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CAPITOLO TERZO
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POSITIVISMO E SOCIOLOGIA
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Sommario: 1. Un nuovo clima culturale. - 2. La fisica sociale di Comte. - 3. La
sociologia evoluzionistica di Spencer. - 4. Tocqueville e il problema della democrazia. - 5. Teoria del conflitto sociale: Marx.
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1. UN NUOVO CLIMA CULTURALE
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La sociologia come scienza autonoma, separata dalla teoria politica e
del diritto, dalla filosofia morale o anche dalla filosofia della storia, nasce
soltanto alla metà dell’800, in quella che viene definita età positivista: si
tratta dell’epoca del massimo decollo industriale, dell’aumento delle attività produttive, dello sviluppo della tecnologia, della nascita del proletariato e
dei nuovi ceti dirigenti (industriali, tecnici, scienziati), oltre che dell’aumento della mobilità sociale e del verificarsi delle prime tensioni tra classi.
Il positivismo è in effetti un complesso atteggiamento di pensiero che, muovendosi parallelamente allo sviluppo industriale, si sviluppa soprattutto in
Francia e in Inghilterra, ma si diffonde anche in altre nazioni europee,
come l’Italia e la Germania. I filosofi positivisti presentano come caratteristica comune il bisogno di adeguare l’attività filosofica ai contributi di
metodo e contenuto che le scienze moderne hanno dato allo studio della
natura e dell’uomo. Gli aspetti tipici del movimento possono così essere
sintetizzati:
— la fiducia nel fatto che l’umanità sia entrata in una nuova era, di progresso generalizzato (intellettuale, materiale, morale);
— l’idea che la conoscenza (della realtà naturale ma soprattutto di quella
sociale) avvenga solamente tramite i fatti e la loro codificazione in leggi;
— la convinzione che la scienza e la tecnica possano condurre ad una maggiore felicità;
— un’idea della filosofia come metodologia critica e come raccordo tra le
scienze.
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2. LA FISICA SOCIALE DI COMTE
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Tra i maggiori esponenti del positivismo in Francia ricordiamo C.H.
Saint-Simon, il cui pensiero rispecchia il momento di crescita del processo
di industrializzazione e il tentativo di mediarlo con le esigenze egualitarie
dei movimenti socialisti, e Auguste Comte. In Inghilterra, nazione protagonista dello sviluppo industriale, converge e stimola la visione del mondo
positivista la teoria dell’evoluzione di Charles Darwin, le cui conseguenze
sul piano filosofico e sociale verranno tratte da Herbert Spencer. Un pensatore inglese di rilievo, che condivide un atteggiamento positivista, ma
non legato all’evoluzionismo, è l’utilitarista e liberale John Stuart Mill. In
Italia la cultura positivista si afferma solo dopo il 1870 e rielabora temi
provenienti da Francia e Inghilterra.
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Auguste Comte (1798-1857) studiò all’Ecole polytechnique e nel 1818 divenne discepolo
e collaboratore di Saint-Simon. Successivamente ottenne un incarico di insegnamento alla
stessa Ecole. Opere principali: Corso di filosofia positiva (6 voll., 1830-42); Discorso sullo
spirito positivo (1844); Catechismo positivista (1852); Sintesi soggettiva o Sistema universale
delle concezioni proprie dell’umanità, Parte I: Sistema di Logica positiva o Trattato di Filosofia matematica (1856).
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A) La filosofia «positiva» e la legge dei tre stadi
Secondo Comte il compito della filosofia consiste nel partire dagli eventi
stessi come gli scienziati partono dai fenomeni naturali empiricamente osservabili. Se si applicasse questo modo di procedere la filosofia della storia
risulterebbe «positiva», cioè si otterrebbe una rappresentazione scientifica della storia vista nelle sue leggi obiettive.
