1. Per cominciare: l’oggetto sonoro
Nella grande varietà degli approcci e delle pratiche della composizione musicale contemporanea, è possibile
gettare uno sguardo d’assieme secondo una prospettiva
un po’ periferica, ma ancora non troppo usurata, quella
che chiama in causa le nozioni di oggetto ed effetto sonoro. Molte davvero sono le pratiche legate all’ambito
musicale, sia per l’effettivo numero di attori in gioco,
sia perché molte sono le abilità sviluppate dal musicista-tecnologo contemporaneo, che oggi idealmente può
lavorare in autonomia su ogni fase della creazione, dalla performance fino ai ritocchi finali in sede di missaggio. In questa sede mi concentrerò su una pratica apparentemente lontana da tecnologie ed effetti speciali:
l’ascolto. Come si vedrà, tale pratica fa parte del nucleo
profondo della teoria degli oggetti e degli effetti sonori,
e permette uno sguardo unificante su attività apparentemente lontane.
1.1 Fonofissazioni di un musicista ingegnere
I primi, conclamati oggetti sonori videro la luce nel 1948,
quando il compositore francese Pierre Schaeffer iniziò
a sperimentare la creazione di musica tramite la tecnologia della “fonofissazione”1, utilizzando come materia
prima per le sue composizioni le registrazioni di “rumori, strumenti musicali tradizionali, occidentali o esotici, voci, discorsi, vari tipi di suoni sintetici” (Schaeffer
1966, p.60), in definitiva suoni “preesistenti, presi in
prestito da un qualsiasi materiale sonoro, sia rumore o
musica” (Schaeffer in Gentilucci 1982, p.34). I primi
esempi di simili composizioni erano a tutti gli effetti dei
montaggi altamente elaborati, quando non addirittura
equilibristici, di diversi grammofoni fatti funzionare assieme, secondo un approccio che possedeva certamente
i tratti del gioco e del bricolage, ma che nondimeno rispondeva ad una profonda curiosità intellettuale e speculativa. La definizione concettuale arrivò con gli anni,
e si dovette aspettare il 1966 perché Schaeffer pubblicasse la summa delle sue ricerche, il Traité des objets musicaux, che conteneva la vera e propria grammatica di
questo nuovo linguaggio musicale. Quei frammenti di
fonofissazioni non sarebbero diventati objets sonores senza
che Schaeffer avesse continuato a lavorare come teorico e non avesse creato attorno a sé la scuola del Groupe
de Recherches de Musiques Concrète (GRMC, poi divenuto il
GRM tutt’ora esistente). L’ambiente in cui conduceva
le sue ricerche era un ambiente ibrido, dato che egli,
prima ancora che musicista, era ingegnere: tale carica,
che agli esordi esercitava presso la studio sperimentale
della RTF (Radio Télévision Française), gli dava possibilità
di mettere in atto le pratiche della nuova musica in studi
di registrazione dotati della tecnologia necessaria, allora piuttosto rara. Culturalmente, si trattava comunque
un ambiente di avanguardia musicale, ovvero quello di
una frangia di musicisti che nelle dichiarazioni di intenti originarie – “far saltare le scogliere di marmo del-
E|C Serie Speciale
Anno I, n. 1 2007, pp. 9-14
ISSN (on-line): 1970-7452
ISSN (print): 1973-2716
EC
Oggetti ed effetti sonori.
Pratiche della composizione
musicale contemporanea
Michele Pedrazzi
l’orchestrazione occidentale” – ricordavano in più punti il progetto rumorista del futurismo di Luigi Russolo
(“Beethoven e Wagner ci hanno squassato i nervi e il
cuore per molti anni. Ora ne siamo sazi”).
1.2 Concretamente, la rivoluzione
Per quanto sia a tutt’oggi relegata ad una conoscenza specialistica, la rivoluzione di Schaeffer fu davvero
grande, e ancora oggi rimane fresca e foriera di ispirazione. Fu innanzitutto una rivoluzione del piano dell’espressione musicale. I nuovi usi della tecnologia davano accesso al “tutto” sonoro come mai prima d’allora.
Il discorso musicale, per essere enunciato, era sempre
stato vincolato alla presenza di un interprete intermediario, ovvero l’esecutore, e ad una gamma precisa di
timbri standardizzati, immodificabili dal compositore,
ovvero gli strumenti musicali (inclusa la voce umana).
