libertà delle organizzazioni senza
fini di lucro che svolgono determinate attività ideologicamente connotate. Nella scelta,
come vedremo, riemerge ancora una volta, sotto una diversa angolazione, la rilevanza
della (eventuale) connotazione ideologica delle mansioni svolte dal lavoratore
illegittimamente licenziato.
Un’importante tappa, nel confuso sviluppo della giurisprudenza in materia, è sta ta
segnata da una decisione che ha tentato una ricomposizione dei due opposti
orientamenti, pronunciandosi sulla (il)legittimità del licenziamento, da parte di un
scuola cattolica, di un insegnante di educazione fisica che aveva contratto matrimonio
civile (ma non religioso). Muovendo dall’art. 4 l. n. 108/1990, Cass. 16 giugno 1994, n.
14
5633 ha osservato, in primo luogo, che detta norma, che serve a regolare gli effetti di un
normale licenziamento illegittimo, nulla dice sul problema fondamentale del
licenziamento ideologico, in ordine al quale l’art. 4 in ogni caso non trova applicazione.
Secondo la Corte, infatti, il licenziamento ideologico o è nullo indipendentemente dalla
motivazione addotta e in tal caso al lavoratore spetta in ogni caso la tutela reale,
qualunque sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro (art. 3 1. n. 108 del
1990), o è legittimo, quando l’adesione ideologica è requisito di autenticità della
prestazione, e in tale ipotesi nessuna tutela (né reale né obbligatoria) spetta al
lavoratore. La Corte ha sottolineato poi il carattere particolarmente odioso del
licenziamento ideologico, che priva il soggetto del proprio lavoro per aver esercitato
diritti, solennemente garantiti dalla Costituzione, come la liberta di opinione, la libertà
di religione e, nel campo della scuola, la libertà di insegnamento. Richiamate le
disposizioni che, nel tempo, sono state introdotte per tutelare i lavoratori nell’esercizio
di tali diritti costituzionali anche nell’ambito del luogo di lavoro, la Corte ha affermato
che le eccezioni a tali norme possono essere ammissibili solo negli stretti limiti in cui
sono indispensabili a garantire altri diritti costituzionalmente garantiti, quali la libertà
dei partiti politici e dei sindacati, la libertà religiosa e la libertà della scuola. Venendo
quindi al caso delle scuole gestite dagli enti ecclesiastici, la Corte ha affermato che in
questo caso la tendenza è insita nella caratterizzazione dell’insegnamento (ispirato ai
principi della Chiesa cattolica), che viene in esse impartito, tanto da chiamarsi
espressamente “scuole cattoliche”. La Corte ha richiamato in proposito una importante
pronuncia della Corte Costituzionale, la sentenza n. 195/1972, secondo la quale ove si
negasse all’Università Cattolica del S acro Cuore il potere – riconosciuto dal Concordato
– di recedere dal rapporto di lavoro nel caso in cui gli indirizzi religiosi o ideologici del
docente fossero divenuti contrastanti con quelli che caratterizzano l’istituzione
universitaria in oggetto, risulterebbe mortificata e rinnegata la libertà di quest'ultima.
Secondo il pensiero espresso in quella occasione dalla Corte Costituzionale, il docente
che accetta di insegnare in una università confessionalmente o ideologicamente
caratterizzata, lo fa, d’al tronde, per un atto di libero consenso, che implica l’adesione ai
principi ed alle finalità cui quella istituzione è informata.
Tuttavia, come osserva la Cassazione, i casi più frequenti di licenziamento
ideologico nelle scuole cattoliche non riguardano le mutate convinzioni religiose dei
15
dipendenti (come avvenne nel caso che ha dato origine alla pronuncia della Corte
Costituzionale) quanto comportamenti tenuti dal lavoratore nella sua vita privata,
comportamenti non coerenti con gli insegnamenti della Chiesa, come quello esaminato
dalla Cassazione nel caso dell’insegnante di educazioni fisica. Si trattava, in particolare,
di un licenziamento riconducibile ai licenziamenti ideologici motivati da comportamenti
che rappresentano l’esercizio di diritti solenne mente garanti dalla Costituzione. «Il
sacrificio di tali diritti è ammissibile solo in via del tutto eccezionale e nei limiti in cui
vengono a trovarsi in contrasto con altri principi costituzionalmente tutelati, quale è,
nella specie, la difesa dell’auten ticità della tendenza, garantita dal principio della liberta
della scuola, sancito dall’art. 33 Cost. Tale conflitto può verificarsi, però, solamente nei
confronti di quegli insegnamenti (e dei relativi docenti) che caratterizzano la tendenza».
La Cassazione ha riproposto a questo punto la questione delle mansioni del lavoratore
licenziato, introducendo una sottile distinzione tra tendenza della congregazione e
tendenza della scuola. «Nell’ambito di una scuola cattolica vi sono mansioni (quelle del
personale esecutivo e tecnico) e insegnamenti del tutto indifferenti rispetto alla tendenza
della scuola. L’adesione di quei dipendenti e di quei docenti agli insegnamenti della
Chiesa cattolica e la coerenza con essi della loro vita privata soddisfa solo la tendenza
della congregazione religiosa, che gestisce la scuola cattolica, ma non la tendenza
confessionale della scuola, che nessun attentato può ricevere da un diverso orientamento
ideologico di dipendenti e di insegnanti, che svolgono attività o insegnamenti in nessun
modo influenzati dalla tendenza della scuola. Fra tali insegnamenti vi è certamente
quello di educazione fisica impartito dal ricorrente, trattandosi di una materia che
prescinde completamente dall’orientamento ideologico del docente. Né vale obi ettare,
come fa la sentenza impugnata, che il docente nel suo insegnamento viene a contatto
con gli allievi, perché il semplice contatto con essi durante le lezioni di ginnastica non è
di per se idoneo ad orientare ideologicamente in modo diverso i giovani, salvo che non
risulti (e nella presente causa ciò non è mai stato affermato da alcuno) che il docente
avesse diffuso e propagato fra gli allievi idee e atteggiamenti in contrasto con l’indirizzo
cattolico della scuola». Cassando la sentenza del Tribunale che aveva ritenuto legittimo
il licenziamento del docente, la Corte ha così concluso: «se quindi nemmeno un mutato
atteggiamento ideologico di un professore di educazione fisica può costituire attentato
16
all’indirizzo educativo cattolico della scuola, a ma ggior ragione non lo può costituire un
comportamento solamente incoerente con gli insegnamenti della Chiesa».
Pare opportuno segnalare, sul punto, che il recepimento della Direttiva CE 2000/78
recentemente realizzato con il d.lgs. n. 216/2003 (art. 3) sembra avere per la prima volta
regolato – seppure in modo non limpido, e non perfettamente conforme alla Direttiva,
peraltro anch’essa non limpida in proposito – il rapporto tra divieto di discriminazione e
quella adesione ideologica che la Cassazione qualifica come requisito di autenticità
della prestazione. Anche se non risultano significative pronunce in proposito, pare
ragionevole ritenere, conclusivamente, che, se si muove dall’autonomia delle due norme
sopra richiamate (art. 3 e art. 4 l. n. 108/1990), si deve ritenere che qualsiasi
licenziamento fondato su un fattore discriminatorio non coincidente con l’ideologia
dell’organizzazione di tendenza (licenziamento per ragioni di sesso o di lingua in una
scuola cattolica, per esempio) configuri un licenziamento discriminatorio illegittimo e
dunque nullo, che comporta, ai sensi dell’art. 3, «le conseguenze previste dall’art. 18»
st. lav. (reintegrazione e risarcimento del danno).
SCHEDE DELLE SENTENZE
•
Corte Costituzionale, sentenza 29 dicembre 1972 n. 195
Giudizio:
GIUDIZIO
DI
LEGITTIMITA'
COSTITUZIONALE
IN
VIA
INCIDENTALE
Argomento della sentenza: ISTRUZIONE PUBBLICA - PLURALISMO
SCOLASTICO - LIBERTA' DELLA SCUOLA- SI ESTENDE ALLE UNIVERSITA'AMMISSIBILITA'
DI
UNIVERSITA'
LIBERE,
CONFESSIONALI
O
IDEOLOGICAMENTE CARATTERIZZATE - LIBERTA' DI INSEGNAMENTO DEI
DOCENTI IN ESSE
- LIMITI CONSEGUENTI ALLA
NECESSITA' DI
REALIZZARE LE FINALITA' DI SIFFATTE UNIVERSITA'
- FATTISPECIE UNIVERSITA' CATTOLICA DEL SACRO CUORE- CONCORDATO TRA LO
17
STATO ITALIANO E LA S. SEDE, ART. 38: NULLA OSTA DELLA S. SEDE PER
LA NOMINA DEI PROFESSORI E POTERE DELLA STESSA DI RECEDERE DAL
RAPPORTO - NON VIOLA L'ART. 33 DELLA COSTITUZIONE- ESCLUSIONE DI
ILLEGITTIMITA' COSTITUZIONALE.
Massima: La libertà della scuola intesa come attuazione del principio del
pluralismo scolastico ai sensi dell’art. 33 Cost., si estende indubbiamente alle università,
per cui e' ammissibile la creazione di università libere, che possono essere confessionali
o comunque ideologicamente caratterizzate; ne deriva necessariamente che la libertà di
insegnamento da parte di singoli docenti che sono liberi di aderire all'indirizzo della
scuola come di recedere dal relativo rapporto, incontra nel particolare ordinamento di
siffatte università i limiti necessari a realizzarne le finalità. Ciò vale in particolare per
l’Università cattolica la cui pretesa natura di persona giuridica pubblica non ne
attenuerebbe comunque l’originaria destinazione finalistica e la caratterizzazione
confessionale. Negando ad una libera università ideologicamente qualificata il potere di
scegliere i suoi docenti in base ad una valutazione della loro personalità e negandosi alla
stessa il potere di recedere dal rapporto ove gli indirizzi religiosi o ideologici del
docente siano divenuti contrastanti con quelli che caratterizzano la scuola, si
mortificherebbe e rinnegherebbe la libertà di questa, inconcepibile senza la titolarità di
quei poteri, e pertanto l’art. 38 del Concordato non contrasta con l’art. 33 Cost., che
subordina al nulla osta della S. Sede la nomina dei professori dell’Università cattolica
del Sacro Cuore.
Parametri costituzionali: Costituzione art. 33.
Riferimenti normativi : legge 27/05/1929 n. 810 art. 38.
•
Corte Costituzionale, sentenza 22 gennaio 1987 n. 17
Giudizio:
GIUDIZIO
DI
LEGITTIMITA'
COSTITUZIONALE
IN
VIA
INCIDENTALE
18
Argomento
della
sentenza:
LAVORO
(RAPPORTO
DI)
-
ATTI
DISCRIMINATORI - IN DANNO DELLE LAVORATRICI - DISCRIMINAZIONE
DETERMINATA DAL COMPORTAMENTO DEL TERZO COMMITTENTE - NON
FONDATEZZA DELLA QUESTIONE NEI SENSI DI CUI IN MOTIVAZIONE.
Massima: Il principio di parità di diritti e di retribuzione tra lavoratrice e lavoratore
ha efficacia generale per tutti i cittadini e va osservato, nella fase di costituzione e in
quella di svolgimento del rapporto, non solo da parte del datore di lavoro, ma anche da
parte dei terzi a favore dei quali, in base ad apposito contratto, vada il risultato
dell’attività lavorativa. Sono pertanto nulle le clausole di tale contratto che importino
discriminazioni fondate unicamente sulla diversità di sesso; né l’eventuale domanda di
risoluzione proposta dal terzo per ragioni che implichino tale discriminazione integra un
giustificato motivo di licenziamento della lavoratrice, ben potendo opporsi alla
domanda il datore di lavoro, sul quale comunque ricadono le conseguenze dei
licenziamenti discriminatori eventualmente intimati. (Non fondatezza - nei sensi di cui
in motivazione - della questione di legittimità costituzionale sollevata in riferimento agli
artt. 3, 4 e 37 Cost. e relativa al combinato disposto degli artt. 1, L. 9 dicembre 1977 n.
903, e 15, ultimo comma, L. 20 maggio 1970 n. 300, nella parte in cui escluderebbe,
rispetto al prestatore e al datore di lavoro, la rilevanza del comportamento del terzo che
comunque determini lo stesso datore ad una condotta violatrice del principio di parità
tra lavoratore e lavoratrice).
Parametri costituzionali: Costituzione art. 3; art. 4; art. 37.
Riferimenti normativi: legge 9/12/1977 n. 903 art. 1; legge 20/05/1970 n. 300 art.
15 ultimo comma.
Note a sentenza: DL II/1987, pp. 130 ss., nota CASCIANO.
•
Cassazione sezione lavoro, sentenza 13 dicembre 2000 n. 15689
19
Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Licenziamento - Licenziamento
individuale - Licenziamento discriminatorio - Intento di rappresaglia del datore di
lavoro - Criteri - Fattispecie.
Massima: In tema di licenziamenti individuali, affinché ricorra l’intento di
rappresaglia del datore di lavoro occorre accertare l’esclusiva efficacia determinativa
della qualità di lavoratore sindacalmente attivo (nella specie la S.C. ha confermato la
decisione di merito che aveva escluso il carattere discriminatorio del licenziamento in
un caso in cui lo scarso impegno e la mancanza di attenzione dimostrati dal lavoratore
nel periodo di assegnazione al suo ufficio avevano impedito allo stesso, impegnato
giornalmente per oltre il 30-40 per cento in attività sindacali, di essere inserito in un
programma di lavoro con scadenze da rispettare.
•
Cassazione sezione lavoro, sentenza 20 marzo 2001 n. 3947
Argomento della sentenza: Previdenza (assicurazioni sociali) - In genere -
Ricostruzione della posizione assicurativa in caso di licenziamento intimato per motivi
politici, sindacali o religiosi, ex legge n. 36/1974 - Operatività anche in caso di
successiva riassunzione del lavoratore da parte dello stesso datore di lavoro con la
medesima qualifica - Sussistenza - Dubbio di legittimità costituzionale in riferimento
agli artt. 3 e 38 Cost. per eccesso di tutela del lavoratore - Manifesta infondatezza.
Massima: Lo speciale beneficio previsto dalla legge 15 febbraio 1974, n. 36 - che
ha contemplato, in favore dei lavoratori dipendenti il cui rapporto sia stato risolto per
motivi politici, sindacali o religiosi tra il primo gennaio 1948 ed il 7 agosto 1966, il
diritto alla ricostituzione della posizione assicurativa per il periodo intercorrente tra la
data del licenziamento e quella di raggiungimento dei requisiti di età e contribuzione per
il diritto alla pensione di vecchiaia – opera anche ove, successivamente al
licenziamento, il lavoratore sia stato riassunto dallo stesso datore di lavoro con la
20
medesima qualifica precedentemente conseguita, atteso che la legge non configura la
riassunzione come causa di esclusione del detto beneficio né pone alcuna distinzione in
funzione della durata dello stato di non collocazione e, quindi, della mancata
contribuzione ad essa conseguente. Né tale interpretazione introduce - in contrasto con
gli artt. 3 e 38 Cost. - elementi di irrazionalità o di ingiustificata locupletazione del
lavoratore tutelato, atteso che dall’ammontare dei contributi da accreditare ai sensi
dell’art. I della legge n. 36 del 1974 vanno in ogni caso detratti quelli derivanti dalla
copertura assicurativa conseguente alla riassunzione del lavoratore.
•
Cassazione sezione lavoro, sentenza 26 maggio 2001 n. 7188
Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Licenziamento - Licenziamento
individuale - Licenziamento discriminatorio - Intervento di rappresaglia del datore di
lavoro - Onere della prova - Grava sul lavoratore.
Massima: Nel caso di controversia concernente la legittimità del licenziamento di
un lavoratore sindacalmente attivo, per affermare il carattere ritorsivo e quindi la nullità
del provvedimento espulsivo, in quanto fondato su un motivo illecito, occorre
specificamente dimostrare, con onere a carico del lavoratore, che l’intento
discriminatorio e di rappresaglia per l’attività svolta abbia avuto efficacia determinativa
esclusiva della volontà del datore di lavoro, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini
della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso.
•
Tribunale di Roma, sentenza 26 marzo 2002
Argomento della sentenza: Confessioni religiose diverse dalla cattolica - Intese ex
art. 8 Cost. - Chiesa cristiana avventista del settimo giorno - Legge 22 novembre 1988,
n. 516 - Riposo sabbatico - Licenziamento discriminatorio.
21
Massima: Il Tribunale di Roma, in sede di appello, pronunciandosi sulla decisione
resa dal Pretore in merito a un licenziamento connesso al rispetto del riposo sabbatico di
un lavoratore di fede avventista, ha confermato che le conclusioni desunte dal giudice di
primo grado circa il configurarsi effettivo di un licenziamento discriminatorio
sussistono in ragione della corretta interpretazione da parte del Pretore delle risultanze
processuali. In particolare, il Tribunale ha ritenuto infondate le richieste dell’appellante
circa l’erronea valutazione delle risultanze istruttorie in merito alla riconducibilità del
recesso ad esigenze organizzative aziendali attinenti all’osservanza dei turni di servizio,
e ha confermato la sussistenza di ragioni discriminatorie, configurando così un
licenziamento non sostenuto da motivazioni delineanti un giustificato motivo.
•
Tribunale di Napoli (ord.), 26 maggio 2003
Argomento dell’ordinanza: Sciopero - Proclamazione - Irrilevanza - Occupazione
dei locali dismessi dall’imprenditore - Liceità - Licenziamento discriminatorio Sussistenza.
Massima: Il preavviso o preventiva comunicazione al datore di lavoro non è
necessario ai fini della legittimità dello sciopero, a meno che esso non sia
specificamente richiesto dalla legge (come nel caso dei servizi pubblici essenziali) o
non sia indispensabile per evitare pregiudizi alla capacità produttiva dell’azienda (come
ad
esempio
il
danneggiamento
dei
macchinari).
L’occupazione,
preceduta
dall’assemblea dei lavoratori, dall’effettuazione dello sciopero, e perpetrata con il
presidio dei locali aziendali (di proprietà di altra società), va ritenuta legittima, qualora
si inserisca in un contesto nell’ambito del quale l’attività lavorativa si trovava già
sospesa per lo sciopero e per l’imminente trasferimento dell’attività. Il provvedimento
di licenziamento irrogato di fronte a tali eventi deve perciò ritenersi antisindacale e
discriminatorio, con conseguente dichiarazione di nullità.
Note: DML 2003, pp. 691 ss., nota DENTICI.
