Dipartimento di Matematica Via E. Orabona, 4 70125 – Bari (Italia) Materiale didattico per gli studenti del Corso di Laurea Magistrale in Matematica. Introduzione alla Macroeconomia (a cura del prof. Mario C. Sportelli) a.a. 2011/2012. 2 Premessa. La Macroeconomia è il settore della Teoria Economica che tenta di spiegare come e perché l’economia cresce e fluttua nel tempo. La crescita tendenziale di un sistema economico è il risultato di forze che si muovono lentamente, come la crescita della popolazione, una maggiore disponibilità di impianti e macchinari e di una migliore tecnologia. Il sentiero di crescita di lungo periodo non è, tuttavia, senza intoppi e si manifesta come una successione di cicli economici: l’alternarsi periodico di espansione, recessione e ripresa. La macroeconomia tenta di spiegare la crescita e le fluttuazioni cicliche adoperando i principi standard dell’analisi economica. (Hall & Papel, 2006, p. 3). 1 – Le variabili macroeconomiche. Il prodotto interno lordo (PIL) denota il valore dei beni e servizi finali prodotti nell’economia in un dato periodo di tempo. Il PIL può essere determinato in tre modi equivalenti: 1. Come somma dei valori dei beni e servizi finali prodotti nell’economia ad un dato tempo t. 2. Come somma dei valori aggiunti realizzati da tutte le imprese o tutti i settori produttivi ad un dato tempo t. Il valore aggiunto di un processo produttivo è la differenza tra il valore della produzione finale e il valore dei beni (intermedi) utilizzati per produrre. 3. Come somma dei redditi da lavoro e da capitale distribuiti nell’economia ad un dato tempo t. Il PIL può essere determinato con i prezzi correnti di ogni periodo. In tal caso si dice che il PIL è a valori correnti o, più brevemente che è un PIL nominale. Per evidenziare le differenze del PIL tra un periodo e l’altro eliminando l’effetto delle variazioni dei prezzi, si utilizza, invece, il PIL reale il quale è determinato facendo riferimento ai prezzi definiti in un periodo t scelto come periodo base. Si dice, in tal caso, che il PIL è valutato a prezzi costanti. Il rapporto PIL nominale/PIL reale definisce un indice P denominato “deflatore del PIL”. Il deflatore di per sé P −P non ha un’interpretazione economica, ma il suo tasso di variazione t t −1 assume invece un Pt −1 significato preciso: è una misura del tasso d’inflazione. Il PIL reale è indicato convenzionalmente con Y(t). Il consumo è definito come la spesa delle famiglie. Esso comprende gli acquisti di beni durevoli e non durevoli e dei servizi. Va osservato che il consumo non corrisponde alla somma di tutti gli acquisti fatti dalle famiglie ad un dato tempo t. Affinché un acquisto sia incluso nei consumi al tempo t è necessario che si tratti di acquisto di un bene di nuova produzione. Sono esclusi dal computo del consumo gli acquisti di nuovi immobili. Questi ultimi sono, invece, un investimento fisso. Anche il consumo può essere valutato a prezzi correnti o costanti. Il consumo reale (a prezzi costanti) si denota convenzionalmente con C. L’investimento denota la spesa che le imprese sostengono per l’acquisto di nuovi impianti, macchinari e attrezzature in genere. A questa bisogna aggiungere la spesa delle imprese per ricerca, la spesa per nuovi immobili delle famiglie, il costo sostenuto dalle imprese per variare la dotazione delle scorte di merci. L’investimento può scindersi, pertanto, in: investimenti fissi (impianti, macchinari e attrezzature, immobili), investimenti in ricerca e sviluppo (R. & D.); investimenti in scorte. Questi ultimi sono calcolati come differenza tra il valore delle scorte alla fine del periodo di riferimento ed il valore delle scorte all’inizio dello stesso periodo. E’ evidente che l’investimento in scorte potrà assumere sia segno positivo che negativo. 3 Una ulteriore distinzione degli investimenti è quella tra investimenti lordi e netti. I primi includono gli ammortamenti, ossia quella parte di investimento che serve per rimpiazzare il capitale che si è logorato (sia fisicamente che per obsolescenza) nel corso del periodo di riferimento. Gli investimenti netti indicano, quindi, solo l’incremento netto della dotazione di capitale. L’investimento in termini reali è convenzionalmente indicato con I. Quando è necessario definire l’investimento netto, si fa normalmente riferimento alla dotazione di capitale K al tempo t e si pone ΔK = I − δ K , dove d è il tasso di ammortamento, ossia la frazione di K rimpiazzata, e ΔK la variazione dello stock di capitale, ossia l’investimento netto. La spesa pubblica comprende gli acquisti di beni e servizi dello Stato e delle Amministrazioni Locali. La spesa pubblica non include i trasferimenti (assistenza sanitaria, pensioni e sussidi), né gli interessi sul debito pubblico. La spesa pubblica in termini reali è convenzionalmente indicata con G. Le entrate fiscali denotano gli incassi che il governo realizza attraverso la tassazione diretta ed indiretta. Le entrate fiscali in termini reali si indicano convenzionalmente con T. La differenza tra entrate fiscali e spesa pubblica indica il saldo del Bilancio pubblico (Ba). Ba 0 a seconda che vi sia disavanzo, pareggio o avanzo di bilancio. Le importazioni denotano gli acquisti di beni e sevizi dall’estero effettuati dai residenti. Le importazioni in termini reali sono convenzionalmente indicate con M. Le esportazioni denotano i beni e servizi prodotti all’interno e venduti all’estero. Le esportazioni in termini reali si indicano convenzionalmente con E. La differenza tra esportazioni ed importazioni indica il saldo della bilancia commerciale. Tale saldo si denota convenzionalmente con X 0 a seconda che vi sia avanzo, pareggio o disavanzo commerciale. Il saldo commerciale è indicato anche con il termine esportazioni nette. 2 – La spesa aggregata. La spesa aggregata in termini reali ( detta anche domanda aggregata) è, per definizione, uguale alla somma di tutte le componenti del PIL. Se indichiamo con Z la spesa aggregata, porremo (1.2) Z ≡C + I +G + E −M ≡C +G + I + X Questa equazione è una identità contabile. Assumiamo per ora che l’economia sia chiusa agli scambi con l’estero (e, quindi, X = 0) e consideriamo la prima importante componente della spesa: il consumo. Il consumo è, come si è già detto, la spesa che i privati sostengono per l’acquisto di beni e servizi. Le decisioni di consumo dipendono da molti fattori, ma la determinante principale, come l’evidenza empirica conferma, è il reddito degli individui, più precisamente il loro reddito disponibile (YD), ossia il reddito al netto delle imposte. Possiamo, pertanto, scrivere la seguente relazione C = C(YD ) (2.2) che formalmente ci dice che il consumo è una funzione del reddito disponibile. La funzione C (YD ) è crescente al crescere del reddito disponibile ( C ′ > 0 ). Poiché il consumo cresce comunque meno del reddito, è anche C ′ < 1 . La funzione C (YD ) è definita dagli economisti una 4 equazione di comportamento, perché descrive un comportamento tangibile degli agenti economici (in questo caso: i consumatori). Il tasso di variazione del consumo al variare del reddito si definisce propensione al consumo o, talvolta, propensione marginale al consumo. La funzione del consumo è bene approssimata da una retta e, per questo, spesso si pone C = c + cYD (3.2) dove c > 0 è un consumo autonomo che sussiste anche quando YD = 0, perché gli agenti, per la sussistenza, attingono ai risparmi accumulati in precedenza, oppure si indebitano. Il parametro c è, invece, la propensione al consumo che, per quanto prima detto, risulta 0 < c < 1 . Essendo YD il reddito al netto delle imposte, possiamo scrivere YD = Y − T . Se assumiamo che le imposte siano autonome, cioè indipendenti dal reddito e costanti (T = T ) , la (3.2) diviene C = c + c(Y − T ) = c − cT + cY (4.2) Nell’ipotesi più generale e realistica che le imposte dipendano anche dal reddito, assumendo per semplicità un’aliquota media 0 < t < 1 , risulta T = T + tY . Pertanto la (3.2) diviene C = c − cT + c(1 − t )Y (5.2) E’ importante notare che la propensione al consumo nella (5.2) è inferiore a quella della dC (4.2): = c(1 − t ) < c . Ciò accade perché l’imposta cresce al crescere del reddito e, quindi, dY crescendo meno il reddito disponibile, anche il consumo cresce meno. Assumiamo transitoriamente che investimento e spesa pubblica siano entrambi costanti ed esogeni. Come tali devono considerarsi componenti autonome della spesa aggregata. 