1. Per cominciare: l’oggetto sonoro Nella grande varietà degli approcci e delle pratiche della composizione musicale contemporanea, è possibile gettare uno sguardo d’assieme secondo una prospettiva un po’ periferica, ma ancora non troppo usurata, quella che chiama in causa le nozioni di oggetto ed effetto sonoro. Molte davvero sono le pratiche legate all’ambito musicale, sia per l’effettivo numero di attori in gioco, sia perché molte sono le abilità sviluppate dal musicista-tecnologo contemporaneo, che oggi idealmente può lavorare in autonomia su ogni fase della creazione, dalla performance fino ai ritocchi finali in sede di missaggio. In questa sede mi concentrerò su una pratica apparentemente lontana da tecnologie ed effetti speciali: l’ascolto. Come si vedrà, tale pratica fa parte del nucleo profondo della teoria degli oggetti e degli effetti sonori, e permette uno sguardo unificante su attività apparentemente lontane. 1.1 Fonofissazioni di un musicista ingegnere I primi, conclamati oggetti sonori videro la luce nel 1948, quando il compositore francese Pierre Schaeffer iniziò a sperimentare la creazione di musica tramite la tecnologia della “fonofissazione”1, utilizzando come materia prima per le sue composizioni le registrazioni di “rumori, strumenti musicali tradizionali, occidentali o esotici, voci, discorsi, vari tipi di suoni sintetici” (Schaeffer 1966, p.60), in definitiva suoni “preesistenti, presi in prestito da un qualsiasi materiale sonoro, sia rumore o musica” (Schaeffer in Gentilucci 1982, p.34). I primi esempi di simili composizioni erano a tutti gli effetti dei montaggi altamente elaborati, quando non addirittura equilibristici, di diversi grammofoni fatti funzionare assieme, secondo un approccio che possedeva certamente i tratti del gioco e del bricolage, ma che nondimeno rispondeva ad una profonda curiosità intellettuale e speculativa. La definizione concettuale arrivò con gli anni, e si dovette aspettare il 1966 perché Schaeffer pubblicasse la summa delle sue ricerche, il Traité des objets musicaux, che conteneva la vera e propria grammatica di questo nuovo linguaggio musicale. Quei frammenti di fonofissazioni non sarebbero diventati objets sonores senza che Schaeffer avesse continuato a lavorare come teorico e non avesse creato attorno a sé la scuola del Groupe de Recherches de Musiques Concrète (GRMC, poi divenuto il GRM tutt’ora esistente). L’ambiente in cui conduceva le sue ricerche era un ambiente ibrido, dato che egli, prima ancora che musicista, era ingegnere: tale carica, che agli esordi esercitava presso la studio sperimentale della RTF (Radio Télévision Française), gli dava possibilità di mettere in atto le pratiche della nuova musica in studi di registrazione dotati della tecnologia necessaria, allora piuttosto rara. Culturalmente, si trattava comunque un ambiente di avanguardia musicale, ovvero quello di una frangia di musicisti che nelle dichiarazioni di intenti originarie – “far saltare le scogliere di marmo del- E|C Serie Speciale Anno I, n. 1 2007, pp. 9-14 ISSN (on-line): 1970-7452 ISSN (print): 1973-2716 EC Oggetti ed effetti sonori. Pratiche della composizione musicale contemporanea Michele Pedrazzi l’orchestrazione occidentale” – ricordavano in più punti il progetto rumorista del futurismo di Luigi Russolo (“Beethoven e Wagner ci hanno squassato i nervi e il cuore per molti anni. Ora ne siamo sazi”). 1.2 Concretamente, la rivoluzione Per quanto sia a tutt’oggi relegata ad una conoscenza specialistica, la rivoluzione di Schaeffer fu davvero grande, e ancora oggi rimane fresca e foriera di ispirazione. Fu innanzitutto una rivoluzione del piano dell’espressione musicale. I nuovi usi della tecnologia davano accesso al “tutto” sonoro come mai prima d’allora. Il discorso musicale, per essere enunciato, era sempre stato vincolato alla presenza di un interprete intermediario, ovvero l’esecutore, e ad una gamma precisa di timbri standardizzati, immodificabili dal compositore, ovvero gli strumenti musicali (inclusa la voce umana). Anche musicisti come Beethoven o Wagner si ponevano di fronte alle proprie orchestrazioni in