22
•
Tribunale di Bari, sentenza 30 settembre 2003
Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Lavoro subordinato - Estinzione
del rapporto - Licenziamento individuale - In genere - Licenziamenti discriminatori Art. 3 legge 11 maggio n. 108/1990 - Interpretazione estensiva - Ammissibilità Licenziamenti per ritorsione - Inclusione.
Massima: Il licenziamento inflitto a seguito di un comportamento legittimo del
lavoratore (c.d. licenziamento per rappresaglia o ritorsione) rientra nella categoria –
suscettibile di interpretazione estensiva - del licenziamento disposto per motivi
discriminatori, affetto da nullità.
•
Tribunale di Modena, sentenza 18 giugno 2004
Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Licenziamento per giustificato
motivo oggettivo - Invalidità - Ragioni discriminatorie prospettate dal lavoratore Insussistenza - Conseguenze - Tutela reale – Inapplicabilità.
Massima: La nozione di licenziamento discriminatorio, di cui L all’art. 3, legge
108l1990, non può essere estesa sino a ricomprendere qualsiasi esigenza non tutelata dal
diritto, perché altrimenti l’istituto in questione non avrebbe più alcun a autonomia,
coprendo sostanzialmente tutta l’area del licenziamento ingiustificato. In presenza di più
posizioni lavorative tutte equivalenti, il datore che intenda procedere ad un
licenziamento per giustificato motivo oggettivo, motivato con l’eccedenza di personale,
deve utilizzare in via analogica alcuni dei criteri di scelta normativamente previsti per i
licenziamenti collettivi, prendendo in considerazione, in particolare, il carico familiare e
l’anzianità dei lavoratori coinvolti (Nella specie, una l avoratrice aveva impugnato il
licenziamento intimatole, affermando che il medesimo sarebbe stato adottato per
ritorsione ad una serie di assenze effettuate per la malattia del figlio).
23
•
Tribunale di Milano, sentenza 7 ottobre 2004
Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Licenziamento per motivi
discriminatori - Partecipazione a uno sciopero - Effetti - Nullità - Conseguenze Reintegrazione ex art. 18 SL. - Prova del motivo illecito del licenziamento - Presunzioni
gravi, precise e concordanti - Sufficienza.
Massima: Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, basato su inesistenti
ragioni organizzative che trova la sua reale motivazione nella partecipazione a uno
sciopero da parte del lavoratore, deve essere dichiarato nullo perché discriminatorio. Le
conseguenze sono quelle di cui all'art. 18 SL così come previsto dal combinato disposto
dell’art. 3 L. 11/5/90 n. 108 e dell’art. 15 SL. L'onere della prova del motivo illecito del
licenziamento è in capo al lavoratore che può raggiungerla anche a mezzo di
presunzioni gravi, precise e concordanti.
Note a sentenza: D&L I/2005, pp. 238 ss., nota CIVITELLI.
•
Corte di Appello di Potenza, sentenza 15 giugno 2005
Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Licenziamento per motivi
discriminatori - Ritorsione a fronte di dichiarazioni rese dalla lavoratrice agli Ispettori
dell’Inps - Nullità del licenziamento - Conseguenze - Reintegrazione ex art. 18 SL. Prova del motivo illecito di licenziamento - Presunzioni semplici - Sufficienza Fattispecie.
Massima: Il licenziamento irrogato per ragioni ritorsive, sulla base di un motivo
illecito che ha unicamente ed esclusivamente determinato il datore di lavoro a emanare
l’atto di recesso, deve essere dichiarato nullo perché discriminatorio, consegu endone
l’applicazione dell’art. 18 SL. (nella fattispecie, la lavoratrice era stata licenziata, sul
presupposto fittizio di un inesistente giustificato motivo oggettivo, in seguito delle
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dichiarazioni spontanee rese agli Ispettori dell’Inps). L’onere della prova circa la
sussistenza del motivo discriminatorio del licenziamento, in applicazione dei principi
generali, grava sul lavoratore, che può raggiungerla a mezzo di presunzioni gravi,
precise e concordanti (nella fattispecie individuate nella mancanza di effettiva
consistenza del giustificato motivo oggettivo di recesso, nell’assegnazione alla
lavoratrice di mansioni dequalificanti al rientro in servizio dopo il periodo di maternità,
e nella successiva forzata imposizione delle ferie fino al compimento del primo anno di
vita del figlio).
Note a sentenza: D&L II-III/2005, pp. 595 ss., nota BULGARINI D’ELCI.
•
Cassazione sezione lavoro, sentenza 14 luglio 2005, n. 14816
Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Licenziamento per motivi
discriminatori - Giusta causa - Giustificato motivo di recesso - Nullità del recesso Appartenenza del lavoratore al sindacato - Onere della prova della finalità ritorsiva.
Massima: Per affermare il carattere ritorsivo e quindi la nullità del provvedimento
espulsivo, in quanto fondato su un motivo illecito, occorre specificamente dimostrare,
con onere a carico del lavoratore, che l’intento discriminatorio o di rappresaglia per
l’attività svolta abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà del datore di
lavoro anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta
causa o di un giustificato motivo di recesso e che per l’accertamento dell’intento
ritorsivo del licenziamento non è sufficiente la deduzione dell’appartenenza del
lavoratore ad un sindacato, o della sua partecipazione, anche se attiva, ad attività
sindacali, ma è necessaria la prova della sussistenza di un rapporto di causalità tra tali
circostanze e l’asserito intento di rappresaglia, dovendo, in mancanza, escluders i la
finalità ritorsiva del licenziamento.
•
Tribunale di Siracusa, sentenza 6 ottobre 2005
25
Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Licenziamento individuale Giustificato motivo oggettivo - Rappresaglia - Unicità del motivo illecito - Nullità.
Massima: E’ nullo il licenziamento, formalmente intimato dall'azienda per
giustificato motivo oggettivo, nel caso in cui si sia accertato che l’unico motivo
fondante l’atto di recesso sia di natura discriminatoria, concretando una «rappresaglia»
a danno del lavoratore che non ha inteso sottoscrivere un accordo relativo
all’applicazione di un nuovo contratto collettivo di settore, implicante un peggioramento
del trattamento economico spettante al lavoratore medesimo.
•
Tribunale di Siracusa, sentenza 6 dicembre 2005
Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Licenziamento individuale -
Giusta causa - Rappresaglia - Non unicità del motivo illecito - Validità.
Massima: E’ infondata l’eccezione di nullità del licenziamento formalmente
intimato dall’azi enda per giusta causa - in quanto determinato da ritorsione e
rappresaglia, presuntivamente indotto dal rifiuto della ricorrente di aderire ad un nuovo
contratto collettivo, integrante un peggioramento del trattamento economico, nel caso in
cui, oltre a non essere provata l’esistenza di un effettivo «ricatto» ai danni della
lavoratrice, non sia stato specificamente dimostrato, da parte di quest’ultima, che
l’intento di rappresaglia abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà del
datore di lavoro.
Note a sentenza: Guida al lavoro 7/2006, pp. 48 ss. nota RICCI e TRAPANESE.
2.1. Il licenziamento per causa di matrimonio
26
A norma dell’art. 1, l. 9 gennaio1963, n. 7, le clausole di nubilato di qualsiasi
genere, contenute nei contratti individuali e collettivi e nei regolamenti, sono nulle e si
hanno per non apposte; parimenti nulli sono i licenziamenti per causa di matrimonio.
Nulle sono anche le dimissioni presentate dalla lavoratrice nello stesso periodo per cui è
prevista la nullità del licenziamento (a meno che la lavoratrice non le confermi entro un
mese davanti all’Ufficio del lavoro, ora Direzione provinciale del lavoro). Per sollevare
la lavoratrice ricorrente dall’onere di provare l’illecito motivo determinante il recesso, la
legge stabilisce che il licenziamento si presume disposto per causa di matrimonio
quando intervenga nel periodo intercorrente tra la richiesta delle pubblicazioni e l’anno
successivo alla celebrazione. La legge espressamente presume dunque che il
licenziamento “durante” il periodo protetto sia avvenuto a “causa di matrimonio”. La
Corte Costituzionale (con sentenza n. 27/1969) ha affermato il carattere assoluto della
presunzione per le seguenti ragioni: perché preclude al datore di lavoro di provare che il
licenziamento non è stato disposto a causa di matrimonio; perché è assorbente di ogni
altra ragione giustificatrice; perché è superabile solo in presenza di una delle cause
espressamente previste dalla medesima legge. Le conseguenze della nullità del
licenziamento sono definite dalla legge con un rigore nuovo per la legislazione del
tempo: la lavoratrice illegittimamente licenziata ha diritto ad essere riammessa in
servizio, ed ha altresì diritto alla retribuzione (globale di fatto) per tutto il periodo che
va dal licenziamento fino alla data della effettiva reintegrazione in servizio.
La l. n. 7/1963, forse a causa dei principi innovatori introdotti, suscitò reazioni
negative: vennero sollevate eccezioni di illegittimità costituzionale che la Corte
Costituzionale respinse: il divieto di licenziamento, sostanzialmente sostenuto dalla
presunzione della causa di matrimonio, è diretto – disse la Corte – a «salvaguardare la
libertà e la dignità umana» dei soggetti a favore dei quali è disposto (cioè delle donne, e
solo delle donne), e non crea perciò un ingiustificato vantaggio (quello della
conservazione del posto) per le donne sposate.
A molti anni di distanza dalla sua entrata in vigore, la legittimità costituzionale della
l. n. 7/1963 è stata rimessa in discussione proprio sotto il profilo del vantaggio che
assicura alla lavoratrice. La Corte Costituzionale ha dichiarato non fondata la questione;
nella motivazione la Corte ha affermato che la politica di «favore per il matrimonio e di
27
agevolazione della formazione della famiglia legittima», che a suo giudizio ispira la
legge del 1963, è al riparo «da un giudizio di eccessività di tutela», perché l’art. 31
Cost. tutela l’interesse pubblico a che sia favorita la formazione della famiglia legittima
fondata sul matrimonio (sentenza n. 46/1993). Così decidendo, però, la Corte si è
pronunciata su questioni che non formavano oggetto del giudizio e ha trascurato invece
di approfondire la riflessione sulla questione che l’ordinanza del giudice torinese la
invitava ad esaminare. A nostro parere si può anche oggi ritenere legittimo il vantaggio
attribuito alla lavoratrice, purché si abbia la certezza che il matrimonio in quanto tale
costituisca una perdurante causa di discriminazione delle donne, e si abbia perciò
ragione di affermare che le lavoratrici che contraggono matrimonio meritano una
speciale tutela (nell’ambito appunto delle misure antidiscriminatorie per ragioni di
genere).
La connessione tra la “causa di matrimonio” che motiva il licenziamento della
lavoratrice e la considerazione (diretta) del suo genere pare evidente (ma non ai nostri
giudici, che continuano ad ignorarla), se solo si tiene a mente la connessione tra
matrimonio e “rischio” di maternità. Un forte argomento in tal senso si può trarre dalla
considerazione che tutte le leggi antidiscriminatorie vigenti in Europa, ispirate alla
Direttiva CE 76/207 (ora modificata con Direttiva CE 2002/73), menzionano il
matrimonio come causa di discriminazione diretta e/o indiretta delle donne nell’accesso
al lavoro e nelle condizioni di lavoro. Insomma, visto con gli occhi di oggi (e alla luce
della legislazione vigente in materia), il licenziamento per causa di matrimonio può farsi
rientrare nella categoria dei licenziamenti discriminatori per ragioni di genere, la cui
nullità dà oggi accesso alla reintegrazione nel posto di lavoro, regolata dall’art. 18 st.
lav.
SCHEDE DELLE SENTENZE
•
Corte Costituzionale, sentenza 5 marzo 1969 n. 27
28
Giudizio:
GIUDIZIO
DI
LEGITTIMITA'
COSTITUZIONALE
IN
VIA
INCIDENTALE
Argomento della sentenza: LAVORO - LAVORATRICI - DIVIETO DI
LICENZIAMENTO PER CAUSA DI MATRIMONIO - LEGGE 9 GENNAIO 1963,
N. 7 - FINALITA'- SUPERAMENTO DEL CONFLITTO TRA L'INTERESSE
DELLE LAVORATRICI ALLA CONSERVAZIONE DEL POSTO DI LAVORO ED
IL CONTRAPPOSTO INTERESSE DEI DATORI DI LAVORO - FONDAMENTO
DELLA LEGGE IN PRINCIPI COSTITUZIONALI - NON VIOLA GLI ARTT. 2, 3,
4, 31, 37 - ESCLUSIONE DI ILLEGITTIMITA' COSTITUZIONALE.
Massima: La legge 9 gennaio 1963, n. 7, fu emanata in seguito alla prassi, in
precedenza largamente diffusa, dei licenziamenti delle lavoratrici in occasione del loro
matrimonio, ed allo scopo di dirimere, nel senso più rispondente alle esigenze della
società, il conflitto, derivatone, tra l’interesse delle lavoratrici alla conservazione del
posto di lavoro ed il contrapposto interesse dei datori di lavoro. Tali finalità sono state
perseguite non soltanto con le disposizioni sui licenziamenti, ma anche attraverso una
più ampia mutualizzazione (artt. 3 e segg.) degli oneri finanziari già posti a carico dei
datori di lavoro dalla legge 26 agosto 1950, n. 860, sulla tutela fisica ed economica delle
lavoratrici madri. Nel quadro di questa premessa, la tutela accordata alle lavoratrici che
contraggono matrimonio appare sorretta da ragioni che trovano riscontro nella realtà
sociale e legittimo fondamento in una pluralità di principi costituzionali che concorrono
a giustificare misure legislative intese a sollevare la donna dal dilemma di dover
sacrificare il posto di lavoro per salvaguardare la propria libertà di dar vita ad una nuova
famiglia o, viceversa, di dover rinunziare a questo suo fondamentale diritto per evitare
la disoccupazione. Tali principi costituzionali sono espressi: a) dall’articolo 2 della
Costituzione, che garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, fr a i quali non può non essere
compresa la libertà di contrarre matrimonio; b) dall’art. 3, secondo comma, che impone
di rimuovere ogni ostacolo, anche di fatto, che impedisca il pieno sviluppo della persona
umana; c) dall’art. 31, che affida alla Repubblica il compito di agevolare la formazione
della famiglia, e, quindi, di intervenire là dove questa sia anche indirettamente
ostacolata; d) dall’art. 37, che, stabilendo che le condizioni di lavoro devono consentire
29
alla donna l’adempimento della sua funzione familiare non può non presupporre, in
primo luogo, che le sia assicurata la libertà di diventare sposa e madre; e) dalle norme
dell’art. 4 e da quelle dell’art. 35, primo comma, sulla tutela del lavoro, che la
Costituzione, in coerenza con l’art. 1, colloc a in testa al titolo terzo relativo ai rapporti
economici.
Parametri costituzionali: Costituzione art. 2; art. 3; art. 4; art. 31; art. 37.
Riferimenti normativi: legge 9/01/1963 n. 7.
•
Corte Costituzionale, sentenza 10 febbraio 1993 n. 46
Giudizio:
GIUDIZIO
DI
LEGITTIMITA'
COSTITUZIONALE
IN
VIA
INCIDENTALE.
Argomento
della
sentenza:
LAVORO
-
(TUTELA
DEL)
-
DONNA
LAVORATRICE - LICENZIAMENTO PER CAUSA DI MATRIMONIO DISCIPLINA DI CUI ALL'ART. 1, L. N. 7 DEL 1963- CONTENUTO E FINALITA'APPLICABILITA' ALLE LAVORATRICI SPOSATE DA NON PIU' DI UN ANNO
ANALOGIA DELLA POSIZIONE DI QUESTE ULTIME CON LA POSIZIONE
DELLE LAVORATRICI NEL PERIODO DI COMPORTO PER MATERNITA'CONSEGUENZE - DIVIETO DI LICENZIAMENTO ANCHE IN RELAZIONE
ALLE PROCEDURE DI "MESSA IN MOBILITA'" E LICENZIAMENTO
COLLETTIVO PER RIDUZIONE DEL PERSONALE.
Massima: L’art. 1, l. n. 7 del 1963, riducendo tassativamente ai tre casi indicati
nell’art. 3, secondo comma, l. n. 860 del 1950, la facoltà del datore di lavoro di provare
che il licenziamento della lavoratrice sposata da non più di un anno non è stato
effettuato a causa del matrimonio, ha sopravanzato la finalità perseguita dall’originario
disegno di legge (contrastare la prassi dei licenziamenti di lavoratrici per causa di
matrimonio) e ha assunto, oltre al valore di provvedimento repressivo di un’ipotesi di
30
licenziamento (individuale) illecito, anche quello positivo di provvedimento
promozionale del matrimonio stesso e della famiglia legittima (artt. 2, 4, 35, 37, 41,
secondo comma, 29 e 31 Cost.). In relazione alla sospensione del potere di recesso
prevista in capo al datore, la condizione di tale lavoratrice è quindi analoga a quella
della dipendente in comporto per maternità, con la conseguenza che essa, nel periodo di
tempo definito dal predetto art. 1, terzo comma, l. n. 7 del 1963, non può essere colpita
da licenziamento individuale se non negli indicati limiti, né assoggettata alle procedure
di messa in mobilità o di licenziamento collettivo per riduzione del personale regolate
dalla l. n. 223 del 1991.
Riferimenti normativi: legge 9/01/1963 n. 7 art. 1 comma 5.
Note a sentenza: MGL 1993, pp. 4 ss., nota LUCIFREDI; RGL II/1993, pp. 105
ss., nota COLACURTO.
•
Cassazione sezione lavoro, sentenza 10 gennaio 2005 n. 270
Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Licenziamento - Licenziamento
individuale - Matrimonio della lavoratrice - Divieto di licenziamento - Licenziamento
intimato nel periodo compreso tra la richiesta di pubblicazioni ed il compimento di un
anno dalla celebrazione - Nullità - Obbligo di comunicazione della lavoratrice - Non
sussiste.
Massima: La tutela accordata dalla l. 9 gennaio 1963, n. 7 alle lavoratrici che
contraggono matrimonio è fondata sull’elemento obiettivo della celebrazione del
matrimonio e non è subordinata all’adempimento di alcun obbligo di comunicazione
(rispondente peraltro al dovere di collaborazione e di esecuzione del contratto secondo
buona fede) da parte della lavoratrice; tanto si evince, in particolare, dalla presunzione
concernente l’avvenuta intimazione per causa di matrimonio del licenziamento della
lavoratrice disposto nel periodo compreso tra la data della richiesta delle pubblicazioni e
l’anno successivo alla celebrazione delle nozze, alla cui stregua la possibilità di
31
conoscenza del matrimonio inizia, per il datore di lavoro, con il compimento, da parte
dei nubendi, delle formalità preliminari previste dal codice civile.