3 – L’equilibrio tra reddito e spesa. Quest’equilibrio è detto anche equilibrio del mercato dei beni. Ponendo Y = Z , tenuto conto della (1.2) dove si è posto X = 0 (esportazioni nette nulle), otteniamo (1.3) Y =C + I +G da cui, data la (4.2), oppure la (5.2), segue che Y = c − cT + cY + I + G (2.3) oppure, Y = c − cT + c(1 − t )Y + I + G (3.3) Con un semplice passaggio algebrico segue ancora 1 (4.3) Y= ( c − cT + I + G ) 1− c oppure, 1 (5.3) Y= ( c − cT + I + G ) 1 − c(1 − t ) Osserviamo che variando uno degli elementi autonomi della spesa, anche Y varia, ma tale variazione è sempre più grande di quella attribuita all’elemento autonomo della domanda. Se, ad esempio, supponiamo che I, oppure G, subiscano una variazione che rispettivamente indichiamo con Δ I e ΔG , differenziando separatamente la (4.3) e la (5.3), otteniamo 5 1 1 ΔI ; ΔY = ΔG 1− c 1− c 1 1 ΔY = ΔI ; ΔY = ΔG 1 − c(1 − t ) 1 − c(1 − t ) ΔY = 1 1 , è denominato moltiplicatore. Poiché , come anche 1 − c(1 − t ) 1− c 0 < c < 1 , il moltiplicatore è, in ogni caso maggiore di 1 e, pertanto, per ogni dato Δ I e ΔG , l’effetto sul reddito è sempre più che proporzionale. Osserviamo che la variazione ΔY ha sempre lo stesso segno di Δ I e ΔG . Quando queste ultime variazioni sono positive si ha un effetto espansivo sul reddito; se tali variazioni sono negative, l’effetto su Y è restrittivo. Un effetto restrittivo sul reddito si ha anche quando aumentano le imposte autonome. Considerando il caso più generale della (5.3), differenziando otteniamo c ΔY = − ΔT 1 − c(1 − t ) Il coefficiente Notiamo che c 1 < . Ciò implica che se il governo decide di interveni1 − c(1 − t ) 1 − c(1 − t ) re nell’economia a parità di variazione programmata del saldo del bilancio pubblico, ossia ΔBa = ΔT = ΔG , gli interventi con ΔG o con ΔT non sono equivalenti. La variazione positiva o negativa della spesa pubblica ha sempre un impatto sul reddito maggiore di quello che si avrebbe con una variazione negativa o positiva della tassazione. Naturalmente il governo può intervenire nell’economia anche modificando l’aliquota d’imposta t. In tal caso, differenziando la (5.3), otteniamo cA ΔY = − Δt [1 − c(1 − t )]2 dove A = c − cT + I + G . Manipolando algebricamente questo risultato, può scriversi ΔY = − ⎛ ⎞ A c c Δt = −Y Δt ⎜ ⎟ 1 − c(1 − t ) ⎝ 1 − c(1 − t ) ⎠ 1 − c(1 − t ) dove ΔY ≷ 0 ⇔ Δt ≶ 0. Per capire infine la ragione economica per cui la variazione ΔY è sempre maggiore della variazione dell’elemento autonomo della domanda che l’ha generata, consideriamo il caso in cui cresca la spesa pubblica di un ammontare ΔG a partire dall’ipotesi più semplice della (4.3). L’impatto immediato di ΔG è un aumento di pari ammontare del reddito. Indichiamo tale aumento con ΔY1 = ΔG . L’aumento del reddito accresce il consumo in misura pari a ΔC1 = cΔY1 . L’aumento del consumo fa crescere nuovamente il reddito ΔY2 = ΔC1 = cΔY1 . Segue un nuovo aumento del consumo ΔC2 = cΔY2 = c 2 ΔY1 e, quindi, del reddito ΔY3 = ΔC2 = c 2 ΔY1 . Segue ancora un ulteriore aumento del consumo ΔC3 = cΔY3 = c 3ΔY1 per cui, ΔY4 = ΔC3 = c 3ΔY1 . Procedendo in questo modo, saremo in grado di determinare la variazione totale del reddito semplicemente sommando le variazioni parziali: n −1 ΔY = ∑ ΔYi = ΔG + cΔG + c 2 ΔG + .... + c n −1ΔG = (1 + c + c 2 + c 3 + .... + c n −1 ) ΔG . i =1 6 Essendo la somma nella parentesi una serie geometrica di ragione c, segue che ΔY = ⎛ 1 1 − cn cn ⎞ ΔG = ⎜ − ⎟ ΔG , 1− c ⎝1− c 1− c ⎠ 1 ΔG . 1− c Se avessimo considerato la (5.3) avremmo ottenuto nella parentesi tonda della sommato1 ria una serie geometrica di ragione 0 < c(1 − t ) < 1 e, quindi, ΔY = ΔG . 1 − c(1 − t ) Possiamo in conclusione affermare che il processo espansivo del reddito si realizza a causa delle variazioni indotte dal consumo, ma essendo la propensione al consumo inferiore all’unità, il processo espansivo tende ad estinguersi. da cui, poiché 0 < c < 1 implica lim c n = 0 , risulta ΔY = n→+∞ 4 – Un modo alternativo per definire l’equilibrio reddito-spesa. Per definizione il risparmio privato è la differenza tra reddito disponibile e consumi. Indicando con S il risparmio privato, risulta, pertanto S = YD − C = Y − T − C (1.4) Il risparmio pubblico è, invece, la differenza tra gli incassi dell’erario, ossia la tassazione, e la spesa pubblica. Il risparmio pubblico, in altri termini, coincide con il saldo del bilancio pubblico (Ba). Se il bilancio ha un saldo negativo, il risparmio pubblico è negativo e, quindi, più propriamente si dice che l’economia è caratterizzata da debito pubblico. Torniamo ora a considerare l’equilibrio tra domanda e offerta aggregata nell’economia chiusa: Y = C + I + G . Sottraendo ad ambo i lati dell’uguaglianza le imposte T e passando C sul lato sinistro, otteniamo: Y − C − T = I + G − T . Tenuto conto della (1.4), segue che S = I + G − T ⇔ S + (T − G ) = I (2.4) La (2.4) è un modo alternativo per considerare l’equilibrio tra reddito e spesa aggregata. Si noti che, se il bilancio pubblico è in pareggio (T − G = 0) , la (2.4) si riduce a S = I . Osserviamo, infine, che la (2.4) (come anche la (1.3)) è sempre verificata dal punto di vista della Contabilità Nazionale. Si è detto in precedenza che l’investimento include la variazione delle scorte. Le imprese tendono a detenere un volume desiderato di scorte per fronteggiare le variazioni inattese della domanda. A causa delle fluttuazioni non sempre prevedibili di quest’ultima, tuttavia, possono generarsi variazioni non desiderate di scorte. Se, ad esempio, la domanda si riduce, le imprese accumulano scorte non desiderate che, dal punto di vista della contabilità nazionale, rappresentano un investimento in scorte. Il contrario accade quando la domanda cresce: la riduzione delle scorte contabilmente rappresenta un disinvestimento. La variazione positiva o negativa delle scorte garantisce sempre un livello contabile della domanda aggregata che uguaglia il livello dato della produzione aggregata. Assumiamo ora Y e Z come variabili di comportamento e ragioniamo guardando al sistema economico nel suo complesso. Il PIL rappresenta l’offerta aggregata e, pertanto, nel mercato dei beni (e dei servizi) si realizzerà un equilibrio se nell’economia si genera una domanda aggregata equivalente all’offerta. Se ciò non accade, le imprese accumuleranno scorte se Z < Y; vedranno invece ridursi le scorte