Documento PDF (tesi di dottorato - Costruire

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Università degli Studi di Padova
Dipartimento di Scienze dell’Educazione
SCUOLA DI DOTTORATO DI RICERCA IN :
Scienze Pedagogiche, dell’Educazione e della Formazione
CICLO XXIII
COSTRUIRE SENSO, NEGOZIARE SIGNIFICATI:
IL MANAGER DEI SERVIZI ALLA PERSONA
E LA SUA DIMENSIONE ETICA
Direttore della Scuola:
Ch.ma Prof.ssa Marina Santi
Supervisore:
Ch.ma Prof.ssa Emanuela Toffano
Dottorando: Iusuf Hassan Adde
2
INDICE
Abstact (versione in italiano)
5
Abstact (English version)
6
Introduzione
7
1.
Alla ricerca di un metodo (di ricerca)
1.1
1.2
Il paradigma di riferimento
La questione metodologica e il pensiero riflessivo
2.
Alla ricerca di un modello (di apprendimento)
2.1
2.2
2.3
2.4
2.5
La costruzione della conoscenza attraverso la pratica riflessiva
La teoria dell’apprendimento sociale di Wenger
La dimensione tacita della conoscenza
L’apprendimento organizzativo
Le competenze
3.
La dimensione etica
3.1
3.2
3.3
3.4
3.5
Etica e filosofia morale
Le teorie morali
La fondazione dell’etica nel pensiero di John Dewey
Psicologia morale e neuroetica
Etica delle professioni
4.
La figura del manager
4.1
4.2
4.3
4.4
4.5
Le funzioni del manager
Esercizio del potere e disposizione all’obbedienza
Leadership: una questione di stile
Le competenze del manager
Il manager sociale
5.
La ricerca sul campo
5.1
5.2
5.3
Ricerca e narrazione (della ricerca)
Da dove partiamo?
L’analisi con ATLAS.ti
6.
I protagonisti della narrazione
6.1
6.2
Il manager sociale
Il contesto organizzativo
11
20
31
38
43
46
51
59
68
77
88
99
111
115
121
124
126
131
137
144
151
163
3
7.
Dove si narra dei principi morali del manager sociale
7.1
7.2
7.3
7.4
Principi morali in pratica
Principi morali dell’Ente Pubblico
Principi morali dei Servizi alla Persona
Principi morali del management
8.
Dove si parla della competenza etica del manager sociale
8.1
8.2
8.3
8.4
La competenza etica
Le qualità personali
Le capacità relazionali
Le componenti motivazionali
9.
Dove si narra di come vengono acquisite le competenze
etiche
9.1
9.2
9.3
Lo sviluppo delle competenze etiche
L’acquisizione delle competenze nella pratica del manager
Lo sviluppo delle competenze etiche nell’organizzazione
10.
Pensiero e sé morale
10.1
10.2
10.3
10.4
Il pensiero in azione
La narrazione del pensiero: conflitti morali e bioetica
L’etica professionale, il sé morale e la questione del senso
Cinque storie sul manager sociale e la sua dimensione etica
273
274
293
304
Conclusioni
319
Riferimenti bibliografici
323
175
178
184
199
211
213
228
233
4
239
241
258
Abstract
(versione in italiano)
Il presente studio si propone di mettere in luce le competenze etiche del manager dei
servizi alla persona e come queste competenze si vengano ad acquisire e a sviluppare nel
corso della pratica professionale.
Nella prima parte del lavoro viene definito il quadro epistemologico che fa da sfondo alla
ricerca, il quale si richiama prevalentemente ad un orientamento di tipo costruttivista.
Si delineano poi alcuni modelli di apprendimento situazionale, a cui si fa riferimento per
l’elaborazione delle ipotesi di ricerca. Il framework teorico è dato in particolare dalla
teoria sociale dell’apprendimento di Wenger, dal modello dell’indagine riflessiva
sviluppato da Schön e dal concetto di apprendimento organizzativo proposto da Schön e
Argyris.
Vengono di seguito tracciate alcune coordinate essenziali per addentrarsi nell’ambito
dell’etica delle professioni e del management dei servizi alla persona.
Nella seconda parte del lavoro si illustra la ricerca empirica, che si è avvalsa dello
strumento dell’intervista semi-strutturata e ha coinvolto un gruppo di 12 dirigenti di
“Istituzioni Pubbliche di Assistenza e Beneficenza” (Ipab) del Veneto.
Viene tratteggiato il profilo delle competenze etiche del manager sociale, che emerge
dall’analisi del sapere esperienziale del gruppo di riferimento, di cui si mettono in luce le
“teorie agite” in ambito etico.
Nell’esito dell’indagine trova sostanziale conferma l’ipotesi che collegherebbe
l’acquisizione e lo sviluppo delle competenze etiche all’agire riflessivo del manager,
nell’ambito della propria pratica professionale, e al suo relazionarsi all’interno dei
contesti sociali di appartenenza.
Nella ricerca viene inoltre tratteggiato un possibile “orizzonte” comune di senso nella
professione del manager sociale, cioè un’etica condivisa, all’interno della quale sono state
individuate tre componenti: l’etica dell’ente pubblico, l’etica del servizio e l’etica del
management.
5
Abstract
(English version)
The present dissertation aims to shed light on the ethical competences of welfare services
managers and on how they are acquired and developed in the practice of the profession.
The first part defines the epistemological framework underlying this research, which is
informed by a constructivist approach. It also illustrates some models of situational
learning which have been referred to in order to elaborate the research hypotheses. To be
precise, the theoretical framework is provided by Wenger’s social theory of learning, the
model of reflexive inquiry developed by Schön, and the concept of organised learning put
forward by Schön and Argyris. The first part subsequently describes some essential
notions which pave the way to the study of professional ethics and of welfare services
management.
The second part of the dissertation explores the empirical research which has been
conducted on semi-structured interviews with a group of 12 managers of Public
Institutions for Assistance and Charity (“Istituzioni Pubbliche di Assistenza e
Beneficenza”, Ipab) in the Veneto Region. It details the profile of social managers’
ethical competences as emerging from the reference group’s experiential knowledge and
highlights their “acted theories” in the ethical field.
The findings of the investigation basically confirm the hypothesis that the acquisition and
the development of the managers’ ethical competences are related to their reflective
behaviour in the practice of the profession and to their ability to establish relations with
other people within the social contexts they belong to. The research also outlines a
hypothetical common “horizon” of meaning for the profession of the social manager, that
is, a shared ethic, of which three components are identified: the ethic of public
organisations, the ethic of service and the ethic of management.
6
Introduzione
Il tema del management non dispone di ampia trattazione all’interno della letteratura
pedagogica, rimanendo principalmente appannaggio di altre discipline, come la
psicologia del lavoro, la sociologia dell’organizzazione e l’economia.
Eppure molte sono ragioni che reclamano una specifica attenzione, da parte della
pedagogia, nei riguardi di questo soggetto e molti sono i possibili campi di ricerca
educativa in tale ambito.
Innanzitutto, per quanto attiene alla figura del manager in generale, un fruttuoso ambito
d’indagine per le scienze pedagogiche si ritrova nella problematiche inerenti la sua
formazione: quali sono i saperi del manager? Come si acquisiscono? Come si sviluppano?
Un altro campo in cui potrebbe spaziare la ricerca educativa è la dimensione pedagogica
del manager. Un manager che non è solo soggetto educativo (o di autoeducazione), ma
che è anche – o almeno dovrebbe essere – un “educatore-formatore”. Può sembrare,
questa, un’affermazione distante dalla maggior parte delle realtà organizzative nelle quali
operano i manager, al cui centro spesso non v’è la persona e la sua crescita umana, ma la
produzione e il profitto. Eppure sempre di più le organizzazioni vengono definite come
ambiti di espressione e di sviluppo personali e sempre maggiore enfasi viene data al ruolo
di guida e di sostegno – o, come si dice, di coaching – che, in tali contesti, deve riuscire
ad assumere il manager. Quali sono, quindi, le competenze pedagogiche che questa figura
dirigenziale deve possedere? Ma, soprattutto, qual è (se esiste) la funzione pedagogica
implicita del manager nella creazione di ambienti lavorativi promozionali per i
lavoratori?
Ulteriore segmento di interesse pedagogico, rispetto al management, potrebbe essere
rappresentato dalla dimensione relazionale: il lavoro del manager è essenzialmente quello
di intessere, mantenere, alimentare e sviluppare relazioni. È indubbiamente, questa, una
tematica che ha trovato ampio spazio nell’ambito delle scienze pedagogiche, le quali
potrebbero fornire apporti davvero considerevoli alla crescita professionale del manager
su questo fronte.
Sono tutti aspetti, quelli sopra richiamati, che verranno in qualche modo toccati nel
presente studio, il quale però ha chiaramente l’esigenza di restringere il campo, di
delimitare il più precisamente possibile un’area d’interesse.
Il primo restringimento che credo opportuno operare riguarda il soggetto in esame.
Pertanto, dopo aver dato un inquadramento generale del management, lo studio si
7
focalizzerà su una categoria specifica di manager: il manager sociale e, ancor più
precisamente, i dirigenti di Istituzioni Pubbliche di Assistenza e Beneficenza (Ipab) del
Veneto, che gestiscono in maniera prevalente servizi residenziali o semiresidenziali per
anziani.
Questa focalizzazione rimanda alla questione della specificità dei profili manageriali. Si è
infatti andata man mano ad affermare, nel corso della storia del pensiero organizzativo,
l’idea che il manager rappresenti una variabile dipendente del proprio contesto aziendale.
Il profilo del manager, cioè, cambierebbe in base al tipo di organizzazione in cui opera, la
quale può richiedere l’esercizio di ruoli differenti, come pure l’esercizio differente dei
medesimi ruoli. Ciò che l’organizzazione è e ciò che l’organizzazione produce per il
mercato (beni o servizi) rappresentano un elemento fondamentale per comprendere la
cultura che essa esprime e, quindi, anche la tipologia di manager che di questa cultura è
chiamato ad essere interprete.
I servizi alla persona hanno una loro filosofia, il più delle volte implicita, che coniuga il
mandato istituzionale con i vincoli e le risorse del contesto e che raccoglie il continuo
stratificarsi di conoscenze legate alla propria storia, nonché al portato di quel complesso
corpus teorico conferito dalle diverse professionalità che in essi operano.
Si tratta di competenze (traducibili, secondo la fin troppo abusata espressione, in sapere,
saper fare, saper essere) che formano il bagaglio professionale del singolo operatore, ma
che entrano anche a far parte, più in generale, della cultura organizzativa, con la quale il
manager deve necessariamente sapersi confrontare e alla quale egli deve riuscire ad
attingere.
Un secondo restringimento del campo che ho voluto operare è quello di focalizzare lo
studio su una dimensione specifica della professionalità manageriale, la dimensione etica,
che ritengo fondamentale per la formazione di un “buon manager sociale”.
L’agire del manager dei servizi alla persona, così come ogni altro agire, è eticamente
orientato: non esiste un agire manageriale – ma, più in generale, non esiste un agire
sociale o un agire in senso lato – che si possa dire “neutro” rispetto a tale dimensione.
Risulta allora importante indagare quali siano i principi-valori che ne ispirano e ne
guidano la pratica professionale. Non tanto quelli dichiarati, quanto piuttosto quelli agiti
nella pratica quotidiana. Accanto a questi “saperi” dell’etica, vi sono anche dei “saper
fare” e soprattutto dei “saper essere” che sostengono l’agire morale dell’individuo e che
assieme ai primi strutturano il concetto di competenza etica.
8
La prospettiva epistemologica, da cui muove tale ricerca, si richiama ad un approccio
costruttivista. Si postula quindi che i principi morali della professione manageriale siano
almeno in una certa parte immanenti, cioè siano socialmente situati e che vengano in
qualche misura costruiti e appresi anche all’interno della pratica lavorativa.
Il primo quesito a cui la presente ricerca si propone di rispondere è quali siano le
competenze in ambito etico-deontologico del manager. Il secondo quesito è come queste
competenze si acquisiscano e come si sviluppino all’interno della stessa pratica
professionale.
Il framework teorico è dato dai modelli di apprendimento situazionale ed in particolare
dalla teoria sociale dell’apprendimento di Wenger, dal modello dell’indagine riflessiva
sviluppato da Schön e dal costrutto dell’apprendimento organizzativo proposto da Schön
e Argyris. Si tratta di tre modelli che affondano le proprie radici in importanti
background teorici – in particolare il pensiero di Dewey, ma anche di Vygotskij e di
Polanyi – e che possono considerarsi, per molti versi, non alternativi, bensì
complementari.
Questi tre modelli – ciascuno a suo modo – ci aiutano a comprendere come il manager
“impari” a fare/essere manager attraverso il dialettico confronto con la propria
esperienza, da un lato, e con gli altri soggetti che abitano lo stesso contesto organizzativoculturale, dall’altro.
Da tali riferimenti teorici derivo le due ipotesi di ricerca, che vanno intese
necessariamente come “ipotesi deboli”. La prima collega l’acquisizione/sviluppo dei
principi morali professionali all’agire riflessivo che il manager realizza nel corso della
propria pratica lavorativa. La seconda collega lo sviluppo di tale dimensione etica alla
partecipazione, da parte del manager, ad un contesto organizzativo e ad una comunità di
pratica.
La ricerca si propone quindi di perseguire i seguenti obiettivi:
•
delineare il quadro concettuale di riferimento rispetto al contesto di ricerca;
•
problematizzare la dimensione etica del manager dei servizi alla persona;
•
evidenziare il percorso generativo delle competenze etiche all’interno della pratica
professionale del manager;
•
tematizzare un possibile “orizzonte” comune di senso nella professione del
manager sociale;
9
•
raccogliere indicazioni e suggerimenti per orientare possibili percorsi formativi,
finalizzati allo sviluppo delle competenze etiche.
Il disegno di ricerca integra, secondo una logica circolare, due diversi modi di procedere:
quello argomentativo-critico e quello empirico.
Per quanto riguarda l’indagine empirica, in considerazione dell’oggetto di ricerca, ho
ritenuto opportuno adottare un approccio di tipo qualitativo. Il presupposto che ha guidato
questa scelta è infatti il convincimento che esista una scissione tra le “teorie dichiarate” e
le “teorie-in-uso” dei manager, tra i valori professati e i valori concretamente agiti. Per
fare emergere i secondi – generalmente impliciti – ritengo quindi sia indispensabile
procedere a quel lavoro in profondità, che solo la ricerca qualitativa consente.
Attraverso l’utilizzo, come strumento di ricerca, delle interviste semi-strutturate, si
intende infatti mettere in luce il sapere esperienziale, le teorie agite dal manager, le
competenze etiche colte nel loro confrontarsi con la pratica professionale. Le domandestimolo intendono non solamente far emergere i principi-valori a cui i manager si
riferiscono, in termini meramente dichiarativi, ma si propongono anche e soprattutto di
sollecitare il racconto di storie personali e organizzative, in cui gli intervistati si sono
trovati ad affrontare situazioni “eticamente sensibili”.
Un riferimento forte, dal punto di vista metodologico, è rappresentato dal modello
dell’indagine narrativa – Narrative Inquiry – il quale tuttavia viene integrato con
l’utilizzo di strumenti e di metodiche che si richiamano alla Grounded Theory. L’analisi
dei dati – che si avvale del software Atlas.ti – si pone, infatti, l’obiettivo di costruire “dal
basso” una rappresentazione delle “teorie agite” dai manager sociali in ambito etico.
10
1
Alla ricerca di un metodo (di ricerca)
Viandante, sono le tue orme
la strada, nient'altro;
Viandante, non sei su una
strada,
la strada la fai tu andando.
Mentre vai, si fa la strada
e girandoti indietro
vedrai il sentiero che mai
più calpesterai.
Viandante, non hai una strada,
ma solo scie nel mare.
Antonio Machado
1.1 Il paradigma di riferimento
Iniziare una tesi di dottorato sui manager dei servizi alla persona, parlando dei paradigmi
di ricerca, potrebbe sembrare un voler prendere molto “alla larga” la questione oggetto di
studio. Chiaramente, una trattazione approfondita del tema non si concilia con l’economia
generale del presente lavoro, né rientra negli obiettivi proposti. Ciò nondimeno, ritengo
indispensabile affrontare per prima cosa tale argomento. Questo, se non altro, al fine di
dare conto delle letture, ma anche dei confronti e delle riflessioni, che hanno impegnato i
primi, travagliati mesi di avvio del mio percorso di ricerca. Giacché, essendo questa la
mia prima significativa esperienza di ricerca, dopo l’elaborazione della tesi di laurea, il
processo di definizione del suo disegno si è accompagnato ad una serie di interrogativi su
che cos’è la scienza, su come procede la conoscenza scientifica e su come rendere
“scientifico” il mio modo di approcciarmi alla realtà (alla specifica realtà del
management dei servizi alla persona e alla sua dimensione etica). Domande che credo
debba prospettarsi (e riproporsi costantemente) ogni ricercatore. Mi sono formato il
convincimento che diventare ricercatori significa padroneggiare metodi e strumenti, ma
soprattutto coltivare un atteggiamento di ricerca, cioè una disposizione a fare domande, a
mettere in discussione, a mettersi in discussione. Ciò a partire dai fondamenti stessi del
nostro conoscere il mondo e noi stessi.
È questo il motivo principale per cui ho deciso di partire con una riflessione sul
paradigma all’interno del quale collocarmi e collocare il mio percorso di ricerca, poiché
11
penso che questo posizionamento (questa “scelta di campo paradigmatico”) stia in realtà
a monte rispetto non solo ai metodi e agli strumenti d’indagine, ma anche alla stessa
definizione dell’oggetto di ricerca. Partire da chi è il manager dei servizi alla persona, da
quali sono le sue competenze etiche, da come le acquisisce, dagli studi al riguardo di
questo o quell’autore (lo “stato dell’arte”), significherebbe – a mio avviso – entrare già
nel campo della ricerca senza la necessaria chiarificazione delle premesse, che reggono la
scientificità di un tale procedere.
A questo proposito, Luigina Mortari in Cultura della ricerca e pedagogia osserva come
ogni ricercatore, che voglia situarsi con consapevolezza all’interno del proprio campo
d’indagine, debba partire dall’analisi degli elementi costitutivi della struttura
paradigmatica che fa da sfondo al proprio lavoro di ricerca. La mancanza di una tale
operazione preliminare di analisi pone il ricercatore in una posizione di “chiusura
epistemica”. Infatti,
«una ricerca è generativa di nuove pratiche quando il ricercatore, sapendo risalire ai
fondamenti dell’ambiente discorsivo in cui opera, può metterli in discussione. La
disamina critica dello sfondo paradigmatico in cui si agisce è un tratto
fondamentale di quell’atteggiamento che viene definito come mindful inquiry per
indicare un modo pensoso di stare dentro la ricerca»1.
Il riferimento doveroso (e fin pure scontato), nell’affrontare la questione del paradigma, è
Thomas Kuhn e la sua opera La struttura delle rivoluzioni scientifiche2. Secondo il
filosofo americano, il paradigma è la “struttura concettuale” attraverso la quale gli
scienziati guardano il mondo.
Come ben sintetizza Piergiorgio Corbetta, il paradigma è una struttura teorica condivisa
da una certa comunità scientifica che definisce quali siano i fatti e i problemi da studiare
e come vadano approcciati.
«Cosa intende Kuhn per paradigma? Con questo termine egli designa una
prospettiva teorica: a) condivisa e riconosciuta dalla comunità di scienziati di una
determinata disciplina; b) fondata sulle acquisizioni precedenti della disciplina
stessa; c) che opera indirizzando la ricerca in termini sia di c1) individuazione e
scelta dei fatti rilevanti da studiare, sia di c2) formulazione di ipotesi entro le quali
1
2
Mortari L., Cultura della ricerca e pedagogia. Prospettive epistemologiche, Roma, Carocci, 2007, p. 20.
Kuhn Th. (1962), The structure of scientific revolutions, Chicago, University of Chigaco Press, trad. it.
La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Torino, Einaudi, 1969.
12
collocare la spiegazione del fenomeno osservato, sia di c3) approntamento delle
tecniche di ricerca empirica necessarie»3.
È importante, a mio avviso, sottolineare la funzione “generativa” che un paradigma
svolge all’interno del processo euristico. Come ci insegna lo stesso Kuhn, i paradigmi
veicolano assieme modelli, teorie, metodi e criteri in una “mescolanza inestricabile”, che
si alimenta ed autoproduce4.
Secondo Mortari5, ogni ricerca si colloca necessariamente all’interno di un determinato
paradigma ed è questo che performa le azioni epistemiche, codificando la ricerca, cioè
guidandola mediante un insieme di convinzioni e di sentimenti sul mondo e sulla
conoscenza del mondo. Il paradigma determina la tipologia dei quesiti che il ricercatore si
deve porre e che rappresentano una sorta di “guida” nel processo di indagine, oltre ad
identificare le procedure epistemiche che egli deve seguire.
Il paradigma per Corbetta è qualcosa che sta prima anche delle stesse teorie...
«La categoria kuhniana […] non va banalizzata, identificando paradigma con teoria
o corrente di pensiero. Rimane infatti fondamentale nel concetto di paradigma il
suo carattere pre-teorico, in ultima analisi metafisico, di “visione che orienta”; di
immagine del mondo»6.
Corbetta individua tre questioni fondamentali e strettamente connesse fra di loro, a cui un
paradigma deve dare risposta: la questione ontologica (la realtà esiste?), la questione
epistemologica (è conoscibile?) e la questione metodologica (come può essere
conosciuta?) 7.
Si tratta di tre questioni fortemente intrecciate fra di loro, tanto che risulta materialmente
arduo tracciare tra esse linee definite di confine. Non è agevole, ad esempio, separare le
concezioni sulla natura della realtà dalle riflessioni sulla sua conoscibilità e queste dalle
modalità con le quali può essere conosciuta. L’intreccio è tale per cui le risposte date a
ognuna di esse determinano e nello stesso tempo vengono determinate dalla risposte date
alle altre.
3
4
5
6
7
Corbetta P., Metodologia e tecniche della ricerca sociale, Bologna, Il Mulino, 1999, p. 18.
Kuhn Th. (1962), The structure of scientific revolutions, Chicago, University of Chigaco Press, trad. it.
La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Torino, Einaudi, 1969, p. 138.
Mortari L., Cultura della ricerca e pedagogia. Prospettive epistemologiche, cit., p. 20.
Corbetta P., Metodologia e tecniche della ricerca sociale, cit., p. 20.
Ivi, p. 22.
13
Le tre questioni sollevate da Corbetta ricalcano le tre “premesse basilari” che
definirebbero un paradigma di ricerca secondo Egon Guba e Yvonna Lincoln8.
Un diverso inquadramento del paradigma viene fornito da Mortari nel suo già richiamato
Cultura della ricerca e pedagogia. Secondo l’Autrice, il paradigma sarebbe costituito da
presupposizioni di tipo ontologico (la natura della realtà che si intende indagare),
gnoseologico (in che cosa consiste la conoscenza), epistemologico (le vie per cercare una
conoscenza “vera”), etico (quali responsabilità ha il ricercatore) e politico (quale tipo di
ricerca è bene condurre) 9.
Dichiaro fin da ora la mia preferenza per quest’ultima impostazione. Innanzitutto perché
distingue il piano gnoseologico da quello epistemologico, molto spesso confusi in
letteratura. Poi, perché inquadra il rapporto paradigma-metodo e, ancor più, quello tra
paradigma e tecniche di rilevazione, in termini più mediati. Si avrà modo di approfondire
questo punto più avanti.
È utile, invece, definire ora quanti e quali siano i paradigmi.
Ciò che Kuhn chiama “scienza normale” può essere inteso come un processo lineare e
progressivo di accumulazione del sapere attorno ad un determinato paradigma. Esistono
però momenti di rottura, di forte discontinuità paradigmatica, definiti appunto da Kuhn
“rivoluzioni scientifiche”, in cui tutto viene stravolto e si inizia la fondazione di un nuovo
paradigma, che potrebbe essere visto – riprendendo una metafora utilizzata da Corbetta –
come l’edificazione di una nuova struttura. La scienza in tempi “normali” procederebbe
attraverso processi di tipo cumulativo, per aggiunte e adeguamenti, come una casa che
viene ampliata, aggiungendo una nuova ala o sopraelevando di un piano. Le singole
invenzioni e scoperte si aggiungerebbero quindi al “corpo di fabbrica” esistente. Tuttavia
«esistono anche dei momenti “rivoluzionari” nei quali il rapporto di continuità col
passato si interrompe e si inizia una nuova costruzione, così come – per proseguire
nella metafora edilizia – viene di tanto in tanto fatto saltare in aria un vecchio
8
9
Guba E. G., Lincloln Y.S., Competing paradigms in qualitative research, in Denzin N.K., Lincoln Y.S.,
Handbook of Qualitative Research, Thousand Oaks, Sage, California, 1994. Di questo testo è stata
pubblicata nel 2007 per gli stessi tipi una seconda edizione, che riporta diverse modifiche rispetto alla
precedente. Su questo specifico punto tuttavia gli autori confermano l’impianto originario, facendo
rimando alla precedente edizione.
Mortari L., Cultura della ricerca e pedagogia. Prospettive epistemologiche, cit., cap. 1. L’Autrice fa
riferimento al contributo dei due studiosi americani Guba E. G., Lincloln Y.S., Competing paradigms in
qualitative research, contenuto nella prima edizione della raccolta Denzin N.K., Lincoln Y.S., Handbook
of Qualitative Research, cit., e che viene rispetto a questo punto sostanzialmente confermato nella
seconda edizione del 2007.
14
palazzo in mattoni per fare spazio ad un edificio strutturalmente diverso, ad
esempio un grattacielo in vetro e alluminio»10.
L’immagine della rivoluzione scientifica come demolizione di un “vecchio edificio”, pur
suggestiva, rischia tuttavia, a mio avviso, di risultare fuorviante. Perché in realtà il
“vecchio edificio” può continuare a rimanere in piedi (magari con qualche
aggiustamento) in contrapposizione ad uno nuovo, che va ad affiancarvisi. Lo stesso
Corbetta, riprendendo il pensiero di Friedrichs11, parla di discipline multiparadigmatiche,
intendendo modalità di vedere il mondo che possono coesistere all’interno della stessa
disciplina.
Come sostiene Mortari, l’elezione del nuovo paradigma non avviene sulla base di
evidenze empiriche; è un terreno di argomentazione più che di dimostrazione. Cioè non si
sceglie un paradigma in base a prove scientifiche, né i presupposti su cui esso si fonda
discendono necessariamente da procedimenti dimostrativi incontestabili. Viene scelto,
semplicemente scelto, e tale opzione si basa forse più su un “sentire”, che si viene a
determinare attraverso l’esperienza di ricerca e la sua rielaborazione teorica12.
Aderire a un nuovo paradigma, abbandonando i vecchi schemi mentali, con i quali veniva
visto il mondo, non è cosa semplice. Gregory Bateson ci mette in guardia sulla difficoltà
di tale operazione, in una delle più eloquenti pagine del suo Verso un’ecologia della
mente13, in quanto un paradigma è una premessa epistemologica che pervade tutto il
nostro stare nel mondo. Anche le più semplici asserzioni, come ad esempio le
proposizioni “Io vedo te” e “Tu vedi me”, contengono in sé ciò che Bateson chiama
“epistemologia”. Contengono cioè al loro interno ipotesi su come ricaviamo le
informazioni, su che cosa sia l’informazione, sulla natura della conoscenza, sulla natura
dell’universo e su come veniamo a conoscerlo. Per quanto universalmente condivise,
molte di queste asserzioni sono in realtà false. Sono false ma funzionano, per tale ragione
conviviamo serenamente con questi errori, almeno fino ad un certo punto. Quando si
arriva però a capire che c’è bisogno di cambiare questo paradigma, si scopre che è
un’operazione tutt’altro che semplice:
10
Corbetta P., Metodologia e tecniche della ricerca sociale, cit., p. 22.
Friedrichs R.W., A sociology of sociology, New York, Free Press, 1970, come citato da Corbetta P.,
Metodologia e tecniche della ricerca sociale,cit., p. 20.
12
Mortari L., Cultura della ricerca e pedagogia. Prospettive epistemologiche, cit., p. 19.
13
Bateson G. (1972), Steps to an ecology of mind, trad. it. Verso un'ecologia della mente, Milano,
Adelphi, 1980.
11
15
«se uno si porta dietro gravi errori epistemologici, a qualche stadio o in certe
circostanze si accorgerà che quelle premesse non funzionano più; e a questo punto
scoprirà con orrore che è tremendamente difficile liberarsi dall’errore che ci sta
appiccicato addosso. È come se avessimo toccato del miele. Come il miele, la
falsificazione si propaga: ogni cosa con cui si cerca di sbrattarla diviene
appiccicosa, e le mani restano sempre appiccicose»14.
L’idea di abbandonare un paradigma per sceglierne un altro, cercando di liberarsi di tutte
quelle “tossine” che ci si porta dietro in questo passaggio, rimane comunque una
questione controversa. Secondo alcuni interpreti dell’epistemologia kuhniana, infatti, i
vari paradigmi non sarebbero necessariamente in competizione tra di loro, rimanendo su
piani differenti.
A questo riguardo, si può intravedere nel discorso di Kuhn stesso e dei suoi più autorevoli
interpreti l’idea che esista in un certo qual modo una “incommensurabilità” tra i
paradigm15i. Più che alternativi fra di loro, i paradigmi sembrerebbero infatti riferirsi a
diversi piani di realtà e configurare entità e fenomeni differenti.
Se esiste un pressoché assoluto consenso nell’individuare nell’approccio positivista il
paradigma “dominante” (quello, cioè, all’interno del quale è nata e si è affermata l’idea
moderna di scienza) e se c’è accordo sul fatto che si sia effettivamente prodotta una
“rivoluzione scientifica” rispetto a tale paradigma, numerose e divergenti risultano essere
invece le posizioni riguardo a quanti e a quali siano i paradigmi “emergenti”.
Corbetta16 sostiene che al paradigma positivista, nelle sue diverse versioni (il positivismo
classico, ottocentesco, il neopositivismo dei primi del ‘900 e infine, a partire dagli anni
’60, il post-positivismo) si sia contrapposto un unico paradigma, che egli definisce
interpretativista, anch’esso articolato nelle sue diverse versioni.
Si tratta di una visione sostanzialmente dissimile da quella prospettata da Mortari, la
quale ritiene che dal paradigma positivistico, figlio della razionalità moderna, si sia
passati ad una pluralità di opzioni paradigmatiche, espressione della razionalità
postmoderna, tra le quali individua e teorizza quello che viene da lei denominato, in
ossequio al pensiero di Gregory Bateson, il “paradigma ecologico”.
Fornirò qui di seguito una presentazione, seppur sintetica, dei presupposti di questo
paradigma, al cui interno intenderei collocare il mio percorso di ricerca, facendo
14
Ivi, p. 497.
Sorzio P., Struttura e processi nella ricerca qualitativa in educazione, Padova, Cleup, 2002, p. 35.
16
Corbetta P., Metodologia e tecniche della ricerca sociale,cit., cap. 1, par. 3.
15
16
comunque rimando, per ogni necessario approfondimento, al testo richiamato e alla
bibliografia indicata dall’autrice.
In primo luogo, rispetto ai presupposti ontologici (la realtà è…), il paradigma ecologico
postula il “primato della relazione”.
Il paradigma positivistico sviluppa il proprio procedere scientifico partendo da una
visione deterministico-meccanicistica e atomistico-disgiuntiva, in base alla quale la realtà
viene concepita come una macchina che è governata da proprie leggi immutabili e che
può essere conosciuta attraverso la conoscenza analitica dei singoli enti di cui si
compone, indipendentemente dal contesto e dalle relazioni che esistono fra di loro.