2.2. Il licenziamento della lavoratrice madre
Riformulando e aggiornando (alla luce delle sentenze della Corte Costituzionale)
quanto sancito dalla l. n. 1204/1971, l’art. 54, d.lg. n. 151/2001 (t.u. delle disposizioni
legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e paternità, emanato in base
della delega contenuta nell’art. 15, l. n. 53/2000) stabi lisce che il divieto di
licenziamento opera dall’inizio del periodo di gravidanza fino al termine del periodo
d’interdizione dal lavoro (congedo obbligatorio post partum) «nonché fino al
compimento di un anno di età del bambino». Il 2° co. aggiunge che il divieto «opera in
connessione con lo stato oggettivo di gravidanza», prescindendo di conseguenza dalla
conoscenza dello stato di gravidanza da parte del datore di lavoro; la lavoratrice
licenziata è tenuta tuttavia a presentare (non più nel termine di 90 giorni, come in
precedenza) idonea certificazione da cui risulti lo stato di gravidanza al momento del
licenziamento.
L’art. 54, 5° co., stabilisce che il licenziamento intimato in violazione del divieto è
nullo. La nullità del licenziamento, espressamente sancita, costituisce il frutto della
sentenza interpretativa di accoglimento della Corte Costituzionale n. 61/1991, che,
respingendo l’orientamento della Cassazione (allora favorevole alla mera temporanea
inefficacia del licenziamento), ha stabilito appunto la nullità del licenziamento intimato
in costanza di divieto, e al di fuori delle previste eccezioni, che allora erano tre (ma
come vedremo, la stessa Corte Costituzionale, con sentenza n. 172/1996, ha introdotto
una quarta eccezione al divieto: l’esito negativo della prova).
Tralasciando altre non secondarie questioni, e soffermandosi solo sul problema che
qui interessa, si tratta di vedere se il licenziamento della lavoratrice madre intimato
durante il divieto (senza che ricorra una delle quattro eccezioni di cui dirò oltre), possa
essere ricondotto nella sfera di applicazione dell’art. 3, l. n. 108/1990 (licenziamenti
discriminatori, per i quali il legislatore ha sancito la generale applicabilità della
disciplina della reintegrazione nel posto di lavoro). Buona parte della dottrina e ancora
32
di recente la stessa Cassazione (con sentenze 12 gennaio 2005, n. 426, e 15 settembre
2004, n. 18537) insistono sul fatto che tale licenziamento è vietato perché cade
“durante” il divieto, e non perché è “a causa di gravidanza o puerperio” . Si vuole così
sottolineare che, durante il periodo vietato, l’esistenza di eventuali ragioni giustificatrici
(che non siano quelle consentite) è del tutto ininfluente: anche se il datore di lavoro
fosse in grado di provare una giustificato motivo o una giusta causa (diversa dalla colpa
grave della lavoratrice), il licenziamento sarebbe egualmente nullo. A ben vedere, del
resto, una delle implicazioni della nullità del licenziamento della lavoratrice madre sta
proprio nella irrilevanza di ragioni che, se così non fosse, potrebbero giustificare il
licenziamento; al contrario, ove il licenziamento fosse solo temporaneamente inefficace,
l’indagine sull’esistenza di una ragione giustificatrice avrebbe influenza sulla validità
del licenziamento, pure temporaneamente improduttivo di effetti.
La nullità del licenziamento della lavoratrice madre presenta una sostanziale
analogia, ma alcune importanti differenze, con la nullità del licenziamento della
lavoratrice per causa di matrimonio. La l. n. 7/1963 espressamente presume che il
licenziamento “durante” il periodo protetto sia avvenuto a “causa di matrimonio” e la
presunzione, come si è detto, è assoluta. Se, in base all’analogia con la causa di
matrimonio, possiamo dire che il licenziamento della lavoratrice madre durante il
periodo protetto si presume “a causa di maternità”, e aggiungiamo che la presunzione ha
carattere assoluto, questo licenziamento può essere allora configurato come
licenziamento “discriminatorio per ragioni di sesso”.
Abbiamo parlato di “presunzione assoluta” della causa di maternità, ma corre
l’obbligo di segnalare che questa affermazione rischia di essere messa in discussione da
quanto ha stabilito la Corte Costituzionale nella sentenza – n. 172/1996 – nella quale ha
aggiunto (si tratta infatti di una sentenza additiva, interpretativa di accoglimento) il
recesso per esito negativo della prova alle tre eccezioni già previste art 2, 3° co., della
(abrogata) l. n. 1204/ 1971 (colpa grave da parte della lavoratrice, costituente giusta
causa per la risoluzione del rapporto di lavoro; cessazione dell’attività dell’azienda cui
essa è addetta; ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta o
risoluzione del rapporto per scadenza del termine). La Corte ha aggiunto questa
eccezione considerando che se durante il periodo di prova operasse il divieto di
licenziamento, alla scadenza del periodo l’assunzione diverrebbe definitiva, malgrado il
33
giudizio negativo del datore di lavoro sull’esperimento della pro va, e ciò vanificherebbe
il significato del patto di prova; inoltre il datore sarebbe obbligato ad accettare (salvo il
periodo di congedo obbligatorio) la prestazione da lui ritenuta non idonea fino al
compimento di un anno di età del bambino.
Mentre nelle tre ipotesi precedenti il licenziamento si presume per causa di
maternità e dunque illegittimo a meno che il datore di lavoro non provi che ricorre una
delle eccezioni al divieto previste, nel caso della prova il recesso si presume legittimo,
in quanto determinato da esito negativo della prova. La presunzione è solo relativa,
perché ammette la prova in contrario, di cui è onerata la lavoratrice (a meno che il
datore non fosse a conoscenza della gravidanza: in questo caso, dovendo motivare il
licenziamento, questi è anche onerato della prova della fondatezza delle ragioni
addotte).
Si è detto sopra che la presunzione della causa di maternità dovrebbe portare a
qualificare il licenziamento intimato in periodo coperto dal divieto come “licenziamento
discriminatorio” riconducendolo così nell’area di applicazione dell’art. 3 l. n. 108/1990.
Questa soluzione non è accolta dalla nostra giurisprudenza e non è stata accolta neppure
dal nostro legislatore in occasione della trasposizione della Direttiva CE 2002/73 (d.lgs.
n. 145/2005). Eppure il diritto comunitario è ben chiaro in materia2
L’insistenza sulla qualificazione del licenziamento della lavoratrice madre in
violazione del divieto non sembri un esercizio retorico: vero è che, malgrado il silenzio
della legge, i giudici riconoscono che dalla nullità del licenziamento deriva oltre al
diritto al ripristino del rapporto, il pagamento a titolo risarcitorio delle retribuzioni
successive alla cessazione del rapporto in virtù della giuridica continuità di esso (in
analogia con quanto previsto dalla legge n. 7/1963) , ma non è meno vero che la
mancata qualificazione del licenziamento come discriminatorio priva la lavoratrice della
tutela di cui all’art. 18 st. lav.: tutela alla quale avrebbe invece diritto di accedere, ove i
giudici prestassero maggiore attenzione al diritto comunitario e alle sue prescrizioni.
2
In questo senso è la giurisprudenza costante della CGCE, a partire dalla sentenza 8 novembre 1990, C-177-88,
Dekker, RCG, 1990, I, 3968. Per quanto attiene al licenziamento cfr. CGCE 4 ottobre 2001, C-109/100, Tele
Danmark. La Corte giustamente specifica che il licenziamento di una lavoratrice a motivo del proprio stato
interessante è discriminatorio: a) quand’anche la lavoratrice sia stata a ssunta a tempo determinato; b) abbia
omesso di informare il datore di lavoro in merito al proprio stato interessante, pur essendone a conoscenza al
34
SCHEDE DELLE SENTENZE
•
Corte Costituzionale, sentenza 8 febbraio 1991 n. 61
Giudizio:
GIUDIZIO
DI
LEGITTIMITA'
COSTITUZIONALE
IN
VIA
INCIDENTALE.
Argomento della sentenza: LAVORO (RAPPORTO DI) - LAVORATRICI
MADRI - LICENZIAMENTO NEL PERIODO DI GRAVIDANZA E PUERPERIO PREVISIONE DI TEMPORANEA INEFFICACIA ANZICHE' DI NULLITA'DISCRIMINAZIONE IN RELAZIONE AI COMPITI CONNESSI CON LA
MATERNITA', LA CURA DEI IFGLI E DELLA FAMIGLIA - IMPEDIMENTO PER
LA REALIZZAZIONE DELL'EFFETTIVA PARITA' DI DIRITTI DELLA DONNA
LAVORATRICE - ILLEGITTIMITA' COSTITUZIONALE PARZIALE.
Massima: Un divieto che comporti un mero differimento dell’efficacia del
licenziamento, intimato alla lavoratrice durante il periodo di gravidanza e di puerperio,
anziché la nullità radicale di esso, rappresenta una misura di tutela insufficiente per la
donna lavoratrice. La protezione cui fa riferimento la norma costituzionale (art. 37),
infatti, non si limita alla salute fisica della donna e del bambino, ma investe tutto il
complesso rapporto che, nel detto periodo, si svolge tra madre e figlio; il quale rapporto
deve essere protetto non solo per ciò che attiene ai bisogni più propriamente biologici,
ma anche in riferimento alle esigenze di carattere relazionale ed affettivo che sono
collegate allo sviluppo della personalità del bambino. Conseguentemente tali principi,
collegati a quello d’uguaglianza, impongono alla legge di impedire che possano, dall a
maternità e dagli impegni connessi alla cura del bambino, derivare conseguenze
negative e discriminatorie per la lavoratrice madre per evitare anche che la maternità si
traduca, in concreto, in un impedimento alla realizzazione dell’effettiva parità di d iritti
momento della conclusione del contratto di lavoro; e c) a motivo di tale stato, non sia più in grado di svolgere
l'attività lavorativa per una parte rilevante della durata del contratto stesso
.
35
della donna lavoratrice. Devesi, pertanto, dichiarare l’illegittimità costituzionale
dell’art. 2 l. 30 dicembre 1971, n. 1204, nella parte in cui prevede la temporanea
inefficacia anziché la nullità del licenziamento intimato alla donna lavoratrice nel
periodo di gestazione e di puerperio.
Parametri costituzionali: Costituzione art. 3; art. 37 comma 1.
Riferimenti normativi: legge 30/12/1971 n. 1204 art. 2.
Note a sentenza: RGL II/1991, pp. 3 ss., nota DEL CONTE; MGL 1991, pp. 4 s.,
nota FONTANA; DL II/1991, pp. 221 ss., nota DE FALCO; RIDL II/1991, pp. 724 ss.,
nota MATTAROLO.
•
Corte Costituzionale, sentenza 31 maggio 1996 n. 172
Giudizio:
GIUDIZIO
DI
LEGITTIMITA'
COSTITUZIONALE
IN
VIA
INCIDENTALE.
Argomento della sentenza: LAVORO (TUTELA DEL) - LAVORATRICI
MADRI - DIVIETO DI LICENZIAMENTO DELLE LAVORATRICI IN CASO DI
GRAVIDANZA E PUERPERIO - INAPPLICABILITA' DEL PREDETTO DIVIETO
NEL CASO DI RECESSO PER ESITO NEGATIVO DELLA PROVA (NELLA
SPECIE SI FA RIFERIMENTO AD UN RAPPORTO DI PORTIERATO CON UNA
SOCIETA' IMMOBILIARE)- OMESSA PREVISIONE - RITENUTA DISPARITA'
DI TRATTAMENTO RISPETTO ALLE LAVORATRICI ADDETTE AI SERVIZI
DOMESTICI E FAMILIARI - PRETESA VIOLAZIONE DEL PRINCIPIO
DELL'AUTONOMIA CONTRATTUALE - ESTRANEITA' DELLA NORMA
IMPUGNATA
AL
CASO
OGGETTO
DEL
GIUDIZIO
'A
QUO' -
INAMMISSIBILITA'.
Massima: E' inammissibile la questione di legittimità costituzionale sollevata in
riferimento agli artt. 3, 41 e 42 Cost., dell’art. 1 della legge 30 dicembre 1971, n. 1204
36
(in tema di tutela delle lavoratrici madri) - nella parte in cui non esclude dall’ambito
normativo del divieto di licenziamento delle lavoratrici in caso di gravidanza e
puerperio il recesso dal contratto del datore di lavoro per esito negativo della prova - in
primo luogo, perché la norma speciale del terzo comma, concernente le lavoratrici
addette ai servizi domestici e familiari, è estranea al caso oggetto del giudizio a quo, in
cui si tratta di un rapporto di portierato con una società immobiliare, non configurabile
come una specie di servizio familiare; ed in secondo luogo, perché questa norma,
additata come tertium comparationis ai fini dell’art. 3 Cost., disponendo in generale
l’inapplicabilità alle lavoratrici domestiche del divieto di licenziamento previsto dal
successivo art. 2, ha una portata più estesa rispetto alla questione.
Parametri costituzionali: Costituzione art. 3; art. 41; art. 42.
Riferimenti normativi: legge 30/12/1971 n. 1204 art. 1.
Note a sentenza: LG 1996, pp. 848 ss., nota GOTTARDI.
•
Corte Costituzionale, sentenza 14 dicembre 2001 n. 405
Giudizio:
GIUDIZIO
DI
LEGITTIMITA'
COSTITUZIONALE
IN
VIA
INCIDENTALE.
Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Trattamento di maternità Diritto alla indennità di maternità in caso di licenziamento della lavoratrice nel periodo
di interdizione dal lavoro - Irragionevole esclusione in violazione del principio di
protezione della maternità - Illegittimità costituzionale 'in parte qua'.
Massima: E’ costituzionalmente illegittimo l’art. 17, primo comma, della legge 30
dicembre 1971, n. 1204, nella parte in cui esclude la corresponsione dell’indennità di
maternità nell’ipotesi di licenziamento prevista dall’art. 2, lettera a), della medesima
legge, in quanto tale norma, in contrasto con il principio della speciale protezione della
37
maternità sancito dagli artt. 31 e 37 della Costituzione, irragionevolmente esclude il
diritto all’indennità in funzione della ragione del licenziamento, cui è dato rilievo
preponderante rispetto allo stato oggettivo della gravidanza e del puerperio.
Parametri costituzionali: Costituzione art. 3; art. 31; art. 37.
Precedenti in termini richiamati dalla sentenza: v. sentenze, richiamate, n.
361/2000, n. 310/1999, n. 423/1995, n. 132/1991.
Parametri normativi:legge 30/12/1971 n. 1204 art. 17 comma 1.
•
Cassazione sezione lavoro, sentenza 20 gennaio 2000, n. 61
Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Lavoro subordinato - Donne -
Diritto alla conservazione del posto - Divieto di licenziamento della lavoratrice madre Limiti - Colpa grave costituente giusta causa - Accertamento - Criteri.
Massima: Ai fini dell’operatività della norma dell’art. 2, terzo comma, lett. a), della
legge 30 dicembre 1971 n. 1204 - che rende inoperante il divieto di licenziamento della
lavoratrice madre sancito dal primo comma dello stesso articolo, quando ricorra «colpa
grave da parte della lavoratrice» - non è sufficiente accertare la sussistenza di un
giustificato motivo soggettivo, ovvero di una situazione contemplata dalla
contrattazione collettiva quale giusta causa idonea a legittimare la sanzione espulsiva,
ma è invece necessario - anche alla luce di quanto stabilito nella sentenza della Corte
costituzionale n. 61 del 1991 - verificare se sussista quella colpa specificamente prevista
dalla suddetta norma e diversa (per l’indicato connotato di gravità) da quella prevista
dalla disciplina pattizia per generici casi di inadempimento del lavoratore sanzionati con
la risoluzione del rapporto. Salvo restando che la suddetta verifica deve essere eseguita
tenendo conto del comportamento complessivo della lavoratrice, in relazione alle sue
particolari condizioni psico - fisiche legate allo stato di gestazione e di maternità, le
38
quali possono assumere rilievo ai fini dell’esclusione della gravità del comportamento
sanzionato solo in quanto abbiano operato come fattori causali o concausali dello stesso.
•
Cassazione sezione lavoro, sentenza 21 settembre 2000 n. 12503
Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Lavoro subordinato - Maternità -
Diritto alla conservazione del posto - Operatività dell’art. 2, comma 3, lett. A), legge n.
1204 del 1971.
Massima: Ai fini dell’operatività dell’art. 2, comma 3, lett. A) della legge n. 1204
del 1971 - che rende inoperante il licenziamento della lavoratrice madre sancito dal
comma 1, dello stesso articolo quando ricorra «colpa grave da parte della lavoratrice» non è sufficiente
accertare la sussistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo soggettivo di
licenziamento, ma è invece necessario verificare - con il relativo onere probatorio a
carico del datore di lavoro – se sussista quella colpa specificatamente prevista dalla
suddetta norma e diversa (per l’indicato connotato di gravità) da quella prevista dalla
legge o dalla disciplina collettiva per generici casi di infrazione o di inadempimento
sanzionati con la risoluzione del rapporto; tale verifica deve essere eseguita tenendo
conto del comportamento complessivo della lavoratrice, in relazione alle sue particolari
condizioni psico-fisiche legate allo stato di gestazione.
Note a sentenza: LG IV/2001, pp. 345 ss., nota FERRAU’.
•
Tribunale di Pisa, sentenza 6 marzo 2002
Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Licenziamento a causa di
maternità - Natura discriminatoria - Nullità - Reintegra.
39
Massima: Il licenziamento di una lavoratrice in stato di gravidanza, intimato fuori
dai casi consentiti dal d.lgs 151/2001, è atto discriminatorio ai sensi dell’art. 15 legge
300/70. È pertanto nullo con conseguente diritto alla reintegra.
Note a sentenza: RGL II/2004, pp. 771 ss., nota GRECO.
•
Cassazione sezione lavoro, sentenza 16 novembre 2002 n. 16189
Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Lavoro subordinato - Donne -
Diritto alla conservazione del posto - Divieto di licenziamento ex art. 2 della legge n.
1204 del 1971 di lavoratrice in stato di gravidanza o puerperio - Sentenza della corte
cost. n. 61 del 1991 - Licenziamento intimato in violazione di tale divieto Conseguenze - Nullità - Ripristino del rapporto - Risarcimento del danno nella misura
delle retribuzioni maturate successivamente alla cessazione del rapporto - Necessità.
