Rapporto di ricerca sulla giurisprudenza italiana in tema campi di applicazione della disciplina dei licenziamenti individuali Nell’ambito del Progetto di ricerca di rilevante interesse nazionale in regime di cofinanziamento MIUR “Sviluppo dell’occupazione e tutela del posto di lavoro. La conciliazione possibile tra flessibilità e stabilità”, di cui è coordinatrice la professoressa Ballestrero, mi è stato affidato il compito di mettere insieme una raccolta sistematica e ragionata della giurisprudenza italiana (merito e Cassazione), limitatamente al periodo 2000-2006, e di Corte Costituzionale e Corte di Giustizia, sul tema “La disciplina dei licenziamenti individuali. Quale tutela e per chi”. Sono state finora selezionate circa 60 sentenze tra merito e Corte di Cassazione italiana, e 18 sentenze della Corte Costituzionale. Le suddette sentenze possono essere ripartite in 4 grandi filoni: 1. I campi di applicazione della stabilità reale e della stabilità obbligatoria e la giustificazione della disparità di trattamento ai sensi dell’art. 3 Cost.; 2. L’estensione generalizzata della stabilità reale: il licenziamento discriminatorio; 3. Stabilità reale e stabilità obbligatoria: campi di applicazione a seconda dei requisiti dimensionali e delle caratteristiche del datore di lavoro (organizzazioni di tendenza); 4. Stabilità reale e stabilità obbligatoria: campi di applicazione a seconda delle caratteristiche del lavoratore: il residuo campo di applicazione del recesso ad nutum (licenziamento del dirigente). A questi 4 filoni corrispondono i 4 capitoli del rapporto di ricerca, che a loro volta sono suddivisi in una parte descrittiva della disciplina di riferimento (per la redazione della quale mi sono largamente avvalsa di: MAZZOTTA (a cura di), I licenziamenti. Commentario, Milano, 1999; del capitolo dedicato ai licenziamenti di BALLESTRERO e DE SIMONE, Diritto del lavoro. Domande e percorsi di risposta, Milano 2001 e Milano 2003; BALLESTRERO, L’estinzione del rapporto, in corso di pubblicazione), seguita dalle schede delle sentenze – in ordine cronologico – che ho selezionato sul tema. 1 Per quanto riguarda le schede, quelle delle sentenze della Corte Costituzionale sono state compilate seguendo questo schema: il tipo di giudizio di cui si tratta; l’argomento della sentenza; la massima (tratta dal sito ufficiale della Corte Costituzionale www.cortecostituzionale.it); i parametri costituzionali e riferimenti normativi della sentenza; i punti essenziali della motivazione (qualora non presenti nella massima); eventuali precedenti in termini; note a sentenza. Le sentenze di merito e Cassazione, invece, sono state compilate secondo il seguente schema: argomento della sentenza; massima (tratta dal repertorio del Foro Italiano); punti essenziali della motivazione (qualora non presenti nella massima); eventuali precedenti in termini; note a sentenza. 2 1. I campi di applicazione della stabilità e della stabilità obbligatoria e la giustificazione della disparità di trattamento ai sensi dell’art. 3 Cost. Come è noto, le espressioni stabilità reale e stabilità obbligatoria denotano due diverse tecniche di tutela dei lavoratori contro i licenziamenti privi di giustificazione, o altrimenti viziati nella forma o nella sostanza. La disciplina della stabilità (o tutela) che viene detta reale è contenuta nell’art. 18 st. lav., come modificato dalla l. n. 108/1990. Riassumendo per sommi capi il contenuto dell’anzidetta disposizione, la stabilità reale consiste essenzialmente in un apparato sanzionatorio che colpisce con la invalidità il licenziamento illegittimo; dalla invalidazione del licenziamento (da cui discende la continuità giuridica del rapporto) sorgono il diritto del lavoratore al risarcimento del danno ed il diritto alla effettiva reintegrazione nel posto di lavoro (vale a dire alla ricostituzione della funzionalità del rapporto di fatto interrotta dal licenziamento illegittimo). L’ordine di reintegrazione, che è emanato dal giudice nella sentenza in cui dichiara l’invalidità del licenziamento, ha secondo la dottrina n atura inibitoria, ed è costitutivo, per il datore di lavoro soccombente, dell’obbligo di reintegrare (effettivamente) il lavoratore licenziato. La stabilità obbligatoria è disciplinata dalla l. n. 604/1966, modificata dalla l. n. 108/1990; l’apparato sanz ionatorio (art. 8), che riguarda solo il licenziamento ingiustificato, consiste in ciò: fissata dalla legge la regola che il licenziamento può avvenire solo per giusta causa (art. 2119 c.c.) o per giustificato motivo (soggettivo o oggettivo: art. 3 legge n. 604/1966), la legge medesima non sancisce l’invalidità del licenziamento privo di giustificazione, ma prevede, al contrario, una sanzione alternativa (risarcimento del danno forfetariamente predeterminato in una indennità di modeste dimensioni; riammissione – e non reintegrazione – in servizio); la presenza di tale sanzione alternativa consente al datore di lavoro di mantenere fermi gli effetti estintivi di un licenziamento illecito (perché privo di giustificazione) pagando una penale (decurtata rispetto al passato e variabile in funzione dell’anzianità di servizio del prestatore di lavoro e del numero dei dipendenti). 3 La qualità della tutela garantita al lavoratore in caso di licenziamento dipende dalla circostanza che il datore di lavoro rientri nell’ uno o nell’altro regime di stabilità: una prima domanda alla quale dare risposta è allora se, e in che misura, possa considerarsi razionale e ragionevole la disparità di trattamento dei lavoratori di fronte al licenziamento, che deriva appunto dal campo di applicazione della stabilità. L’attuale disciplina dei campi di applicazione della stabilità reale e della stabilità obbligatoria costituisce il risultato di una travagliata vicenda alla quale ha posto fine la l. n. 108/1990, approvata in gran fretta dal Parlamento per evitare la celebrazione di un referendum (dichiarato ammissibile dalla Corte Costituzionale con la sentenza 65/1990) il cui esito positivo avrebbe determinato, secondo le intenzioni dei proponenti, l’estensione della stabilità reale a tutti i lavoratori. L’iniziativa referendaria non era, quella volta, casuale o stravagante: a distanza di quattro anni si erano succedute due diverse discipline, ma la successione nel tempo non aveva determinato l’espansione della seconda più forte disciplina (art. 18 st. lav.) verso l’area delle imprese minori, e neppure la piena sostituzione della seconda disciplina alla prima (l. n. 604/1966), nell’ambito di applicazione di questa. L’oscura definizione del campo di applicazione dell’art. 18 st. lav. (contenu ta nell’art. 35 st. lav.) era stata fonte di vere difficoltà interpretative: ne è prova il susseguirsi di interpretazioni contrastanti, alla ricerca di soluzioni “razionali” o “ragionevoli”, sfociate finalmente nel relativo consolidarsi della nota teoria delle “tutele parallele”. Nell’orientamento interpretativo fatto proprio dalla Corte Costituzionale (con sentenza 2/1986), dalla Cassazione 1 , dalla maggioranza degli interpreti (per quanto con molte perplessità e insoddisfazioni), le tutele dovevano cioè intendersi come “parallele” perché la stabilità reale (art. 18 st. lav.,) aveva un suo proprio campo di applicazione (unità produttive con più di 15 dipendenti delle imprese industriali e commerciali, imprese agricole con più di 5 dipendenti) autonomamente determinato, diverso e non coordinato con quello dell’art. 8, l. n. 604/1966, definito allora dall’art. 11 della legge medesima (datori di lavoro che occupano più di 35 dipendenti). Il parallelismo delle tutele dava luogo a tre aree (appunto parallele) di 1 Orientamento pressoché costante della sez. lav. della Cassazione, successivamente accolto dalle S.U., a partire dalla sentenza 15 ottobre 1985, n. 5050, RIDL, 1985, II, 852, e ivi riferimenti. Da ultimo: Cass. 23 novembre 1988, n. 6293, in GIR, 1988, Lav. (rapp.), n. 1619; Cass. 25 febbraio 1988, n. 2028, ivi, n. 1639. Queste sentenze non sono schedate perché sono antecedenti al 2000. 4 disciplina dei licenziamenti: l’area delle unità produttive con più di 15 dipendenti, dove trovava applicazione la stabilità reale; l’area delle imprese e delle organizzazioni con più di 35 dipendenti, nelle quali trovava ancora applicazione la stabilità obbligatoria, ma limitatamente alle unità produttive con meno di 16 dipendenti; l’area delle imprese e delle organizzazioni minori (meno di 35) dove restava operante il regime di libera recedibilità, ma ancora una volta solo nelle unità produttive con meno di 16 dipendenti. Dalle tutele parallele potevano scaturire disparità di trattamento delle quali non era certo facile trovare giustificazione: lavoratori dipendenti da un’impresa di grandissime dimensioni, ma organizzata in unità produttive di piccola dimensione, si vedevano applicare una tutela debole contro i licenziamenti; mentre lavoratori alle dipendenze dello stesso imprenditore potevano essere beneficiari di tutele molto diverse a seconda che lavorassero in una o altra articolazione organizzativa della stessa impresa; addirittura nell’ambito di un’impresa con 34 dipendenti, vi potevano essere lavoratori addetti ad una unità con più di 15 dipendenti che godevano della stabilità reale, e lavoratori addetti ad unità produttive di dimensioni minori praticamente privi di tutela; infine un lavoratore che venisse trasferito dall’una all’altra unità produttiva, poteva veder cambiare radicalmente la propria situazione giuridica pur rimanendo alle dipendenze dello stesso datore di lavoro. Il riferimento della soglia numerica all’unità produttiva come «autonomo centro di imputazione e di tutela» anziché all’impresa nel suo complesso era dunque fonte di un complicato intreccio di regimi sanzionatori diversi: ma, secondo quanto ripetutamente affermato dalla Corte Costituzionale (con sentenze 55/1974; 152/1975; 2/1986), la scelta del legislatore era legittima e rispettosa del principio di eguaglianza. Le ragioni che lo avevano determinato a differenziare il trattamento tra unità produttive con più o meno di 15 dipendenti dovevano infatti essere ravvisate: nell’elemento fiduciario che permea il rapporto nelle piccole unità; nella necessità di non gravare di costi eccessivi le imprese minori; nella necessità di non gravare le piccole unità delle tensioni che potevano derivare dalla forzata reintegrazione del lavoratore licenziato. Essendo tutte queste ragioni valide e rilevanti, il trattamento differenziato trovava adeguata giustificazione e non erano irrazionali le norme che lo prevedevano, tenuto conto della mancanza di omogeneità tra la situazione dei lavoratori occupati nelle unità produttive 5 con più di 15 dipendenti e quella dei lavoratori di altre imprese, e delle diverse esigenze di politica sociale e sindacale. SCHEDE DELLE SENTENZE • Corte Costituzionale, sentenza 6 marzo 1974 n. 55. Giudizio: GIUDIZIO DI LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE IN VIA INCIDENTALE Argomento della sentenza: LAVORO (RAPPORTO DI) - LICENZIAMENTI INDIVIDUALI - LEGGE 15 LUGLIO 1966, N. 604, ART. 2 - COMUNICAZIONE DEL LICENZIAMENTO E DEI MOTIVI DI ESSO - ASSENZA DI UN OBBLIGO IN TAL SENSO PER IL DATORE DI LAVORO - SUSSISTENZA DELLA PIU' AMPIA FACOLTA' DI INDAGINE E DI PROVA SUI MOTIVI DEL LICENZIAMENTOCOORDINAMENTO CON LE DISPOSIZIONI DELLO STATUTO DEI LAVORATORI. (LEGGE 20 MAGGIO 1970, N. 300). Massima: Non è fondata, in riferimento all’art. 3 della Costituzionale, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 della legge n. 604 del 1966, poiché deve escludersi che derivi disparità di trattamento ed ingiustificato pregiudizio al lavoratore dall’assenza dell’obbligo per il datore di lavoro della comunicazione del licenziamento e dei motivi di esso anche quando si ipotizzi che il licenziamento sia stato determinato da motivi politici, sindacali o religiosi: trattandosi di licenziamento effettuato, in ispregio alle libertà civili garantite dalla Costituzione, vige, infatti, il principio della più ampia facoltà di indagine e di prova sui motivi del licenziamento, indipendentemente dal silenzio o da eventuali comunicazioni del datore di lavoro. Ferma restando ogni altra non contrastante disposizione della legge 1966, n. 604, l’innovazione introdotta dall’art. 18 dello Statuto alla disciplina dei licenziamenti riconosciuti illegittimi è stata dall'art. 35 resa applicabile alle imprese industriali e commerciali, purché abbiano una o più 6 unità produttive con almeno 16 dipendenti o una pluralità di unità produttive con numero inferiore, sempre che nel complesso ne occupino più di 15 ed operino nell’ambito dello stesso comune. L'unità produttiva assume giuridico rilievo non solo ai fini dello svolgimento delle attività sindacali di cui al terzo titolo del c.d. Statuto dei lavoratori, ma anche ai fini del licenziamento. Per la sua identificazione non è necessario che esse rilevino come centri autonomi di imputazione di rapporti giuridici, né alla loro configurazione concreta osta l’unitaria funzione dirigenziale esercitata dall’imprenditore o la circostanza che nel quadro organizzativo dell’impresa siano previsti centri direzionali comuni che presiedano al coordinamento produttivo e ad un armonico sviluppo dell’attività economica complessiva. Parametri costituzionali: Costituzione, art. 3. Riferimenti normativi: legge 15/07/1966 n. 604 art. 2 . Note a sentenza: MGL 1974, pp. 14 ss. e 465 ss., nota SANDULLI; RGL II/1974, pp. 22 ss. e 543 ss., nota MENICUCCI; GIUR. IT. I/1975, pp. 25 ss., nota CENTOFANTI. • Corte Costituzionale, sentenza 14 gennaio 1986 n. 2. Giudizio: GIUDIZIO DI LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE IN VIA INCIDENTALE Argomento della sentenza: LAVORO (RAPPORTO DI) - LICENZIAMENTO SENZA GIUSTA CAUSA O GIUSTIFICATO MOTIVO - DIVERSITA' DI TRATTAMENTO IN DIPENDENZA DEI LIMITI DIMENSIONALI NUMERICI DELL'IMPRESA DI APPARTENENZA- NON FONDATEZZA DELLE QUESTIONI - AUSPICATO INTERVENTO DEL LEGISLATORE. 7 Massima: Secondo i principi già più volte affermati dalla Corte, e ormai condivisi dai giudici di merito ed anche dalla Cassazione, le ragioni che, riguardo alle garanzie e al trattamento economico dei lavoratori dipendenti in caso di licenziamento, hanno determinato il legislatore a differenziare le imprese che impegnano meno di trentacinque lavoratori e lavoratori occupati da datori di lavoro non imprenditori, rispetto agli altri, occupati in imprese di maggiori dimensioni (con più di trentacinque dipendenti) e cioè l’elemento fiduciario che permea il rapporto datore di lavoro lavoratore, la necessità di non gravare di costi eccessivi le imprese minori, la necessità di evitare tensioni nella fabbrica, conservano tutt’oggi la loro rilevanza e la lo ro validità per cui il trattamento differenziato trova adeguata giustificazione e non sono irrazionali le norme che lo prevedono, dettate dal legislatore nell’esercizio della sua discrezionalità e della politica economico-sociale che attua. Inoltre, sempre per le esigenze di politica sociale e sindacale tutt’ora attuali e valide, non è irrazionale il diverso trattamento previsto per i lavoratori delle unità produttive con più di quindici dipendenti. La più intensa tutela (la cd. tutela reale), assicurata a questi lavoratori, continua a trovare adeguata giustificazione nella necessità di svolgimento dell’attività sindacale in fabbrica, introdotta dallo Statuto dei lavoratori. Ed il diverso trattamento è altresì giustificato dalla mancanza di omogeneità tra la situazione di questi lavoratori e quella di lavoratori di altre imprese. Peraltro, nelle ipotesi di imprese, o non imprese, con meno di trentacinque dipendenti, o unità produttive con meno di quindici dipendenti, nelle quali trova attuazione, in base all’ art. 2118 cod. civ., il recesso ad nutum, resta auspicabile che il legislatore nell’attuazione di una politica sociale ed anche in adesione ai principi ed alle indicazioni internazionali, possa nel futuro introdurre la previsione di una giusta causa o di un giustificato motivo del licenziamento dal datore di lavoro intimato. (Non fondatezza delle questioni di legittimità costituzionale, in riferimento all’art. 3 Cost. relative agli artt. 8 e 11 l. 15 luglio 1966, n. 604 (risarcimento danni conseguenti al licenziamento senza giusta causa o giustificato motivo); artt. 35, primo e secondo comma, l. 20 maggio 1970, n. 300, e 11, primo comma, l. 15 luglio 1966, n. 604 (vigenza del recesso ad nutum per le imprese di minori dimensioni) e degli artt. 2118 cod. civ., 35 l. 300/1970 e 11 l. n. 604/1966 (inesistenza della tutela reale per i lavoratori di imprese di minime dimensioni)). 8 Motivazioni (punti essenziali): La Corte Costituzionale ha ribadito che il legislatore dello Statuto ha guardato «non più alla dimensione globale dell'impresa ma alla struttura organizzativa di essa nelle singole unità produttive e nell’ambito territoriale». In questa prospettiva, la esclusione della stabilità reale per i lavoratori che prestino la loro opera in strutture imprenditoriali con meno di 16 dipendenti è giustificata, secondo la Corte, dalla «esigenza di salvaguardare la funzionalità dell’unità produttiva ed in specie di quelle con minor numero di dipendenti nelle quali la reintegrazione nel medesimo ambiente del lavoratore licenziato avrebbe potuto determinare il verificarsi di una tensione nelle quotidiane relazioni umane e di lavoro». La stessa Corte, tuttavia, lascia aperta la porta ad una futura modifica della disciplina limitativa dei licenziamenti – che si può considerare realizzata, in larga parte, ad opera della legge n. 108/1990 – chiarendo che il pluralismo di tutele, così come articolato dopo l’entrata in vigore della legge n. 604/1966 e degli artt. 18 e 35 dello Statuto, è il frutto, contingente, di «valutazioni e di scelte discrezionali di politica legislativa e relative a condizioni economico-sociali che potrebbero anche mutare nel tempo e determinarne, quindi, la modificazione». Parametri costituzionali: Costituzione, art. 3. Riferimenti normativi: legge 15/07/1966 n. 604 art. 8; legge 05/07/1966 n. 604 art. 11; legge 20/05/1970 n. 300 art. 35 co. 1; legge 20/05/1970 n. 300 art. 35 co. 2. Precedenti in termini: sentenze nn. 81/1961; 45/1965; 81/1969; 194/1970; 55/1974; 152, 178 e 189/1975; 256/1976. Note a sentenza: Giur. Cost. I/1986, pp. 235 ss., nota PERA; RGL II/1986, pp. 230 ss., nota GRANATO; FI I/1986, pp. 1785 ss., nota D’ANTONA. • Corte Costituzionale, sentenza 18 gennaio 1990 n. 65. Giudizio: GIUDIZIO SULL'AMMISSIBILITA' DI REFERENDUM 9 Argomento della sentenza: LAVORO (RAPPORTO DI) - LICENZIAMENTI INDIVIDUALI - LICENZIAMENTO SENZA GIUSTA CAUSA O GIUSTIFICATO MOTIVO - REINTEGRAZIONE NEL POSTO DI LAVORO 'EX' ART. 18 DELLO STATUTO DEI LAVORATORI - INAPPLICABILITA' AI LAVORATORI DI IMPRESE DI PICCOLA DIMENSIONE - AMMISSIBILITA' DELLA RICHIESTA DI 'REFERENDUM' ABROGATIVO. Massima: La richiesta di 'referendum' per l’abrogazione dell'art. 35, comma primo, della legge 20 maggio 1970 n. 300, limitatamente alle parole "dell’art. 18 e", non rientra in alcuna delle ipotesi di inammissibilità 'ex' art. 75 Cost., e risponde ai necessari requisiti di chiarezza, univocità ed omogeneità del quesito, essendo l’eventuale abrogazione referendaria diretta ad ampliare, in caso di licenziamento senza giusta causa o giustificato motivo, la tutela dei lavoratori nelle unità produttive indipendentemente dal numero dei relativi dipendenti. Parametri costituzionali: Costituzione, art. 75. Riferimenti normativi: legge 20/05/1970 n. 300 art. 35 comma 1. 