Proprio all’interno delle scienze naturali, in cui era nata e si era sviluppata questa
concezione della realtà, si è venuta a consolidare la consapevolezza dei limiti di questa
impostazione ed è emersa una nuova concezione della realtà, strutturata secondo logiche
immanenti, che evolvono nel tempo. Si è scoperta quindi l’importanza della
interconnessione presente fra le diverse realtà, in cui il tutto non è conoscibile attraverso
l’analisi delle singole parti, in quanto la realtà è anzitutto relazione.
«Questa ontologia della relazionalità ha come implicazione epistemica quella di
porre come compito primario del ricercatore l’andare in cerca delle relazioni che
strutturano il fenomeno indagato; da qui l’importanza che viene attribuita alla
ricerca di tipo sistemico, la cui direzione di senso è efficacemente esplicitata nel
principio batesoniano dell’andare in cerca della struttura che connette» 17.
A tale proposito, di si può parlare di una ontologia “relazionale” o “ecologica”, che deve
informare il pensiero del ricercatore18. Aderire a questo tipo di visione ontologica,
significa concepire la realtà come un insieme strutturato di relazioni, in cui l’essenza di
ciascun ente è data dalle relazioni dinamiche nelle quali esso è implicato e che
contribuisce contestualmente a strutturare. In questa visione ecologica, cioè, ogni
elemento è connesso agli altri in modo sostanziale: l’auto-organizzazione di ogni singolo
organismo, quindi, si lega a filo doppio con l’eco-organizzazione del sistema in cui esso è
inserito.
Si tratta di un cambio di prospettiva a mio avviso non semplice, perché va contro quello
che è il senso comune. Il senso comune, infatti, ci dice che esistono (prima) le cose e gli
individui e che questi (dopo ed eventualmente) si mettono in relazione tra di loro. Che
esiste ad esempio il manager, che esistono i collaboratori, che esiste l’organizzazione e
17
18
Mortari L., Cultura della ricerca e pedagogia. Prospettive epistemologiche, cit., p. 19.
Ibidem.
17
che esistono relazioni tra queste entità. Nella prospettiva ecologica, invece, non ha alcun
senso parlare delle singole entità, non ha alcun senso – per calarci nel nostro oggetto di
ricerca – fare l’identikit del manager dei servizi alla persona, senza inquadrarlo in un
contesto di relazioni, non solo, ma senza concepire egli stesso come relazione. A questo
proposito, così afferma Hannah Arendt:
«Proprio perché l’essenza di quell’ente che è l’essere umano è l’essere-in-relazione,
la ricerca che si occupa del mondo umano richiede che come oggetto d’indagine si
assuma l’intreccio delle relazioni. È, infatti, tale intreccio a costituire quello spazio
in cui ciascuno rivela il suo “chi”, la sua soggettività»19.
In secondo luogo, dal punto di vista gnoseologico (conoscere significa…), se la
razionalità moderna inseguiva il mito del “realismo”, del rappresentare cioè la realtà così
come essa è (rappresentazione isomorfa del reale), nel paradigma ecologico si rinuncia a
tale velleità, ritenuta inattuabile. I concetti in uso non devono perciò essere intesi come
una sorta di “rispecchiamento” esatto della natura delle cose che esistono “là fuori”,
quanto piuttosto come “modi convenienti di descrivere i fenomeni” 20. Ciò non significa
negare la realtà, cedendo così ad una sorta di “deriva nichilista”, ma semplicemente
dichiarare l’impossibilità di conoscerla, se non tramite delle valide rappresentazioni.
Pertanto, la conoscenza è “vera” non tanto perché ci dice il mondo così come esso è in
realtà, ma perché resiste meglio al “banco di prova dell’esperienza”, consentendoci di
fare previsioni più attendibili e dunque risultando più funzionale.
Si tratta di una concezione della conoscenza propria del costruttivismo 21, ma che
possiamo ritrovare anche nella teoria pragmatista della verità di Richard Rorty:
«Non vi è niente di profondo in noi se non quello che noi stessi vi abbiamo messo,
nessun criterio che non sia stato creato da noi nel corso di una pratica, nessun
canone di razionalità che non si richiami ad un tale criterio, nessuna
argomentazione
rigorosa
che
non
sia
l’osservanza
delle
nostre
stesse
convenzioni»22.
19
20
21
22
Arendt H. (1978), The life of the mind, Harcourt Brace Jovancovich, New York – London, trad. it. La
vita della mente, Bologna, Il Mulino, 1987, p. 134.
Mortari L., Cultura della ricerca e pedagogia. Prospettive epistemologiche, cit., p. 38. Nel testo
l’autrice fa rimando alle tesi sostenute da Sheldrake R., The presence of the past, London, Harper
Collins Publishers, 1994, p. 174.
Significativa è l’affermazione di Heinz von Foerster “L’ambiente come noi lo percepiamo è una nostra
invenzione”, richiamata da Mortari L., Cultura della ricerca e pedagogia. Prospettive epistemologiche,
cit , a p. 38, che può essere assunta come una sorta di “manifesto” del costruttivismo.
Rorty R. (1978), Consequences of pragmatism, Oxford, Blackwell, trad. it. Conseguenze del
pragmatismo, Milano, Feltrinelli, 1986, p. 37.
18
In questo stesso orizzonte si riconoscono l’approccio gnoseologico costruzionista, per il
quale la conoscenza è un processo di costruzione sociale mediata dal linguaggio, nonché
il connessionismo (o ipotesi enattiva), secondo cui la conoscenza è un processo circolare
e ricorsivo di “accoppiamento strutturale” tra soggetto e oggetto.
Tali visuali introducono un attributo di complessità alla conoscenza che non si dava nel
realismo. Complessità che è destinata ad accrescere quando, come nel nostro caso,
aumentano i piani della conoscenza. La presente ricerca, infatti, si propone di conoscere
un “ente” – il manager – e come questi a sua volta conosce se stesso, il proprio ambiente,
il senso che egli stesso dà alle cose che fa… È tuttavia una complessità che va accettata e
gestita, sfuggendo a tentazioni semplificatorie.
In terzo luogo, anche rispetto alla questione epistemologica (le vie per cercare una
conoscenza “vera” sono…), il paradigma ecologico introduce delle svolte sostanziali
rispetto all’approccio positivista, abbandonando l’idea che esista un unico modo per
conoscere la realtà, per abbracciare una pluralità di opzioni epistemologiche. In questo
pluralismo si possono riconoscere alcuni tratti distintivi:

l’attenzione al qualitativo, cioè l’interesse per tutti quei caratteri della realtà che
sfuggono ad una logica quantificatoria (e che attengono molto spesso al mondo dei
significati);

la predilezione per gli approcci di tipo “naturalistico”, che non tendono ad isolare
sperimentalmente il fenomeno, ma a studiarlo nel suo modo ordinario di apparire;

il rifiuto di modelli analitici, dando la preferenza invece ad approcci di tipo olistico,
che non vadano a sezionare artificialmente la realtà, ma che riescano a trovare in essa,
come direbbe Bateson, la “struttura che connette”;

la rinuncia a schemi esplicativi di tipo lineare (causa-effetto) a favore di spiegazioni
di tipo circolare-ricorsivo;

il passaggio da una visione del mondo di tipo deterministico ad una di tipo stocastico;

la rinuncia a possedere tutte le risposte, lasciando spazio anche al dubbio e
all’indeterminazione;

l’abbandono di una pretesa di “oggettività”, di distacco e di impersonalità della
conoscenza, per cogliersi in “unità dinamica” con il mondo;

la valorizzazione della dimensione emotiva e della partecipazione empatica, quali
strumenti di conoscenza.
19
Da questa concezione della conoscenza, intesa non come corrispondenza del reale, bensì
come costruzione di “nuovi mondi”, si impone la questione etica, quale forte istanza di
responsabilità del ricercatore rispetto alle proprie scelte.
«Se attraverso la creazione di vocabolari noi costruiamo mondi, allora ogni
descrizione della realtà è un atto dalle forti implicazioni performative e come
tale va criticamente presidiato. Proprio per l’attenzione rivolta al problema
di garantire una qualità etica alla ricerca, nel paradigma ecologico è
possibile far confluire tutte quelle riflessioni mirate ad individuare quei
principi che farebbero da guida ad una ricerca che assume come imperativo
qualificante quello del rispetto e della cura dei soggetti implicati in
un’indagine»23.
Non solo, ma tale potenza generativa fa sorgere nel ricercatore la questione della
responsabilità politica delle sue ricerche, cioè la responsabilità di produrre una scienza
utile per l’uomo.
«Nel paradigma ecologico […] l’utilità della scienza – afferma Rorty – non è
calcolata in funzione della capacità di previsione dimostrata dagli enunciati
scientifici, ma in relazione alla sua capacità di indagare le questioni rilevanti per la
vita umana e di fornire strumenti per lo sviluppo non solo di una “buona
tecnologia”, ma soprattutto di nuove e migliori politiche sociali. La ricerca sociale
viene concepita al servizio della solidarietà»24.
1.2
La questione metodologica e il pensiero riflessivo
Nel primo paragrafo avevo lasciato in sospeso la questione relativa alla metodologia, che
intendo qui riprendere, a partire dal controverso rapporto che essa mantiene con i
paradigmi di riferimento.
È indubbio che i metodi impiegati nei percorsi di ricerca cambiano in base al paradigma
all’interno del quale il ricercatore si colloca. Ciò discende – come abbiamo visto - dal
portato del concetto kuhniano di paradigma.
23
24
Mortari L., Cultura della ricerca e pedagogia. Prospettive epistemologiche, cit., p. 57.
Rorty R. (1978), Consequences of pragmatism, Oxford, Blackwell, trad. it. Conseguenze del
pragmatismo, Milano, Feltrinelli, 1986, p. 37.
20
Problematica risulta tuttavia la modalità con la quale i diversi metodi si “legano” ad un
paradigma e – prima ancora – la stessa definizione precisa di ciò che si debba intendere
con il termine “metodo”.
Un approccio è quello che fa corrispondere il metodo alla strumentazione tecnica di cui si
avvale il ricercatore.
«Questione metodologica in quanto ha a che fare con i “metodi” della ricerca
sociale, intesi come corpo organico di tecniche. Avremmo anche potuto chiamarla
(forse più correttamente) “questione tecnologica”, in quanto ha per oggetto le
tecniche, ma abbiamo preferito evitare questo termine, in quanto ha assunto nel
linguaggio comune un altro significato»25.
Al paradigma positivista corrisponderebbe per Corbetta il metodo quantitativo mentre al
paradigma interpretativo farebbe capo il metodo qualitativo. Si tratta, come egli stesso
ammette, di due “tipi ideali”, così definiti per finalità didattiche, ma difficilmente
riscontrabili nella pratica quotidiana di ricerca.
«Riconosco che fra i due estremi (o comunque fra i due tipi “puri”) esistono
molteplici posizioni intermedie e che, soprattutto all’interno dell’approccio
quantitativo, è possibile innestare ampie porzioni di tecniche qualitative» 26.
Dei due diversi approcci viene data nel testo esemplificazione concreta, presentando due
distinte ricerche sulla devianza giovanile: Crime in the making di Sampson e Laub e
Islands in the street di Jankowski. In realtà, comparando i due casi, si comprende quanto
sia restrittiva l’equiparazione tra metodi e tecniche. Ciò che rende sostanzialmente diversi
i due lavori, infatti, non è solo l’utilizzo di tecniche di tipo quantitativo nella prima e di
tipo qualitativo nella seconda, ma l’intero impianto di ricerca: il rapporto con la teoria,
l’opzione deduttivo Vs. induttivo, il ruolo del ricercatore, il ruolo del soggetto studiato, la
generalizzabilità dei risultati, ecc.
A tale proposito, Massimo Baldacci fa osservare che il discorso sul metodo (la
metodologia) è estremamente complesso, perché intreccia varie dimensioni, oltre a quella
delle tecniche di rilevazione.
«Tenere conto della polisemia della nozione di “Metodologia della ricerca
pedagogica” significa affrontare il problema a diversi livelli: quello della logica
della ricerca, quello delle sue forme sintattiche e quello delle sue tecniche di
25
26
Corbetta P., Metodologia e tecniche della ricerca sociale, cit., nota 4, p. 22.
Ivi, p. 44.
21
indagine, evitando un’impostazione parziale, che trascuri anche solo uno di questi
piani e le relative categorie metodologiche»27.
In questa impostazione, quindi, la contrapposizione tra tecniche quantitative e qualitative
riguarda solo un aspetto della complessità del discorso sul metodo, all’interno del quale ci
sono diversi livelli e, per ciascuno, differenti opzioni. Baldacci chiama queste opzioni
“antinomie metodologiche”, mutuando questo concetto dal pensiero di Antonio Banfi28.
«Avanziamo l’ipotesi che tali categorie possano essere stabilite, sia pure a titolo
convenzionale e provvisorio, in riferimento ai vari livelli semantici della nozione di
“metodologia
di
ricerca”,
con
una
integrazione
concernente
l’ambito
dell’identificazione degli scopi dell’indagine. Perciò:
-
al livello della logica della ricerca, individuiamo l’antinomia tra la categoria
dell’induzione e quella della deduzione;
-
al livello delle forme sintattiche della ricerca, poniamo convenzionalmente
come fondamentale l’antinomia tra ricerca teorica e ricerca empirica, ovvero tra metodo
speculativo e metodo empirico;
-
al livello delle tecniche di indagine, identifichiamo l’antinomia tra la categoria
della quantità e la categoria della qualità;
-
infine, per quanto attiene al piano degli scopi della ricerca, individuiamo
convenzionalmente come fondamentale l’antinomia tra ricerca orientata alla conoscenza e
ricerca orientata alle decisioni»29.
In questa prospettiva, non si devono concepire tali antinomie come opzioni di tipo autaut ma come polarità che possono comunque trovare innumerevoli possibilità di
conciliazione30.
In linea con la concezione sviluppata da Banfi nel quadro del razionalismo critico, i
termini antinomici contengono un aspetto oppositivo, per il quale essi si distinguono e si
contrappongono tra loro in forma “idealtipica”, ma contengono anche un aspetto
conciliativo, per il quale si danno posizioni intermedie, di superamento delle unilateralità
polari originarie, senza per questo addivenire ad una sintesi hegeliana31. In questo senso
27
Baldacci M., Metodologia della ricerca pedagogica, Milano, Bruno Mondatori, 2001, p. 10.
Banfi A., Principi di una teoria della ragione, Roma, Editori Riuniti, 1967, come citato da Baldacci M.,
Metodologia della ricerca pedagogica, cit., p. 11.
29
Ivi, p. 13.
30
Ibidem.
31
Il concetto banfiano di “antinomia” è per molti versi assimilabile a quello guardiniano di “opposizioni
polari”. Cfr. Guardini R. (1925), L’opposizione polare. Saggio per una filosofia del concreto vivente,
Brescia, Mocellana, 1997. Per una considerazione pedagogica delle teoria guardiniana, si veda Orlando
Cian D., Le polarità pedagogiche nei grandi modelli del passato, in “Studium Educationis”, n. 2/1999,
28
22
va considerata secondo Baldacci l’antinomia quantità/qualità: da un lato marcando le
differenti peculiarità e le reciproche opposizioni delle due categorie, dall’altro
evidenziando lo spettro di infinite gradazioni che insistono tra i due poli estremi. È
pertanto possibile individuare delle posizioni di conciliazione tra le istanze di cui sono
portatori questi due poli, rinvenendo forme plurali e parimenti valide di rigore
metodologico.
Quello che Baldacci postula non è il superamento del problema (in quanto problema)
quantità/qualità nell’indagine pedagogica attraverso una formula risolutiva che
rappresenti una soluzione del problema e quindi lo sopprima come tale, cioè in quanto
problema. Il suo intento è semmai quello di problematizzare tale rapporto, attraverso un
approccio critico e antidogmatico, sempre pronto a nuove e diverse conciliazioni.
Secondo Alberto Trobia, la contrapposizione tra quantitativo e qualitativo “viene da
lontano”, cioè affonda le sue radici in quella divisione tra cultura umanistica e cultura
scientifica che egli definisce “diabolica”, richiamandosi a quanto sostiene al riguardo
Pierpaolo Odifreddi.
«L’unità del divino viene frantumata nel momento in cui esso si scinde e si lascia
invadere, letteralmente, dal diabolico: in greco diabolé significa infatti
semplicemente “scissione”. Dal punto di vista intellettuale, la scissione diabolica si
manifesta nell’opposizione delle due culture: la scientifica che esalta il razionale e
atrofizza il sensoriale, e l’umanistica che recupera il sensoriale e argina il
razionale»32.
La stessa distinzione tra quantitativo e qualitativo è considerata priva di fondamento
scientifico, dato che si tratta di una classificazione non esaustiva33. Esistono, infatti,
approcci e tecniche di ricerca che risultano difficilmente catalogabili in una di queste due
categorie (significativi, a tal proposito, gli esempi della ricerca su base logica e del
metodo simulativi), le quali non soddisfano il criterio di mutua esclusività. Non pare
possibile insomma definire un criterio distintivo unico.
32
33
pp. 232-249 e Toffano Martini E., Ripensare la relazione educativa, Lecce, Pensa Multimedi, 2007, p.
100.
Odireddi P., Antropitechi e teopitechi, in “La rivista dei libri”, n.7/8/1996, p. 36-38, come citato da
Trobia A., La ricerca sociale quali-quantitativa, Milano, Franco Angeli, 2005, p. 11. Ciò che il diavolo
ha scisso può però – continua Odifreddi – essere riunito, letteralmente, nel simbolico: symbolé significa
infatti semplicemente “riunione”. E il simbolismo che impregna forma e contenuto dei linguaggi
dell’umanesimo e della scienza (che sono, rispettivamente, l’arte e la matematica) mostra appunto che
esistono presupposti comuni per la fusione delle due culture in una sola”.
Trobia A., La ricerca sociale quali-quantitativa, cit., p. 11.
23
Tale contrapposizione, nata principalmente per comodità didattica, secondo Troia, ha
prodotto nel tempo più svantaggi che vantaggi, in quanto ha sostanzialmente diviso la
comunità scientifica: da una parte vi sono ricercatori che dispongono di una approfondita
conoscenza dei metodi qualitativi, ignorando completamente i metodi quantitativi, e
dall’altra studiosi che conoscono e praticano solo metodi quantitativi, ignorando quelli
qualitativi.
Egli sottolinea quindi la necessità di un superamento di tale distinzione, proponendo una
integrazione dei metodi di indagine da perseguire sulla base di un superiore principio di
adeguatezza metodologica, secondo il quale
«la buona ricerca sociale, dunque, non è né qualitativa, né quantitativa. La buona
ricerca sociale è quella che riesce a dotarsi dei metodi, delle tecniche e degli
strumenti più adeguati per conseguire un determinato obiettivo conoscitivo,
cercando al contempo di affrontare alcune dimensioni critiche che riguardano lo
spazio (problema micro/macro, campionamento), il tempo, la validità e
l’attendibilità. Rispetto a tali dimensioni critiche, la questione qualità/quantità non è
che uno scomodo “angolo” di visione fra i tanti, dal quale esaminare la ricerca
sociale»34.
Sulla stessa linea d’onda si pongono diversi studiosi di metodologia della ricerca, come
ad esempio Roberto Trinchero35, il quale parla dell’utilità di strategie di “triangolazione”
nel campo della ricerca educativa. Egli osserva una crescente tendenza ad abbandonare la
visione della ricerca classica, divisa tra metodi qualitativi e metodi quantitativi, a
vantaggio di una ricerca multimetodo, nella quale la strategia di ricerca tende a combinare
in maniera eclettica le diverse metodiche, in funzione della realtà oggetto di studio,
nonché degli specifici obiettivi conoscitivi che ci si pone. Infatti,
«adottare una strategia di ricerca significa definire con precisione intenti e obiettivi
del ricercatore e utilizzare metodi in modo combinato, per giungere all’obiettivo
conoscitivo che ci si era prefissi»36.
Questa integrazione dei metodi d’indagine, che supera gli steccati storicamente posti tra il
qualitativo e il quantitativo, sembrerebbe porre in questione la corrispondenza biunivoca
tra metodi e paradigmi. Mentre i paradigmi sono visioni del mondo, difficilmente
34
35
36
Capecchi V., Analisi qualitativa e quantitativa in sociologia, in “Quaderni di Sociologia”, vol XII,
n.2/1963, p. 173, come citato da Trobia A., La ricerca sociale quali-quantitativa, cit., p. 44.
Trinchero R., I metodi della ricerca educativa, Roma, GLF Laterza, 2004, p. 12.
Ibidem.
24
conciliabili tra loro37, i metodi possono (e debbono) conoscere una mescolanza. Il metodo
è perciò qualcosa che sta dentro al paradigma, ma che sta anche fuori e che comunque
non può essere considerato una “premessa basilare” del paradigma, come sostengono
Guba e Lincoln38.
Chiarito questo punto, ritengo opportuno riprendere, problematizzandolo, il concetto di
metodo scientifico. Se è corretto declinarlo, come abbiamo visto, al plurale, intendendolo
come un termine polisemico, che racchiude polarità antinomiche, è possibile comunque
rintracciare un’unità nella molteplicità o, per dirla alla Bateson, percepire una “struttura
che connette” i diversi metodi?
Baldacci individua tale sintesi nell’idea regolativa che caratterizza l’intero campo della
ricerca scientifica, ossia il rigore metodologico, inteso però come “idea trascendentale”.
«Che una procedura di ricerca per essere considerata “scientifica” debba risultare
rigorosa è un’affermazione che appare scontata; pertanto, sembra che il rigore
dovrebbe rappresentare un attributo essenziale di una metodologia di ricerca
scientifica»39.
Va però precisato che tale rigore non dev’essere inteso in termini univoci, come ad
esempio sostengono le filosofie della scienza di matrice neopositivista, facendolo
coincidere con l’esattezza matematica o la consequenzialità logica. Se, infatti, questi
criteri risultano pertinenti rispetto alle discipline fisico-matematiche, malamente invece si
attagliano alle cosiddette “scienze umane”. È chiaro che se si ha in testa questo concetto
di rigore metodologico, che prende come modello il metodo delle “scienze esatte”, ogni
raffronto con il modo di procedere delle scienze umane risulta essere a svantaggio di
queste ultime. Rispetto a tali parametri, infatti, le scienze umane e sociali non possono
che dirsi scarsamente “rigorose”. Vanno quindi assunti diversi criteri per definire il rigore
metodologico di tali discipline, criteri che ne rispettino le peculiarità sintattiche.
«Affinché ciò risulti possibile, occorre effettuare il passaggio dal concetto di
“rigore” all’idea trascendentale di rigore metodologico. Si tratta di definire la
37
Questo almeno è ciò che accade nella pratica di ricerca, in cui ogni scienziato si riconosce in questo o
quel paradigma; si potrebbe però, a mio avviso, pensare anche in questo ambito a quella che Hans-Georg
Gadamer chiama una “fusione di orizzonti”, da cui potrebbe nascere un diverso paradigma. Cfr.
Gadamer H.G. (1960), Wahrheit und Methode, trad. it. Verità e metodo, Milano, Bompiani, 1983.
38
Mortari L., Cultura della ricerca e pedagogia. Prospettive epistemologiche, cit., p. 20. L’Autrice fa
riferimento al contributo dei due studiosi americani Guba E. G., Lincloln Y.S., Competing paradigms in
qualitative research, contenuto nella prima edizione della raccolta Denzin N.K., Lincoln Y.S.,
Handbook of Qualitative Research, cit., e che viene rispetto a questo punto sostanzialmente confermato
nella seconda edizione del 2007.
39
Baldacci M., Metodologia della ricerca pedagogica, cit., p. 12.
25
categoria del “rigore” non come un’ipostasi concettuale determinata che cerchi di
fondare “dal di fuori” le pratiche della ricerca piegandole alla propria logica, ma
come pura esigenza razionale, in sé formale e “vuota”, che va posta come
immanente a ciascuna di esse e che consenta di comprendere “dal di dentro” la
peculiarità secondo cui viene soddisfatta, o dovrebbe essere soddisfatta, da ogni
singola metodologia»40.
Ogni metodo di ricerca rappresenterebbe per Baldacci un differente “gioco linguistico” 41
a cui corrispondono differenti regole. È chiaro che esistono giochi più “regolati” di altri,
ma la questione del rigore non sta solo in questo, ma nella capacità di giocare
correttamente quel determinato gioco (secondo le sue proprie regole), oltre che nella
capacità di scegliere il gioco più adeguato rispetto agli scopi che si intendono perseguire.
«In questo quadro, la pluralità delle forme di rigore viene allora a essere collegata
alla molteplicità dei “giochi linguistici” […]. Il significato del rigore viene almeno
in parte a corrispondere a un principio generale che prescrive che ogni “gioco
linguistico” deve essere giocato in accordo con le regole proprie di quello specifico
gioco, in altre parole, “rigore” vuol dire anche “giocare in modo rigoroso”: si
devono compiere soltanto le “mosse” inerenti al gioco in questione»42.
Un ricercatore commetterebbe una violazione delle regole del gioco, non agendo quindi
in termini rigorosi, se facesse una mossa che appartiene ad un altro “gioco linguistico”.
Così è, per esempio, per chi svolge uno studio di caso, avvalendosi di tecniche qualitative
(come i colloqui), attribuendo poi ai risultati ottenuti un carattere probatorio e
generalizzabile. La mancanza di rigore corrisponde nell’introdurre all’interno di un gioco
(come, ad esempio, la ricerca idiografica) una mossa che appartiene ad un altro gioco (la
ricerca nomotetica).
I diversi giochi linguistici apparterrebbero comunque ad una medesima “famiglia” 43,
giacché è possibile rintracciare nei vari metodi di ricerca, anche se in termini molto
generali, dei tratti procedurali analoghi. Questo fil rouge è individuabile per Baldacci nel
“pensiero riflessivo” di cui parla John Dewey.
40
Ibidem.
Espressione mutuata da Ludwig Wittgenstein: cfr. Wittgenstein L. (1952), Philosophical Investigations,
trad. it., Ricerche filosofiche, Torino, Einaudi, 2009.
42
Baldacci M., Metodologia della ricerca pedagogica, cit., pp. 22-23.
43
Anche questo un concetto mutuato da Wittgenstein: cfr. Wittgenstein L. (1952), Philosophical
Investigations, trad. it., Ricerche filosofiche, cit.
41
26
«Il pensiero riflessivo mira a trasformare una situazione in cui si è fatta esperienza
di un’oscurità, un dubbio, un conflitto o un disturbo di qualche sorta, in una
situazione chiara, coerente, risolta, armoniosa» 44.
Questo percorso si articola in cinque fasi:
1. si fa esperienza di oscurità, dubbio, disturbo o conflitto (suggestione);
2. si definisce il problema (intellettualizzazione);
3. si esamina analiticamente la situazione e si formulano delle ipotesi (idea guida);
4. si sviluppano le ipotesi di lavoro nelle loro conseguenze (ragionamento in senso
stretto);
5. si controllano le ipotesi mediante l’azione (controllo).
Come precisa lo stesso Dewey, la successione delle cinque fasi non è rigida e alcune fasi
possono essere maggiormente enfatizzate rispetto alle altre. Si tratta comunque di uno
schema di pensiero che si ritrova nella ricerca empirica così come nell’investigazione
speculativa di tipo filosofico e che, più in generale, è comune a tutti i metodi di ricerca.
Esso potrebbe essere inteso come una postura mentale, un atteggiamento critico, un modo
di porsi in termini investigativi di fronte alle situazioni caratterizzate da confusione e
ambiguità.
Di fronte a queste situazioni, dunque, le persone che assumono tale approccio riflessivo
disinseriscono il “pilota automatico”, rappresentato dalle abitudini, dalle risposte scontate
e irriflesse, suggerite dalla consuetudine o dal pregiudizio, sospendono il giudizio,
inibiscono l’azione spontanea, avviando una riflessione sulla natura del problema da
affrontare e sulle possibili opzioni. Non si tratta solo di fare congetture, ma di
sperimentare concretamente, cercando nell’esperienza una conferma o una confutazione
delle proprie ipotesi di lavoro.
Il pensiero riflessivo non è caratteristica solo del procedere scientifico o filosofico, ma
viene spesso impiegato nell’affrontare in maniera rigorosa problemi pratici di tutti i
giorni. Dewey contrappone questa forma di pensiero al “pensiero di senso comune”, in
base al quale generalmente si agisce acriticamente, in base a schemi abituali, fermandosi
al livello delle suggestioni45.
Baldacci fa osservare come, nel nostro modo quotidiano di porci di fronte alla realtà, non
esista un confine netto fra le due modalità di pensiero. Se è vero che il “pensiero
riflessivo” si distingue dal pensiero di senso comune per accuratezza, coerenza e rigore,
44
45
Dewey J. (1910), How we think, trad. it. Come pensiamo, Firenze, La Nuova Italia, 1961, p. 172.
Ibidem.
27
nel quotidiano confronto con la realtà le due forme di pensiero vengono generalmente ad
intrecciarsi e a contaminarsi reciprocamente.
«Si danno molto raramente il senso comune e il “pensiero riflessivo” allo stato
puro; non si esce mai del tutto dalla gabbia del senso comune e non se ne è mai del
tutto dentro»46.
Quello del pensiero riflessivo è un concetto su cui si incardina un po’ tutta la presente
tesi, dato che esso non rappresenta solo lo “strumento” ma anche, in qualche misura,
l’oggetto stesso della mia ricerca. Ciò che mi propongo di fare è, infatti, studiare come il
pensiero riflessivo venga esperito all’interno di una pratica professionale e della sua
dimensione etica e come questo possa divenire dispositivo di costruzione di senso, di
autoformazione e di cura.
Mi propongo di riprendere questo punto più avanti, soffermandomi adesso sul concetto di
pensiero riflessivo, inteso come una sorta di “meta-metodo” della ricerca.
Esso rappresenta, come sostiene Baldacci, lo schema dal quale si può far discendere
l’intera “famiglia” dei metodi di ricerca, ma costituisce, a mio modo di vedere, anche il
processo di pensiero attraverso cui il ricercatore “ricerca il proprio metodo”. Questa
espressione potrebbe avere diversi livelli di lettura.
Un primo livello potrebbe essere che il pensiero riflessivo sostiene la scelta del singolo
metodo. Posto che i metodi sono molti, la scelta del metodo migliore, rispetto alle finalità
che ci si propone, è un problema la cui soluzione non può essere lasciata a delle
“suggestioni”, ma dev’essere a sua volta ricercata rigorosamente. Questo è lo spazio
proprio della metodologia della ricerca scientifica: essa non è semplicemente un
repertorio di tecniche e strumenti, ma è lo spazio per la riflessione rispetto ai metodi più
opportuni da adottare nella situazione specifica.
Un altro livello di lettura potrebbe però essere che il pensiero riflessivo, una volta che è
stato individuato un metodo, debba sorreggere e guidare la sua “applicazione” ragionata.
Giacché applicare un metodo non può essere una procedura meccanica, ma rimane un
processo profondamente riflessivo e che richiede un certo grado di expertise.
«In merito a tutto ciò, si deve inoltre precisare che le regole a cui si fa riferimento a
proposito della nozione di “gioco linguistico” (e quindi di “metodologia di ricerca”)
non rappresentano degli algoritmi, ossia delle norme da seguire meccanicamente
che portino invariabilmente a un certo risultato, ma dei principi metodologici, ossia
46
Baldacci M., Metodologia della ricerca pedagogica, cit., p. 27.
28
delle “massime” procedurali, dei criteri-guida la cui applicazione ai contesti
particolari richiede un’interpretazione caso per caso. Perciò solo un “esperto” del
gioco sa utilizzare effettivamente queste regole»47.
In questo senso si potrebbe asserire che il metodo non rimane mai uguale a se stesso, ma
dev’essere fatto “proprio” dal ricercatore. Senza contare il fatto che, come abbiamo visto,
si afferma sempre più la tendenza a combinare ed integrare i metodi (mixed methods),
ampliando così i margini di personalizzazione metodologica.