Massima: Il licenziamento intimato ad una lavoratrice in stato di gravidanza o
puerperio in violazione del divieto di cui all’art. 2 della legge n. 1204 del 1971, affetto
da nullità a seguito della pronuncia della Corte Cost. n. 61 del 1991, comporta, anche in
mancanza di tempestiva richiesta di ripristino del rapporto (ripristino che deriva da tale
nullità indipendentemente dalle dimensioni aziendali, configurandosi in modo diverso
dalla reintegrazione di cui all’art. 18 st. lav.), il pagamento, a titolo risarcitorio, delle
retribuzioni successive alla data di effettiva cessazione del rapporto, dovendosi lo stesso
considerare come mai interrotto.
•
Cassazione sezione lavoro, sentenza 27 febbraio 2003 n. 3022
Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Lavoro subordinato - Estinzione
del rapporto - Licenziamento individuale - Impugnazione - Decadenza - Nullità del
licenziamento per vizio di forma - Applicabilità del termine ex art. 6 legge n. 604 del
I966 - Esclusione - Fondamento.
40
Massima: Il termine di sessanta giorni per l’impugnazione del licenziamento
previsto dall’art. 6 legge n. 604 del 1966 deroga al principio generale - desumibile dagli
artt. 1421 e 1422 cod. civ. - secondo il quale, salvo diverse disposizioni di legge, la
nullità può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse e l’azione per farla
dichiarare non è soggetta a prescrizione. Ne consegue che, sotto questo profilo, la
disposizione di cui al citato art. 6 legge n. 604 del 1966 è da considerarsi di carattere
eccezionale e non è perciò applicabile. neanche in via analogica, ad ipotesi di nullità del
licenziamento che non rientrino nella previsione della citata legge n. 604 del 1966. E
pertanto da escludersi che il suddetto termine di sessanta giorni per l’impugnativa sia
applicabile al licenziamento nullo perché privo della forma imposta dalla legge ad
substantiam.
•
Cassazione sezione lavoro, sentenza 15 settembre 2004 n. 18537
Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Disciplina legislativa di tutela
della maternità - Licenziamento nullo durante il periodo di gravidanza – Conseguenza Inapplicabilità della tutela reale di cui all’art. 18 St. lav. - Riammissione in servizio Diritto al risarcimento del danno.
Massima: Al licenziamento nullo perché intimato durante il periodo di gravidanza
non si applica la tutela reale posta all’art. 18 St. lav., per mancata riconduzione alla
fattispecie del licenziamento discriminatorio. Il licenziamento è nullo e improduttivo di
effetti. Il rapporto deve ritenersi giuridicamente pendente e il datore di lavoro va
condannato a riammettere la lavoratrice in servizio e a pagarle i danni derivanti
dall’inadempimento in ragione del mancato guadagno.
Note a sentenza: Guida al lavoro 40/2004, pp. 10 ss., nota GOTTARDI.
•
Tribunale di Pistoia, sentenza 27 ottobre 2005
41
Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Licenziamento in maternità Discriminazione - Azione in giudizio della Consigliera di Parità - Legittimazione Diritto al risarcimento danno non patrimoniale - Sussistenza.
Massima: Pone in essere un comportamento discriminatorio il datore di lavoro che
licenzi una lavoratrice per il suo stato di gravidanza, fuori dai casi consentiti dal D. Lgs.
26/3/01 n. 151, con conseguente obbligo del datore di lavoro, sul piano della rimozione
degli effetti, di reintegrare la lavoratrice nel posto di lavoro, di pagare alla stessa le
retribuzioni dal momento dell'offerta della prestazione lavorativa e di risarc
ire il danno
non patrimoniale.
Nota a sentenza: D&L 2006, pp. 594 ss., nota CECCONI.
42
3. Stabilità reale e stabilità obbligatoria: campi di applicazione a seconda dei
requisiti dimensionali e delle caratteristiche del datore di lavoro
3.1. Stabilità obbligatoria e organizzazioni di tendenza
Ai sensi dell’art. 4, 1° co., l. n. 108/1990, sono esclusi dall’area della stabilità reale i
datori di lavoro non imprenditori «che svolgono, senza fini di lucro attività di natura
politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto»: questi datori
di lavoro restano destinatari del regime di stabilità obbligatoria, indipendentemente dal
numero dei propri dipendenti.
La Corte di Cassazione con la sentenza 16 settembre 1998, n. 9237, ha interpretato
l’art. 4, 1° co. in questo senso: per escludere l’applicazione della tutela reale,
l’organizzazione di tendenza deve presentare determinati requisiti, che sono i seguenti:
il primo è che si tratti di datori di lavoro “non imprendit ori”, privi cioè dei requisiti di
cui all’art. 2082 c.c. (professionalità, organizzazione, natura economica dell’attività di
produzione o di scambio di beni o servizi, ovvero nell’interposizione nello scambio di
beni o servizi). La locuzione “senza fini d i lucro”, contenuta nell’art. 4, si giustifica
perché è imprenditore chi oggettivamente produce ricchezza, anche se non ha scopo di
lucro personale. Il secondo requisito richiesto per escludere questi datori di lavoro
dall’area della stabilità reale è che l’attività rientri in quelle tassativamente previste (così
Cass. 7 aprile 2005, n. 7207).
Resta da osservare che l’area dei non imprenditori anzidetta non corrisponde
appieno a quella delle cosiddette organizzazioni di tendenza (cioè caratterizzate
ideologicamente), ancorché alcune organizzazioni di tendenza vi siano ricomprese:
l’esclusione dei fini di lucro infatti determina l’esclusione di importanti organizzazioni
di tendenza (tra le quali alcuni comprendono imprese editoriali e istituti di istruzione).
Rinviando alle considerazioni svolte a proposito del licenziamento discriminatorio
nelle organizzazioni di tendenza, ci si limita qui a segnalare che il legislatore,
nell’escludere le organizzazioni non imprenditoriali di tendenza dall’area di
applicazione della stabilità reale, non ha fatto alcuna differenza tra lavoratori che
43
svolgono mansioni “ideologicamente connotate” e lavoratori con mansioni “neutre”.
Sulla rilevanza di tale differenza si erano registrate in passato opinioni discordi sia in
dottrina sia in giurisprudenza (si vedano, infra, le schede delle sentenze in argomento):
ma tenuto conto che di tale differenza non si trova traccia nell’art. 4, 1° co, l. n.
108/1990, la giurisprudenza è orientata (non senza qualche contraddizione) nel senso di
non distinguere, giacché è nell’interesse dell’organizzazione di tendenza che anche i
lavoratori “a prestazioni neutre” siano considerati, posto che l’esonero dall’obbligo di
reintegrazione ex art. 18 st. lav. si spiega con la volontà del legislatore di garantire al
datore di lavoro di tendenza la possibilità di mantenere l’adesione di tutti i dipendenti
alla finalità tipica.
SCHEDE DELLE SENTENZE
•
Cassazione sezione lavoro, sentenza 11 agosto 2000 n. 10640
Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Cessazione del rapporto di lavoro
- Organizzazioni di tendenza - Reintegrazione nel posto di lavoro - Inapplicabilità Questione di legittimità costituzionale - Infondatezza.
Massima: Deve ritenersi manifestamente infondata la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 4, comma primo, della legge n. 108 del 1990, nella parte in cui
prevede l’inapplicabilità dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970 alle cosiddette
organizzazioni di tendenza, tenute presenti le valutazioni espresse dalla Corte
costituzionale riguardo alle conseguenze dell’illegittimità del licenziamento intimato da
una piccola impresa (sentenza n. 44 del 1996) e deliberando circa 1’ammissibilità del
referendum abrogativo delle norme sulla reintegrazione nel posto di lavoro (sentenza n.
46 del 2000, in cui - valorizzandosi l’articolazione della disciplina risultante dalla legge
n. 108 del 1990 - si osserva che la tutela reale non ha copertura costituzionale,
rappresentando solo uno dei modi possibili per realizzare la garanzia del diritto al
lavoro).
44
Note a sentenza: Foro It., I/2001, c. 127, nota ORIANI.
•
Cassazione sezione lavoro, sentenza 17 luglio 2001 n. 9662
Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Licenziamento individuale Organizzazioni di tendenza - Tutela reale - Art. 18 l. 20 maggio 1970, n. 300 Associazioni senza fine di lucro - Applicabilità - Esclusione.
Massima: La Cassa edile, esercitando una funzione analoga a quella assicurativa, di
intermediazione, con erogazione di prestazioni e servizi nell’ambito del lo specifico
settore delle imprese edili, e non di previdenza o assistenza, non rientra fra le
associazioni senza fini di lucro svolgenti attività sindacale per le quali, a norma dell’art.
4 della legge 11 maggio 1990, n. 108, é esclusa l’applicabilità del la disciplina di cui
all’art. 18 della 1egge n. 300 del 1970.
•
Cassazione sezione lavoro, sentenza 11 luglio 2001 n. 9396
Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Licenziamento individuale Organizzazioni di tendenza - Associazione esercenti macellai.
Massima: Tra le imprese industriali e commerciali, cui si applica la disciplina
dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970, in tema di tutela reale del posto di lavoro, sono
da ricomprendersi, in quanto produttrici di servizi sia per gli associati che per il
mercato, quelle aventi per scopo l’organizzazione e la tutela degli interessi dei singoli
associati, con conseguente inapplicabilità della disciplina della legge n. 108 del 1990
sulle cosiddette organizzazioni di tendenza, escluse dall’ambito di ope ratività della
tutela reale e soggette soltanto alla legge n. 604 del 1966 (nella specie, la S.C. ha
confermato la decisione di merito che aveva disposto la reintegra del lavoratore in un
caso in cui il datore di lavoro, un’associazione di categoria, svolg eva attività
45
imprenditoriale di assistenza contabile e fiscale nei confronti sia degli associati che dei
terzi).
•
Cassazione sezione lavoro, sentenza 6 novembre 2001, n. 13721
Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Cessazione del rapporto di lavoro
- Organizzazioni di tendenza - Reintegrazione nel posto di lavoro - Attività diretta a
fornire un servizio esclusivo per gli appartenenti alla categoria rappresentata Applicabilità della tutela reale - Esclusione - Espletamento dell’attività secondo
modalità imprenditoriali - Irrilevanza - Fattispecie relativa all’unione del commercio e
del turismo della provincia di Livorno.
Massima: La tutela reale in favore dei lavoratori licenziati da organizzazioni
cosiddette di tendenza va esclusa, ai sensi dell’art 4 legge n. 108 del 1990, allorché
l’attività espletata - ancorché in forme e modalità imprenditoriali - si traduca, in quanto
diretta a fornire un servizio rivolto unicamente agli iscritti, in una forma di assistenza o
comunque di sostegno all’attivit à professionale della categoria rappresentata, con
esclusione di ogni attività, anche analoga, a favore di terzi (fattispecie relativa
all’attività di assistenza e consulenza fiscale espletata in favore dei soci dall’unione del
Commercio e del Turismo della provincia di Livorno).
Note a sentenza: RIDL III/2002, pp. 631 ss., nota GARATTONI; LG 9/2002, pp.
868 ss., nota GIRARDI.
•
Cassazione sezione lavoro, sentenza 20 dicembre 2002 n. 18218
Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Cessazione del rapporto di lavoro
- Organizzazioni di tendenza - Reintegrazione nel posto di lavoro - Esclusione Presupposti - Mancanza di una struttura imprenditoriale - Necessità - Fattispecie relativa
all’Istituto addestramento lavoratori.
46
Massima: In materia di licenziamento del lavoratore subordinato, l’applicabilità
della disciplina prevista per le cd. organizzazioni di tendenza dall’art 4 della legge 11
maggio 1990, n. 108, che esclude l’operatività della tutela reale stabilita dall’art 18 della
legge 20 maggio 1970. n. 300, richiede l’accertamento, in linea preliminare, da parte del
giudice, che il datore di lavoro non sia un imprenditore ex art. 2082, cod. civ., e, quindi,
che non sussista una struttura imprenditoriale e, soltanto qualora detto accertamento
abbia esito negativo, occorre verificare la ricorrenza degli ulteriori requisiti tipici di
siffatte organizzazioni. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito, che
aveva escluso la qualificazione come organizzazione di tendenza dell’Istituto di
addestramento lavoratori - coordinamento regionale del Piemonte, per l’assorbente
rilievo che esso operava avvalendosi di una organizzazione e di una struttura di carattere
imprenditoriale).
•
Cassazione sezione lavoro, sentenza 7 gennaio 2003 n. 26
Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Cessazione del rapporto di lavoro
- Organizzazioni di tendenza - Licenziamento illegittimo intimato da un partito politico
- Conseguenze.
Massima: Allorquando il datore di lavoro è un partito politico (nella specie, Partito
Socialista italiano), e cioè un’associazione non riconosciuta che svolge attività politica
senza fini di lucro, l’unica conseguenza dell’accentata illegittimità del licenziamento è
la riassunzione del lavoratore o, in alternativa, la corresponsione della prevista
indennità, con esclusione, quindi, ai sensi dell’art 4 della legge n. I08 del 1990, della
reintegrazione nel posto di lavoro.
•
Cassazione sezione lavoro, sentenza 5 aprile 2003 n. 5401
47
Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Cessazione del rapporto di lavoro
-Organizzazioni di tendenza - Lavoro e fattore religioso - Tutela reale del lavoratore Applicabilità - Presupposti - Esclusione - Caratterizzazione ideologica della
organizzazione - Irrilevanza.
Massima: In materia di licenziamento del lavoratore subordinato, la disciplina
stabilita per le c.d. «organizzazioni di tendenza» dall’art. 4 L. n. 108 del 1990, che
esclude l’operatività della tutela reale stabilita dall’art. 18 L. n. 300 del 1970, è
applicabile alle associazioni che svolgono senza fini di lucro attività di natura politica,
sindacale, culturale, di istruzione, ovvero di religione, non essendo necessario che dette
attività presentino una «caratterizzazione ideologica», che pure può connotare alcune di
esse (nella specie, la Suprema Corte, cassando la sentenza di merito, ha affermato che
l’attività svolta dall’associazione ricorrente – associazione italiana per l’assistenza agli
spastici – di «natura culturale» e consistente nella «promozione dello sviluppo della
cultura dell’handicap», è riconducibile alla previsione dell’art. 4 L. n. 108 del 1990).
• Cassazione sezione lavoro, sentenza 6 agosto 2003 n. 11883
Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Cessazione del rapporto di lavoro
-Organizzazioni di tendenza - Tutela reale - Esclusione - Disciplina sul trasferimento Applicabilità - Sussistenza.
Massima: In base al disposto dell’art. 4 della 1. n. 108 del 1990, i lavoratori
dipendenti dalle organizzazioni di tendenza (nel caso di specie, l’lnas) non godono del la
tutela reale di cui all’art. 18 della 1. n. 300 del 1970, ma godono comunque della tutela
prevista per la generalità dei lavoratori; in particolare, deve escludersi l’esenzione delle
organizzazioni di tendenza dalla regolamentazione legislativa dei trasferimenti dei
lavoratori.
• Cassazione sezione lavoro, sentenza 28 agosto 2003 n. 12634
48
Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Cessazione del rapporto di lavoro
-Organizzazioni di tendenza - Tutela reale - Inapplicabilità - Presupposti - Datore di
lavoro non imprenditore - Necessità - Fattispecie relativa all’Associazione nazionale
bieticoltori.
Massima: Al fine di configurare un’organizzazione di tendenza, che, ai sensi
dell’art. 4 della 1. n. 108 del 1990, è esclusa dall’ambito di operatività de lla tutela reale
prevista - in caso di licenziamenti illegittimi - dall’art. 18 della 1. n. 300 del I970, è
necessario che si tratti di datore di lavoro «non imprenditore», privo dei requisiti
previsti dall’art. 2082 C.C. (e cioè professionalità, organizza zione, natura economica
dell’attività). In particolare, l’applicazione della disciplina prevista dalla predetta 1. n.
108 del 1990 per le organizzazioni di tendenza presuppone 1’accertamento in concreto
da parte del giudice di merito dell’assenza nella sin gola organizzazione di una struttura
imprenditoriale e della presenza dei requisiti tipici dell’organizzazione di tendenza,
come definita dalla stessa legge, all’art. 4. (Nella specie la S.C. ha confermato la
sentenza di merito che aveva ritenuto la natura di organizzazione di tendenza
dell’Associazione nazionale bieticoltori, argomentando dalla natura della stessa di ente
con personalità giuridica privata, senza finalità di lucro, in quanto avente lo scopo della
tutela degli interessi collettivi professionali della categoria dei coltivatori di bietole, e
priva del carattere imprenditoriale, non svolgendo alcuna attività economica).
Note a sentenza: RIDL II/2004, pp. 618 ss., nota AVONDOLA
•
Cassazione sezione lavoro, sentenza 26 gennaio 2004 n. 1367
Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Cessazione del rapporto di lavoro
- Organizzazioni di tendenza - Criteri di identificazione - Imprenditorialità o meno
dell’attività - Indici - Scopo di lucro - Necessità - Esclusione - Limitazione dell’attività
di tipo imprenditoriale ai soli associati - Idoneità - Esclusione - Fattispecie.
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Massima: Ai fini dell’applicazione dell’art 4 della legge 11 maggio 1990, n. 108,
che esclude dall’ambito di operatività dell’art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300 i
datori di lavoro non imprenditori che svolgono senza fini di lucro attività di natura
politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto, il datore di
lavoro è qualificabile o meno imprenditore in base alla natura dell’attività da lui svolta,
da valutare secondo gli ordinari criteri, che fanno riferimento al tipo di organizzazione e
all’economicità della gestione, a prescindere dall’esistenza di un vero e proprio fine di
lucro, restando irrilevante che la prestazione di servizi, ove effettuata secondo modalità
organizzative ed economiche di tipo imprenditoriale, sia resa solo nei confronti di
associati al soggetto che tali servizi eroga ovvero ad un’organizzazione sindacale cui il
soggetto erogatore sia collegato. (Nella specie, la sentenza impugnata, confermata dalla
S.C., aveva ritenuto di tipo imprenditoriale l’attività di prestazione di servizi svolta dalla
Confesercenti, o società a questa collegate, in favore di imprese associate).
Note a sentenza: MGL 2004, pp. 693 ss., nota GRAGNOLI.