10 2. L’estensione generalizzata della tutela reale: il licenziamento discriminatorio Ai sensi dell’art 3, l. n. 108/1990, è nullo indipendentemente dalla motivazione addotta il licenziamento determinato da ragioni discriminatorie ai sensi dell’art. 4 l. n. 604/1966 (nullità del licenziamento determinato da ragioni di credo politico, fede religiosa, dall’appartenenza ad un sindacato e dalla partecipazione ad attività sindacali) e dell’art. 15 st. lav. (già modificato dall’art. 13 l. n. 903/1977, e ora ulteriormente modificato dall’art. 4, 1° co., d.lg. n. 216/2003: attualmente sono nulli i licenziamenti discriminatori per ragioni di affiliazione o attività sindacale e di partecipazione ad uno sciopero, per ragioni di sesso, politiche, religiose, di razza, di lingua, di handicap, di età, per ragioni basate sull’orientamento sessuale o sulle convinzioni personali). Ai licenziamenti nulli, perché determinati dalle ragioni di discriminazioni sopra richiamate, si applica, indipendentemente dal numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro, la disciplina della reintegrazione nel posto di lavoro di cui all’art. 18 st. lav.: l’art. 3, l. n. 108/1990, porta così a termine quell’unificazione del regime sanzionatorio che, prima dell’espressa previsione contenuta in questa disposizione , non riusciva ad oltrepassare la soglia del campo di applicazione dell’art. 18 st. lav. (benché la forza “espansiva” del regime sanzionatorio previsto dall’art. 18 nei confronti dei casi non espressamente previsti fosse stata affermata dalla Corte Costituzionale con sentenza 17/1987, in riferimento alla discriminazione per ragioni di genere). Pare opportuno sottolineare che la formulazione adottata dall’art. 3 ricollega tuttavia la nullità – e le particolari conseguenze che ne derivano in forza della stessa disposizione – non ad una concezione generale e astratta di “licenziamento discriminatorio” (espressione presente soltanto nella rubrica dell’art. 3), ma al licenziamento determinato da una serie di fattori di discriminazione “ai sensi” delle disposizioni previgenti in materia (art. 4 l. n. 604/1966 e art. 15 l. n. 300/1970 come modificato dall’art. 13 l. n. 903/1977): la presenza dell’elenco induce gli interpreti ad interrogarsi sul carattere tassativo o solo esemplificativo di esso. Certamente questo interrogativo aveva maggior peso in passato, quando l’elenco dei fattori di discriminazione era assai più breve di quanto non lo sia attualmente, dopo la 11 riforma che ha inserito nell’ultimo comma dell’art. 15 st. lav. una serie tanto lunga di fattori da potersi considerare esaustiva . Tuttavia l’interrogativo ha ancor oggi un senso: lo vedremo meglio guardando alla controversa inclusione tra i licenziamenti discriminatori del licenziamento della lavoratrice madre durante il periodo coperto da divieto, del licenziamento della lavoratrice per causa di matrimonio, nonché del licenziamento di cui all’art. 54, comma 6, d.lg. n. 151/2001 (licenziamento causato dalla domanda o dalla fruizione del congedo parentale e per malattia del bambino da parte della lavoratrice o del lavoratore). Tenuto conto della pluralità dei fattori di discriminazione che attualmente sono espressamente previsti dall’art. 3, l. n. 108/1990, l’interrogativo in realtà non verte tanto sul carattere tassativo o esemplificativo dell’elenco dei f attori, al quale pare risponda nel senso della tassatività la tecnica del rinvio agli artt. 4, l. n. 604/1966, e 15 st. lav. utilizzata dal legislatore, quanto piuttosto sull’estensione della nozione di discriminazione alla quale si debba riportare la qualificazione del licenziamento. Per essere più precisi: si tratta di sapere se la ragione che (indipendentemente dalla motivazione addotta) determina un certo licenziamento sia riconducibile o meno ad uno dei fattori di discriminazione elencati. Come diremo meglio oltre, il caso più importante è quello del licenziamento della lavoratrice madre, dove si tratta appunto di decidere se la maternità sia riconducibile o meno al fattore di discriminazione “sesso”; ma altri esempi si potrebbero fare, guardando ad esempio alla controversa riconducibilità di fattispecie concrete a fattori come l’orientamento sessuale o le convinzioni personali. La qualificazione di un licenziamento come discriminatorio presuppone una nozione di discriminazione, sulla quale non è ovviamente possibile soffermarsi in questa sede . Non si può tuttavia omettere di richiamare le disposizioni recenti e recentissime nelle quali hanno trovato disciplina la discriminazione per ragioni di razza e di etnia (d.lg. n. 215/2003), la discriminazione per ragioni di religione, convinzioni personali, età, handicap, orientamento sessuale (d.lg. n. 216/2003), la discriminazione per ragioni di genere (d.lg. n. 145/2005), con le quali sono state trasposte nel diritto interno tre direttive comunitarie (Direttive CE 2000/43, 2000/78, 2002/73) . Le definizioni di discriminazione (diretta e indiretta) contenute in queste tre fonti sono diverse tra loro e presentano rilevanti elementi di novità, su cui non è il caso di diffondersi. In comune queste definizioni hanno però: anzitutto una qualificazione “oggettiva” della 12 discriminazione (la definizione guarda cioè agli effetti pregiudizievoli o di particolare svantaggio del trattamento meno favorevole, prescindendo dalla considerazione delle intenzioni del responsabile della discriminazione); in secondo luogo un “alleggerimento” dell’onere della prova che grava sul ricorrente (tenuto ad allegare elementi di fatto idonei a fondare una presunzione semplice, e dunque valutabili dal giudice ai sensi dell’art. 2729 c.c.); l’a lleggerimento, nel caso della discriminazione per ragioni di genere, diviene una vera e propria inversione dell’onere della prova sulla base della verosimiglianza (elementi di fatto idonei a fondare la presunzione) della discriminazione (art. 4, 6° co., l. n. 125/1991 come modificato dal d. lg. n. 196/2000). Di tutto ciò, almeno per ora, non si trova traccia nella giurisprudenza in materia di licenziamento discriminatorio: la casistica continua ad essere povera, ma nelle non frequenti occasioni nelle quali i giudici hanno occasione di intervenire la discriminazione continua ad essere qualificata in senso soggettivo (come atto intenzionale), e l’onere di provare l’intento discriminatorio è fatto gravare per intero sul ricorrente. Ciò dipende probabilmente dal fatto che il contenzioso più classico e cospicuo continua ad essere quello relativo ai licenziamenti c.d. “di ritorsione”, fondati su motivi sindacali, che trovava in origine disciplina nel solo art. 4, l. n. 604/1966: rispetto ad esso la S.C. continua a ripetere che per stabilire il carattere “ritorsivo” e quindi la nullità del licenziamento occorre specificamente dimostrare, con onere a carico del lavoratore, che l’intento discriminatorio o di rappresaglia per l’attività svolta abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà del datore di lavoro (Cass. 26 maggio 2001, n. 7188). Il motivo discriminatorio deve dunque risultare l’unico motivo determinante del recesso: ancora di recente la Cassazione ha affermato in tal senso, che ove il lavoratore impugni il licenziamento deducendo il difetto di giusta causa o giustificato motivo, l’eventuale motivo discriminatorio, pure ricavabile da circostanze di fatto allegate, integra un ulteriore motivo di illegittimità del recesso, come tale non rilevabile d’ufficio e neppure configurabile come diversa qualificazione del licenziamento (Cass. 21 dicembre 2004, n. 23683). Riguardo all’ambito di applicazione dell’art. 3, l. n. 108/1990 resta ancora da dire che il legislatore ha espressamente previsto l’estensio ne ai dirigenti della nullità del licenziamento discriminatorio; dubbi permangono invece per quanto riguarda l’applicazione nei confronti dei «datori di lavoro non imprenditori che svolgono, senza 13 fini di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto» rispetto ai quali si pongono i maggiori interrogativi. Nelle c.d. “organizzazioni di tendenza” (su cui torneremo nel Capitolo successivo), si pone, infatti, un potenziale contrasto tra l’identità del lavo ratore, intesa come insieme di caratteristiche personale e scelte ideologiche, e la “tendenza” dell’organizzazione stessa. Ora, secondo la giurisprudenza prevalente la “neutralità” delle mansioni svolte dal lavoratore (intesa come non riconducibilità diretta alla tendenza dell’organizzazione) non sempre è ritenuta sufficiente a garantirgli la tutela reale, quando comunque sia stato licenziato da un datore di lavoro che rientri fra le organizzazioni di tendenza escluse espressamente dall’ambito di applicazio ne di detta tutela. La questione si complica quando la ragione del licenziamento sia riconducibile, direttamente o indirettamente, a uno dei fattori di discriminazione espressamente vietati dal legislatore. Secondo l’art. 3 l. n. 108/1990, qualunque licenziamento determinato da ragioni discriminatorie è infatti nullo e comporta in ogni caso, come abbiamo visto, l’applicazione del regime della stabilità reale. Il contrasto tra tutela della libertà del lavoratore e tutela della ideologia del datore di lavoro si trasforma così nel potenziale contrasto tra la norma espressa dall’art. 3 e la norma espressa dal successivo art. 4, che disegna un’area di non applicazione della tutela reale a favore della organizzazioni di tendenza. La giurisprudenza (come peraltro la dottrina) appare divisa in merito alla “prevalenza” dell’uno o dell’altro principio: nullità del licenziamento discriminatorio, con diritto alla tutela reale, quale regola cardine a presidio della dignità e della libertà del lavoratore, da una parte; legittimità del licenziamento ed esclusione (anche in questo caso) della tutela reale, quale regola a presidio della libertà delle organizzazioni senza fini di lucro che svolgono determinate attività ideologicamente connotate. Nella scelta, come vedremo, riemerge ancora una volta, sotto una diversa angolazione, la rilevanza della (eventuale) connotazione ideologica delle mansioni svolte dal lavoratore illegittimamente licenziato. Un’importante tappa, nel confuso sviluppo della giurisprudenza in materia, è sta ta segnata da una decisione che ha tentato una ricomposizione dei due opposti orientamenti, pronunciandosi sulla (il)legittimità del licenziamento, da parte di un scuola cattolica, di un insegnante di educazione fisica che aveva contratto matrimonio civile (ma non religioso). Muovendo dall’art. 4 l. n. 108/1990, Cass. 16 giugno 1994, n. 14 5633 ha osservato, in primo luogo, che detta norma, che serve a regolare gli effetti di un normale licenziamento illegittimo, nulla dice sul problema fondamentale del licenziamento ideologico, in ordine al quale l’art. 4 in ogni caso non trova applicazione. Secondo la Corte, infatti, il licenziamento ideologico o è nullo indipendentemente dalla motivazione addotta e in tal caso al lavoratore spetta in ogni caso la tutela reale, qualunque sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro (art. 3 1. n. 108 del 1990), o è legittimo, quando l’adesione ideologica è requisito di autenticità della prestazione, e in tale ipotesi nessuna tutela (né reale né obbligatoria) spetta al lavoratore. La Corte ha sottolineato poi il carattere particolarmente odioso del licenziamento ideologico, che priva il soggetto del proprio lavoro per aver esercitato diritti, solennemente garantiti dalla Costituzione, come la liberta di opinione, la libertà di religione e, nel campo della scuola, la libertà di insegnamento. Richiamate le disposizioni che, nel tempo, sono state introdotte per tutelare i lavoratori nell’esercizio di tali diritti costituzionali anche nell’ambito del luogo di lavoro, la Corte ha affermato che le eccezioni a tali norme possono essere ammissibili solo negli stretti limiti in cui sono indispensabili a garantire altri diritti costituzionalmente garantiti, quali la libertà dei partiti politici e dei sindacati, la libertà religiosa e la libertà della scuola. Venendo quindi al caso delle scuole gestite dagli enti ecclesiastici, la Corte ha affermato che in questo caso la tendenza è insita nella caratterizzazione dell’insegnamento (ispirato ai principi della Chiesa cattolica), che viene in esse impartito, tanto da chiamarsi espressamente “scuole cattoliche”. La Corte ha richiamato in proposito una importante pronuncia della Corte Costituzionale, la sentenza n. 195/1972, secondo la quale ove si negasse all’Università Cattolica del S acro Cuore il potere – riconosciuto dal Concordato – di recedere dal rapporto di lavoro nel caso in cui gli indirizzi religiosi o ideologici del docente fossero divenuti contrastanti con quelli che caratterizzano l’istituzione universitaria in oggetto, risulterebbe mortificata e rinnegata la libertà di quest'ultima. Secondo il pensiero espresso in quella occasione dalla Corte Costituzionale, il docente che accetta di insegnare in una università confessionalmente o ideologicamente caratterizzata, lo fa, d’al tronde, per un atto di libero consenso, che implica l’adesione ai principi ed alle finalità cui quella istituzione è informata. Tuttavia, come osserva la Cassazione, i casi più frequenti di licenziamento ideologico nelle scuole cattoliche non riguardano le mutate convinzioni religiose dei 15 dipendenti (come avvenne nel caso che ha dato origine alla pronuncia della Corte Costituzionale) quanto comportamenti tenuti dal lavoratore nella sua vita privata, comportamenti non coerenti con gli insegnamenti della Chiesa, come quello esaminato dalla Cassazione nel caso dell’insegnante di educazioni fisica. Si trattava, in particolare, di un licenziamento riconducibile ai licenziamenti ideologici motivati da comportamenti che rappresentano l’esercizio di diritti solenne mente garanti dalla Costituzione. «Il sacrificio di tali diritti è ammissibile solo in via del tutto eccezionale e nei limiti in cui vengono a trovarsi in contrasto con altri principi costituzionalmente tutelati, quale è, nella specie, la difesa dell’auten ticità della tendenza, garantita dal principio della liberta della scuola, sancito dall’art. 33 Cost. Tale conflitto può verificarsi, però, solamente nei confronti di quegli insegnamenti (e dei relativi docenti) che caratterizzano la tendenza». La Cassazione ha riproposto a questo punto la questione delle mansioni del lavoratore licenziato, introducendo una sottile distinzione tra tendenza della congregazione e tendenza della scuola. «Nell’ambito di una scuola cattolica vi sono mansioni (quelle del personale esecutivo e tecnico) e insegnamenti del tutto indifferenti rispetto alla tendenza della scuola. L’adesione di quei dipendenti e di quei docenti agli insegnamenti della Chiesa cattolica e la coerenza con essi della loro vita privata soddisfa solo la tendenza della congregazione religiosa, che gestisce la scuola cattolica, ma non la tendenza confessionale della scuola, che nessun attentato può ricevere da un diverso orientamento ideologico di dipendenti e di insegnanti, che svolgono attività o insegnamenti in nessun modo influenzati dalla tendenza della scuola. Fra tali insegnamenti vi è certamente quello di educazione fisica impartito dal ricorrente, trattandosi di una materia che prescinde completamente dall’orientamento ideologico del docente. Né vale obi ettare, come fa la sentenza impugnata, che il docente nel suo insegnamento viene a contatto con gli allievi, perché il semplice contatto con essi durante le lezioni di ginnastica non è di per se idoneo ad orientare ideologicamente in modo diverso i giovani, salvo che non risulti (e nella presente causa ciò non è mai stato affermato da alcuno) che il docente avesse diffuso e propagato fra gli allievi idee e atteggiamenti in contrasto con l’indirizzo cattolico della scuola». Cassando la sentenza del Tribunale che aveva ritenuto legittimo il licenziamento del docente, la Corte ha così concluso: «se quindi nemmeno un mutato atteggiamento ideologico di un professore di educazione fisica può costituire attentato 16 all’indirizzo educativo cattolico della scuola, a ma ggior ragione non lo può costituire un comportamento solamente incoerente con gli insegnamenti della Chiesa». Pare opportuno segnalare, sul punto, che il recepimento della Direttiva CE 2000/78 recentemente realizzato con il d.lgs. n. 216/2003 (art. 3) sembra avere per la prima volta regolato – seppure in modo non limpido, e non perfettamente conforme alla Direttiva, peraltro anch’essa non limpida in proposito – il rapporto tra divieto di discriminazione e quella adesione ideologica che la Cassazione qualifica come requisito di autenticità della prestazione. Anche se non risultano significative pronunce in proposito, pare ragionevole ritenere, conclusivamente, che, se si muove dall’autonomia delle due norme sopra richiamate (art. 3 e art. 4 l. n. 108/1990), si deve ritenere che qualsiasi licenziamento fondato su un fattore discriminatorio non coincidente con l’ideologia dell’organizzazione di tendenza (licenziamento per ragioni di sesso o di lingua in una scuola cattolica, per esempio) configuri un licenziamento discriminatorio illegittimo e dunque nullo, che comporta, ai sensi dell’art. 3, «le conseguenze previste dall’art. 18» st. lav. (reintegrazione e risarcimento del danno). SCHEDE DELLE SENTENZE • Corte Costituzionale, sentenza 29 dicembre 1972 n. 195 Giudizio: GIUDIZIO DI LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE IN VIA INCIDENTALE Argomento della sentenza: ISTRUZIONE PUBBLICA - PLURALISMO SCOLASTICO - LIBERTA' DELLA SCUOLA- SI ESTENDE ALLE UNIVERSITA'AMMISSIBILITA' DI UNIVERSITA' LIBERE, CONFESSIONALI O IDEOLOGICAMENTE CARATTERIZZATE - LIBERTA' DI INSEGNAMENTO DEI DOCENTI IN ESSE - LIMITI CONSEGUENTI ALLA NECESSITA' DI REALIZZARE LE FINALITA' DI SIFFATTE UNIVERSITA' - FATTISPECIE UNIVERSITA' CATTOLICA DEL SACRO CUORE- CONCORDATO TRA LO 17 STATO ITALIANO E LA S. SEDE, ART. 38: NULLA OSTA DELLA S. SEDE PER LA NOMINA DEI PROFESSORI E POTERE DELLA STESSA DI RECEDERE DAL RAPPORTO - NON VIOLA L'ART. 33 DELLA COSTITUZIONE- ESCLUSIONE DI ILLEGITTIMITA' COSTITUZIONALE. Massima: La libertà della scuola intesa come attuazione del principio del pluralismo scolastico ai sensi dell’art. 33 Cost., si estende indubbiamente alle università, per cui e' ammissibile la creazione di università libere, che possono essere confessionali o comunque ideologicamente caratterizzate; ne deriva necessariamente che la libertà di insegnamento da parte di singoli docenti che sono liberi di aderire all'indirizzo della scuola come di recedere dal relativo rapporto, incontra nel particolare ordinamento di siffatte università i limiti necessari a realizzarne le finalità. Ciò vale in particolare per l’Università cattolica la cui pretesa natura di persona giuridica pubblica non ne attenuerebbe comunque l’originaria destinazione finalistica e la caratterizzazione confessionale. Negando ad una libera università ideologicamente qualificata il potere di scegliere i suoi docenti in base ad una valutazione della loro personalità e negandosi alla stessa il potere di recedere dal rapporto ove gli indirizzi religiosi o ideologici del docente siano divenuti contrastanti con quelli che caratterizzano la scuola, si mortificherebbe e rinnegherebbe la libertà di questa, inconcepibile senza la titolarità di quei poteri, e pertanto l’art. 38 del Concordato non contrasta con l’art. 33 Cost., che subordina al nulla osta della S. Sede la nomina dei professori dell’Università cattolica del Sacro Cuore. Parametri costituzionali: Costituzione art. 33. Riferimenti normativi : legge 27/05/1929 n. 810 art. 38. • Corte Costituzionale, sentenza 22 gennaio 1987 n. 17 Giudizio: GIUDIZIO DI LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE IN VIA INCIDENTALE 18 Argomento della sentenza: LAVORO (RAPPORTO DI) - ATTI DISCRIMINATORI - IN DANNO DELLE LAVORATRICI - DISCRIMINAZIONE DETERMINATA DAL COMPORTAMENTO DEL TERZO COMMITTENTE - NON FONDATEZZA DELLA QUESTIONE NEI SENSI DI CUI IN MOTIVAZIONE. Massima: Il principio di parità di diritti e di retribuzione tra lavoratrice e lavoratore ha efficacia generale per tutti i cittadini e va osservato, nella fase di costituzione e in quella di svolgimento del rapporto, non solo da parte del datore di lavoro, ma anche da parte dei terzi a favore dei quali, in base ad apposito contratto, vada il risultato dell’attività lavorativa. Sono pertanto nulle le clausole di tale contratto che importino discriminazioni fondate unicamente sulla diversità di sesso; né l’eventuale domanda di risoluzione proposta dal terzo per ragioni che implichino tale discriminazione integra un giustificato motivo di licenziamento della lavoratrice, ben potendo opporsi alla domanda il datore di lavoro, sul quale comunque ricadono le conseguenze dei licenziamenti discriminatori eventualmente intimati. (Non fondatezza - nei sensi di cui in motivazione - della questione di legittimità costituzionale sollevata in riferimento agli artt. 3, 4 e 37 Cost. e relativa al combinato disposto degli artt. 1, L. 9 dicembre 1977 n. 903, e 15, ultimo comma, L. 20 maggio 1970 n. 300, nella parte in cui escluderebbe, rispetto al prestatore e al datore di lavoro, la rilevanza del comportamento del terzo che comunque determini lo stesso datore ad una condotta violatrice del principio di parità tra lavoratore e lavoratrice). Parametri costituzionali: Costituzione art. 3; art. 4; art. 37. Riferimenti normativi: legge 9/12/1977 n. 903 art. 1; legge 20/05/1970 n. 300 art. 15 ultimo comma. Note a sentenza: DL II/1987, pp. 130 ss., nota CASCIANO. • Cassazione sezione lavoro, sentenza 13 dicembre 2000 n. 15689 19 Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Licenziamento - Licenziamento individuale - Licenziamento discriminatorio - Intento di rappresaglia del datore di lavoro - Criteri - Fattispecie. Massima: In tema di licenziamenti individuali, affinché ricorra l’intento di rappresaglia del datore di lavoro occorre accertare l’esclusiva efficacia determinativa della qualità di lavoratore sindacalmente attivo (nella specie la S.C. ha confermato la decisione di merito che aveva escluso il carattere discriminatorio del licenziamento in un caso in cui lo scarso impegno e la mancanza di attenzione dimostrati dal lavoratore nel periodo di assegnazione al suo ufficio avevano impedito allo stesso, impegnato giornalmente per oltre il 30-40 per cento in attività sindacali, di essere inserito in un programma di lavoro con scadenze da rispettare. • Cassazione sezione lavoro, sentenza 20 marzo 2001 n. 3947 Argomento della sentenza: Previdenza (assicurazioni sociali) - In genere - Ricostruzione della posizione assicurativa in caso di licenziamento intimato per motivi politici, sindacali o religiosi, ex legge n. 36/1974 - Operatività anche in caso di successiva riassunzione del lavoratore da parte dello stesso datore di lavoro con la medesima qualifica - Sussistenza - Dubbio di legittimità costituzionale in riferimento agli artt. 3 e 38 Cost. per eccesso di tutela del lavoratore - Manifesta infondatezza. Massima: Lo speciale beneficio previsto dalla legge 15 febbraio 1974, n. 36 - che ha contemplato, in favore dei lavoratori dipendenti il cui rapporto sia stato risolto per motivi politici, sindacali o religiosi tra il primo gennaio 1948 ed il 7 agosto 1966, il diritto alla ricostituzione della posizione assicurativa per il periodo intercorrente tra la data del licenziamento e quella di raggiungimento dei requisiti di età e contribuzione per il diritto alla pensione di vecchiaia – opera anche ove, successivamente al licenziamento, il lavoratore sia stato riassunto dallo stesso datore di lavoro con la 20 medesima qualifica precedentemente conseguita, atteso che la legge non configura la riassunzione come causa di esclusione del detto beneficio né pone alcuna distinzione in funzione della durata dello stato di non collocazione e, quindi, della mancata contribuzione ad essa conseguente. Né tale interpretazione introduce - in contrasto con gli artt. 3 e 38 Cost. - elementi di irrazionalità o di ingiustificata locupletazione del lavoratore tutelato, atteso che dall’ammontare dei contributi da accreditare ai sensi dell’art. I della legge n. 36 del 1974 vanno in ogni caso detratti quelli derivanti dalla copertura assicurativa conseguente alla riassunzione del lavoratore. • Cassazione sezione lavoro, sentenza 26 maggio 2001 n. 7188 Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Licenziamento - Licenziamento individuale - Licenziamento discriminatorio - Intervento di rappresaglia del datore di lavoro - Onere della prova - Grava sul lavoratore. Massima: Nel caso di controversia concernente la legittimità del licenziamento di un lavoratore sindacalmente attivo, per affermare il carattere ritorsivo e quindi la nullità del provvedimento espulsivo, in quanto fondato su un motivo illecito, occorre specificamente dimostrare, con onere a carico del lavoratore, che l’intento discriminatorio e di rappresaglia per l’attività svolta abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà del datore di lavoro, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso. • Tribunale di Roma, sentenza 26 marzo 2002 Argomento della sentenza: Confessioni religiose diverse dalla cattolica - Intese ex art. 8 Cost. - Chiesa cristiana avventista del settimo giorno - Legge 22 novembre 1988, n. 516 - Riposo sabbatico - Licenziamento discriminatorio. 