Anche musicisti come Beethoven o Wagner si ponevano
di fronte alle proprie orchestrazioni in termini di materiale sonoro, ma tutto quello che potevano fare per
operare su di esso era trovare una mediazione musicale.
Là dove un “orecchio sonoro” avesse richiesto di enfatizzare le frequenze alte, l’unica strategia possibile era
di operare sull’arrangiamento ed inserire, ad esempio,
una parte di ottavino ove necessario. Con l’apertura
schaefferiana, il timbro di ottavino diventa solo una delle molteplici possibilità. Il pre-musicale si rivela il piano,
tutt’altro che de-semantizzato, della grana sonora, così
come per Roland Barthes il pre-verbale diviene il luogo
della grana vocale, che attraverso “la grana della gola,
la patina delle consonanti, la voluttà delle vocali, tutta
una stereofonia della carne profonda” rivela “l’articolazione del corpo, della lingua, non quella del senso,
del linguaggio” (Barthes 1973, p. 127 – curiosa la scelta del termine “stereofonia”). Schaeffer era ancora più
radicale in questo: abolendo le “scogliere di marmo”
del linguaggio orchestrale non era assolutamente interessato a rivelare un insieme di corpi vibranti, ciò che
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T. reg. Trib. di Palermo n. 2 - 17.1.2005
il suo empirismo, poco efficace per l’affermazione accademica, si ricongiungerà per vie sotterranee con la
popular music e le sue pratiche.
10
gli interessava davvero era far emergere l’articolazione
sonora in sé.
A dispetto degli sforzi del GRMC, la diffusione della
sensibilità “concreta” fu lenta, parziale, e soprattutto
remota. Innanzitutto, già dagli inizi la nuova musica
parigina venne ostacolata dalla querelle con la musica
elettronica tedesca, che stava nascendo in quegli anni a
Colonia2. La posizione degli elettronici era in sostanza
opposta: escludendo dalla tavolozza ogni tipo di suono preesistente, essi lavoravano con suoni prodotti da
generatori elettronici e poi depositati direttamente su
nastro. In apparenza, non vi era più assolutamente
nulla di “preso in prestito”, né dal mondo naturale, né
dal liutaio, nemmeno dal costruttore di sintetizzatori,
perché l’impressione era quella di lavorare direttamente
con un codice genetico, costituito dai numeri del suono.
Una simile razionalizzazione del processo compositivo
apriva un campo di possibilità astratto e asettico, distante anni luce dall’empirismo parigino, e ad esso polemicamente contrapposto. In simile querelle furono gli
elettronici a vincere, inglobando sotto la loro egida la
musica concreta, che pativa un’apparenza troppo disinvolta e naïf rispetto all’austero sperimentalismo tedesco.
“Non mantiene nella maniera più assoluta le promesse
che qualche intuizione teorica lascerebbe sperare” giudica Armando Gentilucci nella sua (faziosa) Introduzione
alla Musica Elettronica del 1982. E così quando nel 1955
il compositore elettronico Stockhausen include nel suo
Gesang der Jünglinge alcune registrazioni concrete, il momento viene salutato come quello della sintesi logica e
artisticamente pregna delle ricerche francesi e tedesche,
la vera rivoluzione, cui viene dato il nome unificante di
“elettroacustica”. I concreti, quindi alla fine degli anni
cinquanta, trovano gli spazi dell’avanguardia occupati
dagli elettronici, o, per meglio dire, dagli elettroacustici,
tanto che persino Schaeffer fa marcia indietro e ritratta le sue posizioni. Ma come avremo modo di vedere,
2. Il prodotto di un particolare tipo di ascolto
Nonostante le alterne fortune dal punto di vista dell’effettiva produzione musicale e della ricezione critica3,
l’apparato teorico dei musicisti concreti si staglia come
prezioso corpus di idee e suggestioni, coordinate da uno
straordinario, seppure a volte dispersivo, intento sistematizzante. Una delle definizioni cardine di questo corpus è ovviamente quella dell’oggetto sonoro.