Da questa prospettiva, Comte rintraccia nella successione storica una
regolarità di fondo che egli definisce legge dei tre stadi. Egli sostiene cioè
che l’evoluzione umana ha attraversato tre fasi che corrispondono a quelle
dello sviluppo psicologico dell’individuo: quella teologica, quella metafisica e quella scientifica:
— nello stadio teologico (o fittizio) lo spirito umano tende alle conoscenze
assolute. Cerca le cause prime e finali dei fenomeni, che gli appaiono
prodotti dall’azione di agenti sovrannaturali;
— nello stadio metafisico (o astratto) che è sostanzialmente soltanto una
modificazione del primo, gli agenti sovrannaturali sono sostituiti da en-
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tità (astrazioni personificate, forze, principi occulti, essenze metafisiche
o ontologiche) ritenute capaci di produrre i fenomeni;
— nello stadio scientifico (o positivo), che caratterizza i tempi nuovi, si ha
invece finalmente la subordinazione dell’immaginazione all’osservazione. La scienza non ricerca più cause occulte ma si limita a descrivere le
leggi fisiche dei fenomeni.
Lo spirito positivo enuncia dunque i fatti effettivamente esperiti, indicando regole oggettive e costanti. Si propone, partendo dallo studio di ciò
che è, di prevedere quel che sarà, consapevole che ogni conoscenza è relativa alla condizione naturale del soggetto conoscente ed alle sue concrete
possibilità di organizzazione culturale. Sulla base di questa consapevolezza
si propone di delineare una visione del mondo che costituisca un quadro
logico di riferimenti precisi e certi e che rappresenti uno strumento utile al
miglioramento della vita, sia in termini politici che economico-sociali. Lo
stadio positivo, che ha avuto inizio nell’epoca moderna con la nascita della
nuova scienza, troverà compiuta realizzazione soltanto quando tutte le branche del sapere convergeranno in un metodo positivo, da cui procederà una
nuova scienza unitaria della natura e dell’uomo.
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B) La teoria sociologica
Secondo Comte, il culmine del sapere positivo è costituito dalla sociologia. Un’ideale classificazione delle discipline prevede infatti secondo Comte
che le varie scienze possano raggiungere in tempi diversi lo stadio positivo
in base alla complessità dell’oggetto di indagine: la matematica o l’astronomia ad esempio sono giunte assai precocemente al grado più alto del
loro sviluppo in quanto rivolte all’indagine di fenomeni immutabili ed empiricamente controllabili. Quanto più invece l’oggetto di indagine si fa complesso, stratificato, esposto a variabili indefinite, tanto più risulterà arduo
coglierne le strutture fisse e la logica dell’evoluzione. Alla sociologia scientifica o positiva sarà dunque affidato il compito di indagare sul fenomeno
più complesso del sapere: l’interazione sociale. Lo scopo è quello di pervenire ad uno studio scientifico del comportamento umano al fine di ottenere una guida certa sia in termini di teoria politica che di prassi efficiente.
Tale studio dovrà naturalmente configurarsi in termini di scienza fisica: studiare i fenomeni sociali così come la fisica studia quelli naturali. Una tale
fisica sociale – questa è la definizione di Comte – rifuggendo da qualsivoglia suggestione teologico-metafisica, analizzerà i fenomeni secondo una
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doppia dimensione, statica e dinamica, ricavandone leggi obiettive. Più precisamente, la statica sociale, si occuperà delle leggi della convivenza degli
elementi sociali, cioè di quelle che presiedono all’ordine della vita associata (ordinamento giuridico, strutture economiche); la dinamica sociale individuerà invece le regole della trasformazione, dello sviluppo, del progresso
della società. Una sociologia così intesa avrà pertanto un carattere che la
accomuna alle altre scienze positive e che mancava alle tradizionali teorie
«suppositive» – teologiche o metafisiche – della realtà sociale: offrirà cioè
la concreta possibilità di una previsione delle trasformazioni sociali a partire dall’analisi delle condizioni concrete.
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3. LA SOCIOLOGIA EVOLUZIONISTICA DI SPENCER
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Herbert Spencer (1820-1903) dopo studi scientifici e un periodo come ingegnere, si avvicinò all’evoluzionismo, diventandone in breve uno dei maggiori rappresentanti. Opere principali: Statica sociale (1850), Principi di psicologia (1855), I primi principi (1862), Principi di
biologia (1864-1867), Principi di sociologia (1876-96), Principi di psicologia (1870-72), Principi di etica (1879-1892), Individuo e stato (1884).