Ricercare il proprio metodo è, inoltre, un’operazione che non si fa una volta per tutte, ma
che si deve necessariamente rifare ogni volta. La posizione di Mortari su questo punto è
ancora più spinta: il ricercatore ricerca il proprio metodo man mano che fa ricerca.
«Nessun metodo efficace è qualcosa di predefinito in anticipo; una vera ricerca non
è mai applicativa di un metodo, ma inevitabilmente mette in atto processi di
riconcettualizzazione più o meno radicali […]. Il metodo può essere inteso un
pensare che va appresso al camminare, che prende forma lungo il percorso. Dunque
apprendere un metodo non significa applicare qualcosa di già codificato, si tratta
invece di intraprendere un cammino, ossia mettersi in viaggio disegnando la mappa
che deve fare da guida. Un metodo può essere pensato come una guida che orienta
nel percorso della conoscenza, quindi non è una strada già segnata, ma una mappa
che ci costruiamo a partire da un’accurata analisi del territorio» 48.
Per certi versi, il metodo, contrariamente a quanto ci suggerirebbe l’etimologia (dal greco
Meta odos, strada attraverso cui) non va inteso come una strada ben tracciata, ma
qualcosa che assomiglia di più alle “scie nel mare”49.
Non ci sarebbero strade, pertanto, ma delle rotte da seguire e adattare man mano che si va
avanti. Personalmente credo che questa apertura al nuovo, alla casualità, “all’atteso
imprevisto”, come si esprime Paolo Perticari50, sia assolutamente un fattore vitale per il
progresso della conoscenza. A tale proposito, Lucisano e Salerni osservano come ci sia
spesso uno scollamento tra ciò che viene dichiarato essere il metodo scientifico e come
poi concretamente si fa ricerca.
47
Ibidem.
Mortari L., Cultura della ricerca e pedagogia. Prospettive epistemologiche, cit., p. 147.
49
Il riferimento è qui alla poesia di Antonio Machado, Viandante, riportata all’inizio del capitolo.
50
Perticari P., Atesi imprevisti. Uno sguardo ritrovato su difficoltà di insegnamento/ apprendimento e
diversità delle intelligenze a scuola, Torino, Bollati Boringhieri, 1996. Tale espressione è utilizzata
anche da Rossi-Doria M., Di mestiere faccio il maestro, Napoli, L’ancora del Mediterraneo, 2000, pp.
92 e 98.
48
29
«Infatti a dispetto del rigore metodologico costantemente invocato dagli studiosi la
conoscenza si sviluppa in molti casi anche in ragione della creatività, degli errori e
del caso. In questo caso si parla di serendipità. Il termine è stato coniato dallo
scrittore inglese Horace Walpole (1717-1797) che, ispirandosi a un antico racconto
persiano, Viaggi e avventure dei tre principi di Serendip, gli ha attribuito il
suggestivo, quanto prevedibile, significato di “capacità di trovare ciò che non si sta
cercando»51.
Si tratta di concezioni molto problematiche, in quanto scompaginano quelle poche
certezze che si possono avere rispetto al fare ricerca. È chiaro che concepire il metodo di
ricerca come una procedura standard da applicare è molto più rassicurante. Credo anche,
però, che una prospettiva di questo tipo rappresenti una sfida interessante, tutta da
giocare, avendo comunque alcuni punti fermi, alcune idee-guida.
In conclusione di questo primo capitolo, ritengo opportuno tracciare, a grandi linee,
queste idee, alle quali intendo attenermi nello svolgimento della mia ricerca:
-
la scelta di campo rispetto al paradigma ecologico e quindi la forte attenzione
alla dimensione relazionale;
-
il confronto con approcci epistemologici di tipo costruttivista;
-
l’opzione multimetodo: cioè una ricerca che combini riflessivamente il metodo
teoretico-argomentativo e quello empirico (di marca qualitativa);
-
la formulazione di ipotesi “deboli”, permeabili e l’audace apertura
all’imprevisto.
51
Lucisano P., Salerni A., Metodologia della ricerca in educazione e formazione, Roma, Carocci, 2002, p.
49.
30
2
Alla ricerca di un modello (di apprendimento)
Non puoi insegnare qualcosa ad
un uomo, puoi solo aiutarlo a
scoprire qualcosa che è già
dentro di sé.
Galileo Galilei
2.1
La costruzione della conoscenza attraverso la pratica riflessiva
Chi sa, fa. Chi non sa, insegna. È un’espressione che ho sentito fin troppo spesso e che
mi ha sempre fatto riflettere su quanto diffuso sia, in determinati contesti, un certo
pregiudizio “antipedagogico” o, se non altro, nei confronti della classe docente. Non è
mia intenzione condurre qui una difesa d’ufficio della categoria. Evidentemente esistono
insegnanti più preparati ed altri meno, persone per le quali l’insegnamento è una
professione e altre per le quali è un ripiego, ma non è questo il punto. Ritengo che il
pregiudizio vada smontato nelle sue “premesse teoriche”, capovolgendo i termini della
questione. Non, quindi, Chi sa, fa, ma Chi fa, sa.
Secondo Schön esiste un’epistemologia della pratica che si rifà al paradigma
positivistico. In base a questa epistemologia, che egli chiama “Razionalità Tecnica”,
l’attività professionale consisterebbe nella soluzione strumentale di problemi, attraverso
l’applicazione di teorie scientifiche e di tecniche rigorose. I saperi, secondo la visione
tradizionale, stanno quindi prima e determinano l’agire professionale. “Chi sa, fa”52.
Per Schön53 l’epistemologia positivistica della pratica si fonda su tre dicotomie: la
separazione fra il conoscere e il fare, la separazione della tecnica dalla pratica
professionale e la separazione dei mezzi dai fini. In sostanza, quindi, tale approccio
postula che l’azione del professionista è solo un’applicazione ai problemi strumentali che
52
53
Si utilizza qui il termine “fare” in senso lato, comprendendo sia l’operare rivolto alla realizzazione di
cose (facere) che l’agire immateriale (agere). Allo stesso modo viene qui inteso il concetto di pratica,
riferito tanto al lavoro manuale che a quello intellettuale. Tali distinzioni verranno riprese e tematizzate
nel cap. 3, parlando della dimensione etica.
Schön D.A. (1987), Educating the reflective practitioner. Toward a new design for teaching and
learning in the professions, trad. it. Formare il professionista riflessivo: per una nuova prospettiva della
formazione, Milano, Franco Angeli, 2006, pp. 181-182.
31
incontra di teorie e tecniche generati “altrove” e cioè nel contesto della ricerca e
dell’elaborazione disciplinare. Il processo di lavoro si limita ad un’implementazione
rigorosa della decisione tecnica e ad una verifica dei risultati. Risultati che sono misurati
in base alla loro aderenza rispetto ad obiettivi stabiliti preliminarmente.
Nonostante il credito di cui ha goduto in passato e di cui tuttora gode, tale approccio
epistemologico descrive solo un aspetto tutto sommato marginale della pratica
professionale: il nucleo centrale della professione, ciò che fa più o meno competente un
professionista starebbe altrove.
«Nella variegata topografia della pratica professionale, vi è un terreno stabile, a
livello elevato, che sovrasta una palude. Nella parte superiore si collocano problemi
che si prestano ad essere facilmente risolti attraverso l’applicazione di una teoria e
di una tecnica basate sulla ricerca. Nella parte paludosa sottostante, problemi
disordinati, indeterminati resistono a qualsiasi soluzione di tipo tecnico. L’ironia
dei questa situazione è che i problemi dello stato superficiale tendono ad essere
relativamente poco importanti per gli individui e per la società nel suo complesso,
per quanto grande possa essere il loro interesse al livello tecnico, mentre nella
palude si trovano i problemi di maggior interesse umano»54.
Esiste, cioè, tutto un mondo di questioni – fondamentali nella pratica professionale – che
sfuggono alla logica della “razionalità tecnica” e che rischiano di rimanere, appunto, una
“palude” inesplorabile.
La razionalità tecnica, ad esempio, aiuta il professionista nella risoluzione di problemi.
Ad essere “problematica” però non è tanto la soluzione del problema, quanto la sua
determinazione. Il problema, infatti, non è qualcosa che esiste in natura e che s’impone a
noi in tutta la sua evidenza. Ciò su cui “s’inciampa” è quella che Dewey chiama la
“situazione problematica”, che è qualcosa di confuso, di nebuloso, dai contorni indefiniti.
Il problema va quindi “costruito” e questa è un’operazione che trascende la mera
applicazione di teorie e tecniche, è un’operazione che sfugge alla razionalità tecnica.
Infatti, come ci fa osservare Schön55, per quanto la definizione e l’impostazione del
problema sia una condizione necessaria per la soluzione tecnica dello stesso, essa non è di
per sé un problema tecnico. Nel definire ed impostare il problema, infatti, delineiamo il
perimetro d’attenzione, selezioniamo quelli che verranno processati come gli “oggetti”
54
55
Ivi, cit., p. 31.
Schön D.A. (1983), The reflexive practitioner, trad.it, Il professionista riflessivo. Per una nuova
epistemologia della pratica professionale, Bari, Dedalo, 1993, p. 68.
32
della situazione, ricerchiamo e, se necessario, costruiamo una coerenza interna tra gli
elementi del problema, andiamo ad individuare le incongruenze – cioè ciò che è sbagliato
– e stabiliamo una direzione di marcia, ossia in che modo vogliamo modificare la
situazione data. Si tratta di un processo interattivo, attraverso il quale individuiamo gli
oggetti di cui ci occuperemo e strutturiamo il contesto dell’azione.
L’impedimento tecnico a determinare un problema sta molto spesso nel possibile
conflitto fra le finalità verso cui orientare l’azione professionale. Come ci avverte
Schön56, infatti, la Razionalità Tecnica dipende dal consenso sui fini: quando questi si
presentano in termini chiari e definiti, allora la decisione di agire si presenta essa stessa
come un mero problema strumentale. Quando invece essi si presentano in termini confusi
e contraddittori, allora è chiaro che non c’è ancora un “problema” da risolvere, ma questo
va costruito. In tal caso il semplice utilizzo delle tecniche derivate dalla ricerca applicata
non può essere risolutivo. È qui, appunto, che si rende necessario intraprendere quel
percorso (non tecnico) di strutturazione della situazione problematica, finalizzato a
“sistemare” e chiarire tanto i fini da raggiungere quanto i mezzi utili per il loro
conseguimento.
Ma quand’anche fosse stato definito il problema, questo può ugualmente sfuggire ad una
logica di mera razionalità tecnica, ad esempio perché non è contemplato nei “manuali”,
cioè si presenta – come spesso accade – nei suoi caratteri di unicità e/o di instabilità.
Come ci dice infatti Schön, risolvere un problema, mediante l’applicazione di teorie o
tecniche esistenti, presuppone che un professionista debba essere in grado di applicare
quelle categorie ai problemi che caratterizzano la situazione affrontata nella pratica. Vi
possono essere però un’infinità di “casi unici”, per i quali non si può far affidamento su
tali categorie.
«Un medico non può applicare tecniche standard a un caso che non è nei libri. E un
nutrizionista che tenti un intervento nutrizionale programmato presso una comunità
rurale dell’America Centrale può scoprire che l’intervento fallisce perché la
situazione si è trasformata in qualcosa di diverso rispetto alle previsioni» 57.
Al fine di districarsi da questa “palude” occorre disporre di quella che Schön chiama
“Artistry” (tradotta come “abilità artistica”), che si sviluppa proprio attraverso l’agire
concreto. L’abilità artistica che deve avere un medico, un insegnante o un manager, non è
56
57
Ibidem.
Ibidem.
33
un dono che riceve dall’alto, né qualcosa che impara sui libri, ma è una capacità che egli
acquisisce attraverso la pratica.
«Sembra corretto affermare che il nostro conoscere è nella nostra azione. […] Sia la
gente comune sia i professionisti spesso riflettono su ciò che fanno, a volte persino
mentre lo fanno. Stimolati dalla sorpresa, tornano a riflettere sull’azione e sul
conoscere implicito nell’azione. […] È questo processo complessivo di riflessione
nel corso dell’azione che è fondamentale nell’«arte» mediante la quale i
professionisti a volte affrontano bene situazioni connotate da incertezza, instabilità,
unicità e conflitti di valore»58.
Viene evidenziata da Schön una strabiliante similarità nel modo di procedere di
professionisti che esercitano professioni fra loro assai differenti. Emerge in queste
differenti professioni una sorta di abilità artistica nel gestire situazioni incerte, instabili e
uniche, abilità che sembra soggiacere ad una condivisa “grammatica”. È questo il
modello di riflessione nel corso dell’azione che prende la forma narrativa del dialogo e
che Schön definisce «conversazione riflessiva con la situazione»59.
In questa nuova epistemologia vengono superate le tre dicotomie tanto care all’approccio
positivista: la separazione tra ricerca e pratica professionale, tra fini e mezzi, tra il
conoscere e il fare.
«La pratica è una sorta di ricerca. Nell’impostazione del problema, fini e mezzi
sono strutturati in maniera interdipendente e l’indagine è una transazione con la
situazione nella quale il conoscere e il fare sono inscindibili»60.
La riflessione nel corso dell’azione è un po’ come un gioco agli scacchi: il professionista
apre con una mossa e aspetta di vedere come “risponde” la situazione, per riformulare e
testare man mano i propri schemi di gioco. Queste “mosse” rappresentano per Schön dei
veri e propri esperimenti, cioè azioni fatte per esplorare la situazione o per verificare
l’efficacia di quella stessa mossa o per verificare eventuali ipotesi.
Questo processo si snoda come una spirale attraverso fasi di apprezzamento, azione, e
nuovo apprezzamento. “La situazione unica e incerta viene a essere compresa attraverso
il tentativo di trasformarla, ed è trasformata attraverso il tentativo di comprenderla”61.
58
Ivi, p. 76.
Ivi, p. 275.
60
Schön D.A., Formare il professionista riflessivo, cit., p. 117.
61
Schön D.A., Il professionista riflessivo, cit., p. 152.
59
34
Il punto d’avvio di questa indagine 62 riflessiva, il “meccanismo di innesco”, sta in uno
stato d’animo: la sorpresa, che può essere lo stupore, la meraviglia, la confusione o
perfino l’ansia per una situazione minacciosa.
«Gran parte della riflessione nel corso dell’azione dipende dall’esperienza della
sorpresa. Quando una prestazione intuitiva, spontanea, non produce altro che i
risultati attesi, allora tendiamo a non rifletterci sopra. Ma allorquando una
prestazione intuitiva porta alla sorpresa, piacevole e promettente, o non voluta, è
possibile rispondere con una riflessione nel corso dell’azione»63.
Non esistono copioni già scritti, in quanto queste “conversazioni riflessive”; si tratta di
una sorta di improvvisazione, come quella che si produce nella musica Jazz.
«Quando dei bravi jazzisti improvvisano assieme, anch’essi manifestano una
“sensibilità per” il loro materiale ed elaborano adattamenti improvvisati ai suoni
che ascoltano. Ascoltandosi reciprocamente e ascoltando se stessi, sentono in quale
direzione sta andando la musica e di conseguenza adattano il proprio modo di
suonare»64.
Lo possono fare, innanzitutto perché lo sforzo collettivo verso l’invenzione musicale fa
uso di uno schema. Inoltre, ognuno dei musicisti dispone già di un repertorio di motivi
musicali, che può proporre al momento opportuno. L’improvvisazione consiste nel
variare, combinare e ricombinare un insieme di motivi all’interno dello schema che
definisce i limiti dell’esecuzione e le dà coerenza.
La capacità d’improvvisazione musicale collettiva dei jazzisti si avvale infatti di alcune
“costanti” (uno schema metrico, melodico e armonico conosciuto da tutti i partecipanti),
in base alle quali il pezzo si sviluppa comunque secondo un ordine “imprevisto”, ma che
si rende man mano prevedibile. Così, ogni professionista competente dispone, nel proprio
approccio riflessivo alla pratica, di alcune “costanti”, cioè di alcuni punti relativamente
fermi, attorno a cui fa girare la propria “conversazione riflessiva”.
Innanzitutto un patrimonio professionale di mezzi espressivi, di linguaggi specialistici e
di repertori di casi a cui attingere.
62
Il termine traduce il vocabolo inglese inquiry che Schön mutua da Dewey. Per entrambi i filosofi
americani l’indagine rappresenta una combinazione di pensiero e azione: fare ragionando, ragionare
facendo.
63
Ivi, p. 152.
64
Ivi, pp. 81-82.
35
Poi un sistema di apprezzamento, ossia l’insieme delle norme, dei principi e dei valori
attraverso cui vengono formulati gli obiettivi e determinata l’accettabilità o meno di una
determinata condotta professionale.
Inoltre può esserci (ma anche no) una teoria dominante, cioè una particolare prospettiva
che, senza fornire regole da applicare, suggerisce dei temi attraverso i quali sviluppare
particolari interpretazioni e ipotesi.
Infine, una struttura del ruolo, come cioè ogni singolo professionista intende i propri
compiti e il rapporto con il proprio contesto istituzionale 65.
Il termine “costanti” può trarci in inganno, facendoci ritenere che esse siano immutabili
nel tempo e omogenee nei diversi ambiti di pratica.
«Ma le costanti – mezzi espressivi, linguaggio, repertorio, sistemi di
apprezzamento, teoria dominante e struttura del ruolo – sono anche soggette a
mutamento. Esse tendono a mutare in lassi di tempo più ampi di quanto non
avvenga per un singolo episodio della pratica professionale, sebbene particolari
eventi possano innescarne il mutamento. E talvolta sono trasformate attraverso la
riflessione del professionista sugli eventi inerenti alla sua attività pratica» 66.
La “reflection-in-action” non è l’unico dispositivo attraverso cui “chi fa, sa”. Molto
importante è pure ciò che Schön definisce “reflection-on-action”, ovvero la “riflessione
sull’azione”. È la riflessione ex-post, che cioè lo stesso professionista può fare in un
secondo momento, al fine di acquisire nuova conoscenza professionale. Ovviamente
l’oggetto di questa riflessione può essere l’azione stessa (la sequenza cioè delle diverse
“mosse”) ma anche la riflessione che ha accompagnato tale azione. Si tratta di un
dispositivo metariflessivo che Schön chiama “reflection on reflection-in-action”.
«La riflessione sulla nostra passata riflessione può indirettamente dare forma alla
nostra azione futura. Le riflessioni del lunedì di un quaterback potrebbero essere
ricche di significato se la persona che sta riflettendo è colui che giocherà – e
giocherà diversamente grazie al suo quaterbacking del lunedì – la partita del sabato
successivo. […] Se faccio questo, la mia presente riflessione sulla mia precedente
riflessione nel corso dell’azione avvia un dialogo tra il pensare e il fare attraverso il
quale io posso diventare più esperto»67.
65
Si veda, al riguardo, Schön D.A., Formare il professionista riflessivo, cit., p. 66.
Schön D.A., Il professionista riflessivo, cit., p. 282.
67
Schön D.A., Formare il professionista riflessivo, cit., p. 65.
66
36
Per ritornare allora alla questione iniziale, ritengo che una delle possibili chiavi
interpretative per quel pregiudizio rivolto ai docenti possa proprio essere rappresentata da
quel più ampio fenomeno chiamato da Schön “crisi di fiducia” 68. Un vicolo cieco nel
quale si sono infilate nell’ultimo secolo tutte le professioni, proprio per la loro pretesa di
fondarsi su di un paradigma di tipo positivistico.
La crisi di fiducia nelle professioni, come pure il declino dell’immagine che il
professionista ha di se stesso, sembrerebbe secondo Schön affondare le proprie radici nel
crescente scetticismo rispetto al loro effettivo contributo al benessere della società.
La svolta riflessiva, oltre a rifondare epistemologicamente le professioni, è indispensabile
secondo Schön per la ricostruzione di questo rapporto fiduciario. All’interno di questa
nuova prospettiva epistemologica, si potrebbe quindi riformulare il nostro adagio in
questi termini: Chi fa, sa. Chi insegna, impara. L’insegnamento, cioè, come ogni altra
pratica, costruisce riflessivamente il proprio sapere. Ed è credo questo che intendeva
Pierpaolo Pasolini quando diceva che: “Non si può insegnare se al tempo stesso non si
apprende”69.
Su questo punto si potrebbero aprire interessanti e ampie analisi. Come pure sarebbe
interessante approfondire il rapporto fra il sapere che nasce dalla pratica degli insegnanti
con il sapere pedagogico che è, in un certo senso, il prodotto di un’altra pratica, quella
della ricerca educativa. Mi interessa però mantenere qui il discorso sul piano generale
delle pratiche e di come queste producano conoscenza.
Ritengo che il modello euristico proposto da Schön, pur valido e ricco di implicazioni
feconde, non sia esaustivo. Esso, infatti, circoscrive il proprio focus d’attenzione sulla
“conversazione riflessiva” che il professionista, nel corso della propria pratica, ingaggia
con la situazione che si trova ad affrontare. Vi sono però anche altre “conversazioni”, che
sono indispensabili per costruire conoscenza e che vedono coinvolti i diversi
professionisti in quella che viene definita la “Comunità di pratica”. Di tali conversazioni
(e di ciò che ad esse è implicato) si occupa la teoria dell’apprendimento sociale di
Wenger.
68
69
Si veda al riguardo il 1° cap. di Schön D.A., Il professionista riflessivo, cit.
Pasolini P.P., Lettere Luterane. Il progresso come falso progresso, Torino, Einaudi, 1976, p. 42.
37
2.2
La teoria dell’apprendimento sociale di Wenger
Il nome di Etienne Wenger è inevitabilmente associato al concetto di “Comunità di
Pratica”, concetto che ha conseguito, da una decina d’anni a questa parte, una notevole
affermazione. Va detto, però, che il costrutto “Comunità di Pratica” rappresenta solo un
elemento di un più ampio modello teorico relativo all’apprendimento. È un elemento e
nello stesso tempo una prospettiva, attraverso la quale si può osservare tale modello in
azione.
«Quando uso il concetto di “comunità di pratica” nel titolo di questo libro, lo
utilizzo in realtà come punto d’accesso ad uno schema concettuale più vasto di cui è
un elemento costitutivo»70.
Possiamo, infatti, pensare al modello di Wenger come ad una sorta di prisma, che può
essere guardato da varie angolature.
Il presupposto fondamentale da cui egli parte è che l’apprendimento non è un processo
individuale; non è neppure propriamente un processo, inteso come un insieme coordinato
di passaggi, con un inizio ed una fine. Non è solo, né necessariamente, il prodotto di un
intervento di insegnamento e non può concepirsi in modo separato rispetto al resto delle
attività quotidiane. L’apprendimento è qualcosa di naturale e di necessario, come il
respirare, che avviene senza che vengano implicati per forza atti d’intenzionalità.
Si tratta di un’affermazione contro-intuitiva: tutti noi abbiamo saggiato quanto costa
imparare, quanta fatica, quanti sforzi, quanti sacrifici questo richieda. In realtà, come ci
dice Wenger, tali sforzi sono legati alla volontà di orientare, di dirigere e, a volte, anche
di contrastare il naturale processo di apprendimento.
«Noi sviluppiamo dei programmi scolastici nazionali, degli ambiziosi piani
formativi
aziendali,
dei
sistemi
educativi
complicati.
Vogliamo
indurre
l’apprendimento, assumerne il controllo, indirizzarlo, accelerarlo, esigerlo o anche
solo smettere di ostacolarlo, in ogni caso vogliamo agire in qualche modo su di
esso»71.
L’apprendimento è – oltre che naturale – imprescindibile, perché è ciò che rende la nostra
esperienza del mondo e la nostra interazione con esso qualcosa di significativo. Il fine
ultimo dell’apprendimento è, infatti, l’attribuzione di significato.
70
Wenger E. (1998), Communities of practice. Learning, meaning and practice, trad. it. Comunità di
pratica, Milano, Raffaello Cortina, 2006, p. 12.
71
Ivi, p. 16.
38
Per Wenger72, il significato – il significato delle cose del mondo, da quelle più minute
fino ai massimi sistemi – non è reperibile nelle cose stesse, né possiamo inventarcelo
seguendo il nostro guizzo creativo, ma scaturisce e continuamente viene a ridefinirsi
all’interno di un processo di negoziazione. Negoziare un significato significa attuare un
processo produttivo, che chiaramente però non pretende di costruirlo partendo da zero.
Esso non è preesistente, ma nemmeno inventato. Non è dentro di noi, né nel mondo, ma
nel nostro dinamico relazionarci con il mondo.
Questa negoziazione di significato, poi, secondo Wenger, non ha niente a che vedere con
le disquisizioni filosofiche: essa infatti si realizza attraverso il concreto e quotidiano
confronto con la pratica.
«I nostri tentativi di capire la vita umana aprono la porta a una valanga di
interrogativi sull’argomento: dall’origine dell’universo ai meccanismi del cervello,
dai dettagli di ogni singolo pensiero al senso della vita. In questo vasto spazio
affollato di interrogativi, il concetto di pratica si rivela utile per affrontarne una
parte specifica, per mettere a fuoco l’esperienza della significatività. La pratica è,
anzitutto e soprattutto, un processo mediante il quale possiamo dare significato al
mondo e al rapporto che intratteniamo con esso»73.
Per pratica, Wenger intende non semplicemente il “fare”, ma il fare inserito in una
struttura di significato, storicamente e socialmente determinato. L’esercizio meccanico e
ripetitivo di chi, ad esempio, “fa pratica” di uno strumento musicale non è il tipo di
pratica a cui si riferisce Wenger. Quando Wenger parla di pratica, si riferisce alla pratica
sociale, cioè ad un fare che viene necessariamente ad inscriversi (non potrebbe darsi
altrimenti) in un contesto sociale, che dà struttura e significato a questa attività. Tale
contesto è, appunto, la comunità di pratica: il luogo dove naturalmente si produce
apprendimento, cioè si negozia significato.
«Tutti noi abbiamo le nostre teorie e i nostri modi di intendere il mondo, e le nostre
comunità di pratica sono luoghi in cui li sviluppiamo, li negoziamo e li
condividiamo»74.
La comunità di pratica è il particolare tipo di comunità che nasce proprio dalla
condivisione di quel “fare significativo” che è la pratica. Essa si distingue dagli altri tipi
72
Ivi., pp. 66-67.
Ivi, p. 63.
74
Ivi, p. 60.
73
39
di comunità (pensiamo ad esempio alla comunità locale di un piccolo paese) in quanto
caratterizzata da un impegno reciproco fra i suoi componenti, che è orientato alla
realizzazione di un’impresa comune, attraverso l’impiego di un repertorio condiviso di
risorse (linguaggi, storie, artefatti, ecc.).
Attraverso questo incessante significare le cose del mondo, si va a definire e ridefinire
continuamente la nostra identità, che può essere intesa come la direttrice lungo la quale si
sviluppa il nostro apprendimento nel suo divenire.
«In quanto traiettorie, le nostre identità incorporano il passato e il futuro nel
processo di negoziazione del presente, danno significato agli eventi in relazione al
tempo inteso come estensione del Sé. Mettono a disposizione un contesto in cui
stabilire quali cose, fra tutte quelle potenzialmente significative, si trasformano in
apprendimento significativo. La percezione di trovarci su una traiettoria ci permette
di stabilire cosa conta e cosa non conta, cosa contribuisce alla nostra identità e cosa
rimane marginale»75.
Due sono i dispositivi che, all’interno del modello euristico di Wenger, generano
apprendimento: la partecipazione e la reificazione.
La partecipazione è alla base dell’apprendimento così come – girando il nostro prisma –
essa è all’origine della comunità, dell’identità, della pratica e della negoziazione del
significato. Con il termine “partecipazione” non ci si riferisce ad un semplice
coinvolgimento in una determinata attività svolta contestualmente ad altre persone,
quanto piuttosto al divenire parte attiva di una comunità sociale, che è accomunata dalla
medesima pratica. Si tratta, quindi, di qualcosa che riguarda il “fare” ma soprattutto
l’“essere”, cioè che contribuisce a costruire l’identità della persona in relazione a queste
comunità. Partecipare ad una comunità di pratica condiziona quello che si fa, quello che
si è, come pure l’interpretazione che viene data a ciò che si fa. A tale riguardo Wenger 76
evidenzia come la partecipazione ad una banda di ragazzi di strada, piuttosto che un
gruppo di lavoro, implica tanto un “agire”, quanto un “appartenere”.
La partecipazione è in buona sostanza il nostro modo di essere nel mondo: un esserci, un
esserci con gli altri, anche quando si è soli, che dà significato a ciò che facciamo.
«Starsene da soli in una camera d’albergo a preparare una serie di lucidi per una
presentazione che si terrà la mattina dopo non appare di certo un evento carico di
valenze sociali; eppure il suo significato è fondamentalmente sociale. Non ci sarà
75
76
Ivi, p. 180.
Ivi, p. 11.
40
solo il pubblico a cui dovrete illustrare in modo chiaro e comprensibile le vostre
idee; ci saranno anche dei colleghi che vi terranno metaforicamente sotto tiro, in
quanto simboleggiano per voi l’obbligo di rispettare gli standard professionali della
vostra comunità. […] I significati di ciò che facciamo sono sempre sociali» 77.
Per reificazione, invece, Wenger78 intende quel processo mediante il quale nostri
significati vengono proiettati nel mondo, assumendo per noi una realtà loro propria. Se
attraverso la partecipazione i componenti della comunità di pratica mettono in atto un
riconoscimento reciproco, attraverso la reificazione essi proiettano se stessi sul mondo.
Ciò che viene proiettato però assume vita propria, indipendente dai nostri significati.
Il prodotto della reificazione gioca un ruolo fondamentale nel processo di negoziazione di
significato: una volta “materializzato” (in un concetto, in una norma, in un simbolo o in
una storia), quel significato diviene qualcosa di trattabile, attraverso il quale i membri
della comunità di pratica possono negoziare altri significati.
«Scrivere una legge, creare una procedura o produrre uno strumento sono processi
analoghi. Si dà forma a una certa idea. Questa forma diviene poi un centro di
riferimento per la negoziazione di significato, visto che la gente usa la legge per
sostenere una tesi, usa la procedura per sapere cosa fare o impiega lo strumento per
fare un lavoro. Intendo dire che il processo di reificazione così costruito è
fondamentale per tutte le pratiche. Qualunque comunità di pratica produce
astrazioni, strumenti, simboli, storie, termini e concetti che reificano un qualche
aspetto di quella pratica in forma consolidata»79.
Partecipazione e reificazione sono intimamente intrecciate fra loro nella pratica: non può
esistere l’una senza l’altra. Pensiamo ad esempio ad una conversazione di lavoro tra due
colleghi, nella quale l’aspetto della partecipazione alla stessa comunità di pratica si fonde
con la reificazione, data dall’uso di un linguaggio condiviso, per produrre nuovi
significati.
«Partecipazione e reificazione abbisognano l’una dell’altra e si rendono
vicendevolmente possibili. Da una parte, occorre la nostra partecipazione per
produrre, interpretare e usare la reificazione. Dall’altra, la nostra partecipazione
richiede l’interazione e quindi genera scorciatoie che conducono a significati
77
Ivi, p. 70.
Ivi, p. 80.
79
Ivi, p. 72.
78
41
coordinati, i quali riflettono le nostre iniziative e le nostre visioni del mondo;
dunque non c’è partecipazione senza reificazione»80.
Come dichiara lo stesso Wenger81, il modello sopra rappresentato non ha la pretesa di
fornire altro che una prospettiva sull’apprendimento, prospettiva che ne evidenzia il
carattere di “costruzione sociale”. Esistono, infatti, come ci ricorda Wenger, diversi
modelli teorici dell’apprendimento. Egli ritiene che essi non debbano necessariamente
ritenersi in contrasto fra di loro, né tanto meno reciprocamente escludentisi. Ciascuno in
effetti enfatizza alcuni aspetti diversi, mette in luce una particolare sfaccettatura del
poliedrico processo in esame e quindi può essere impiegato in termini complementari
rispetto a specifiche finalità euristiche. La teoria sociale dell’apprendimento di Wenger, il
cui focus è centrato sull’apprendimento come partecipazione sociale, si propone in
termini complementari rispetto alle altre teorie dell’apprendimento che inquadrano lo
stesso oggetto da punti di osservazione differenti.