termini di materiale sonoro, ma tutto quello che potevano fare per operare su di esso era trovare una mediazione musicale. Là dove un “orecchio sonoro” avesse richiesto di enfatizzare le frequenze alte, l’unica strategia possibile era di operare sull’arrangiamento ed inserire, ad esempio, una parte di ottavino ove necessario. Con l’apertura schaefferiana, il timbro di ottavino diventa solo una delle molteplici possibilità. Il pre-musicale si rivela il piano, tutt’altro che de-semantizzato, della grana sonora, così come per Roland Barthes il pre-verbale diviene il luogo della grana vocale, che attraverso “la grana della gola, la patina delle consonanti, la voluttà delle vocali, tutta una stereofonia della carne profonda” rivela “l’articolazione del corpo, della lingua, non quella del senso, del linguaggio” (Barthes 1973, p. 127 – curiosa la scelta del termine “stereofonia”). Schaeffer era ancora più radicale in questo: abolendo le “scogliere di marmo” del linguaggio orchestrale non era assolutamente interessato a rivelare un insieme di corpi vibranti, ciò che © 2007 AISS - Associazione Italiana di Studi Semiotici T. reg. Trib. di Palermo n. 2 - 17.1.2005 il suo empirismo, poco efficace per l’affermazione accademica, si ricongiungerà per vie sotterranee con la popular music e le sue pratiche. 10 gli interessava davvero era far emergere l’articolazione sonora in sé. A dispetto degli sforzi del GRMC, la diffusione della sensibilità “concreta” fu lenta, parziale, e soprattutto remota. Innanzitutto, già dagli inizi la nuova musica parigina venne ostacolata dalla querelle con la musica elettronica tedesca, che stava nascendo in quegli anni a Colonia2. La posizione degli elettronici era in sostanza opposta: escludendo dalla tavolozza ogni tipo di suono preesistente, essi lavoravano con suoni prodotti da generatori elettronici e poi depositati direttamente su nastro. In apparenza, non vi era più assolutamente nulla di “preso in prestito”, né dal mondo naturale, né dal liutaio, nemmeno dal costruttore di sintetizzatori, perché l’impressione era quella di lavorare direttamente con un codice genetico, costituito dai numeri del suono. Una simile razionalizzazione del processo compositivo apriva un campo di possibilità astratto e asettico, distante anni luce dall’empirismo parigino, e ad esso polemicamente contrapposto. In simile querelle furono gli elettronici a vincere, inglobando sotto la loro egida la musica concreta, che pativa un’apparenza troppo disinvolta e naïf rispetto all’austero sperimentalismo tedesco. “Non mantiene nella maniera più assoluta le promesse che qualche intuizione teorica lascerebbe sperare” giudica Armando Gentilucci nella sua (faziosa) Introduzione alla Musica Elettronica del 1982. E così quando nel 1955 il compositore elettronico Stockhausen include nel suo Gesang der Jünglinge alcune registrazioni concrete, il momento viene salutato come quello della sintesi logica e artisticamente pregna delle ricerche francesi e tedesche, la vera rivoluzione, cui viene dato il nome unificante di “elettroacustica”. I concreti, quindi alla fine degli anni cinquanta, trovano gli spazi dell’avanguardia occupati dagli elettronici, o, per meglio dire, dagli elettroacustici, tanto che persino Schaeffer fa marcia indietro e ritratta le sue posizioni. Ma come avremo modo di vedere, 2. Il prodotto di un particolare tipo di ascolto Nonostante le alterne fortune dal punto di vista dell’effettiva produzione musicale e della ricezione critica3, l’apparato teorico dei musicisti concreti si staglia come prezioso corpus di idee e suggestioni, coordinate da uno straordinario, seppure a volte dispersivo, intento sistematizzante. Una delle definizioni cardine di questo corpus è ovviamente quella dell’oggetto sonoro. L’oggetto sonoro è un avvenimento sonoro percepito come un insieme, come un tutto coerente e udito attraverso un ascolto ridotto (ècoute réduite), che lo riguarda cioé per se stesso, indipendentemente dalla sua provenienza o dal suo significato4. Si accede all’oggetto sonoro attraverso un’esperienza che viene significativamente battezzata acusmatica, in memoria