21 Massima: Il Tribunale di Roma, in sede di appello, pronunciandosi sulla decisione resa dal Pretore in merito a un licenziamento connesso al rispetto del riposo sabbatico di un lavoratore di fede avventista, ha confermato che le conclusioni desunte dal giudice di primo grado circa il configurarsi effettivo di un licenziamento discriminatorio sussistono in ragione della corretta interpretazione da parte del Pretore delle risultanze processuali. In particolare, il Tribunale ha ritenuto infondate le richieste dell’appellante circa l’erronea valutazione delle risultanze istruttorie in merito alla riconducibilità del recesso ad esigenze organizzative aziendali attinenti all’osservanza dei turni di servizio, e ha confermato la sussistenza di ragioni discriminatorie, configurando così un licenziamento non sostenuto da motivazioni delineanti un giustificato motivo. • Tribunale di Napoli (ord.), 26 maggio 2003 Argomento dell’ordinanza: Sciopero - Proclamazione - Irrilevanza - Occupazione dei locali dismessi dall’imprenditore - Liceità - Licenziamento discriminatorio Sussistenza. Massima: Il preavviso o preventiva comunicazione al datore di lavoro non è necessario ai fini della legittimità dello sciopero, a meno che esso non sia specificamente richiesto dalla legge (come nel caso dei servizi pubblici essenziali) o non sia indispensabile per evitare pregiudizi alla capacità produttiva dell’azienda (come ad esempio il danneggiamento dei macchinari). L’occupazione, preceduta dall’assemblea dei lavoratori, dall’effettuazione dello sciopero, e perpetrata con il presidio dei locali aziendali (di proprietà di altra società), va ritenuta legittima, qualora si inserisca in un contesto nell’ambito del quale l’attività lavorativa si trovava già sospesa per lo sciopero e per l’imminente trasferimento dell’attività. Il provvedimento di licenziamento irrogato di fronte a tali eventi deve perciò ritenersi antisindacale e discriminatorio, con conseguente dichiarazione di nullità. Note: DML 2003, pp. 691 ss., nota DENTICI. 22 • Tribunale di Bari, sentenza 30 settembre 2003 Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento individuale - In genere - Licenziamenti discriminatori Art. 3 legge 11 maggio n. 108/1990 - Interpretazione estensiva - Ammissibilità Licenziamenti per ritorsione - Inclusione. Massima: Il licenziamento inflitto a seguito di un comportamento legittimo del lavoratore (c.d. licenziamento per rappresaglia o ritorsione) rientra nella categoria – suscettibile di interpretazione estensiva - del licenziamento disposto per motivi discriminatori, affetto da nullità. • Tribunale di Modena, sentenza 18 giugno 2004 Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Licenziamento per giustificato motivo oggettivo - Invalidità - Ragioni discriminatorie prospettate dal lavoratore Insussistenza - Conseguenze - Tutela reale – Inapplicabilità. Massima: La nozione di licenziamento discriminatorio, di cui L all’art. 3, legge 108l1990, non può essere estesa sino a ricomprendere qualsiasi esigenza non tutelata dal diritto, perché altrimenti l’istituto in questione non avrebbe più alcun a autonomia, coprendo sostanzialmente tutta l’area del licenziamento ingiustificato. In presenza di più posizioni lavorative tutte equivalenti, il datore che intenda procedere ad un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, motivato con l’eccedenza di personale, deve utilizzare in via analogica alcuni dei criteri di scelta normativamente previsti per i licenziamenti collettivi, prendendo in considerazione, in particolare, il carico familiare e l’anzianità dei lavoratori coinvolti (Nella specie, una l avoratrice aveva impugnato il licenziamento intimatole, affermando che il medesimo sarebbe stato adottato per ritorsione ad una serie di assenze effettuate per la malattia del figlio). 23 • Tribunale di Milano, sentenza 7 ottobre 2004 Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Licenziamento per motivi discriminatori - Partecipazione a uno sciopero - Effetti - Nullità - Conseguenze Reintegrazione ex art. 18 SL. - Prova del motivo illecito del licenziamento - Presunzioni gravi, precise e concordanti - Sufficienza. Massima: Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, basato su inesistenti ragioni organizzative che trova la sua reale motivazione nella partecipazione a uno sciopero da parte del lavoratore, deve essere dichiarato nullo perché discriminatorio. Le conseguenze sono quelle di cui all'art. 18 SL così come previsto dal combinato disposto dell’art. 3 L. 11/5/90 n. 108 e dell’art. 15 SL. L'onere della prova del motivo illecito del licenziamento è in capo al lavoratore che può raggiungerla anche a mezzo di presunzioni gravi, precise e concordanti. Note a sentenza: D&L I/2005, pp. 238 ss., nota CIVITELLI. • Corte di Appello di Potenza, sentenza 15 giugno 2005 Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Licenziamento per motivi discriminatori - Ritorsione a fronte di dichiarazioni rese dalla lavoratrice agli Ispettori dell’Inps - Nullità del licenziamento - Conseguenze - Reintegrazione ex art. 18 SL. Prova del motivo illecito di licenziamento - Presunzioni semplici - Sufficienza Fattispecie. Massima: Il licenziamento irrogato per ragioni ritorsive, sulla base di un motivo illecito che ha unicamente ed esclusivamente determinato il datore di lavoro a emanare l’atto di recesso, deve essere dichiarato nullo perché discriminatorio, consegu endone l’applicazione dell’art. 18 SL. (nella fattispecie, la lavoratrice era stata licenziata, sul presupposto fittizio di un inesistente giustificato motivo oggettivo, in seguito delle 24 dichiarazioni spontanee rese agli Ispettori dell’Inps). L’onere della prova circa la sussistenza del motivo discriminatorio del licenziamento, in applicazione dei principi generali, grava sul lavoratore, che può raggiungerla a mezzo di presunzioni gravi, precise e concordanti (nella fattispecie individuate nella mancanza di effettiva consistenza del giustificato motivo oggettivo di recesso, nell’assegnazione alla lavoratrice di mansioni dequalificanti al rientro in servizio dopo il periodo di maternità, e nella successiva forzata imposizione delle ferie fino al compimento del primo anno di vita del figlio). Note a sentenza: D&L II-III/2005, pp. 595 ss., nota BULGARINI D’ELCI. • Cassazione sezione lavoro, sentenza 14 luglio 2005, n. 14816 Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Licenziamento per motivi discriminatori - Giusta causa - Giustificato motivo di recesso - Nullità del recesso Appartenenza del lavoratore al sindacato - Onere della prova della finalità ritorsiva. Massima: Per affermare il carattere ritorsivo e quindi la nullità del provvedimento espulsivo, in quanto fondato su un motivo illecito, occorre specificamente dimostrare, con onere a carico del lavoratore, che l’intento discriminatorio o di rappresaglia per l’attività svolta abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà del datore di lavoro anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso e che per l’accertamento dell’intento ritorsivo del licenziamento non è sufficiente la deduzione dell’appartenenza del lavoratore ad un sindacato, o della sua partecipazione, anche se attiva, ad attività sindacali, ma è necessaria la prova della sussistenza di un rapporto di causalità tra tali circostanze e l’asserito intento di rappresaglia, dovendo, in mancanza, escluders i la finalità ritorsiva del licenziamento. • Tribunale di Siracusa, sentenza 6 ottobre 2005 25 Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Licenziamento individuale Giustificato motivo oggettivo - Rappresaglia - Unicità del motivo illecito - Nullità. Massima: E’ nullo il licenziamento, formalmente intimato dall'azienda per giustificato motivo oggettivo, nel caso in cui si sia accertato che l’unico motivo fondante l’atto di recesso sia di natura discriminatoria, concretando una «rappresaglia» a danno del lavoratore che non ha inteso sottoscrivere un accordo relativo all’applicazione di un nuovo contratto collettivo di settore, implicante un peggioramento del trattamento economico spettante al lavoratore medesimo. • Tribunale di Siracusa, sentenza 6 dicembre 2005 Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Licenziamento individuale - Giusta causa - Rappresaglia - Non unicità del motivo illecito - Validità. Massima: E’ infondata l’eccezione di nullità del licenziamento formalmente intimato dall’azi enda per giusta causa - in quanto determinato da ritorsione e rappresaglia, presuntivamente indotto dal rifiuto della ricorrente di aderire ad un nuovo contratto collettivo, integrante un peggioramento del trattamento economico, nel caso in cui, oltre a non essere provata l’esistenza di un effettivo «ricatto» ai danni della lavoratrice, non sia stato specificamente dimostrato, da parte di quest’ultima, che l’intento di rappresaglia abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà del datore di lavoro. Note a sentenza: Guida al lavoro 7/2006, pp. 48 ss. nota RICCI e TRAPANESE. 2.1. Il licenziamento per causa di matrimonio 26 A norma dell’art. 1, l. 9 gennaio1963, n. 7, le clausole di nubilato di qualsiasi genere, contenute nei contratti individuali e collettivi e nei regolamenti, sono nulle e si hanno per non apposte; parimenti nulli sono i licenziamenti per causa di matrimonio. Nulle sono anche le dimissioni presentate dalla lavoratrice nello stesso periodo per cui è prevista la nullità del licenziamento (a meno che la lavoratrice non le confermi entro un mese davanti all’Ufficio del lavoro, ora Direzione provinciale del lavoro). Per sollevare la lavoratrice ricorrente dall’onere di provare l’illecito motivo determinante il recesso, la legge stabilisce che il licenziamento si presume disposto per causa di matrimonio quando intervenga nel periodo intercorrente tra la richiesta delle pubblicazioni e l’anno successivo alla celebrazione. La legge espressamente presume dunque che il licenziamento “durante” il periodo protetto sia avvenuto a “causa di matrimonio”. La Corte Costituzionale (con sentenza n. 27/1969) ha affermato il carattere assoluto della presunzione per le seguenti ragioni: perché preclude al datore di lavoro di provare che il licenziamento non è stato disposto a causa di matrimonio; perché è assorbente di ogni altra ragione giustificatrice; perché è superabile solo in presenza di una delle cause espressamente previste dalla medesima legge. Le conseguenze della nullità del licenziamento sono definite dalla legge con un rigore nuovo per la legislazione del tempo: la lavoratrice illegittimamente licenziata ha diritto ad essere riammessa in servizio, ed ha altresì diritto alla retribuzione (globale di fatto) per tutto il periodo che va dal licenziamento fino alla data della effettiva reintegrazione in servizio. La l. n. 7/1963, forse a causa dei principi innovatori introdotti, suscitò reazioni negative: vennero sollevate eccezioni di illegittimità costituzionale che la Corte Costituzionale respinse: il divieto di licenziamento, sostanzialmente sostenuto dalla presunzione della causa di matrimonio, è diretto – disse la Corte – a «salvaguardare la libertà e la dignità umana» dei soggetti a favore dei quali è disposto (cioè delle donne, e solo delle donne), e non crea perciò un ingiustificato vantaggio (quello della conservazione del posto) per le donne sposate. A molti anni di distanza dalla sua entrata in vigore, la legittimità costituzionale della l. n. 7/1963 è stata rimessa in discussione proprio sotto il profilo del vantaggio che assicura alla lavoratrice. La Corte Costituzionale ha dichiarato non fondata la questione; nella motivazione la Corte ha affermato che la politica di «favore per il matrimonio e di 27 agevolazione della formazione della famiglia legittima», che a suo giudizio ispira la legge del 1963, è al riparo «da un giudizio di eccessività di tutela», perché l’art. 31 Cost. tutela l’interesse pubblico a che sia favorita la formazione della famiglia legittima fondata sul matrimonio (sentenza n. 46/1993). Così decidendo, però, la Corte si è pronunciata su questioni che non formavano oggetto del giudizio e ha trascurato invece di approfondire la riflessione sulla questione che l’ordinanza del giudice torinese la invitava ad esaminare. A nostro parere si può anche oggi ritenere legittimo il vantaggio attribuito alla lavoratrice, purché si abbia la certezza che il matrimonio in quanto tale costituisca una perdurante causa di discriminazione delle donne, e si abbia perciò ragione di affermare che le lavoratrici che contraggono matrimonio meritano una speciale tutela (nell’ambito appunto delle misure antidiscriminatorie per ragioni di genere). La connessione tra la “causa di matrimonio” che motiva il licenziamento della lavoratrice e la considerazione (diretta) del suo genere pare evidente (ma non ai nostri giudici, che continuano ad ignorarla), se solo si tiene a mente la connessione tra matrimonio e “rischio” di maternità. Un forte argomento in tal senso si può trarre dalla considerazione che tutte le leggi antidiscriminatorie vigenti in Europa, ispirate alla Direttiva CE 76/207 (ora modificata con Direttiva CE 2002/73), menzionano il matrimonio come causa di discriminazione diretta e/o indiretta delle donne nell’accesso al lavoro e nelle condizioni di lavoro. Insomma, visto con gli occhi di oggi (e alla luce della legislazione vigente in materia), il licenziamento per causa di matrimonio può farsi rientrare nella categoria dei licenziamenti discriminatori per ragioni di genere, la cui nullità dà oggi accesso alla reintegrazione nel posto di lavoro, regolata dall’art. 18 st. lav. SCHEDE DELLE SENTENZE • Corte Costituzionale, sentenza 5 marzo 1969 n. 27 28 Giudizio: GIUDIZIO DI LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE IN VIA INCIDENTALE Argomento della sentenza: LAVORO - LAVORATRICI - DIVIETO DI LICENZIAMENTO PER CAUSA DI MATRIMONIO - LEGGE 9 GENNAIO 1963, N. 7 - FINALITA'- SUPERAMENTO DEL CONFLITTO TRA L'INTERESSE DELLE LAVORATRICI ALLA CONSERVAZIONE DEL POSTO DI LAVORO ED IL CONTRAPPOSTO INTERESSE DEI DATORI DI LAVORO - FONDAMENTO DELLA LEGGE IN PRINCIPI COSTITUZIONALI - NON VIOLA GLI ARTT. 2, 3, 4, 31, 37 - ESCLUSIONE DI ILLEGITTIMITA' COSTITUZIONALE. Massima: La legge 9 gennaio 1963, n. 7, fu emanata in seguito alla prassi, in precedenza largamente diffusa, dei licenziamenti delle lavoratrici in occasione del loro matrimonio, ed allo scopo di dirimere, nel senso più rispondente alle esigenze della società, il conflitto, derivatone, tra l’interesse delle lavoratrici alla conservazione del posto di lavoro ed il contrapposto interesse dei datori di lavoro. Tali finalità sono state perseguite non soltanto con le disposizioni sui licenziamenti, ma anche attraverso una più ampia mutualizzazione (artt. 3 e segg.) degli oneri finanziari già posti a carico dei datori di lavoro dalla legge 26 agosto 1950, n. 860, sulla tutela fisica ed economica delle lavoratrici madri. Nel quadro di questa premessa, la tutela accordata alle lavoratrici che contraggono matrimonio appare sorretta da ragioni che trovano riscontro nella realtà sociale e legittimo fondamento in una pluralità di principi costituzionali che concorrono a giustificare misure legislative intese a sollevare la donna dal dilemma di dover sacrificare il posto di lavoro per salvaguardare la propria libertà di dar vita ad una nuova famiglia o, viceversa, di dover rinunziare a questo suo fondamentale diritto per evitare la disoccupazione. Tali principi costituzionali sono espressi: a) dall’articolo 2 della Costituzione, che garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, fr a i quali non può non essere compresa la libertà di contrarre matrimonio; b) dall’art. 3, secondo comma, che impone di rimuovere ogni ostacolo, anche di fatto, che impedisca il pieno sviluppo della persona umana; c) dall’art. 31, che affida alla Repubblica il compito di agevolare la formazione della famiglia, e, quindi, di intervenire là dove questa sia anche indirettamente ostacolata; d) dall’art. 37, che, stabilendo che le condizioni di lavoro devono consentire 29 alla donna l’adempimento della sua funzione familiare non può non presupporre, in primo luogo, che le sia assicurata la libertà di diventare sposa e madre; e) dalle norme dell’art. 4 e da quelle dell’art. 35, primo comma, sulla tutela del lavoro, che la Costituzione, in coerenza con l’art. 1, colloc a in testa al titolo terzo relativo ai rapporti economici. Parametri costituzionali: Costituzione art. 2; art. 3; art. 4; art. 31; art. 37. Riferimenti normativi: legge 9/01/1963 n. 7. • Corte Costituzionale, sentenza 10 febbraio 1993 n. 46 Giudizio: GIUDIZIO DI LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE IN VIA INCIDENTALE. Argomento della sentenza: LAVORO - (TUTELA DEL) - DONNA LAVORATRICE - LICENZIAMENTO PER CAUSA DI MATRIMONIO DISCIPLINA DI CUI ALL'ART. 1, L. N. 7 DEL 1963- CONTENUTO E FINALITA'APPLICABILITA' ALLE LAVORATRICI SPOSATE DA NON PIU' DI UN ANNO ANALOGIA DELLA POSIZIONE DI QUESTE ULTIME CON LA POSIZIONE DELLE LAVORATRICI NEL PERIODO DI COMPORTO PER MATERNITA'CONSEGUENZE - DIVIETO DI LICENZIAMENTO ANCHE IN RELAZIONE ALLE PROCEDURE DI "MESSA IN MOBILITA'" E LICENZIAMENTO COLLETTIVO PER RIDUZIONE DEL PERSONALE. Massima: L’art. 1, l. n. 7 del 1963, riducendo tassativamente ai tre casi indicati nell’art. 3, secondo comma, l. n. 860 del 1950, la facoltà del datore di lavoro di provare che il licenziamento della lavoratrice sposata da non più di un anno non è stato effettuato a causa del matrimonio, ha sopravanzato la finalità perseguita dall’originario disegno di legge (contrastare la prassi dei licenziamenti di lavoratrici per causa di matrimonio) e ha assunto, oltre al valore di provvedimento repressivo di un’ipotesi di 30 licenziamento (individuale) illecito, anche quello positivo di provvedimento promozionale del matrimonio stesso e della famiglia legittima (artt. 2, 4, 35, 37, 41, secondo comma, 29 e 31 Cost.). In relazione alla sospensione del potere di recesso prevista in capo al datore, la condizione di tale lavoratrice è quindi analoga a quella della dipendente in comporto per maternità, con la conseguenza che essa, nel periodo di tempo definito dal predetto art. 1, terzo comma, l. n. 7 del 1963, non può essere colpita da licenziamento individuale se non negli indicati limiti, né assoggettata alle procedure di messa in mobilità o di licenziamento collettivo per riduzione del personale regolate dalla l. n. 223 del 1991. Riferimenti normativi: legge 9/01/1963 n. 7 art. 1 comma 5. Note a sentenza: MGL 1993, pp. 4 ss., nota LUCIFREDI; RGL II/1993, pp. 105 ss., nota COLACURTO. • Cassazione sezione lavoro, sentenza 10 gennaio 2005 n. 270 Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Licenziamento - Licenziamento individuale - Matrimonio della lavoratrice - Divieto di licenziamento - Licenziamento intimato nel periodo compreso tra la richiesta di pubblicazioni ed il compimento di un anno dalla celebrazione - Nullità - Obbligo di comunicazione della lavoratrice - Non sussiste. Massima: La tutela accordata dalla l. 9 gennaio 1963, n. 7 alle lavoratrici che contraggono matrimonio è fondata sull’elemento obiettivo della celebrazione del matrimonio e non è subordinata all’adempimento di alcun obbligo di comunicazione (rispondente peraltro al dovere di collaborazione e di esecuzione del contratto secondo buona fede) da parte della lavoratrice; tanto si evince, in particolare, dalla presunzione concernente l’avvenuta intimazione per causa di matrimonio del licenziamento della lavoratrice disposto nel periodo compreso tra la data della richiesta delle pubblicazioni e l’anno successivo alla celebrazione delle nozze, alla cui stregua la possibilità di 31 conoscenza del matrimonio inizia, per il datore di lavoro, con il compimento, da parte dei nubendi, delle formalità preliminari previste dal codice civile. 