In questo sta il carattere “costruzionista” del modello di Wenger: nel ruolo che gioca la
dimensione sociale nella costruzione della conoscenza.
Non è che questa dimensione sia assente nella prospettiva costruttivista di Schön, come
testimoniano le sue stesse parole.
«Una pratica professionale è l’attività di una comunità di professionisti che
condividono, secondo le parole di John Dewey, le tradizioni di un mestiere. Essi
condividono convenzioni di azioni che includono mezzi, linguaggi e strumenti
peculiari. […] Il conoscere nel corso dell’azione di un professionista è collocato in
un contesto socialmente e istituzionalmente strutturato condiviso da una comunità
di professionisti»82.
In entrambi i modelli la conoscenza viene intesa come conoscenza strutturalmente situata.
La differenza sta nella caratterizzazione dell’apprendimento come processo cognitivo, nel
caso di Schön, e come processo sociale per Wenger.
Due prospettive che ritengo di dover considerare nell’inquadrare l’oggetto della mia
ricerca, unitamente ad altri utili contributi teorici, a cui farò riferimento qui di seguito.
80
Ivi, p. 80.
Ivi, pp. 10-11.
82
Schön D.A., Formare il professionista riflessivo, cit., p. 66.
81
42
2.3
La dimensione tacita della conoscenza
Il modello di Wenger – così come, del resto, quello di Schön – è un modello di
apprendimento situato, secondo il quale la conoscenza è dentro la pratica. Questo implica,
di conseguenza, che molta parte di questa conoscenza rimane il più delle volte inespressa,
tacita83.
«Questo concetto di pratica include sia l’esplicito sia il tacito. Include ciò che viene
detto e ciò che non viene detto; ciò che viene rappresentato e ciò che viene assunto
in ipotesi. […] Naturalmente, il tacito è ciò che diamo per scontato, che tende
perciò a rimanere sullo sfondo. Se non viene dimenticato, tende a rimanere nel
subconscio individuale, nella sfera di ciò che sappiamo istintivamente, di ciò che ci
viene naturale»84.
Secondo Wenger, la conoscenza tacita e la conoscenza esplicita rappresentano una dualità
di interazione85. Come la partecipazione e la reificazione non possono essere considerate
separatamente ma “operano in coppia”, così tacito e implicito abbisognano l’uno
dell’altro e si rendono vicendevolmente possibili. Non si può esplicitare sempre ogni
cosa, e quindi annullare la dimensione del non detto, come neppure si può pensare di
rendere tutto formale, sopprimendo l’informale. Quello che ci è dato di fare è
semplicemente modulare quanto di tacito e quanto di esplicito, quanto di formale e
quanto di informale far coesistere assieme.
Si tratta di una coesistenza necessaria, dato che non esistono le conoscenze in tacite e le
conoscenze esplicite in termini assoluti, in quanto ogni conoscenza possiede sempre
qualcosa dell’uno e dell’altro carattere.
«Classificare la capacità di andare in bicicletta come una conoscenza tacita è
improprio, perché le persone non sono esattamente incapaci di descrivere il
processo. Possono dirvi, per esempio, che bisogna pedalare e sterzare, tenere
saldamente il manubrio e non oscillare troppo o non sedersi in posizione arretrata,
se non si è dei professionisti»86.
83
La prima formulazione del concetto di “conoscenza tacita” si deve al filosofo della scienza Michael
Polanyi (1966), The tacit dimension, trad. it. La conoscenza inespressa, Roma, Armando, 1979, per il
quale “noi possiamo conoscere più di quello che possiamo esprimere” (p. 20). Egli riporta a sostegno di
tale tesi una serie di esempi di azioni che svolgiamo quotidianamente e rispetto alle quali non riusciamo
(o riusciamo in maniera del tutto approssimativa) a dare ragione: riconoscere un viso o delle espressioni
facciali, utilizzare una sonda o un bastone per camminare, ecc.
84
Wenger E., Comunità di Pratica, cit., p. 59.
85
Ivi, p. 82.
86
Ivi, p. 83.
43
L’esplicitazione del tacito rappresenta, dunque, “un’operazione di confine” 87. È in quel
luogo sociale, ai margini delle pratiche e delle comunità, il posto in cui si origina il
cambiamento e dove si esplicitano i saperi taciti. Uno spazio di confine è quello che ad
esempio si crea nella relazione tra i membri della Comunità di Pratica e un nuovo
apprendista.
Per Schön, invece, questo processo di esplicitazione trova il proprio ambito di
realizzazione della dimensione riflessiva che si sviluppa all’interno della pratica.
Attraverso la “reflection-in-action”, le comprensioni implicite integrate nelle azioni
vengono fatte emergere, quindi vengono criticate, risignificate e incorporate nell’azione
successiva.
La dimensione tacita, secondo Schön, è per prima cosa presente in tutte le forme di
“know-how”, per le quali la conoscenza sta tipicamente nel fare88.
«Il nostro conoscere è normalmente tacito, implicito nei nostri modelli di azione e
nella nostra sensibilità per le cose delle quali ci occupiamo. Sembra corretto
affermare che il nostro conoscere è nella nostra azione»89.
Generalmente siamo portati a misurare la distanza tra il “dire” e il “fare”, tra le nostre
altisonanti dichiarazioni e le nostre misere realizzazioni. Schön ribalta in qualche modo la
questione, evidenziando la distanza tra il “fare” e il “dire”: possiamo, cioè, fare tante cose
che non riusciamo convenientemente ad esprimere a parole. E ciò dipende, per Schön, dal
carattere situato della nostra conoscenza90. Il know-how è incorporato indissolubilmente
nell’azione e solo attraverso l’agire può emergere. L’esempio proposto è quello di un
acrobata: il suo know-how non è qualcosa che esiste in astratto, bensì esso consiste
proprio nel modo in cui egli riesce a camminare lungo il filo. Il camminare sul filo è il
know-how e la sua dimostrazione.
Ciò che si è detto per il know-how vale anche per l’artistry del professionista. Per quanti
sforzi si facciano non è possibile produrre manuali d’istruzione adeguati alla trasmissione
di tali conoscenze. Tacito non corrisponde, quindi, solo e semplicemente a “non
esplicito”, ma vuol dire in molti casi anche “non esplicitabile”, qualcosa che rimane
87
Il concetto di confine risulta estremamente importante nel discorso di Wenger. Per un approfondimento
al riguardo, si veda Wenger E., Comunità di Pratica, cit., cap. 4.
88
Schön si rifà qui alla distinzione tra know-how e know-that, sviluppata da Gilbert Ryle (1949), The
concept of mind, London, Hutcheson. Secondo il filosofo britannico, il “sapere come” è altro rispetto al
“sapere cosa”: i due saperi non necessariamente si implicano a vicenda.
89
Schön D.A., Il professionista riflessivo, 1983, p. 76.
90
Ivi, p. 76.
44
avvolto da uno schermo di opacità e di indicibilità. L’unico modo per acquisire questo
tipo di conoscenze è quello di conoscerle in azione.
A questo proposito, Schön riporta un esempio tratto da Chris Alexander 91. Il caso citato è
quello della tessitura degli scialli da parte dei contadini slovacchi. La loro tradizionale
abilità nel produrre dei bei disegni sarebbe legata alla capacità di riconoscere e non
ripetere quelli brutti. Per Schön, quindi, in questa come in altre situazioni, noi saremmo
in grado di riconoscere e correggere l’inadeguatezza di una forma rispetto al contesto ma
non riusciamo ad esplicitare davvero le regole in base alle quali la giudichiamo corretta o
sbagliata.
Ma la dimensione tacita non riguarda solo il “know-how” o l’artistry; essa riguarda anche
ciò che Schön chiama “sistema di apprezzamento”, ossia quell’insieme di conoscenze
attraverso il quale avvengono l’impostazione dei problemi e la conversazione riflessiva. E
riguarda altresì la struttura del ruolo, attraverso cui vengono a definirsi i compiti
professionali, nonché la cornice istituzionale all’interno della quale questi vengono a
collocarsi. Si tratta di strutture che risultano determinanti rispetto alla pratica
professionale, ma operano il più delle volte in maniera recondita. È importante per Schön
far emergere queste conoscenze tacite, confrontandosi con la problematicità di cui sono
portatrici.
«Quando i professionisti sono inconsapevoli delle strutture che essi definiscono per
ruoli o problemi, non avvertono l’esigenza di scegliere fra di esse. Essi non
prestano attenzione ai modi in cui costruiscono la realtà nella quale agiscono; per
loro, si tratta semplicemente della realtà data»92.
È importante quindi per il professionista esplicitare anche la cornice, cioè divenire
consapevole delle strutture che utilizza per inquadrare la realtà nella quale opera. Questo
infatti consente di acquisire consapevolezza dei possibili modi alternativi di strutturare la
realtà della sua pratica. Esplicitare la cornice significa esplicitare i principi e i valori in
base ai quali opera e la gerarchia che esiste tra tali principi e valori, facendo anche
emergere possibili dilemmi, a esempio, quando si opera in base ad un valore a discapito
di qualche altro.
91
Alexander C. (1968), Notes toward a Synthesis of form, Cambridge, Mass., Harvard University Press,
trad. it., Note sulla sintesi della forma, Milano, Il Saggiatore, 1978, come citato in Schön D.A., Il
professionista riflessivo, cit., p. 79.
92
Schön D.A., Il professionista riflessivo, cit., p. 314.
45
Questa presa di coscienza, realizzabile attraverso ciò che Schön chiama “ricerca
riflessiva”, dà la possibilità di confrontarsi con il pluralismo professionale rappresentato
dalle diverse scuole di pensiero, in maniera critica, non ideologica, per pervenire magari
anche ad un eventuale “eclettismo sistematico”93. Considerare cioè le diverse scuole non
come recinti che imprigionano ma come territori aperti, su cui si può spaziare, attingendo,
in base alle specifiche caratteristiche del caso che si deve affrontare, le risorse più utili,
che possono essere modelli, teorie, tecniche o strumenti operativi.
Il concetto di struttura tacita sviluppato da Schön ne Il professionista riflessivo richiama il
discorso che egli affronta, assieme al collega Chris Argyris 94, in merito alle “Teorie-inuso”, le quali rappresentano, in un certo senso, il punto di snodo tra l’indagine riflessiva
del singolo individuo e una dimensione più ampia: l’apprendimento organizzativo.
2.4
L’apprendimento organizzativo
L’introduzione nel dibattito accademico del concetto di apprendimento organizzativo da
parte di Argyris e Schön, agli inizi degli anni Settanta, non è stata esente da contestazioni.
L’accusa rivolta ai due studiosi americani è in buona sostanza quella di aver voluto
“antropomorfizzare” le organizzazioni, attribuendo loro facoltà tipicamente umane (o
comunque esclusive degli esseri viventi)95. La questione non è priva di una sua
problematicità: si può difatti parlare, in senso proprio, di organizzazioni che apprendono
o sono piuttosto gli individui che apprendono in nome e per conto delle organizzazioni?
Chiaramente
l’apprendimento
organizzativo
è
strettamente
intrecciato
con
l’apprendimento individuale, il quale – come abbiamo visto – trova la sua più compiuta
modalità realizzativa in quella conversazione tra azione e pensiero che è l’indagine
riflessiva. Ma l’apprendimento del singolo individuo, quando questi opera come agente
dell’organizzazione, interloquisce con l’organizzazione stessa, attraverso una serie di
continui feed-back e interazioni tra le conoscenze e i cambiamenti dell’individuo e quelli
93
Ivi, p. 317. Schön cita, a tale riguardo, l’analisi in merito all’eclettismo sistematico in ambito psichiatrico
fatta da Leston Havens, Approches to the mind, Little, Brown, Boston, 1973.
94
Si veda in particolare Argyris C. e Schön D.A., Theory in practice. Increasing professional effectiveness,
San Francisco, Jossey-Bass, 1974; Argyris C. e Schön D.A., Organizational learning: a theory of action
perspective,Reading, Mass., Addison-Wesley, 1978; Argyris C., Schön D.A. (1996), Organizational
learning: theory, method and practice, Reading, Mass., Addison-Wesley Longman, trad.it.
Apprendimento organizzativo. Teoria, metodo e pratiche, Milano, Guerini e Associati, 1998.
95
La metafora dell’organizzazione come sistema pensante ha generato comunque un filone molto
prolifico di studi, i quali attingono al ricco ed interessante ambito di ricerca della cibernetica. Per un
approfondimento di questa e di altre metafore sull’organizzazione, si veda Morgan G., (1986) Images of
organization, Sage Publications, trad.it. Images. Le metafore dell’organizzazione, Milano, Franco
Angeli, 1998.
46
dell’organizzazione. Quindi il processo di apprendimento individuale alimenta e viene
modificato da quello dell’organizzazione.
«Quando l’indagine individuale e quella organizzativa s’intersecano, la prima
alimenta e contribuisce a plasmare la seconda, che poi retroagisce per plasmare
l’ulteriore indagine realizzata dagli individui»96.
Quando Argyris e Schön parlano di apprendimento organizzativo, si riferiscono non solo
al processo, ma anche al prodotto che da tale processo scaturisce 97. Anche in questo caso
la conoscenza dell’organizzazione si collega a quella degli individui che la compongono,
pur rimanendone distinta. Vi possono essere, secondo i due studiosi, casi in cui le
organizzazioni sanno meno dei loro membri. È una condizione di fragilità organizzativa,
in cui la conoscenza è un patrimonio personale degli individui piuttosto che
dell’organizzazione. Vi sono però anche situazioni in cui è l’organizzazione che sa di più
dei suoi membri e tutta questa conoscenza, incorporata nelle regole, nelle procedure, nella
prassi amministrativa, può supplire in una certa misura alle carenze professionali degli
operatori. L’esempio portato, a tale riguardo, è quello delle organizzazioni militari o di
altre organizzazioni complesse, come le compagnie telefoniche, fortemente strutturate,
che in molti casi riescono a garantire buone prestazioni anche con personale non
particolarmente “brillante”.
L’organizzazione, infatti, ha una propria memoria, che si affianca quella dei suoi membri,
dove conserva il proprio patrimonio di conoscenze. E questa memoria è l’organizzazione
stessa, con i suoi regolamenti, con i suoi codici di comportamento non scritti, con i suoi
artefatti, ecc.
«In primo luogo le organizzazioni fungono in vari modi da ambienti che preservano
la conoscenza, compresa la conoscenza ottenuta con l’indagine organizzativa. Tale
conoscenza può essere conservata nelle menti dei singoli membri. […] Tuttavia la
conoscenza può essere conservata anche negli archivi di un’organizzazione, che ne
documentano azioni, decisioni, regolamenti e politiche, oltre che nelle mappe,
formali e informali, con cui le organizzazioni si rendono comprensibili a se stesse e
agli altri»98.
96
Argyris C. e Schön D.A., Apprendimento organizzativo. Teoria, metodo e pratiche, cit., p. 25.
Ivi, p. 19. Gli autori utilizzano infatti il termine inglese “learning”, il quale designa non solo il processo
dell’apprendere ma anche a quanto si è appreso.
98
Ivi, pp. 25-26.
97
47
Ma la conoscenza organizzativa viene custodita anche negli artefatti organizzativi, cioè
quegli oggetti fisici che hanno una funzione strumentale per lo svolgimento del lavoro,
ma che possono avere anche una funzione simbolica.
Oltre ad essere immagazzinate, tali conoscenze organizzative vengono rappresentate dalle
stesse organizzazioni, attraverso la creazione di routine organizzative, più o meno
formalizzate, più o meno esplicite, che rappresentano in qualche modo degli schemi
comportamentali predefiniti per situazioni ricorrenti. Cioè, la conoscenza organizzativa è
incorporata al sistema di routine e di prassi che rappresenta un set di risposte codificate a
domande ricorrenti, nonché un pacchetto di soluzioni standard a problemi ordinari. Si
tratta di schemi che i singoli membri dell’organizzazione mettono in atto, talvolta però
senza riuscire a spiegarne compiutamente il senso.
Alla base di queste routine esisterebbero delle vere e proprie “teorie dell’azione”, le quali
non solo definiscono le strategie d’azione (cosa fare in caso di…) ma sanciscono anche i
valori e gli assunti che danno fondamento a tali strategie. Le teorie dell’azione, infatti,
«hanno il pregio di includere le strategie d’azione, i valori che ne governano la
scelta e gli assunti su cui si fondano. Una teoria dell’azione si definisce in base a
una situazione particolare S, a una particolare conseguenza intesa in quella
situazione C, e a una strategia d’azione A finalizzata a ottenere la conseguenza C,
nella situazione S. La forma generale di una teoria dell’azione è: se hai l’intenzione
di produrre la conseguenza C nella situazione S, allora metti in atto A» 99.
In questo schema generale della teoria dell’azione proposto dai nostri autori, un ruolo di
estrema importanza viene giocato dai valori attribuiti alle finalità che si intendono
perseguire con l’azione, che sono in sostanza ciò che rende desiderabili le conseguenze
attese. Notevole importanza hanno anche in tale modello gli assunti sottostanti, cioè il
presupposto di causalità in base al quale riteniamo che l’azione A produrrà la
conseguenza C nella situazione S. Si tratta di presupposti e che hanno a che fare con la
nostra visione del mondo e con le nostre aspettative su come esso debba funzionare.
È, questo, il punto cruciale del discorso di Argyris e Schön: dietro ad ogni azione
organizzativa ci sta una “teoria dell’azione” 100. A confondere le cose, però, c’è il fatto che
la teoria dell’azione del singolo individuo è generalmente diversa rispetto a quella della
sua organizzazione. Non solo, ma per entrambe esistono due diverse versioni: la “teoria
dichiarata” (o professata) e la “teoria-in-uso”. Con l’espressione “teoria dichiarata” si
99
Ivi, p. 26
Ivi, p. 27.
100
48
riferiscono alla teoria dell’azione che l’organizzazione o il singolo esplicitano come
motivazione di un dato schema d’attività. Per “teoria-in-uso” invece intendono la teoria
dell’azione implicita che sta dietro all’attuazione dello schema stesso. È chiaro che il
conoscere la teoria-in-uso richiede un’osservazione degli schemi di comportamento in
atto e soprattutto un processo ermeneutico che “costruisce” ipotesi alternative da
verificare con i dati osservativi.
A differenza della “teoria dichiarata”, la “teoria-in-uso” è generalmente inespressa.
Questo perché comprende tutta una serie di conoscenze tacite e quindi, come abbiamo
visto nel paragrafo precedente, inesprimibili. Ma anche quando raggiunge un certo livello
di consapevolezza, la teoria-in-uso può rimanere inespressa per ragioni di opportunità, in
quanto confligge con la teoria dichiarata. Questo è ciò che rende alquanto difficile
l’apprendimento organizzativo che, secondo gli autori, consiste appunto nel cambiamento
delle teorie-in-uso dell’organizzazione attraverso una “indagine organizzativa”.
«L’apprendimento organizzativo si verifica quando gli individui all’interno di
un’organizzazione sperimentano una situazione problematica e, nell’interesse
dell’organizzazione, la indagano. Essi esperiscono la sorpresa della mancata
corrispondenza tra i risultati attesi e i risultati effettivi dell’azione, reagendo con
un processo di pensiero e di nuovi corsi d’azione che conducono a modificare le
immagini dell’organizzazione o il modo di intendere i fenomeni organizzativi, e a
ristrutturare le attività così da allineare risultati e aspettative, modificando, in
questo modo, la teoria-in-uso organizzativa»101.
Affinché l’esito dell’indagine organizzativa rappresenti davvero un apprendimento
organizzativo, esso deve modificare l’immagine che ciascun membro ha della propria
organizzazione. È necessario inoltre che vengano a modificarsi gli artefatti cognitivi (le
mappe, le memorie e i programmi) di quella organizzazione.
Se l’apprendimento consiste nella modificazione delle teorie-in-uso, non tutte le
modificazioni delle teorie-in-uso costituiscono apprendimento. Ci possono essere, infatti,
degli eventi “patologici” all’origine di tali modifiche: una crisi di mercato, un
deterioramento del clima interno, un calo motivazionale, ecc.
Esistono poi degli apprendimenti organizzativi che non sono “produttivi”, nel senso che
producono cambiamenti delle teorie-in-uso negativi piuttosto che positivi. Ciò può
imputarsi a degli errori che vengono commessi nell’attribuire un nesso di causalità tra
101
Ivi, p. 30, in corsivo nel testo.
49
un’azione e una conseguenza solo perché l’una segue temporalmente l’altra
(apprendimento superstizioso). Oppure per il fatto di perseverare nell’azione che in
passato si era rivelata efficace, anche quando sono mutate le condizioni esterne (trappola
della competenza)102.
Esistono infine delle modalità che l’organizzazione ha appreso nel corso del tempo e che
ostacolano l’apprendimento. Pensiamo ad esempio alla tendenza molto diffusa in alcune
organizzazioni (che gli autori correlano ad una specifica tipologia di organizzazione,
invero molto diffusa, da loro definita “Modello I”) in cui si tende ad occultare le
difficoltà e gli errori, a dissimulare le reali intenzioni, a mantenere interdetti e tabù, ad
addossare responsabilità al capro espiatorio di turno, ecc.
Come ci fanno presente Argyris e Schön103, il cambiamento della teoria-in-uso può essere
solo parziale, cioè interessare soltanto le strategie d’azione e gli assunti, senza modificare
i valori che ne stanno alla base. In questo caso si parla di apprendimento a circuito
singolo (single-loop), in quanto il sistema di apprendimento dell’organizzazione si
comporta come un circuito cibernetico semplice – pensiamo ad un termostato – che rileva
e corregge l’errore in ordine a norme operative prestabilite (e quindi, nel caso del
termostato, la differenza tra temperatura rilevata e quella impostata).
Le organizzazioni si comporterebbero, in buona sostanza, come dei termostati: nel
continuo interscambio con il proprio ambiente, esse mettono generalmente in atto
meccanismi di autoregolazione attraverso continue azioni di verifica e correzione
dell’errore. Spesso risulta sufficiente una correzione minima, limitata cioè alla modifica
delle strategie e gli assunti organizzativi, che lascia inalterati i valori e le norme di
riferimento. È questa la situazione dell’apprendimento single-loop. Si tratta di un
apprendimento di tipo strumentale, che punta ad incrementare l’efficacia del sistema.
Quest’ultimo infatti riesce a conseguire gli obiettivi prefissati, all’interno del quadro
definito delle norme e dei valori dell’organizzazione.
Ma l’organizzazione può attivare in parallelo un secondo circuito di retroazione, andando
a riflettere ed eventualmente a ristrutturare anche i valori e i criteri attraverso i quali viene
definita la prestazione efficace (e quindi l’errore). È il caso dell’apprendimento a doppio
circuito (double-loop). Questo però risulta piuttosto difficile da realizzarsi, per una serie
102
I concetti di “apprendimento superstizioso” e di “trappola della competenza” vengono mutuati da James
March (cfr. Levitt B. e March J.G., Organizational Learning, in “Annual Review of Sociology”, vol.
14/1988, pp. 319-340.
103
Argyris C., Schön D.A., Apprendimento organizzativo. Teoria, metodo e pratiche, cit., p. 36.
50
di motivi principalmente legati alle caratteristiche del sistema di apprendimento
dell’organizzazione.
Dobbiamo infatti intendere l’organizzazione come un sistema (fatto di canali
comunicativi, strutture informative, meccanismi di incentivazione, ecc.) che può risultare
più o meno facilitante rispetto al processo di indagine organizzativa. Di qui l’importanza
di un di apprendimento di “secondo livello” che gli autori chiamano, in ossequio al loro
maestro Gregory Bateson104, Deuteroapprendimento.
«Un tipo di apprendimento organizzativo double-loop di fondamentale importanza
è perciò l’apprendimento del secondo ordine, attraverso il quale i membri di
un’organizzazione possono scoprire e modificare il sistema di apprendimento che
condiziona gli schemi egemonici di indagine organizzativa»105.
2.5
Le competenze
Il discorso sulle competenze, a mio avviso ineludibile in questa fase di delineazione del
quadro teorico-concettuale di riferimento, risulta quanto mai difficoltoso, dal momento
che non esiste neppure una definizione condivisa del termine stesso106. Un aspetto che
però contraddistingue e accomuna le diverse posizioni al riguardo – e che avvicina questa
tematica a quanto si è andati sinora dicendo rispetto alle conoscenze – è il carattere
“situato” della competenza. Nel senso che la competenza è qualcosa di intimamente
legato all’agire, che viene riconosciuto a partire dall’azione concreta. Quello delle
competenze non può essere, cioè, un discorso in astratto, ma deve partire necessariamente
dall’analisi di performance d’eccellenza, di comportamenti efficaci, di prestazioni
superiori. Deve partire quindi dalla pratica107.
104
105
106
107
Cfr. Bateson G. (1972), Steps to an ecology of mind, trad. it. Verso un'ecologia della mente, Milano,
Adelphi, 1980, pp. 195 e segg.
Argyris C., Schön D.A., Apprendimento organizzativo. Teoria, metodo e pratiche, cit., p. 45, in corsivo
nel testo.
Il dissenso riguarda non solamente il significato di “competenza”, ma anche il termine in sé. Per alcuni
autori, infatti, sarebbe più corretto tradurre l’inglese competency con il termine “capacità”. Si veda al
riguardo Capperucci D., La valutazione delle competenze in età adulta. Il contributo dell’experiential
learning e dell’approccio riflessivo, Pisa, Edizioni ETS, 2007, p. 189. l’Autore fa riferimento agli studi
di Carretta A, Dalle risorse umane alle competenze, Milano, Franco Angeli, 1992 e Cocco G., Un
modello semplificato delle competenze, in “Sviluppo&Organizazione”, n. 164/1997.
E dalla pratica professionale nasce la stessa teoria delle competenze, dato che viene sviluppata a
supporto delle attività di consulenza organizzativa svolte, all’interno dell’agenzia McBer, da David
McClelland e successivamente da Lyle Spencer, Signe Spencer e Richard Boyatzis.
51
David McClelland, il padre riconosciuto del movimento delle competenze, ricorda come
il procedere a ritroso, partendo dalla pratica, avesse rappresentato per quel tempo (si era
agli inizi degli anni Settanta) una sorta di rivoluzione copernicana.
Prima dell’introduzione di questo approccio, infatti, gli psicologi del lavoro procedevano
effettuando prioritariamente un’analisi della mansione, per poi dettagliare i compiti da
questa richiesti. Proseguivano quindi con la costruzione e la validazione di test che
misuravano le skill necessarie per svolgere questi compiti e cercavano, infine, di
associare i punteggi dei diversi fattori al successo della mansione.
Tale procedimento, basato su analisi separate della mansione e della persona, si
dimostrava efficace nel valutare il rendimento scolastico, mentre si rivelava del tutto
inadeguato quando si trattava di valutare, in ambito lavorativo, l’attitudine a gestire le
mansioni più qualificate.
«Il movimento delle competenze ha fatto compiere un bel passo avanti agli
psicologi impegnati nel loro tradizionale compito di mettere la persona giusta nella
posizione giusta. […] Nel metodo delle competenze, l’analisi comincia con la
persona già nella mansione e non presume quali caratteristiche siano necessarie per
svolgere bene un certo lavoro; poi determina, attraverso le interviste sui
comportamenti esplicitati in situazioni non strutturate, quali caratteristiche
personali sono associabili al successo nella mansione»108.
Anziché, quindi, partire da speculazioni teoriche, l’approccio introdotto da McClelland
prende in considerazione le caratteristiche e i comportamenti di chi, già inserito in quel
lavoro, lavora in modo eccellente.
A muovere le ricerche di McClelland era l’insoddisfazione per le modalità al tempo
utilizzate per la selezione del personale, le quali non solo erano del tutto destituite di ogni
efficacia predittiva, ma anche risultavano spesso viziate da etnocentrismo e quindi
discriminavano le persone appartenenti a minoranze culturali.
Egli studiò in particolare, su incarico del Dipartimento di Stato americano, il sistema di
reclutamento degli addetti culturali delle ambasciate USA, che allora si basava su test di
cultura generale. Il punteggio ottenuto in questi test – a cui difficilmente si qualificavano
i membri di minoranze etniche – non era però in alcun modo correlabile al futuro
successo nella mansione. Per questo decise di mettere a punto un diverso set di parametri
108
McClelland D., Il concetto di competenza: introduzione, in Spencer L.M., Spencer S.M. (1993),
Competence at work. Models for superior performance, trad. it. Competenza nel lavoro. Modelli per
una performance superiore, Milano, Franco Angeli, 2003, p. 29.
52
di valutazione, analizzando l’esperienza di quelli che erano – a giudizio dello stesso
Dipartimento di Stato – i migliori performer. Tale esperienza veniva successivamente
raffrontata con quella degli addetti culturali giudicati meno bravi.
«Originariamente avevamo pensato di osservare direttamente sul lavoro i funzionari
dei due differenti campioni, per scoprire che cosa facessero i migliori di più e/o di
diverso dai mediocri. Questa soluzione si rivelò troppo costosa e poco pratica. Così
pensammo di chiedere a quei funzionari di raccontare dettagliatamente che cosa
avevano fatto nelle situazioni più critiche incontrate nella loro mansione» 109.
Ne risultò un set di caratteristiche che distinguevano i migliori dai mediocri e che non
aveva nulla a che vedere con nozioni di cultura generale, né con il quoziente
d’intelligenza. Si trattava di qualità come la sensibilità interpersonale, l’interesse per le
altre culture, l’atteggiamento positivo nei confronti degli altri, ecc.
Una volta definite tali caratteristiche, fu facile mettere a punto delle prove selettive che
mirassero ad accertarle in modo obiettivo e libero da pregiudizi culturali.
«La selezione basata sulle competenze predice la performance superiore nella
mansione e la sua continuità – entrambe di significativo valore economico per le
organizzazioni – senza pregiudizi di razza, sesso o di altro genere» 110.
Quello delle competenze rappresenta, per McClelland, un approccio che può essere
sviluppato non solo per la selezione, ma anche per la formazione del personale e la sua
valutazione ai fini della progressione in carriera.
In questa direzione si sono adoperati Lyle e Signe Spencer, considerati i prosecutori
dell’opera di McClelland. A loro si deve una delle definizioni più accreditate del termine
competenza.
«Per competenza intendiamo una caratteristica intrinseca individuale che è
causalmente collegata ad una performance efficace o superiore in una mansione o
in una situazione, e che è misurata sulla base di un criterio prestabilito» 111.
Le competenze, anche per questi due autori, non sono qualità astratte, ma sono ciò che
concretamente determina, in una situazione reale, il riuscire o meno a raggiungere un
certo risultato e a raggiungerlo in termini più o meno soddisfacenti. Si tratta di
“caratteristiche intrinseche” – nel senso che sono integrate piuttosto stabilmente nella
109
Ivi, p. 25.
Ivi, p. 25.
111
Spencer L.M., Spencer S.M., Competenza nel lavoro, cit., p. 30.
110
53
personalità dell’individuo – in base alle quali è possibile “predire” il comportamento del
soggetto nelle diverse situazioni di vita e/o di lavoro, in cui questi si venisse a trovare.
Ciò in quanto esiste un nesso di causalità tra queste caratteristiche e il comportamento del
soggetto.
Tali caratteristiche vengono classificate in cinque tipologie:
1. le motivazioni, ossia le spinte interiori che inducono il soggetto ad agire;
2. i tratti, che possono essere fisici – come l’acutezza visiva – ma anche disposizioni
comportamentali, come l’autocontrollo o lo spirito d’iniziativa;
3. l’immagine di sé, gli atteggiamenti e i valori personali;
4. le conoscenze disciplinari, che per essere predittive rispetto alle prestazioni non
devono essere intese come nozioni immagazzinate, ma come cognizioni
concretamente attivabili e “spendibili” nella pratica.