delle lezioni della scuola pitagorica in cui il maestro parlava nascosto dietro una tenda, per evitare di distrarre i discepoli con il proprio aspetto corporeo. L’esperienza acusmatica permette di lavorare sul suono concentrandosi direttamente sulle sue qualità fisiche percepite, con una chiusura epistemologica che si potrebbe parafrasare con un “fuori dal suono non vi è salvezza”, facendo eco a quello che fece la semiotica francese con l’oggetto testuale a partire dagli anni ’60. Il passaggio dal musicale al sonoro, o meglio il naturale confluire del primo nel secondo, nella trattazione di Schaeffer doveva aprire la strada ad un nuovo solfeggio, una nuova grammatica che regolasse le catene (e le sovrapposizioni) delle unità sonore (Schaeffer 1966, pp. 475-597). Il solfeggio degli oggetti sonori non ha avuto il successo previsto, oggi le regole della musica concreta non sono state istituzionalizzate. Ma la definizione dell’oggetto racchiude una potenza sottostimata e moderna: l’oggetto sonoro non è un materiale, non è un tratto di proprietà fisiche, ma non è neanche il prodotto di un’inscrizione o di un gesto produttivo. È innanzitutto il prodotto di un particolare tipo di ascolto, l’ascolto ridotto. Le implicazioni fenomenologiche di questa prospettiva sono chiare. Gli oggetti sonori non esistono in sé, non sono le cause della percezione, ma è vero semmai che ascolto e oggetti si definiscono mutualmente, rispettivamente come attività percettiva ed oggetto di percezione. Ascolto e oggetto sono dei “correlati” (Schaeffer 1966, p.267). Chiaramente il pensiero di Schaeffer è in più punti accostabile alle teorie di Husserl e di Merleau-Ponty, e lui stesso vi si riferisce esplicitamente. Ma in quest’ambito ciò che vorrei sottolineare è che l’ascolto descritto nel nucleo teorico della musica concreta può essere ulteriormente indagato nella prospettiva delle pratiche semiotiche. L’ascolto ridotto, lontano dall’essere mera ricezione, travalica i confini di un banale processo di decodifica per assurgere allo stato di un vero e proprio agire musicale. Il nuovo ascolto è un fare. Michele Pedrazzi · Oggetti ed effetti sonori. Pratiche della composizione musicale contemporanea 2.1 Un nuovo tipo di attenzione Vediamo allora la definizione ufficiale dell’ascolto ridotto. Il riferimento per queste definizioni classiche è ovviamente il traité di Schaeffer (1966, pp. 270-272), più agilmente consultabile anche nella versione compilata a dizionario che ne fece Michel Chion nel 1983, la Guide des objet sonores. L’ascolto ridotto è ascoltare il suono per se stesso, come oggetto sonoro, facendo astrazione dalla sua provenienza, reale o supposta, e dal senso5 di cui può essere portatore. Ma la definizione è incompleta se non si tiene presente che l’ascolto ridotto è descritto in più parti come “un’attitudine”, sostanzialmente come un vero e proprio abito; ovvero come scriveva C.S. Peirce, “la modificazione della tendenza di una persona verso l’azione, tendenza che risulta da esperienze precedenti o da precedenti sforzi o atti di volontà” (Peirce CP 5.476, tr. it. 1980 p.291). Gli abiti in Peirce hanno gradi di forza, che si manifestano come un misto di prontezza all’azione, mentre il mutamento di un abito consiste spesso nell’aumento o nella diminuzione della forza di un abito precedente. Come per le “disposizioni virtuose” in Aristotele (hexeis), solo la ripetizione delle azioni che producono mutamenti incrementa la forza dei mutamenti stessi, costituendo quindi un meccanismo di rinforzo basato sull’efficacia. Come evidenzia Chion, l’ascolto concreto non è certo dote innata: “l’atto di fare astrazione dalle nostre abitudini di ascolto è un atto volontaristico e artificiale” (1983, tr. it. p.14). Furono le prime esperienze con fonofissazioni manipolate – come quella del solco chiuso (sillon fermé, ovvero il solco di un disco chiuso ad anello) o dalla campana tagliata (cloche coupée, ovvero l’ascolto di un suono di una campana privato dell’attacco iniziale) – a mettere in luce la possibilità di uno scarto percettivo, rivelando la ricchezza intrinseca del materiale