L’oggetto sonoro è un avvenimento sonoro percepito
come un insieme, come un tutto coerente e udito attraverso un ascolto ridotto (ècoute réduite), che lo riguarda cioé
per se stesso, indipendentemente dalla sua provenienza
o dal suo significato4. Si accede all’oggetto sonoro attraverso un’esperienza che viene significativamente battezzata acusmatica, in memoria delle lezioni della scuola
pitagorica in cui il maestro parlava nascosto dietro una
tenda, per evitare di distrarre i discepoli con il proprio
aspetto corporeo. L’esperienza acusmatica permette di
lavorare sul suono concentrandosi direttamente sulle
sue qualità fisiche percepite, con una chiusura epistemologica che si potrebbe parafrasare con un “fuori
dal suono non vi è salvezza”, facendo eco a quello che
fece la semiotica francese con l’oggetto testuale a partire dagli anni ’60. Il passaggio dal musicale al sonoro,
o meglio il naturale confluire del primo nel secondo,
nella trattazione di Schaeffer doveva aprire la strada
ad un nuovo solfeggio, una nuova grammatica che regolasse le catene (e le sovrapposizioni) delle unità sonore
(Schaeffer 1966, pp. 475-597). Il solfeggio degli oggetti
sonori non ha avuto il successo previsto, oggi le regole
della musica concreta non sono state istituzionalizzate.
Ma la definizione dell’oggetto racchiude una potenza
sottostimata e moderna: l’oggetto sonoro non è un materiale, non è un tratto di proprietà fisiche, ma non è
neanche il prodotto di un’inscrizione o di un gesto produttivo. È innanzitutto il prodotto di un particolare tipo
di ascolto, l’ascolto ridotto. Le implicazioni fenomenologiche di questa prospettiva sono chiare. Gli oggetti sonori
non esistono in sé, non sono le cause della percezione,
ma è vero semmai che ascolto e oggetti si definiscono
mutualmente, rispettivamente come attività percettiva
ed oggetto di percezione. Ascolto e oggetto sono dei
“correlati” (Schaeffer 1966, p.267).
Chiaramente il pensiero di Schaeffer è in più punti accostabile alle teorie di Husserl e di Merleau-Ponty, e lui
stesso vi si riferisce esplicitamente. Ma in quest’ambito ciò che vorrei sottolineare è che l’ascolto descritto
nel nucleo teorico della musica concreta può essere ulteriormente indagato nella prospettiva delle pratiche
semiotiche. L’ascolto ridotto, lontano dall’essere mera
ricezione, travalica i confini di un banale processo di
decodifica per assurgere allo stato di un vero e proprio
agire musicale. Il nuovo ascolto è un fare.
Michele Pedrazzi · Oggetti ed effetti sonori. Pratiche della composizione musicale contemporanea
2.1 Un nuovo tipo di attenzione
Vediamo allora la definizione ufficiale dell’ascolto ridotto. Il riferimento per queste definizioni classiche è
ovviamente il traité di Schaeffer (1966, pp. 270-272), più
agilmente consultabile anche nella versione compilata a
dizionario che ne fece Michel Chion nel 1983, la Guide
des objet sonores. L’ascolto ridotto è ascoltare il suono per
se stesso, come oggetto sonoro, facendo astrazione dalla
sua provenienza, reale o supposta, e dal senso5 di cui
può essere portatore. Ma la definizione è incompleta
se non si tiene presente che l’ascolto ridotto è descritto in più parti come “un’attitudine”, sostanzialmente
come un vero e proprio abito; ovvero come scriveva C.S.
Peirce, “la modificazione della tendenza di una persona
verso l’azione, tendenza che risulta da esperienze precedenti o da precedenti sforzi o atti di volontà” (Peirce
CP 5.476, tr. it. 1980 p.291). Gli abiti in Peirce hanno gradi di forza, che si manifestano come un misto di
prontezza all’azione, mentre il mutamento di un abito
consiste spesso nell’aumento o nella diminuzione della
forza di un abito precedente. Come per le “disposizioni
virtuose” in Aristotele (hexeis), solo la ripetizione delle
azioni che producono mutamenti incrementa la forza
dei mutamenti stessi, costituendo quindi un meccanismo di rinforzo basato sull’efficacia. Come evidenzia
Chion, l’ascolto concreto non è certo dote innata: “l’atto di fare astrazione dalle nostre abitudini di ascolto è
un atto volontaristico e artificiale” (1983, tr. it. p.14).