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A) L’evoluzionismo universale
In pieno clima positivistico, le teorie biologiche ed evoluzionistiche di
Lamarck e Darwin influirono a fondo sulle ipotesi di Spencer, tanto da spingerlo ad una sorta di applicazione sistematica dei principi della teoria evolutiva ad ogni scienza particolare. Questo progetto converge attorno all’idea
che il principio generale dell’evoluzione mostra una legge specifica: data la
redistribuzione continua esistente in natura tra materia e movimento (meccanicismo), in ogni dimensione della natura assistiamo ad un passaggio costante dall’omogeneo all’eterogeneo, dal disordine all’ordine, dall’incoerente al coerente. Tale principio esplicativo di tutta l’evoluzione trova secondo Spencer una conferma sia a livello astronomico (formazione del sistema solare) che biologico (sviluppo delle specie viventi) che storico-sociale. Tutto l’universo appare infatti disciplinato da una legge universale di
evoluzione: un alternarsi di progressi e regressi, di aggregazioni e dissipazioni che si verificano nell’ambito di un generale movimento verso forme
sempre più complesse e perfette.
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Più precisamente, in biologia, Spencer accetta il principio di Lamarck dell’adattamento
degli organismi all’ambiente e quello darwiniano della selezione naturale. La vita non è altro
che la capacità di un essere di adattarsi alle molteplici azioni che l’ambiente esercita su di esso.
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Queste infatti stimolano reazioni che, ripetute, si configurano come funzioni proprie (anche se
acquisite) di quell’essere, generando l’organo specifico che le deve esprimere. Tuttavia, secondo Spencer, se compito della scienza e della filosofia è quello di ricostruire le leggi generali
dell’evoluzione, esse non potranno mai risalire alla causa ultima dell’evoluzione, che rimane
pertanto inattingibile. Spencer parla dunque, a questo proposito, di un «inconoscibile», di una
sorta di limite della scienza e del pensiero: un mistero ultimo da cui tutto trae origine e di cui
può occuparsi soltanto la religione.
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B) Morale, sociologia, politica
Al principio di adattamento Spencer riconduce l’origine della moralità
individuale. L’uomo è sempre vissuto nel bisogno di adeguarsi alle molteplici e diverse circostanze non soltanto al fine di conservare la propria vita,
ma anche per migliorarla. Il fine dell’esistenza si identifica in questo senso
con la felicità stessa. Con questo concetto Spencer si avvicina alle dottrine
utilitariste. A differenza di queste, però, egli sostiene che allo stato attuale
della civiltà l’individuo agisce per un autentico sentimento di obbligo morale e non per la sola utilità immediata. Ciò è potuto accadere perché nel
corso del tempo la specie umana ha appreso per esperienza che obiettivi
piacevoli più lontani e più generali possono produrre maggiore felicità rispetto a quelli più prossimi e particolari. Agire per il dovere assicura in
qualche modo maggiore ritorno in termini di felicità complessiva che non
agire in vista di un piacere immediato. Queste esperienze si sono così tradotte in principi dello spirito umano, che l’individuo eredita e trova in sé
quasi come delle forme a priori. Tali principi sono veri e propri obblighi
etici, che vanno pertanto considerati come esito millenario di una complessa evoluzione psico-sociale. Questa dottrina spinge Spencer, nella fase finale delle sua produzione, ad intensificare lo studio della realtà umana da un
punto di vista squisitamente sociologico: l’esito è una teoria dello sviluppo
lento e graduale delle strutture sociali. Tale ipotesi della gradualità si traduce, a livello politico, in un sostanziale rifiuto del socialismo come ipotesi politica rivoluzionaria: non è possibile secondo Spencer che alcune forme sociali accedano allo stadio superiore senza attraversare modifiche e
riforme graduali e successive. Questa posizione politica riformista divenne
in breve il punto di riferimento teorico della classe industriale inglese in
ascesa, la cui politica economica liberista era naturalmente finalizzata al
mantenimento dell’ordine esistente.
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4. TOCQUEVILLE E IL PROBLEMA DELLA DEMOCRAZIA
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Alexis-Charles-Henri Clérel de Tocqueville (Verneuil, Seine-et-Oise, 1805 – Cannes 1859).