pre-musicale. Esse portarono i musicisti a cercare un ascolto che si disinteressasse alla causalità e si concentrasse sul paradigma delle proprietà concrete, ancor prima di averle pensate all’interno di una composizione. Ma, avverte nuovamente Chion, “prima di poter accedere all’ascolto ridotto, tuttavia, è necessario passare attraverso alcuni esercizi di decondizionamento, per mezzo dei quali prendere coscienza dei propri riflessi d’ascolto “di riferimento” e diventare capaci di sospenderli al momento opportuno” (1983, tr. it. p.14). Un compositore di diversa estrazione, ma pienamente nel solco della lezione di schaefferiana, è Murray Schafer, che a questo riguardo spiega più praticamente in cosa possa consistere questa “pulizia dell’orecchio”. “Molti esercizi possono facilitare questa pulizia, ma almeno all’inizio gli esercizi più importanti sono quelli che cercano di insegnare il rispetto del silenzio. [...] Talvolta è utile esercitarsi a trovare un suono che presenti determinate caratteristiche, ad esempio, un suono che abbia un’intonazione ascendente in partenza, o un altro consistente in una serie di brevi esplosioni non periodiche, o un altro ancora che parta con un rumore sordo e matto, seguito da un tremolio acuto, o infine un altro che combini insieme un ronzio e uno stridio acuto” (Murray Schafer 1977, tr. it. p.289). Questo esercizio di pulizia, che assomiglia molto all’epoché fenomenologica, mostra come il compositore concreto necessiti di una incorporazione profonda del principio schaefferiano (e al contempo quanto sia difficile far accedere questo livello di senso ad un metalinguaggio descrittivo; vedi l’ambiguo “rumore sordo e matto”). La presa di coscienza delle proprie routine percettive da sola non è sufficiente: l’esercizio è volto a portare l’ascolto ridotto al livello di una legge immanente, alla stessa maniera in cui un altro autore fortemente legato alle pratiche, Pierre Bourdieu, identificava habitus “immanenti alla concertazione delle pratiche”, che pur essendo basati su routine e poca o nessuna concettualizzazione, prevedono in realtà un alto tasso di creatività (Bourdieu 1972). Abbiamo un fare interpretativo rieducato, riconfigurato nelle sue soglie semiotiche, e fondamentalmente antiplatonico: vuole a tutti i costi guardare le ombre che passano sulla parete della grotta e non ne vuole sapere niente dei loro proprietari. Le pratiche di ascolto ridotto si traducono inoltre in un rimescolamento delle canoniche figure dell’autore e del lettore. Infatti si tratta di un ascolto in prima istanza riflessivo di un autore che continuamente interroga il proprio materiale, che manipola ma che si lascia guidare, perché “di fatto, l’effetto di una manipolazione su un suono è imprevedibile a priori sulla carta, se non in casi particolari. Per questa musica […] la fabbricazione del materiale sonoro non termina che al momento in cui viene dato l’ultimo tocco alla realizzazione dell’opera. Il materiale non è già esistente all’inizio; come la materia visiva per il pittore, esso non è il punto di partenza, bensì il punto d’arrivo, lo scopo. Mentre, simmetricamente, la composizione inizia con il primo suono fissato” (Chion 1991, tr. it. p.52). È abbastanza inusuale immaginare l’attività del musicista concreto, tecnologo e magari “topo di laboratorio”, attraverso una descrizione più vicina a quella dell’improvvisatore jazz. Ma come per il solista di jazz, qui l’attività creativa è il risultato di una costante apertura a tutto quello che giunge agli orecchi. Non vi è più ricezione ma interazione, secondo un operare che, pur potendo pilotare il processo, si mantiene al tempo stesso disponibile ai suoi imprevedibili sviluppi. Come per le pratiche sostenute da habitus in Bourdieu, la disposizione all’ascolto ridotto richiede esercizio per poter accedere ad un livello immanente, dove la regola non viene evocata esplicitamente, a garanzia dell’immediatezza della risposta e del grado di libertà del sistema. “È richiesto un nuovo tipo di attenzione, che il compositore mantiene da un capo all’altro del lavoro in stato di costante disponibilità percettiva e di