2.2. Il licenziamento della lavoratrice madre Riformulando e aggiornando (alla luce delle sentenze della Corte Costituzionale) quanto sancito dalla l. n. 1204/1971, l’art. 54, d.lg. n. 151/2001 (t.u. delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e paternità, emanato in base della delega contenuta nell’art. 15, l. n. 53/2000) stabi lisce che il divieto di licenziamento opera dall’inizio del periodo di gravidanza fino al termine del periodo d’interdizione dal lavoro (congedo obbligatorio post partum) «nonché fino al compimento di un anno di età del bambino». Il 2° co. aggiunge che il divieto «opera in connessione con lo stato oggettivo di gravidanza», prescindendo di conseguenza dalla conoscenza dello stato di gravidanza da parte del datore di lavoro; la lavoratrice licenziata è tenuta tuttavia a presentare (non più nel termine di 90 giorni, come in precedenza) idonea certificazione da cui risulti lo stato di gravidanza al momento del licenziamento. L’art. 54, 5° co., stabilisce che il licenziamento intimato in violazione del divieto è nullo. La nullità del licenziamento, espressamente sancita, costituisce il frutto della sentenza interpretativa di accoglimento della Corte Costituzionale n. 61/1991, che, respingendo l’orientamento della Cassazione (allora favorevole alla mera temporanea inefficacia del licenziamento), ha stabilito appunto la nullità del licenziamento intimato in costanza di divieto, e al di fuori delle previste eccezioni, che allora erano tre (ma come vedremo, la stessa Corte Costituzionale, con sentenza n. 172/1996, ha introdotto una quarta eccezione al divieto: l’esito negativo della prova). Tralasciando altre non secondarie questioni, e soffermandosi solo sul problema che qui interessa, si tratta di vedere se il licenziamento della lavoratrice madre intimato durante il divieto (senza che ricorra una delle quattro eccezioni di cui dirò oltre), possa essere ricondotto nella sfera di applicazione dell’art. 3, l. n. 108/1990 (licenziamenti discriminatori, per i quali il legislatore ha sancito la generale applicabilità della disciplina della reintegrazione nel posto di lavoro). Buona parte della dottrina e ancora 32 di recente la stessa Cassazione (con sentenze 12 gennaio 2005, n. 426, e 15 settembre 2004, n. 18537) insistono sul fatto che tale licenziamento è vietato perché cade “durante” il divieto, e non perché è “a causa di gravidanza o puerperio” . Si vuole così sottolineare che, durante il periodo vietato, l’esistenza di eventuali ragioni giustificatrici (che non siano quelle consentite) è del tutto ininfluente: anche se il datore di lavoro fosse in grado di provare una giustificato motivo o una giusta causa (diversa dalla colpa grave della lavoratrice), il licenziamento sarebbe egualmente nullo. A ben vedere, del resto, una delle implicazioni della nullità del licenziamento della lavoratrice madre sta proprio nella irrilevanza di ragioni che, se così non fosse, potrebbero giustificare il licenziamento; al contrario, ove il licenziamento fosse solo temporaneamente inefficace, l’indagine sull’esistenza di una ragione giustificatrice avrebbe influenza sulla validità del licenziamento, pure temporaneamente improduttivo di effetti. La nullità del licenziamento della lavoratrice madre presenta una sostanziale analogia, ma alcune importanti differenze, con la nullità del licenziamento della lavoratrice per causa di matrimonio. La l. n. 7/1963 espressamente presume che il licenziamento “durante” il periodo protetto sia avvenuto a “causa di matrimonio” e la presunzione, come si è detto, è assoluta. Se, in base all’analogia con la causa di matrimonio, possiamo dire che il licenziamento della lavoratrice madre durante il periodo protetto si presume “a causa di maternità”, e aggiungiamo che la presunzione ha carattere assoluto, questo licenziamento può essere allora configurato come licenziamento “discriminatorio per ragioni di sesso”. Abbiamo parlato di “presunzione assoluta” della causa di maternità, ma corre l’obbligo di segnalare che questa affermazione rischia di essere messa in discussione da quanto ha stabilito la Corte Costituzionale nella sentenza – n. 172/1996 – nella quale ha aggiunto (si tratta infatti di una sentenza additiva, interpretativa di accoglimento) il recesso per esito negativo della prova alle tre eccezioni già previste art 2, 3° co., della (abrogata) l. n. 1204/ 1971 (colpa grave da parte della lavoratrice, costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto di lavoro; cessazione dell’attività dell’azienda cui essa è addetta; ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta o risoluzione del rapporto per scadenza del termine). La Corte ha aggiunto questa eccezione considerando che se durante il periodo di prova operasse il divieto di licenziamento, alla scadenza del periodo l’assunzione diverrebbe definitiva, malgrado il 33 giudizio negativo del datore di lavoro sull’esperimento della pro va, e ciò vanificherebbe il significato del patto di prova; inoltre il datore sarebbe obbligato ad accettare (salvo il periodo di congedo obbligatorio) la prestazione da lui ritenuta non idonea fino al compimento di un anno di età del bambino. Mentre nelle tre ipotesi precedenti il licenziamento si presume per causa di maternità e dunque illegittimo a meno che il datore di lavoro non provi che ricorre una delle eccezioni al divieto previste, nel caso della prova il recesso si presume legittimo, in quanto determinato da esito negativo della prova. La presunzione è solo relativa, perché ammette la prova in contrario, di cui è onerata la lavoratrice (a meno che il datore non fosse a conoscenza della gravidanza: in questo caso, dovendo motivare il licenziamento, questi è anche onerato della prova della fondatezza delle ragioni addotte). Si è detto sopra che la presunzione della causa di maternità dovrebbe portare a qualificare il licenziamento intimato in periodo coperto dal divieto come “licenziamento discriminatorio” riconducendolo così nell’area di applicazione dell’art. 3 l. n. 108/1990. Questa soluzione non è accolta dalla nostra giurisprudenza e non è stata accolta neppure dal nostro legislatore in occasione della trasposizione della Direttiva CE 2002/73 (d.lgs. n. 145/2005). Eppure il diritto comunitario è ben chiaro in materia2 L’insistenza sulla qualificazione del licenziamento della lavoratrice madre in violazione del divieto non sembri un esercizio retorico: vero è che, malgrado il silenzio della legge, i giudici riconoscono che dalla nullità del licenziamento deriva oltre al diritto al ripristino del rapporto, il pagamento a titolo risarcitorio delle retribuzioni successive alla cessazione del rapporto in virtù della giuridica continuità di esso (in analogia con quanto previsto dalla legge n. 7/1963) , ma non è meno vero che la mancata qualificazione del licenziamento come discriminatorio priva la lavoratrice della tutela di cui all’art. 18 st. lav.: tutela alla quale avrebbe invece diritto di accedere, ove i giudici prestassero maggiore attenzione al diritto comunitario e alle sue prescrizioni. 2 In questo senso è la giurisprudenza costante della CGCE, a partire dalla sentenza 8 novembre 1990, C-177-88, Dekker, RCG, 1990, I, 3968. Per quanto attiene al licenziamento cfr. CGCE 4 ottobre 2001, C-109/100, Tele Danmark. La Corte giustamente specifica che il licenziamento di una lavoratrice a motivo del proprio stato interessante è discriminatorio: a) quand’anche la lavoratrice sia stata a ssunta a tempo determinato; b) abbia omesso di informare il datore di lavoro in merito al proprio stato interessante, pur essendone a conoscenza al 34 SCHEDE DELLE SENTENZE • Corte Costituzionale, sentenza 8 febbraio 1991 n. 61 Giudizio: GIUDIZIO DI LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE IN VIA INCIDENTALE. Argomento della sentenza: LAVORO (RAPPORTO DI) - LAVORATRICI MADRI - LICENZIAMENTO NEL PERIODO DI GRAVIDANZA E PUERPERIO PREVISIONE DI TEMPORANEA INEFFICACIA ANZICHE' DI NULLITA'DISCRIMINAZIONE IN RELAZIONE AI COMPITI CONNESSI CON LA MATERNITA', LA CURA DEI IFGLI E DELLA FAMIGLIA - IMPEDIMENTO PER LA REALIZZAZIONE DELL'EFFETTIVA PARITA' DI DIRITTI DELLA DONNA LAVORATRICE - ILLEGITTIMITA' COSTITUZIONALE PARZIALE. Massima: Un divieto che comporti un mero differimento dell’efficacia del licenziamento, intimato alla lavoratrice durante il periodo di gravidanza e di puerperio, anziché la nullità radicale di esso, rappresenta una misura di tutela insufficiente per la donna lavoratrice. La protezione cui fa riferimento la norma costituzionale (art. 37), infatti, non si limita alla salute fisica della donna e del bambino, ma investe tutto il complesso rapporto che, nel detto periodo, si svolge tra madre e figlio; il quale rapporto deve essere protetto non solo per ciò che attiene ai bisogni più propriamente biologici, ma anche in riferimento alle esigenze di carattere relazionale ed affettivo che sono collegate allo sviluppo della personalità del bambino. Conseguentemente tali principi, collegati a quello d’uguaglianza, impongono alla legge di impedire che possano, dall a maternità e dagli impegni connessi alla cura del bambino, derivare conseguenze negative e discriminatorie per la lavoratrice madre per evitare anche che la maternità si traduca, in concreto, in un impedimento alla realizzazione dell’effettiva parità di d iritti momento della conclusione del contratto di lavoro; e c) a motivo di tale stato, non sia più in grado di svolgere l'attività lavorativa per una parte rilevante della durata del contratto stesso . 35 della donna lavoratrice. Devesi, pertanto, dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 2 l. 30 dicembre 1971, n. 1204, nella parte in cui prevede la temporanea inefficacia anziché la nullità del licenziamento intimato alla donna lavoratrice nel periodo di gestazione e di puerperio. Parametri costituzionali: Costituzione art. 3; art. 37 comma 1. Riferimenti normativi: legge 30/12/1971 n. 1204 art. 2. Note a sentenza: RGL II/1991, pp. 3 ss., nota DEL CONTE; MGL 1991, pp. 4 s., nota FONTANA; DL II/1991, pp. 221 ss., nota DE FALCO; RIDL II/1991, pp. 724 ss., nota MATTAROLO. • Corte Costituzionale, sentenza 31 maggio 1996 n. 172 Giudizio: GIUDIZIO DI LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE IN VIA INCIDENTALE. Argomento della sentenza: LAVORO (TUTELA DEL) - LAVORATRICI MADRI - DIVIETO DI LICENZIAMENTO DELLE LAVORATRICI IN CASO DI GRAVIDANZA E PUERPERIO - INAPPLICABILITA' DEL PREDETTO DIVIETO NEL CASO DI RECESSO PER ESITO NEGATIVO DELLA PROVA (NELLA SPECIE SI FA RIFERIMENTO AD UN RAPPORTO DI PORTIERATO CON UNA SOCIETA' IMMOBILIARE)- OMESSA PREVISIONE - RITENUTA DISPARITA' DI TRATTAMENTO RISPETTO ALLE LAVORATRICI ADDETTE AI SERVIZI DOMESTICI E FAMILIARI - PRETESA VIOLAZIONE DEL PRINCIPIO DELL'AUTONOMIA CONTRATTUALE - ESTRANEITA' DELLA NORMA IMPUGNATA AL CASO OGGETTO DEL GIUDIZIO 'A QUO' - INAMMISSIBILITA'. Massima: E' inammissibile la questione di legittimità costituzionale sollevata in riferimento agli artt. 3, 41 e 42 Cost., dell’art. 1 della legge 30 dicembre 1971, n. 1204 36 (in tema di tutela delle lavoratrici madri) - nella parte in cui non esclude dall’ambito normativo del divieto di licenziamento delle lavoratrici in caso di gravidanza e puerperio il recesso dal contratto del datore di lavoro per esito negativo della prova - in primo luogo, perché la norma speciale del terzo comma, concernente le lavoratrici addette ai servizi domestici e familiari, è estranea al caso oggetto del giudizio a quo, in cui si tratta di un rapporto di portierato con una società immobiliare, non configurabile come una specie di servizio familiare; ed in secondo luogo, perché questa norma, additata come tertium comparationis ai fini dell’art. 3 Cost., disponendo in generale l’inapplicabilità alle lavoratrici domestiche del divieto di licenziamento previsto dal successivo art. 2, ha una portata più estesa rispetto alla questione. Parametri costituzionali: Costituzione art. 3; art. 41; art. 42. Riferimenti normativi: legge 30/12/1971 n. 1204 art. 1. Note a sentenza: LG 1996, pp. 848 ss., nota GOTTARDI. • Corte Costituzionale, sentenza 14 dicembre 2001 n. 405 Giudizio: GIUDIZIO DI LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE IN VIA INCIDENTALE. Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Trattamento di maternità Diritto alla indennità di maternità in caso di licenziamento della lavoratrice nel periodo di interdizione dal lavoro - Irragionevole esclusione in violazione del principio di protezione della maternità - Illegittimità costituzionale 'in parte qua'. Massima: E’ costituzionalmente illegittimo l’art. 17, primo comma, della legge 30 dicembre 1971, n. 1204, nella parte in cui esclude la corresponsione dell’indennità di maternità nell’ipotesi di licenziamento prevista dall’art. 2, lettera a), della medesima legge, in quanto tale norma, in contrasto con il principio della speciale protezione della 37 maternità sancito dagli artt. 31 e 37 della Costituzione, irragionevolmente esclude il diritto all’indennità in funzione della ragione del licenziamento, cui è dato rilievo preponderante rispetto allo stato oggettivo della gravidanza e del puerperio. Parametri costituzionali: Costituzione art. 3; art. 31; art. 37. Precedenti in termini richiamati dalla sentenza: v. sentenze, richiamate, n. 361/2000, n. 310/1999, n. 423/1995, n. 132/1991. Parametri normativi:legge 30/12/1971 n. 1204 art. 17 comma 1. • Cassazione sezione lavoro, sentenza 20 gennaio 2000, n. 61 Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Lavoro subordinato - Donne - Diritto alla conservazione del posto - Divieto di licenziamento della lavoratrice madre Limiti - Colpa grave costituente giusta causa - Accertamento - Criteri. Massima: Ai fini dell’operatività della norma dell’art. 2, terzo comma, lett. a), della legge 30 dicembre 1971 n. 1204 - che rende inoperante il divieto di licenziamento della lavoratrice madre sancito dal primo comma dello stesso articolo, quando ricorra «colpa grave da parte della lavoratrice» - non è sufficiente accertare la sussistenza di un giustificato motivo soggettivo, ovvero di una situazione contemplata dalla contrattazione collettiva quale giusta causa idonea a legittimare la sanzione espulsiva, ma è invece necessario - anche alla luce di quanto stabilito nella sentenza della Corte costituzionale n. 61 del 1991 - verificare se sussista quella colpa specificamente prevista dalla suddetta norma e diversa (per l’indicato connotato di gravità) da quella prevista dalla disciplina pattizia per generici casi di inadempimento del lavoratore sanzionati con la risoluzione del rapporto. Salvo restando che la suddetta verifica deve essere eseguita tenendo conto del comportamento complessivo della lavoratrice, in relazione alle sue particolari condizioni psico - fisiche legate allo stato di gestazione e di maternità, le 38 quali possono assumere rilievo ai fini dell’esclusione della gravità del comportamento sanzionato solo in quanto abbiano operato come fattori causali o concausali dello stesso. • Cassazione sezione lavoro, sentenza 21 settembre 2000 n. 12503 Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Lavoro subordinato - Maternità - Diritto alla conservazione del posto - Operatività dell’art. 2, comma 3, lett. A), legge n. 1204 del 1971. Massima: Ai fini dell’operatività dell’art. 2, comma 3, lett. A) della legge n. 1204 del 1971 - che rende inoperante il licenziamento della lavoratrice madre sancito dal comma 1, dello stesso articolo quando ricorra «colpa grave da parte della lavoratrice» non è sufficiente accertare la sussistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo soggettivo di licenziamento, ma è invece necessario verificare - con il relativo onere probatorio a carico del datore di lavoro – se sussista quella colpa specificatamente prevista dalla suddetta norma e diversa (per l’indicato connotato di gravità) da quella prevista dalla legge o dalla disciplina collettiva per generici casi di infrazione o di inadempimento sanzionati con la risoluzione del rapporto; tale verifica deve essere eseguita tenendo conto del comportamento complessivo della lavoratrice, in relazione alle sue particolari condizioni psico-fisiche legate allo stato di gestazione. Note a sentenza: LG IV/2001, pp. 345 ss., nota FERRAU’. • Tribunale di Pisa, sentenza 6 marzo 2002 Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Licenziamento a causa di maternità - Natura discriminatoria - Nullità - Reintegra. 39 Massima: Il licenziamento di una lavoratrice in stato di gravidanza, intimato fuori dai casi consentiti dal d.lgs 151/2001, è atto discriminatorio ai sensi dell’art. 15 legge 300/70. È pertanto nullo con conseguente diritto alla reintegra. Note a sentenza: RGL II/2004, pp. 771 ss., nota GRECO. • Cassazione sezione lavoro, sentenza 16 novembre 2002 n. 16189 Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Lavoro subordinato - Donne - Diritto alla conservazione del posto - Divieto di licenziamento ex art. 2 della legge n. 1204 del 1971 di lavoratrice in stato di gravidanza o puerperio - Sentenza della corte cost. n. 61 del 1991 - Licenziamento intimato in violazione di tale divieto Conseguenze - Nullità - Ripristino del rapporto - Risarcimento del danno nella misura delle retribuzioni maturate successivamente alla cessazione del rapporto - Necessità. Massima: Il licenziamento intimato ad una lavoratrice in stato di gravidanza o puerperio in violazione del divieto di cui all’art. 2 della legge n. 1204 del 1971, affetto da nullità a seguito della pronuncia della Corte Cost. n. 61 del 1991, comporta, anche in mancanza di tempestiva richiesta di ripristino del rapporto (ripristino che deriva da tale nullità indipendentemente dalle dimensioni aziendali, configurandosi in modo diverso dalla reintegrazione di cui all’art. 18 st. lav.), il pagamento, a titolo risarcitorio, delle retribuzioni successive alla data di effettiva cessazione del rapporto, dovendosi lo stesso considerare come mai interrotto. • Cassazione sezione lavoro, sentenza 27 febbraio 2003 n. 3022 Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento individuale - Impugnazione - Decadenza - Nullità del licenziamento per vizio di forma - Applicabilità del termine ex art. 6 legge n. 604 del I966 - Esclusione - Fondamento. 40 Massima: Il termine di sessanta giorni per l’impugnazione del licenziamento previsto dall’art. 6 legge n. 604 del 1966 deroga al principio generale - desumibile dagli artt. 1421 e 1422 cod. civ. - secondo il quale, salvo diverse disposizioni di legge, la nullità può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse e l’azione per farla dichiarare non è soggetta a prescrizione. Ne consegue che, sotto questo profilo, la disposizione di cui al citato art. 6 legge n. 604 del 1966 è da considerarsi di carattere eccezionale e non è perciò applicabile. neanche in via analogica, ad ipotesi di nullità del licenziamento che non rientrino nella previsione della citata legge n. 604 del 1966. E pertanto da escludersi che il suddetto termine di sessanta giorni per l’impugnativa sia applicabile al licenziamento nullo perché privo della forma imposta dalla legge ad substantiam. • Cassazione sezione lavoro, sentenza 15 settembre 2004 n. 18537 Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Disciplina legislativa di tutela della maternità - Licenziamento nullo durante il periodo di gravidanza – Conseguenza Inapplicabilità della tutela reale di cui all’art. 18 St. lav. - Riammissione in servizio Diritto al risarcimento del danno. Massima: Al licenziamento nullo perché intimato durante il periodo di gravidanza non si applica la tutela reale posta all’art. 18 St. lav., per mancata riconduzione alla fattispecie del licenziamento discriminatorio. Il licenziamento è nullo e improduttivo di effetti. Il rapporto deve ritenersi giuridicamente pendente e il datore di lavoro va condannato a riammettere la lavoratrice in servizio e a pagarle i danni derivanti dall’inadempimento in ragione del mancato guadagno. Note a sentenza: Guida al lavoro 40/2004, pp. 10 ss., nota GOTTARDI. • Tribunale di Pistoia, sentenza 27 ottobre 2005 41 Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Licenziamento in maternità Discriminazione - Azione in giudizio della Consigliera di Parità - Legittimazione Diritto al risarcimento danno non patrimoniale - Sussistenza. Massima: Pone in essere un comportamento discriminatorio il datore di lavoro che licenzi una lavoratrice per il suo stato di gravidanza, fuori dai casi consentiti dal D. Lgs. 26/3/01 n. 151, con conseguente obbligo del datore di lavoro, sul piano della rimozione degli effetti, di reintegrare la lavoratrice nel posto di lavoro, di pagare alla stessa le retribuzioni dal momento dell'offerta della prestazione lavorativa e di risarc ire il danno non patrimoniale. Nota a sentenza: D&L 2006, pp. 594 ss., nota CECCONI. 