Studiò diritto a Parigi. Giurò alla monarchia nel 1830 e nel 1831-32 compì un viaggio negli
Stati Uniti e scrisse col Beaumont sul sistema penitenziario americano. Nel 1835 pubblicò la
prima parte della Democrazia in America. Deputato nel 1839, membro dell’assemblea costituente dopo la rivoluzione del 1848, ministro degli Esteri nel 1849. Dopo il colpo di stato del
2 dicembre si ritirò e dedicò agli studi. Tra le sue opere principali, ricordiamo: La democrazia
in America (pubblicato in due parti, nel 1835 e nel 1840) e L’Antico regime e la Rivoluzione
del 1856.
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La democrazia in America, prima opera importante di Tocqueville, costituisce un’illuminante analisi degli spazi e delle forme sociali americane,
in particolare per quello che riguarda l’applicazioni di principi di libertà e
diritti civili. La democrazia americana appare un «governo del popolo»
nel senso autentico del termine, cioè non soltanto una forma di governo nel
senso della pura rappresentanza politico-parlamentare, ma una riconfigurazione di tutti gli aspetti della vita della nazione grazie a cui diventa possibile
un’armonizzazione tra dovere e interesse, tra sfera pubblica e privata. Tocqueville ricostruisce i fondamenti del sistema politico americano ricorrendo a due elementi di interpretazione: da un lato la vastità del territorio,
dall’altro il pluralismo religioso. Ambedue evitano la conflittualità sociale
ma soprattutto l’atteggiamento interreligioso genera abitudini alla tolleranza ed alla convivenza pacifica tra comunità locali di diversa provenienza
etica e antropologica. A livello macrosociologico, in America, una realtà
sociale costituita da comunità diverse ottiene per la prima volta nella storia
moderna un riconoscimento istituzionale e politico grazie alla promulgazione della costituzione federale. Il fondamento della libertà politica e sociale americana è altresì rintracciabile nei complessi meccanismi legislativi
di limitazione reciproca degli interessi e nel bilanciamento dei poteri: un
cardine fondamentale della democrazia americana è nella riduzione progressiva del centralismo politico (tipico invece dei sistemi politici europei) che in America esiste solo se strutturalmente accompagnato da un vasto decentramento amministrativo.
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5. TEORIA DEL CONFLITTO SOCIALE: MARX
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Karl Heinrich Marx (1818-1883) studiò a Bonn, poi a Berlino, dove entrò in rapporto con
i «giovani hegeliani». Nel 1842 lavorò alla Gazzetta renana, giornale liberale. Nel 1843 il
giornale fu soppresso e Marx si recò a Parigi, dove pubblicò nel 1844 il primo ed unico numero
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degli Annali franco-tedeschi. Dal 1844 iniziò la sua lunga amicizia con Engels. Nel 1845 si
stabilì a Bruxelles. Aderì con Engels nel 1847 alla Lega dei comunisti, per la quale scrissero il
Manifesto del partito comunista, pubblicato nel 1848. Partecipò alla rivoluzione del 1848-49
in Germania. Fu a Colonia, Parigi e infine definitivamente a Londra, dove, nonostante le gravi
difficoltà economiche, s’impegnò in un’intensa attività politica e intellettuale e approfondì la
sua critica dell’economia politica, con diverse opere di rilievo, tra cui Il Capitale. Tra le sue
opere principali, ricordiamo: Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico (1842-43,
pubblicata nel 1927); Manoscritti economico-filosofici del 1844 (scritti nel 1844, pubblicati
nel 1928-32); La sacra famiglia (1845, con Engels), contro B. Bauer e la sinistra hegeliana, le
Tesi su Feuerbach (1845, pubblicate nel 1888), L’ideologia tedesca (1845-46, pubblicata nel
1932), anch’esso scritto in collaborazione con Engels, ancora una critica verso la sinistra hegeliana, Stirner in particolare, La miseria della filosofia, risposta alla «Filosofia della miseria»
di Proudhon (1847), il Manifesto del partito comunista (1847-48, con Engels), Lineamenti
fondamentali della critica dell’economia politica (manoscritti del 1857-59 e pubblicati parzialmente nel 1939-41), Per la critica dell’economia politica (1859), Il Capitale (il primo
volume nel 1867, il secondo e terzo postumi, nel 1885 e nel 1894), la Critica al programma di
Gotha (1875).