•
Corte di Appello di Venezia, sentenza 6 febbraio 2004
Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Cessazione del rapporto di lavoro
- Licenziamento di dirigente - Organizzazioni di tendenza - Clausola di durata minima
garantita salva la sussistenza di grave inadempienza del dirigente - Grave dissenso
ideologico - Giusta causa di licenziamento ex art. 2119 cc - Sussistenza - Grave
inadempienza contrattuale - Esclusione - Diritto alla corresponsione delle retribuzioni
sino alla durata minima garantita - Sussistenza.
Massima: In un’organizzazione di tendenza è legittimo il licenziamento a norma
dell’art. 2119 codice civile di un dirigente apicale per grave dissenso ideologico, ma tale
condotta non costituisce grave inadempienza del contratto di lavoro, tale da esonerare
l’organizzazione dal rispetto di una clausola di durata minima del rapporto. Ne
consegue la condanna dell’organizzazione alla corresponsione delle retribuzioni sino
alla data di durata minima pattuita.
50
Note a sentenza: D&L IV/2004, pp. 990 ss., nota MANCINI.
• Cassazione sezione lavoro, sentenza 16 febbraio 2004, n. 2912
Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Cessazione del rapporto di lavoro
- Organizzazioni di tendenza - Lavoro e fattore religioso - Tutela reale - Esclusione Condizione - Requisiti - Accertamento - Necessità.
Massima: In tema di licenziamento, l’applicabilità della disciplina prevista per le
cosiddette organizzazioni di tendenza dall’art. 4 L. 11 maggio 1990 n. 108 (con
conseguente esclusione, nei loro confronti, della tutela reale di cui all’art. 18 L. 20
maggio 1970, n. 300), presuppone l’accertamento in concreto, da parte del giudice di
merito, della presenza dei requisiti tipici dell’organizzazione di tendenza, definita come
datore di lavoro non imprenditore che svolge, senza fine di lucro, attività di natura
politica, sindacale, culturale, di istruzione, ovvero di religione e di culto, e, più in
generale, qualunque attività prevalentemente ideologica purché in assenza di una
struttura imprenditoriale.
•
Corte di Appello di Napoli, sentenza 31 dicembre 2004
Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Organizzazione di tendenza Licenziamento per soppressione del posto di lavoro di organista da parte di Santuario
religioso - Inapplicabilità della tutela reale
Massima: Al Santuario va riconosciuta la natura di organizzazione di tendenza in
relazione alla quale l’articolo 4 della legge 11 maggio 1990, n. 108, esclude
l’applicabilità dell’istituto della reintegra previsto dall’articolo 18 dello Statuto dei
lavoratori. Ed infatti, la ratio della predetta norma è quella di agevolare determinate
attività che, pur presentando connotati economici, o pur essendo comunque svolte
51
secondo criteri di economicità, non perseguono precipuamente fini di lucro, essendo
piuttosto orientate a scopi culturali, assistenziali o, più in generale, caratterizzate da
vincoli di solidarietà di tipo professionale, ideologico, politico, sindacale o religioso.
Ciò che appare decisivo ai fini della esclusione o meno del regime di tutela di cui
all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, è l’accertamento – sulla base della previsione
statutaria e del concreto operare dell’organizzazione – dello svolgimento di un’attività
che, pur presentando connotati economici, risulti essere essenzialmente rivolta alla
realizzazione di finalità culturali, politiche, sindacali, o – come nel caso in esame –
religiose: cioè di un’attività che non sia meramente imprenditoriale (ossia volta a meri
scopi lucrativi e speculativi), ma che appaia rivolta al perseguimento dei fini
istituzionali pur attraverso la realizzazione di incrementi patrimoniali interni. In ogni
caso, il licenziamento effettuato per giustificato motivo oggettivo è legittimo in quanto,
come insegna la Suprema Corte, ai fini della configurabilità dell’ipotesi di soppressione
del posto di lavoro, integrante – nella impossibilità di una diversa collocazione del
dipendente – il giustificato motivo oggettivo del recesso, non è necessario che vengano
soppresse tutte le mansioni in precedenza attribuite al lavoratore licenziato, atteso che le
stesse ben possono essere soltanto diversamente ripartite e attribuite nel quadro del
personale già esistente.
• Tribunale di Padova, sentenza 18 gennaio 2005
Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Licenziamento - Imprese di
tendenza - Carattere non imprenditoriale dell’attività - Onere della prova.
Massima: In materia di licenziamento del lavoratore subordinato, è onere del
prestatore di lavoro dimostrare la sussistenza del requisito dimensionale per la tutela
reale; grava, invece, sul datore di lavoro, la prova di versare in una delle fattispecie
previste dall’articolo 4, l. 108 del 1990, relative alle cd. “organizzazioni di tendenza”,
atteso il carattere eccezionale e residuale delle stesse; l’app licabilità della disciplina
contenuta nell’articolo 4 della suddetta legge richiede l’accertamento che il datore di
lavoro non sia qualificabile come imprenditore ex art. 2082 C.C., alla stregua degli
52
ordinari criteri riferiti al tipo di organizzazione e alla economicità della gestione, a
prescindere dalla esistenza di un vero e proprio fine di lucro. Non può negarsi il
carattere di impresa agli istituti scolastici o educativi per il solo fatto che l’attività di
insegnamento ed istruzione ivi svolta abbia natura intellettuale, atteso che tale natura
inerisce la prestazione lavorativa dei docenti, ma non connota l’organizzazione
aziendale complessivamente considerata. In particolare, l’istituto scolastico deve essere
inquadrato fra le imprese industriali ai sensi dell’art. 2195 n. 1 C.C. – quale impresa
produttrice di servizi – in quanto produce un servizio rappresentato dalla diffusione del
sapere e della scienza, e cioè un risultato nuovo ed originale, diverso e autonomo dalle
utilità fornite dai beni preesistenti.
•
Cassazione sezione lavoro, sentenza 7 aprile 2005 n. 7207
Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Licenziamento - Imprese di
tendenza - Carattere non imprenditoriale dell’attività - Attività consistente in servizi di
tipo alberghiero a ecclesiastici - Applicabilità dell’art. 4 l. 108/90 - Esclusione.
Massima: Ai fini dell’applicazione dell’art. 4 della legge 11 maggio 1990, n. 108,
che esclude dall’ambito di operatività dell’articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n.
300, i datori di lavoro non imprenditori che svolgono senza fini di lucro attività di
natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto, l’attività
svolta - oltre ad avere carattere non imprenditoriale - deve rientrare in una delle
previsioni della suddetta disposizione legislativa, avendo riferimento all’oggetto
essenziale e qualificante della stessa e restando irrilevanti profili eventualmente
secondari rispetto ai quali la prima abbia autonomia. (In applicazione di tali principi, la
Corte ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto l’applicabilità dell’articolo
18 dello Statuto dei lavoratori all’Ente datore di lavoro, la cui attività essenziale affidata a soggetto giuridico avente come scopo il suo svolgimento - consiste nel fornire
servizi di tipo alberghiero ad ecclesiastici residenti a Roma per lavoro o transitanti,
restando irrilevante l’attività svolta dagli ospiti e le modalità di offerta del servizio,
53
quali la possibilità di svolgere all’interno attività di culto, ai fini di far rientrare l’attività
in quelle di religione o di culto).
Note a sentenza: D&L IV/2004, pp. 873 ss., nota CIVITELLI.
•
Cassazione sezione lavoro, sentenza 15 aprile 2005 n. 7837
Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Cessazione del rapporto di lavoro
- Organizzazioni di tendenza - Licenziamento illegittimo - Giusta causa.
Massima: Per verificare se al rapporto di lavoro dei civili dipendenti di uno Stato
membro o di un organismo della Nato (il cui rapporto di lavoro è disciplinato dalla
legge sostanziale e processuale dello Stato ospitante) si applichi, in caso di
licenziamento illegittimo, ove il datore di lavoro abbia sede in Italia e sussistendone il
presupposto dimensionale, la tutela reale prevista dalla formulazione attuale
dell’artic olo 18 St. Lav., o l’art. 8, l. n. 604 del 1966, che consente al datore di lavoro
qualificabile come “organizzazione di tendenza” la scelta tra la riassunzione del
dipendente e il pagamento di un’indennità, il giudice di merito deve verificare se
ricorrano i 3 requisiti richiesti dall’articolo 4, l. n. 108 del 1990 per configurare il datore
di lavoro come organizzazione di tendenza: riconducibilità del datore di lavoro ad una
delle tipologie di organizzazioni di tendenza indicate dallo stesso articolo; mancanza di
scopo di lucro; mancanza di un’organizzazione imprenditoriale (nella specie, la Corte di
Cassazione ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto applicabile la tutela
reale alla dipendente civile di una clinica militare americana sita all’interno di una base
Nato con sede in Italia, sul presupposto – corretto – che lo Stato datore di lavoro fosse
un’organizzazione di tendenza, priva per definizione di uno scopo di lucro, ma che non
risultasse provato che la clinica ove veniva svolta l’atti vità non costituisse una struttura
organizzativa in forma di impresa, circostanza il cui onere probatorio incombeva sul
datore di lavoro).
54
Motivazioni (punti essenziali): La Corte ricorda come a seguito della riforma
introdotta dalla legge n. 108 del 1990, «in linea di massima, il regime della tutela reale,
ricorrendone i presupposti dimensionali, è generalizzato a tutti i datori di lavoro non
potendo più distinguersi tra imprenditori e non imprenditori. Tuttavia, l’abbandono
dell’aggancio del regime d ella tutela reale all’identificabilità di un imprenditore nel
datore di lavoro si è accompagnato all’identificazione di un’area di immunità da questa
garanzia più accentuata del lavoratore nei confronti del licenziamento illegittimo con la
conseguente applicabilità della garanzia più blanda della tutela obbligatoria identificata
nell’art. 8 della legge n. 604 del 1966» (così, tra l’altro, Cass. 7 gennaio 2003, n. 26).
«I1 legislatore ha ritenuto, nella sua discrezionalità, che in quelle che sono state definite
come organizzazioni di tendenza non potesse obbligarsi il datore di lavoro a reintegrare
il lavoratore illegittimamente licenziato (ex art. 18 St. Lav.), dovendo invece consentirsi
a quest’ultimo la scelta, prevista dall’art. 8, legge n. 604/1966, tra la riassunzione del
dipendente ed il pagamento di un’indennità». «La libertà di associazione, già tutelata di
per sé come diritto costituzionalmente protetto in un ordinamento pluralista e
democratico (art. 18 Cost.), esprime poi un associazionismo qualificato, meritevole per i
fini che persegue di una disciplina differenziata senza che ne soffra il principio di
eguaglianza. Si tratta, secondo la catalogazione dell’art. 4 cit., dei partiti che
concorrono, con metodo democratico, a determinare la politica nazionale (art. 49 Cost.);
dei sindacati, che liberamente possono essere costituiti per la tutela dei lavoratori (art.
39 Cost.); delle organizzazioni ed istituzioni di cultura, il cui sviluppo è promosso dalla
Repubblica (art. 9 Cost.), o di quelle di istruzione, la quale è libera e garantita (art. 33);
delle associazioni confessionali o enti religiosi o di culto, che esprimono la libertà di
fede religiosa in forma associata (art. 19 Cost.)». Il particolare rilievo, anche
costituzionale. di questa forma di associazionismo qualificato - aggiunge la Corte «giustifica una disciplina differenziata ed un bilanciamento con il diritto al lavoro in
termini tali da preservare la «tendenza» condivisa dagli associati. Da una parte il
licenziamento illegittimo, in quanto non assistito da giusta causa o giustificato motivo,
deve avere una sanzione proporzionata al bene leso; d’altra parte la compagine degli
associati non deve essere permeabile all’inserimento forzoso di un apporto lavorativo
non accettato». La garanzia della «tendenza» passa quindi attraverso una necessaria
opzione dell’associazione datrice di lavoro tra la riattivazione effettiva del rapporto
55
ingiustamente troncato ed una compensazione indennitaria; opzione (del datore di
lavoro) che è presente nell’art. 8 cit., ma non anche nell’art. 18 cit. (che invece prevede
solo un’opzione del lavoratore). L’associazione di tendenza deve poter «scegliere»
perché la mancanza di opzione ridonda in indiretta limitazione della sua libertà; e questo
regime preferenziale, che certamente deroga al principio di eguaglianza, è giustificato
proprio dal rilievo costituzionale della «tendenza».
La Suprema Corte osserva che da questa connotazione marcatamente derogatoria della
norma speciale rispetto alla regola generale applicabile a tutti gli altri datori di lavoro in
forma associata, imprenditori e non imprenditori, consegue poi «da una parte il
carattere, in linea di massima, chiuso della catalogazione contenuta nell’art. 4 cit. (salva
semmai la necessità di un’interpretazione adeguatrice in relazione ad organizzazioni di
tendenza la cui mancata inclusione possa far insorgere un dubbio non manifestamente
infondato di legittimità costituzionale) e d’altra parte un criterio interpretativo stretto
dell’eccezione rispetto alla regol a». Questa connotazione di eccezionalità è poi marcata
anche dal fatto che l’art. 4 della legge n. 108/1990 non si limita ad elencare le
organizzazioni di tendenza destinatarie della disciplina di favore; pone anche due
ulteriori requisiti: occorre che non si tratti di «imprenditori» e che non vi sia un «fine di
lucro». Quindi, ad esempio, l’impresa di tendenza come anche l’impresa non profit non
rientrano nella fattispecie dell’art. 4 cit. e sono invece soggette alla regola generale
dell’applicabilità dell a tutela reale. Di conseguenza, l’esonero dalla tutela reale richiede
un triplice requisito (uno in positivo e due in negativo): l’identificabilità di
un’organizzazione di tendenza nominata, la mancanza dello scopo di lucro,
la mancanza di un’impresa. In r elazione a quest’ultimo requisito (la mancanza di
un’impresa), in coerenza con la rilevata esigenza di interpretazione stretta della deroga
al canone generale della tutela reale, la nozione di «impresa» è stata descritta in termini
per così dire aziendalistici, con riferimento al modo di esercitare una certa attività,
piuttosto che nei più rigorosi (e limitati) termini desumibili dalla definizione di
imprenditore contenuta nell’art. 2082 cod. civ.. Non occorre identificare un
imprenditore in senso stretto, assoggettato alla disciplina dell’impresa (ad es. alla
possibilità di dichiarazione di fallimento); è sufficiente che «l’attività dell’associazione
sia organizzata a modo di impresa e quindi secondo un criterio di economicità». In tal
caso la tutela della tendenza lascia il posto alla tutela del lavoro che esige una maggiore
56
efficacia proprio perché il datore di lavoro, operando secondo criteri di economicità,
non si differenzia poi molto dal datore di lavoro che sia un vero e proprio imprenditore
e lo stesso conflitto di interessi con il lavoratore si presenta in tal caso in termini
sostanzialmente analoghi (ossia potenzialmente conflittuali).
Precedenti in termini: Cassazione sezione lavoro, sentenza 16 giugno 1994, n.
5832 (Se un istituto religioso, perseguendo la «tendenza» che lo connota, si determina
anche a gestire una scuola aperta al pubblico, eroga certamente un servizio che in tanto
non è «impresa» per gli effetti di cui all’art. 4 cit. in quanto non sia gestito secondo
criteri di economicità); Cassazione Sezioni Unite, sentenza 1° ottobre 1996, n. 8588
(relativa ad un licenziamento intimato già nella vigenza della legge n. 108 del 1999 e
riguardante una fattispecie assai simile; in quel caso, la Suprema Corte ha precisato che,
per poter riconoscere il carattere di imprenditorialità all’attività dal datore di lavoro
(associazione o ente) è necessario: a) che l’attività sia svolta con economicità, cioè che
sia diretta al procacciamento di entrate remunerative dei fattori produttivi e non
semplicemente rivolta al perseguimento di fini sociali dell’ente; b) che sussista una
compiuta autonomia gestionale, implicante poteri deliberativi, ampia libertà di azione
ed organizzazione, separata da quella dell’ente; autonomia finanziaria, consistente nella
tendenziale capacità di trarre i mezzi necessari alla copertura dei costi - ed un eventuale
utile - dai ricavi delle attività produttive, e non da sovvenzioni sistematiche; autonomia
contabile, caratterizzata dalla redazione di bilanci separati per il controllo
dell’economicità della gestione.
Note a sentenza: Giustizia civile III/2006, pp. 633 ss., nota ALBI.
•
Tribunale di Vasto, sentenza 16 marzo 2006
Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Cessazione del rapporto di lavoro
- Organizzazioni di tendenza - Licenziamento illegittimo.
57
Massima: E’ illegittimo il licenziamento comminato a un lavoratore da una
fondazione, per aver ininterrottamente prestato l’attività lavorativa in favore di un’altra
ditta (di proprietà della moglie) dalle 15.30 alle 19.30 di ogni giorno, eccetto il sabato. Il
divieto per i lavoratori di prestare la propria attività lavorativa a carattere continuativo al
di fuori del rapporto di lavoro (con esclusione dei part-time) - previsto come giusta
causa di risoluzione del rapporto nel Ccnl applicato - non trova applicazione nella
fattispecie esaminata in quanto trattasi di una abituale presenza nell’esercizio
commerciale della moglie da parte del lavoratore e non di prestazione lavorativa
continuativa.
Note a sentenza: Guida al lavoro 34/2006, pp. 23 ss., nota PIETROSANTI.
3.2. Stabilità reale e requisiti dimensionali
A seguito dell’intervento della l. n. 108/1990, l’area della stabilità reale
originariamente prevista dall’art. 18 st. lav. si è notevolmente allargata. Vi rientran o
ora: i datori di lavoro imprenditori e non imprenditori che complessivamente occupano
più di 60 dipendenti, comunque l’attività sia organizzata. Rientrano inoltre nel campo di
applicazione della stabilità reale le unità produttive con più di 15 dipendenti, anche se
costituiscono articolazioni organizzative di imprese o organizzazioni con meno di 60
dipendenti. Il regime della stabilità reale si applica altresì ai datori di lavoro
imprenditori e non imprenditori che, nell’ambito dello stesso Comune, occupa no più di
15 dipendenti e alle imprese agricole, che nel medesimo ambito territoriale, occupano
più di 5 dipendenti, anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non
raggiunge tali limiti.
Tra i datori di lavoro non imprenditori sono in ogni caso esclusi quelli «che
svolgono, senza fini di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione
ovvero di religione o di culto», di cui abbiamo dato conto nel paragrafo precedente.
58
Rientrano tutti e senz’altro nell’area della
stabilità reale i licenziamenti
discriminatori, colpiti da nullità (supra, capitolo 2).