5. le skill, cioè le abilità nell’esecuzione di un determinato compito intellettivo o
fisico.
Spencer e Spencer rappresentano questo insieme di competenze utilizzando l’immagine
di un iceberg: nella parte emersa vi sono le conoscenze e le abilità, facilmente verificabili
e che si prestano più agevolmente ad essere riprodotte e modificate. Le motivazioni, i
tratti e l’immagine di sé costituiscono invece la parte sommersa dell’iceberg, rispetto a
cui rimangono più ardui l’analisi e lo sviluppo. A differenza però di conoscenze e abilità,
queste ultime fornirebbero indicazioni predittive non solo in merito a quello che
l’individuo è in grado di fare, ma anche rispetto a quello che, con ogni probabilità, farà
concretamente.
Le cinque tipologie comprendono quelle che gli autori chiamano “competenze di soglia”,
le quali sono solitamente le conoscenze e le abilità elementari – indispensabili per essere
anche minimamente efficaci – nonché le “competenze distintive”, che fanno la differenza
nella qualità delle performance.
L’insieme delle competenze di soglia e delle competenze distintive necessarie o
auspicabili per una determinata mansione viene definito “profilo delle competenze” e
viene utilizzato per creare degli strumenti di misurazione, finalizzati alla valutazione del
personale di tutti i livelli, anche quello direttivo, sia in sede di primo reclutamento che per
gli avanzamenti di carriera e per l’assegnazione dei compensi incentivanti.
Riprendendo la metodologia di lavoro utilizzata per primo da Boyatzis, Spencer e
Spencer costruirono, un “Dizionario delle competenze”, cioè un repertorio delle 21
competenze più ricorrenti, suddivise in sei categorie:
54
1. Competenze di realizzazione e operative (orientamento al risultato, accuratezza,
spirito d’iniziativa, ricerca delle informazioni);
2. Competenze di assistenza e servizio (sensibilità interpersonale, orientamento al
cliente);
3. Competenze d’influenza (pesuasività, consapevolezza organizzativa, costruzione
di relazioni);
4. Competenze manageriali (sviluppo degli altri, assertività, cooperazione,
leadership di gruppo);
5. Competenze cognitive (pensiero analitico, pensiero concettuale, capacità
tecniche/professionali/manageriali);
6. Competenze di efficacia personale (autocontrollo, fiducia in se stessi, flessibilità,
impegno verso l’organizzazione, altre caratteristiche e competenze personali).
Il Dizionario fornisce, per ciascuna competenza, una o più scale di indicatori
comportamentali dai quali si inferisce il livello di competenza posseduto dai soggetti112.
Il movimento delle competenze ha conosciuto negli ultimi decenni un notevole successo,
principalmente dovuto al profondo cambiamento che hanno subito il sistema aziendale e
le organizzazioni in genere. L’esigenza di avere organizzazioni sempre meno
gerarchiche, sempre più flessibili, infatti, ha spostato il fuoco d’attenzione dalle mansioni
definite ed incardinate nella struttura al contributo personale ed autonomo che sono in
grado di apportare i collaboratori.
«Recentemente si è delineata, nella gestione delle risorse umane, la tendenza a
focalizzare l’attenzione alla persona piuttosto che al job, alle capacità di sviluppo
potenziali, anziché alle sole prestazioni. L’elemento fondamentale per una azienda
è assicurarsi di avere al proprio interno persone che sappiano fare determinate cose,
non già di descrivere che cosa le persone debbano fare in una data posizione» 113.
Questo cambiamento di prospettiva si combina con la trasformazione dei sistemi
organizzativi, sempre più contraddistinti da una crescente variabilità dei compiti, nonché
dall’indefinitezza dei ruoli e delle posizioni. A fronte di organizzazioni sempre meno
“organizzate”, a job sempre meno definiti, viene richiesta una sempre maggiore
112
113
Gli indicatori sono complessivamente 286. Essi vengono articolati, per ciascuna competenza in 2-3
scale, ordinate in funzione dell’intensità o la complessità del comportamento, ma anche in alcuni casi
in base alle dimensioni dello sforzo prodotto e degli effetti raggiunti.
Civelli F., Manara D., Lavorare con le competenze, Milano, Guerini, 1997, pp. 28-29. A questa
posizione si rifà anche Fertonani M., Le competenze manageriali. Dalla valutazione delle prestazioni e
del potenziale alla valutazione delle competenze manageriali, Milano, Franco Angeli, 2000, p. 135.
55
competenza da parte dei lavoratori. L’attenzione nelle nuove organizzazioni, quindi, si
sposta dal profilo professionale alla persona che ricopre quel determinato ruolo, a ciò che
sa e a ciò che può ecletticamente fare. Si accorciano infatti le distanze tra le competenze
professionali e quelle personali, destinate via via ad intrecciarsi e a confondersi
maggiormente.
Le esigenze del mercato impongono che le organizzazioni si basino sempre meno sulle
mansioni e sempre più sulle persone, sulla loro multiforme capacità di adattamento ai
cambiamenti e sulla loro capacità di autosviluppo personale.
L’approccio
per
competenze
può
infatti
essere
un
dispositivo
a
servizio
dell’organizzazione. In questo caso funziona in una logica “top-down”, che parte
dall’organizzazione, dall’analisi dei suoi bisogni di competenza per poi selezionare e
costruire tali competenze nei collaboratori.
Ma può essere anche uno strumento a servizio della persona e quindi, in una dinamica
“bottom-up”, partire dal soggetto e dalle sue competenze per progettare percorsi possibili
di formazione e di valorizzazione. Ed effettivamente la questione della competenza
costituisce uno dei temi principali sui quali si sta incentrando, al momento attuale, il
dibattito pedagogico.
Non mi addentrerò in questi aspetti114. Ritengo invece utile soffermarmi sul concetto di
competenza, come sopra indicato, e sul rapporto tra competenze e conoscenze.
Nel modello delle competenze rappresentato da Spencer e Spencer, le conoscenze
occupano un posto tutto sommato marginale: la punta dell’iceberg. E come punta
dell’iceberg, esse sono “visibili” agevolmente e si possono raggiungere con facilità. Si
tratta, come è facile intuire, di un’accezione ristretta del termine “conoscenza”.
Accezione assolutamente limitativa rispetto alla portata che lo stesso termine ha in Schön
e in Wenger, per i quali – come si è visto – la conoscenza non sta soltanto in superficie,
ma sta anche nel sommerso delle conoscenze tacite. La conoscenza è dal loro punto di
vista il “know-that”, ma anche il “Know-how” e quindi è intimamente collegata alle skill.
Conoscenze per Schön e Wenger sono anche i valori e ciò che nel tempo si viene a
stratificare come l’immagine di sé.
Chiaramente il concetto di competenza soprarichiamato non può essere assorbito nella
sola componente cognitiva: esso comprende anche caratteristiche – parimenti legate alle
prestazioni da nessi di causalità – che attengono a dimensioni psicodinamiche della
114
Per un approfondimento sul punto si veda Capperucci D., La valutazione delle competenze in età
adulta. Il contributo dell’experiential learning e dell’approccio riflessivo, cit., pp. 193 e segg.
56
personalità o a tratti costitutivi del singolo individuo. Nondimeno, credo che anche qui la
conoscenza giochi un suo ruolo nel delineare tali caratteristiche. Del resto, anche le
motivazioni più profonde hanno una loro base cognitiva: come potremmo infatti
desiderare ciò che non conosciamo? E persino molti dei tratti individuati da Spencer e
Spencer hanno a che fare con la conoscenza, dato che operano generalmente sulla base di
schemi cognitivi appresi115.
La conoscenza non rappresenta, quindi, solo una parte – e una parte tutto sommato
minore – della competenza, essa ne costituisce – come sostiene Davide Capperucci – un
aspetto fondamentale:
«la nozione di competenza, pertanto, non può sussistere autonomamente senza
collegarsi a quella di conoscenza. Non vi sono competenze senza conoscenze» 116.
Da tutto ciò si può dedurre che anche le competenze, come le conoscenze, non siano
qualcosa di preesistente all’azione ma che si debbano – almeno in gran parte – costruire
facendo, attraverso l’indagine riflessiva e la negoziazione di significato che avviene
all’interno e tra le comunità di pratica.
Parleremo più avanti di un particolare tipo di competenza, la competenza etica. Credo
però opportuno evidenziare come nel concetto stesso di competenza vi sia una
dimensione etica.
Enrico Berti ci ricorda, infatti, come la ricerca dell’eccellenza – costitutiva del concetto
stesso di competenza – corrisponda all’ideale aristotelico di uomo virtuoso117. La virtù
corrisponde alla realizzazione piena delle proprie potenzialità. Il citaredo è virtuoso
quando raggiunge l’eccellenza nel suonare la propria cetra. Nella virtù, cioè nel
perfezionamento delle proprie competenze, l’uomo persegue il fine etico della propria
felicità, che consiste appunto nel realizzare compiutamente se stesso, le proprie
potenzialità, il proprio ideale professionale, la propria umanità.
115
116
117
Si pensi, ad esempio, a tratti come l’autocontrollo o lo spirito d’iniziativa e all’influenza che su questi
hanno conoscenze personali, esperienze pregresse, valori interiorizzati, ecc.
Capperucci D., La valutazione delle competenze in età adulta. Il contributo dell’experiential learning
e dell’approccio riflessivo, cit., pp. 201.
Berti E. , Alle radici del concetto di capacità: la Dunamis di Aristotele, in Xodo C., Benetton M. (a
cura di), Che cos’è la competenza? Costrutti epistemologici, pedagogici e deontologici, Lecce, Pensa
Multimedia, 2010, pp. 31-44.
57
3
La dimensione etica
Itaca devi avere sempre in
mente.
Giungervi è la tua meta.
Ma non affrettare mai il
viaggio.
Meglio se dura tanti anni
e vecchio ormai ormeggi
nell’isola,
ricco di quanto hai guadagnato
strada
facendo,
senza aspettarti che Itaca ti dia
ricchezze.
Itaca ti ha dato il bel viaggio.
Senza di lei non saresti partito.
Nient’altro ha da offrirti.
Costantino Kavafis
3.1
Etica e filosofia morale
Delineare il campo d’indagine dell’etica risulta impresa tutt’altro che agevole, dal
momento che esso comprende innanzitutto quello sterminato dominio di conoscenze
generato dal pensiero filosofico in oltre duemila anni di storia118. La filosofia morale
rappresenta un sapere complesso e problematico, assolutamente impossibile da
compendiare all’interno di un capitolo. Oltretutto, occuparsi di etica significa travalicare i
confini della filosofia morale, poiché il concetto di etica ingloba e nello stesso tempo
supera la riflessione filosofica, andando ad interessare anche altri campi del sapere, come
la psicologia, la sociologia e, non ultima, la pedagogia, ma soprattutto perché designa –
come bene fa osservare Aldo Masullo – la stessa esperienza vitale della praxis.
«L’etica […] è la forma stessa, necessaria, della vita umana. Si può vivere da
uomini, senza che si debba essere artisti o scienziati o mercanti o guerrieri o politici
o religiosi, ma non lo si può senza essere “morali”, senza cioè trovarsi sempre ad
agire al cospetto di norme e obblighi e incontrandosi o scontrandosi con altri.
118
Conformemente alla maggior parte della letteratura, utilizzo i termini “etica” e “morale” come sinonimi.
Anche l’etimologia delle due parole – la prima dal greco ethos e la seconda dal latino mos, moris –
sembrerebbe suggerire tale assunto, riferendosi in entrambi i casi al concetto di comportamento,
costume, modo di agire degli uomini. Segnalo comunque che per alcuni autori non c’è perfetta identità
semantica fra i due vocaboli: la morale si situerebbe più al livello soggettivo delle scelte e delle azioni
individuali, mentre l’etica designerebbe il punto di vista sovra-individuale, oggettivo.
58
L’etica è la vita stessa nella sua immediata umanità. Come tale essa è il fatto della
“prassi” (in greco vuol dire “azione” e anche il risultato dell’azione, il “fatto”), cioè
l’intervento volontario a modifica della realtà data»119.
Secondo quanto sostiene Aristotele nell’Etica Nicomachea, la morale ha a che fare con la
saggezza, ossia con quella “disposizione vera, accompagnata da ragionamento, che
dirige l’agire, concernente cose che per l’uomo sono buone e cattive” 120. Essa, quindi, è
l’oggetto delle speculazioni del filosofo ma anche delle deliberazioni quotidiane di ogni
altro uomo, anche dell’uomo comune; essa è patrimonio – per usare l’esemplificazione
aristotelica – tanto di Socrate, quanto di Pericle.
Non esiste necessariamente continuità né sempre c’è coerenza tra l’etica delle
speculazioni filosofiche e quella agita concretamente nella vita di tutti i giorni. Stanno,
per così dire, su due piani distinti e spesso separati. Di questa separazione si trova un
esempio storico, tratto dalla biografia di Marco Aurelio. L’imperatore romano si
comportò sempre da governante giusto e sollecito, nonostante aderisse al più ortodosso
stoicismo, una dottrina che aveva in spregio le cose del mondo e considerava l’ingiustizia
e i soprusi del potere un’opportunità per accrescere la virtù morale nei sudditi121.
Innumerevoli sono i casi che si potrebbero riportare di tal genere di incoerenza. Il piano
del pensiero morale e quello dell’azione molto spesso non sono congruenti. La ricerca
empirica che intendo condurre riguarderà in particolare la morale agita e quindi si porrà
in prima istanza un obiettivo di tipo descrittivo. Mi propongo però anche di andare al di là
della mera descrizione, cercando di indagare le riflessioni che i soggetti della ricerca
elaborano all’interno della propria azione sul piano dei valori, dei principi, degli ideali;
sul piano del dover essere: quella dimensione interpretativa e prescrittiva che è il portato
fondamentale della filosofia morale. Per tale ragione credo indispensabile confrontarmi
con tale sapere, senza pretese di esaustività, ma con il proposito di individuare, all’interno
della storia del pensiero morale, uno “strumentario concettuale” che possa tornare utile
per la mia analisi.
Nei primi due paragrafi, quindi, tenterò di tracciare non già una mappa dettagliata, ma
quantomeno delle coordinate, per orientarmi in tale territorio sconfinato, introducendo e
problematizzando anche alcune tematiche particolarmente vive del dibattito filosofico
attuale e tratteggiando un quadro generale delle teorie morali in filosofia.
119
Masullo A., Filosofia morale, Roma, Editori Riuniti, 2005, pp. 11-12.
Aristotele, Etica Nicomachea, Milano, Rizzoli, 1993, VI, 5, vol. 2, p. 597.
121
Cfr. Russell B. Un’etica per la politica, in Magno M., Etica Politica Economia nel Novecento, Roma,
Ediesse, 2006.
120
59
Nel terzo paragrafo, invece, mi addentrerò nel sentiero (per continuare la metafora
topografica) battuto da John Dewey. Si tratta del pensiero pragmatista122, recentemente
ripreso da filosofi come Richard Rorty e Hilary Putnam, che ritengo interessante
approfondire, in quanto corrispondente alle “scelte di campo” paradigmatiche ed
epistemologiche argomentate nel primo capitolo, nonché in linea rispetto ai modelli di
apprendimento descritti nel secondo capitolo.
Passerò poi a gettare lo sguardo oltre il campo della filosofia morale, nel terreno della
psicologia morale e delle neuroscienze.
L’ultimo paragrafo verrà dedicato al tema dell’etica delle professioni e allo sviluppo del
concetto di competenza etica.
Inizio allora da una definizione del concetto di etica, tra le molte disponibili, che ho
mutuata da Carla Xodo e che sintetizza ed integra il pensiero di tre grandi filosofi morali:
Kant, Moore e Frankena.
«La morale è conoscenza (Frankena) che attiene al retto uso della nostra libertà
(Kant), tale non solo quando è guidato dalla ragione (Kant), ma anche è direzionato
al bene (Moore)»123.
Dire che l’etica è conoscenza non significa chiaramente ritenere – come sosteneva
Socrate – che basta “conoscere” ciò che è morale per volerlo 124. Non basta poi volerlo per
agire in modo retto: si può conoscere e volere il bene e nondimeno fare il male. È un
tema, questo, che è stato affrontato in modo magistrale da Sant’Agostino nelle sue
Confessioni125.
La conoscenza morale, come ogni conoscenza, apre semplicemente possibilità ed essa
pertanto si deve combinare con la nostra libera volontà, che però è spesso divisa in se
stessa (voglio-e-non-voglio).
122
Il “pragmatismo” (dal greco “pragma”, che significa azione) vede nell’uomo un essere agente impegnato
a migliorare l’ambiente all’interno del quale egli agisce. In tal senso tutto ciò che trova in questo suo agire
non ha “valore di verità”, ma “valore di utilità”, in funzione dell’azione stessa. Cfr. Brezinka W. (1992),
Morale ed educazione, cit., p. 48.
123
Xodo C. (a cura di), Educazione morale, Brescia, La Scuola, 2001, p. 42.
124
Tale posizione socratica, come riportata da Platone nei dialoghi giovanili (in Alcibiade primo e
soprattutto nel Menone) viene definita “intellettualismo etico”.
125
Agostino, Confessioni 8.10. Si vedano, a tal proposito, le bellissime pagine di commento di Arendt H.,
(2003), Some questions of moral philosophy, trad. it. Alcune questioni di filosofia morale, Torino,
Einaudi, 2006, pp. 82-86.
60
Certamente la conoscenza non esaurisce tutta quanta la dimensione etica, la quale è fatta
anche di componenti psico-affettive, legate alla personalità del soggetto e alle sue
motivazioni interne. L’etica è quindi conoscenza, ma non è solo conoscenza126.
Definire l’etica come (anche) conoscenza dischiude una serie di altre questioni.
Innanzitutto l’utilizzo del termine “conoscenza”, anziché quello di “sapere”, sembrerebbe
suggerire una prospettiva che coglie l’etica nel suo stare all’interno della persona 127. Fuori
dall’individuo esistono i saperi morali, le teorie, le usanze, i codici deontologici, i codici
etici, ma l’etica è qualcosa di diverso, è conoscenza personale, è esperienza di pensiero
personale.
Che l’etica non stia nell’ossequio di saperi e norme esterne, ma risieda altrove, è
dimostrato secondo Russell dalla capacità che le persone hanno di sottoporre a giudizio
critico gli stessi codici morali a cui esse aderiscono.
«Noi tutti, in pratica, sosteniamo che un codice morale può essere preferibile
ad un altro. […]. Una volta ammesso questo, ne deriva che nell’etica c’è
qualcosa di superiore ai codici morali e che essi vanno giudicati per mezzo
di questo qualche cosa. L’etica, pertanto, non può essere racchiusa
nell’unico precetto: «fa ciò che la tua comunità approva ed evita ciò che
disapprova»128.
L’etica non sta, quindi, nel codice morale, ma all’interno di quella coscienza129 che sa
anche prendere le distanze da quello stesso codice morale, che ne sa trascendere la datità
storica.
Xodo distingue la vera tensione etica, intimamente radicata nell’essere umano, dal
“moralismo di facciata”, che è in fondo il risultato di un’educazione morale inautentica.
«Non c’è vera scienza, soprattutto in ambito morale, se non ci si sforza di andare
oltre la convenzionalità ed inevitabile storicità delle regole, per attingere a quella
126
127
128
129
A questo riguardo Michele Pellerey evidenzia come vi sia una crescente attenzione a queste componenti
del sé morale che trascendono la conoscenza o la capacità di compiere giudizi morali e deliberare, e che
interessano invece gli aspetti volitivi. Cfr. Pellerey M., Processi formativi e dimensione spirituale e
morale della persona. Dare senso e prospettiva al proprio impegno nell’apprendere lungo tutto l’arco
della vita, Roma, Cnos-Fap, 2007, p. 75.
In merito alla distinzione tra sapere e conoscenza, si veda in particolare Lichtner M., Esperienze vissute
e costruzione del sapere, Milano, Franco Angeli, 2008, pp. 16-20.
Russell B. Un’etica per la politica, in Magno M., Etica Politica Economia nel Novecento, cit., p. 252.
Il termine coscienza derivato dal latino cum scire, “conoscere con” rimanda a qualcosa che non si
confonde con la conoscenza, ma le sta accanto, l’accompagna.
61
più profonda verità che sta all’interno di noi e che, paradossalmente, proprio nella
sua singolarità certifica l’universalità dei nostri principi morali» 130.
La morale, in quanto conoscenza, è qualcosa che si apprende. Ma non per semplice
trasmissione. Straordinariamente nitido rispetto alla logica argomentativa e carico di
implicazioni pedagogiche risulta essere, su questo punto, il Menone131. Nel dialogo
platonico, Socrate arriva a convenire con il proprio interlocutore che l’etica si acquisisce
dall’esterno ma è anche una componente innata della nostra natura. Entrambe le ipotesi di
partenza sono vere: un’aporia, quindi, che non chiede di optare per una verità a scapito
dell’altra, ma che apre ad una mai paga ricerca del bene. Qui ritroviamo la polemica di
Platone contro i Sofisti, i “professionisti del sapere”, i quali concepiscono l’educazione –
in questo come negli altri campi – in termini di trasmissione di tecniche e di nozioni.
L’educazione morale secondo la lezione socratico-platonica è cosa ben diversa, è un
processo di scoperta che parte dal “Conosci te stesso”.
Il discorso sull’etica come conoscenza trascina con sé, inevitabilmente, anche la
questione dell’oggettività di tale conoscenza. Si tratta di una delle problematiche più
dibattute in metaetica132, rispetto alla quale una posizione di predominio è stata
tradizionalmente occupata dal realismo metafisico. Chi si riconosce in questa prospettiva,
concepisce i valori e i principi morali come qualcosa che esiste prima ed
indipendentemente dai soggetti che li pensano. I giudizi morali possono pertanto essere
sottoposti ad una valutazione di vero-falsità ed un’etica universale può trovare il suo
fondamento nell’adesione all’unica verità. La rinuncia a tale realismo non implica però
necessariamente, secondo John Rawls133, la resa al nichilismo o al relativismo etico.
Riprendendo, in chiave costruttivista, il pensiero di Kant, Rawls ritiene che l’oggettività
dell’etica risieda nella possibilità di un accordo sulla base di procedure di ragionamento
affidabili. Ricorre qui il concetto di ragione, citato nella definizione di etica sopra
riportata, che viene posto da Kant a fondamento del pensiero etico134.
130
Xodo C., L'occhio del cuore. Pedagogia della competenza etica, Brescia, La Scuola, 2001, p. 28.
Platone, Menone, Torino, Einaudi, 2009.
132
Per metaetica si intende la riflessione sul linguaggio, sul metodo e sui fondamenti della morale. Mentre
l’etica normativa definisce ciò che è bene e ciò che è male, la metaetica disquisisce sul significato della
parola “bene” e “male”. Si veda il paragrafo 3.2.
133
Cfr. Rawls J., Palminiello P., Herman B. (2000), Lectures on the history of moral philosophy, trad. it.
Lezioni di storia della filosofia morale, Milano, Feltrinelli, 2004.
134
Secondo il filosofo tedesco, la ragione pratica dispone di procedure attendibili attraverso cui può
accertare la moralità delle singole azioni e quindi giustificare la conoscenza morale. Cfr. Kant I. (1785),
Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, trad. it. Fondazione della metafisica dei costumi, Bari, Laterza,
1997, p. 49.
131
62
L’oggettività della morale non ha quindi basi ontologiche ma logiche. La conoscenza
morale, al pari di qualsiasi altra conoscenza, non è per Rawls una rappresentazione
isomorfa del reale, bensì qualcosa che viene costruito all’interno di ciascun soggetto. Al
pari delle altre conoscenze essa tuttavia può essere sottoposta a verifica, può essere
validata attraverso l’uso della ragione.
«Affermare l’oggettività della conoscenza scientifica equivale a dire che le
proposizioni espresse nel suo ambito possono essere provate come vere da un
metodo ragionevole e affidabile, cioè dalle regole e procedure di quella che
potremmo chiamare “logica induttiva”. E analogamente, per stabilire l’oggettività
delle regole morali e delle decisioni basate su di esse, dobbiamo esibire una
procedura decisionale che possa considerarsi, almeno in alcuni casi, ragionevole e
affidabile, per decidere tra regole morali e linee di condotta che da queste
dipendono»135.
L’oggettività della conoscenza morale può quindi conciliarsi con posizioni diverse
rispetto al realismo metafisico, così come all’interno di una prospettiva costruttivista può
trovare giustificazione il principio dell’universalità dei valori.
Quello dell’universalità dei valori è, a mio avviso, uno dei punti di maggiore attualità nel
dibattito etico. Tradizionalmente il pensiero filosofico attribuiva alla norma morale una
valenza astorica ed una cogenza erga omnes, mentre sempre più frequentemente la
filosofia contemporanea contesta tale assunto. L’obiezione fa leva sulla necessità di
rispetto delle differenze culturali, che dovrebbero esser poste tutte sullo stesso piano.
Queste differenze non sono state certamente mitigate dal processo di globalizzazione
della società contemporanea, che semmai sembrerebbe aver innescato meccanismi di
radicalizzazione e di scontro. Di fronte a tali diversità culturali, però, la risposta fornita
dal relativismo etico, secondo Enricomaria Corbi136, può al più alimentare l’indifferenza
verso chi è diverso, ma certamente non fa crescere lo spirito di comprensione e di
tolleranza. Per Corbi, è possibile invece pensare e perseguire un’etica universale,
superando le differenze contingenti.
«I valori, tuttavia, per quanto legati attualmente alla concretezza delle situazioni
storico-culturali, rivelano una loro vocazione universalistica. Sembrano insofferenti
135
136
Rawls J., Uno schema di procedura decisionale per l’etica, cit., p. 2.
Corbi E., La verità negata. Riflessioni pedagogiche sul relativismo etico, Milano, Franco Angeli, 2005,
p. 18.
63
dei limiti imposti da una rigida interpretazione contestualista e tendono a
manifestare processi di disseminazione su scala globale»137.
Molto spesso, se si va a ben vedere, le differenze che si ritrovano nei diversi contesti
culturali stanno semplicemente nelle modalità attraverso le quali quello stesso valore
viene espresso e vissuto. Pensiamo, ad esempio, al valore della democrazia, che secondo
Amartya Sen non è patrimonio solo dell’Occidente, dato che può essere rintracciato, in
forme diverse, anche in altre culture e civiltà 138. Esso rappresenta un valore universale
non in quanto dato di partenza ma proprio perché è un punto a cui l’umanità deve tendere.
Riprendo qui brevemente i concetti di libertà e di bene contenuti nella definizione di etica
sopra riportata. Bene e libertà rappresentano, secondo Santino Cavaciuti 139, dimensioni
fondamentali della filosofia morale, strettamente legate fra di loro, che attengono
all’essere.
«Il bene e, con il bene, la felicità, è principio e fine del tutto, in quanto si identifica
con la libertà, intesa come creatività, cioè creatività in atto, oltre la sua originaria
“possibilità” o “potenzialità”»140.
Certamente non si dà questione morale senza la libertà. Il problema etico si pone quando
l’agente morale è libero di scegliere e quindi ha la necessità di soppesare le proprie
opzioni, scegliendo responsabilmente. La libertà è quindi la conditio sine qua non
dell’agire etico. Nella riflessione filosofica così come nel senso comune c’è pressoché
unanime convergenza nel ritenere che la responsabilità morale si commisuri al requisito
della libera determinazione.
Analoga convergenza si ritrova sull’importanza del concetto di bene rispetto a qualsiasi
riflessione etica. Esso è però un concetto estremamente problematico, come ci dice
Antonio Da Re, perché si presta ad una certa ambiguità semantica. Il termine “bene”
infatti ha assunto frequentemente nel pensiero filosofico antico e medievale valenze
ontologiche, di bene assoluto, di sommo bene, mentre nel pensiero moderno è venuto ad
assumere prevalentemente l’accezione di bene particolare. Avere una visione
particolaristica del bene, cioè porsi la domanda “Bene, per chi?”, non significa comunque
cadere di necessità nel relativismo etico:
137
Ivi, p. 12.
Sen A., La democrazia degli altri. Perché la libertà non è un’invenzione dell’Occidente, Milano,
Arnoldo Mondatori, 2004
139
Cfr. Cavaciuti S. (2005), Il bene e la libertà, in Botturi F. (a cura di), Le ragioni dell'etica, Milano, Vita
e Pensiero, 2005, pp. 3-28.
140
Ivi, p. 27.
138
64
«sul piano filosofico sostenere la tesi della particolarità del bene non significa
necessariamente abbracciare una concezione relativistica, in base alla quale il bene
sarebbe qualcosa di esclusivamente relativo al soggetto al quale si riferisce, e
quindi come tale non confrontabile con il bene che si riferisce a un altro
soggetto»141.
La problematicità del termine bene risiede anche nel fatto che esso ha assunto di volta in
volta, nella storia del pensiero morale, forme e specificazioni diverse: la virtù, la felicità,
la “vita buona”, l’utilità, la giustizia...
Non ho modo, è chiaro, di analizzare tutte queste declinazioni del concetto di bene. Mi
soffermerò brevemente sul rapporto tra bene e giustizia, che è un tema centrale rispetto
alle riflessioni del già citato Rawls142. Egli ritiene, infatti, che la struttura delle teorie
etiche si possano comprendere in base al modo in cui si definiscono e si mettono in
relazione tali elementi. Le teorie di tipo teleologico, infatti, contrariamente a quanto
fanno le teorie deontologiche, definiscono il bene indipendentemente dal giusto. Per i
filosofi che si riconoscono in un’impostazione di tipo teleologico (Aristotele, in primis),
esiste il bene e sulla base di questo bene viene definito il giusto, inteso come ciò che
massimizza il bene. Nell’approccio deontologico (Kant, per intenderci), si parte da ciò
che è moralmente giusto (il dovere, l’imperativo categorico) per giungere al bene.
Riprenderò questo concetto nel paragrafo seguente, in cui mi addentrerò nella
presentazione delle teorie morali.
Credo utile ora fare un seppur breve accenno alle concezioni filosofiche di Hannah
Arendt, per la quale la morale è pensiero. La postura etica richiede, infatti, di pensare
innanzitutto se stessi, la propria storia, ciò che si è e ciò che si fa. Il pensiero e la
memoria dei nostri pensieri e delle nostre azioni sono delle funzioni fondamentali per
l’agire etico: senza essi, infatti, non potremmo avere coscienza del male e del bene.
«I peggiori malfattori sono coloro che non ricordano, semplicemente perché non
hanno mai pensato e – senza ricordi – niente e nessuno può trattenerli dal fare ciò
che fanno. […] Il peggior male non è dunque il male radicale, ma è un male senza
radici. E proprio perché non ha radici, questo male non conosce limiti. Proprio per
141
142
Da Re A., Filosofia morale, Milano, Bruno Mondadori, 2003, p. 59.
Rawls J. (1971), A theory of Justice, trad. it. Una teoria della giustizia, Milano, Feltrinelli, 2008, pp.
37-42.
65
questo, il male può raggiungere vertici impensabili, macchiando il mondo
intero»143.
Pensare e ricordare sono i modi attraverso i quali gli uomini riescono a mettere radici nel
mondo, in un mondo in cui essi fanno la loro comparsa come “stranieri”144.
È proprio il pensiero, secondo Arendt, la facoltà precipua dell’uomo morale. Il pensiero è
lo stato in cui la mente è attiva, costruisce i propri significati.
Conoscere e pensare si trovano su piani differenti. Richiamando le categorie kantiane, la
conoscenza attiene all’intelletto, mentre il pensiero attiene alla ragione. L’una ricerca la
verità, l’altro il significato. La fallacia delle fallacie, per Arendt, consiste nel confondere i
due piani, finendo per interpretare il significato secondo il modello della verità145.