attività compositiva. Egli non deve pensare al proprio materiale sonoro come già esistente né allentare la propria vigilanza uditiva, poiché è sempre nella condi- E|C Serie Speciale · Anno I, n. 1 2007 11 zione di produrlo, viverlo, scoprirlo, fino all’ultimo momento”. (Chion 1991, tr. it. p.54). Questo meccanismo in sé non è nuovo, sappiamo già che nell’interpretazione di un testo solo il punto di vista proprio della fine lettura è in grado di dar luogo ad interpretazioni stabili. Una vera e propria teoria di semantica musicale è stata costruita a partire dalla natura processuale della fruizione musicale (Meyer 1956, Barbieri 2004), poiché l’ascolto è un susseguirsi di inferenze sulla base di ipotetici sviluppi, di interpretazioni “che non necessariamente […] devono trovare una piena risoluzione nell’interpretazione stabile del tutto”, dato che “ogni punto di vista che si ponga durante il percorso di fruizione è transeunte e provvisorio” (Barbieri 2004, p.47)”. Ma tutto ciò vale anche nella prospettiva autoriale, che si sdoppia e si rimette di discussione di fronte alle emersioni del ribollire sonoro. 12 2.2 Acusmatica dei giorni nostri Abbiamo parlato di disposizione ad ascoltare il suono in sé e a lasciarsi guidare dai suoi sviluppi. Ebbene, oggi, dietro il vetro della cabina di regia di un qualsiasi studio di registrazione (novello schermo acusmatico pitagorico), c’è un tecnico che è preposto esattamente a questa attività, un tecnico che non necessariamente deve conoscere la musica, gli strumenti o chi li ha suonati (né tanto meno la teoria schaefferiana), ma che ha come unico compito quello di ascoltare e interagire con il suono. A tutt’oggi egli deve in sostanza montare tra loro diverse “fonofissazioni”: in uno studio di produzione odierno le voci e gli strumenti sono registrati separatamente, per piccoli frammenti, così da poter controllare, per mezzo di un missaggio a più piste, le sincronie, le equalizzazioni, i riverberi, la spazializzazione, “ottenendo infine un suono che è puro prodotto di studio e sarà in gran parte responsabile del successo del brano” (Delalande 2002). La figura dietro tutto ciò (che può riassumere in sé oppure scomporsi nei ruoli dell’arrangiatore, del fonico, dell’ingegnere del suono) è responsabile di quella oggi viene chiamata produzione di un brano. E da qui sorge il ruolo del produttore, l’uomo dietro il suono di un artista, in un rapporto per certi versi simile a quello che ci poteva essere nella canzone leggera di un tempo tra un autore e il suo interprete. I produttori sono ben conosciuti tra i musicisti, e ultimamente il loro nome travalica il campo degli addetti ai lavori, secondo un fenomeno che assomiglia a quello avvenuto per la visibilità dei registi nell’ambito cinematografico. La pratica del produttore sorge dal basso, da approcci fortemente empirici, non è teorizzata e in genere poco autorappresentata. Essere buoni produttori, si dice, “è una questione di orecchio”. E con ciò il produttore, riduttore del proprio ascolto, si configura come un novello adepto della musica concreta. 3. Un allegro mescolamento 3.1 Sensi d’effetto Veniamo quindi al presente, alle mutazioni sonore in corso, passando per l’entrata in campo degli effetti sonori. Il termine effetto sonoro non è direttamente associato alla ricerca di Schaeffer. Nel linguaggio comune con esso ci si riferisce a qualche “effetto speciale” audio o al lavoro di composizione della banda sonora per gli audiovisivi (dove un effetto sonoro è in sostanza un rumore aggiunto in postproduzione). In un’accezione più specificamente musicale, l’effetto sonoro consiste nell’alterazione di una sonorità attraverso l’applicazione di dispositivi meccanici o algoritmi elettronici (vi sono effetti di eco, di sfasamento, di distorsione). E in sostanza la definizione comune verte sull’effetto di realtà, come per l’effetto di senso della semiotica generativa, “un’impressione di realtà prodotta dai nostri sensi a contatto con il senso” (Greimas e Courtés 1979), ottenuto in questo caso con un’organizzazione di unità sonore non per forza appartenenti al mondo naturale. Nel 1995 