42 3. Stabilità reale e stabilità obbligatoria: campi di applicazione a seconda dei requisiti dimensionali e delle caratteristiche del datore di lavoro 3.1. Stabilità obbligatoria e organizzazioni di tendenza Ai sensi dell’art. 4, 1° co., l. n. 108/1990, sono esclusi dall’area della stabilità reale i datori di lavoro non imprenditori «che svolgono, senza fini di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto»: questi datori di lavoro restano destinatari del regime di stabilità obbligatoria, indipendentemente dal numero dei propri dipendenti. La Corte di Cassazione con la sentenza 16 settembre 1998, n. 9237, ha interpretato l’art. 4, 1° co. in questo senso: per escludere l’applicazione della tutela reale, l’organizzazione di tendenza deve presentare determinati requisiti, che sono i seguenti: il primo è che si tratti di datori di lavoro “non imprendit ori”, privi cioè dei requisiti di cui all’art. 2082 c.c. (professionalità, organizzazione, natura economica dell’attività di produzione o di scambio di beni o servizi, ovvero nell’interposizione nello scambio di beni o servizi). La locuzione “senza fini d i lucro”, contenuta nell’art. 4, si giustifica perché è imprenditore chi oggettivamente produce ricchezza, anche se non ha scopo di lucro personale. Il secondo requisito richiesto per escludere questi datori di lavoro dall’area della stabilità reale è che l’attività rientri in quelle tassativamente previste (così Cass. 7 aprile 2005, n. 7207). Resta da osservare che l’area dei non imprenditori anzidetta non corrisponde appieno a quella delle cosiddette organizzazioni di tendenza (cioè caratterizzate ideologicamente), ancorché alcune organizzazioni di tendenza vi siano ricomprese: l’esclusione dei fini di lucro infatti determina l’esclusione di importanti organizzazioni di tendenza (tra le quali alcuni comprendono imprese editoriali e istituti di istruzione). Rinviando alle considerazioni svolte a proposito del licenziamento discriminatorio nelle organizzazioni di tendenza, ci si limita qui a segnalare che il legislatore, nell’escludere le organizzazioni non imprenditoriali di tendenza dall’area di applicazione della stabilità reale, non ha fatto alcuna differenza tra lavoratori che 43 svolgono mansioni “ideologicamente connotate” e lavoratori con mansioni “neutre”. Sulla rilevanza di tale differenza si erano registrate in passato opinioni discordi sia in dottrina sia in giurisprudenza (si vedano, infra, le schede delle sentenze in argomento): ma tenuto conto che di tale differenza non si trova traccia nell’art. 4, 1° co, l. n. 108/1990, la giurisprudenza è orientata (non senza qualche contraddizione) nel senso di non distinguere, giacché è nell’interesse dell’organizzazione di tendenza che anche i lavoratori “a prestazioni neutre” siano considerati, posto che l’esonero dall’obbligo di reintegrazione ex art. 18 st. lav. si spiega con la volontà del legislatore di garantire al datore di lavoro di tendenza la possibilità di mantenere l’adesione di tutti i dipendenti alla finalità tipica. SCHEDE DELLE SENTENZE • Cassazione sezione lavoro, sentenza 11 agosto 2000 n. 10640 Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Cessazione del rapporto di lavoro - Organizzazioni di tendenza - Reintegrazione nel posto di lavoro - Inapplicabilità Questione di legittimità costituzionale - Infondatezza. Massima: Deve ritenersi manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma primo, della legge n. 108 del 1990, nella parte in cui prevede l’inapplicabilità dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970 alle cosiddette organizzazioni di tendenza, tenute presenti le valutazioni espresse dalla Corte costituzionale riguardo alle conseguenze dell’illegittimità del licenziamento intimato da una piccola impresa (sentenza n. 44 del 1996) e deliberando circa 1’ammissibilità del referendum abrogativo delle norme sulla reintegrazione nel posto di lavoro (sentenza n. 46 del 2000, in cui - valorizzandosi l’articolazione della disciplina risultante dalla legge n. 108 del 1990 - si osserva che la tutela reale non ha copertura costituzionale, rappresentando solo uno dei modi possibili per realizzare la garanzia del diritto al lavoro). 44 Note a sentenza: Foro It., I/2001, c. 127, nota ORIANI. • Cassazione sezione lavoro, sentenza 17 luglio 2001 n. 9662 Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Licenziamento individuale Organizzazioni di tendenza - Tutela reale - Art. 18 l. 20 maggio 1970, n. 300 Associazioni senza fine di lucro - Applicabilità - Esclusione. Massima: La Cassa edile, esercitando una funzione analoga a quella assicurativa, di intermediazione, con erogazione di prestazioni e servizi nell’ambito del lo specifico settore delle imprese edili, e non di previdenza o assistenza, non rientra fra le associazioni senza fini di lucro svolgenti attività sindacale per le quali, a norma dell’art. 4 della legge 11 maggio 1990, n. 108, é esclusa l’applicabilità del la disciplina di cui all’art. 18 della 1egge n. 300 del 1970. • Cassazione sezione lavoro, sentenza 11 luglio 2001 n. 9396 Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Licenziamento individuale Organizzazioni di tendenza - Associazione esercenti macellai. Massima: Tra le imprese industriali e commerciali, cui si applica la disciplina dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970, in tema di tutela reale del posto di lavoro, sono da ricomprendersi, in quanto produttrici di servizi sia per gli associati che per il mercato, quelle aventi per scopo l’organizzazione e la tutela degli interessi dei singoli associati, con conseguente inapplicabilità della disciplina della legge n. 108 del 1990 sulle cosiddette organizzazioni di tendenza, escluse dall’ambito di ope ratività della tutela reale e soggette soltanto alla legge n. 604 del 1966 (nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di merito che aveva disposto la reintegra del lavoratore in un caso in cui il datore di lavoro, un’associazione di categoria, svolg eva attività 45 imprenditoriale di assistenza contabile e fiscale nei confronti sia degli associati che dei terzi). • Cassazione sezione lavoro, sentenza 6 novembre 2001, n. 13721 Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Cessazione del rapporto di lavoro - Organizzazioni di tendenza - Reintegrazione nel posto di lavoro - Attività diretta a fornire un servizio esclusivo per gli appartenenti alla categoria rappresentata Applicabilità della tutela reale - Esclusione - Espletamento dell’attività secondo modalità imprenditoriali - Irrilevanza - Fattispecie relativa all’unione del commercio e del turismo della provincia di Livorno. Massima: La tutela reale in favore dei lavoratori licenziati da organizzazioni cosiddette di tendenza va esclusa, ai sensi dell’art 4 legge n. 108 del 1990, allorché l’attività espletata - ancorché in forme e modalità imprenditoriali - si traduca, in quanto diretta a fornire un servizio rivolto unicamente agli iscritti, in una forma di assistenza o comunque di sostegno all’attivit à professionale della categoria rappresentata, con esclusione di ogni attività, anche analoga, a favore di terzi (fattispecie relativa all’attività di assistenza e consulenza fiscale espletata in favore dei soci dall’unione del Commercio e del Turismo della provincia di Livorno). Note a sentenza: RIDL III/2002, pp. 631 ss., nota GARATTONI; LG 9/2002, pp. 868 ss., nota GIRARDI. • Cassazione sezione lavoro, sentenza 20 dicembre 2002 n. 18218 Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Cessazione del rapporto di lavoro - Organizzazioni di tendenza - Reintegrazione nel posto di lavoro - Esclusione Presupposti - Mancanza di una struttura imprenditoriale - Necessità - Fattispecie relativa all’Istituto addestramento lavoratori. 46 Massima: In materia di licenziamento del lavoratore subordinato, l’applicabilità della disciplina prevista per le cd. organizzazioni di tendenza dall’art 4 della legge 11 maggio 1990, n. 108, che esclude l’operatività della tutela reale stabilita dall’art 18 della legge 20 maggio 1970. n. 300, richiede l’accertamento, in linea preliminare, da parte del giudice, che il datore di lavoro non sia un imprenditore ex art. 2082, cod. civ., e, quindi, che non sussista una struttura imprenditoriale e, soltanto qualora detto accertamento abbia esito negativo, occorre verificare la ricorrenza degli ulteriori requisiti tipici di siffatte organizzazioni. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito, che aveva escluso la qualificazione come organizzazione di tendenza dell’Istituto di addestramento lavoratori - coordinamento regionale del Piemonte, per l’assorbente rilievo che esso operava avvalendosi di una organizzazione e di una struttura di carattere imprenditoriale). • Cassazione sezione lavoro, sentenza 7 gennaio 2003 n. 26 Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Cessazione del rapporto di lavoro - Organizzazioni di tendenza - Licenziamento illegittimo intimato da un partito politico - Conseguenze. Massima: Allorquando il datore di lavoro è un partito politico (nella specie, Partito Socialista italiano), e cioè un’associazione non riconosciuta che svolge attività politica senza fini di lucro, l’unica conseguenza dell’accentata illegittimità del licenziamento è la riassunzione del lavoratore o, in alternativa, la corresponsione della prevista indennità, con esclusione, quindi, ai sensi dell’art 4 della legge n. I08 del 1990, della reintegrazione nel posto di lavoro. • Cassazione sezione lavoro, sentenza 5 aprile 2003 n. 5401 47 Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Cessazione del rapporto di lavoro -Organizzazioni di tendenza - Lavoro e fattore religioso - Tutela reale del lavoratore Applicabilità - Presupposti - Esclusione - Caratterizzazione ideologica della organizzazione - Irrilevanza. Massima: In materia di licenziamento del lavoratore subordinato, la disciplina stabilita per le c.d. «organizzazioni di tendenza» dall’art. 4 L. n. 108 del 1990, che esclude l’operatività della tutela reale stabilita dall’art. 18 L. n. 300 del 1970, è applicabile alle associazioni che svolgono senza fini di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione, ovvero di religione, non essendo necessario che dette attività presentino una «caratterizzazione ideologica», che pure può connotare alcune di esse (nella specie, la Suprema Corte, cassando la sentenza di merito, ha affermato che l’attività svolta dall’associazione ricorrente – associazione italiana per l’assistenza agli spastici – di «natura culturale» e consistente nella «promozione dello sviluppo della cultura dell’handicap», è riconducibile alla previsione dell’art. 4 L. n. 108 del 1990). • Cassazione sezione lavoro, sentenza 6 agosto 2003 n. 11883 Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Cessazione del rapporto di lavoro -Organizzazioni di tendenza - Tutela reale - Esclusione - Disciplina sul trasferimento Applicabilità - Sussistenza. Massima: In base al disposto dell’art. 4 della 1. n. 108 del 1990, i lavoratori dipendenti dalle organizzazioni di tendenza (nel caso di specie, l’lnas) non godono del la tutela reale di cui all’art. 18 della 1. n. 300 del 1970, ma godono comunque della tutela prevista per la generalità dei lavoratori; in particolare, deve escludersi l’esenzione delle organizzazioni di tendenza dalla regolamentazione legislativa dei trasferimenti dei lavoratori. • Cassazione sezione lavoro, sentenza 28 agosto 2003 n. 12634 48 Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Cessazione del rapporto di lavoro -Organizzazioni di tendenza - Tutela reale - Inapplicabilità - Presupposti - Datore di lavoro non imprenditore - Necessità - Fattispecie relativa all’Associazione nazionale bieticoltori. Massima: Al fine di configurare un’organizzazione di tendenza, che, ai sensi dell’art. 4 della 1. n. 108 del 1990, è esclusa dall’ambito di operatività de lla tutela reale prevista - in caso di licenziamenti illegittimi - dall’art. 18 della 1. n. 300 del I970, è necessario che si tratti di datore di lavoro «non imprenditore», privo dei requisiti previsti dall’art. 2082 C.C. (e cioè professionalità, organizza zione, natura economica dell’attività). In particolare, l’applicazione della disciplina prevista dalla predetta 1. n. 108 del 1990 per le organizzazioni di tendenza presuppone 1’accertamento in concreto da parte del giudice di merito dell’assenza nella sin gola organizzazione di una struttura imprenditoriale e della presenza dei requisiti tipici dell’organizzazione di tendenza, come definita dalla stessa legge, all’art. 4. (Nella specie la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto la natura di organizzazione di tendenza dell’Associazione nazionale bieticoltori, argomentando dalla natura della stessa di ente con personalità giuridica privata, senza finalità di lucro, in quanto avente lo scopo della tutela degli interessi collettivi professionali della categoria dei coltivatori di bietole, e priva del carattere imprenditoriale, non svolgendo alcuna attività economica). Note a sentenza: RIDL II/2004, pp. 618 ss., nota AVONDOLA • Cassazione sezione lavoro, sentenza 26 gennaio 2004 n. 1367 Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Cessazione del rapporto di lavoro - Organizzazioni di tendenza - Criteri di identificazione - Imprenditorialità o meno dell’attività - Indici - Scopo di lucro - Necessità - Esclusione - Limitazione dell’attività di tipo imprenditoriale ai soli associati - Idoneità - Esclusione - Fattispecie. 49 Massima: Ai fini dell’applicazione dell’art 4 della legge 11 maggio 1990, n. 108, che esclude dall’ambito di operatività dell’art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300 i datori di lavoro non imprenditori che svolgono senza fini di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto, il datore di lavoro è qualificabile o meno imprenditore in base alla natura dell’attività da lui svolta, da valutare secondo gli ordinari criteri, che fanno riferimento al tipo di organizzazione e all’economicità della gestione, a prescindere dall’esistenza di un vero e proprio fine di lucro, restando irrilevante che la prestazione di servizi, ove effettuata secondo modalità organizzative ed economiche di tipo imprenditoriale, sia resa solo nei confronti di associati al soggetto che tali servizi eroga ovvero ad un’organizzazione sindacale cui il soggetto erogatore sia collegato. (Nella specie, la sentenza impugnata, confermata dalla S.C., aveva ritenuto di tipo imprenditoriale l’attività di prestazione di servizi svolta dalla Confesercenti, o società a questa collegate, in favore di imprese associate). Note a sentenza: MGL 2004, pp. 693 ss., nota GRAGNOLI. • Corte di Appello di Venezia, sentenza 6 febbraio 2004 Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Cessazione del rapporto di lavoro - Licenziamento di dirigente - Organizzazioni di tendenza - Clausola di durata minima garantita salva la sussistenza di grave inadempienza del dirigente - Grave dissenso ideologico - Giusta causa di licenziamento ex art. 2119 cc - Sussistenza - Grave inadempienza contrattuale - Esclusione - Diritto alla corresponsione delle retribuzioni sino alla durata minima garantita - Sussistenza. Massima: In un’organizzazione di tendenza è legittimo il licenziamento a norma dell’art. 2119 codice civile di un dirigente apicale per grave dissenso ideologico, ma tale condotta non costituisce grave inadempienza del contratto di lavoro, tale da esonerare l’organizzazione dal rispetto di una clausola di durata minima del rapporto. Ne consegue la condanna dell’organizzazione alla corresponsione delle retribuzioni sino alla data di durata minima pattuita. 50 Note a sentenza: D&L IV/2004, pp. 990 ss., nota MANCINI. • Cassazione sezione lavoro, sentenza 16 febbraio 2004, n. 2912 Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Cessazione del rapporto di lavoro - Organizzazioni di tendenza - Lavoro e fattore religioso - Tutela reale - Esclusione Condizione - Requisiti - Accertamento - Necessità. Massima: In tema di licenziamento, l’applicabilità della disciplina prevista per le cosiddette organizzazioni di tendenza dall’art. 4 L. 11 maggio 1990 n. 108 (con conseguente esclusione, nei loro confronti, della tutela reale di cui all’art. 18 L. 20 maggio 1970, n. 300), presuppone l’accertamento in concreto, da parte del giudice di merito, della presenza dei requisiti tipici dell’organizzazione di tendenza, definita come datore di lavoro non imprenditore che svolge, senza fine di lucro, attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione, ovvero di religione e di culto, e, più in generale, qualunque attività prevalentemente ideologica purché in assenza di una struttura imprenditoriale. • Corte di Appello di Napoli, sentenza 31 dicembre 2004 Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Organizzazione di tendenza Licenziamento per soppressione del posto di lavoro di organista da parte di Santuario religioso - Inapplicabilità della tutela reale Massima: Al Santuario va riconosciuta la natura di organizzazione di tendenza in relazione alla quale l’articolo 4 della legge 11 maggio 1990, n. 108, esclude l’applicabilità dell’istituto della reintegra previsto dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Ed infatti, la ratio della predetta norma è quella di agevolare determinate attività che, pur presentando connotati economici, o pur essendo comunque svolte 51 secondo criteri di economicità, non perseguono precipuamente fini di lucro, essendo piuttosto orientate a scopi culturali, assistenziali o, più in generale, caratterizzate da vincoli di solidarietà di tipo professionale, ideologico, politico, sindacale o religioso. Ciò che appare decisivo ai fini della esclusione o meno del regime di tutela di cui all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, è l’accertamento – sulla base della previsione statutaria e del concreto operare dell’organizzazione – dello svolgimento di un’attività che, pur presentando connotati economici, risulti essere essenzialmente rivolta alla realizzazione di finalità culturali, politiche, sindacali, o – come nel caso in esame – religiose: cioè di un’attività che non sia meramente imprenditoriale (ossia volta a meri scopi lucrativi e speculativi), ma che appaia rivolta al perseguimento dei fini istituzionali pur attraverso la realizzazione di incrementi patrimoniali interni. In ogni caso, il licenziamento effettuato per giustificato motivo oggettivo è legittimo in quanto, come insegna la Suprema Corte, ai fini della configurabilità dell’ipotesi di soppressione del posto di lavoro, integrante – nella impossibilità di una diversa collocazione del dipendente – il giustificato motivo oggettivo del recesso, non è necessario che vengano soppresse tutte le mansioni in precedenza attribuite al lavoratore licenziato, atteso che le stesse ben possono essere soltanto diversamente ripartite e attribuite nel quadro del personale già esistente. • Tribunale di Padova, sentenza 18 gennaio 2005 Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Licenziamento - Imprese di tendenza - Carattere non imprenditoriale dell’attività - Onere della prova. Massima: In materia di licenziamento del lavoratore subordinato, è onere del prestatore di lavoro dimostrare la sussistenza del requisito dimensionale per la tutela reale; grava, invece, sul datore di lavoro, la prova di versare in una delle fattispecie previste dall’articolo 4, l. 108 del 1990, relative alle cd. “organizzazioni di tendenza”, atteso il carattere eccezionale e residuale delle stesse; l’app licabilità della disciplina contenuta nell’articolo 4 della suddetta legge richiede l’accertamento che il datore di lavoro non sia qualificabile come imprenditore ex art. 2082 C.C., alla stregua degli 52 ordinari criteri riferiti al tipo di organizzazione e alla economicità della gestione, a prescindere dalla esistenza di un vero e proprio fine di lucro. Non può negarsi il carattere di impresa agli istituti scolastici o educativi per il solo fatto che l’attività di insegnamento ed istruzione ivi svolta abbia natura intellettuale, atteso che tale natura inerisce la prestazione lavorativa dei docenti, ma non connota l’organizzazione aziendale complessivamente considerata. In particolare, l’istituto scolastico deve essere inquadrato fra le imprese industriali ai sensi dell’art. 2195 n. 1 C.C. – quale impresa produttrice di servizi – in quanto produce un servizio rappresentato dalla diffusione del sapere e della scienza, e cioè un risultato nuovo ed originale, diverso e autonomo dalle utilità fornite dai beni preesistenti. • Cassazione sezione lavoro, sentenza 7 aprile 2005 n. 7207 Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Licenziamento - Imprese di tendenza - Carattere non imprenditoriale dell’attività - Attività consistente in servizi di tipo alberghiero a ecclesiastici - Applicabilità dell’art. 4 l. 108/90 - Esclusione. Massima: Ai fini dell’applicazione dell’art. 4 della legge 11 maggio 1990, n. 108, che esclude dall’ambito di operatività dell’articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, i datori di lavoro non imprenditori che svolgono senza fini di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto, l’attività svolta - oltre ad avere carattere non imprenditoriale - deve rientrare in una delle previsioni della suddetta disposizione legislativa, avendo riferimento all’oggetto essenziale e qualificante della stessa e restando irrilevanti profili eventualmente secondari rispetto ai quali la prima abbia autonomia. (In applicazione di tali principi, la Corte ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto l’applicabilità dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori all’Ente datore di lavoro, la cui attività essenziale affidata a soggetto giuridico avente come scopo il suo svolgimento - consiste nel fornire servizi di tipo alberghiero ad ecclesiastici residenti a Roma per lavoro o transitanti, restando irrilevante l’attività svolta dagli ospiti e le modalità di offerta del servizio, 53 quali la possibilità di svolgere all’interno attività di culto, ai fini di far rientrare l’attività in quelle di religione o di culto). Note a sentenza: D&L IV/2004, pp. 873 ss., nota CIVITELLI. • Cassazione sezione lavoro, sentenza 15 aprile 2005 n. 7837 Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Cessazione del rapporto di lavoro - Organizzazioni di tendenza - Licenziamento illegittimo - Giusta causa. Massima: Per verificare se al rapporto di lavoro dei civili dipendenti di uno Stato membro o di un organismo della Nato (il cui rapporto di lavoro è disciplinato dalla legge sostanziale e processuale dello Stato ospitante) si applichi, in caso di licenziamento illegittimo, ove il datore di lavoro abbia sede in Italia e sussistendone il presupposto dimensionale, la tutela reale prevista dalla formulazione attuale dell’artic olo 18 St. Lav., o l’art. 8, l. n. 604 del 1966, che consente al datore di lavoro qualificabile come “organizzazione di tendenza” la scelta tra la riassunzione del dipendente e il pagamento di un’indennità, il giudice di merito deve verificare se ricorrano i 3 requisiti richiesti dall’articolo 4, l. n. 108 del 1990 per configurare il datore di lavoro come organizzazione di tendenza: riconducibilità del datore di lavoro ad una delle tipologie di organizzazioni di tendenza indicate dallo stesso articolo; mancanza di scopo di lucro; mancanza di un’organizzazione imprenditoriale (nella specie, la Corte di Cassazione ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto applicabile la tutela reale alla dipendente civile di una clinica militare americana sita all’interno di una base Nato con sede in Italia, sul presupposto – corretto – che lo Stato datore di lavoro fosse un’organizzazione di tendenza, priva per definizione di uno scopo di lucro, ma che non risultasse provato che la clinica ove veniva svolta l’atti vità non costituisse una struttura organizzativa in forma di impresa, circostanza il cui onere probatorio incombeva sul datore di lavoro). 