se Z > Y. La reazione delle imprese alla variazione non deside7 rata delle scorte ci consente di mostrare che l’equilibrio domanda aggregata offerta aggregata è un equilibrio stabile. Consideriamo il grafico della figura 1 dove la retta a 45° denota l’equilibrio Y = Z. Posto che il consumo sia una funzione lineare, la domanda aggregata Z = A + c(1 − t )Y (dove A = c − cT + I + G ) intersecherà la retta a 45° nel punto di ascissa Y*. Se accade che Z < Y*, l’accumulo indesiderato di scorte indurrà la imprese a ridurre la produzione. Ciò provocherà una riduzione del reddito e, quindi, del consumo. Ne consegue che Z → Y * . Se invece Z > Y*, la riduzio+ ne indesiderata di scorte indurrà le imprese ad accrescere la produzione. Ciò provocherà un aumento del reddito e, quindi, del consumo. Ne consegue che Z → Y * . − 5 – Il Mercato della Moneta. Il termine moneta ha in economia un significato ben preciso. Per moneta si intende non solo il circolante emesso dalla Banca Centrale (banconote e monete metalliche), ma anche l’insieme dei depositi bancari. La moneta non include quella parte di ricchezza detenuta dal pubblico sotto forma di titoli (obbligazioni, azioni, buoni del tesoro) perché questa parte della ricchezza non è comunemente utilizzata per effettuare pagamenti. In questa sede faremo riferimento elusivamente alla moneta reale, ossia la quantità di moneta nominale divisa per l’indice dei prezzi. In un sistema economico moderno il pubblico detiene moneta in forma liquida, ossia domanda fondi monetari reali, per acquistare beni e servizi. La domanda di moneta reale (detta anche preferenza per la liquidità) dipende in primo luogo dal reddito reale, perché è il reddito reale che determina la quantità di beni e servizi acquistati. In secondo luogo la domanda di moneta è determinata dal costo opportunità insito nel possedere mezzi monetari in forma liquida. Il costo opportunità è legato al tasso d’interesse a cui si rinuncia detenendo denaro contante anziché sotto forma di altre attività monetarie. Più alto è il tasso d’interesse a parità di reddito, minore sarà la convenienza a detenere denaro contante. Desumiamo, pertanto, che la domanda di moneta (reale) cresce al crescere del reddito perché un più elevato reddito fa crescere gli acquisti; diminuisce all’aumentare del tasso d’interesse perché diviene più costosa la detenzione di contante. Se indichiamo con L la domanda reale di moneta, per quanto appena detto, porremo L = L (Y , i ) (1.5) tale che ∂L ∂Y > 0, ∂L ∂i < 0 e dove i è il tasso d’interesse. Per quanto concerne l’offerta di moneta, semplicemente diremo in questa sede che essa è controllata dalla Banca Centrale. L’offerta di moneta (o, come anche si dice, lo stock di moneta) comprende oltre al circolante una vasta gamma di attività finanziarie come i depositi a breve, medio e lungo termine. La Banca Centrale controllando l’offerta di moneta incide sul tasso d’interesse di mercato. Tre sono gli strumenti che la Banca Centrale può utilizzare per modificare lo stock di moneta: • Le operazioni di mercato aperto consistono nella vendita o nell’acquisto di titoli pubblici. La vendita di titoli si traduce in una contrazione dell’offerta di moneta, ma, allo stesso tempo, riduce il prezzo dei titoli (perché cresce la loro offerta) aumentando tendenzialmente il loro tasso effettivo di rendimento. Quest’ultimo determina il tasso d’interesse di mercato. Il tasso d’interesse, infatti, tende a muoversi nella stessa direzione del tasso effettivo di rendimento dei titoli: se il rendimento effettivo dei titoli cresce, cresce anche il tasso d’interesse. Quando la Banca Centrale acquista titoli pubblici immette sul mercato 8 • • moneta liquida, ma, allo stesso tempo, fa crescere il prezzo dei titoli (se ne riduce l’offerta), riducendo il loro rendimento effettivo e, quindi, il tasso d’interesse. La variazione del tasso di sconto al quale la Banca Centrale sconta i titoli di credito delle banche ordinarie. Le banche ordinarie utilizzano la liquidità proveniente dai depositi per far credito ai loro clienti. A garanzia del debito contratto, il cliente cede un titolo di credito (una cambiale) alla banca. Tale titolo include la somma presa a prestito e gli interessi. Se la banca ordinaria ha necessità di acquisire liquidità può scontare presso la Banca Centrale il titolo di credito. Il tasso di sconto applicato dalla Banca Centrale determina il costo che la banca ordinaria sostiene per modificare la sua liquidità. Possiamo intuire a questo punto, che un aumento del tasso di sconto disincentiva la banca ordinaria a scontare i titoli di credito e, di riflesso, le induce ad aumentare il tasso d’interesse da applicare ai clienti che chiedono credito. Il contrario accade quando il tasso di sconto applicato dalla Banca Centrale si riduce. In conclusione, la manovra del tasso di sconto modifica la liquidità delle banche ordinarie e, quindi, la loro propensione a concedere crediti ai clienti. In ultima analisi, la manovra del tasso di sconto modifica la liquidità del sistema attraverso variazioni del tasso d’interesse sui crediti che le banche ordinarie concedono ai clienti. La variazione del tasso di Riserva Obbligatoria. Le banche ordinarie non detengono in forma liquida tutto il denaro che ricevono in deposito dai clienti. Solo una percentuale stabilita dalla Banca Centrale viene conservata. La parte restante è impiegata per concedere crediti ad altri clienti o per acquistare attività finanziarie e patrimoniali. Quando la Banca Centrale aumenta il tasso di riserva obbligatoria si riduce la capacità delle banche ordinarie di concedere crediti. In generale si dice che si riducono gli impieghi potenziali delle banche ordinarie. La conseguenza è un razionamento del credito attraverso un aumento dei tassi d’interesse attivi applicati ai clienti dalle banche ordinarie. Ovviamente, il contrario accade se il tasso di riserva obbligatoria si riduce. Possiamo sintetizzare quanto detto ricordando che ogni aumento della liquidità nel sistema economico (acquisto di titoli pubblici da parte della Banca Centrale, riduzione del tasso di sconto, riduzione del tasso di riserva obbligatoria) si definisce politica monetaria espansiva, perché riduce il tasso d’interesse; ogni riduzione della liquidità (vendita di titoli pubblici, aumento del tasso di sconto, aumento del tasso di riserva obbligatoria) si definisce politica monetaria restrittiva, perché aumenta il tasso d’interesse. Data l’offerta di moneta, la preferenza per la liquidità determina l’equilibrio del mercato monetario. Indicando con M la moneta nominale e con P l’indice dei prezzi, formalmente l’equilibrio nel mercato della moneta implica M P = L (Y , i ) (2.5) Fissato il livello del reddito (che è determinato nel mercato dei beni) l’equilibrio monetario può essere visualizzato in un grafico in cui misuriamo sull’asse delle ordinate il tasso d’interesse e sull’asse delle ascisse l’offerta di moneta reale (figura 2). Il tasso di interesse di equilibrio i* è determinato nel punto di intersezione delle due funzioni. Si noti che l’offerta di moneta è verticale perché, per ogni dato tempo t, M P è compatibile con qualunque tasso d’interesse. E’ l’intersezione con la domanda che determina il tasso d’interesse di mercato. La Banca Centrale controlla la quantità nominale di moneta M non i, né P. Non ha possibilità di stabilire simultaneamente M ed i. Se la