L’occasione per definire in modo chiaro, semplice e preciso il campo di
applicazione dei diversi regimi sanzionatori non è stata colta appieno: permane nella l.
n. 108/1990 il riferimento ai lavoratori occupati nell’unità produttiva, come soglia
numerica minima per l’applicazione della stabilità reale, e tale riferimento può
riproporre, sia pure in una misura più limitata rispetto al passato, quella coesistenza di
diversi regimi dei licenziamenti all’interno della stessa impresa od organizzazione non
imprenditoriale in ragione della diversa consistenza delle diverse unità produttive, che
la legge avrebbe dovuto togliere di mezzo . Ancora oggi può infatti avvenire che, in
un’impresa con meno di 60 dipendenti, i lavoratori godano della stabilità reale se
occupati invece in un’unità produttiva con più di 15 dipendenti, e della sola stabilità
obbligatoria, se occupati in una unità produttiva di minori dimensioni, mentre i
lavoratori occupati in unità produttive minime facenti capo ad imprese con più di 60
dipendenti hanno comunque diritto alla stabilità reale.
Benché il riferimento all’unità produttiva non abbia più una giustificazione
plausibile (nella impresa con più di 60 dipendenti il numero degli addetti all’unità
produttiva diviene irrilevante), la legge continua ad utilizzarlo (riproducendo alla lettera
la formulazione dell’art. 35 st. lav.) come ambito entro cui procedere al computo dei
dipendenti a fini di applicazione dell’uno o dell’altro regime, e
occorre perciò
richiamarne la nozione. Per unità produttiva si intende un’articolazione organizzativa
(sede, stabilimento, reparto, ufficio) dotata di una propria autonomia amministrativa e
funzionale. L’autonomia del la struttura organizzativa è considerata l’elemento centrale
della sua definizione, anche se se ne danno letture diverse: da quella minimalista che
ritiene sufficiente l’autonomia tecnico -funzionale, a quella più rigorosa, propria della
giurisprudenza prevalente, che definisce come unità autonoma «quella struttura
organizzativa che costituisce dell’impresa una rilevante componente, per essere capace
di realizzare, con i connotati dell’indipendenza tecnica e amministrativa, una “frazione”
dell’attività azien dale» (Cass. 13 giugno 1998).
Una volta verificata l’autonomia dell’unità produttiva , pone problemi delicati il
computo del numero dei dipendenti necessario al raggiungimento della soglia fissata
dalla legge per l’applicazione della stabilità reale. Seco ndo un consolidato
59
orientamento, occorre a tal fine prendere in considerazione la “media occupazionale”
nel periodo antecedente l’epoca del licenziamento, guardando alla “normale
occupazione” nel periodo antecedente il licenziamento, al fine di non incenti vare
condotte elusive in prossimità del licenziamento: una riduzione del personale in
prossimità del licenziamento può essere rilevante, alla condizione che «risulti
conseguenza non di condotte elusive del datore di lavoro ma di oggettive ed accertate
condizioni di mercato e/o di comprovate esigenze economiche dell’impresa, tali da far
ragionevolmente ritenere una ormai stabile contrazione dell’attività produttiva e,
conseguentemente, anche una definitiva riduzione della manodopera al di sotto del
numero di 15 dipendenti» (Cass. 8 maggio 2001, n. 6421) .
Si ricorda, infine, che l’art. 18, 1° co., fa generico riferimento ai “dipendenti”:
esclusi senz’altro dal computo i lavoratori non subordinati (anche se collaboratori
coordinati e continuativi), risultano attualmente esclusi anche lavoratori subordinati
occupati con particolari forme di contratto di lavoro (diverse dal tradizionale rapporto di
lavoro subordinato a tempo pieno e indeterminato): così i lavoratori assunti a termine
per prestazioni di carattere puramente occasionale , i lavoratori a domicilio, gli
apprendisti (art. 53, 2° co., d.lg. n. 276/2003), i lavoratori assunti con contratto di
inserimento (art. 59, 2° co., d.lg. n. 276/2003). Sono esclusi dal computo dei dipendenti
dall’utilizzatore i lav oratori somministrati (art. 22, 5° co., d.lg. n. 276/2003); per quanto
riguarda i lavoratori a tempo parziale, l’art. 18, 2° co., nell’attuale formulazione,
prevede che si tenga conto dei soli lavoratori assunti a tempo indeterminato, e che il
computo sia effettuato con un meccanismo idoneo a rapportarne la prestazione a quella
del lavoratore a tempo pieno . Sono infine esclusi i soci lavoratori e i parenti del datore
di lavoro.
SCHEDE DELLE SENTENZE
•
Cassazione sezione lavoro, sentenza 20 gennaio 2000 n. 609
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Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto Licenziamento - Reintegrazione - Computo dei lavoratori dipendenti - Tutela reale e
obbligatoria.
Massima: Nel computo del dato numerico previsto come criterio dimensionale
dell’unità produttiva ai fini dell’applicabilità dello Statuto dei lavoratori e, in
particolare, del regime di stabilità reale ex art. 18 della legge 300 del 1970, il numero
dei lavoratori dipendenti va accertato con riguardo al criterio della normale
occupazione, il quale implica il riferimento alle unità lavorative in servizio secondo la
media e normale produttività dell’impresa, valutata con riguardo non alla data di
intimazione del licenziamento illegittimo, bensì al periodo occupazionale antecedente la
data dell’intimazione dello stesso.
Precedenti in termini: Cassazione sezione lavoro n. 3450/1997, Cassazione
sezione lavoro n. 2756/1996, Cassazione sezione lavoro n. 1298/1996, Cassazione
sezione lavoro n. 1815/1993 hanno ribadito il c.d. principio della normalità
dell’occupazione, in virtù del quale l’accertamento del numero dei dipendenti occupati
da un’unità produttiva va compiuto considerando i lavoratori in servizio alla stregua
delle medie e normali esigenze produttive dell’azienda, in riferimento n on già alla data
dell’intimazione del licenziamento, ma anche a un periodo antecedente a essa. La
«ratio» di tale principio, come sottolinea lo stesso Supremo consiglio, è da ritrovarsi
nell’esigenza di valutare la consistenza occupazionale dell’azienda da un punto di vista
il più possibile obiettivo e congruente con l’ordinaria attività dell’impresa, senza
possibilità che assumono rilevanza episodi transeunti i quali, inficiandone
temporaneamente i limiti dimensionali, comportino variazioni nel numero dei lavoratori
occupati.
•
Cassazione sezione lavoro, sentenza 8 maggio 2001 n. 6421
Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto Licenziamento individuale - Reintegrazione nel posto di lavoro (tutela reale) -
61
Presupposti - Requisito numerico - Accertamento - Criteri - Normale produttività
dell’impresa - Rilevanza - Riduzione dei dipendenti prima del licenziamento - Influenza
- Limiti.
Massima: Ai fini della sussistenza del requisito numerico, rilevante ai sensi degli
articoli 18 e 35 Statuto dei lavoratori per l’applicabilità della tutela reale, il giudice deve
accertare - con indagine di fatto insindacabile in sede di legittimità se adeguatamente
motivata - la normale produttività dell’impresa (o della singola sede, stabilimento,
,filiale, ufficio o reparto autonomo) facendo riferimento agli elementi significativi al
riguardo, quale ad esempio, la consistenza numerica del personale in un periodo di
tempo, anteriore al licenziamento, congruo per durata e in relazione alla attività e alla
natura dell’impresa; la riduzione del numero dei dipendenti in prossimità del
licenziamento vale, peraltro, ad escludere la ricorrenza di quel presupposto, quando essa
risulti frutto non di condotte elusive del datore di lavoro ma di oggettive condizioni di
mercato o di comprovate esigenze economiche dell’impresa tali da far ragionevolmente
ritenere una ormai stabile contrazione dell’attività produttiva e, conseguentemente, una
definitiva riduzione della manodopera al di sotto del numero di quindici dipendenti.
•
Cassazione sezione lavoro, sentenza 20 luglio 2001 n. 9881
Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Statuto dei lavoratori - Unità
produttiva - Nozione - Requisiti – Ciclo produttivo aziendale - Fattispecie.
Massima: Costituisce unità produttiva, ai sensi del1 'art. 35 della legge n. 300 del
1970, non ogni sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto dell'impresa, ma soltanto la
più consistente e vasta entità aziendale che, eventualmente articolata in organismi
minori - anche non ubicati tutti nel territorio del medesimo comune - si caratterizzi per
sostanziali condizioni imprenditoriali dì indipendenza tecnica ed amministrativa, tali
che in essa si esaurisca per intero il ciclo relativo ad una frazione o ad un momento
essenziale dell'attività produttiva aziendale. Deve escludersi, invece, 1 'autonomia, ai
fini dell'integrazione di una separata unità produttiva ai sensi di legge, degli indicati
62
organismi minori, aventi scopi meramente strumentali e ausiliari rispetto ai fini
produttivi dell'impresa. (Nella specie la S.C. ha confermato la sentenza impugnata nella
quale sì era esclusa l'autonomia di un cosiddetto sportello o dipendenza di una banca
che svolgeva solo attività meramente strumentali e ausiliarie rispetto a quelle della
banca di appartenenza, avente sede in altro comune).
•
Tribunale di Milano, sentenza 20 dicembre 2001
Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Licenziamento - Giustificato
motivo oggettivo - Chiusura di una sede periferica - Affidamento presso la sede centrale
di mansioni equivalenti a consulente esterno - Obbligo di repêchage - Violazione Illegittimità del licenziamento - Identificazione di unità produttiva autonoma - Criteri.
Massima: Il licenziamento di un lavoratore per giustificato motivo oggettivo è
illegittimo qualora, pur essendo dimostrata l’avvenuta chiusura della sede periferica alla
quale il dipendente era addetto, l’azienda abbia violato l’obbligo di repêchage
attraverso il contemporaneo affidamento di mansioni analoghe presso la sede centrale
ad un consulente esterno. Una dipendenza dell’impresa può essere considerata unità
produttiva autonoma ai fini dei requisiti dimensionali di cui all’art. 18 SL solo allorché
sia connotata da una organizzazione sufficiente a esplicare, in tutto o in parte, l’attività
di produzione di beni e di servizi dell’impresa.
Note a sentenza: D&L II/2002, pp. 433 ss., nota BORDONE.
•
Cassazione sezione lavoro, sentenza 17 maggio 2002 n. 7227
Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Licenziamento - Licenziamento
individuale - Tutela reale - Condizioni - Requisiti dimensionali - Insussistenza - Onere
della prova - Grava sul datore di lavoro attore o convenuto.
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Massima: In tema di riparto dell’onere probatorio in ordine ai presupposti di
applicazione della tutela reale o obbligatoria al licenziamento di cui sia stata accertata
l’invalidità, grava sul datore di lavoro - sia se attore, sia se convenuto in giudizio l’onere di eccepire e provare 1’inesistenza del requisito occupazionale e perciò
1’impedimento all’applicazione dell’art. 18 legge n. 300 del 1970.
Precedenti in termini: Cassazione sezione lavoro n. 613/1999, secondo cui la
regola della ripartizione della prova, di cui all’articolo 5 della legge n. 604 del 1966,
non è altro che l’applicazione alla responsabilità del datore di lavoro della regola
generale di cui all’articolo 1218 codice civile in tema di onere della prova nella
responsabilità contrattuale. Infatti, secondo i principi generali, la conseguenza del
licenziamento illegittimo dovrebbe essere quella del risarcimento dei danni subiti dalla
controparte (articolo 1223 codice civile). L’articolo 8 della legge n. 604 del 1966
prevede invece una forte attenuazione delle conseguenze a carico della parte
inadempiente ed è allora giustificato - conclude Cass. n. 613 del 1999 - porre a carico di
colui che pretende di essere esonerato da quelle che sarebbero le comuni sanzioni
derivanti da un inadempimento (dettate dall’articolo 18 della legge n. 300 del 1970)
l’onere di dimostrare la sussistenza dell e condizioni che determinano la riduzione degli
effetti restitutori o risarcitori. Oltretutto, ad avviso del Collegio, addossare al datore di
lavoro l’onere della prova in materia appare giustificato, oltre che dalle considerazioni
sistematiche sopra accennate, anche dal rilievo che la circostanza da provare consiste in
un dato di fatto ben noto al datore di lavoro e che risulta addirittura da libri, la cui tenuta
è obbligatoria per legge.
•
Cassazione sezione lavoro, sentenza 1 settembre 2003 n. 12747
Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Licenziamento - Licenziamento
individuale - Tutela reale - Requisito occupazionale - Onere probatorio a carico del
lavoratore - Sussistenza - limiti - Richiesta d'ufficio di esibizione del libra matricolaMancata produzione - Desunzione di detto requisito sulla base del comportamento del
datore - Ammissibilità.
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Massima: Sebbene 1’onere di dimostrare la sussistenza del requisito dimensionale
posto dall'art. 35 della 1. n. 300 del 1970 incomba sul lavoratore ille
gittimamente
licenziato che invochi la tutela prevista dall'art. 18 della medesima legge, il giudiceavendo il potere di provvedere anche d'ufficio agli atti istruttori sollecitati dalle parti che
siano idonei a superare l'incertezza sui fatti costitutiv
i - può legittimamente ordinare
1’esibizione del libro matricola per poter stabilire il numero dei dipendenti e trarre, ai
sensi dell'art. 116 c.p.c., dalla mancata produzione la prova della esistenza del requisito
dimensionale.
•
Cassazione sezione lavoro, sentenza 11 settembre 2003 n. 13375
Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Licenziamento - Licenziamento
individuale - Tutela reale - Condizioni - Requisiti dimensionali - Insussistenza Applicabilità della tutela minore.
Massima: In tema di inefficacia del licenziamento, se il dipendente illegittimamente
licenziato ha chiesto l’applicazione dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970, e quindi
anche il risarcimento del danno commisurato alle retribuzioni maturate dal giorno in cui
il licenziamento ha trovato attuazione, il giudice, accertato che non sussistono i requisiti
dimensionali per l’applicazione dell’art. 18, deve accordare, sussistendo i relativi
presupposti, la tutela in tal caso applicabile (dichiarazione di inefficacia del
licenziamento e risarcimento del danno), essendo tale tutela omogenea e di ampiezza
minore rispetto a quella prevista dall’art. 18.
•
Cassazione sezione lavoro, sentenza 6 settembre 2003 n. 13058
Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Licenziamento - Licenziamento
individuale - Giustificato motivo oggettivo - Indicazione delle ragioni determinanti la
scelta del lavoratore licenziato - Onere a carico del datore di lavoro - Sussistenza.
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Massima: In caso di licenziamento individuale giustificato dalla necessità di
operare una riduzione del personale, ai fini di poter ritenere legittimo il licenziamento
occorre che il datore di lavoro dimostri, anche indicando un ventaglio di ragioni
concorrenti, i motivi che lo hanno indotto al licenziamento e a far ricadere la scelta
sull’unica unità produttiva licenziata.
•
Tribunale di Siracusa, sentenza 20 gennaio 2004
Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Licenziamento disciplinare Obbligo di affissione - Irrilevanza - Fattispecie - Mancata osservanza dei requisiti
formali - Illegittimità - Requisiti dimensionali - Mancata prova - Tutela obbligatoria Applicabilità.
Massima: E’ illegittimo il licenziamento disciplinare comminato al lavoratore
senza il rispetto dei requisiti di forma richiesti dall’art. 7 St. lav., posti a garanzia
dell’esercizio del potere disciplinare, nonché senza la concessione del termine a difesa
di cinque giorni, previsto dalla norma. Il giudice del lavoro ha, preventivamente,
affrontato il problema della legittimità del licenziamento, in caso di mancata pubblicità
del codice disciplinare. Nella sentenza in commento, si è affermato che, ai fini della
validità del licenziamento disciplinare, non è necessaria la previa affissione del codice
disciplinare «in presenza della violazione di norme di legge o comunque di doveri
fondamentali del lavoratore, riconoscibili come tali senza necessità di specifica
previsione. In proposito, i giudici di legittimità hanno precisato che la garanzia di
pubblicità del codice disciplinare mediante l’affissione in un luogo accessibile a tutti i
dipendenti, si applica al licenziamento disciplinare soltanto quando questo sia
comminato per specifiche ipotesi di giusta causa o giustificato motivo, previste dal
contratto collettivo o validamente poste dal datore di lavoro. Pertanto, non è possibile
contestare la mancata affissione del codice disciplinare nel caso di situazioni
giustificative del recesso previste direttamente dalla legge o manifestamente contrarie
all’etica comune o concretanti violazione dei doveri fo ndamentali connessi al rapporto
di lavoro. Tuttavia, il giudice ha dichiarato l’illegittimità del licenziamento disciplinare
66
perché intimato al lavoratore in violazione delle garanzie procedimentali previste
dall’art. 7 legge n. 300/70 a garanzia del contr addittorio (nella fattispecie, mancava la
previa contestazione dell’addebito). Il Tribunale di Siracusa, uniformandosi a un
orientamento già espresso dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione ha affermato
che il licenziamento disciplinare, irrogato senza I’osservanza delle garanzie
procedimentali non è affetto da nullità, ma è ingiustificato; ciò comporta che il
comportamento addebitato al lavoratore, anche se sussistente e astrattamente rientrante
tra le ipotesi di giusta causa o giustificato motivo, non può essere addotto dal datore di
lavoro per sottrarsi alle tutele approntate dall’ordinamento avverso i licenziamenti
illegittimi. Tuttavia - come precisato dai giudici di legittimità - nel caso di inosservanza
dei requisiti di forma, il licenziamento è insuscettibile di produrre effetto risolutivo del
rapporto di lavoro soltanto nell’ambito di applicazione della tutela reale ex art. 18 legge
n. 300/70. Nel caso, invece, di dipendenti di imprese che non presentino i requisiti
dimensionali richiesti dall’ art. 18 St. lav. o di recesso ad nutum con preavviso ex art.
2118 cod. civ., si applicheranno i diversi rimedi approntati dal legislatore avverso i
licenziamenti illegittimi, ma facendo salvi gli effetti risolutivi del licenziamento. Nel
caso di specie, il giudice ha rilevato che, non essendo stato allegato, né tanto meno
provato il requisito dimensionale richiesto dall’art. 18, legge n. 300/70 per poter
disporre la reintegra della lavoratrice, si deve fare applicazione dell’art. 8 legge n.