La conoscenza va alla ricerca della verità, per quanto non si tratti mai, neppure nelle
“scienze esatte”, di una verità assoluta e permanente, ma sempre relativa e provvisoria. Il
pensiero, specie quello che trova spazio nei quesiti etici, così come in quelli esistenziali,
ricerca il significato e con ciò si sottrae ad ogni tentativo di verificabilità. Il senso della
vita, il senso della mia vita per me, il mio sentirmi “designato ad essere”, non possiede
alcuna validità, dato che non può essere soggetto a vero-falsificazione, ma è
estremamente carico di significato146.
Al traguardo di questo arduo ma vitale cammino che è il pensare morale, raramente
troviamo un rifugio sicuro. La morale, come ci avverte Bauman è “inguaribilmente
aporetica”, raramente ti regala solide certezze, e quando lo fo è generalmente in problemi
di poco conto. Per le grandi questioni, il dubbio è la norma.
«L’io morale si muove, sente e agisce nel contesto dell’ambivalenza ed è lacerato
dall’incertezza. Perciò, una situazione morale priva di ambiguità esiste unicamente
come utopia. […]. Nonostante tutti gli sforzi in senso contrario, l’incertezza è
destinata ad accompagnare per sempre la condizione dell’io morale» 147.
Questa condizione di costante incertezza in cui è gettato l’io morale è certamente fonte di
notevole frustrazione, ma rappresenta anche, secondo Bauman, un guadagno per la
morale.
143
144
145
146
147
Arendt H., Alcune questioni di filosofia morale, cit., pp. 54-55. Rispetto a tale concetto si veda anche
Arendt H. (1963), Eichman in Jerusalem, trad. it. La banalità del male, Milano, Feltrinelli, 2010.
Arendt H., (2003), Some questions of moral philosophy, trad. it. Alcune questioni di filosofia morale,
Torino, Einaudi, 2006, p. 61.
Arendt H. (1978), The life of the mind, trad. it. La vita della mente, Bologna, Il Mulino, 2009, p. 97.
Ivi, 1978, p. 145.
Bauman Z. (1993), Postmodern ethics, trad. it. Le sfide dell’etica, Milano, Feltrinelli, 1996, pp. 18-19.
66
«Non il genere di guadagno che desidereremmo, forse, e che abbiamo cercato, ma il
maggior guadagno che si possa ragionevolmente sperare di ottenere restando
persone morali»148.
3.2
Le teorie morali
Una teoria, secondo l’accezione etimologica (dal greco theoròs, cioè “colui che dà uno
sguardo”), rappresenta una prospettiva da cui si inquadra una determinata realtà; uno
sguardo, appunto, che abbraccia le varie dimensioni di cui essa si compone.
Una teoria morale, come precisa Mordacci, si articola in tre dimensioni149.
Innanzitutto una dimensione metaetica, che è la dimensione dei fondamenti della morale,
della sua natura, del suo significato, del suo modo di procedere e, soprattutto, del suo
linguaggio.
C’è poi una dimensione normativa, fondamentale per un sapere che non si vuole limitare
ad essere descrittivo del reale, ma si assume una responsabilità di tipo prescrittivo. È la
dimensione che indaga ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, ciò che è bene e ciò che è
male, ciò che si deve fare e ciò che si deve evitare.
Vi è infine una dimensione di tipo “applicativo” della teoria morale, detta casistica, che si
cala nella riflessione sui casi controversi e sulle situazioni critiche, come ad esempio le
questioni di bioetica.
«Una teoria morale è costituita dalla riflessione critica sulla moralità, in termini sia
di analisi del linguaggio morale, sia di ricerca di criteri normativi generali per
orientare l’azione, sia di riflessione normativa su problemi particolari» 150.
Si tratta, come precisa l’Autore, di dimensioni distinte ma non indipendenti, essendovi fra
di loro una stretta connessione. In particolare se si può condurre una riflessione metaetica
senza spingersi a formulare tesi normative151, queste ultime non si possono concepire
senza avere, almeno a livello implicito, un riferimento di tipo metaetico. E neppure,
chiaramente, si può argomentare un discorso sulla casistica senza avere definito un
assetto normativo e, conseguentemente, un quadro di riferimento metaetico.
148
Ibidem.
Mordacci R., Una introduzione alle teorie morali. Confronto con la bioetica, Milano, Feltrinelli, 2003,
p. 19.
150
Ibidem.
151
Viene osservato dallo stesso Mordacci (ivi, p. 21) come anzi gran parte della ricerca in filosofia morale
svolta nella prima metà del Novecento si fosse incentrata prevalentemente sulla dimensione metaetica
lasciando pochissimo spazio all’analisi della dimensione normativa.
149
67
Certamente lo studio del linguaggio morale occupa un posto rilevante all’interno della
metaetica, specialmente quella che fa capo alla filosofia analitica; ma non è l’unico
ambito di interesse che essa esprime. Monique Canto-Sperber e Ruwen Ogien 152
evidenziano come la metaetica trascenda la mera analisi linguistica, impegnandosi in
questioni concettuali più complesse, che si propongono di dare risposta a quesiti del tipo:
•
È possibile ricavare dei giudizi di valore a partire da giudizi di fatto?
•
Come si possono giudicare i nostri giudizi morali?
•
Qual è il significato di “bene”?
•
I nostri enunciati morali possono essere veri o falsi?
•
I nostri giudizi contengono necessariamente una motivazione all’azione?
•
Le proprietà di valore morale esistono solo nella nostra mente?
Il dibattito filosofico contemporaneo nel campo della metaetica si articola in un quadro
piuttosto complesso, al cui interno possiamo comunque riconoscere con Mordacci le
seguenti polarità concettuali153:
•
Cognitivismo Vs. Emotivismo. Si riferisce alla natura del linguaggio morale. Nel
primo gli asserti morali come buono, giusto, bene, hanno un contenuto cognitivo,
soggetto quindi ad analisi di vero-falsità, il quale può derivare da proprietà
naturali delle cose (naturalismo) o da principi primi (intuizionismo). Nel secondo
invece essi esprimono emozioni e sentimenti.
•
Realismo Vs. Antirealismo. Si riferisce all’ontologia dei valori. Nel primo
versante i valori sono dotati di una realtà loro propria (come ad esempio l’idea
platonica del bene), mentre nel secondo versante si trovano concezioni come
quella costruttivista, che nega tale realtà esterna ai soggetti stessi.
•
Fondazionalismo Vs. Coerentismo. Riguarda il piano epistemologico. Nel primo
caso il discorso morale si fonda a partire da uno o più principi autoevidenti,
mentre nel secondo la giustificazione dei giudizi morali dipende dalla loro
coerenza interna.
•
Universalismo Vs. Particolarismo. Si riferisce alla validità degli asserti morali. Il
primo assegna all’agente razionale la capacità di riconosce la validità universale
152
153
Canto-Sperber M., Ogien R. (2004), La philosophie morale, trad. it. La filosofia morale, Bologna, Il
Mulino, 2006, p. 57.
Si veda, per un approfondimento, Mordacci R., Una introduzione alle teorie morali. Confronto con la
bioetica, cit., pp. 22-29.
68
dei criteri normativi dell’agire morale, mentre per il secondo tali criteri sono legati
a caratteristiche individuali e correlati al contesto.
•
Sentimentalismo Vs. Razionalismo. Fa riferimento all’origine della normatività,
attribuita nel primo caso al sentimento morale (Hume) e nel secondo caso alla
ragione (Kant).
•
Internalismo Vs. esternalismo. Attiene alla motivazione morale. Nel primo caso i
giudizi morali sono di per sé idonei a spingere il soggetto all’azione, mentre nel
secondo caso c’è necessità di un movente esterno (pulsione, sentimento,
persuasione, ecc.).
•
Sostanzialismo Vs. Funzionalismo. Riguarda lo statuto antropologico. Nel primo
la persona è tale per le caratteristiche sostanziali della sua essenza, mentre nel
secondo essa si identifica con l’esercizio effettivo delle funzioni che le sono
proprie.
Se la metaetica è il presupposto necessario ad ogni riflessione sul bene e sulla vita buona,
l’etica normativa rappresenta il nucleo centrale di una teoria morale, tanto che quando si
parla di teorie morali spesso si fa riferimento in realtà alle tesi normative in senso stretto.
Mordacci definisce la teoria normativa come “un insieme strutturato di proposizioni
definito dai requisiti della giustificabilità, della coerenza e della normatività” 154.
A differenza dei resoconti sugli usi e sulle credenze morali, a differenza dei discorsi
mitologici e delle narrazioni, la teoria morale, per essere realmente teorizzazione, deve
cioè essere in grado di garantire la giustificabilità dei propri asserti.
Un tratto distintivo di una teoria morale è quindi la ricerca di una giustificazione rispetto
ai giudizi che esprime, a prescindere dal tipo di fondamento su cui essa viene poggiata
(sull’evidenza empirica piuttosto che su verità rivelate). La giustificabilità è un requisito
fondamentale per ogni teoria, tanto in ambito filosofico, quanto in ambito scientifico.
Il secondo requisito, anch’esso necessario alle teorie filosofiche come alle teorie
scientifiche, riguarda la coerenza, cioè il rapporto di non contraddizione che deve
sussistere al loro interno. In una teoria, cioè, i principi generali non devono essere in
contraddizione tra loro; da tali principi devono derivarsi correttamente delle conclusioni
particolari, le quali devono essere anch’esse coerenti fra di loro.
Coerenza e giustificazione non sono disgiungibili e concorrono a far sì che una teoria sia
una teoria e non qualcos’altro:
154
Mordacci R., Una introduzione alle teorie morali. Confronto con la bioetica, cit., p. 30.
69
«la sola coerenza non distinguerebbe una teoria da una narrazione, che potrebbe
presentare una piena compatibilità reciproca delle proprie proposizioni; ma
soprattutto in assenza della giustificabilità, un insieme di asserti semplicemente
coerenti fra di loro potrebbe generare un sistema falso, o più precisamente, in
termini popperiani, non falsificabile. In etica, ciò significa che una teoria morale
non mira soltanto a formulare giudizi coerenti con i propri principi, ma sostiene che
tali principi siano, in un modo o nell’altro, giustificati e che perciò lo siano anche i
giudizi particolari correttamente derivati da essi»155.
L’intreccio fra questi due criteri di coerenza e giustificabilità rappresenta un nodo
fondamentale per comprendere le diverse teorie morali. Essi sono infatti alla base di
quella polarità epistemologica tra Fondazionismo Vs. Coerentismo di cui facevo cenno
sopra. Il Coerentismo, in particolare, rifiuta ogni forma di giustificazione esterna da un
fondamento ultimo, trovando la propria giustificazione nella stessa coerenza interna, da
perseguire attraverso quello che Rawls chiama “equilibrio riflessivo” 156.
Ciò che secondo Mordacci caratterizza le teorie morali, differenziandole da quelle
scientifico-teoretiche, è la normatività, il loro carattere normativo, ossia il fatto di voler
rappresentare una norma per l’azione. Questo terzo requisito è presente anche nelle teorie
giuridiche (che si differenziano però da quelle morali per la diversa sanzione prevista in
caso di infrazione delle norme) e nelle teorie politiche (che però si riferiscono a gruppi
sociali piuttosto che ai singoli individui).
«Una teoria etica intende anzitutto fornire una guida per individui che
agiscono da soli o all’interno di una comunità o società complesse. La teoria
morale dovrebbe fornire loro ragioni in grado di giustificare e orientare le
scelte, anche in vista della realizzazione di un ideale di vita (o almeno in
modo non incompatibile con esso)»157.
Il requisito della normatività è saldamente connesso agli altri due: per soggiacere
all’imperativo pratico che reca in sé, una teoria morale dev’essere sufficientemente
giustificata (deve cioè rendere conto del fondamento su cui basa la propria forza
prescrittiva) e sufficientemente coerente (e quindi credibile).
155
Ivi, p. 31.
Rawls J., Una teoria della giustizia, cit, p. 57.
157
Mordacci R., Una introduzione alle teorie morali. Confronto con la bioetica, cit., p. 31.
156
70
«Una teoria morale in senso stretto (cioè come teoria normativa) è un
discorso costituito di asserti normativi giustificabili e coerenti. Un discorso
che non presenti queste caratteristiche non è ovviamente falso o insensato,
ma non costituisce una teoria morale»158.
Come ho anticipato nel paragrafo precedente, si suole distinguere in filosofia morale due
modelli teorici portanti: l’etica teleologica e l’etica deontologica. Va comunque precisato
che non esiste piena convergenza nella classificazione tassonomica delle diverse teorie
morali159.
Le teorie etiche che si richiamano al modello teleologico sono caratterizzate da una forte
tensione finalistica: l’etimo greco, télos, significa, infatti, fine, scopo. Questo fine può
avere diverse facce: la felicità, che per Aristotele corrisponde alla “vita buona”
(eudaimonìa) o, per gli utilitaristi, al raggiungimento della massima utilità complessiva.
In tale modello, come ricorda Da Re, la qualità morale di un’azione dipende dalla bontà
delle conseguenze che ne scaturiscono. Per questo è chiamato anche modello
consequenzialista160.
«Secondo l’impostazione teleologica, un’azione deve essere giudicata in base alle
conseguenze che essa può produrre e sarà moralmente giusta quando il bene che
può risultare da quel determinato modo di agire supererà il male» 161.
Il modello deontologico (dal greco tà deònta, che significa dovere, ciò che va fatto), trova
la sua paradigmatica espressione nella filosofia kantiana e fa dipendere la qualità morale
di un’azione dalla sua corrispondenza con il dovere, fondato sulla ragione universale. È
sulla ragione che si fonda per Kant la legge morale che è inscritta nell’uomo e ne
determina la mirabile grandezza:
«Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e
crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo
158
Ivi, p. 32.
Ad esempio Mordacci R., Una introduzione alle teorie morali. Confronto con la bioetica, cit., individua
tre grandi tipologie di etica normativa:
· Teorie aretaiche (dal greco areté, che significa virtù), che si fonda sulla prospettiva del carattere del
soggetto agente, l’uomo saggio teorizzato da Aristotele nell’Etica Nicomachea.
· Teorie deontologiche, la cui prospettiva sono le azioni e le intenzioni dell’agente.
· Teorie consequenzialiste, in cui il focus non sono le intenzioni dell’agente ma le conseguenze
dell’azione.
160
Cfr. Da Re A., L’etica tra felicità e dovere, Bologna, Edizioni Dehoniane, 1986, pp.15-43. In realtà
altri autori distinguono le teorie teleologiche da quelle consequenzialiste, concependole come modelli
distinti. Si veda a tale proposito Mordacci (cfr. nota precedente) o anche Xodo C. (2001), L’occhio del
cuore. Pedagogia della competenza etica, cit.
161
Da Re A., L’etica tra felicità e dovere. L’attuale dibattito sulla filosofia pratica, cit., pp. 29-30.
159
71
sellato sopra di me e la legge morale in me. Il primo spettacolo di una quantità
innumerevole di mondi annulla affatto la mia importanza di creatura animale. […]
Il secondo, invece, eleva infinitamente il mio valore, come valore di una
intelligenza, mediante la mia personalità in cui la legge morale mi manifesta una
vita indipendente dall’animalità e anche dall’intero mondo sensibile»162.
Vi è una sostanziale convergenza nel riconoscere l’esistenza di questi due modelli
contrapposti, che assumono però differenti denominazioni. Max Weber parla di etica
della responsabilità e etica della convinzione 163; Franz von Kutschera definisce il primo
Etica dei valori e il secondo Etica del dovere 164; Giovanni Fornero parla di etica dei fini
ed etica dei moventi165; altri autori parlano di etica del desiderio ed etica della regola166.
Fondamentale punto di distinzione fra i due approcci è rappresentato, come fa notare
Rawls167, dal rapporto fra il concetto di “giusto” e quello di “bene”. Nell’etica teleologica
il bene è definito prima e indipendentemente dal giusto, il quale viene ad essere
qualificato come ciò che massimizza il bene. Nell’etica deontologica, il giusto viene
definito a priori, prescindendo dalla conseguenze, e non deriva da altro che il dovere per
il dovere. Si può parlare, a tal proposito, di “primato del giusto sul bene” 168.
Entrambi i modelli presentano luci ed ombre. Da Re avverte come l’adesione acritica ad
un modello di tipo teleologico porti all’assoluta indeterminatezza morale: far dipendere,
infatti, il giudizio su “cosa devo fare” dalle conseguenze future (prossime e remote)
dell’azione, che sono al lato pratico sempre gettate nell’incertezza del particolare e del
contingente, apre al rischio di far prevalere, nel dubbio, la scelta più “conveniente”
rispetto agli interessi egoistici del singolo o del gruppo sociale di riferimento169.
Il modello deontologico è certamente più rigoroso nella definizione di ciò che è giusto
fare, che – come si diceva – viene determinato a priori a prescindere dalle conseguenze
(fiat justitia, pereat mundus). Ma tale rigore può a volte portare a scelte aberranti. Celebre
162
Kant I. (1788), Kritik der praktischen Vernunft, trad.it. Critica alla ragione pratica, Bari, Laterza,
1977, pp. 197-198, come citato da Arendt H., Alcune questioni di filosofia morale, cit., p. 23.
163
Weber C.M., Il Lavoro intellettuale come professione, 1917, così citato da Da Re A., L’etica tra
felicità e dovere. L’attuale dibattito sulla filosofia pratica, cit., p. 32.
164
Kutschera F. (1982), Grundlagen der Ethik, trad. it. Fondamenti dell’etica, Milano, Franco Angeli,
1991.
165
Fornero G. (1998) voce “Etica” in Abbagnano N., Dizionario di filosofia, Torino, Utet, 1998. Tale
riferimento viene richiamato anche da Loro D., Formazione ed etica delle professioni. Il formatore e la
sua esperienza morale, Milano, Franco Angeli, 2008, pp. 177-180.
166
Vigna G. (1990) La verità del desiderio come fondazione della norma morale, in Berti E., Angelici G.,
Zecchinato P. et al., Problemi di etica: fondazione, norme, orientamenti, Padova, Gregoriana, 1990, e
Xodo C., L’occhio del cuore. Pedagogia della competenza etica, cit.
167
Rawls J., Una teoria della giustizia, cit., pp. 37 e 42.
168
Kutschera F., Fondamenti dell’etica, cit., p. 75.
169
Da Re A., L’etica tra felicità e dovere. L’attuale dibattito sulla filosofia pratica, cit., p. 31.
72
è a tal proposito la posizione di condanna espressa da Kant senza se e senza ma nei
confronti della menzogna, anche se in gioco ci fosse una vita umana170.
Teleologismo e Deontologismo sono quindi, come ci suggerisce Da Re, visioni parziali
che vanno necessariamente integrate fra di loro.
«Considerate in se stesse, le teorie argomentative puramente deontologiche e
puramente teleologiche appaiono essere delle idealizzazioni, difficilmente
sostenibili a livello teorico, pena il rischio di sfociare in esiti contraddittori e
assurdi, così come avviene in Kant e in Moore, e non applicabili isolatamente sul
piano pratico, a meno di non scadere nel fanatismo e nel cinismo» 171.
La distinzione tra etiche deontologiche e etiche teleologiche richiama per certi versi
quella tra etica della giustizia e etica della cura, introdotta dagli studi di genere agli inizi
degli anni ’80, anche se va chiarito che non esiste piena sovrapposizione tra le due.
Il concetto di etica della cura Vs. etica della giustizia nasce dalle osservazioni introdotte
dalla psicologa americana Carol Gilligan, la quale evidenziava come gli studi sullo
sviluppo morale svolti da Lawrence Kohlberg fossero viziati da un pregiudizio di
genere172. I risultati delle ricerche di Kohlberg, infatti, mettevano in luce una superiorità
di livello di giudizio morale dei maschi rispetto alle femmine. Ciò però sarebbe legato,
secondo la Gilligan, al modo stesso in cui è stata strutturata la teoria stadiale di sviluppo
morale di Kohlberg, che si fonda appunto su un’etica “maschile”. Esisterebbero infatti
due modi di approcciarsi ai temi etici e in particolare ai giudizi morali: una “voice of
justice”, fortemente connaturata al modo di pensare maschile, ed una “voice of care”,
espressione più affine all’eticità femminile.
Gilligan precisa comunque che la “voce della cura” non è biologicamente programmata
né è esclusivamente presente nelle donne.
A partire da tale considerazione, è stata sviluppata all’interno del dibattito filosofico,
come ci ricorda Mortari, una riflessione sull’esistenza di due distinte etiche: l’etica della
giustizia e l’etica della cura.
170
Ivi, p. 33. L’Autore sottolinea come per Kant la menzogna è infatti la peggiore ingiustizia che possa
esser fatta all’umanità. La veridicità costituisce un dovere formale a cui l’uomo non può venire meno,
qualunque sia il danno che da ciò possa derivarne a sé o agli altri.
171
Ivi, p. 36.
172
Gilligan C. (1982), In a different voice, trad. it Con voce di donna, Milano, Feltrinelli, 1987. A Gilligan
rinvia anche Mortari L., La pratica dell'aver cura, Milano, Bruno Mondadori, 2006, pp. 153-173. Su
Kohlberg si veda più avanti (paragrafo 3.4).
73
«La prima è delineata come un pensare astratto, tendente a formulare principi dal
valore universale, che hanno come riferimento il concetto di un essere umano
autonomo, indipendente dagli altri e massimamente impegnato a difendere i suoi
diritti; la seconda si presenta come un’etica attenta alle situazioni particolari, mossa
dall’intenzione di promuovere il benessere della singola persona senza preoccuparsi
di formulare giudizi imparziali»173.
Non si tratta però di posizioni antinomiche, che si escludono vicendevolmente, ma in un
certo senso, per mutuare l’espressione guardinana, di “opposizioni polari”174, le quali
possono (devono) coesistere ed anzi si richiamano e si sostengono vicendevolmente.
Proprio perché diverse nei presupposti e nei valori che implicano (da una parte
l’imparzialità di giudizio, l’uguaglianza di fronte alla norma, l’aderenza a regole generali
e astratte, ecc. e dall’altra parte l’attenzione all’altro, alla sua unicità singolare, ai suoi
propri bisogni, alla sua storia personale, ecc.), si evidenzia la necessità di un loro
compendio e di una loro dinamica integrazione.
Se la pratica dell’aver cura, secondo Mortari175, sembrerebbe richiamarsi alla tensione
finalistica del perseguire una “vita buona”, promovendo il benessere dell’altro, questa
visione teleologica non contrasta con il senso della giustizia, che secondo Aristotele è
appunto la virtù di tenere in massimo conto il bene dell’altro.
Prendersi cura dell’altro significa perseguire la propria felicità attraverso la realizzazione
della felicità altrui (o l’alleviamento delle altrui sofferenze) e questo fa in qualche modo
decadere la critica che Kant rivolgeva alle teorie della felicità,
Non si tratta pertanto di scegliere astrattamente un’etica della cura al posto di un’etica
della giustizia, ma di contemperare e far coesistere nell’agire concreto, nella pratica,
l’ossequio alla norma generale assieme all’attenzione per la situazione personale, l’amore
per la giustizia con il sentimento della compassione e della misericordia.
Quest’ultimo passaggio ci porta ad aprire una riflessione sul rapporto tra teoria e pratica,
fondamentale in ogni disciplina, ma direi ancor più importante per l’etica in quanto
aristotelicamente scienza della praxis, scienza della pratica.
Teoria e pratica assumono spesso nel linguaggio comune un significato contrapposto,
dove il teorico finisce per essere inteso come astratto e distante dal reale. Esiste quindi in
qualche misura un pregiudizio antiteorico che trova spazio anche nella stessa riflessione
etica. Mordacci presenta, a tal proposito, una serie di posizioni che definisce
173
Mortari L., La pratica dell’aver cura, cit., p. 157.
Guardini R., L’opposizione polare. Saggio per una filosofia del concreto vivente, cit.
175
Mortari L., La pratica dell’aver cura, cit., pp. 175-177.
174
74
“antiteoriche”, per il fatto che rifiutano, appunto, teorizzazioni sistematiche in ambito
morale. Secondo i filosofi “antiteorici” come Bernard Williams e Annette Baier 176, la
filosofia può fornire contributi critici per comprendere la vita etica, ma non deve proporre
teorie normative. Le critiche mosse alle teorie morali riguardano in particolare la loro
pretesa normatività e il fatto di riferirsi a principi generali, cosa che non si concilia con la
natura dell’azione morale, che è sempre calata in una situazione concreta e particolare.
Per Mordacci la critica al requisito normativo dell’etica è destituita di fondamento, in
quando la normatività è alla base stessa del giudizio morale ed è pertanto irrinunciabile, a
meno che non si voglia cadere nello scetticismo più assoluto.
«Mostrare che un certo governo, pur dichiarandosi democratico, tiranneggia i suoi
cittadini equivale a criticarlo solo e solo se abbiamo già stabilito che la tirannia è
ingiusta. Se invece lo smascheramento significa solo dire che quel governo è
diverso da ciò che dice di essere, al limite l’accusa è semplicemente quella di
mentire (ma bisognerebbe poi dire perché mentire è sbagliato)» 177.
Egli tuttavia conviene sulla fondatezza di alcune critiche degli antiteorici in merito ad
un’impostazione “astrattamente teorica”, nella quale vi è un eccessivo formalismo e
spersonalizzazione; come pure concorda che molte teorie morali cadono nell’errore di
confondere il piano della giustificazione ultima dei giudizi etici con quello dell’effettivo
esercizio della scelta, che va calibrato sul contesto e sull’unicità del soggetto178.
Il nesso tra teoria e pratica in etica, come peraltro in pedagogia, è fondamentale. Nel
paragrafo 3.1 si è definita l’etica come una “conoscenza” particolare, cioè come un sapere
incarnato, ma si è anche detto che l’etica è qualcosa di più. Più precisamente, come ci
insegna Dewey potremmo dire che l’etica è una conoscenza nel suo costruirsi, è il
pensiero che accompagna l’azione, è la riflessione che nasce e cresce nel confronto con
l’esperienza, cioè in quel terreno dove teoria e pratica si incontrano.
Ho ritenuto opportuno rivolgere le riflessioni del prossimo paragrafo proprio a questo
autore,
in
quanto
rappresenta
un
riferimento
imprescindibile
per
le
teorie
dell’apprendimento situazionale che ho richiamato nel secondo capitolo, come del resto
costituisce un rimando fondamentale rispetto alla stessa riflessione metodologica sul
procedere scientifico.
176
Mordacci R., Una introduzione alle teorie morali. Confronto con la bioetica, cit., p. 35.
Ivi, p. 45; i corsivi nel testo.
178
Ivi, p. 43.
177
75
Le pagine che Dewey dedica all’etica, che conservano intatto tutto il loro straordinario
fascino, collocano l’esperienza morale perfettamente all’interno di questa visione unitaria
dell’uomo e dei suoi processi di apprendimento.
3.3
La fondazione dell’etica nel pensiero di John Dewey
La concezione dell’etica nel pensiero di Dewey è fortemente collegata alla sua
prospettiva antropologica, che vede l’uomo e la sua condotta come prodotti dell’unione
tra natura e cultura.
Nella visione deweyana, natura e cultura sono due forze costitutive dell’uomo che si
contendono il campo della pratica umana, combinandosi fra di loro in forme e modi
storicamente dati. Una natura e una cultura mai uguali a se stesse, in quanto in continua
evoluzione.
Si tratta di una concezione che ha ovviamente conosciuto interpretazioni esplicitamente
favorevoli o più o meno critiche, ma che si ritiene utile presentare, perché da essa si
possono trarre elementi comunque utili ai fini del nostro lavoro.
Nella prefazione alla seconda edizione di Natura e condotta dell’uomo179, egli fa presente
come in tutto il corso della storia del pensiero morale vi sia stato e continui ad esservi una
persistente contrapposizione fra quanti enfatizzano il predominio di una natura umana
originaria e quanti invece puntano tutto sull’ambiente sociale.
In particolare, secondo Dewey, è la dimensione naturale che nel corso della storia del
pensiero morale ha avuto la peggio. La moralità è stata spesso intesa, infatti, non come
espressione (anche) della natura umana, ma come strumento di controllo, di contrasto, di
coartazione degli istinti naturali. Questo atteggiamento si correla ad una concezione
negativa della natura umana, assunta come fragile, instabile, corrotta, incline al male e
alla depravazione. È da qui che sorge la necessità del controllo, il quale, però, non ha
fatto altro che confermare ricorsivamente il pregiudizio antinaturale.
«Si è supposto che la moralità sarebbe stata affatto superflua se la natura umana
non fosse stata per sua essenza così debole e proclive a depravarsi. […] La moralità
ha in gran parte il compito di controllare la natura umana. Quando tentiamo di
controllare qualche cosa siamo particolarmente sensibili alle resistenze che
incontriamo. Forse è così che i moralisti sono stati condotti a stimare cattiva la
179
Dewey J. (1922), Human Nature and Conduct. An Introduction to Social Psychology, trad. it. Natura e
condotta dell'uomo, Firenze, La Nuova Italia, 1958, p. 8.
76
natura umana, a causa della sua riluttanza a sottomettersi al controllo, del suo
ribellarsi al giogo»180.
Questa visione negativa della natura umana sarebbe all’origine dello sviamento che ha
conosciuto il pensiero morale occidentale, nel postulare l’idea di un uomo in guerra con
se stesso. Dewey parla a tal proposito di “suicidio” dell’etica quando essa, per esaltare il
valore dei propri principi, finisce per degradare la natura umana181.
Analogo sviamento si è prodotto, però, anche allorquando la filosofia s’è inoltrata nella
celebrazione della bontà incorrotta dello stato di natura. Il problema per Dewey non è,
infatti, idealizzare o demonizzare la natura umana, ma l’intenderla come qualcosa di
separato dalla morale. È sbagliato cioè per Dewey pensare alla morale come a qualcosa di
esterno, di estraneo, di superiore all’uomo; è sbagliato collocarla in una dimensione
sovrannaturale. Essa deve essere intesa come parte integrante della natura umana,
assieme alle altre sue componenti. Il rischio, altrimenti, è quello di creare due mondi:
quello ideale, dei bei principi e dei bei sentimenti, e quello reale dell’umanità decaduta,
con le sue brame e le sue meschinità. Due mondi che, ovviamente, risultano inconciliabili
e condannano l’uomo ad un’insanabile frattura:
«Così, in un modo o nell’altro, gli uomini finiscono per vivere in due mondi, l’uno
reale, l’altro ideale; alcuni sono tormentati dal senso della loro inconciliabilità, altri
oscillano fra l’uno e l’altro, compensandosi dei sacrifici e delle rinunce, che sono
impliciti nell’appartenere al mondo ideale, con piacevoli escursioni nelle delizie del
mondo reale»182.
La divisione tra natura e morale implica, tra l’altro, anche la scissione dell’azione morale
dal suo contesto situazionale, da ciò che si incontra nel qui ed ora.
Dewey, in sostanza, critica una morale prodotta altrove e semplicemente fatta calare, in
modo più o meno aderente, sulle situazioni concrete183. Egli propugna la fondazione di
una scienza della natura umana che, com’è stato per la scienza fisica, possa affrancare
l’uomo da visioni irrazionali, che di fatto precludono la via verso la soluzione dei
problemi reali nel quotidiano. Una scienza, quindi, e non una speculazione astratta su
mondi ideali; scienza che guardi alla concreta esperienza umana e che abbia dirette e
180
Ivi, p. 9.
Ivi, p. 10.
182
Ivi, p. 14.
183
Ivi, p. 15.
181
77
produttive applicazioni alla vita reale. Che si “sporchi le mani”, che assuma su di sé la
responsabilità del confronto con i problemi che affiggono l’umanità.
«È impossibile dire quanto della non necessaria schiavitù esistente nel mondo sia
dovuto alla concezione che le questioni morali possan essere risolte nel puro ambito
della coscienza del sentimento umano, lungi da ogni concreto studio dei fatti e
senza applicarne la conoscenza specifica nel campo industriale, giuridico e
politico»184.