Banca Centrale aumenta (diminuisce) l’offerta di moneta, data la preferenza per la liquidità, il pubblico è indotto a detenere più (meno) moneta in forma liquida in seguito alla riduzione (aumento) del tasso 9 d’interesse. Nel grafico della figura 2 quest’effetto è visualizzabile immaginando una trasposizione a destra (a sinistra) della retta M P . Osserviamo, infine, che la funzione L (Y , i ) non è lineare in i. Il tasso d’interesse di mercato è sempre strettamente positivo. Esiste, pertanto, un limite inferiore oltre il quale i non può scendere. Se indichiamo con i tale limite, la funzione L diviene infinitamente elastica quando i → i . Questo significa che lim ∂L ∂i = −∞ e quindi i→i + + geometricamente che la curva L della figura 2 (che in realtà è L−1 ) tende a divenire orizzontale in prossimità di i , qualunque sia il valore di M P . Quando l’intersezione tra la curva L e la retta M P è verificata nel tratto orizzontale di L, si dice che il sistema è caduto nella trappola della liquidità, perché la politica monetaria espansiva non ha più alcun effetto sul tasso d’interesse. Ogni aumento dell’offerta di moneta, infatti, è detenuto in forma liquida dal pubblico, perché il tasso d’interesse è talmente basso da non rendere conveniente alcun impiego alternativo. Solo le riduzioni dell’offerta di moneta (politica monetaria restrittiva) possono ristabilire le condizioni che consentono una risalita del tasso d’interesse. Una situazione di trappola della liquidità è illustrata nella figura 3. Osserviamo, infine, che nel sistema economico esistono diversi tassi d’interesse. Per semplicità, ma senza perdita di generalità, supporremo d’ora innanzi che il tasso d’interesse a cui faremo riferimento sia una media di quelli in vigore nel sistema. Assumeremo, inoltre, che il tasso d’interesse sia quello reale, cioè al netto dell’inflazione. 6 – L’investimento. Abbiamo già elencato le componenti dell’investimento nel paragrafo § 1 e abbiamo poi considerato l’investimento complessivo (aggregato) come una componente autonoma (esogena) della domanda. Dobbiamo ora rendere endogeno l’investimento per poter costruire un primo elementare modello macroeconomico. I progetti d’investimento delle imprese sono finalizzati ad accrescere la produzione oppure a ridurre i costi ai quali l’output è realizzato. In entrambi i casi l’impresa presuppone che l’investimento accrescerà i suoi profitti. Per ogni progetto d’investimento, pertanto, è possibile definire il rendimento atteso della somma investita in base ai profitti attesi lungo l’arco temporale di vita dell’investimento. L’impresa, tuttavia, deve valutare il costo opportunità della spesa che dovrà sostenere per effettuare l’investimento. Se l’impresa dispone di somme accantonate e decide di investirle dovrà tener conto dell’uso alternativo che potrebbe farne. Ad esempio, potrebbe darle in prestito. In tal caso, il rendimento realizzabile coinciderebbe con il tasso d’interesse di mercato. Se l’impresa non dispone di somme proprie e vuole investire dovrà prendere a prestito il denaro necessario e pagare un tasso d’interesse. Qualunque sia la condizione iniziale dell’impresa, sarà conveniente investire se e solo se il rendimento atteso dell’investimento non è inferiore al tasso d’interesse. Il tasso di rendimento atteso dell’investimento è denominato efficienza marginale del capitale e indicato con ρ. Quando consideriamo il sistema economico nel suo complesso, dovremo tener conto che ogni impresa ha i suoi progetti di investimento a ciascuno dei quali si associa una specifica efficienza marginale. Pertanto, per ogni dato livello del tasso d’interesse (reale) potranno esserci investimenti profittevoli per i quali ρ ≥ i e investimenti non profittevoli per i quali ρ < i . Per ogni livello di i saranno quindi realizzati solo quegli investimenti per i quali ρ ≥ i . Più basso è il 10 tasso d’interesse, maggiore sarà il numero dei progetti d’investimento per i quali la suddetta disuguaglianza è verificata. Formalmente potremo scrivere la seguente funzione I = I ( ρ, i) (6.1) tale che ∂I ∂ρ > 0, ∂I ∂i < 0 . Osserviamo che è proprio la presenza di ρ nella funzione I che rende l’investimento una variabile estremamente volatile. Se le imprese sono pessimiste circa i rendimenti di un investimento, non investiranno per quanto basso possa essere il tasso d’interesse. Viceversa, in situazioni di ottimismo ρ è sufficientemente elevato da rendere conveniente l’investimento nonostante i possa essere relativamente alto. 7 – L’equilibrio macroeconomico di breve periodo in una economia chiusa. Consideriamo nuovamente l’equilibrio nel mercato dei beni Y = Z che, secondo la (5.3) risultava 1 Y= ( c − cT + I + G ) . 1 − c(1 − t ) Tenuto conto della (6.1) e separando gli elementi autonomi della domanda A = c − cT + + G , otteniamo A 1 (1.7) Y = + I (ρ, i) α α dove α = 1 − c(1 − t ) . La (1.7) è sempre una equazione che denota l’equilibrio nel mercato dei beni, ma ora l’investimento non è più esogeno. Pertanto, per ogni coppia ( ρ , i ) sarà definito il volume dell’investimento e, attraverso questo, il livello del reddito Y che garantisce l’uguaglianza con la domanda aggregata. Le variabili ρ ed i comunque sono esogene al mercato dei beni. Specificamente ρ dipende dalle aspettative circa i profitti realizzabili dalle imprese che decidono di investire, mentre i è determinato nel mercato della moneta. Poiché ρ è legato a prospettive di profitto in definitiva fondate su elementi non sempre del tutto tangibili attraverso i quali gli investitori formulano le loro aspettative, possiamo per semplicità assumere in questa sede che ρ sia una costante positiva per ogni dato tempo t. Pertanto, la (1.7) denoterà l’insieme delle combinazioni (i, Y ) che realizzano l’equilibrio nel mercato dei beni. Tale insieme si definisce scheda IS, perché, come già abbiamo detto nel paragrafo § 4, l’uguaglianza tra risparmio (privato + pubblico) e investimento (inclusa la spesa pubblica) è un modo alternativo ed equivalente per indicare l’equilibrio tra reddito e domanda aggregata. La scheda IS è una funzione (monotona) decrescente del tasso d’interesse. Infatti, differenziando la (1.7), otteniamo 1 ∂I dY 1 ∂I dY = di ⇒ = <0 di α ∂i α ∂i perché ∂I ∂i < 0 . Notiamo che la posizione nel piano della IS dipende dal livello degli elementi autonomi della domanda ( A = c − cT + G ) e dal moltiplicatore (1 α ) , mentre la sua inclinazione dipende dal moltiplicatore e dalla sensibilità ( ∂I ∂i ) dell’investimento alle variazioni del tasso d’interesse (dato ρ). Abbiamo visto nel paragrafo § 5 che l’equilibrio nel mercato della moneta è verificato quando domanda e offerta di moneta si eguagliano (vedi Eq. 2.5). Osserviamo che nel mercato 11 della moneta il reddito è esogeno, perché Y è determinato nel mercato dei beni. Diremo, pertanto, che, fissata l’offerta di moneta, per ogni dato Y, la (2.5) genera un tasso d’interesse che assicura l’equilibrio. L’insieme delle coppie (Y , i ) che garantiscono l’equilibrio monetario denota una funzione che si definisce scheda LM. Convenzionalmente la scheda LM è indicata nel modo seguente M (2.7) = L (Y , i ) P Si noti che la (2.7) differisce dalla (2.5) perché l’offerta di moneta reale è ora prefissata. Per determinare l’inclinazione della LM, differenziamo la (2.7): ∂L ∂L di ∂L ∂Y 0= dY + di ⇒ =− > 0, ∂Y ∂i dY ∂L ∂i perché ∂L ∂i < 0 . Notiamo che la LM è una funzione (monotona) crescente del reddito quando i > i , mentre i → i ⇒ ∂L ∂i → −∞ e, quindi, di dY → 0+ . + Mettendo insieme la (1.7) e la (2.7), fissati ρ > i > 0 , otteniamo un sistema (non lineare) in due incognite (Y e i) e due equazioni. Le proprietà della IS e della LM implicano che le curve possono intersecarsi solo una volta nel primo quadrante. L’intersezione determina una coppia (Y * , i* ) che simultaneamente assicura l’equilibrio nel mercato dei beni e della moneta. Tale equilibrio si definisce equilibrio macroeconomico di breve periodo. 