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A) Il lavoro alienato
L’indagine sociologica raggiunge eccezionali livelli nell’opera di Karl
Marx. Nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 (pubblicati solo nel
1932) troviamo una notevole analisi del moderno lavoro salariato che sarà
di grande importanza per gli sviluppi di tutta la tradizione marxista del Novecento. Gli economisti classici (Smith, Ricardo, Malthus) non si sono spinti
secondo Marx abbastanza a fondo nell’analisi della proprietà privata –
che è il fondamento del mondo moderno – e nell’analisi del suo rapporto
con il lavoro: avrebbero altrimenti colto le profonde contraddizioni che segnano la struttura della società borghese alle radici. La tesi centrale di Marx
è che la proprietà privata borghese si fondi sul lavoro salariato, che è tipicamente un lavoro alienato. Il concetto di «alienazione» o «estraniazione»
(che proviene da Rousseau, ma che trova una poderosa concettualizzione
filosofica in G.W.F. Hegel e successivamente in L. Feuerbach) indica un
processo di autentica perdita di se stessi: il lavoratore moderno si trova in
una situazione di strutturale dipendenza. Da strumento della possibile liberazione, il lavoro è progressivamente diventato mezzo della sua schiavitù: il potere economico e la proprietà privata, la gestione e il sistematico
sfruttamento del lavoro dipendente tipici del capitalismo maturo, si svelano
come espressione materiale e sensibile di una vita umana estraniata. Marx
teorizza in questo senso sia natura storica della proprietà privata sia la necessità della sua soppressione politico-rivoluzionaria.
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B) Il materialismo storico e il concetto di ideologia
Alla base di queste indagini che il giovane Marx conduce sulla struttura
della società borghese, vi è l’ipotesi di un nuovo metodo di indagine storica secondo il quale, per poter dire di conoscere un determinato periodo
storico è necessario conoscere il particolare modo di produzione e riproduzione materiale della vita che si dà in esso, e che è legato sia allo sviluppo delle forze produttive, sia alla forma dei rapporti sociali (teoria del materialismo storico). La struttura economica della società è data dal modo
di produzione determinato e dai rapporti di produzione che gli corrispondono. Essa costituisce la base sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica, e alla quale corrispondono determinate forme sociali di coscienza: diritto, politica, religione, filosofia, che sono quindi espressioni di
una determinata struttura economica e hanno il loro fondamento nella produzione materiale (anche se questo rapporto non va comunque inteso in
senso rigido).
«Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il
processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli
uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale
che determina la loro coscienza».
Marx oppone la concezione materialistica della storia, che considera la
vera «scienza» della società, alle mere ideologie: rappresentazioni che ricoprono la realtà dei fatti con una veste illusoria. In generale sono «ideologici» quei fenomeni che interessano le sovrastrutture, che si sovrappongono
alla struttura, inducendo a pensare che le idee e le attività intellettuali siano
indipendenti dalle condizioni materiali e che i concetti si sviluppino l’uno
dall’altro, invece di essere di volta in volta il prodotto di rapporti economico-sociali fra gli uomini.
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C) Il concetto di dialettica: l’eredità di Hegel
Per comprendere a fondo la novità del metodo di Marx, occorre sintetizzarne brevemente le caratteristiche e chiarire gli influssi che su di esso esercitò il concetto, squisitamente filosofico, di dialettica in Hegel. Marx si
forma infatti in ambiente hegeliano: stringe rapporti personali (ma non senza contrasti) con esponenti della cosiddetta «sinistra» hegeliana (tra cui
Ludwig Feuerbach). La dialettica è infatti senz’altro l’elemento teorico
centrale che accomuna Marx ed Hegel. In Hegel il termine possiede molte-
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plici significati strettamente collegati: essa designa anzitutto il processo
mediante il quale la realtà storica, nel suo cammino progressivo, giunge ad
autocomprensione, superando o conciliando tutte le opposizioni che ne
hanno segnato il cammino. Il questo senso, la dialettica è la legge stessa, la
logica della realtà storica.