Furono le prime esperienze con fonofissazioni manipolate – come quella del solco chiuso (sillon fermé, ovvero il
solco di un disco chiuso ad anello) o dalla campana tagliata (cloche coupée, ovvero l’ascolto di un suono di una campana privato dell’attacco iniziale) – a mettere in luce la
possibilità di uno scarto percettivo, rivelando la ricchezza intrinseca del materiale pre-musicale. Esse portarono
i musicisti a cercare un ascolto che si disinteressasse alla
causalità e si concentrasse sul paradigma delle proprietà concrete, ancor prima di averle pensate all’interno
di una composizione. Ma, avverte nuovamente Chion,
“prima di poter accedere all’ascolto ridotto, tuttavia, è
necessario passare attraverso alcuni esercizi di decondizionamento, per mezzo dei quali prendere coscienza
dei propri riflessi d’ascolto “di riferimento” e diventare
capaci di sospenderli al momento opportuno” (1983,
tr. it. p.14). Un compositore di diversa estrazione, ma
pienamente nel solco della lezione di schaefferiana, è
Murray Schafer, che a questo riguardo spiega più praticamente in cosa possa consistere questa “pulizia dell’orecchio”.
“Molti esercizi possono facilitare questa pulizia, ma almeno
all’inizio gli esercizi più importanti sono quelli che cercano
di insegnare il rispetto del silenzio. [...] Talvolta è utile esercitarsi a trovare un suono che presenti determinate caratteristiche, ad esempio, un suono che abbia un’intonazione
ascendente in partenza, o un altro consistente in una serie di
brevi esplosioni non periodiche, o un altro ancora che parta
con un rumore sordo e matto, seguito da un tremolio acuto,
o infine un altro che combini insieme un ronzio e uno stridio
acuto” (Murray Schafer 1977, tr. it. p.289).
Questo esercizio di pulizia, che assomiglia molto all’epoché fenomenologica, mostra come il compositore
concreto necessiti di una incorporazione profonda del
principio schaefferiano (e al contempo quanto sia difficile far accedere questo livello di senso ad un metalinguaggio descrittivo; vedi l’ambiguo “rumore sordo
e matto”). La presa di coscienza delle proprie routine
percettive da sola non è sufficiente: l’esercizio è volto
a portare l’ascolto ridotto al livello di una legge immanente, alla stessa maniera in cui un altro autore fortemente legato alle pratiche, Pierre Bourdieu, identificava
habitus “immanenti alla concertazione delle pratiche”,
che pur essendo basati su routine e poca o nessuna concettualizzazione, prevedono in realtà un alto tasso di
creatività (Bourdieu 1972). Abbiamo un fare interpretativo rieducato, riconfigurato nelle sue soglie semiotiche,
e fondamentalmente antiplatonico: vuole a tutti i costi
guardare le ombre che passano sulla parete della grotta
e non ne vuole sapere niente dei loro proprietari.
Le pratiche di ascolto ridotto si traducono inoltre in un
rimescolamento delle canoniche figure dell’autore e del
lettore. Infatti si tratta di un ascolto in prima istanza
riflessivo di un autore che continuamente interroga il
proprio materiale, che manipola ma che si lascia guidare, perché
“di fatto, l’effetto di una manipolazione su un suono è imprevedibile a priori sulla carta, se non in casi particolari.
Per questa musica […] la fabbricazione del materiale sonoro
non termina che al momento in cui viene dato l’ultimo tocco
alla realizzazione dell’opera. Il materiale non è già esistente
all’inizio; come la materia visiva per il pittore, esso non è il
punto di partenza, bensì il punto d’arrivo, lo scopo. Mentre,
simmetricamente, la composizione inizia con il primo suono
fissato” (Chion 1991, tr. it. p.52).