8 – Proprietà dell’equilibrio macroeconomico. Consideriamo la scheda IS: Y = A α + 1 α I ( ρ , i ) . Per uno specifico livello della spesa au- tonoma e del moltiplicatore, definiamo il suo grafico. Nella figura 4 è rappresentata l’inversa della IS. Osserviamo che tutti i punti esterni alla IS sono punti di disequilibrio del mercato dei beni. Specificamente, i punti sopra la curva denotano un eccesso di offerta, quelli sotto la curva un eccesso di domanda aggregata. Cerchiamo di capire perché. Fissiamo un generico Y = Y’. Affinché si abbia equilibrio nel mercato dei beni dovrà essere i = i’. Se invece i > i’, l’elevato tasso d’interesse comprime gli investimenti e, pertanto, Z < Y’. Ne consegue una riduzione della produzione e del reddito. Il verso della freccetta evidenzia la tendenziale variazione negativa di Y. Al contrario, se i < i’, il basso tasso d’interesse stimola gli investimenti e, pertanto, Z > Y’. Ne consegue un aumento della produzione e del reddito come indicato dal verso della freccetta. Consideriamo ora la scheda LM: M P = L (Y , i ) . Per uno specifico livello dell’offerta di moneta, consideriamo il suo grafico illustrato nella figura 5. Osserviamo che tutti i punti a destra della curva denotano un eccesso della domanda di moneta relativamente all’offerta; quelli a sinistra, un eccesso di offerta di moneta. Con ragionamento analogo a quello condotto per la IS, consideriamo un generico i = i’. Affinché si abbia un equilibrio nel mercato della moneta dovrà essere Y = Y’. Se invece Y > Y’, l’elevato livello di reddito accresce la domanda di moneta, ossia la pre12 ferenza per la liquidità. Poiché l’offerta di moneta è data, L > M P implica un aumento del tasso d’interesse. Il verso della freccetta evidenzia la tendenziale variazione positiva di i. Al contrario, se Y < Y’, il basso livello di reddito deprime la domanda di moneta, ossia la preferenza per la liquidità. Essendo l’offerta di moneta costante, L < M P induce una tendenziale riduzione del tasso d’interesse come indicato dal verso della freccetta. Se consideriamo congiuntamente le curve IS e LM, come nella figura 6, il piano è suddiviso in quattro zone. Per quanto detto in precedenza, possiamo schematizzare i movimenti tendenziali di Y ed i in ciascuna zona: o Zona A – l’insieme dei punti (Y , i ) ∈ A implica un eccesso di domanda nel mercato dei beni ed un eccesso di offerta nel mercato della moneta. Ciò genera una spinta all’aumento di Y ed una spinta verso il basso di i. o Zona B – l’insieme dei punti (Y , i ) ∈ B implica un eccesso di domanda nel mercato dei beni ed un eccesso di domanda nel mercato della moneta. Ciò genera una spinta all’aumento di Y e di i. o Zona C – l’insieme dei punti (Y , i ) ∈ C implica un eccesso di offerta nel mercato dei beni ed un eccesso di domanda nel mercato della moneta. Ciò genera una spinta depressiva su Y ed una spinta verso l’alto di i. o Zona D – l’insieme dei punti (Y , i ) ∈ D implica un eccesso di offerta nel mercato dei beni ed un eccesso di offerta nel mercato della moneta. Ciò genera una spinta depressiva su Y ed una spinta verso il basso di i. Nella figura 6 le direzioni delle freccette nelle quattro zone indicano le forze che nel sistema si innescano in seguito agli squilibri nei due mercati. L’operare di tali forze può rendere attrattivo il punto di equilibrio. 9 – Gli effetti sull’equilibrio delle politiche fiscali e monetarie. Osserviamo che in un sistema economico, date le tecnologie dei diversi settori produttivi, il PIL determina il livello di occupazione della popolazione. L’equilibrio macroeconomico che abbiamo discusso genera un Y* a cui si associa uno specifico livello dell’occupazione, ma nulla garantisce che tale livello sia tale da assicurare un posto di lavoro a tutti coloro che vorrebbero lavorare. E’ quindi possibile che Y* implichi un tasso di disoccupazione della forza lavoro che i policy maker ritengono inaccettabile. Si dice, in tal caso, che Y* è un equilibrio di sottoccupazione. Per stimolare la crescita del PIL e della domanda di lavoro, i policy maker possono attuare delle politiche espansive fiscali e/o monetarie. L’utilizzo di una politica fiscale espansiva (aumento di G, riduzione di T o t) traspone la IS verso destra a parità di i, generando un incremento ΔY calcolabile attraverso il moltiplicatore. L’aumento del reddito, a sua volta, accresce la preferenza per la liquidità, ma, essendo costante l’offerta di moneta ( M P ) , ciò si traduce in un aumento del tasso d’interesse che deprime gli investimenti privati. Gli effetti della politica fiscale espansiva sono visualizzati nella figura 7. L’impatto iniziale dell’intervento pubblico si concretizza in una variazione del reddito Δ′Y = Y ′ − Y * > 0 . Il conseguente aumento del tasso d’interesse deprime gli inve13 stimenti privati, attenuando la crescita di Y. L’effetto dell’aumento di i è misurato da Δ′′Y = Y ** − Y ′ < 0 . La variazione effettiva del reddito risulta, pertanto, ** * ′ ′′ ΔY = Δ Y + Δ Y = Y − Y > 0 . In conclusione, la politica fiscale espansiva aumenta il reddito ed il tasso d’interesse, ma induce una importante variazione nella composizione della domanda aggregata: cresce l’incidenza della spesa pubblica e decresce quella degli investimenti privati. Poiché la crescita di lungo periodo del sistema economico dipende dalla sua capacità di accumulazione del capitale, i minori investimenti possono compromettere i tassi di crescita dell’economia. L’impatto negativo sul reddito derivante dall’aumento di i si definisce effetto di spiazzamento (crowding out). Osserviamo che lo spiazzamento è: tanto minore quanto più è ∂L ∂Y piatta la scheda LM (ossia quanto minore è ); è tanto maggiore quanto più è piatta la ∂L ∂i α ). ∂I ∂i Trascurando lo spiazzamento, la politica fiscale espansiva ha il vantaggio di incidere direttamente e abbastanza rapidamente sul reddito e, quindi, sulla crescita dell’occupazione. scheda IS (ossia quanto minore è L’utilizzo di una politica monetaria espansiva (acquisto di titoli da parte della Banca Centrale, riduzione del tasso di sconto, riduzione del tasso di riserva obbligatoria) implica un aumento dell’offerta di moneta che, a parità di Y, riduce il tasso d’interesse. Ne consegue una trasposizione verso il basso della LM. Dato il rendimento atteso dei progetti d’investimento delle imprese, la riduzione di i stimola l’investimento privato e, quindi, attraverso il moltiplicatore, accresce il reddito e l’occupazione. Come illustrato nella figura 8, per effetto dell’aumento dell’offerta di moneta è il ramo crescente della LM che si abbassa. Se l’intersezione con la IS fosse verificata in corrispondenza di i (trappola della liquidità), la politica monetaria espansiva sarebbe del tutto inefficace. Osserviamo che la crescita del reddito induce un aggiustamento nel mercato della moneta: il tasso d’interesse tende