il gruppo di ricerca del laboratorio Cresson di Grenoble diede alle stampe un repertorio degli effetti sonori, sottoponendo il termine ad una complessa ridefinizione. Il punto di partenza del gruppo di Cresson è, nuovamente, quello di cercare di organizzare il campo del sonoro. Scrive Jean-Francois Augoyard, direttore del gruppo: “Scopriamo nella nostra esistenza una quantità di comportamenti guidati intuitivamente da indizi sonori così familiari che la scienza non li percepisce più. Privati di una terminologia precisa che i discorsi eruditi riservano agli oggetti della musicologia, della fonologia, o classificati come dannosi, i suoni ordinari penetrano pertanto nella cultura comune dell’agire e del parlare, altrettanto bene nella pratica professionale, quanto nella vita di tutti i giorni. e, come capita spesso, l’arte ha già colto ciò che il sapere non ha ancora percepito. La pratica musicale contemporanea mescola allegramente i suoni” (Augoyard e Torgue 1995, p.XXI). Il punto di partenza per il gruppo di Grenoble è sicuramente quello di una pragmatica sonora: gli eventi sonori sono visti innanzitutto per la loro forza, per così dire, perlocutoria, nel senso di condizionamento ad agire. Ma il gruppo si accorge che non si tratta semplicemente di studiare “behaviouristicamente” una serie di reazioni a stimoli sonori. Un repertorio pluridisciplinare degli effetti sonori non può limitarsi a delineare un’insieme di condotte d’azione causate da eventi sonori, perché ogni effetto del sonoro è in sé “un’operazione estetica” compiuta dal soggetto coinvolto, un fenomeno creativo contestualmente determinato, o, per ritornare allo schema fenomenologico, ad una mutua definizione di soggetto e oggetto. L’effetto sonoro di Cresson descrive questa stretta interazione tra ambiente sonoro fisico, il luogo sonoro di una comunità, e il “paesaggio sonoro interno” a ciascun individuo. E’ chiaro che a questo punto si perde il verso consequenziale che vuole prima la causa e poi l’effetto. Si tratta ancora una volta di interazioni e allora forse possiamo parlare direttamente di pratiche sonore più che di effetti. Lucio Spaziante (2005, p. 41), confrontandosi con la nozione semiotica di effetto Michele Pedrazzi · Oggetti ed effetti sonori. Pratiche della composizione musicale contemporanea di senso, propone la nuova formula sensi d’effetto proprio per liberarci di una prospettiva meccanicistica. 3.2 Ricongiungimenti sotterranei Ma come “la pratica musicale contemporanea mescola allegramente i suoni”? Prendiamo la frase di Augoyard alla lettera e rivolgiamoci alle musiche contemporanee senza distinzioni di genere. La prima pratica da prendere in esame è quella dei disc jockey. L’esibizione di un buon dj consiste nel mescolare dischi: sovrapporli, inserire frammenti dell’uno all’interno dell’altro, intrecciare e congiungere elementi diversi per creare una suite musicale originale. Allo stesso modo, creare o remixare un brano dance verte di solito sulla medesima attività di rielaborazione di brandelli sonori (campioni e ritmi predefiniti) ricombinati per ottenere qualcosa di nuovo. Lo studio di registrazione garantisce più livelli di complessità, ma in fondo costruire o ricostruire un brano dance è molto simile a una versione ridotta del djing6. Una lettura di testi storiografici, come l’interessantissimo Last night a dj saved my life (Brewster e Broughton 1999), permette di legare “l’allegro mescolamento di suoni” alle pratiche sociali da cui nasce. Ad esempio, apprendiamo che questo intrecciarsi di fonti, agli albori dell’hip-hop, consisteva in una tecnica di missaggio estremamente semplice. All’inizio degli anni ’70 il dj pioniere Kool Herc suonava i vecchi pezzi di musica funk e ripeteva ad libitum le parti contenenti gli stacchi ritmici adatti al ballo break-dance. Il nome viene proprio da questo: i giovani neri del Bronx compravano di dischi di cui suonavano soltanto i trenta secondi circa del break strumentale funzionale al ballo, e Kool Herc li accontentava con un rudimentale montaggio di questi frammenti sonori (ivi, p.269). E prima ancora, vi è l’esempio del genere