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Ad un livello più specifico, «dialettico» è il processo mediante il quale tutta la realtà (da
Hegel definita «Spirito», Geist in tedesco) superando le divisioni, si «pacifica», si raccoglie, si
concretizza nell’unità del tutto. La dialettica hegeliana implica che i fenomeni (storici, logici,
culturali, naturali) si sviluppino secondo un ritmo triadico: tesi, antitesi, sintesi. La tesi è il
primo momento, quello della semplice affermazione, più o meno astratta o intellettuale: si
afferma qualcosa ma non si coglie ancora la ricchezza e la concretezza della cosa. L’antitesi è
il secondo momento, la «negazione determinata» della pura identità, l’estraneazione o alienazione dell’idea (sono tutti termini hegeliani): rappresenta il momento della scissione e della
rottura. Si tratta di un momento decisivo perché ci ricorda che ogni fenomeno, ogni parte
della realtà, non esiste da solo ma solo in un contesto di rapporti che prevedono il dissidio, la
contraddizione e la finale riconciliazione. L’antitesi nega in altri termini il carattere esclusivo
di un fenomeno, la sua fissità, la sua astrazione, la posizione intellettualistica che lo isola e che
spinge dimenticare che ogni cosa è in relazione col resto. Il terzo momento è infine quello
della sintesi. Si tratta del momento conclusivo, speculativo e razionale, in cui si coglie finalmente l’unità e la concretezza delle determinazioni opposte ed il positivo che emerge dalla
loro sintesi. La sintesi per Hegel Aufhebung, termine tedesco che indica contemporaneamente
il superamento che toglie l’opposizione tra tesi e antitesi e la conservazione, nello stesso
tempo, della verità di entrambe e della loro precedente opposizione.
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Marx accoglie nella sostanza l’ipotesi hegeliana che la totalità del divenire storico sia guidata da un procedimento dialettico, cioè da un intreccio
progressivo di elementi, fenomeni e contesti in stretta, logica, connessione.
Ma ne contesta l’astrattezza logica, la mancanza di ancoraggio alla realtà
storica, economica e sociologica concreta. Di qui l’ipotesi di effettuare un
capovolgimento della dialettica hegeliana che permetta di cogliere come il
«motore» della storia non sia tanto un elemento puramente teoretico o metaforico come il «cammino dello spirito» o il compimento dell’«Assoluto»
– secondo le terminologie hegeliane – quanto le concrete lotte di classe, le
contraddizioni sociali, il conflitto economico.
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D) La critica dell’economia politica
Nel suo confronto con l’economia politica borghese, Marx distingue gli
economisti volgari, che si limitano a produrre delle giustificazioni del capitalismo e mostrano superficialità teorica, dagli economisti classici (Smith e Ricardo), le cui analisi hanno valore scientifico (anche se le loro cate-
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gorie economiche, con limiti «borghesi», andrebbero ridiscusse). In generale, egli rifiuta e critica le analisi che fanno dei rapporti e modi di produzione capitalistici qualcosa di eterno, sforzandosi invece di vederli e mostrarli in una prospettiva storica e con dei limiti. L’analisi del capitalismo
e il confronto con l’economia politica classica darà luogo a diversi scritti,
tra i quali Il Capitale, opera celebre nella quale Marx ci mostra un’analisi
acuta e profonda delle strutture della sua epoca storica e si propone di spiegare il segreto dell’accrescimento della ricchezza e offrire dei mezzi per
misurarlo.
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Il punto di partenza dell’analisi è la merce che è il modo in cui si presentano i prodotti del
lavoro nell’attuale società. I prodotti possiedono un valore d’uso, che riguarda il loro consumo, la loro utilità, e un valore di scambio (o valore), quello che gli permette di essere scambiati sul mercato (mi permette di dire che 20 braccia di tela sono uguali a 10 libbre di tè).
Secondo l’equazione valore-lavoro stabilita da Ricardo (che Marx considera il suo principale
interlocutore), il valore di scambio di una merce è dato dalla quantità di lavoro necessario a
produrla. Il fatto che un prodotto del lavoro sia «merce» già lo identifica come prodotto creato
per essere venduto sul mercato, quindi da un certo tipo di lavoro in una certa società, nella
quale si produce per vendere e nella quale il lavoro produttivo è considerato non come lavoro
concreto, qualitativamente differente, ma come lavoro astratto, lavoro umano in generale,
quantificabile. Esso è contenuto nella merce ed è misurato sulla base del tempo medio occorrente a produrla. Questo è detto anche lavoro socialmente necessario alla produzione di
quella merce. Il fatto che la merce sia circondata da un alone come di misticismo, che la rende
come «naturale» e non permette di vedere che è il prodotto di una determinata forma di produzione e che dietro lo scambio, rapporto tra cose, ci sono rapporti tra gli uomini (la produzione
e la sua forma) è chiamato da Marx feticismo inerente al mondo delle merci.