È abbastanza inusuale immaginare l’attività del musicista concreto, tecnologo e magari “topo di laboratorio”,
attraverso una descrizione più vicina a quella dell’improvvisatore jazz. Ma come per il solista di jazz, qui l’attività creativa è il risultato di una costante apertura a
tutto quello che giunge agli orecchi. Non vi è più ricezione
ma interazione, secondo un operare che, pur potendo pilotare il processo, si mantiene al tempo stesso disponibile
ai suoi imprevedibili sviluppi. Come per le pratiche sostenute da habitus in Bourdieu, la disposizione all’ascolto
ridotto richiede esercizio per poter accedere ad un livello
immanente, dove la regola non viene evocata esplicitamente, a garanzia dell’immediatezza della risposta e del
grado di libertà del sistema. “È richiesto un nuovo tipo
di attenzione, che il compositore mantiene da un capo
all’altro del lavoro in stato di costante disponibilità percettiva e di attività compositiva. Egli non deve pensare al
proprio materiale sonoro come già esistente né allentare
la propria vigilanza uditiva, poiché è sempre nella condi-
E|C Serie Speciale · Anno I, n. 1 2007
11
zione di produrlo, viverlo, scoprirlo, fino all’ultimo momento”. (Chion 1991, tr. it. p.54). Questo meccanismo
in sé non è nuovo, sappiamo già che nell’interpretazione
di un testo solo il punto di vista proprio della fine lettura
è in grado di dar luogo ad interpretazioni stabili. Una
vera e propria teoria di semantica musicale è stata costruita a partire dalla natura processuale della fruizione
musicale (Meyer 1956, Barbieri 2004), poiché l’ascolto
è un susseguirsi di inferenze sulla base di ipotetici sviluppi, di interpretazioni “che non necessariamente […]
devono trovare una piena risoluzione nell’interpretazione stabile del tutto”, dato che “ogni punto di vista che
si ponga durante il percorso di fruizione è transeunte
e provvisorio” (Barbieri 2004, p.47)”. Ma tutto ciò vale
anche nella prospettiva autoriale, che si sdoppia e si rimette di discussione di fronte alle emersioni del ribollire
sonoro.
12
2.2 Acusmatica dei giorni nostri
Abbiamo parlato di disposizione ad ascoltare il suono in
sé e a lasciarsi guidare dai suoi sviluppi. Ebbene, oggi,
dietro il vetro della cabina di regia di un qualsiasi studio
di registrazione (novello schermo acusmatico pitagorico), c’è un tecnico che è preposto esattamente a questa
attività, un tecnico che non necessariamente deve conoscere la musica, gli strumenti o chi li ha suonati (né tanto
meno la teoria schaefferiana), ma che ha come unico
compito quello di ascoltare e interagire con il suono. A
tutt’oggi egli deve in sostanza montare tra loro diverse
“fonofissazioni”: in uno studio di produzione odierno le
voci e gli strumenti sono registrati separatamente, per
piccoli frammenti, così da poter controllare, per mezzo
di un missaggio a più piste, le sincronie, le equalizzazioni, i riverberi, la spazializzazione, “ottenendo infine un
suono che è puro prodotto di studio e sarà in gran parte
responsabile del successo del brano” (Delalande 2002).
La figura dietro tutto ciò (che può riassumere in sé oppure scomporsi nei ruoli dell’arrangiatore, del fonico,
dell’ingegnere del suono) è responsabile di quella oggi
viene chiamata produzione di un brano. E da qui sorge il
ruolo del produttore, l’uomo dietro il suono di un artista, in
un rapporto per certi versi simile a quello che ci poteva
essere nella canzone leggera di un tempo tra un autore
e il suo interprete. I produttori sono ben conosciuti tra i
musicisti, e ultimamente il loro nome travalica il campo
degli addetti ai lavori, secondo un fenomeno che assomiglia a quello avvenuto per la visibilità dei registi nell’ambito cinematografico. La pratica del produttore sorge
dal basso, da approcci fortemente empirici, non è teorizzata e in genere poco autorappresentata. Essere buoni
produttori, si dice, “è una questione di orecchio”. E con
ciò il produttore, riduttore del proprio ascolto, si configura
come un novello adepto della musica concreta.
3. Un allegro mescolamento
3.1 Sensi d’effetto
Veniamo quindi al presente, alle mutazioni sonore in
corso, passando per l’entrata in campo degli effetti sonori. Il termine effetto sonoro non è direttamente associato alla ricerca di Schaeffer. Nel linguaggio comune
con esso ci si riferisce a qualche “effetto speciale” audio
o al lavoro di composizione della banda sonora per gli
audiovisivi (dove un effetto sonoro è in sostanza un rumore aggiunto in postproduzione). In un’accezione più
specificamente musicale, l’effetto sonoro consiste nell’alterazione di una sonorità attraverso l’applicazione di
dispositivi meccanici o algoritmi elettronici (vi sono effetti di eco, di sfasamento, di distorsione). E in sostanza
la definizione comune verte sull’effetto di realtà, come
per l’effetto di senso della semiotica generativa, “un’impressione di realtà prodotta dai nostri sensi a contatto con il senso” (Greimas e Courtés 1979), ottenuto in
questo caso con un’organizzazione di unità sonore non
per forza appartenenti al mondo naturale. Nel 1995 il
gruppo di ricerca del laboratorio Cresson di Grenoble
diede alle stampe un repertorio degli effetti sonori, sottoponendo il termine ad una complessa ridefinizione. Il
punto di partenza del gruppo di Cresson è, nuovamente,
quello di cercare di organizzare il campo del sonoro.