a risalire restando comunque inferiore al livello iniziale. Osserviamo ancora che la politica monetaria espansiva è tanto più efficace quanto più l’investimento è sensibile alle variazioni del tasso d’interesse (quanto minore è α ∂I ∂i ). Le politiche restrittive fiscali e monetarie sono utilizzate per ridurre la domanda aggregata quando nel sistema sono presenti delle spinte inflazionistiche. La riduzione della domanda aggregata, infatti, data l’offerta, rallenta l’inflazione. E’ facile dedurre, in questo caso, che i policy maker devono opportunamente valutare il costo sociale derivante dall’aumento della disoccupazione che si accompagna alla riduzione del reddito prodotto. Il problema del costo sociale della politica economica non è comunque assente nel caso delle politiche espansive. La crescita della domanda aggregata, infatti, può generare pressioni inflazionistiche e, quindi, i policy maker non possono ignorare gli effetti dannosi dell’inflazione (erosione del potere d’acquisto dei redditi) quando decidono politiche espansive. Tralasciamo, in questa sede, le problematiche connesse alle scelte di politica economica. Semplicemente osserviamo, per concludere, che gli effetti delle politiche restrittive, nel modello IS-LM esaminato, sono simmetrici a quelli delle politiche espansive. 14 10 – L’equilibrio macroeconomico nell’economia aperta. Se il mercato è aperto agli scambi con l’estero, la (1.3) diviene (1.10) Y = C + I +G + E −M Assumeremo qui, per semplicità, che il tasso di cambio tra valuta nazionale e valuta estera sia fisso. Questa assunzione implica che le esportazioni possono essere considerate come elemento autonomo della domanda, perché dipendenti esclusivamente dai redditi dei cittadini residenti all’estero. Dipende, invece, dal reddito interno il volume delle importazioni. Il legame tra M ed Y è convenzionalmente esplicitato come una funzione lineare M = M + mY (2.10) dove M sono le importazioni autonome e 0 < m < 1 la propensione all’importazione. La propensione all’importazione è un parametro strutturale qui assunto come una costante. Tenuto conto delle equazioni (2.10), (5.2) e (6.1), la (1.10) può scriversi: 1 1 (3.10) Y= I ( ρ, i) (c − cT − M + G + E ) + 1 − c(1 − t ) + m 1 − c(1 − t ) + m Ciò che è importante notare è che il moltiplicatore della (3.10) è minore di quello determinato nella (5.3). La presenza di m, infatti, implica che gli effetti espansivi (o restrittivi) derivanti dalla variazione di un qualunque elemento autonomo della domanda sono attenuati all’interno, perché scaricati, in parte, all’estero attraverso variazioni delle importazioni. Ci chiediamo ora che cosa accade al saldo commerciale BC = E − M qualora crescano le esportazioni e, in conseguenza dell’aumento del reddito, crescano anche le importazioni. Ebbene, se ΔE > 0 è l’incremento delle esportazioni, l’effetto espansivo interno sarà 1 ΔY = ΔE , 1 − c(1 − t ) + m m a cui fa seguito un aumento indotto delle importazioni dato da ΔM = mΔY = ΔE . 1 − c(1 − t ) + m Calcolando ΔBC = ΔE − ΔM , otteniamo ⎞ ⎛ 1 1 − c(1 − t ) ΔE > 0 . ΔBC = ⎜1 − ⎟ ΔE = 1 − c(1 − t ) + m ⎝ 1 − c(1 − t ) + m ⎠ Una crescita esogena delle esportazioni, dunque, migliora sempre il saldo commerciale. Ovviamente, una riduzione esogena delle esportazioni peggiorerà BC, perché ΔBC ha sempre lo stesso segno di ΔE . Torniamo ora alla (3.10). Questa equazione, come la (1.7), denota l’equilibrio nel mercato dei beni, ma ora con riferimento all’economia aperta. In forma compatta, scriveremo A′ 1 Y = + I (ρ, i) (4.10) α′ α′ dove A′ = c − (cT + M ) + G + E e α ′ = 1 − c(1 − t ) + m . La (4.10) ha inclinazione negativa, ma è più piatta della (1.7). La sua posizione nel piano dipende da A′ ≠ A per la presenza di M ed E che influiscono con segno opposto sul valore di A′ . Poiché la scheda LM non è influenzata dall’apertura del mercato agli scambi con l’estero, quanto detto relativamente all’equilibrio macroeconomico per l’economia chiusa, si estende al mercato aperto. Nel valutare gli effetti degli interventi di politica economica i policy maker dovranno comunque tener conto degli effetti indotti sul saldo commerciale BC. 15 11 – Il debito pubblico. In seguito agli interventi di politica fiscale espansiva o a eventi straordinari, il governo può accumulare debito pubblico. Se il debito non è finanziato, tramite la Banca Centrale, con emissione di moneta, il governo acquisisce i mezzi monetari vendendo ai privati titoli pubblici. 11.1 – Il vincolo di bilancio del governo. Supponiamo che all’inizio del periodo t = 0 il bilancio pubblico sia in pareggio: B(0) = G (0) − T (0) = 0. Nel corso del periodo t = 0 il governo crea un disavanzo D(0) = D o incrementando la spesa o riducendo le imposte. Il finanziamento di D avviene attraverso l’emissione di titoli pubblici. A partire dal periodo t > 1, il disavanzo di bilancio può scriversi: D(t ) = rB(t − 1) + G (t ) − T (t ) (1.11) dove tutte le variabili sono espresse in termini reali, r è il tasso reale d’interesse e rB(t – 1) gli interessi sul debito accumulato fino al periodo precedente. In altri termini, per t = 1, rB(t – 1) = interessi maturati su D(0), ossia sul valore dei titoli emessi nel periodo iniziale. L’equazione (1.11) ha due caratteristiche: a) la spesa per interessi è misurata in termini reali. La spesa effettiva per interessi (quella ufficiale del governo) è, invece, calcolata utilizzando il tasso nominale d’interesse. La misura qui adottata si definisce “disavanzo corretto per l’inflazione”. b) Ricordiamo che la spesa pubblica non include gli interessi, né i trasferimenti 1 . Questi ultimi sono sottratti da T. Le entrate fiscali, pertanto, sono al netto dei trasferimenti. Osservazione – Le misure ufficiali della spesa pubblica aggiungono i trasferimenti a G e definiscono le entrate fiscali come imposte lorde. Questa convenzione contabile non altera la misura del disavanzo. Con l’emissione di titoli pubblici da collocare sui mercati finanziari, il vincolo di bilancio del governo (B) implica, per definizione, che la variazione del debito nel corso del periodo t deve essere uguale al disavanzo nel periodo t: B(t ) − B(t − 1) = D(t ) che, utilizzando la (1.11), diviene, B(t ) − B(t − 1) = rB(t − 1) + G (t ) − T (t ) , ossia, B(t ) = (1 + r ) B(t − 1) + G(t ) − T (t ) (2.11) Convenzionalmente, nella (2.11) si distinguono due componenti: gli interessi sul debito rB(t − 1) e il disavanzo o avanzo primario A(t ) = G (t ) − T (t ) . Alla fine del periodo t, il debito è uguale al debito del periodo t – 1 più gli interessi, più l’avanzo o il disavanzo primario. 11.2 – Il rimborso del debito. Possiamo analizzare diverse possibilità. 1) Rimborso del debito alla fine del periodo 1. Questa ipotesi implica che il vincolo di bilancio nel periodo 1 deve essere B(1) = (1 + r ) D(0) + G (1) − T (1) = 0 ⇔ B(1) = (1 + r ) D + G (1) − T (1) = 0 , da cui segue T (1) − G (1) = (1 + r ) D . Per rimborsare il debito in t = 1, il governo deve realizzare nel corso del periodo 1 un avanzo primario pari al disavanzo creato nel periodo iniziale più gli interessi. In altri termini, occorre incrementare le entrate fiscali o ridurre la spesa in misura pari a (1 + r ) D . Ovviamente, è sempre possibile un’opportuna combinazione delle due politiche restrittive. 1 Trasferimenti = assistenza sanitaria, pensioni. 