Dewey propugna una scienza morale fondata sullo studio dell’esperienza, che dialoghi
con le altre scienze umane, ma anche con le scienze naturali, abbattendo gli steccati
artificiosamente posti all’interno del campo della conoscenza. Una scienza morale
fondata sui fatti e guidata dalla conoscenza che superi finalmente la pretesa di vivere in
due mondi separati.
Una scienza morale che non voglia per forza avere ricette preconfezionate e valide per
tutti e in tutte le situazioni, al pari della scienza medica, che non può fondare la sua
pratica di cura costruendo un quadro clinico generale, ma deve calarsi nella realtà
concreta del singolo paziente.
Una scienza morale che non insegua pretese di esattezza, alle quali neanche le cosiddette
“scienze esatte” ormai credono più, per accettarsi nella sua incertezza.
«Non […] vorrebbe rendere la vita morale una faccenda semplice come il
passeggiare lungo un viale ben illuminato. Ogni azione è un’irruzione nel futuro,
nell’ignoto: conflitto e incertezza ne sono i caratteri ultimi» 185.
Una scienza che si riconosca anche nella sua fallibilità, ma che veda appunto nell’errore
una via per il proprio progresso. Essa infatti non deve darci la rassicurante illusione di
riuscire a risolvere automaticamente i problemi etici, ma dovrebbe semplicemente
metterci nelle condizioni di agire per la ricerca, nella situazione esperienziale, della
soluzione. Questo, facendo tesoro dell’esperienza passata, fonte importantissima di
apprendimento, anche e soprattutto quando si lega all’idea di fallimento.
È poi fondamentale per Dewey che in tale approccio scientifico all’etica non venga mai
disconosciuto l’intimo legame che unisce la morale alla natura umana e entrambe al
contesto socio-culturale.
184
185
Ivi, p. 17.
Ivi, pp. 17-18.
78
«Soltanto un intelligente riconoscimento della continuità esistente fra natura umana,
uomo e società assicurerà lo sviluppo di una morale che sia seria senza essere
fanatica, nutrita di aspirazioni senza sentimentalismi, adatta alla realtà senza esser
convenzionale, sensata senza però riprendere la forma di un calcolo dei vantaggi,
idealistica ma non romantica»186.
Dewey postula una scienza morale che non si dica mai arrivata, che sia in continua
ricerca, puntando a traguardi che si rinnovano continuamente. Del resto, per essere vera
scienza, la morale non può pretendere di avere la verità in tasca, di aver già visto tutto, di
sapere già tutto. La scienza per definizione è in divenire, com’è in divenire l’oggetto che
essa studia.
«La morale, se vuole essere davvero una scienza, deve essere una scienza in
continuo sviluppo, non semplicemente perché la verità non è tutta quanta
conquistata dalla mente umana, ma perché la vita è una realtà in movimento e nella
quale la vecchia verità morale cessa di trovare applicazione» 187.
Come ogni altra scienza, la morale deve trovare il proprio oggetto non in qualcosa di
astratto e indefinito, ma in ciò che di più concreto attiene alla vita dell’uomo: la sua
esperienza. Il concetto di esperienza è il portato fondamentale della riflessione deweyana,
attraverso il quale il filosofo americano si propone di superare in un colpo solo
quell’antinomia che per secoli ha impegnato il pensiero filosofico: la contrapposizione tra
realismo e idealismo. Per Dewey l’esperienza è un tutt’uno tra soggetto e oggetto, tra
mente e natura. Come un Giano bifronte, l’esperienza avrebbe quindi una “doppia
faccia”188. Un unicum che ha da un lato il mondo naturale, con i suoi eventi, e dall’altro
l’uomo, con i suoi vissuti interiori.
«Così il valore della nozione di esperienza per la riflessione filosofica è che essa
denota insieme il campo, il sole, le nuvole e la pioggia, i semi, il raccolto, e l’uomo
che lavora, che pianta, inventa, soffre e gioisce. L’esperienza denota ciò che è
esperimentato, il mondo degli eventi e delle persone; e denota il mondo compreso
nello sperimentare, la carriera e il destino del genere umano» 189.
186
Ivi, p. 18.
Ivi, p. 254.
188
Espressione che l’autore riconosce mutuata da William James, cfr Dewey J. (1925), Experience and
Nature, trad. it. Esperienza e natura, Milano, Mursia, 1973, p. 5.
189
Dewey J., Esperienza e natura, cit., p. 14.
187
79
L’esperienza non è conoscenza: essa può divenire conoscibile allorquando venga
sottoposta ad un processo riflessivo che la porti ad un livello di consapevolezza190.
Dewey richiama l’importanza di “prendere” l’esperienza tutta intera, senza riduzionismi
che pretendano di analizzare solo ciò che è computabile, né idealizzazioni che guardino
solo agli aspetti più “nobili” del reale. Ciò di cui si fa esperienza è qualcosa di
estremamente composito, al cui interno c’è anche l’incertezza, la precarietà, il non
razionale. L’esperienza – tutta intera – è ciò che costituisce l’oggetto della conoscenza e
ad essa spetta la prima e l’ultima parola all’interno del processo del conoscere.
Cambiando il punto di osservazione, potremmo dire che la conoscenza per Dewey, come
spiega bene Vincenzo Milanesi, è “un ponte dall’esperienza all’esperienza”191.
A garanzia del suo rigore scientifico, Dewey ritiene che questa nuova scienza umana
debba adottare il medesimo metodo da lui proposto per le cosiddette “scienze esatte”, il
già citato metodo dell’indagine (inquiry). Procedere cioè, attraverso una serie di passaggi
strettamente collegati all’esperienza concreta, da una situazione confusa e indeterminata
ad una determinatamente unificata.
«L’indagine è la trasformazione controllata o diretta di una situazione indeterminata
in altra che sia determinata, nelle distinzioni e relazioni che la costituiscono, in
modo da convertire gli elementi della situazione originale in una totalità
unificata»192.
È importante a mio avviso sottolineare la centralità del metodo nell’approccio deweyano
all’esperienza umana e alla costruzione della conoscenza, tanto nel campo delle scienze
fisiche quanto in quello delle scienze umane. Ma il metodo non è qualcosa che riguarda
solamente gli scienziati; esso riguarda (o dovrebbe riguardare) anche il normale
procedere dell’uomo nel suo fare esperienza del mondo, perché ogni persona si imbatte in
situazioni problematiche che richiedono l’attivazione di un processo riflessivo. Nel
campo dell’etica più che in altri settori. Chiaramente non è che tutto venga sempre
analizzato attraverso l’inquiry. Generalmente le persone procedono tramite quelle che
Dewey193 definisce “abitudini”, che sono trasmesse fin dalla più tenera età attraverso
l’educazione (intesa in senso ampio). L’abitudine consiste in una predisposizione
190
Esiste invero, per Dewey, anche la possibilità di un accesso diretto e non mediato all’esperienza, che è
l’esperienza artistica.
191
Milanesi V., Logica della valutazione ed etica naturalistica in Dewey, Padova, Liviana, 1977, p. 142.
192
Dewey J. (1938), Logic: The Theory of Inquiry, trad. it. Logica, teoria dell'indagine, Torino, Einaudi,
1949, p. 157, corsivo nel testo.
193
Dewey J., Natura e condotta dell’uomo, cit., pp. 48-49.
80
acquisita ad un determinata modalità di risposta rispetto a determinati stimoli. Una
predilezioni o un’avversione costanti, che orientano la volontà del soggetto.
L’uomo procede per abitudine non perché semplicemente ripete azioni, ma perché ha
acquisito una disposizione, un orientamento ad agire in determinati modi. Ha, per usare
una tipica espressione informatica, un set prestabilito di “opzioni di default”.
Anche ciò che viene comunemente definito “virtù”, altro non è che un’abitudine, una
disposizione, che viene giudicata “morale” per antonomasia, ma che sostanzialmente non
si distingue dalle altre disposizioni, se non per il fatto di essere in qualche modo
“centrale” e in quanto da essa discendono altri atteggiamenti valutati positivamente194.
L’agire dell’uomo è sottoposto generalmente a questa sorta di “pilota automatico” che
sono le abitudini. Tutto procede liscio fino a che non ci si imbatte in una situazione
problematica, che come abbiamo visto è il “momento zero” dell’inquiry. Da qui parte il
percorso di conoscenza empirica, che si conclude nella fase in cui l’abitudine verrà
modificata e di conseguenza la situazione problematica verrà ricomposta.
Conoscere per Dewey è conoscere-in-siutazione, pertanto valori e disvalori, bene e male,
giusto e sbagliato possono essere distinti soltanto attraverso la logica dell’indagine.
Secondo Dewey, questo procedere empirico del pensiero etico comporta la rinuncia
all’invocazione
di
principi
universali
e
immutabili.
Le
situazioni
cambiano
continuamente ed ogni volta si deve testare la validità di quei principi e quei valori su cui
– provvisoriamente – poggia la scienza morale.
«I valori sono così instabili come le forme delle nuvole. Le cose che li posseggono
sono esposte a tutti i casi dell’esistenza e sono indifferenti alle nostre preferenze ed
ai nostri gusti»195.
Ciò non significa disconoscere l’utilità di principi e valori. Essi sono infatti il risultato di
una sorta di selezione darwiniana delle abitudini che, nel corso della storia dell’umanità,
sono invalse come buone pratiche, come azioni opportune ed efficaci nell’affrontare un
determinato genere di situazione. Abitudini valide fino a prova contraria.
I principi sono degli strumenti che, per essere utili, vanno continuamente validati, affinati
e, nel caso, sostituiti. Questo loro carattere sperimentale non implica necessariamente che
essi siano completamente soggetti ad una assoluta indeterminatezza e fluidità.
194
195
Dewey J., Democrazia e educazione, cit., p. 456.
Dewey J., Esperienza e natura, cit., p. 151.
81
«I principi esistono come ipotesi con cui fare degli esperimenti. […] Trascurarli
con leggerezza è il colmo della stoltezza. Ma la situazione sociale si muta; ed è
altresì stolto il non osservare come i vecchi principi agiscono attualmente in
condizioni nuove, ed il non modificarli in modo da renderli strumenti più efficaci
nel giudicare i nuovi casi»196.
Dire che i principi sono strumenti significa porli non come realtà astratte, ma come fattori
immanenti rispetto alle situazioni concrete. Come strumenti, essi non sono qualcosa di
separato dall’esperienza ma di intimamente ad essa associato.
I principi sono dentro all’azione così come dentro all’azione – e non al di fuori di essa –
si trovano i fini.
Tutta la contrapposizione che ritroviamo nella filosofia morale tra mezzi e fini è per
Dewey un modo sbagliato di vedere le cose. Mezzi e fini, infatti, non possono essere
valutati se non in stretto rapporto fra di loro (mai il fine giustifica i mezzi). Non solo, ma
i fini per Dewey devono essere intesi tipicamente come fini intenzionali o – come egli
dice anche – “fini-in-vista”, che svolgono la funzione di fattore organizzativo per
l’attività umana e quindi rappresentano essi stessi un mezzo per orientare le nostre azioni.
Quando cioè non si agisce sulla base di un’abitudine o di un riflesso condizionato, ma ci
si trova a dover deliberare riflessivamente su una determinata azione da intraprendere, ciò
che ci motiva e ci guida è l’individuazione di un obiettivo concreto da perseguire. Questo
– il fine – rappresenta un mezzo che porterà ad innescare un processo, il cui epilogo – la
fine – potrà essere più o meno coincidente con quanto proposto197.
«La finalità intenzionale dell’uomo che si vede un’automobile venirgli addosso è
raggiungere un posto al sicuro, non la salvezza stessa. Quest’ultima (o il suo
contrario) è fine in senso di conclusione. […] Se il fine esistenziale nel senso di
risultato o conclusione fosse un termine in una proposizione, lo si tratterebbe come
qualcosa di già compiuto. Soltanto se il fine compare come un mezzo per dirigere
l’azione con cui si giunge all’effettiva conclusione, esso si salva dal vanificarsi da
solo»198.
Dewey richiama l’importanza di considerare il fine nella sua accezione di fine
intenzionale – e quindi fine intermedio rispetto ad una serie di altri fini ulteriori –
196
Dewey J., Natura e condotta dell’uomo, cit., p. 254.
In lingua inglese esiste una polisemia del termine “end” che traduce sia il concetto di finalità (il fine) che
quello di termine (la fine). Per tale ragione Dewey preferisce parlare di “fine intenzionale” o “fine-in-vista”
(end-in-view) nel primo caso e di “compimento” (fulfillment).
198
Dewey J., Logica, teoria dell’indagine, cit., p. 233.
197
82
piuttosto che come conclusione. Il fine intenzionale è qualcosa su cui “s’inciampa
casualmente” durante l’azione e vengono assunte per dare un significato e una direzione.
Può sembrare un paradosso, ma per Dewey l’azione esiste prima dell’obiettivo: l’azione
di tirare con l’arco sta prima dell’individuazione di un bersaglio da colpire.
«I fini sono conseguenze previste che sorgono nel corso dell’attività e che sono
impiegate a dare all’attività un significato aggiuntivo e a dirigere l’ulteriore corso di
essa. Essi non sono in nessun caso fini dell’azione»199.
In principio c’è l’azione. Gli uomini sparano e scagliano e questo rappresenta un fatto che
acquisisce in corso d’opera un suo proprio significato, proprio nel momento in cui se ne
osserva il risultato. Da allora gli uomini nel lanciare e nello sparare iniziano a pensare in
termini di risultato; agiscono intelligentemente, ossia si pongono un fine. L’avere un fine
o scopo è il mezzo con cui l’azione assume un significato, cessando quindi di
rappresentare un mero esercizio meccanico.
«Gli uomini non tirano perché esiste un bersaglio, ma mettono dei bersagli affinché
il loro tiro e il loro lancio possano essere più efficaci e significativi» 200.
Posta così, la cosa può sembrare – come dicevo – effettivamente paradossale, dato che
nella nostra comune esperienza l’azione segue l’obiettivo. Ma se usciamo dagli schemi
consolidati, allora la cosa assume un suo senso. Pensiamo ad esempio alle prime
esperienze di scoperta del mondo, a come i primi suoni del bambino vengono riempiti di
significato dagli adulti e quindi “vanno a segno”, trasformandosi in linguaggio.
Dewey sostiene quindi il primato dell’azione: l’attività rappresenta l’unico vero valore
per l’uomo. L’uomo è un essere attivo per sua natura e non perché c’è qualcosa o
qualcuno che lo spinga ad agire. I fini semmai intervengono dopo, fornendo motivazione,
costruendo significati, determinando risultati.
Il procedere dell’azione attraverso l’individuazione di fini intenzionali assomiglia, come
suggerisce lo stesso Dewey con una delle sue suggestive metafore, al cabotaggio delle
navi.
«Un marinaio non naviga verso le stelle, ma osservando le stelle è aiutato nel
condurre la sua presente attività del navigare. Il suo obiettivo è uno scalo o un
porto, ma lo è solo nel senso che deve raggiungerlo, non che debba prenderne
199
200
Dewey J., Natura e condotta dell’uomo, cit., pp. 239-240.
Ibidem.
83
possesso. Il porto sta nel suo pensiero come un punto significativo nel quale la sua
attività avrà bisogno di avere un’altra direzione, quando il porto sarà raggiunto non
cesserà l’attività ma soltanto la presente direzione dell’attività. Il porto è con
altrettanta verità l’inizio di un altro modo di attività quanto esso è la conclusione di
quella presente»201.
È un procedere, questo, in cui il percorso è più importante della meta, la quale dev’essere
considerata come punto d’arrivo ma anche come punto di partenza per altri viaggi.
«Se è meglio viaggiare che arrivare, ciò avviene perché il viaggiare è un costante
arrivare, mentre l’arrivo, che preclude viaggi ulteriori, si ottiene nel modo più
semplice andando a dormire o morendo»202.
Esistono per Dewey anche dei fini-in-sé, come i valori etici della bontà e della verità o
quello estetico della bellezza, ma si tratta di ipostasi, cioè concetti astratti che vengono
estrapolati dai fini-in-vista, una volta che se ne è constatata empiricamente la validità.
Questi fini-in-sé sono proiezioni in forma più ampia e piena di quanto è già stato esperito.
Essi svolgono una loro funzione euristica nella misura in cui non vengono assunti come
altro che astrazioni di esiti empirici, rimanendo essi stessi esposti alla finitudine e alla
mutevolezza.
«Le concezioni astratte e generalizzate di verità, bellezza e bontà hanno un valore
genuino per l’indagine, la creazione e la condotta. Esse posseggono, come tutti i
veri ideali, una forza capace di correggere ed indirizzare. Ma perché possano
esercitare la loro genuina funzione debbono venir considerate come rammentatrici
delle condizioni ed operazioni concrete che occorre soddisfare nei casi reali» 203.
E quindi verità, bontà e bellezza per Dewey non possono essere intesi come assoluti
ontologici, ma come entità storicamente date204.
Nel pensiero morale tradizionale il fine-in-sé finisce spesso per diventare qualcosa di
distante, di irreale. Diviene un sogno, ma un sogno che – a differenza di quanto avviene
in altri ambiti scientifici – non apre la via ad un processo costruttivo. Un vagheggiamento
sterile, chiuso in se stesso.
201
Dewey J., Natura e condotta dell’uomo, cit., p. 301.
Ibidem.
203
Dewey J., Logica, teoria dell’indagine, cit., p. 248.
204
A questo riguardo Dewey fa osservare quanto l’introduzione dei metodi di indagine sperimentali abbia
contribuito a mutare il concetto di verità sia (cfr. Dewey J., Logica, teoria dell’indagine, cit., p. 248)
202
84
«Senza dubbio molti uomini hanno sognato la possibilità di godere della luce
nell’oscurità senza la noia dell’olio, delle lampade e dello sfregamento. Le lucciole,
il lampo, le scintille dei conduttori elettrici interrotti suggerirono una tale
possibilità. Ma la visione rimase un sogno fino a che Edison non studiò tutto ciò
che si poteva scoprire su tali casuali fenomeni luminosi, e non si mise quindi al
lavoro per scoprire e raccogliere insieme i mezzi di riprodurre l’azione di quelli. Ma
tutto ciò che passa per fine morale e per ideale ha la gran disgrazia di non andare
oltre il piano del vagheggiamento fantastico di qualcosa di piacevole e desiderabile
fondato su di un desiderio emozionale; molto spesso, poi, non si tratta neppure di
un desiderio originale, ma del desiderio di qualche capo, che è stato reso
convenzionale e trasmesso attraverso gli organi dell’autorità» 205.
Riprendendo la metafora deweyana del marinaio, si potrebbe quindi concludere che
perseguire i fini-in-sé è come “navigare verso le stelle”, mentre essi dovrebbero semmai
aiutarci a trovare la strada per raggiungere i porti, che sono in realtà solo degli scali, dei
fini-in-vista.
Dall’azione emergono i fini intenzionali e il senso dell’azione stessa. Ed è proprio in
questo emergere che si rinviene la dimensione morale dell’agire umano, il divenire
umano dell’essere umano, il suo più alto compimento.
«Morale vuol dire arricchimento della condotta nel suo significato; per lo meno
significa quel genere di ampliamento di significato che è conseguenza
dell’osservare le condizioni e l’esito della condotta. Essa è un tutt’uno con il
crescere […]. La morale, nel senso più vasto della parola, è educazione. Vuol dire
imparare dal significato di ciò che si sta facendo e impiegare tale significato
nell’azione. […] E la tragedia delle nozioni morali sulle quali maggiormente insiste
chi è preoccupato moralmente, è di relegare l’unico bene che può pienamente
impegnare il pensiero, vale a dire il significato presente dell’azione, al rango di
aspetto subordinato di un bene remoto, sia che il bene futuro venga definito come
piacere, o come perfezione, o salvazione, o raggiungimento di un carattere
virtuoso»206.
Se la dimensione morale è qualcosa che attiene all’agire e al dare senso all’azione, essa
allora riguarda tutti gli uomini, il probo come il malfattore.
205
206
Dewey J., Natura e condotta dell’uomo, cit., p. 249.
Ivi, pp. 299-300.
85
«In un senso vitale, che non è quello convenzionale, tutti gli uomini pensano
secondo una direttiva e un interesse morale, l’uomo così detto immorale
come l’uomo perbene; giacché l’uomo giusto e il peccatore sono
caratterizzati da inclinazioni verso specie differenti di cose o di beni»207.
Semmai vi possa essere un imperativo categorico, questo dovrebbe essere per Dewey
quello di accrescere il senso dell’esperienza umana nel “qui ed ora”. Un imperativo, come
egli si affretta a precisare, che però ha senso solo nella misura in cui non viene assunto
come un principio astratto ma rimane come una bussola per orientarci nella situazione
presente.
«Se la storia mostra un progresso, esso non lo si può trovare se non in questo
complicarsi ed estendersi del significato trovato dentro l’esperienza. È chiaro che
un tale progresso non porta alcuna stasi, non immunizza dalla perplessità e dai
fastidi. Se volessimo trasformare questa generalizzazione in un imperativo
categorico, dovremmo dire: “Agisci in modo da accrescere il significato
dell’esperienza presente”. Ma anche in tal caso, per ottenere un insegnamento circa
la qualità concreta di un simile accrescimento di significato, dovremmo piantare in
asso tale legge e studiare i bisogni e le possibilità alternative relative ad una
situazione singolare e localizzata. L’imperativo, come ogni altra cosa assoluta, è
sterile. Finché gli uomini non lasceranno andare la ricerca di una formula generale
di progresso non sapranno dove guardare per trovarlo»208.
La morale, per Dewey, è conoscenza situazionale. Essa non può disquisire sul bene e sul
male, ma deve limitare il proprio discorso a ciò che sia meglio o sia peggio nella specifica
situazione. Il giudizio morale non può essere qualcosa di astratto ma dev’essere
concretamente contestualizzato, il valore emerge dal fatto ed il bene è, alla fin fine, ciò
che “funziona” in quello specifico caso.
«Osservando che la morale è a casa propria dovunque siano implicate
considerazioni circa il meglio e il peggio, siamo obbligati a notare che la moralità è
un processo continuo, non un risultato fisso»209.
207
Dewey J., Esperienza e natura, cit., p. 16.
Dewey J., Natura e condotta dell’uomo, cit., pp. 301-302.
209
Ivi, p. 299.
208
86
Come si diceva, nella concezione deweyana si possono individuare punti di forza, come
evidenzia autorevolmente Aldo Visalberghi210, ma forse anche qualche punto di
debolezza. Mi limito qui alla critica espressa da Gino Corallo già a fine anni Cinquanta:
«Per il Dewey non esiste un “bene generale” e cioè assoluto, come norma o misura
di tutti i “beni particolari” ma esiste solo il “bene della situazione”, interno e
particolare ad ogni situazione, e mutevole quindi di volta in volta; non esistono fini
assoluti da raggiungere, segnati agli uomini come termini propri del loro sviluppo e
della loro vita, ma i fini sono solo circoscritti, anch’essi, come “fini-in-vista”, nello
stretto ciclo che si compie dal sorgere di un problema alla sua soluzione; la vita non
sa indicare alcuno scopo di se stessa»211.
Il rischio è quello di un’etica solo basata sul contingente che deriva da una concezione
che si può definire di relativismo ontologico.
3.4
Psicologia morale e neuroetica
Importanti apporti alla conoscenza dell’esperienza morale ci vengono dagli studi condotti
nell’ambito della psicologia fin dalle sue origini. Pensiamo ad esempio alle teorie di
Sigmund Freud sulla moralità e su come questa si ponga, nel contrasto tra il “principio di
piacere” e il “principio di realtà”, alla genesi stessa della civiltà212.
Per ragioni di spazio e di opportunità, mi limiterò qui a sintetizzare i principali contributi
conferiti in questo campo dalla ricerca sperimentale, ponendo attenzione soprattutto ad
alcune tematiche di particolare interesse.
In primo luogo, notevole rilevanza rivestono, a mio avviso, le ricerche che concorrono a
definire e circoscrivere l’ambito della norma morale, studiando i rapporti intercorrenti tra
la moralità e gli altri sistemi di normazione sociale. Nel processo di socializzazione,
dunque, l’individuo si trova ad acquisire, fin dalla sua prima infanzia, una serie di
prescrizioni: non si devono picchiare i compagni, non si devono dire le bugie, ma anche
non si devono mettere le dita nel naso, non si deve fare baccano, si deve stare seduti
composti a tavola, ci si deve vestire in un certo modo, ecc. Non tutte queste regole,
evidentemente, corrispondono a norme morali: gran parte di esse rappresentano piuttosto
delle semplici convenzioni sociali.
210
Visalberghi A., John Dewey, Firenze, La Nuova Italia, 1951.
Corallo G., La pedagogia di John Dewey, Brescia, La Scuola, 1957, p. 172.
212
Freud S. (1930), Das ubehagen in der kultur, trad. it. Il disagio della cività, Torino Boringheri, 1971.
211
87
Gli studi empirici, come ci dice Larry Nucci 213, hanno dimostrato che la distinzione tra
queste due tipologie di norma (quella morale e quella convenzionale) è presente in età
straordinariamente precoce (2 anni e mezzo).
Dai diversi esperimenti condotti è emerso che le questioni morali si caratterizzano per la
loro generalizzabilità a contesti sociali e culturali differenti e la loro stabilità temporale,
mentre le convenzioni sono fondamentalmente legate al sistema sociale che le esprime e
quindi possono mutare nel tempo e tra i diversi ambiti socio-culturali. Non solo, ma è
netta anche la differenza tra le giustificazioni alla base dei due complessi normativi: le
norme morali trovano giustificazione nel danno o nell’ingiustizia che causerebbe l’azione
interdetta, mentre le norme convenzionali vengono giustificate con l’esistenza di una
regola e/o con le aspettative dell’autorità.
In sostanza verrebbero pertanto assunti implicitamente nel pensiero comune i medesimi
criteri che ha elaborato la filosofia morale per contraddistinguere la norma morale: la
prescrittività e generalizzabilità.
Si tratta di due requisiti strettamente intrecciati fra di loro. Le prescrizioni morali sono
tali non sulla base di un’opinione individuale, ma trovano in sé una prescrittività che si
può definire oggettiva. Poiché “oggettive”, tali norme vengono ritenute valide in senso
generale, per tutti.
Un precetto che ad esempio è stato ritrovato in tutti gli studi cross-culturali, che
coinvolgevano bambini anche molto piccoli, è quello di non picchiare i compagni. Tale
precetto non dipenderebbe dal fatto che è sancito dall’autorità, bensì dalla conseguenza
oggettiva intrinseca del picchiare: non si può picchiare senza far male e per ciò stesso
picchiare è sbagliato.
«La forza prescrittiva dello standard morale “Picchiare è sbagliato” è oggettiva nel
senso che gli effetti dell’azione sono indipendenti dall’osservatore, è prescrittiva
nel senso che la qualità di “sbagliato” deriva dalle caratteristiche oggettive
dell’azione e generalizzabile nel senso che gli effetti dell’azione si manifestano in
qualsiasi persona, a prescindere dal suo background»214.
La moralità, secondo tali studi, si consoliderebbe attorno ad alcuni precetti di base che
avrebbero natura non arbitraria, ma necessaria e valore non particolare, ma universale.
Ciò non significa che l’ambito della moralità e quello delle convenzioni, pur distinti, non
213
Nucci L.P. (2001), Education in moral domain, trad. it. Educare il pensiero morale, Trento, Erickson,
2002, pp. 19-36.
214
Ivi, p. 23.
88
conoscano sovrapposizioni. Anzi, la nostra esperienza quotidiana ci pone di fronte ad una
continua commistione tra i due ambiti. Pensiamo ad esempio a quando ci mettiamo in fila
per accedere ad un servizio pubblico, come l’Anagrafe o l’ufficio postale: è chiaramente
una convenzione sociale, generalmente condivisa, ma che può anche cambiare in alcuni
contesti (ad esempio in Inghilterra ci si mette in fila anche alla fermata dell’autobus,
mentre in altri Paesi questa regola non esiste). Al fondo di tale convenzione sociale c’è, in
tutti i modi, un principio di giustizia distributiva, che è un principio morale, come pure si
possono ritrovare dei principi di solidarietà umana nelle regole di “cortesia” del dare
precedenza a determinate categorie, come gli anziani o i disabili. Passare davanti a tutti,
saltando la fila, non è quindi solo una violazione dell’etichetta, ma contrasta con il senso
di giustizia, che inscritto in ognuno di noi come principio morale prescrittivo e
generalizzabile.
Il piano delle norme morali si sovrappone e interagisce anche con le scelte personali, lo
status sociale e le convinzioni religiose.
Molte norme morali, ad esempio, vengono veicolate dall’educazione religiosa, che
assume e agisce in questo ambito un ruolo di grande importanza, tanto che norma morale
e norma religiosa finiscono spesso per intrecciarsi strettamente.
Le ricerche tuttavia dimostrano che, sia per i non osservanti che per coloro che non
aderiscono ad uno dei diversi culti studiati 215, esisterebbe un nucleo centrale, una comune
moralità, fondata sull’interesse per la giustizia e il benessere degli altri, che si sottrae al
relativismo delle culture e dei valori. L’equità, il rispetto reciproco, la solidarietà
sarebbero quindi, secondo Nucci, principi etici “universali”, che dovrebbero informare
laicamente l’educazione morale delle istituzioni scolastiche, nei loro diversi ordini e
gradi.
Un secondo argomento approfondito dagli studi psicologici è la questione del carattere
morale. Il concetto di carattere, tuttora molto diffuso nel linguaggio comune, è
generalmente contestato dalla psicologia accademica.
«Questa concezione della personalità, di vecchia data, corrisponde alle attribuzioni
di senso comune che facciamo verso gli altri nel tentativo di classificare o di
etichettare le persone in maniera da dare un certo grado di prevedibilità alle
interazioni interpersonali»216.
215
216
Ivi, p. 69.
Ivi, pp. 146-147.
89
Le ricerche sperimentali condotte, come dice Nucci, hanno infatti dimostrato che non è
possibile individuare in termini generali dei tratti di personalità stabili e definiti, dato che
le disposizioni comportamentali sono fortemente collegate alle situazioni contestuali.
«Anziché occuparsi delle teorie dei tratti, gli psicologi della personalità
contemporanei tendono a considerare la personalità come qualcosa che una persona
fa in determinati contesti piuttosto che qualcosa che una persona ha a prescindere
dalla situazione»217.
Per tale ragione, anziché di carattere morale, si preferisce parlare di Sé morale,
riferendosi al modo in cui la moralità viene ad essere integrata nel senso soggettivo
dell’identità personale.
Su questa linea, studiosi come Augusto Blasi e Clark Power 218 individuano la fonte
dell’agire morale non tanto nella conoscenza del bene, quanto nel desiderio di agire
coerentemente con il proprio senso di sé, in quanto essere morale.
Non si deve intendere il sé come un’entità rigidamente definita, quanto piuttosto come un
essere in divenire, come una sorta di narrazione, come la storia di noi che raccontiamo a
noi stessi. Nucci sostiene che il sé è qualcosa che si costruisce nella nostra interazione di
agenti con la realtà che ci circonda:
«Quello che noi siamo emerge man mano che interagiamo con il mondo sociale e
cerchiamo di capire come diamo avvio alle azioni (un senso di iniziativa), chi è
l’agente (un senso di identità) e chi desideriamo che quell’agente sia (una
combinazione di iniziativa e identità)»219.
Un ulteriore tema d’interesse nella ricerca psicologica riguarda l’aspetto evolutivo del
pensiero morale. Si tratta di un filone di studi dominato dalla teoria elaborata agli inizi
degli anni ’60 dallo psicologo americano Lawrence Kohlberg e che riprende la
concezione di sviluppo stadiale di Piaget. Secondo questa teoria, lo sviluppo morale di un
soggetto passerebbe attraverso 6 stadi che, in estrema sintesi 220, si possono così
schematizzare:
•
Stadio 1 – Moralità eteronoma. L’individuo orienta il proprio comportamento
sulla paura della punizione; non considera il valore intrinseco della norma ma solo
217
Ivi, p. 147.