Scrive Jean-Francois Augoyard, direttore del gruppo:
“Scopriamo nella nostra esistenza una quantità di comportamenti guidati intuitivamente da indizi sonori così familiari
che la scienza non li percepisce più. Privati di una terminologia precisa che i discorsi eruditi riservano agli oggetti della
musicologia, della fonologia, o classificati come dannosi, i
suoni ordinari penetrano pertanto nella cultura comune dell’agire e del parlare, altrettanto bene nella pratica professionale, quanto nella vita di tutti i giorni. e, come capita spesso,
l’arte ha già colto ciò che il sapere non ha ancora percepito.
La pratica musicale contemporanea mescola allegramente i
suoni” (Augoyard e Torgue 1995, p.XXI).
Il punto di partenza per il gruppo di Grenoble è sicuramente quello di una pragmatica sonora: gli eventi sonori sono visti innanzitutto per la loro forza, per così dire,
perlocutoria, nel senso di condizionamento ad agire.
Ma il gruppo si accorge che non si tratta semplicemente
di studiare “behaviouristicamente” una serie di reazioni
a stimoli sonori. Un repertorio pluridisciplinare degli
effetti sonori non può limitarsi a delineare un’insieme di
condotte d’azione causate da eventi sonori, perché ogni
effetto del sonoro è in sé “un’operazione estetica” compiuta dal soggetto coinvolto, un fenomeno creativo contestualmente determinato, o, per ritornare allo schema
fenomenologico, ad una mutua definizione di soggetto
e oggetto. L’effetto sonoro di Cresson descrive questa
stretta interazione tra ambiente sonoro fisico, il luogo
sonoro di una comunità, e il “paesaggio sonoro interno” a ciascun individuo. E’ chiaro che a questo punto si
perde il verso consequenziale che vuole prima la causa
e poi l’effetto. Si tratta ancora una volta di interazioni
e allora forse possiamo parlare direttamente di pratiche sonore più che di effetti. Lucio Spaziante (2005, p.
41), confrontandosi con la nozione semiotica di effetto
Michele Pedrazzi · Oggetti ed effetti sonori. Pratiche della composizione musicale contemporanea
di senso, propone la nuova formula sensi d’effetto proprio
per liberarci di una prospettiva meccanicistica.
3.2 Ricongiungimenti sotterranei
Ma come “la pratica musicale contemporanea mescola
allegramente i suoni”? Prendiamo la frase di Augoyard
alla lettera e rivolgiamoci alle musiche contemporanee
senza distinzioni di genere. La prima pratica da prendere in esame è quella dei disc jockey. L’esibizione di un
buon dj consiste nel mescolare dischi: sovrapporli, inserire frammenti dell’uno all’interno dell’altro, intrecciare e congiungere elementi diversi per creare una suite
musicale originale. Allo stesso modo, creare o remixare
un brano dance verte di solito sulla medesima attività
di rielaborazione di brandelli sonori (campioni e ritmi
predefiniti) ricombinati per ottenere qualcosa di nuovo.
Lo studio di registrazione garantisce più livelli di complessità, ma in fondo costruire o ricostruire un brano
dance è molto simile a una versione ridotta del djing6.