604/66, con conseguente condanna a riassumere entro tre giorni la dipendente
licenziata, ovvero a corrispondere, in suo favore, l’indennità nella misura stabilita dalla
legge. Sul punto, la Cassazione sostiene che incombe sul lavoratore l’onere di allegare
le circostanze volte a dimostrare i requisiti dimensionali dell’azienda, al fine di poter
usufruire del rimedio della reintegra previsto dall’art. 18 St. lav. In mancanza, il giudice
può, comunque, sempre avvalersi dei poteri istruttori riconosciuti dall’art. 421 cod.
proc. civ..
•
Cassazione sezione lavoro, sentenza 10 febbraio 2004 n. 2546
Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Licenziamento - Tutela reale Computo dei dipendenti - Criterio della normale occupazione - Rilevanza - Variabilità
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del livello occupazionale connessa al carattere dell’attività produttiva - Criterio mediostatistico - Applicabilità - Fattispecie in tema di datore di lavoro esercente attività
alberghiera stagionale.
Massima: Ai fini della operatività della tutela reale contro i licenziamenti
individuali illegittimi, il computo dei dipendenti va accertato sulla base del criterio della
normale occupazione, da riferirsi al periodo di tempo antecedente al licenziamento e
non anche a quello successivo. Nel caso in cui poi la variabilità del livello
occupazionale sia strutturalmente connessa al carattere dell’attività produttiva, quale
quella alberghiera, che richiede normalmente il ricorso al contratto a termine o al parttime verticale, il riferimento al criterio medio-statistico della normale occupazione trova
conferma nella specifica disciplina del part-time e, per l’individuazione dell’arco di
tempo in cui calcolare tale media, il periodo temporale utilizzabile più appropriato è
quello riferito all’anno. (Nella specie, la sentenza impugnata , confermata dalla S. C.,
pur ritenendo illegittimo il licenziamento intimato ad una lavoratrice da una società che
gestiva un albergo operante nel periodo primaverile ed estivo, aveva rigettato la
domanda di reintegrazione nel posto di lavoro avendo accertato che nell’anno
antecedente al licenziamento la media annuale dei lavoratori occupati alle dipendenze di
quella società era stata di quindici dipendenti).
•
Cassazione sezione lavoro, sentenza 23 aprile 2004 n. 7735
Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Licenziamento - Tutela reale Requisito dimensionale ex art. 35 st. lav. - Accertamento da parte del giudice - Mancata
contestazione specifica del datore di lavoro in ordine alle allegazioni del lavoratore Desunzione della sussistenza dei requisito - Legittimità.
Massima: Con riguardo alla richiesta del lavoratore di essere reintegrato nel posto
di lavoro ai sensi dell’art.18 della 1. n. 300 del I970 (statuto dei lavoratori) per
invalidità del licenziamento, legittimamente il giudice può desumere la sussistenza del
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requisito dimensionale previsto dall’art. 35 della stessa legge per la reintegrazione dalla
mancata contestazione specifica, da parte del datore di lavoro, in ordine alle allegazioni
del lavoratore, che la stessa richiesta di reintegrazione implica.
Cassazione sezione lavoro, sentenza 25 novembre 2004 n. 22271
Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Prova - Fatto notorio Determinazione del requisito dimensionale dell’impresa in un’ipotesi di applicazione
dell’art. 18 s t. lav. - Potere discrezionale del giudice - Ammissibilità - Censurabilità in
Cassazione - Limiti.
Massima: Il ricorso alle nozioni di comune esperienza attiene all’esercizio di un
potere discrezionale riservato al giudice di merito, il cui giudizio, a meno che non sia
stata posta a base della decisione una inesatta nozione del notorio, è sottratto al
sindacato di legittimità. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che
aveva ritenuto «notoria» la sussistenza del requisito dimensionale dell’impresa delle
Ferrovie dello Stato, in relazione al numero minimo di dipendenti occupati, ai fini
dell’applicazione dell’art. 18 l. n. 300 del 1970).
Note a sentenza: MGL 1-2/2005, pp. 74 ss., nota MANNACIO.
•
Tribunale di Padova, sentenza 1° dicembre 2004 n. 341
Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Impugnazione licenziamento Requisiti dimensionali ex art. 18 St. lav. - Onere della prova - Ricade sul lavoratore Contumacia del datore di lavoro - Mancata produzione del libro matricola richiesta dal
giudice - Prova ex art. 116 C.P.C. dell'esistenza del requisito dimensionale per
l’applicazione della tutela reale – Ammissibilità.
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Massima: L’onere di provare i requisiti dimensionali che rendono applicabile la
tutela reale incombe sul lavoratore che la invoca; tuttavia il giudice del lavoro, avendo il
potere di provvedere anche d'ufficio agli atti istruttori sollecitati dalle parti che siano
idonei a superare l’incertezza sui fatti costitutivi, può legittimamente ordinare
l’esibizione in giu dizio del libro matricola e trarre, ai sensi dell’articolo 116 c.p.c., dalla
mancata produzione la prova dell’esistenza dei requisiti dimensionali ex articolo 18
dello Statuto dei lavoratori.
Note a sentenza: Guida al lavoro 17/2005, pp. 44 ss., nota BARRACO.
•
Cassazione sezione lavoro, sentenza 18 gennaio 2005 n. 881
Argomento della sentenza: Licenziamento - Licenziamento individuale - Tutela
reale - Requisito dimensionale - Onere probatorio relativo gravante sul lavoratore Rinuncia all’eccezione da p arte del procuratore del datore di lavoro - Esenzione
dall’onere probatorio .
Massima: In tema di licenziamento individuale, l’onere di dimostrare la sussistenza
del requisito dimensionale posto dall’art. 35 della l. n. 300 del 1970 grava sul lavoratore
che, assumendo di essere stato illegittimamente licenziato, invochi la tutela prevista
dall’art. 18 della medesima legge; tuttavia, qualora il procuratore del datore di lavoro
rinunci – con atto che rientra nei suoi poteri, essendo una semplice modifica delle
conclusioni precedentemente formulate e non integrando una rinunzia agli atti del
giudizio – all’eccezione di mancato raggiungimento del requisito dimensionale da parte
dell’impresa, tale dato diviene non contestato, e il giudice è tenuto a ritenerlo com e
sussistente.
•
Cassazione Sezioni Unite, sentenza 10 gennaio 2006 n. 141
70
Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Controversie di lavoro e
previdenziali - Licenziamento illegittimo -Tutela reale - Requisiti dimensionali
dell’organizzazione azienda le - Onere della prova - Incombe sul datore di lavoro.
Massima: In tema di riparto dell’onere probatorio in ordine ai presupposti di
applicazione della tutela reale o obbligatoria al licenziamento di cui sia accertata
l’invalidità, fatti costitutivi del d iritto soggettivo del lavoratore a riprendere l’attività e,
sul piano processuale, dell’azione di impugnazione del licenziamento sono
esclusivamente l’esistenza del rapporto di lavoro subordinato e l’illegittimità dell’atto
espulsivo, mentre le dimensioni dell’impresa, inferiori ai limiti stabiliti dall’art. 18 della
legge n. 300 del 1970, costituiscono, insieme al giustifcato motivo del licenziamento,
fatti impeditivi del suddetto diritto soggettivo del lavoratore e devono, perciò, essere
provati dal datore di lavoro. Con l’assolvimento di quest’onere probatorio il datore
dimostra - ai sensi della disposizione generale di cui all’art. 1218 cod. civ. - che
l’inadempimento degli obblighi derivatigli dal contratto di lavoro non è a lui imputabile
e che, comunque, il diritto del lavoratore a riprendere il suo posto non sussiste,
con conseguente necessità di ridurre il rimedio esercitato dal lavoratore al risarcimento
pecuniario. L’individuazione di siffatto onere probatorio a carico del datore di lavoro
persegue, inoltre, la finalità di non rendere troppo difficile l’esercizio del diritto del
lavoratore, il quale, a differenza del datore di lavoro, è privo della “disponibilità” dei
fatti idonei a provare il numero dei lavoratori occupati nell’impresa.
Note a sentenza: RIDL II/2006, pp. 440 ss., nota VALLEBONA; ADL II/2006, pp.
594 ss., nota MELEGATTI; Guida al lavoro 6/2006, pp. 494 ss., nota BOGHETICH;
DML I/2006, pp. 157 ss., nota SCALA e FAGELLA; LG III/2006, pp. 265 ss., nota
NUVOLI e PICCININI
•
Cassazione sezione lavoro, sentenza 16 giugno 2006 n. 13945
Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto Licenziamento individuale - Tutela reale - Requisito occupazionale - Fatto costitutivo
71
dell’azione di impugnativa del licenziamento - Esclusione - Fatto impeditivo Configurabilità - Individuazione del relativo onere probatorio - A carico del datore di
lavoro - Sussistenza - Fondamento.
Massima: Spetta al datore di lavoro provare che l’articolo 18 della legge n.
300/1970 – e, quindi, la tutela reale del lavoratore con la reintegrazione nel posto di
lavoro – non è applicabile per l’insussistenza del cd. requisito dimensionale ( id est, di
determinate dimensioni dell’organizzazione produttiva datrice di lavoro commisurate
sul numero dei lavoratori occupati). Per quanto riguarda il criterio di distribuzione
dell’onere della prova basato sulla vicinanza o disponibilità dei relativi strumenti, esso
tanto più deve valere quanto trattasi del “requisito occupazionale” risultante non
soltanto dal numero degli occupati, ma pure ed eventualmente, dal loro status
nell’impresa, o anche personale, come risulta espressamente dall’art. 18.
72
4. Il residuo campo di applicazione del recesso ad nutum: il licenziamento del
dirigente
Malgrado l’allargamento dell’area della stabilità obbligatoria, permane un’area
ristretta e residuale nella quale trova ancora disciplina il recesso ad nutum (art. 2118
c.c.). Rientrano in questa area i dirigenti d’azienda, che, ai sensi dell’art. 10, l. n.
604/1966, sono esclusi dall’applicazione della disciplina legale dei licenziamenti, fatta
eccezione per l’art. 2, 1° co., l. n. 604/1966, che a seguito della modifica introdotta con
la l. n. 108/1990 estende ai dirigenti la prescrizione della forma scritta della
comunicazione del licenziamento, e per l’art. 3, l. n. 108/1990 (licenziamento
discriminatorio) espressamente esteso ai dirigenti.
L’esclusione dei dirigenti dalla disciplina legale dei licenziamenti è stata più volte
affrontata dalla Corte Costituzionale, che ha sempre affermato la legittimità di tale
esclusione, in considerazione dello stretto vincolo fiduciario che caratterizza il rapporto:
tuttavia la Corte ha affermato che, pur cadendo il rapporto del dirigente nell’area della
libera recedibilità, deve essere riconosciuta al dirigente la tutela contro atti che ledono la
sua dignità (menzionando espressamente il licenziamento disciplinare senza garanzie
procedimentali: sentenza n. 309/1992).
A fronte della limitata parte della disciplina legale dei licenziamenti applicabile ai
dirigenti, la disciplina convenzionale assicura loro, in caso di licenziamento
ingiustificato, un’indennità supplementare variabile tra un minimo ed un massimo di
mensilità di retribuzione, ma il licenziamento ingiustificato produce comunque l’effetto
di estinguere il rapporto. Le discipline contrattuali sono diverse a seconda dei settori; in
alcuni casi prevedono oltre alla comunicazione scritta del licenziamento anche la
comunicazione contestuale dei motivi del licenziamento3; in ogni caso il dirigente che
ritenga ingiustificato il licenziamento può fare ricorso al Collegio arbitrale previsto dal
contratto collettivo: l’arbitrato è irrituale, e dunque il dirigente può optare per l’azione
3
Ma la Cassazione ha affermato: a) che l’obbligo di specificazione contestuale dei motivi non preclude la loro
integrazione in corso di giudizio, poiché ai dirigenti non si applicano i criteri di immediatezza e specificità della
contestazione dei fatti addebitati (Cass. 1° aprile 1999, n. 3148; ma v. in senso contrario T. Milano 26 gennaio
2005); b) che anche nell’ipotesi di violazione dell’art. 2, l. n. 604/1966 (comunic azione per iscritto del
licenziamento) il dirigente avrà diritto solo all’indennità supplementare e non al ripristino del rapporto (Cass. 18
novembre 1999, n. 12603).
73
in giudizio, così come il datore di lavoro può rifiutare l’arbitrato; ma se entrambe le
parti accettano l’arbitrato opera il principio electa una via non datur recursus ad
alteram, e dunque l’azione in giudizio diviene improponibile.
Sulla nozione di giustificato motivo di licenziamento del dirigente, frequente
oggetto di controversie, si registra un orientamento giurisprudenziale consolidato nel
senso che la nozione convenzionale non coincide con quelle (legali) di giusta causa e
giustificato motivo di licenziamento del lavoratore subordinato, ma «è molto più ampia
e si estende sino a comprendere qualsiasi motivo di recesso che ne escluda l’arbitrarietà,
con i limiti del rispetto dei principi di correttezza e buona fede nell’esecuzione del
contratto e del divieto del licenziamento discriminatorio» (Cass. 17 gennaio 2005, n.
775). La ragione di tale ampiezza della giustificazione sta nel «legame di fiducia col
datore di lavoro, nel cui ambito rientra l’ampiezza dei poteri attribuiti: maggiori poteri
presuppongono una maggiore intensità della fiducia e uno spazio più ampio dei fatti
idonei a scuoterla» (Cass. 7 agosto 2004, n. 15322).
SCHEDE DELLE SENTENZE
•
Corte Costituzionale, sentenza 1° luglio 1992 n. 309
Giudizio:
GIUDIZIO
DI
LEGITTIMITA'
COSTITUZIONALE
IN
VIA
INCIDENTALE
Argomento della sentenza: LAVORO (RAPPORTO DI) - DIRIGENTI FACOLTA' DI OPZIONE PER LA PROSECUZIONE DEL RAPPORTO DI
LAVORO OLTRE L'ETA' PENSIONABILE PER IL CONSEGUIMENTO, AI FINI
PREVIDENZIALI, DELLA MASSIMA ANZIANITA' CONTRIBUTIVA, MA
SENZA LE GARANZIE DI STABILITA' DEL O
P STO DI LAVORO DI CUI ALLE
LEGGI NN. 604 DEL 1966 E 300 DEL 1970 - ESCLUSIONE - INGIUSTIFICATA
DISPARITA' DI TRATTAMENTO RISPETTO AI LAVORATORI SUBORDINATI
(IMPIEGATI
ED
OPERAI)
BENEFICIANTI
DI
TALI
GARANZIE
-
74
INSUSSISTENZA - NON OMOGENEITA' DELLE CATEGORI
E POSTE A
CONFRONTO
-
LEGITTIMO
ESERCIZIO,
IN
MATERIA,
DELLA
DISCREZIONALITA' DEL LEGISLATORE - NON FONDATEZZA DELLA
QUESTIONE.
Massima: Il riconoscimento, per i dirigenti, ex art. 6, primo comma, del d.l. n. 791
del 1981 (conv. in l. n. 54 del 1982), della facoltà di optare per la continuazione del
rapporto di lavoro anche dopo il raggiungimento dell’età pensionabile, al fine di
conseguire la massima anzianità contributiva, senza però - secondo l’interpretazione
della prevalente giurisprudenza - poter fruire del diritto alle garanzie di stabilità del
posto di lavoro previste dalle leggi n. 604 del 1966 e n. 300 del 1970 per i lavoratori
subordinati (impiegati ed operai), non dà luogo a una disparità di trattamento, lesiva
dell’art. 3 Cost.. Infatti, posto che il legislatore, nella sua discrezionalità, non ha inteso
snaturare il rapporto 'de quo' ed assimilarlo in tutto a quello dei lavoratori subordinati,
indubbiamente la disposizione in questione realizza un ragionevole bilanciamento degli
interessi in gioco (dell’ente previdenziale, del lavoratore e del datore di lavoro) ed
appare comunque produttiva di effetti utili nei confronti del dirigente, non potendosi
negare, in presenza della effettuata opzione, la nullità del licenziamento ad esso
intimato solo per ragioni di età. (Non fondatezza - in riferimento all’art. 3 Cost. - della
questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, primo comma, d.l. 22 dicembre 1981,
n. 791, conv. in l. 26 febbraio 1982, n. 54).
Parametri costituzionali: Costituzione art. 3.
Riferimenti normativi: decreto legge 22/12/1981 n. 791 art. 6 co. 1 (convertito );
legge 26/02/1982 n. 54.
Note a sentenza: DL II/1992, pp. 304 ss., nota PILEGGI.
•
Cassazione sezione lavoro, sentenza 9 aprile 2003 n. 5526
75
Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto Licenziamento individuale - In genere - Licenziamento del dirigente - Disciplina
applicabile.
Massima: Si conferma la diversità del rapporto di lavoro dei dirigenti stricto iure
rispetto a quello dei dirigenti “convenzionali”, diversità che trova ragione d’essere nella
natura spiccatamene fiduciara che caratterizza in modo peculiare il rapporto dei
dirigenti ex art. 2095 Cod. Civ. Il licenziamento ad nutum è applicabile solo al dirigente
le cui effettive mansioni, nell’ambito dell’azienda, siano caratterizzate dall’ampiezza
del potere gestorio, tanto da poter essere definito un vero e proprio alter ego
dell’imprenditore, in quanto preposto all’ azienda o a un ramo di particolare autonomia
ed importanza, in posizione di sostanziale autonomia, tale da influenzare l’andamento e
le scelte dell’attività aziendale, sia al suo interno che nei rapporti con i terzi; con la
precisazione che l’onere della prova che si versi effettivamente nella fattispecie prevista
dall’art. 10 della legge n. 604 del 1966 è a carico del datore di lavoro.
Note a sentenza: ADL III/2003, pp. 785 ss., nota PESSI.
•
Cassazione sezione lavoro, sentenza 27 agosto 2003 n. 12562
Argomento della sentenza: Dirigenti - Estinzione del rapporto - Disciplina
contrattuale del licenziamento - Giustificatezza del recesso - Qualificazione Equiparabiltà alla nozione legale di giustificato motivo - Esclusione.
Massima: Considerato il particolare modo di configurarsi del rapporto di lavoro
dirigenziale, e la esclusione dal suo ambito di un licenziamento qualificato come
disciplinare,
ai fini della giustifcatezza del licenziamento stesso può rilevare qualsiasi motivo purché
esso possa costituire la base per una motivazione coerente e sorretta da motivi
apprezzabili sul piano del diritto, a fronte del quale non è necessaria una analitica
76
verifica di specifiche condizioni, ma è sufficiente una valutazione globale che escluda
l’arbitrarietà del licenziamento (nella specie è stata ritenuta immune da vizi di
motivazione la sentenza di appello laddove ha ritenuto che non integri un giustificato
motivo di licenziamento, non essendo idonea a far venir meno il particolare rapporto
fiduciario che lega il dirigente al datore di lavoro, la condotta di un dirigente il quale ritenendo pregiudicati i propri diritti, anche in base a una sua valutazione soggettiva,
purché non manifestamente arbitraria né pretestuosa - chieda al datore di lavoro il
ripristino di essi, prospettando in alternativa il ricorso al giudice).