16 2) Rimborso del debito dopo t periodi. Supponiamo per semplicità che il disavanzo primario sia pari a zero fino al periodo t – 1. In tal caso, l’evoluzione del debito da t = 0 a t – 1 è descritto dall’equazione B(t − 1) = (1 + r ) B(t − 2) da cui, B(t − 1) = D(1 + r )t −1 . Segue che, nel periodo t, in cui deve essere B(t ) = 0 , risulta: B(t ) = (1 + r ) B(t − 1) + G (t ) − T (t ) = 0 ⇒ (1 + r )t D = T (t ) − G (t ) . Il rimborso del debito dopo t periodi con avanzo (disavanzo) primario nullo per t – 1 periodi, richiede che si crei un avanzo primario, nel periodo t, pari a (1 + r )t D . Quanto più lungo è l’intervallo da zero a t, tanto più elevato sarà il costo che il governo dovrà imporre alla collettività per il rimborso del debito. Con tassi d’interesse più elevati, ovviamente, anche il costo sarà più elevato. Naturalmente, è sempre possibile che il governo crei opportuni avanzi primari per ogni periodo dell’intervallo [0, t], in modo da essere in grado di azzerare il debito alla fine del periodo t. 3) Stabilizzazione del debito. Stabilizzare il debito significa mantenere costante B(t) al livello registrato all’inizio del generico periodo t = τ. Ciò implica: B(τ ) = (1 + r ) B(τ − 1) + G (τ ) − T (τ ) = B(τ − 1) da cui, rB(τ − 1) = T (τ ) − G (τ ) . Per mantenere costante il disavanzo, il governo deve creare avanzi primari pari agli interessi maturati sul debito accumulato fino al periodo τ – 1. Se il debito fosse stabilizzato già dal primo periodo, si avrebbe: B(1) = (1 + r ) D + G (1) − T (1) = D da cui, rD = T (1) − G (1) . Per mantenere costante il disavanzo sin dal periodo 1, il governo deve creare in ogni periodo successivo avanzi primari in grado di pagare gli interessi maturati sul debito iniziale. E’ evidente che, più lontano dall’emissione del debito è il provvedimento di stabilizzazione, maggiore sarà l’avanzo primario che il governo dovrà creare in ogni periodo. 11.3 – La dinamica del rapporto debito/PIL. In un’economia in cui la produzione varia nel tempo, ha più senso considerare la dinamica del debito in rapporto al PIL. Il vincolo di bilancio del governo in rapporto al PIL, cioè a Y(t), è il seguente: B(t ) B(t − 1) G (t ) − T (t ) = (1 + r ) + Y (t ) Y (t ) Y (t ) che può anche scriversi B(t − 1) Y (t − 1) b(t ) = (1 + r ) + a (t ) (3.11) Y (t − 1) Y (t ) 17 Y (t ) − Y (t − 1) = g (t ) denota il tasso di crescita del reddito nel periodo t, Y (t − 1) Y (t ) Y (t ) − 1 = g (t ) ⇔ = 1 + g (t ) . Pertanto la (3.11) diviene: può scriversi Y (t − 1) Y (t − 1) 1+ r b(t ) = b(t − 1) + a (t ) (4.11) 1 + g (t ) La (4.11) ci consente di osservare che: 1) all’aumentare del tasso di crescita di Y, il rapporto debito/PIL si riduce a parità di avanzo o disavanzo primario2 ; 2) il rapporto debito/PIL varia proporzionalmente al variare dell’avanzo o disavanzo primario. Per analizzare la dinamica del rapporto debito/PIL, dobbiamo risolvere la (4.11). Supponiamo, per semplicità, che g(t) = g = costante e a(t) = a = costante. Considerando come soluzione particolare b(t ) = b ∀t , otteniamo: Osservato che t ⎛ 1+ r ⎞ 1+ g (5.11) b(t ) = b0 ⎜ a ⎟ + ⎝1+ g ⎠ g − r Risulta così evidente che l’evoluzione del rapporto debito/PIL dipende da due elementi: 1+ r 1+ g a . Pertanto, sono possibili diversi sceil valore assunto dal rapporto ed il segno di 1+ g g−r nari: 1+ r 1+ g <1 e a = 0 se a = 0. In questo caso, il debito tende a estinguersi totalmente gra1) – 1+ g g−r zie alla crescita del reddito. (cfr. Fig. 9) Fig. 9 1+ r 1+ g <1 e a > 0 , dove a > 0 e g > r. In questo caso, nonostante il disavanzo primario, 2) 1+ g g−r il rapporto debito/PIL converge al punto di equilibrio. (cfr. Fig. 10) Fig. 10 2 Per evidenziare immediatamente la relazione inversa tra b(t) e g(t), quando r e g(t) sono abbastanza piccoli si uti1+ r 1 + r − g (t ) . Infatti, [1 + r − g (t )] (1 + g (t ) ) = 1 + g (t ) + rg (t ) − g (t ) lizza la seguente approssimazione: 1 + g (t ) − ( g (t ) ) , dove, rg (t ) 0 e ( g (t ) ) 0 . 2 2 18 1+ r 1+ g a < 0 , dove a > 0 e g < r. In questo caso, la bassa crescita del reddito e la >1 e 1+ g g−r permanenza di un disavanzo primario fanno crescere il rapporto debito/PIL indefinitamente. (cfr. Fig. 11). 3) Fig. 11 1+ r 1+ g a > 0 , dove a < 0 e g < r. In questo caso, l’avanzo primario, consente una >1 e 4) 1+ g g−r progressiva riduzione del rapporto debito/PIL. (cfr. Fig. 12). Fig. 12 1+ r 1+ g <1 e a < 0 , dove a < 0 e g > r. In questo caso, l’avanzo primario accelera la con5) 1+ g g−r vergenza verso l’equilibrio. (cfr. Fig. 13). Fig. 13 1+ r 1+ g >1 e a = 0 se a = 0. In questo caso, il debito tende a crescere smisuratamente, 1+ g g−r nonostante sia nullo il disavanzo primario. (cfr. Fig. 14). 6) – Fig. 14 19 Qualunque sia il segno dell’avanzo primario, la convergenza all’equilibrio, in cui il rapporto debito/PIL è costante, è determinata dalla disuguaglianza g > r. Tuttavia, quando il governo crea avanzi primari in ogni periodo, il rapporto debito/PIL si riduce progressivamente. Quando il rapporto debito/PIL cresce oltre una certa soglia, perché g < r, il sistema economico tende ad avviarsi verso una situazione di default (inadempienza) anche preservando un avanzo primario nullo. In assenza di una crescita continua e significativa del reddito, l’obiettivo della stabilizzazione del debito o della riduzione del rapporto debito/PIL, richiede che il governo adotti uno dei seguenti provvedimenti (non necessariamente alternativi): a) la creazione di avanzi primari sufficientemente ampi in ogni periodo; b) il finanziamento monetario del debito tramite la Banca Centrale; c) il ripudio totale o parziale del debito. Questi tre provvedimenti hanno un impatto diverso sul sistema economico. La creazione di avanzi primari è sicuramente la strada più virtuosa, ma anche la più ardua. Il taglio della spesa pubblica e l’aumento delle imposte sono molto impopolari e creano le condizioni per una grave recessione o aggravano ulteriormente una recessione già in atto. Il finanziamento del debito, tramite l’emissione di moneta genera inflazione o iperinflazione quando il debito è elevato. L’inflazione riduce sensibilmente il potere d’acquisto dei redditi, in particolare quelli dei lavoratori dipendenti. Può conseguirne una riduzione dei consumi e, quindi, della domanda aggregata e della produzione. Il rischio è che, anche in questo caso, si inneschi una fase recessiva. Il ripudio totale o parziale del debito, sebbene possa sembrare una buona soluzione, perché riduce le distorsioni prodotte da elevate aliquote di imposta, è, in effetti, la scelta più traumatica per il sistema economico nel suo complesso. Il ripudio del debito rompe il rapporto di fiducia tra cittadini e governo (in generale, tra mercati finanziari e governo). Di conseguenza, diventerà molto difficile, in periodi successivi, che il governo possa collocare fruttuosamente sul mercato nuovi titoli del debito pubblico: i mercati finanziari hanno la memoria lunga! 