Una lettura di testi storiografici, come l’interessantissimo Last night a dj saved my life (Brewster e Broughton
1999), permette di legare “l’allegro mescolamento di
suoni” alle pratiche sociali da cui nasce. Ad esempio,
apprendiamo che questo intrecciarsi di fonti, agli albori
dell’hip-hop, consisteva in una tecnica di missaggio estremamente semplice. All’inizio degli anni ’70 il dj pioniere Kool Herc suonava i vecchi pezzi di musica funk e
ripeteva ad libitum le parti contenenti gli stacchi ritmici
adatti al ballo break-dance. Il nome viene proprio da questo: i giovani neri del Bronx compravano di dischi di
cui suonavano soltanto i trenta secondi circa del break
strumentale funzionale al ballo, e Kool Herc li accontentava con un rudimentale montaggio di questi frammenti sonori (ivi, p.269). E prima ancora, vi è l’esempio
del genere dub. Nato in Giamaica attorno alla fine degli
anni ‘60 come derivazione diretta del genere reggae, il
dub che è uno dei primi generi musicali popular a fare uso
intensivo di effetti sonori (come alterazioni della sonorità). Anche qui l’esigenza dei dj (che nel dub si chiamano
selector) è di accontentare un pubblico vorace di novità
discografiche. A fronte di un relativo isolamento discografico e delle fluttuazioni delle mode musicali americane, i disc jockey giamaicani cominciano a riciclare i
brani reggae già presenti nel loro repertorio sfruttando
le possibilità offerte dalla recente tecnologia della registrazione su nastro multitraccia. Il dub lavora allora su
un brano preesistente, separando le tracce e aggiungendo o sottraendo ogni elemento sonoro fino a ottenere
una nuova composizione. E le pratiche di riferimento
sono ancora una volta la performance pubblica e il
ballo: “potenziare la linea di basso fino a renderla una
presenza mostruosa e sconquassante, eliminare tutte le
parti di una canzone eccetto la batteria, applicare a un
frammento di cantato un effetto d’eco, dilatare un ritmo
con un interminabile delay: tutte strategie con cui il dub
riesce a trasformare una canzone piatta in un montuoso
paesaggio tridimensionale” (ivi, p.150).
Oggigiorno i dj più acclamati sono ad un tempo selector,
remixer e produttori. Creare musica propria o rielaborare quella altrui è un allargamento naturale del loro
ruolo, ulteriormente facilitati dalla trasposizione delle
vecchie pratiche nel dominio digitale. “Oggi, grazie al
concetto di collage musicale […] e all’attrezzatura che
permette di crearlo, quello che un produttore fa in studio è quasi identico a ciò che farebbe per realizzare un
remix e leggermente diverso da quanto fa un dj in un
locale” (Brewster e Broughton 1999, p.417).
Gli esempi potrebbero essere molteplici: siamo al cospetto di un fronte multiforme di stili musicali legati dal
comune approccio all’unità sonora7. Dietro ognuno di
questi stili diversissimi (e in gran parte ancora musicali in
senso tradizionale) rimane l’importanza imprescindibile
e non più puramente strumentale della figura che ascolta e plasma il suono agendo direttamente su di esso.
La sovrapposizione di queste tendenze è particolarmente affascinante prendendo in considerazione il settore della musica “commerciale” (ovvero legato ad un
mercato vero e proprio) oggi chiamato musica elettronica.
L’electronic music (in tutti i suoi sottogeneri) non è una
continuazione dell’elettronica colta della Colonia degli
anni ‘50, ma deriva essenzialmente dal genere techno,
genere di musica dance nato a Detroit alla fine degli anni
’80, a sua volta come costola della house di Chicago. Nel
1990 la techno si sposta in Europa esplorando più a fondo il modello robotico/computeristico del gruppo dei
Kraftwerk, che era tra le sue fonti di ispirazione. E infine, nel terzo millennio, Aphex Twin, artista elettronico della Warp Records, compone pezzi per pianoforte
preparato alla maniera di John Cage, pezzi che sono
stati poi eseguiti nel 2005 dalla London Sinfonietta in un
programma che mescolava senza soluzione di continuità Edgar Varése, Squarepusher, Steve Reich, Plaid lo
stesso Cage. Il ricongiungimento è avvenuto8.
4. Conclusioni
Il nastro magnetico, tanto caro a Schaeffer è pressoché
scomparso. Il disco, padre della musica concreta e feticcio della cultura dj, è relegato ad usi sempre più settoriali e tendenti al nostalgico. I supporti musicali oramai
sono incorporei o comunque fisicamente inattingibili
(si pensi alla rivoluzione dell’mp3). Ma l’oggetto sonoro
rimane intatto. Se ne sono presi cura legioni di nonmusicisti che, proprio in ragione della loro estraneità
ad un percorso istituzionalizzato, hanno avuto minori
difficoltà a decondizionare e ridurre il proprio ascolto,
aprendosi ad una forma dell’espressione che operasse
direttamente sul sonoro, sul pre-musicale. E poiché non
è facile modificare un abito particolarmente inveterato,
sono ancora pochi i musicisti che riescono a passare con
successo da un ascolto all’altro.