54 Motivazioni (punti essenziali): La Corte ricorda come a seguito della riforma introdotta dalla legge n. 108 del 1990, «in linea di massima, il regime della tutela reale, ricorrendone i presupposti dimensionali, è generalizzato a tutti i datori di lavoro non potendo più distinguersi tra imprenditori e non imprenditori. Tuttavia, l’abbandono dell’aggancio del regime d ella tutela reale all’identificabilità di un imprenditore nel datore di lavoro si è accompagnato all’identificazione di un’area di immunità da questa garanzia più accentuata del lavoratore nei confronti del licenziamento illegittimo con la conseguente applicabilità della garanzia più blanda della tutela obbligatoria identificata nell’art. 8 della legge n. 604 del 1966» (così, tra l’altro, Cass. 7 gennaio 2003, n. 26). «I1 legislatore ha ritenuto, nella sua discrezionalità, che in quelle che sono state definite come organizzazioni di tendenza non potesse obbligarsi il datore di lavoro a reintegrare il lavoratore illegittimamente licenziato (ex art. 18 St. Lav.), dovendo invece consentirsi a quest’ultimo la scelta, prevista dall’art. 8, legge n. 604/1966, tra la riassunzione del dipendente ed il pagamento di un’indennità». «La libertà di associazione, già tutelata di per sé come diritto costituzionalmente protetto in un ordinamento pluralista e democratico (art. 18 Cost.), esprime poi un associazionismo qualificato, meritevole per i fini che persegue di una disciplina differenziata senza che ne soffra il principio di eguaglianza. Si tratta, secondo la catalogazione dell’art. 4 cit., dei partiti che concorrono, con metodo democratico, a determinare la politica nazionale (art. 49 Cost.); dei sindacati, che liberamente possono essere costituiti per la tutela dei lavoratori (art. 39 Cost.); delle organizzazioni ed istituzioni di cultura, il cui sviluppo è promosso dalla Repubblica (art. 9 Cost.), o di quelle di istruzione, la quale è libera e garantita (art. 33); delle associazioni confessionali o enti religiosi o di culto, che esprimono la libertà di fede religiosa in forma associata (art. 19 Cost.)». Il particolare rilievo, anche costituzionale. di questa forma di associazionismo qualificato - aggiunge la Corte «giustifica una disciplina differenziata ed un bilanciamento con il diritto al lavoro in termini tali da preservare la «tendenza» condivisa dagli associati. Da una parte il licenziamento illegittimo, in quanto non assistito da giusta causa o giustificato motivo, deve avere una sanzione proporzionata al bene leso; d’altra parte la compagine degli associati non deve essere permeabile all’inserimento forzoso di un apporto lavorativo non accettato». La garanzia della «tendenza» passa quindi attraverso una necessaria opzione dell’associazione datrice di lavoro tra la riattivazione effettiva del rapporto 55 ingiustamente troncato ed una compensazione indennitaria; opzione (del datore di lavoro) che è presente nell’art. 8 cit., ma non anche nell’art. 18 cit. (che invece prevede solo un’opzione del lavoratore). L’associazione di tendenza deve poter «scegliere» perché la mancanza di opzione ridonda in indiretta limitazione della sua libertà; e questo regime preferenziale, che certamente deroga al principio di eguaglianza, è giustificato proprio dal rilievo costituzionale della «tendenza». La Suprema Corte osserva che da questa connotazione marcatamente derogatoria della norma speciale rispetto alla regola generale applicabile a tutti gli altri datori di lavoro in forma associata, imprenditori e non imprenditori, consegue poi «da una parte il carattere, in linea di massima, chiuso della catalogazione contenuta nell’art. 4 cit. (salva semmai la necessità di un’interpretazione adeguatrice in relazione ad organizzazioni di tendenza la cui mancata inclusione possa far insorgere un dubbio non manifestamente infondato di legittimità costituzionale) e d’altra parte un criterio interpretativo stretto dell’eccezione rispetto alla regol a». Questa connotazione di eccezionalità è poi marcata anche dal fatto che l’art. 4 della legge n. 108/1990 non si limita ad elencare le organizzazioni di tendenza destinatarie della disciplina di favore; pone anche due ulteriori requisiti: occorre che non si tratti di «imprenditori» e che non vi sia un «fine di lucro». Quindi, ad esempio, l’impresa di tendenza come anche l’impresa non profit non rientrano nella fattispecie dell’art. 4 cit. e sono invece soggette alla regola generale dell’applicabilità dell a tutela reale. Di conseguenza, l’esonero dalla tutela reale richiede un triplice requisito (uno in positivo e due in negativo): l’identificabilità di un’organizzazione di tendenza nominata, la mancanza dello scopo di lucro, la mancanza di un’impresa. In r elazione a quest’ultimo requisito (la mancanza di un’impresa), in coerenza con la rilevata esigenza di interpretazione stretta della deroga al canone generale della tutela reale, la nozione di «impresa» è stata descritta in termini per così dire aziendalistici, con riferimento al modo di esercitare una certa attività, piuttosto che nei più rigorosi (e limitati) termini desumibili dalla definizione di imprenditore contenuta nell’art. 2082 cod. civ.. Non occorre identificare un imprenditore in senso stretto, assoggettato alla disciplina dell’impresa (ad es. alla possibilità di dichiarazione di fallimento); è sufficiente che «l’attività dell’associazione sia organizzata a modo di impresa e quindi secondo un criterio di economicità». In tal caso la tutela della tendenza lascia il posto alla tutela del lavoro che esige una maggiore 56 efficacia proprio perché il datore di lavoro, operando secondo criteri di economicità, non si differenzia poi molto dal datore di lavoro che sia un vero e proprio imprenditore e lo stesso conflitto di interessi con il lavoratore si presenta in tal caso in termini sostanzialmente analoghi (ossia potenzialmente conflittuali). Precedenti in termini: Cassazione sezione lavoro, sentenza 16 giugno 1994, n. 5832 (Se un istituto religioso, perseguendo la «tendenza» che lo connota, si determina anche a gestire una scuola aperta al pubblico, eroga certamente un servizio che in tanto non è «impresa» per gli effetti di cui all’art. 4 cit. in quanto non sia gestito secondo criteri di economicità); Cassazione Sezioni Unite, sentenza 1° ottobre 1996, n. 8588 (relativa ad un licenziamento intimato già nella vigenza della legge n. 108 del 1999 e riguardante una fattispecie assai simile; in quel caso, la Suprema Corte ha precisato che, per poter riconoscere il carattere di imprenditorialità all’attività dal datore di lavoro (associazione o ente) è necessario: a) che l’attività sia svolta con economicità, cioè che sia diretta al procacciamento di entrate remunerative dei fattori produttivi e non semplicemente rivolta al perseguimento di fini sociali dell’ente; b) che sussista una compiuta autonomia gestionale, implicante poteri deliberativi, ampia libertà di azione ed organizzazione, separata da quella dell’ente; autonomia finanziaria, consistente nella tendenziale capacità di trarre i mezzi necessari alla copertura dei costi - ed un eventuale utile - dai ricavi delle attività produttive, e non da sovvenzioni sistematiche; autonomia contabile, caratterizzata dalla redazione di bilanci separati per il controllo dell’economicità della gestione. Note a sentenza: Giustizia civile III/2006, pp. 633 ss., nota ALBI. • Tribunale di Vasto, sentenza 16 marzo 2006 Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Cessazione del rapporto di lavoro - Organizzazioni di tendenza - Licenziamento illegittimo. 57 Massima: E’ illegittimo il licenziamento comminato a un lavoratore da una fondazione, per aver ininterrottamente prestato l’attività lavorativa in favore di un’altra ditta (di proprietà della moglie) dalle 15.30 alle 19.30 di ogni giorno, eccetto il sabato. Il divieto per i lavoratori di prestare la propria attività lavorativa a carattere continuativo al di fuori del rapporto di lavoro (con esclusione dei part-time) - previsto come giusta causa di risoluzione del rapporto nel Ccnl applicato - non trova applicazione nella fattispecie esaminata in quanto trattasi di una abituale presenza nell’esercizio commerciale della moglie da parte del lavoratore e non di prestazione lavorativa continuativa. Note a sentenza: Guida al lavoro 34/2006, pp. 23 ss., nota PIETROSANTI. 3.2. Stabilità reale e requisiti dimensionali A seguito dell’intervento della l. n. 108/1990, l’area della stabilità reale originariamente prevista dall’art. 18 st. lav. si è notevolmente allargata. Vi rientran o ora: i datori di lavoro imprenditori e non imprenditori che complessivamente occupano più di 60 dipendenti, comunque l’attività sia organizzata. Rientrano inoltre nel campo di applicazione della stabilità reale le unità produttive con più di 15 dipendenti, anche se costituiscono articolazioni organizzative di imprese o organizzazioni con meno di 60 dipendenti. Il regime della stabilità reale si applica altresì ai datori di lavoro imprenditori e non imprenditori che, nell’ambito dello stesso Comune, occupa no più di 15 dipendenti e alle imprese agricole, che nel medesimo ambito territoriale, occupano più di 5 dipendenti, anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti. Tra i datori di lavoro non imprenditori sono in ogni caso esclusi quelli «che svolgono, senza fini di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto», di cui abbiamo dato conto nel paragrafo precedente. 58 Rientrano tutti e senz’altro nell’area della stabilità reale i licenziamenti discriminatori, colpiti da nullità (supra, capitolo 2). L’occasione per definire in modo chiaro, semplice e preciso il campo di applicazione dei diversi regimi sanzionatori non è stata colta appieno: permane nella l. n. 108/1990 il riferimento ai lavoratori occupati nell’unità produttiva, come soglia numerica minima per l’applicazione della stabilità reale, e tale riferimento può riproporre, sia pure in una misura più limitata rispetto al passato, quella coesistenza di diversi regimi dei licenziamenti all’interno della stessa impresa od organizzazione non imprenditoriale in ragione della diversa consistenza delle diverse unità produttive, che la legge avrebbe dovuto togliere di mezzo . Ancora oggi può infatti avvenire che, in un’impresa con meno di 60 dipendenti, i lavoratori godano della stabilità reale se occupati invece in un’unità produttiva con più di 15 dipendenti, e della sola stabilità obbligatoria, se occupati in una unità produttiva di minori dimensioni, mentre i lavoratori occupati in unità produttive minime facenti capo ad imprese con più di 60 dipendenti hanno comunque diritto alla stabilità reale. Benché il riferimento all’unità produttiva non abbia più una giustificazione plausibile (nella impresa con più di 60 dipendenti il numero degli addetti all’unità produttiva diviene irrilevante), la legge continua ad utilizzarlo (riproducendo alla lettera la formulazione dell’art. 35 st. lav.) come ambito entro cui procedere al computo dei dipendenti a fini di applicazione dell’uno o dell’altro regime, e occorre perciò richiamarne la nozione. Per unità produttiva si intende un’articolazione organizzativa (sede, stabilimento, reparto, ufficio) dotata di una propria autonomia amministrativa e funzionale. L’autonomia del la struttura organizzativa è considerata l’elemento centrale della sua definizione, anche se se ne danno letture diverse: da quella minimalista che ritiene sufficiente l’autonomia tecnico -funzionale, a quella più rigorosa, propria della giurisprudenza prevalente, che definisce come unità autonoma «quella struttura organizzativa che costituisce dell’impresa una rilevante componente, per essere capace di realizzare, con i connotati dell’indipendenza tecnica e amministrativa, una “frazione” dell’attività azien dale» (Cass. 13 giugno 1998). Una volta verificata l’autonomia dell’unità produttiva , pone problemi delicati il computo del numero dei dipendenti necessario al raggiungimento della soglia fissata dalla legge per l’applicazione della stabilità reale. Seco ndo un consolidato 59 orientamento, occorre a tal fine prendere in considerazione la “media occupazionale” nel periodo antecedente l’epoca del licenziamento, guardando alla “normale occupazione” nel periodo antecedente il licenziamento, al fine di non incenti vare condotte elusive in prossimità del licenziamento: una riduzione del personale in prossimità del licenziamento può essere rilevante, alla condizione che «risulti conseguenza non di condotte elusive del datore di lavoro ma di oggettive ed accertate condizioni di mercato e/o di comprovate esigenze economiche dell’impresa, tali da far ragionevolmente ritenere una ormai stabile contrazione dell’attività produttiva e, conseguentemente, anche una definitiva riduzione della manodopera al di sotto del numero di 15 dipendenti» (Cass. 8 maggio 2001, n. 6421) . Si ricorda, infine, che l’art. 18, 1° co., fa generico riferimento ai “dipendenti”: esclusi senz’altro dal computo i lavoratori non subordinati (anche se collaboratori coordinati e continuativi), risultano attualmente esclusi anche lavoratori subordinati occupati con particolari forme di contratto di lavoro (diverse dal tradizionale rapporto di lavoro subordinato a tempo pieno e indeterminato): così i lavoratori assunti a termine per prestazioni di carattere puramente occasionale , i lavoratori a domicilio, gli apprendisti (art. 53, 2° co., d.lg. n. 276/2003), i lavoratori assunti con contratto di inserimento (art. 59, 2° co., d.lg. n. 276/2003). Sono esclusi dal computo dei dipendenti dall’utilizzatore i lav oratori somministrati (art. 22, 5° co., d.lg. n. 276/2003); per quanto riguarda i lavoratori a tempo parziale, l’art. 18, 2° co., nell’attuale formulazione, prevede che si tenga conto dei soli lavoratori assunti a tempo indeterminato, e che il computo sia effettuato con un meccanismo idoneo a rapportarne la prestazione a quella del lavoratore a tempo pieno . Sono infine esclusi i soci lavoratori e i parenti del datore di lavoro. SCHEDE DELLE SENTENZE • Cassazione sezione lavoro, sentenza 20 gennaio 2000 n. 609 60 Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto Licenziamento - Reintegrazione - Computo dei lavoratori dipendenti - Tutela reale e obbligatoria. Massima: Nel computo del dato numerico previsto come criterio dimensionale dell’unità produttiva ai fini dell’applicabilità dello Statuto dei lavoratori e, in particolare, del regime di stabilità reale ex art. 18 della legge 300 del 1970, il numero dei lavoratori dipendenti va accertato con riguardo al criterio della normale occupazione, il quale implica il riferimento alle unità lavorative in servizio secondo la media e normale produttività dell’impresa, valutata con riguardo non alla data di intimazione del licenziamento illegittimo, bensì al periodo occupazionale antecedente la data dell’intimazione dello stesso. Precedenti in termini: Cassazione sezione lavoro n. 3450/1997, Cassazione sezione lavoro n. 2756/1996, Cassazione sezione lavoro n. 1298/1996, Cassazione sezione lavoro n. 1815/1993 hanno ribadito il c.d. principio della normalità dell’occupazione, in virtù del quale l’accertamento del numero dei dipendenti occupati da un’unità produttiva va compiuto considerando i lavoratori in servizio alla stregua delle medie e normali esigenze produttive dell’azienda, in riferimento n on già alla data dell’intimazione del licenziamento, ma anche a un periodo antecedente a essa. La «ratio» di tale principio, come sottolinea lo stesso Supremo consiglio, è da ritrovarsi nell’esigenza di valutare la consistenza occupazionale dell’azienda da un punto di vista il più possibile obiettivo e congruente con l’ordinaria attività dell’impresa, senza possibilità che assumono rilevanza episodi transeunti i quali, inficiandone temporaneamente i limiti dimensionali, comportino variazioni nel numero dei lavoratori occupati. • Cassazione sezione lavoro, sentenza 8 maggio 2001 n. 6421 Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto Licenziamento individuale - Reintegrazione nel posto di lavoro (tutela reale) - 61 Presupposti - Requisito numerico - Accertamento - Criteri - Normale produttività dell’impresa - Rilevanza - Riduzione dei dipendenti prima del licenziamento - Influenza - Limiti. Massima: Ai fini della sussistenza del requisito numerico, rilevante ai sensi degli articoli 18 e 35 Statuto dei lavoratori per l’applicabilità della tutela reale, il giudice deve accertare - con indagine di fatto insindacabile in sede di legittimità se adeguatamente motivata - la normale produttività dell’impresa (o della singola sede, stabilimento, ,filiale, ufficio o reparto autonomo) facendo riferimento agli elementi significativi al riguardo, quale ad esempio, la consistenza numerica del personale in un periodo di tempo, anteriore al licenziamento, congruo per durata e in relazione alla attività e alla natura dell’impresa; la riduzione del numero dei dipendenti in prossimità del licenziamento vale, peraltro, ad escludere la ricorrenza di quel presupposto, quando essa risulti frutto non di condotte elusive del datore di lavoro ma di oggettive condizioni di mercato o di comprovate esigenze economiche dell’impresa tali da far ragionevolmente ritenere una ormai stabile contrazione dell’attività produttiva e, conseguentemente, una definitiva riduzione della manodopera al di sotto del numero di quindici dipendenti. • Cassazione sezione lavoro, sentenza 20 luglio 2001 n. 9881 Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Statuto dei lavoratori - Unità produttiva - Nozione - Requisiti – Ciclo produttivo aziendale - Fattispecie. Massima: Costituisce unità produttiva, ai sensi del1 'art. 35 della legge n. 300 del 1970, non ogni sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto dell'impresa, ma soltanto la più consistente e vasta entità aziendale che, eventualmente articolata in organismi minori - anche non ubicati tutti nel territorio del medesimo comune - si caratterizzi per sostanziali condizioni imprenditoriali dì indipendenza tecnica ed amministrativa, tali che in essa si esaurisca per intero il ciclo relativo ad una frazione o ad un momento essenziale dell'attività produttiva aziendale. Deve escludersi, invece, 1 'autonomia, ai fini dell'integrazione di una separata unità produttiva ai sensi di legge, degli indicati 62 organismi minori, aventi scopi meramente strumentali e ausiliari rispetto ai fini produttivi dell'impresa. (Nella specie la S.C. ha confermato la sentenza impugnata nella quale sì era esclusa l'autonomia di un cosiddetto sportello o dipendenza di una banca che svolgeva solo attività meramente strumentali e ausiliarie rispetto a quelle della banca di appartenenza, avente sede in altro comune). • Tribunale di Milano, sentenza 20 dicembre 2001 Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Licenziamento - Giustificato motivo oggettivo - Chiusura di una sede periferica - Affidamento presso la sede centrale di mansioni equivalenti a consulente esterno - Obbligo di repêchage - Violazione Illegittimità del licenziamento - Identificazione di unità produttiva autonoma - Criteri. Massima: Il licenziamento di un lavoratore per giustificato motivo oggettivo è illegittimo qualora, pur essendo dimostrata l’avvenuta chiusura della sede periferica alla quale il dipendente era addetto, l’azienda abbia violato l’obbligo di repêchage attraverso il contemporaneo affidamento di mansioni analoghe presso la sede centrale ad un consulente esterno. Una dipendenza dell’impresa può essere considerata unità produttiva autonoma ai fini dei requisiti dimensionali di cui all’art. 18 SL solo allorché sia connotata da una organizzazione sufficiente a esplicare, in tutto o in parte, l’attività di produzione di beni e di servizi dell’impresa. Note a sentenza: D&L II/2002, pp. 433 ss., nota BORDONE. • Cassazione sezione lavoro, sentenza 17 maggio 2002 n. 7227 Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Licenziamento - Licenziamento individuale - Tutela reale - Condizioni - Requisiti dimensionali - Insussistenza - Onere della prova - Grava sul datore di lavoro attore o convenuto. 