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E) La forza-lavoro come merce
La forza-lavoro, costituita dall’attività del lavoratore e dalle sue capacità, è nella società capitalistica una merce: il lavoratore la vende e il capitalista l’acquista. Il valore della merce forza-lavoro sarà, come per le altre
merci, la quantità di lavoro occorrente a produrla, perciò il salario del lavoratore sarà stabilito sul minimo necessario per garantirne la sussistenza. Ma
la forza-lavoro è una merce particolare: l’unica merce in grado di produrre valore. Per questo risulta fondamentale per il capitalismo il potere di
acquisto della forza-lavoro. La condizione fondamentale per l’esistenza del
capitalismo – per la trasformazione del denaro in capitale – è la possibilità
di reperire sul mercato il lavoratore libero: un uomo costretto a vendere la
sua forza-lavoro.
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Nell’economia capitalistica il possessore di denaro produce la merce per aumentarlo (e
non per comprare altra merce), dunque l’elemento fondamentale è l’accrescimento del capi-
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tale: il plusvalore e il segreto di questo accrescimento non viene svelato dall’economia volgare, che rimane alla sfera della circolazione e al meccanismo della compra-vendita, ma sta nella
sfera della produzione e nell’uso di quella particolare merce che è la forza-lavoro. Comprata
alla pari sul libero mercato, nel suo consumo la forza-lavoro permette un aumento di valore, perché può essere usata oltre il tempo necessario per il suo riprodursi, cioè più del suo
valore di scambio, più di quanto sia stata pagata sul mercato sotto forma di salario. Dunque il
plusvalore è la differenza tra i beni prodotti dal lavoratore e il valore riconosciuto alla forzalavoro impiegata (salario).
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F) Limiti storici del capitalismo
Il meccanismo del capitalismo è mosso da un impulso crescente all’accumulazione: scopo del capitale non è produrre merci, ma valorizzarsi.
Questo va a svantaggio degli operai, anche nel caso in cui avvenga l’introduzione di nuove macchine e non con l’aumento diretto dello sfruttamento,
in quanto provoca la diminuzione della domanda di operai e la possibilità di
tenere bassi i salari. Genera inoltre ricorrenti quanto inevitabili crisi di sovrapproduzione: un eccesso di beni prodotti che non possono essere consumati dà luogo a squilibri e crisi cicliche. La contraddizione fondamentale,
germe implicito della dissoluzione del capitalismo, è che il profitto, stimolo della produzione capitalistica, tende a diminuire in seguito al progresso
tecnico (necessità di investire in nuove macchine) mettendo in pericolo il
sistema stesso.
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G) Lotta di classe e società comunista
Marx ed Engels scrivono Il manifesto del partito comunista nel 1848, su
richiesta della Lega dei comunisti, e vi descrivono la lotta tra due classi
sociali contrapposte: borghesia e proletariato. Il ruolo della borghesia nella storia ha molti aspetti positivi. Classe critica e rivoluzionaria per eccellenza, è stata capace di mutare il mondo, da molti punti di vista, ma non ha
distrutto le opposizioni strutturali di classe: «ha soltanto introdotto nuove
classi, nuove condizioni di oppressione, nuove forme di lotta, sostituendole
alle antiche». Il sistema produttivo borghese produce merci in abbondanza,
ma genera anche miseria della stragrande maggioranza della popolazione:
il proletariato è in questo senso un prodotto stesso della borghesia moderna. Tuttavia le lotte di rivendicazione sociale del proletariato, la classe più
sfruttata, culmineranno, secondo Marx, in una finale presa del potere delle
classi subalterne: in una società comunista verrà infine abolita la proprietà
privata e cesseranno le forme storiche della divisione del lavoro in un processo di progressiva estinzione dello Stato stesso.