Note a sentenza: RGL IV/2004, pp. 765 ss., nota TUSINO.
•
Cassazione sezione lavoro, sentenza 3 gennaio 2005 n. 27
Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto Licenziamento individuale - In genere - Licenziamento del dirigente - Nozione di
«giustificatezza» - Riferimento alle nozioni legali di giusta causa o di giustificato
motivo di licenziamento - Necessità - Fattispecie.
Massima: In tema di licenziamento dei dirigenti, per quanto non possa affermarsi
che la nozione di «giustificatezza» coincida con quella di giustificato motivo di cui
all’art. 3 della legge n. 604 del 1966, gli elementi di tale nozione devono essere
ricostruiti dal giudice di merito – sulla scorta delle specifiche espressioni letterali delle
clausole contrattuali - attraverso il riferimento alle nozioni legali di giusta causa o di
giustificato motivo di licenziamento (Nella specie, Cass. ha ritenuto che il giudice di
merito non avesse fatto corretta applicazione di questo principio per aver commisurato
gli addebiti contestati esclusivamente in termini di lesione del vincolo fiduciario, nulla
dicendo in ordine all’eventualità che gli stessi potessero integrare la giustificatezza, nel
senso della non arbitrarietà o non pretestuosità, del licenziamento).
Note a sentenza: MGL 5/2005, pp. 374 ss., nota GRAMICCIA.
77
•
Cassazione sezione lavoro, sentenza 17 gennaio 2005 n. 775
Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Licenziamento - Licenziamento
del dirigente - Giusta causa - Giustificatezza - Differenza.
Massima: La nozione di «giustificatezza» del licenziamento, che rileva ai fini del
riconoscimento del diritto all’indennità supplementare, spettante in base alla
contrattazione collettiva al dirigente, non coincide con quella di «giusta causa» o di
«giustificato motivo» del licenziamento del lavoratore subordinato, ma è molto più
ampia, e si estende sino a comprendere qualsiasi motivo di recesso, che ne escluda
l’arbitrarietà, con i limiti del rispetto dei principi di correttezza e buona fede
nell’esecuzione del c ontratto, e del divieto del licenziamento discriminatorio.
Note a sentenza: Giurisprudenza italiana 2005, pp. 789 ss., nota MONEGHINI.
•
Cassazione sezione lavoro, sentenza 15 aprile 2005 n. 7838
Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Licenziamento - Dirigente Giustificatezza - Nozione - Coincidenza con quelle di giusta causa e di giustificato
motivo - Esclusione - Desumibilità di detta nozione dalla contrattazione collettiva Necessità – Accertamento in ordine alla sussistenza della giustificatezza» del
licenziamento - Censurabilità in Cassazione - Limiti.
Massima: La specialità della posizione assunta dal dirigente nell’ambito
dell’organizzazione aziendale impedisce una identificazione della nozione di
«giustificatezza» del suo licenziamento - sottratto al regime della tutela obbligatoria di
cui all’art. 3 della 1. n. 604 del 1966, come di quella reale ex art. 18 della 1. n. 300 del
1970 – con quelle di «giusta causa» o «giustificato motivo» del licenziamento del
lavoratore subordinato, ai fini del riconoscimento del diritto alla indennità
supplementare spettante alla stregua della contrattazione collettiva al dirigente
78
licenziato ingiustificatamente. Trattandosi di un elemento di esclusiva origine negoziale,
l’interpretazione della disposiz ione contrattuale che prevede il canone della
giustificatezza del recesso va compiuta - nell’ambito di una valutazione che escluda
l’arbitrarietà del licenziamento, al fine di evitare una generalizzata legittimazione della
piena libertà di recesso del datore di lavoro - dal giudice del merito ed è censurabile in
sede di legittimità solo per violazione delle regole di ermeneutica contrattuale, ovvero
se non sia sorretta da una motivazione sufficiente, logica e coerente. (Nella specie, la
Corte di Cassazione ha confermato la sentenza di merito, che aveva ritenuto, con
motivazione congrua e priva di vizi logici, che il licenziamento era stato intimato al
dirigente per addebiti rivelatisi assolutamente pretestuosi).
Note a sentenza: MGL 11/2005, pp. 839 ss., nota PIZZUTI.
•
Tribunale di Ferrara, sentenza 28 aprile 2005
Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Estinzione e risoluzione del
rapporto - Licenziamento - Di dirigente - Fatto illecito - Condizioni - Ingiuriosità del
licenziamento - Condizioni.
Massima: Il licenziamento di un dirigente (non soggetto alla disciplina delle leggi
n. 60411966 e n. 300/1970), per dar luogo ad un danno risarcibile secondo il diritto
comune (art. 2043 ss. c.c.), deve concretarsi - per la forma o per le modalità del suo
esercizio e per le conseguenze morali e sociali che ne derivino - in un atto ingiurioso,
cioè lesivo della dignità e dell’onore del lavoratore licenziato. Tale carattere
d’ingiuriosità del licenziamento non s’identifica né va confuso con la mancanza di
giustificazione dello stesso e non può essere presunto, ma, secondo i principi generali
dettati dall’art. 2697 C.C. va rigorosamente provato da chi l’alleghi come causa del
lamentato pregiudizio (di cui vanno parimenti dimostrati sia l’«an» che il «quantum») .
•
Cassazione sezione lavoro, sentenza 9 giugno 2005 n. 12134
79
Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Licenziamento individuale Intimazione per gli stessi fatti oggetto di sentenza penale di assoluzione del lavoratore
licenziato - Valutazione autonoma di tali fatti da parte del giudice del lavoro - Sussiste Fattispecie in tema di licenziamento di un dirigente e della determinazione
dell’indennità supplementare.
Massima: Il giudice del lavoro adito con impugnativa di licenziamento, che sia
stato comminato in base agli stessi comportamenti che furono oggetto di imputazione in
sede penale, non è affatto obbligato a tener conto dell’accertamento contenuto nel
giudicato di assoluzione del lavoratore, ma ha il potere di ricostruire autonomamente,
con pienezza di cognizione, i fatti materiali e di pervenire a valutazioni e qualificazioni
degli stessi del tutto svincolate dall’esito del procedimento penale. Ugualmente, con
riferimento al licenziamento del dirigente, ed anche ai fini della equa determinazione
dell’indennità supplementare, non sono le sole determinazioni dei giudici penali a
costituire oggetto di apprezzamento da parte del giudice civile, ma i fatti nella loro
interezza, aventi, o non, risvolti anche in sede penale.
•
Cassazione sezione lavoro, sentenza 14 ottobre 2005 n. 19903
Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Clausola di durata minima Cumulo del periodo residuo di durata garantita con il preavviso di licenziamento - È
dovuto - Fattispecie: licenziamento di dirigente apicale.
Clausola di durata minima - Non è atto di mera liberalità - Rientra nelle competenze
ordinarie del consiglio di amministrazione di una società.
Massima: La clausola di stabilità minima garantita stipulata in costanza di un
rapporto di lavoro a tempo indeterminato è pienamente legittima, atteso che non altera
la sostanziale natura del contratto a tempo indeterminato e si traduce soltanto in una
preventiva rinunzia del datore di lavoro alla facoltà di recesso: quindi, per il lavoratore,
in una garanzia della conservazione del posto per una durata minima. Tale clausola è
80
legittima anche rispetto ai contratti dei dirigenti apicali, per i quali la prevista stabilità è
suscettibile di soddisfare un più spiccato interesse dell’imprenditore alla continuità delle
prestazioni. Pertanto, nell’ipotesi di recesso anticipato del datore di lavoro (nella specie
esercitato ad nutum), il dipendente ha diritto al risarcimento del danno, pari
all’ammontare delle retribuzioni che avrebbe percepito se la risoluzione non fosse
intervenuta, ivi comprese le retribuzioni che sarebbero maturate nel periodo di
preavviso, che non può intendersi assorbito nella durata minima garantita dalla
pattuizione.
La pattuizione di una clausola di stabilità minima nel contesto di un rapporto di
lavoro a tempo indeterminato non è un atto di mera liberalità, ma rientra nella categoria
delle clausole contrattuali volte a soddisfare ben individuabili interessi di natura (anche
indirettamente) patrimoniale, come lo specifico interesse di una società ad assicurarsi la
collaborazione di un dirigente, considerato di particolare capacità ed esperienza, e di
garantirsi la continuità delle prestazioni di questi per un tempo prestabilito.
Note a sentenza: RIDL II/2006, pp. 617 ss., nota GARATTONI.
•
Corte d’Appello Firenze, sentenza 25 ottobre 2005
Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Licenziamento individuale Licenziamento del dirigente - Giustificatezza - Nozione - Fondatezza - Limiti e
conseguenze.
Massima: Anche nell'ipotesi di licenzi
amento del dirigente per motivi di carattere
economico conseguenti a scelte organizzative dell’impresa, è indispensabile valutare la
natura
spiccatamente fiduciaria del rapporto di lavoro del dirigente; pertanto, in ragione della
peculiare struttura del rapporto del dirigente, è giustificato il licenziamento motivato
dalla convenienza della riduzione dei costi gestionali, non essendo necessaria l’esistenza
di una conclamata crisi economica aziendale.
81
Note a sentenza: D&L II/2006, pp. 587 ss., nota CONTE
•
Cassazione sezione lavoro, sentenza 28 ottobre 2005 n. 21010
Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Dirigente - Insindacabilità in
sede di legittimità del giudizio sull'appartenenza alla categoria dirigenziale Inapplicabilità ai dirigenti delle nozioni legali di giusta causa e di giustificato motivo di
licenziamento.
Massima: La valutazione delle circostanze di fatto dalle quali dedurre
l’appartenenza del dirigente alla categoria dei dirigenti o a quella dei c.d. “pseudo dirigenti” costituis ce un apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito che non
può essere oggetto di rivalutazione in sede di giudizio di legittimità. I dirigenti di vertice
sono sottratti alla tutela reale e obbligatoria in materia di licenziamento. La nozione di
giustificatezza introdotta dalla contrattazione collettiva in materia di licenziamento è
nettamente distinta dalle nozioni di giusta causa e di giustificato motivo ex art. 2119 e
art. 3 legge n. 604 del 1966, traducendosi essenzialmente in assenza di arbitrarietà e
pretestuosità o, per converso, nella ragionevolezza del provvedimento datoriale.
Note a sentenza: ADL III/2006, pp. 1357 ss., nota TOPO.
•
Cassazione sezione lavoro, sentenza 8 novembre 2005 n. 21673
Argomento della sentenza: Categorie qualifiche dei lavoratori - Art. 2103 C.C. Dirigente - Modifica «in pejus» delle precedenti mansioni unilateralmente operata dal
datore di lavoro - Dequalificazione - Dirigente «apicale» degradato a dirigente
«minore» - Effetti - Fattispecie in tema di licenziamento.
Massima: La dequalificazione, unilateralmente operata dal datore di lavoro, del
dirigente apicale a dirigente riconducibile alla media o bassa dirigenza, mentre -
82
costituendo inadempimento contrattuale – consente al dipendente la tutela risarcitoria e
può costituire giusta causa di dimissioni, non muta il regime giuridico del licenziamento
ad nutum proprio dei dirigenti di vertice dell’azienda, essendo la dequalificazione nulla
ex art. 2103 C.C. Conseguentemente, non trovano applicazione la disciplina limitativa
dei licenziamenti, prevista dall’art. 10 della legge n. 604 del 1966, e le connesse
garanzie procedurali di cui all’art. 7 della legge n. 300 del 1970.
•
Corte d’Appello di Firenze, sentenza 23 novembre 2005
Argomento della sentenza: Licenziamento - Dirigente - Soppressione meramente
eventuale e potenziale del posto di lavoro collegata all’approvazione di un progetto di
ristrutturazione e riorganizzazione aziendale - Giustificatezza - Esclusione - Fattispecie.
Massima: Non ricorre il requisito della giustificatezza del licenziamento del
dirigente nel caso in cui dalla comunicazione di recesso emerga il connotato meramente
eventuale e potenziale, non attuale, della soppressione del posto di lavoro, collegata
all’approvazione di un progetto di ristrutturazione e riorganizzazione aziendale nel
quale non sono esplicati tempi e modalità delle medesime, e nella quale si faccia
riferimento alla non prevedibilità di un futuro proficuo utilizzo del lavoratore.
Note a sentenza: D&L II/2006, pp. 604 ss., nota MULLER
•
Cassazione sezione lavoro, sentenza 14 giugno 2006 n. 13719
Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Categorie e qualifiche dei
prestatori di lavoro - Qualifiche - Dirigente - Dirigenti d’azienda - Giustificatezza del
licenziamento secondo la contrattazione collettiva - Equipollenza con i criteri della
giusta causa o del giustificato motivo - Esclusione - Valutazione di detto requisito ai fini
dell’indennità supplementare in base alla contrattazione collettiva - Coincidenza con
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una situazione di crisi aziendale comportante l’impossibilità della continuazione del
rapporto - Necessità - Esclusione - Fattispecie.
Massima: Il rapporto di lavoro del dirigente non è assoggettato alle norme
limitative dei licenziamenti individuali di cui agli artt. 1 e 3 della legge n. 604 del 1966
e la nozione di «giustificatezza» del licenziamento del dirigente, posta dalla
contrattazione collettiva di settore, non coincide con quella di giustificato motivo di
licenziamento contemplata dall’art. 3 della stes sa legge 15 luglio 1966, n. 604. Inoltre,
ai fini della spettanza dell’indennità supplementare prevista dalla contrattazione
collettiva in caso di licenziamento del dirigente, la giustificatezza del recesso del datore
di lavoro non deve necessariamente coincidere con l’impossibilità della continuazione
del rapporto o con una situazione di grave crisi aziendale tale da rendere impossibile o
particolarmente onerosa tale prosecuzione, posto che il principio di correttezza e buona
fede, che costituisce il parametro su cui misurare la legittimità del licenziamento, deve
essere coordinato con quello della libertà di iniziativa economica, garantita dall’art. 41
Cost., che verrebbe radicalmente negata, ove si impedisse all’imprenditore, a fronte di
razionali e non arbitrarie ristrutturazioni aziendali, di scegliere discrezionalmente le
persone idonee a collaborare con lui ai più alti livelli della gestione dell'impresa. (Nella
specie, la S.C., sulla scorta degli enunciati principi, ha confermato la sentenza
impugnata che, all’esito di giudizio di rinvio, aveva correttamente escluso la
pretestuosità del licenziamento del dirigente ricorrente, alla stregua - in applicazione
della
sentenza di cassazione rescindente - della giustificatezza del recesso datoriale fondato
sul legittimo esercizio del potere riservato all’imprenditore di riorganizzare le risorse
umane
in modo da consentire una gestione non in perdita dell’azienda).
•
Cassazione sezione lavoro, sentenza 22 giugno 2006 n. 14461
Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Categorie e qualifiche dei
prestatori di lavoro - Qualifiche - Dirigente - Licenziamento dei dirigenti - Norme
84
limitative ex artt. 1 e 3 legge n. 604 del 1966 - Esclusione - Sopravvenienza della legge
n. 108 del 1990 - Irrilevanza - Limitazioni introdotte dall’autonomia collettiva o
individuale - Ammissibilità - Recesso datoriale ingiustificato - Conseguenze Risoluzione del rapporto di lavoro - Configurabilità.
Massima: Il rapporto di lavoro dei dirigenti, anche dopo l’entrata in vigore dell a
legge n. 108 del 1990, non è assoggettato alle norme limitative dei licenziamenti
individuali di cui agli artt. 1 e 3, legge n. 604 del 1966, non avendo la suddetta legge n.
108 inciso sull’art. 10 della legge n. 604, con la conseguenza che nel suddetto rapporto
di lavoro la stabilità può essere assicurata soltanto mediante l’introduzione ad opera
dell’autonomia collettiva o individuale di limitazioni alla facoltà di recesso del datore di
lavoro; tuttavia, in caso di recesso - come nella specie - non affetto da nullità ma
soltanto ingiustificato, l’atto di recesso è inidoneo a realizzare la risoluzione del
rapporto di lavoro soltanto nell’ambito dell’area di operatività della stabilità reale.
(Nella specie, la S.C. ha riformato la sentenza di merito che, a fronte del recesso
datoriale dal rapporto di lavoro con due dirigenti comunicato per un motivo non
consentito dal contratto collettivo, aveva ritenuto che il rapporto di lavoro non si fosse
risolto).
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Cassazione sezione lavoro, sentenza 26 luglio 2006 n. 17013
Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto Licenziamento individuale - In genere - Dirigenti d’azienda - Licenziamento dovuto ad
esigenze aziendali di riassetto organizzativo - Ingiustificatezza - Nozione - Rischio
d’i mpresa - Incidenza ai fini dell’esclusione della giustificatezza - Negazione Rilevanza del potere imprenditoriale di riorganizzazione dell’impresa.
Massima: Ove vengano dedotte esigenze di riassetto organizzativo finalizzato ad
una più economica gestione dell’azienda - la cui scelta imprenditoriale è insindacabile
nei suoi profili di congruità e opportunità - licenziamento ingiustificato del dirigente,
cui la contrattazione collettiva collega il diritto all’indennità supplementare in ipotesi
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non definite dai principi di correttezza e buona fede, può considerarsi solo quello non
sorretto da alcun motivo (e che quindi sia meramente arbitrario) ovvero sorretto da un
motivo che si dimostri pretestuoso e quindi non corrispondente alla realtà, di talché la
sua ragione debba essere rinvenuta unicamente nell’intento di liberarsi della persona del
dirigente e non in quello di perseguire il legittimo esercizio del potere riservato
all’imprenditore.
Non
può
incidere
sull’esclusione
della
giustificatezza
del
licenziamento la deduzione del dipendente secondo cui, in conseguenza della chiusura
della filiale, sarebbe andato a ricadere su di lui il rischio di impresa, poiché, a parte il
fatto che quest’ultimo, consistente nella eventualità che i costi di produzione non si ano
coperti dai ricavi, è evidentemente a carico dell’imprenditore, il riflesso negativo che
esso può comportare in termini di occupazione non esclude il potere dell’imprenditore
di procedere alla riorganizzazione dell’impresa.
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