12 – Un modello dinamico IS-LM di medio periodo. Tale modello fu proposto inizialmente da Schinasi (1981, 1982) e poi rielaborato da Sasakura (1994). Le equazioni sono le seguenti: Y = α ⎡⎣ I (Y , r ) + G − S (YD ) − T (Y ) ⎤⎦ , α > 0 r = β ⎡⎣ L (Y , r ) − M ⎤⎦ , β > 0 M = G − T (Y ) Il significato dei simboli è quello usuale con la particolarità che M denota l’offerta reale di moneta, perché P è normalizzato a uno. La prima equazione denota la reazione del reddito agli squilibri tra domanda e offerta aggregata. La spesa pubblica è esogena. Il parametro α indica la velocità di aggiustamento. La seconda equazione denota la reazione del tasso d’interesse agli squilibri del mercato monetario. Il parametro β denota la velocità di aggiustamento. La terza equazione suppone che gli squilibri nel bilancio pubblico siano interamente finanziati con variazioni nell’offerta di moneta (reale). Notiamo che la funzione dell’investimento include Y tra i suoi argomenti. Possiamo intendere Y come una variabile esplicativa di ρ, perché se Y aumenta, le aspettative delle imprese circa i profitti futuri migliorano; se Y diminuisce, le aspettative peggiorano. Con riferimento alle funzioni che compaiono nelle equazioni del sistema, valgono le seguenti: IY > 0, I r < 0, 0 < S ′ (YD ) < 1, 0 < T ′ (Y ) < 1, LY > 0, Lr < 0, T ′ (Y ) > S ′ (YD ) . 20 Ponendo Y = r = M = 0 , determiniamo l’equilibrio: G = T ( Y ) , I ( Y , r ) = S (Y − T ( Y ) ) , L ( Y , r ) = M da cui ricaviamo P* = (Y * , r * , M * ) . Per studiare qualitativamente il sistema, come d’uso, linearizziamo intorno al punto di equilibrio, ottenendo la seguente matrice Jacobiana: α [ IY − σ Y ] α I r 0 * J = β LY β Lr − β −T ′ 0 0 dove tutte le derivate sono calcolate in P* e σ Y = ( S ′(1 − T ′) + T ′) Sviluppando J * − λ I , otteniamo l’equazione caratteristica λ 3 + aλ 2 + bλ + c = 0 dove, a = −α [ IY − σ Y ] − β Lr = − trJ * , b = αβ {[ IY − σ Y ] Lr − I r LY } = somma dei minori principali di J*, c = −αβ I rT ′ = − det J * . Seguendo la tradizione Kaldoriana, Sasakura assume IY > σ Y . Tuttavia, essendo σ Y sicuramente più grande della semplice propensione al risparmio S ′ , la differenza IY − σ Y può assumersi sufficientemente piccola e, quindi, tale da rendere a > 0, perché − β Lr > 0 . I segni delle derivate ci consentono, inoltre, di verificare che b e c sono entrambi positivi. Secondo il criterio di Routh-Hurwitz l’equilibrio sarà localmente stabile se a, b, c > 0 e ab − c > 0 . L’unica disuguaglianza da accertare è ab − c > 0 . Calcoliamo, pertanto, ab − c = αβ − ⎡⎣α ( IY − σ Y ) + β Lr ⎤⎦ ⎡⎣( IY − σ Y ) Lr − I r LY ⎤⎦ + I rT ′ . (1.11) { } Possiamo osservare che il segno di questa espressione è ambiguo, perché dipende dai valori che assumono i parametri α e β. L’equilibrio, quindi, può essere stabile o instabile. Assumiamo qui che il parametro α sia dato e che β sia un parametro critico suscettibile di variare. A questo punto, per procedere con l’analisi qualitativa dell’equilibrio, abbiamo bisogno di conoscere la natura delle radici dell’equazione caratteristica (gli autovalori). Ricordiamo che un’equazione cubica possiede una radice reale e due coniugate complesa 3 ab c b a2 − + e B = − . Assumendo se se il suo discriminante Δ 3 = A2 + B 3 > 0 , dove A = 27 6 2 3 9 3 che Δ > 0 , gli autovalori della nostra equazione caratteristica saranno: uno reale (λ) e due coniugati complessi ( ρ ± ωi) . Per quel che concerne l’autovalore reale, dalle formule di Viète sappiamo che c = ( −1)3 λ ( ρ + ωi )( ρ − ωi ) = −λ ( ρ 2 + ω 2 ) e, quindi, essendo c > 0, deduciamo che λ < 0. Per accertare il segno della parte reale degli autovalori coniugati complessi, utilizziamo sempre le formule di Viète: a = − ⎡⎣λ + ( ρ + ωi ) + ( ρ − ωi ) ⎤⎦ b = λ ( ρ + ωi ) + λ ( ρ − ωi ) + ( ρ + ωi )( ρ − ωi ) e (tenuto conto del valore di c) ricaviamo, con una semplice manipolazione algebrica, la seguente, ab − c = − ( λ + ρ + ωi )( λ + ρ − ωi )( ρ + ωi )( ρ − ωi ) = − ( (λ + ρ ) 2 + ω 2 ) 2 ρ che è nota come formula di Orlando. 21 Possiamo così verificare che ab − c 0⇔ρ 0 . Utilizzando la (1.11), determiniamo il valore di β che annulla questa espressione (la soluzione β = 0 va scartata, perché β > 0 per ipotesi). Otteniamo così ⎤ 1 ⎡ I rT ′ > 0 , per l’ipotesi che ( IY − σ Y ) sia molto piccolo. β 0 = ⎢ −α ( IY − σ Y ) + Lr ⎣ ( IY − σ Y ) Lr − I r LY ⎦⎥ Ne consegue che il nostro sistema è stabile (P* è un fuoco stabile) per β > β 0 e instabile (P* è un fuoco instabile) per β < β 0 . Ciò ci consente di applicare il seguente Teorema (Hopf bifurcation Theorem – Existence part): Posto che il sistema assegnato (parametrizzato con β) possieda un punto di equilibrio per ogni valore di β > 0 e, inoltre, che gli autovalori del sistema linearizzato divengono immaginari puri quando β = β 0 , se d Re ⎡⎣ ρ ( β ) ⎤⎦ dβ ≶ 0, β = β0 allora: 1) β = β 0 è un punto di biforcazione del sistema; 2) per β ≷ β 0 , l’equilibrio è un fuoco stabile; 3) per β ≶ β 0 , l’equilibrio è un fuoco instabile circondato da un ciclo limite la cui ampiezza varia al variare di β. Dimostrazione – Poiché abbiamo già verificato che β ≷ β 0 implica ρ ≶ 0 , è ovvio che per β = β 0 gli auto valori coniugati complessi saranno degli immaginari puri. Non ci resta, pertanto, che provare d Re ⎡⎣ ρ ( β ) ⎤⎦ dβ a = − (λ + 2ρ ) ≶ 0 . Considerando nuovamente le formule di Viète, β = β0 b = 2λρ + ρ 2 + ω 2 c = −λ ( ρ 2 + ω 2 ) calcoliamo le seguenti derivate: ∂a ∂λ ∂ρ =− −2 = − Lr ∂β ∂β ∂β ⎛ ∂λ ∂b ∂ρ ⎞ ∂ρ ∂ω b = 2⎜ ρ +λ + 2ρ + 2ω = ⎟ ∂β ∂β ⎠ ∂β ∂β β ⎝ ∂β ∂c ∂λ ∂ρ ∂ω c = − ( ρ 2 + ω2 ) − 2λρ − 2λω = ∂β ∂β ∂β ∂β β Poiché siamo interessati a valutare il segno di denti derivate calcolate in β0, divengono: ∂λ ∂ρ − −2 = − Lr ∂β ∂β 2λ ∂ρ ∂ω ω 2 + 2ω = ∂β ∂β β 0 −ω 2 ∂λ ∂ω λω 2 − 2λω =− ∂β ∂β β0 22 ∂ρ ∂β , dove ρ = 0, segue che le preceβ = β0 Riscrivendo queste uguaglianze in forma matriciale e considerando le derivate come variabili, otteniamo: −1 −2 0 ∂λ ∂β − Lr 0 2λ 2ω ∂ρ ∂β = ω 2 β 0 −ω 2 0 −2λω ∂ω ∂β − λω 2 β 0 da cui, utilizzando la regola di Cramer, determiniamo ∂ρ 2ω 3 Lr = < 0 , perché Lr < 0. ∂β 4ω ( λ 2 + ω 2 ) ■ La biforcazione di Hopf può essere supercritica o subcritica. Nel primo caso il ciclo limite è stabile, perché le traiettorie sia dall’interno sia dall’esterno del ciclo limite convergono verso l’orbita periodica. Nel secondo caso il ciclo limite è instabile, perché le traiettorie esterne al ciclo limite si allontanano da esso, mentre quelle interne convergono al punto di equilibrio. Nel modello esaminato il punto P* diviene instabile per β < β0. Ciò significa che quando il mercato della moneta reagisce troppo lentamente ai suoi squilibri, allora il sistema economico sperimenta delle fluttuazioni cicliche. Poiché sappiamo che le forze operanti nel sistema descritto dal modello IS-LM spingono verso l’equilibrio, il ciclo limite, con opportuni valori dei parametri, potrebbe essere stabile. Una prova analitica della stabilità è, comunque, molto laboriosa e tediosa. Le simulazioni numeriche, con funzioni specifiche e parametri economicamente significativi, confermano la stabilità del ciclo limite quando β < β0 (cfr. le figure 15 e 16). Per valori di β > β0 invece, l’equilibrio è stabile (cfr. le figure 17 e 18). Fig. 15 Fig. 16 Fig. 17 Fig. 18 23 Riferimenti bibliografici. Blanchard, O. (2009): Macroeconomia, Il Mulino, Bologna. Hall, R. E. – Papel, D. H. (2006): Macroeconomia, Hoepli, Milano. Gandolfo, G. (2009): Economic Dynamics, Springer, New York. Lorenz, H. W. (1993): Nonlinear Dynamical Economics and Chaotic Motion, Springer, Berlin. Schinasi, G. J. (1981): A Nonlinear Dynamic Model of Short Run Fluctuations. Review of Economic Studies, 48, pp. 649-56. Schinasi, G. J. (1982): Fluctuations in a Dynamic, Intermediate-run IS-LM Model: applications of the Poincarè-Bendixon Theorem. Journal of Economic Theory, 28, pp. 369-75. Sasakura, K. (1994): On the Dynamic Behavior of Schinasi’s business Cycle Model. Journal of Macroeconomics, 16, pp. 423-44. 24