63 Massima: In tema di riparto dell’onere probatorio in ordine ai presupposti di applicazione della tutela reale o obbligatoria al licenziamento di cui sia stata accertata l’invalidità, grava sul datore di lavoro - sia se attore, sia se convenuto in giudizio l’onere di eccepire e provare 1’inesistenza del requisito occupazionale e perciò 1’impedimento all’applicazione dell’art. 18 legge n. 300 del 1970. Precedenti in termini: Cassazione sezione lavoro n. 613/1999, secondo cui la regola della ripartizione della prova, di cui all’articolo 5 della legge n. 604 del 1966, non è altro che l’applicazione alla responsabilità del datore di lavoro della regola generale di cui all’articolo 1218 codice civile in tema di onere della prova nella responsabilità contrattuale. Infatti, secondo i principi generali, la conseguenza del licenziamento illegittimo dovrebbe essere quella del risarcimento dei danni subiti dalla controparte (articolo 1223 codice civile). L’articolo 8 della legge n. 604 del 1966 prevede invece una forte attenuazione delle conseguenze a carico della parte inadempiente ed è allora giustificato - conclude Cass. n. 613 del 1999 - porre a carico di colui che pretende di essere esonerato da quelle che sarebbero le comuni sanzioni derivanti da un inadempimento (dettate dall’articolo 18 della legge n. 300 del 1970) l’onere di dimostrare la sussistenza dell e condizioni che determinano la riduzione degli effetti restitutori o risarcitori. Oltretutto, ad avviso del Collegio, addossare al datore di lavoro l’onere della prova in materia appare giustificato, oltre che dalle considerazioni sistematiche sopra accennate, anche dal rilievo che la circostanza da provare consiste in un dato di fatto ben noto al datore di lavoro e che risulta addirittura da libri, la cui tenuta è obbligatoria per legge. • Cassazione sezione lavoro, sentenza 1 settembre 2003 n. 12747 Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Licenziamento - Licenziamento individuale - Tutela reale - Requisito occupazionale - Onere probatorio a carico del lavoratore - Sussistenza - limiti - Richiesta d'ufficio di esibizione del libra matricolaMancata produzione - Desunzione di detto requisito sulla base del comportamento del datore - Ammissibilità. 64 Massima: Sebbene 1’onere di dimostrare la sussistenza del requisito dimensionale posto dall'art. 35 della 1. n. 300 del 1970 incomba sul lavoratore ille gittimamente licenziato che invochi la tutela prevista dall'art. 18 della medesima legge, il giudiceavendo il potere di provvedere anche d'ufficio agli atti istruttori sollecitati dalle parti che siano idonei a superare l'incertezza sui fatti costitutiv i - può legittimamente ordinare 1’esibizione del libro matricola per poter stabilire il numero dei dipendenti e trarre, ai sensi dell'art. 116 c.p.c., dalla mancata produzione la prova della esistenza del requisito dimensionale. • Cassazione sezione lavoro, sentenza 11 settembre 2003 n. 13375 Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Licenziamento - Licenziamento individuale - Tutela reale - Condizioni - Requisiti dimensionali - Insussistenza Applicabilità della tutela minore. Massima: In tema di inefficacia del licenziamento, se il dipendente illegittimamente licenziato ha chiesto l’applicazione dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970, e quindi anche il risarcimento del danno commisurato alle retribuzioni maturate dal giorno in cui il licenziamento ha trovato attuazione, il giudice, accertato che non sussistono i requisiti dimensionali per l’applicazione dell’art. 18, deve accordare, sussistendo i relativi presupposti, la tutela in tal caso applicabile (dichiarazione di inefficacia del licenziamento e risarcimento del danno), essendo tale tutela omogenea e di ampiezza minore rispetto a quella prevista dall’art. 18. • Cassazione sezione lavoro, sentenza 6 settembre 2003 n. 13058 Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Licenziamento - Licenziamento individuale - Giustificato motivo oggettivo - Indicazione delle ragioni determinanti la scelta del lavoratore licenziato - Onere a carico del datore di lavoro - Sussistenza. 65 Massima: In caso di licenziamento individuale giustificato dalla necessità di operare una riduzione del personale, ai fini di poter ritenere legittimo il licenziamento occorre che il datore di lavoro dimostri, anche indicando un ventaglio di ragioni concorrenti, i motivi che lo hanno indotto al licenziamento e a far ricadere la scelta sull’unica unità produttiva licenziata. • Tribunale di Siracusa, sentenza 20 gennaio 2004 Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Licenziamento disciplinare Obbligo di affissione - Irrilevanza - Fattispecie - Mancata osservanza dei requisiti formali - Illegittimità - Requisiti dimensionali - Mancata prova - Tutela obbligatoria Applicabilità. Massima: E’ illegittimo il licenziamento disciplinare comminato al lavoratore senza il rispetto dei requisiti di forma richiesti dall’art. 7 St. lav., posti a garanzia dell’esercizio del potere disciplinare, nonché senza la concessione del termine a difesa di cinque giorni, previsto dalla norma. Il giudice del lavoro ha, preventivamente, affrontato il problema della legittimità del licenziamento, in caso di mancata pubblicità del codice disciplinare. Nella sentenza in commento, si è affermato che, ai fini della validità del licenziamento disciplinare, non è necessaria la previa affissione del codice disciplinare «in presenza della violazione di norme di legge o comunque di doveri fondamentali del lavoratore, riconoscibili come tali senza necessità di specifica previsione. In proposito, i giudici di legittimità hanno precisato che la garanzia di pubblicità del codice disciplinare mediante l’affissione in un luogo accessibile a tutti i dipendenti, si applica al licenziamento disciplinare soltanto quando questo sia comminato per specifiche ipotesi di giusta causa o giustificato motivo, previste dal contratto collettivo o validamente poste dal datore di lavoro. Pertanto, non è possibile contestare la mancata affissione del codice disciplinare nel caso di situazioni giustificative del recesso previste direttamente dalla legge o manifestamente contrarie all’etica comune o concretanti violazione dei doveri fo ndamentali connessi al rapporto di lavoro. Tuttavia, il giudice ha dichiarato l’illegittimità del licenziamento disciplinare 66 perché intimato al lavoratore in violazione delle garanzie procedimentali previste dall’art. 7 legge n. 300/70 a garanzia del contr addittorio (nella fattispecie, mancava la previa contestazione dell’addebito). Il Tribunale di Siracusa, uniformandosi a un orientamento già espresso dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione ha affermato che il licenziamento disciplinare, irrogato senza I’osservanza delle garanzie procedimentali non è affetto da nullità, ma è ingiustificato; ciò comporta che il comportamento addebitato al lavoratore, anche se sussistente e astrattamente rientrante tra le ipotesi di giusta causa o giustificato motivo, non può essere addotto dal datore di lavoro per sottrarsi alle tutele approntate dall’ordinamento avverso i licenziamenti illegittimi. Tuttavia - come precisato dai giudici di legittimità - nel caso di inosservanza dei requisiti di forma, il licenziamento è insuscettibile di produrre effetto risolutivo del rapporto di lavoro soltanto nell’ambito di applicazione della tutela reale ex art. 18 legge n. 300/70. Nel caso, invece, di dipendenti di imprese che non presentino i requisiti dimensionali richiesti dall’ art. 18 St. lav. o di recesso ad nutum con preavviso ex art. 2118 cod. civ., si applicheranno i diversi rimedi approntati dal legislatore avverso i licenziamenti illegittimi, ma facendo salvi gli effetti risolutivi del licenziamento. Nel caso di specie, il giudice ha rilevato che, non essendo stato allegato, né tanto meno provato il requisito dimensionale richiesto dall’art. 18, legge n. 300/70 per poter disporre la reintegra della lavoratrice, si deve fare applicazione dell’art. 8 legge n. 604/66, con conseguente condanna a riassumere entro tre giorni la dipendente licenziata, ovvero a corrispondere, in suo favore, l’indennità nella misura stabilita dalla legge. Sul punto, la Cassazione sostiene che incombe sul lavoratore l’onere di allegare le circostanze volte a dimostrare i requisiti dimensionali dell’azienda, al fine di poter usufruire del rimedio della reintegra previsto dall’art. 18 St. lav. In mancanza, il giudice può, comunque, sempre avvalersi dei poteri istruttori riconosciuti dall’art. 421 cod. proc. civ.. • Cassazione sezione lavoro, sentenza 10 febbraio 2004 n. 2546 Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Licenziamento - Tutela reale Computo dei dipendenti - Criterio della normale occupazione - Rilevanza - Variabilità 67 del livello occupazionale connessa al carattere dell’attività produttiva - Criterio mediostatistico - Applicabilità - Fattispecie in tema di datore di lavoro esercente attività alberghiera stagionale. Massima: Ai fini della operatività della tutela reale contro i licenziamenti individuali illegittimi, il computo dei dipendenti va accertato sulla base del criterio della normale occupazione, da riferirsi al periodo di tempo antecedente al licenziamento e non anche a quello successivo. Nel caso in cui poi la variabilità del livello occupazionale sia strutturalmente connessa al carattere dell’attività produttiva, quale quella alberghiera, che richiede normalmente il ricorso al contratto a termine o al parttime verticale, il riferimento al criterio medio-statistico della normale occupazione trova conferma nella specifica disciplina del part-time e, per l’individuazione dell’arco di tempo in cui calcolare tale media, il periodo temporale utilizzabile più appropriato è quello riferito all’anno. (Nella specie, la sentenza impugnata , confermata dalla S. C., pur ritenendo illegittimo il licenziamento intimato ad una lavoratrice da una società che gestiva un albergo operante nel periodo primaverile ed estivo, aveva rigettato la domanda di reintegrazione nel posto di lavoro avendo accertato che nell’anno antecedente al licenziamento la media annuale dei lavoratori occupati alle dipendenze di quella società era stata di quindici dipendenti). • Cassazione sezione lavoro, sentenza 23 aprile 2004 n. 7735 Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Licenziamento - Tutela reale Requisito dimensionale ex art. 35 st. lav. - Accertamento da parte del giudice - Mancata contestazione specifica del datore di lavoro in ordine alle allegazioni del lavoratore Desunzione della sussistenza dei requisito - Legittimità. Massima: Con riguardo alla richiesta del lavoratore di essere reintegrato nel posto di lavoro ai sensi dell’art.18 della 1. n. 300 del I970 (statuto dei lavoratori) per invalidità del licenziamento, legittimamente il giudice può desumere la sussistenza del 68 requisito dimensionale previsto dall’art. 35 della stessa legge per la reintegrazione dalla mancata contestazione specifica, da parte del datore di lavoro, in ordine alle allegazioni del lavoratore, che la stessa richiesta di reintegrazione implica. Cassazione sezione lavoro, sentenza 25 novembre 2004 n. 22271 Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Prova - Fatto notorio Determinazione del requisito dimensionale dell’impresa in un’ipotesi di applicazione dell’art. 18 s t. lav. - Potere discrezionale del giudice - Ammissibilità - Censurabilità in Cassazione - Limiti. Massima: Il ricorso alle nozioni di comune esperienza attiene all’esercizio di un potere discrezionale riservato al giudice di merito, il cui giudizio, a meno che non sia stata posta a base della decisione una inesatta nozione del notorio, è sottratto al sindacato di legittimità. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto «notoria» la sussistenza del requisito dimensionale dell’impresa delle Ferrovie dello Stato, in relazione al numero minimo di dipendenti occupati, ai fini dell’applicazione dell’art. 18 l. n. 300 del 1970). Note a sentenza: MGL 1-2/2005, pp. 74 ss., nota MANNACIO. • Tribunale di Padova, sentenza 1° dicembre 2004 n. 341 Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Impugnazione licenziamento Requisiti dimensionali ex art. 18 St. lav. - Onere della prova - Ricade sul lavoratore Contumacia del datore di lavoro - Mancata produzione del libro matricola richiesta dal giudice - Prova ex art. 116 C.P.C. dell'esistenza del requisito dimensionale per l’applicazione della tutela reale – Ammissibilità. 69 Massima: L’onere di provare i requisiti dimensionali che rendono applicabile la tutela reale incombe sul lavoratore che la invoca; tuttavia il giudice del lavoro, avendo il potere di provvedere anche d'ufficio agli atti istruttori sollecitati dalle parti che siano idonei a superare l’incertezza sui fatti costitutivi, può legittimamente ordinare l’esibizione in giu dizio del libro matricola e trarre, ai sensi dell’articolo 116 c.p.c., dalla mancata produzione la prova dell’esistenza dei requisiti dimensionali ex articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Note a sentenza: Guida al lavoro 17/2005, pp. 44 ss., nota BARRACO. • Cassazione sezione lavoro, sentenza 18 gennaio 2005 n. 881 Argomento della sentenza: Licenziamento - Licenziamento individuale - Tutela reale - Requisito dimensionale - Onere probatorio relativo gravante sul lavoratore Rinuncia all’eccezione da p arte del procuratore del datore di lavoro - Esenzione dall’onere probatorio . Massima: In tema di licenziamento individuale, l’onere di dimostrare la sussistenza del requisito dimensionale posto dall’art. 35 della l. n. 300 del 1970 grava sul lavoratore che, assumendo di essere stato illegittimamente licenziato, invochi la tutela prevista dall’art. 18 della medesima legge; tuttavia, qualora il procuratore del datore di lavoro rinunci – con atto che rientra nei suoi poteri, essendo una semplice modifica delle conclusioni precedentemente formulate e non integrando una rinunzia agli atti del giudizio – all’eccezione di mancato raggiungimento del requisito dimensionale da parte dell’impresa, tale dato diviene non contestato, e il giudice è tenuto a ritenerlo com e sussistente. • Cassazione Sezioni Unite, sentenza 10 gennaio 2006 n. 141 70 Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Controversie di lavoro e previdenziali - Licenziamento illegittimo -Tutela reale - Requisiti dimensionali dell’organizzazione azienda le - Onere della prova - Incombe sul datore di lavoro. Massima: In tema di riparto dell’onere probatorio in ordine ai presupposti di applicazione della tutela reale o obbligatoria al licenziamento di cui sia accertata l’invalidità, fatti costitutivi del d iritto soggettivo del lavoratore a riprendere l’attività e, sul piano processuale, dell’azione di impugnazione del licenziamento sono esclusivamente l’esistenza del rapporto di lavoro subordinato e l’illegittimità dell’atto espulsivo, mentre le dimensioni dell’impresa, inferiori ai limiti stabiliti dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970, costituiscono, insieme al giustifcato motivo del licenziamento, fatti impeditivi del suddetto diritto soggettivo del lavoratore e devono, perciò, essere provati dal datore di lavoro. Con l’assolvimento di quest’onere probatorio il datore dimostra - ai sensi della disposizione generale di cui all’art. 1218 cod. civ. - che l’inadempimento degli obblighi derivatigli dal contratto di lavoro non è a lui imputabile e che, comunque, il diritto del lavoratore a riprendere il suo posto non sussiste, con conseguente necessità di ridurre il rimedio esercitato dal lavoratore al risarcimento pecuniario. L’individuazione di siffatto onere probatorio a carico del datore di lavoro persegue, inoltre, la finalità di non rendere troppo difficile l’esercizio del diritto del lavoratore, il quale, a differenza del datore di lavoro, è privo della “disponibilità” dei fatti idonei a provare il numero dei lavoratori occupati nell’impresa. Note a sentenza: RIDL II/2006, pp. 440 ss., nota VALLEBONA; ADL II/2006, pp. 594 ss., nota MELEGATTI; Guida al lavoro 6/2006, pp. 494 ss., nota BOGHETICH; DML I/2006, pp. 157 ss., nota SCALA e FAGELLA; LG III/2006, pp. 265 ss., nota NUVOLI e PICCININI • Cassazione sezione lavoro, sentenza 16 giugno 2006 n. 13945 Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto Licenziamento individuale - Tutela reale - Requisito occupazionale - Fatto costitutivo 71 dell’azione di impugnativa del licenziamento - Esclusione - Fatto impeditivo Configurabilità - Individuazione del relativo onere probatorio - A carico del datore di lavoro - Sussistenza - Fondamento. Massima: Spetta al datore di lavoro provare che l’articolo 18 della legge n. 300/1970 – e, quindi, la tutela reale del lavoratore con la reintegrazione nel posto di lavoro – non è applicabile per l’insussistenza del cd. requisito dimensionale ( id est, di determinate dimensioni dell’organizzazione produttiva datrice di lavoro commisurate sul numero dei lavoratori occupati). Per quanto riguarda il criterio di distribuzione dell’onere della prova basato sulla vicinanza o disponibilità dei relativi strumenti, esso tanto più deve valere quanto trattasi del “requisito occupazionale” risultante non soltanto dal numero degli occupati, ma pure ed eventualmente, dal loro status nell’impresa, o anche personale, come risulta espressamente dall’art. 18. 72 4. Il residuo campo di applicazione del recesso ad nutum: il licenziamento del dirigente Malgrado l’allargamento dell’area della stabilità obbligatoria, permane un’area ristretta e residuale nella quale trova ancora disciplina il recesso ad nutum (art. 2118 c.c.). Rientrano in questa area i dirigenti d’azienda, che, ai sensi dell’art. 10, l. n. 604/1966, sono esclusi dall’applicazione della disciplina legale dei licenziamenti, fatta eccezione per l’art. 2, 1° co., l. n. 604/1966, che a seguito della modifica introdotta con la l. n. 108/1990 estende ai dirigenti la prescrizione della forma scritta della comunicazione del licenziamento, e per l’art. 3, l. n. 108/1990 (licenziamento discriminatorio) espressamente esteso ai dirigenti. L’esclusione dei dirigenti dalla disciplina legale dei licenziamenti è stata più volte affrontata dalla Corte Costituzionale, che ha sempre affermato la legittimità di tale esclusione, in considerazione dello stretto vincolo fiduciario che caratterizza il rapporto: tuttavia la Corte ha affermato che, pur cadendo il rapporto del dirigente nell’area della libera recedibilità, deve essere riconosciuta al dirigente la tutela contro atti che ledono la sua dignità (menzionando espressamente il licenziamento disciplinare senza garanzie procedimentali: sentenza n. 309/1992). A fronte della limitata parte della disciplina legale dei licenziamenti applicabile ai dirigenti, la disciplina convenzionale assicura loro, in caso di licenziamento ingiustificato, un’indennità supplementare variabile tra un minimo ed un massimo di mensilità di retribuzione, ma il licenziamento ingiustificato produce comunque l’effetto di estinguere il rapporto. Le discipline contrattuali sono diverse a seconda dei settori; in alcuni casi prevedono oltre alla comunicazione scritta del licenziamento anche la comunicazione contestuale dei motivi del licenziamento3; in ogni caso il dirigente che ritenga ingiustificato il licenziamento può fare ricorso al Collegio arbitrale previsto dal contratto collettivo: l’arbitrato è irrituale, e dunque il dirigente può optare per l’azione 3 Ma la Cassazione ha affermato: a) che l’obbligo di specificazione contestuale dei motivi non preclude la loro integrazione in corso di giudizio, poiché ai dirigenti non si applicano i criteri di immediatezza e specificità della contestazione dei fatti addebitati (Cass. 1° aprile 1999, n. 3148; ma v. in senso contrario T. Milano 26 gennaio 2005); b) che anche nell’ipotesi di violazione dell’art. 2, l. n. 604/1966 (comunic azione per iscritto del licenziamento) il dirigente avrà diritto solo all’indennità supplementare e non al ripristino del rapporto (Cass. 18 novembre 1999, n. 12603). 