Prose Della Volgar Lingua di Pietro Bembo Le Prose della volgar lingua del veneziano Pietro Bembo (Venezia 1470-Roma 1547), costituiscono un testo chiave per comprendere la civiltà letteraria cinquecentesca italiana, purché non le si assuma come un codice definito delle norme scrittorie, quanto, piuttosto, come una proposta che, per riuscire a prevalere, deve confrontarsi, tra il 1512 ed il 1525, con altre ipotesi simili, ed essere scelta perché, meglio delle altre, corrispondeva alle richieste espresse dagli scrittori dell’epoca. Il trattato risulta incentrato prevalentemente sulla questione della lingua letteraria italiana. Lo scopo che il suo autore si propone è quello di trasferire nell’umanesimo volgare le teorie sull’imitazione dei classici che egli stesso professa quale scrittore latino. Nel febbraio 1512 Bembo ha già pronto il primo libro delle Prose della volgar lingua, e il 1° aprile dello stesso anno invia il secondo libro a Trifone Gabriele e ad altri amici per riceverne consigli; ancora nel 1522 attende all’opera benché nel pubblicarla, nel 1525, la presenti come definitivamente conclusa prima del marzo 1516 (la motivazione di questa precisazione si trova probabilmente nel tentativo di rivendicare l’originalità del proprio scritto su quello del Fortunio, uomo di legge pordenonese, vissuto a lungo a Trieste, che nel 1516 pubblicò ad Ancona le Regole Grammaticali della Volgar Lingua, in due libri che consideravano «il variar delle voci», cioè la morfologia, e «l’orthographia», attenendosi al modello dei grammatici latini, specialmente di Prisciano, anche per la terminologia, e fondando l’esemplificazione sui tre maggiori scrittori del Trecento: Dante, Petrarca e Boccaccio). L’opera in forma di dialogo, espone una conversazione svolta a Venezia nei giorni 10, 11 e 12 dicembre 1502, in casa di Carlo Bembo (amato fratello dell’autore, morto nel 1523, qui portavoce delle sue idee) tra Giuliano de’ Medici, Ercole Strozzi, l’arcivescovo Federigo Fregoso. Nel primo libro, dopo la discussione sui pregi del volgare e del latino, si parla delle origini della letteratura in volgare e dell’influenza esercitata dai Provenzali; si espongono in seguito le diversità del volgare in Italia e le difficoltà che proprio per questo un simile studio pone. Viene però affermata la prevalenza del fiorentino letterario rispetto agli altri volgari italiani, e, per mostrare che il fiorentino è la lingua più regolata, Giuliano de’Medici porta a esempio i suoi «due Toschi»: “il Boccaccio e il Petrarca senza più”. Allo stesso modo Carlo Bembo spiega come e perché il fratello abbia dettato gli Asolani (1505) «in fiorentina lingua», alla maniera dei Greci che preferivano la lingua Attica «più vaga e più gentile». L’ideale suggerito dal Bembo è quindi quello della lingua fiorentina, ma la lingua delle regolate scritture perché, aggiunge, quando si vedono certi i fiorentini seguire l’andazzo dei tempi, si dubita «che l’essere a questi tempi nato fiorentino, a ben volere fiorentino scrivere, non sia di molto vantaggio». Nel secondo libro il discorso da storico e filosofo si fa più spiccatamente retorico e dunque si passa a trattare della scelta e della disposizione delle “voci”, in una esemplificazione ben sostenuta da una fitta rete di citazioni. Carlo Bembo (sempre portavoce del fratello/autore) imposta la propria tesi sulla necessaria corrispondenza tra la materia di cui si scrive e la scelta della forma adoperata per esprimerla. Se la materia può essere infatti grande, bassa o mezzana, anche le “voci” dovranno essere rispettivamente gravi, lievi o temperate. Di qui deriva la condanna della lingua della Commedia di Dante, che talvolta adopera insieme a forme fiorentine, voci «rozze e disonorate», ossia arcaismi, latinismi, francesismi e neologismi inaccettabili. Meglio quindi seguire come modelli esemplari di scrittura in volgare da imitare la lingua poetica del Canzoniere e la prosa del Decameron. A questo proposito è importante ricordare che tanto nel primo quanto nel secondo libro delle Prose, il Bembo organizza e propone un canone degli scrittori in volgare che, dopo quello dantesco contenuto nel De vulgari eloquentia, rappresenta un notevole sforzo di riflessione critica intorno alla tradizione letteraria precinquecentesca, a partire dalla Scuola siciliana. Lo scrittore, attento soprattutto all’aspetto linguistico e poi stilistico del problema, intende mostrare, attraverso un elenco preciso di autori, quanti rimatori e prosatori ci sono stati in Italia che hanno operato fuori Firenze e della Toscana, offrendo un primo, non trascurabile contributo alla storiografia della letteratura italiana. Nel terzo libro è racchiusa, infine, un’esposizione dei punti più importanti della grammatica italiana, fatta da Giuliano de’ Medici. Attraverso numerosi rinvii ai testi petrarcheschi, boccacciani, danteschi e di molti autori ancora, si danno dunque le norme fondamentali di una grammatica del volgare, rivendicando definitivamente la pari dignità dell’italiano rispetto al latino. L’effetto prodotto dalle Prose del Bembo fu importantissimo: da allora molti grammatici si posero a compilare manuali conformi ai suoi principi (tale è ad esempio Le Tre fontane, un’opera di Nicolò Tiburnio, 1526), ed inoltre anche tanti letterati iniziarono a seguirne le norme (valga un esempio per tutti: Ludovico Ariosto, il quale ripubblicò per la terza volta, nel 1532, l’edizione definitiva dell’Orlando Furioso, frutto di un’accurata revisione linguistica svolta tenendo conto, ed accettando infine pienamente, la teoria bembiana). L’impostazione del Bembo, alla luce di quanto esposto in questo dialogo, si può dunque definire eminentemente retorica, in quanto egli si rivolge scopertamente agli scrittori, spronandoli a cercare una lingua elegante attraverso l’imitazione dei migliori trecentisti toscani.