Negli anni ’50 la nuova forma dell’espressione trovata
da Pierre Schaeffer si isolava sotto le accuse di “poca
sostanza” all’interno del panorama colto, orientandosi
sempre più verso la teorizzazione musicologica. Nelle
E|C Serie Speciale · Anno I, n. 1 2007
13
piccole rivoluzioni sonore popular invece il percorso fu di
segno opposto e vide pratiche sociali come il ballo o la
performance pubblica fornire lo stimolo per inseguire
nuove sonorità, che si affermarono attraverso bricolage
espressivi resi possibili dalla tecnologia che si rendeva
disponibile, ricongiungendosi infine all’idea schaefferiana.
Da un certo punto di vista potrebbe sembrare fuorviante o superfluo scomodare nuovamente gli oggetti sonori
per descrivere le nuove pratiche, poiché la stessa esperienza acusmatica, oggi, in una società costantemente
irrorata di suoni “fonofissati” e diffusi attraverso amplificatori ubiqui, non desta più particolari sorprese. Ma
ciò che rimane, a latere di un percorso di analisi che
passi con cura attraverso le teorizzazioni della musica
concreta, è una nozione di ascolto che si pone innanzitutto come una pratica compositiva. L’ascolto ridotto
(potremmo forse chiamarlo anche ascolto sonoro) non
serve ad interpretare un’opera, né ad apprezzarla di
più, ma è innanzitutto un vero e proprio strumento di
creazione, assolutamente contemporaneo.
Note
1
14
Ovvero la registrazione del suono su supporto fisico. Così
chiamata ancora oggi dal compositore e saggista Michel
Chion, all’epoca di Schaeffer la fonofissazione avveniva con
l’incisione di dischi in gomma morbida e poi, non appena fu
possibile, tramite il più malleabile nastro magnetico.
2
Su impulso di Erbert Eimert e dell’allora ventenne Karlheinz
Stockhausen.
3
Per ulteriori dettagli e per una più estesa bibliografia, cfr. l’articolo di Francois Delelande sul primo volume dell’Enciclopedia della Musica Einaudi (2002).
4
La teoria semiotica soggiacente al traité, complessa e idiosincratica, meriterebbe uno studio a parte. Per certi versi l’approccio sembra invitare ad una sovrapposizione con la teoria
di C.S. Peirce. In Schaeffer il significato è sens, e consiste nel
rinvio di tipo arbitrario e culturalmente mediato, proprio del
simbolo peirceano. Invece, il rinvio per riferimento causale (la
provenienza) è per entrambi proprio dell’indice.
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Anche per Chion “senso” sottintende l’aspetto culturale di
un segno musicale, che rinvia a contenuti e giudizi associati
per convenzione, quindi secondo una modalità simbolica.
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Non a caso oggi Schaeffer (e non Stockhausen) è spesso invocato come padre spirituale di molti musicisti dell’area sperimentale. “Il turntablism era stato concepito molti anni prima
che i dj hip hop lo trasformassero in realtà. […] il compositore francese Pierre Schaeffer […] sperimentò principalmente usando la nuova tecnologia di registrazione su nastro
magnetico, ma si dilettò anche con i giradischi (che lui ovviamente conosceva con il nome di “grammofoni”)” (Brewster e
Broughton 1999, p.310).
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Andrebbero citate qui almeno le esplicite influenze concrete nella musica pop. Valgano le più famose, come Revolution
n.9 dei Beatles (1968), l’intro di Re-Make/Re-Model dei Roxy
Music (1972), il montaggio che chiude l’album We’re only in it
for the money di Frank Zappa (1968). O anche il finale di Bike
(1967), così come il brano Alan psychedelic breakfast (1970), en-
trambi dei Pink Floyd, nonostante spesso i fini siano più aneddotici che concreti.
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Non volendo qui includere (impossibili) trascrizioni su pentagramma o poco leggibili visualizzazioni sonografiche, non
posso che rimandare all’ascolto, possibilmente ravvicinato e
comparativo, di Pierre Schaeffer, Études des Casseroles (1948),
Michel Chion, Coup de soleil sur un vitrail, 1er mouvement (1975),
Autechre, Scose Poise (2001), Radiohead, Pakt like sardines in a
case (2001).
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Michele Pedrazzi · Oggetti ed effetti sonori. Pratiche della composizione musicale contemporanea