73 in giudizio, così come il datore di lavoro può rifiutare l’arbitrato; ma se entrambe le parti accettano l’arbitrato opera il principio electa una via non datur recursus ad alteram, e dunque l’azione in giudizio diviene improponibile. Sulla nozione di giustificato motivo di licenziamento del dirigente, frequente oggetto di controversie, si registra un orientamento giurisprudenziale consolidato nel senso che la nozione convenzionale non coincide con quelle (legali) di giusta causa e giustificato motivo di licenziamento del lavoratore subordinato, ma «è molto più ampia e si estende sino a comprendere qualsiasi motivo di recesso che ne escluda l’arbitrarietà, con i limiti del rispetto dei principi di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto e del divieto del licenziamento discriminatorio» (Cass. 17 gennaio 2005, n. 775). La ragione di tale ampiezza della giustificazione sta nel «legame di fiducia col datore di lavoro, nel cui ambito rientra l’ampiezza dei poteri attribuiti: maggiori poteri presuppongono una maggiore intensità della fiducia e uno spazio più ampio dei fatti idonei a scuoterla» (Cass. 7 agosto 2004, n. 15322). SCHEDE DELLE SENTENZE • Corte Costituzionale, sentenza 1° luglio 1992 n. 309 Giudizio: GIUDIZIO DI LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE IN VIA INCIDENTALE Argomento della sentenza: LAVORO (RAPPORTO DI) - DIRIGENTI FACOLTA' DI OPZIONE PER LA PROSECUZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO OLTRE L'ETA' PENSIONABILE PER IL CONSEGUIMENTO, AI FINI PREVIDENZIALI, DELLA MASSIMA ANZIANITA' CONTRIBUTIVA, MA SENZA LE GARANZIE DI STABILITA' DEL O P STO DI LAVORO DI CUI ALLE LEGGI NN. 604 DEL 1966 E 300 DEL 1970 - ESCLUSIONE - INGIUSTIFICATA DISPARITA' DI TRATTAMENTO RISPETTO AI LAVORATORI SUBORDINATI (IMPIEGATI ED OPERAI) BENEFICIANTI DI TALI GARANZIE - 74 INSUSSISTENZA - NON OMOGENEITA' DELLE CATEGORI E POSTE A CONFRONTO - LEGITTIMO ESERCIZIO, IN MATERIA, DELLA DISCREZIONALITA' DEL LEGISLATORE - NON FONDATEZZA DELLA QUESTIONE. Massima: Il riconoscimento, per i dirigenti, ex art. 6, primo comma, del d.l. n. 791 del 1981 (conv. in l. n. 54 del 1982), della facoltà di optare per la continuazione del rapporto di lavoro anche dopo il raggiungimento dell’età pensionabile, al fine di conseguire la massima anzianità contributiva, senza però - secondo l’interpretazione della prevalente giurisprudenza - poter fruire del diritto alle garanzie di stabilità del posto di lavoro previste dalle leggi n. 604 del 1966 e n. 300 del 1970 per i lavoratori subordinati (impiegati ed operai), non dà luogo a una disparità di trattamento, lesiva dell’art. 3 Cost.. Infatti, posto che il legislatore, nella sua discrezionalità, non ha inteso snaturare il rapporto 'de quo' ed assimilarlo in tutto a quello dei lavoratori subordinati, indubbiamente la disposizione in questione realizza un ragionevole bilanciamento degli interessi in gioco (dell’ente previdenziale, del lavoratore e del datore di lavoro) ed appare comunque produttiva di effetti utili nei confronti del dirigente, non potendosi negare, in presenza della effettuata opzione, la nullità del licenziamento ad esso intimato solo per ragioni di età. (Non fondatezza - in riferimento all’art. 3 Cost. - della questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, primo comma, d.l. 22 dicembre 1981, n. 791, conv. in l. 26 febbraio 1982, n. 54). Parametri costituzionali: Costituzione art. 3. Riferimenti normativi: decreto legge 22/12/1981 n. 791 art. 6 co. 1 (convertito ); legge 26/02/1982 n. 54. Note a sentenza: DL II/1992, pp. 304 ss., nota PILEGGI. • Cassazione sezione lavoro, sentenza 9 aprile 2003 n. 5526 75 Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto Licenziamento individuale - In genere - Licenziamento del dirigente - Disciplina applicabile. Massima: Si conferma la diversità del rapporto di lavoro dei dirigenti stricto iure rispetto a quello dei dirigenti “convenzionali”, diversità che trova ragione d’essere nella natura spiccatamene fiduciara che caratterizza in modo peculiare il rapporto dei dirigenti ex art. 2095 Cod. Civ. Il licenziamento ad nutum è applicabile solo al dirigente le cui effettive mansioni, nell’ambito dell’azienda, siano caratterizzate dall’ampiezza del potere gestorio, tanto da poter essere definito un vero e proprio alter ego dell’imprenditore, in quanto preposto all’ azienda o a un ramo di particolare autonomia ed importanza, in posizione di sostanziale autonomia, tale da influenzare l’andamento e le scelte dell’attività aziendale, sia al suo interno che nei rapporti con i terzi; con la precisazione che l’onere della prova che si versi effettivamente nella fattispecie prevista dall’art. 10 della legge n. 604 del 1966 è a carico del datore di lavoro. Note a sentenza: ADL III/2003, pp. 785 ss., nota PESSI. • Cassazione sezione lavoro, sentenza 27 agosto 2003 n. 12562 Argomento della sentenza: Dirigenti - Estinzione del rapporto - Disciplina contrattuale del licenziamento - Giustificatezza del recesso - Qualificazione Equiparabiltà alla nozione legale di giustificato motivo - Esclusione. Massima: Considerato il particolare modo di configurarsi del rapporto di lavoro dirigenziale, e la esclusione dal suo ambito di un licenziamento qualificato come disciplinare, ai fini della giustifcatezza del licenziamento stesso può rilevare qualsiasi motivo purché esso possa costituire la base per una motivazione coerente e sorretta da motivi apprezzabili sul piano del diritto, a fronte del quale non è necessaria una analitica 76 verifica di specifiche condizioni, ma è sufficiente una valutazione globale che escluda l’arbitrarietà del licenziamento (nella specie è stata ritenuta immune da vizi di motivazione la sentenza di appello laddove ha ritenuto che non integri un giustificato motivo di licenziamento, non essendo idonea a far venir meno il particolare rapporto fiduciario che lega il dirigente al datore di lavoro, la condotta di un dirigente il quale ritenendo pregiudicati i propri diritti, anche in base a una sua valutazione soggettiva, purché non manifestamente arbitraria né pretestuosa - chieda al datore di lavoro il ripristino di essi, prospettando in alternativa il ricorso al giudice). Note a sentenza: RGL IV/2004, pp. 765 ss., nota TUSINO. • Cassazione sezione lavoro, sentenza 3 gennaio 2005 n. 27 Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto Licenziamento individuale - In genere - Licenziamento del dirigente - Nozione di «giustificatezza» - Riferimento alle nozioni legali di giusta causa o di giustificato motivo di licenziamento - Necessità - Fattispecie. Massima: In tema di licenziamento dei dirigenti, per quanto non possa affermarsi che la nozione di «giustificatezza» coincida con quella di giustificato motivo di cui all’art. 3 della legge n. 604 del 1966, gli elementi di tale nozione devono essere ricostruiti dal giudice di merito – sulla scorta delle specifiche espressioni letterali delle clausole contrattuali - attraverso il riferimento alle nozioni legali di giusta causa o di giustificato motivo di licenziamento (Nella specie, Cass. ha ritenuto che il giudice di merito non avesse fatto corretta applicazione di questo principio per aver commisurato gli addebiti contestati esclusivamente in termini di lesione del vincolo fiduciario, nulla dicendo in ordine all’eventualità che gli stessi potessero integrare la giustificatezza, nel senso della non arbitrarietà o non pretestuosità, del licenziamento). Note a sentenza: MGL 5/2005, pp. 374 ss., nota GRAMICCIA. 77 • Cassazione sezione lavoro, sentenza 17 gennaio 2005 n. 775 Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Licenziamento - Licenziamento del dirigente - Giusta causa - Giustificatezza - Differenza. Massima: La nozione di «giustificatezza» del licenziamento, che rileva ai fini del riconoscimento del diritto all’indennità supplementare, spettante in base alla contrattazione collettiva al dirigente, non coincide con quella di «giusta causa» o di «giustificato motivo» del licenziamento del lavoratore subordinato, ma è molto più ampia, e si estende sino a comprendere qualsiasi motivo di recesso, che ne escluda l’arbitrarietà, con i limiti del rispetto dei principi di correttezza e buona fede nell’esecuzione del c ontratto, e del divieto del licenziamento discriminatorio. Note a sentenza: Giurisprudenza italiana 2005, pp. 789 ss., nota MONEGHINI. • Cassazione sezione lavoro, sentenza 15 aprile 2005 n. 7838 Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Licenziamento - Dirigente Giustificatezza - Nozione - Coincidenza con quelle di giusta causa e di giustificato motivo - Esclusione - Desumibilità di detta nozione dalla contrattazione collettiva Necessità – Accertamento in ordine alla sussistenza della giustificatezza» del licenziamento - Censurabilità in Cassazione - Limiti. Massima: La specialità della posizione assunta dal dirigente nell’ambito dell’organizzazione aziendale impedisce una identificazione della nozione di «giustificatezza» del suo licenziamento - sottratto al regime della tutela obbligatoria di cui all’art. 3 della 1. n. 604 del 1966, come di quella reale ex art. 18 della 1. n. 300 del 1970 – con quelle di «giusta causa» o «giustificato motivo» del licenziamento del lavoratore subordinato, ai fini del riconoscimento del diritto alla indennità supplementare spettante alla stregua della contrattazione collettiva al dirigente 78 licenziato ingiustificatamente. Trattandosi di un elemento di esclusiva origine negoziale, l’interpretazione della disposiz ione contrattuale che prevede il canone della giustificatezza del recesso va compiuta - nell’ambito di una valutazione che escluda l’arbitrarietà del licenziamento, al fine di evitare una generalizzata legittimazione della piena libertà di recesso del datore di lavoro - dal giudice del merito ed è censurabile in sede di legittimità solo per violazione delle regole di ermeneutica contrattuale, ovvero se non sia sorretta da una motivazione sufficiente, logica e coerente. (Nella specie, la Corte di Cassazione ha confermato la sentenza di merito, che aveva ritenuto, con motivazione congrua e priva di vizi logici, che il licenziamento era stato intimato al dirigente per addebiti rivelatisi assolutamente pretestuosi). Note a sentenza: MGL 11/2005, pp. 839 ss., nota PIZZUTI. • Tribunale di Ferrara, sentenza 28 aprile 2005 Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Estinzione e risoluzione del rapporto - Licenziamento - Di dirigente - Fatto illecito - Condizioni - Ingiuriosità del licenziamento - Condizioni. Massima: Il licenziamento di un dirigente (non soggetto alla disciplina delle leggi n. 60411966 e n. 300/1970), per dar luogo ad un danno risarcibile secondo il diritto comune (art. 2043 ss. c.c.), deve concretarsi - per la forma o per le modalità del suo esercizio e per le conseguenze morali e sociali che ne derivino - in un atto ingiurioso, cioè lesivo della dignità e dell’onore del lavoratore licenziato. Tale carattere d’ingiuriosità del licenziamento non s’identifica né va confuso con la mancanza di giustificazione dello stesso e non può essere presunto, ma, secondo i principi generali dettati dall’art. 2697 C.C. va rigorosamente provato da chi l’alleghi come causa del lamentato pregiudizio (di cui vanno parimenti dimostrati sia l’«an» che il «quantum») . • Cassazione sezione lavoro, sentenza 9 giugno 2005 n. 12134 79 Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Licenziamento individuale Intimazione per gli stessi fatti oggetto di sentenza penale di assoluzione del lavoratore licenziato - Valutazione autonoma di tali fatti da parte del giudice del lavoro - Sussiste Fattispecie in tema di licenziamento di un dirigente e della determinazione dell’indennità supplementare. Massima: Il giudice del lavoro adito con impugnativa di licenziamento, che sia stato comminato in base agli stessi comportamenti che furono oggetto di imputazione in sede penale, non è affatto obbligato a tener conto dell’accertamento contenuto nel giudicato di assoluzione del lavoratore, ma ha il potere di ricostruire autonomamente, con pienezza di cognizione, i fatti materiali e di pervenire a valutazioni e qualificazioni degli stessi del tutto svincolate dall’esito del procedimento penale. Ugualmente, con riferimento al licenziamento del dirigente, ed anche ai fini della equa determinazione dell’indennità supplementare, non sono le sole determinazioni dei giudici penali a costituire oggetto di apprezzamento da parte del giudice civile, ma i fatti nella loro interezza, aventi, o non, risvolti anche in sede penale. • Cassazione sezione lavoro, sentenza 14 ottobre 2005 n. 19903 Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Clausola di durata minima Cumulo del periodo residuo di durata garantita con il preavviso di licenziamento - È dovuto - Fattispecie: licenziamento di dirigente apicale. Clausola di durata minima - Non è atto di mera liberalità - Rientra nelle competenze ordinarie del consiglio di amministrazione di una società. Massima: La clausola di stabilità minima garantita stipulata in costanza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato è pienamente legittima, atteso che non altera la sostanziale natura del contratto a tempo indeterminato e si traduce soltanto in una preventiva rinunzia del datore di lavoro alla facoltà di recesso: quindi, per il lavoratore, in una garanzia della conservazione del posto per una durata minima. Tale clausola è 80 legittima anche rispetto ai contratti dei dirigenti apicali, per i quali la prevista stabilità è suscettibile di soddisfare un più spiccato interesse dell’imprenditore alla continuità delle prestazioni. Pertanto, nell’ipotesi di recesso anticipato del datore di lavoro (nella specie esercitato ad nutum), il dipendente ha diritto al risarcimento del danno, pari all’ammontare delle retribuzioni che avrebbe percepito se la risoluzione non fosse intervenuta, ivi comprese le retribuzioni che sarebbero maturate nel periodo di preavviso, che non può intendersi assorbito nella durata minima garantita dalla pattuizione. La pattuizione di una clausola di stabilità minima nel contesto di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato non è un atto di mera liberalità, ma rientra nella categoria delle clausole contrattuali volte a soddisfare ben individuabili interessi di natura (anche indirettamente) patrimoniale, come lo specifico interesse di una società ad assicurarsi la collaborazione di un dirigente, considerato di particolare capacità ed esperienza, e di garantirsi la continuità delle prestazioni di questi per un tempo prestabilito. Note a sentenza: RIDL II/2006, pp. 617 ss., nota GARATTONI. • Corte d’Appello Firenze, sentenza 25 ottobre 2005 Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Licenziamento individuale Licenziamento del dirigente - Giustificatezza - Nozione - Fondatezza - Limiti e conseguenze. Massima: Anche nell'ipotesi di licenzi amento del dirigente per motivi di carattere economico conseguenti a scelte organizzative dell’impresa, è indispensabile valutare la natura spiccatamente fiduciaria del rapporto di lavoro del dirigente; pertanto, in ragione della peculiare struttura del rapporto del dirigente, è giustificato il licenziamento motivato dalla convenienza della riduzione dei costi gestionali, non essendo necessaria l’esistenza di una conclamata crisi economica aziendale. 81 Note a sentenza: D&L II/2006, pp. 587 ss., nota CONTE • Cassazione sezione lavoro, sentenza 28 ottobre 2005 n. 21010 Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Dirigente - Insindacabilità in sede di legittimità del giudizio sull'appartenenza alla categoria dirigenziale Inapplicabilità ai dirigenti delle nozioni legali di giusta causa e di giustificato motivo di licenziamento. Massima: La valutazione delle circostanze di fatto dalle quali dedurre l’appartenenza del dirigente alla categoria dei dirigenti o a quella dei c.d. “pseudo dirigenti” costituis ce un apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito che non può essere oggetto di rivalutazione in sede di giudizio di legittimità. I dirigenti di vertice sono sottratti alla tutela reale e obbligatoria in materia di licenziamento. La nozione di giustificatezza introdotta dalla contrattazione collettiva in materia di licenziamento è nettamente distinta dalle nozioni di giusta causa e di giustificato motivo ex art. 2119 e art. 3 legge n. 604 del 1966, traducendosi essenzialmente in assenza di arbitrarietà e pretestuosità o, per converso, nella ragionevolezza del provvedimento datoriale. Note a sentenza: ADL III/2006, pp. 1357 ss., nota TOPO. • Cassazione sezione lavoro, sentenza 8 novembre 2005 n. 21673 Argomento della sentenza: Categorie qualifiche dei lavoratori - Art. 2103 C.C. Dirigente - Modifica «in pejus» delle precedenti mansioni unilateralmente operata dal datore di lavoro - Dequalificazione - Dirigente «apicale» degradato a dirigente «minore» - Effetti - Fattispecie in tema di licenziamento. Massima: La dequalificazione, unilateralmente operata dal datore di lavoro, del dirigente apicale a dirigente riconducibile alla media o bassa dirigenza, mentre - 82 costituendo inadempimento contrattuale – consente al dipendente la tutela risarcitoria e può costituire giusta causa di dimissioni, non muta il regime giuridico del licenziamento ad nutum proprio dei dirigenti di vertice dell’azienda, essendo la dequalificazione nulla ex art. 2103 C.C. Conseguentemente, non trovano applicazione la disciplina limitativa dei licenziamenti, prevista dall’art. 10 della legge n. 604 del 1966, e le connesse garanzie procedurali di cui all’art. 7 della legge n. 300 del 1970. • Corte d’Appello di Firenze, sentenza 23 novembre 2005 Argomento della sentenza: Licenziamento - Dirigente - Soppressione meramente eventuale e potenziale del posto di lavoro collegata all’approvazione di un progetto di ristrutturazione e riorganizzazione aziendale - Giustificatezza - Esclusione - Fattispecie. Massima: Non ricorre il requisito della giustificatezza del licenziamento del dirigente nel caso in cui dalla comunicazione di recesso emerga il connotato meramente eventuale e potenziale, non attuale, della soppressione del posto di lavoro, collegata all’approvazione di un progetto di ristrutturazione e riorganizzazione aziendale nel quale non sono esplicati tempi e modalità delle medesime, e nella quale si faccia riferimento alla non prevedibilità di un futuro proficuo utilizzo del lavoratore. Note a sentenza: D&L II/2006, pp. 604 ss., nota MULLER • Cassazione sezione lavoro, sentenza 14 giugno 2006 n. 13719 Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Categorie e qualifiche dei prestatori di lavoro - Qualifiche - Dirigente - Dirigenti d’azienda - Giustificatezza del licenziamento secondo la contrattazione collettiva - Equipollenza con i criteri della giusta causa o del giustificato motivo - Esclusione - Valutazione di detto requisito ai fini dell’indennità supplementare in base alla contrattazione collettiva - Coincidenza con 83 una situazione di crisi aziendale comportante l’impossibilità della continuazione del rapporto - Necessità - Esclusione - Fattispecie. Massima: Il rapporto di lavoro del dirigente non è assoggettato alle norme limitative dei licenziamenti individuali di cui agli artt. 1 e 3 della legge n. 604 del 1966 e la nozione di «giustificatezza» del licenziamento del dirigente, posta dalla contrattazione collettiva di settore, non coincide con quella di giustificato motivo di licenziamento contemplata dall’art. 3 della stes sa legge 15 luglio 1966, n. 604. Inoltre, ai fini della spettanza dell’indennità supplementare prevista dalla contrattazione collettiva in caso di licenziamento del dirigente, la giustificatezza del recesso del datore di lavoro non deve necessariamente coincidere con l’impossibilità della continuazione del rapporto o con una situazione di grave crisi aziendale tale da rendere impossibile o particolarmente onerosa tale prosecuzione, posto che il principio di correttezza e buona fede, che costituisce il parametro su cui misurare la legittimità del licenziamento, deve essere coordinato con quello della libertà di iniziativa economica, garantita dall’art. 41 Cost., che verrebbe radicalmente negata, ove si impedisse all’imprenditore, a fronte di razionali e non arbitrarie ristrutturazioni aziendali, di scegliere discrezionalmente le persone idonee a collaborare con lui ai più alti livelli della gestione dell'impresa. (Nella specie, la S.C., sulla scorta degli enunciati principi, ha confermato la sentenza impugnata che, all’esito di giudizio di rinvio, aveva correttamente escluso la pretestuosità del licenziamento del dirigente ricorrente, alla stregua - in applicazione della sentenza di cassazione rescindente - della giustificatezza del recesso datoriale fondato sul legittimo esercizio del potere riservato all’imprenditore di riorganizzare le risorse umane in modo da consentire una gestione non in perdita dell’azienda). • Cassazione sezione lavoro, sentenza 22 giugno 2006 n. 14461 Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Categorie e qualifiche dei prestatori di lavoro - Qualifiche - Dirigente - Licenziamento dei dirigenti - Norme 84 limitative ex artt. 1 e 3 legge n. 604 del 1966 - Esclusione - Sopravvenienza della legge n. 108 del 1990 - Irrilevanza - Limitazioni introdotte dall’autonomia collettiva o individuale - Ammissibilità - Recesso datoriale ingiustificato - Conseguenze Risoluzione del rapporto di lavoro - Configurabilità. Massima: Il rapporto di lavoro dei dirigenti, anche dopo l’entrata in vigore dell a legge n. 108 del 1990, non è assoggettato alle norme limitative dei licenziamenti individuali di cui agli artt. 1 e 3, legge n. 604 del 1966, non avendo la suddetta legge n. 108 inciso sull’art. 10 della legge n. 604, con la conseguenza che nel suddetto rapporto di lavoro la stabilità può essere assicurata soltanto mediante l’introduzione ad opera dell’autonomia collettiva o individuale di limitazioni alla facoltà di recesso del datore di lavoro; tuttavia, in caso di recesso - come nella specie - non affetto da nullità ma soltanto ingiustificato, l’atto di recesso è inidoneo a realizzare la risoluzione del rapporto di lavoro soltanto nell’ambito dell’area di operatività della stabilità reale. (Nella specie, la S.C. ha riformato la sentenza di merito che, a fronte del recesso datoriale dal rapporto di lavoro con due dirigenti comunicato per un motivo non consentito dal contratto collettivo, aveva ritenuto che il rapporto di lavoro non si fosse risolto). • Cassazione sezione lavoro, sentenza 26 luglio 2006 n. 17013 Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto Licenziamento individuale - In genere - Dirigenti d’azienda - Licenziamento dovuto ad esigenze aziendali di riassetto organizzativo - Ingiustificatezza - Nozione - Rischio d’i mpresa - Incidenza ai fini dell’esclusione della giustificatezza - Negazione Rilevanza del potere imprenditoriale di riorganizzazione dell’impresa. Massima: Ove vengano dedotte esigenze di riassetto organizzativo finalizzato ad una più economica gestione dell’azienda - la cui scelta imprenditoriale è insindacabile nei suoi profili di congruità e opportunità - licenziamento ingiustificato del dirigente, cui la contrattazione collettiva collega il diritto all’indennità supplementare in ipotesi 85 non definite dai principi di correttezza e buona fede, può considerarsi solo quello non sorretto da alcun motivo (e che quindi sia meramente arbitrario) ovvero sorretto da un motivo che si dimostri pretestuoso e quindi non corrispondente alla realtà, di talché la sua ragione debba essere rinvenuta unicamente nell’intento di liberarsi della persona del dirigente e non in quello di perseguire il legittimo esercizio del potere riservato all’imprenditore. Non può incidere sull’esclusione della giustificatezza del licenziamento la deduzione del dipendente secondo cui, in conseguenza della chiusura della filiale, sarebbe andato a ricadere su di lui il rischio di impresa, poiché, a parte il fatto che quest’ultimo, consistente nella eventualità che i costi di produzione non si ano coperti dai ricavi, è evidentemente a carico dell’imprenditore, il riflesso negativo che esso può comportare in termini di occupazione non esclude il potere dell’imprenditore di procedere alla riorganizzazione dell’impresa. 86