dub. Nato in Giamaica attorno alla fine degli anni ‘60 come derivazione diretta del genere reggae, il dub che è uno dei primi generi musicali popular a fare uso intensivo di effetti sonori (come alterazioni della sonorità). Anche qui l’esigenza dei dj (che nel dub si chiamano selector) è di accontentare un pubblico vorace di novità discografiche. A fronte di un relativo isolamento discografico e delle fluttuazioni delle mode musicali americane, i disc jockey giamaicani cominciano a riciclare i brani reggae già presenti nel loro repertorio sfruttando le possibilità offerte dalla recente tecnologia della registrazione su nastro multitraccia. Il dub lavora allora su un brano preesistente, separando le tracce e aggiungendo o sottraendo ogni elemento sonoro fino a ottenere una nuova composizione. E le pratiche di riferimento sono ancora una volta la performance pubblica e il ballo: “potenziare la linea di basso fino a renderla una presenza mostruosa e sconquassante, eliminare tutte le parti di una canzone eccetto la batteria, applicare a un frammento di cantato un effetto d’eco, dilatare un ritmo con un interminabile delay: tutte strategie con cui il dub riesce a trasformare una canzone piatta in un montuoso paesaggio tridimensionale” (ivi, p.150). Oggigiorno i dj più acclamati sono ad un tempo selector, remixer e produttori. Creare musica propria o rielaborare quella altrui è un allargamento naturale del loro ruolo, ulteriormente facilitati dalla trasposizione delle vecchie pratiche nel dominio digitale. “Oggi, grazie al concetto di collage musicale […] e all’attrezzatura che permette di crearlo, quello che un produttore fa in studio è quasi identico a ciò che farebbe per realizzare un remix e leggermente diverso da quanto fa un dj in un locale” (Brewster e Broughton 1999, p.417). Gli esempi potrebbero essere molteplici: siamo al cospetto di un fronte multiforme di stili musicali legati dal comune approccio all’unità sonora7. Dietro ognuno di questi stili diversissimi (e in gran parte ancora musicali in senso tradizionale) rimane l’importanza imprescindibile e non più puramente strumentale della figura che ascolta e plasma il suono agendo direttamente su di esso. La sovrapposizione di queste tendenze è particolarmente affascinante prendendo in considerazione il settore della musica “commerciale” (ovvero legato ad un mercato vero e proprio) oggi chiamato musica elettronica. L’electronic music (in tutti i suoi sottogeneri) non è una continuazione dell’elettronica colta della Colonia degli anni ‘50, ma deriva essenzialmente dal genere techno, genere di musica dance nato a Detroit alla fine degli anni ’80, a sua volta come costola della house di Chicago. Nel 1990 la techno si sposta in Europa esplorando più a fondo il modello robotico/computeristico del gruppo dei Kraftwerk, che era tra le sue fonti di ispirazione. E infine, nel terzo millennio, Aphex Twin, artista elettronico della Warp Records, compone pezzi per pianoforte preparato alla maniera di John Cage, pezzi che sono stati poi eseguiti nel 2005 dalla London Sinfonietta in un programma che mescolava senza soluzione di continuità Edgar Varése, Squarepusher, Steve Reich, Plaid lo stesso Cage. Il ricongiungimento è avvenuto8. 4. Conclusioni Il nastro magnetico, tanto caro a Schaeffer è pressoché scomparso. Il disco, padre della musica concreta e feticcio della cultura dj, è relegato ad usi sempre più settoriali e tendenti al nostalgico. I supporti musicali oramai sono incorporei o comunque fisicamente inattingibili (si pensi alla rivoluzione dell’mp3). Ma l’oggetto sonoro rimane intatto. Se ne sono presi cura legioni di nonmusicisti che, proprio in ragione della loro estraneità ad un percorso istituzionalizzato, hanno avuto minori difficoltà a decondizionare e ridurre il proprio ascolto, aprendosi ad una forma dell’espressione che operasse direttamente sul sonoro, sul pre-musicale. E poiché non è facile modificare un abito particolarmente inveterato, sono ancora pochi i musicisti che riescono a passare con successo da un ascolto all’altro. Negli anni ’50 la nuova forma dell’espressione trovata da Pierre Schaeffer si isolava sotto le accuse di “poca sostanza” all’interno del panorama colto, orientandosi sempre più verso la teorizzazione musicologica. Nelle E|C Serie Speciale · Anno I, n. 1 2007 13 piccole rivoluzioni sonore popular invece il percorso fu di segno opposto e vide pratiche sociali come il ballo o la performance pubblica fornire lo stimolo per inseguire nuove sonorità, che si affermarono attraverso bricolage espressivi resi possibili dalla tecnologia che si rendeva disponibile, ricongiungendosi infine all’idea schaefferiana. Da un certo punto di vista potrebbe sembrare fuorviante o superfluo scomodare nuovamente gli oggetti sonori per descrivere le nuove pratiche, poiché la stessa esperienza acusmatica, oggi, in una società costantemente irrorata di suoni “fonofissati” e diffusi attraverso amplificatori ubiqui, non desta più particolari sorprese. Ma ciò che rimane, a latere di un percorso di analisi che passi con cura attraverso le teorizzazioni della musica concreta, è una nozione di ascolto che si pone innanzitutto come una pratica compositiva. L’ascolto ridotto (potremmo forse chiamarlo anche ascolto sonoro) non serve ad interpretare un’opera, né ad apprezzarla di più, ma è innanzitutto un vero e proprio strumento di creazione, assolutamente contemporaneo. Note 1 14 Ovvero la registrazione del suono su supporto fisico. Così chiamata ancora oggi dal compositore e saggista Michel Chion, all’epoca di Schaeffer la fonofissazione avveniva con l’incisione di dischi in gomma morbida e poi, non appena fu possibile, tramite il più malleabile nastro magnetico. 2 Su impulso di Erbert Eimert e dell’allora ventenne Karlheinz Stockhausen. 3 Per ulteriori dettagli e per una più estesa bibliografia, cfr. l’articolo di Francois Delelande sul primo volume dell’Enciclopedia della Musica Einaudi (2002). 4 La teoria semiotica soggiacente al traité, complessa e idiosincratica, meriterebbe uno studio a parte. Per certi versi l’approccio sembra invitare ad una sovrapposizione con la teoria di C.S. Peirce. In Schaeffer il significato è sens, e consiste nel rinvio di tipo arbitrario e culturalmente mediato, proprio del simbolo peirceano. Invece, il rinvio per riferimento causale (la provenienza) è per entrambi proprio dell’indice. 5 Anche per Chion “senso” sottintende l’aspetto culturale di un segno musicale, che rinvia a contenuti e giudizi associati per convenzione, quindi secondo una modalità simbolica. 6 Non a caso oggi Schaeffer (e non Stockhausen) è spesso invocato come padre spirituale di molti musicisti dell’area sperimentale. “Il turntablism era stato concepito molti anni prima che i dj hip hop lo trasformassero in realtà. […] il compositore francese Pierre Schaeffer […] sperimentò principalmente usando la nuova tecnologia di registrazione su nastro magnetico, ma si dilettò anche con i giradischi (che lui ovviamente conosceva con il nome di “grammofoni”)” (Brewster e Broughton 1999, p.310). 7 Andrebbero citate qui almeno le esplicite influenze concrete nella musica pop. Valgano le più famose, come Revolution n.9 dei Beatles (1968), l’intro di Re-Make/Re-Model dei Roxy Music (1972), il montaggio che chiude l’album We’re only in it for the money di Frank Zappa (1968). O anche il finale di Bike (1967), così come il brano Alan psychedelic breakfast (1970), en- trambi dei Pink Floyd, nonostante spesso i fini siano più aneddotici che concreti. 8 Non volendo qui includere (impossibili) trascrizioni su pentagramma o poco leggibili visualizzazioni sonografiche, non posso che rimandare all’ascolto, possibilmente ravvicinato e comparativo, di Pierre Schaeffer, Études des Casseroles (1948), Michel Chion, Coup de soleil sur un vitrail, 1er mouvement (1975), Autechre, Scose Poise (2001), Radiohead, Pakt like sardines in a case (2001). Bibliografia Augoyard, J.F., Torgue, H., 1995, A l’ècoute de l’environenement. Répertoire des effets sonores, Marsiglia, Parenthèses; trad. it. Repertorio degli effetti sonori, Lucca, LIM, 2003. 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Michele Pedrazzi · Oggetti ed effetti sonori. Pratiche della composizione musicale contemporanea