Blasi A., The development of identity: a critical analysis form the perspective of the self as subject, in
Developmental Review, vol. 15/1993, p. 404-433 e Power C., Khmelkov V.T., Character development
and self-esteem: psychological foundation and educational implications, Notre Dame, Liberal Studies,
1998, p. 150.
219
Nucci L.P. (2001), Educare il pensiero morale, cit., p. 150.
218
90
il fatto che essa venga approvata o disapprovata; non riesce a distinguere il
proprio punto di vista da quello degli altri (egocentrismo).
•
Stadio 2 – Individualismo. L’individuo diviene consapevole della diversità dei
punti di vista e che i propri interessi possono contrastare con quelli degli altri,
perciò considera il giusto in termini relativi concreti.
•
Stadio 3 – Conformismo e reciprocità. L’individuo conforma il proprio
comportamento alle aspettative degli altri e al rispetto della regola aurea (“Non
fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te”, ma anche in versione positiva
“Fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te”).
•
Stadio 4 – Legge e ordine. L’individuo assume come proprio il sistema normativo
dell’autorità, parificando ciò che è giusto con ciò che è legittimo.
•
Stadio 5 – Contratto sociale e diritti individuali. L’individuo è consapevole
dell’importanza del consenso, alla base delle regole, ma anche della priorità di
alcuni diritti e valori individuali rispetto alla società.
•
Stadio 6 – Principi etici universali. L’individuo determina in modo autonomo la
propria condotta, che si basa su principi etici universali, come l’uguaglianza dei
diritti e la dignità umana.
Le indagini sperimentali, condotte in tempi diversi e in differenti contesti sociali ed
etnici, evidenziano come tale percorso stadiale, che procede dall’eteronomia
all’autonomia morale, si sviluppi in modo sostanzialmente uniforme in tutte le culture e
in tutti i ceti sociali.
Uno dei
test maggiormente
utilizzati
dai
ricercatori
consiste nel proporre,
opportunamente adattato all’ambito culturale di riferimento, un caso problematico
(Moral Judgement Interview), come quello notissimo di Heinz, un signore che per salvare
la vita alla moglie malata è posto di fronte al dilemma morale se rubare o meno una
medicina ad un farmacista senza scrupoli. In base alla risposta (affermativa o negativa),
220
Cfr. Kohlberg L. (1973), Continuities in childhood and adult moral development revisited, trad. it. Le
esperienze adulte richieste per lo sviluppo morale, in Manenti A., Bresciani C. (a cura di), Psicologia
e sviluppo morale della persona, Bologna, Dehoniane, 1992, pp. 116-119 e Kohlberg L. (1976), Moral
Judgement Intereview and Procedure for Scoring, trad. it. Il posto del giudizio morale nella
personalità totale: stadio cognitivo, stadio morale e comportamento morale, in Manenti A., Bresciani
C. (a cura di), Psicologia e sviluppo morale della persona, Bologna, Dehoniane, 1992, pp. 164-176.
Come ogni sintesi, la presente schematizzazione si espone al rischio di un’eccessiva semplificazione.
Per un approfondimento del tema è opportuno il rimando in particolare a Kuhmerker L., Gielen U.P.,
Hayes R.L., Antoni G., Comunian A.L. (1991), The Kohlberg legacy. For the helping professions, trad.
it. L'eredità di Kohlberg. Intervento educativo e clinico, Firenze, Giunti, 1995.
91
ma soprattutto alle motivazioni addotte, viene così individuato lo stadio evolutivo del
soggetto.
Esisterebbe quindi, secondo quanto rilevato in tali studi, una precisa sequenzialità nello
sviluppo del pensiero morale e un certo sincronismo con le tappe dello sviluppo cognitivo
in genere, a testimonianza del fatto che non si può concepire la moralità come qualcosa di
separato dalle altre facoltà intellettive e pertanto il suo crescere si accompagna al crescere
di queste ultime.
Va precisato che gli studi di Kohlberg e dei suoi collaboratori si interessano solo di un
aspetto della moralità, che è quello del giudizio morale, e lo fanno inquadrandolo
solamente sotto il profilo razionale-cognitivo. È su questa limitazione, come ci ricorda
Michele Pellerey, che si sono appuntate maggiormente le critiche all’approccio di
Kohlberg.
«Si è accennato più volte al contributo di L. Kohlberg sullo sviluppo del
ragionamento morale. A questo proposito c’è ormai l’accordo da parte degli
studiosi che nel passato si è posto eccessivamente l’accento sulla razionalità
morale, cioè sulla capacità di analizzare nella loro formalità i dilemmi morali. A ciò
ha influito da una parte la tradizione formalista e strutturalista della filosofia morale
e la prospettiva esclusivamente cognitiva della psicologia piagetiana»221.
Da questa constatazione sono partiti – agli inizi degli anni ’80 – diversi importanti studi,
che hanno ampliato tale visuale, dando risalto anche a fattori di tipo intrapersonale ed
intrapsichico.
Lo studio della dimensione emotiva implicata nell’esperienza etica è, a tale riguardo, uno
degli altri importanti focus d’attenzione della psicologia morale.
Ciò che definisce come morale un’azione è comunque la sua dimensione cognitiva.
Nessuno, come fa notare Nucci222, considererebbe etico il comportamento istintuale di un
animale che mette a repentaglio la propria vita per salvare i propri cuccioli, proprio
perché lì non viene implicata una cognizione, ma una semplice elaborazione automatica
delle emozioni. Al contrario, viene considerata altamente morale l’azione di chi si
esponga a rischi personali, pur di salvare un altro essere umano in pericolo, superando il
naturale istinto di autoconservazione.
Pensiamo ad esempio al comune cittadino, che si getti in mare per salvare un perfetto
estraneo che sta annegando. Questo suo gesto eroico implica necessariamente un
221
222
Pellerey M., Processi formativi e dimensione spirituale e morale della persona, cit. pp. 89.
Nucci L.P. , Educare il pensiero morale, cit., pp. 20-21.
92
elemento di pensiero. Un pensiero che si gioca nella frazione di secondo in cui egli
assume la decisione; l’immediatezza della risposta data alla situazione di pericolo non
significa infatti che essa non sia un prodotto del pensiero, alla stessa stregua della
parimenti tempestiva risposta che possiamo dare alla domanda: “Quanto fa due più due?”.
È un pensiero che sta però anche a monte di quella rapida decisione, ponendosi cioè nel
percorso di crescita morale che lo ha portato a rispondere in tal modo in quel momento
cruciale della sua vita.
L’azione morale, quindi, non può prescindere dalla sua fondante dimensione cognitiva.
Ciò però non significa che in essa non sia presente anche una dimensione emotiva.
Pensiamo, ad esempio, a quanti nel quotidiano si rendono protagonisti di gesti di
straordinario altruismo, anche a rischio della propria vita. Molto spesso, se interrogate al
proposito, queste persone comuni non sono in grado di spiegare razionalmente le
motivazioni che hanno determinato tali atti. Riferiscono semplicemente che “sentivano”
di doverlo fare.
Il sentimento è chiaramente qualcosa che gioca un ruolo imprescindibile rispetto all’agire
morale e che non ha minore importanza rispetto al pensiero razionale.
A ben vedere cognizione ed emozione si intrecciano:
«la moralità non è semplicemente guidata dai “sentimenti”, come affermavano i
filosofi emotivisti […], né è pura e fredda razionalità come la rappresentano alcune
letture che travisano le definizioni cognitive di moralità […]. Emozioni e pensiero
in realtà non si contrappongono, bensì sono in rapporto di interconnessione»223.
In effetti, per lungo tempo ragione e sentimento sono state considerate dalla cultura
occidentale dimensioni umane contrapposte, che solo in tempi relativamente recenti sono
state valorizzate nella loro compenetrazione. Come ci ricorda Piaget 224, infatti, non può
esserci cognizione senza affettività (nello stessa misura in cui, viceversa, non può esserci
affettività senza cognizione). Qualsiasi azione, come afferrare una palla, implica
chiaramente l’attivazione di schemi cognitivi che la orientano e la guidano, ma anche
delle emozioni, che rappresentano il “dispositivo d’innesco” per attivare l’azione stessa: è
la gioia nel prendere al balzo quella palla che spinge il bambino ad agire.225
223
Ivi, p. 140.
Piaget J. (1981), Intelligence and affectivity: their relationship during child development, Palo Alto,
CA, Annual Reviews Monosgraphs, come citato da Nucci L.P. (2001), Educare il pensiero morale, cit.,
p. 128.
225
In merito agli studi pedagogici che trattano dell’intreccio tra emozione e cognizione, si rimanda ad
esempio a Cambi F., Mente e affetti nell’educazione contemporanea, Roma, Armando, 1996, Contini
M., Per una pedagogia delle emozioni, Firenze, La Nuova Italia, 1992, nonché a Goleman D. (1995)
224
93
Oltre a tale funzione “motrice”, le emozioni giocano un altro importante ruolo nell’agire
umano, come sottolinea Terrance Brown226, che interviene nel momento decisionale.
Anche in un’attività fortemente improntata alla razionalità, come ad esempio giocare una
partita a scacchi, la scelta delle mosse da compiere – fra le innumerevoli possibili – non
potrebbe venir assunta esclusivamente attraverso procedure logiche, ma è in larga misura
condizionata da valutazioni affettive. I sistemi viventi intelligenti, infatti, sono
programmati non per assumere decisioni astrattamente ideali, ma soluzioni accettabili
nell’infinito spettro delle possibilità, e ciò avviene anche attraverso il “sentire” emotivo.
Se ciò è vero per gli schemi d’azione in generale, lo è ancor più nel caso dell’agire
morale che prende vita nello scambio dei rapporti umani e nella conciliazione dei diversi
bisogni e desideri.
Gli scienziati evoluzionisti hanno individuato significativi punti di continuità tra la
moralità umana e il sistema di regolazione sociale di molte specie animali, che si basa
proprio su un set di emozioni innate, corredato da specifici segnali fisici, come il pianto,
il riso, le espressioni facciali, la postura, le vocalizzazioni, ecc.
Gli studi effettuati negli ultimi decenni sembrerebbero confermare che anche gli esseri
umani siano dotati alla nascita di un repertorio geneticamente dato di schemi affettivi, che
gli consentono di esprimere i propri sentimenti basilari, ma anche di riconoscere quelli
degli altri.
Nucci cita, al riguardo, le ricerche condotte da Irenäus Eibl-Eibesfeld 227, nelle quali, è
stata riscontrata la capacità da parte dei bambini che nascono sordi e ciechi di produrre
espressioni emozionali del tutto simili a quelle dei bambini normodotati.
L’Autore fa riferimento anche agli esperimenti realizzati da Martin e Clark 228, i quali, per
altro verso, rilevano come i neonati al loro primo giorno di vita reagiscono piangendo al
pianto angosciato di un altro neonato, ma non nel sentire la registrazione del proprio
stesso pianto.
Sono elementi, questi, che danno corpo all’ipotesi di una base neurobiologica innata,
frutto di un processo filogenetico, al comportamento pro-sociale degli esseri umani.
226
227
228
Emotional Intelligence, trad. it. Intelligenza Emotiva. Che cos’è perché può renderci felici, Milano,
Rizzoli, 1999.
Brown t. (1996), Affective dimensions of meaning, in Reed E. et al. Values and knowledge, Hillsdale,
NJ, Lawrence Erlbaum, pp. 167-190.
Eibl-Eibesfeld, Ethology: the bbiology of behavior, New York, Holt, Rinehart and Winston, 1970, come
citato da Nucci L.P., Educare il pensiero morale, cit., p. 131.
Martin G.B., Clark R.D., Distress crying in newborn: species and peer specificity, in Developmental
Psychology, vol. 18/1982, pp. 3-9, come citato da Nucci L.P., Educare il pensiero morale, cit., p. 131.
94
Tale ipotesi ha trovato un fiorente terreno di indagine nella Neuroetica. Si tratta di un
nuovo ambito disciplinare, nato dalla confluenza delle riflessioni condotte dalla filosofia
morale con le conoscenze acquisite delle neuroscienze, grazie al loro strumentario di
tecniche di neuroimaging, cioè di mappatura neuronale (TAC, risonanza magnetica
funzionale, Tomografia ad emissione di positroni, ecc.).
La Neuroetica, come spiega Laura Boella229, si occupa della “morale prima della morale”,
cioè di come l’agire etico dell’uomo attinga ad una base biologica, costruita nel percorso
evolutivo di adattamento dinamico all’ambiente – finalizzato alla perpetuazione della
specie – senza però perdere di vista ciò che conferisce a tale agire un aspetto
propriamente umano, che è dato dal significato che egli associa alla propria esperienza
morale.
In un certo qual modo, la competenza etica nel vivere al mondo con gli altri si fonderebbe
su basi neurofisiologiche esattamente come la competenza dell’atleta non potrebbe
sussistere senza il sistema scheletrico e neuromuscolare. Nell’agire morale, così come
avviene nel salto in lungo, è richiesta una predisposizione biologica, quale condizione
necessaria ma – evidentemente – non sufficiente.
Tra i vari filoni di ricerca sui quali si è incentrata la riflessione dei neuroeticisti, uno dei
più interessanti è certamente quello che correla la capacità empatica, che è alla base di
molta parte del nostro agire etico, con quelli che sono stati denominati i “neuroni
specchio”. Si tratta di una particolare tipologia di cellule cerebrali, la cui presenza è stata
riscontrata negli esseri umani e in altri primati, attraverso esperimenti condotti con
tecniche di neuroimaging, da un gruppo di ricercatori dell’Università di Parma guidato da
Giacomo Rizzolatti230. Tali ricerche hanno messo in evidenza come gli stessi gruppi di
neuroni vengano attivati sia quando i soggetti sperimentali svolgono una determinata
attività, sia quando semplicemente la osservano svolgere da altri. Ciò sembrerebbe fornire
una base neurofisiologica alla capacità di apprendimento per imitazione, fondamentale
modalità di acquisizione di conoscenza da parte della specie.
Le prove sperimentali hanno anche evidenziato un funzionamento mirror anche per
quanto riguarda il riconoscimento delle emozioni: espressioni di dolore o di disgusto
osservate in altri attivano infatti il medesimo substrato neuronale.
229
230
Boella L. (2008), Neurotica. La morale prima della morale, Milano, Raffaello Cortina, cit., p. 42.
Rizzolatti G., Sinigaglia C., So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio, Milano,
Raffaello Cortina, 2006.
95
Benché queste ricerche siano ancora allo stato iniziale, le evidenze sinora raccolte – come
ci riferisce Boella231 – sembrerebbero attestare l’esistenza di un sistema di accoppiamento
diretto, a livello neurobiologico, tra l’esperire e il sentire dell’altro e il nostro sistema
cinestetico e propriocettivo, su cui si basa l’empatia, che è appunto la capacità umana di
mettersi al posto dell’altro, condividendone sentimenti e volizioni.
Si tratta di un nodo centrale per comprendere l’agire etico, su cui si è soffermata spesso
anche la filosofia morale.
A tal proposito, Hannah Arendt fa notare che se è vero, come ci hanno sempre detto la
morale e la religione, che l’uomo è tentato dal male e deve sforzarsi di compiere il bene, è
vero anche ch’egli è ugualmente tentato dal bene e deve fare uno sforzo per fare il
male232. A sostegno di tale tesi, ci racconta di quando Kant – contravvenendo alla propria
indole metodica ed abitudinaria – fu costretto a cambiare il percorso della sua consueta
passeggiata quotidiana per sfuggire alla “tentazione” di fare l’elemosina ai mendicanti,
che lo attendevano ogni giorno più numerosi. Per il filosofo tedesco, questa vera e propria
“tentazione al bene” in realtà andrebbe fuggita tanto quanto la tentazione al male. Essa
infatti non è un comportamento etico in quanto contrasta con il principio di
universalizzabilità; non può esserci, secondo Kant, una legge universale che dica: ”Dai
l’elemosina a tutti quelli che te la chiedono”.
Molti e autorevoli sono i contributi filosofici che ci parlano di un uomo “buono per
natura”, a partire dal riferimento – perfino scontato – a Rousseau, il quale fondava la
propria idea sulla constatazione dell’innata ripugnanza che gli esseri umnai provano nel
vedere le altrui sofferenze.
L’uomo è dunque (anche) buono per natura e questa bontà, questa natura
compassionevole, potrebbe avere “sede” nei neuroni specchio, che sembrerebbero poter
spiegare in termini neurofisiologici la sua capacità genetica di “sentire” assieme agli altri.
Zygmunt Baumann, riprendendo il pensiero di Emmanuel Lévinas e quello del teologo e
moralista danese Knud Løgstrup, sostiene l’ipostesi che l’etica nasca come tentativo di
“arginare” questo imperioso movente umano, ed è proprio questa limitazione all’origine
della società.
«La funzione principale della regolamentazione normativa, nonché fonte suprema
della sua inevitabilità, consiste nel rendere l’esercizio della responsabilità
(Lévinas), o l’ubbidienza all’esigenza etica (Løgstrup) un compito realistico per la
231
232
Boella L., Neurotica. La morale prima della morale, cit., p. 90.
Arendt H., Alcune questioni di filosofia morale, cit., pp. 37-38
96
“gente ordinaria”, che di solito resta ben lontana dai parametri della santità (ed è
necessario che sia così), rendendo concepibile la società» 233.
La società, attraverso la sua etica, renderebbe quindi la responsabilità per l’Altro, questo
potente sentimento di compassione che ritroviamo innato in noi – incondizionato e
illimitato per natura – qualcosa di umanamente sostenibile, circoscrivendolo in un
insieme definito di doveri e limitandolo ad una cerchia ristretta di “beneficiari”.
Su questo versante si pongono anche le riflessioni filosofiche di Eugenio Lecaldano, il
quale, rigettando ogni tentativo di fondazione metafisica della morale, individua la sua
radice proprio in quell’originaria e istintiva capacità sentimentale di provare empatia che
contraddistingue gli esseri umani. Tale capacità è una facoltà iscritta nella nostra natura,
che potremmo chiamare sentimento morale, che non si può acquisire attraverso discorsi e
ragionamenti:
«Nessuna elaborazione teorica di un filosofo ha il potere di fare sorgere in un
ascoltatore che ne fosse sprovvisto la capacità morale fondamentale, quella di
reagire partecipando alle sofferenze di un altro essere» 234.
Discorsi e ragionamenti semmai sono fondamentali per far emergere e coltivare tale
sentimento morale, il quale poi “fiorisce” proprio grazie al pensiero riflessivo 235.
3.5
L’etica delle professioni
Nel linguaggio sociologico esistono due diversi significati del termine professione. Il
primo designa genericamente “l’attività normalmente svolta per ricavare un reddito” 236.
Non è a tale accezione generale, ascrivibile a qualsiasi attività lavorativa, che ci si
riferisce in questo paragrafo, per quanto una dimensione etica sia presente in tutte le
attività umane e pertanto apprezzabili considerazioni potrebbero venirci da una
riflessione sull’etica del lavoro, inteso come spazio di espressione umana, di
realizzazione personale, di costruzione di significati.
Ci riferiremo invece ad un’accezione più circoscritta del termine professione, che
individua un genere di attività lavorativa caratterizzato da sapere tecnico e autonomia
233
Bauman Z., (2008), Does ethics have a chance in a world o consumers?, trad. it. L’etica in un mondo di
consumatori, Roma-Bari, Laterza, 2010, p. 48.
234
Lecaldano E., Prima lezione di filosofia morale, Roma-Bari, Laterza, 2010, p. 9.
235
Ivi, p. 43.
236
Cfr. Bagnasco A., Barbagli M., Cavalli A., Corso di Sociologia, Bologna, Il Mulino, 1997, p. 518.
97
operativa ampi e socialmente riconosciuti. Un’attività che si basa quindi su un elevato
grado di conoscenze (legate non solo al “saper fare”, ma anche e soprattutto al “saper
essere”) e di responsabilità, che – come afferma Daniele Loro – è intimamente legato al
significato etimologico del vocabolo “professione”:
«la dimensione della “responsabilità” emerge già dall’etimologia della parola
“professione”, che dal latino professio-nis (termine derivante dal verbo profiteorers, prefessus sum, pofiteri) sta ad indicare la dichiarazione pubblica, cioè aperta e
fatta davanti ad altri, di ciò che si è in grado di fare o che si intende fare.
Nell’ambito del lavoro il professionista è dunque colui che, di fronte ad un
problema per il quale è chiamato in causa, dichiara apertamente ai suoi interlocutori
di saperlo affrontare e di risolverlo, per quanto possibile, e di questo se ne assume
la responsabilità»237.
Si tratta di un’accezione che trova il suo modello paradigmatico nella tipologia del libero
professionista. La figura del professionista, infatti, origina nell’ambito del lavoro
autonomo, anche se ha via via acquisito, negli ultimi decenni, sempre più spazio
all’interno delle organizzazioni del nostro sistema produttivo. Stiamo assistendo in questi
anni, infatti, ad un importante processo di professionalizzazione del mondo del lavoro238,
in base al quale le attività lavorative all’interno delle organizzazioni assumono i caratteri
di elevato contenuto tecnico e di ampia autonomia, che un tempo erano propri solo della
libera professione e mal si conciliavano con il concetto di lavoro subordinato. Un
cambiamento che, come osserva Carla Xodo, mette al centro della professionalità il
concetto, già discusso, di competenza.
«Il professionista si afferma, dunque, in un’organizzazione del lavoro posttayloristica e post-fordista, centrata non più sul concetto di mansione, ma di
competenza. Differenza non di poco conto: la prima risponde alla logica del
minimo, la seconda a quella del massimo; la prima si basa sul lavoratore
dipendente, la seconda appunto sul professionista»239.
Se un tempo le strutture organizzative e, più in generale, il sistema di divisione del lavoro
tendevano alla stabilità, tutto era pre-definito e si privilegiavano attività di tipo esecutivo,
in cui il lavoratore veniva incasellato in una determinata mansione, ora, in quella che
237
238
239
Loro D., Etica e professione: quale rapporto, in “Rassegna CNOS”, n. 3/2007, p. 47.
Si veda a tal proposito Prandstraller G.P., Il lavoro professionale e la civilizzazione del capitalismo,
Milano, Franco Angeli, 2003.
Xodo C. (a cura di), Deontologia e qualificazione delle professioni educative, Lecce, Pensa Multimedia,
2004, p. 61.
98
Baumann240 definisce “modernità liquida”, il lavoratore si trasforma progressivamente in
professionista, assumendo un profilo sempre più indefinito ed un ruolo di sempre
maggiore autonomia e imprenditorialità, chiamato com’è ad alzare incessantemente gli
standard della propria attività, in una logica di miglioramento continuo delle
performance.
Il processo di professionalizzazione in atto, che pare correlarsi alla complessificazione
della società e dei saperi, sta portando alla comparsa e all’affermazione di sempre nuove
professioni, talune caratterizzate da uno statuto ancora piuttosto incerto.
La sociologia funzionalista ha proposto un modello, divenuto ormai classico241, per
spiegare come avviene questo processo di professionalizzazione, modello all’interno del
quale la componente etica assume un ruolo fondamentale.
Questo modello viene rappresentato graficamente con un triangolo ai cui vertici stanno il
sapere tecnico, l’autonomia e, appunto, l’etica242.
Fig. 1 – Triangolo della professione
La nascita di una professione è innanzitutto legata all’affermarsi di un gruppo di esperti
in un determinato sapere tecnico-professionale, a cui viene socialmente riconosciuta una
particolare autonomia nell’esercizio e nella valutazione delle proprie competenze
specialistiche (passaggio I.0). A fronte di tale autonomia, sorge una specifica
responsabilità etica; il professionista e il suo cliente, infatti, sono legati da una relazione
asimmetrica, dato che il primo dispone di conoscenze e capacità che il secondo non ha.
240
Baumann Z. (2000), Liquid modernity, trad. it. Modernità liquida, Roma-Bari, Laterza, 2002.
Si veda a tal proposito Prandstraller G.P., Sociologia delle professioni, Roma, Città Nuova, 1980 e
Prandstraller G.P. (2003), Il lavoro professionale e la civilizzazione del capitalismo, cit.
242
La rappresentazione grafica di questo modello è tratta da Damiano E., L’insegnante etico. Saggio
sull’insegnamento come professione sociale, cit., p. 284.
241
99
Ciò ingenera la necessità di creare un sistema di regolamentazione interno a tale pratica,
cioè un’etica professionale (passaggio II.0), etica che non può che essere una
autoregolamentazione, facendo quindi appello al principio di autonomia professionale
(passaggio II.1). Il circolo si chiude con il collegamento tra etica e sapere tecnico. La
principale istanza etica che attiene alla professione, infatti, è quella di far bene il proprio
lavoro e ciò impegna il professionista a sviluppare il proprio sapere professionale
(passaggio II.2).
Secondo Gian Piero Prandstraller, la maggior parte dei sociologi che hanno studiato il
mondo delle professioni, concorda nel ritenere la presenza di un sistema di
autoregolamentazione interno di tipo etico-deontologico quale attributo definitorio della
professione. 243
L’etica, quindi, non rappresenta solo un aspetto complementare, ma è costitutiva della
professione, tanto che – come sostiene Da Re – non si può parlare dell’esperienza
professionale senza ricorrere a categorie morali, quali onestà, responsabilità, bene,
correttezza, ecc.244
Su tali posizioni troviamo anche Wolfgang Brezinka, per il quale ogni professione ha un
suo contenuto tecnico, fatto di conoscenze e abilità, ed uno morale, che si declina in
obblighi e virtù professionali e poggia in particolare sul principio della responsabilità
personale245.
L’importanza di tale dimensione etico-deontologica, secondo Da Re, è motivata dalla
particolare rilevanza che le attività professionali rivestono, cioè dall’interesse pubblico
che hanno le funzioni esercitate: la salute nel caso del medico, l’informazione per il
giornalista, la difesa dei diritti per l’avvocato, ecc. A ragione di tale rilevanza, queste
attività sono soggette ad un doppio sistema di disciplina e di controllo: quello esterno,
dettato dalle norme del diritto civile, e quello interno, prescritto dal codice deontologico.
Mentre il primo si fonda sulla presunzione di simmetria nel rapporto contrattuale tra
professionista e cliente, il secondo assume e regola invece l’asimmetria, che di fatto si
viene a creare quando una persona affida nelle mani di un “esperto” un bene così prezioso
come la salute o come la propria libertà personale.
Il codice deontologico, cioè quel complesso coordinato di regole di condotta, di norme
deontiche (che si devono osservare, che sono obbligatorie) attinenti ad una determinata
243
Ibidem. L’Autore si riferisce in particolare a Talcott Parsons e Ernest Greenwood.
Da Re A., Vita professionale ed etica, in Semplici S., (a cura di), Il mercato giusto e l'etica della
società civile, Milano, Vita e Pensiero, 2005, p. 97.
245
Brezinka W. (1992), Morale ed educazione, cit., pp. 162-163.
244
100
professione, rappresenta, quindi, una sorta di bilanciamento di questa relazione
asimmetrica, ponendo come contrappeso alla parte che ha più potere – il professionista –
una responsabilità e un sistema di controllo aggiuntivi.
Remo Danovi sottolinea la natura giuridica delle norme deontologiche, che assumono per
le professioni legalmente riconosciute un proprio rilievo all’interno dell’ordinamento
giuridico246. La giuridicità delle norme deontologiche è confermata peraltro
dall’applicabilità di sanzioni disciplinari, che hanno rilevanza giuridica, da parte degli
organi professionali, nonché dal riferimento che ad esse viene fatto anche in sede di
giurisdizione ordinaria, per valutare la diligenza professionale all’interno dei rapporti
contrattuali.
Vantare un proprio codice deontologico può rispondere in qualche modo al bisogno di
avere un “bollino blu”, come una sorta di certificazione di qualità ISO, ma certamente ciò
non può bastare per l’esercizio moralmente responsabile di una professione247.
La deontologia, così come le norme del diritto positivo, infatti, sarebbero per Da Re,
requisiti necessari ma non sufficienti per un buon professionista. Infatti,
«un professionista, affidandosi alla guida del diritto e della deontologia, può
individuare con sufficiente chiarezza quelli che sono gli obblighi e le responsabilità
alle quali dovrebbe attenersi nell’esercizio della sua attività. […] E tuttavia,
nell’esperienza professionale, quando si tratti di stabilire concretamente quali siano
le decisioni e i comportamenti più consoni da adottare, sorgono a volte degli
interrogativi e dei veri e propri dilemmi, che non sembrano trovare un’adeguata
risposta nella deontologia professionale e tanto meno nel sistema giuridico» 248.
Questa inadeguatezza è legata proprio alla natura normativa dei precetti giuridici e
deontologici e quindi al loro carattere di generalità ed astrattezza, nel rispetto del quale
essi non possono chiaramente prevedere e disciplinare ogni possibile situazione.
Si pensi all’obbligo del segreto professionale, previsto dal diritto e che trova ulteriori
specificazione e articolazione nei diversi codici deontologici, i quali però non riescono
neanch’essi a declinare l’infinita variabilità dei casi e delle circostanze che possono
imporre una limitazione a tale obbligo. È questo un terreno su cui solo la riflessione etica,
con il suo strumentario concettuale, può inoltrarsi.
246
Danovi R., Codici deontologici, Milano, Egea, 2000, p. 7.
Si veda al riguardo anche Benetton M. (2010), Costruire le competenze etico-deontologiche, in Xodo
C., Benetton M., a cura di (2010), Che cos’è la competenza? Costrutti epistemologici, pedagogici e
deontologici, cit., p. 145.
248
Da Re A., Vita professionale ed etica, cit., p. 112.
247
101
Un secondo argomento, che mette in luce la parzialità e l’inadeguatezza di una visione
solamente di tipo giuridico-deontologico rispetto alla complessità dell’esperienza
professionale, è dato dalla riflessione sul fatto che a volte i problemi in cui si imbatte il
professionista trascendono il rapporto duale (asimmetrico) tra lui e il cliente, investendo
anche competenze e responsabilità che, non di rado, travalicano i confini della singola
professionalità. È questo il caso, ad esempio, delle tematiche che attengono alla bioetica o
all’etica economica o a quella ambientale, che sarebbe estremamente riduttivo
rinchiudere all’interno del recinto di una deontologia professionale, e che perciò vengono
opportunamente affrontate mediante la costituzione di “comitati etici”, nei quali sono
rappresentate diverse competenze e diverse professionalità.249
I limiti di una visione strettamente giuridico-deontologico si manifestano soprattutto
nell’incapacità di cogliere la dimensione vitale di una pratica professionale, la
dimensione del senso (il senso dell’uomo, il senso di ciò che fa e il senso del suo
esistere), che è propriamente etica:
«rientra a pieno titolo in questa dimensione anche il riflettere, da parte dei
professionisti, sulla qualità della propria prestazione, e di seguito il porsi alcuni
interrogativi squisitamente morali, che spaziano dalle domande originarie sul senso
e sul valore della propria attività, alle domande su come agire in condizioni
problematiche e moralmente conflittuali»250.
A fianco della deontologia professionale trova legittimamente spazio, quindi, l’etica
professionale, che anzi la giustifica e la concretizza, inquadrandola in un orizzonte di
senso.
Richiamandosi alle riflessioni svolte da Alasdair MacIntyre 251 e riprendendo la
terminologia aristotelica, Da Re inquadra le attività professionali come praxis.
L’esercizio di una professione, infatti, pur prevedendo abilità tecniche, si sostanzia in
qualcosa di molto superiore rispetto alla produzione tecnica (poiesis), ossia in quello che
è appunto la praxis, il cui fine non è esterno (fare qualcosa) ma interno all’uomo
(agire)252.
249
Ibidem.
Ivi, p. 98.
251
MacIntyre A. (1981), After Virtue, trad. it. Dopo la virtù. Saggio di teoria morale, Milano, Feltrinelli,
1988.
252
Da Re A., Vita professionale ed etica, cit., p. 101.
250
102
Nell’accedere all’esercizio di una pratica professionale, come ad esempio la pratica
medica, un individuo può acquisire i “beni esterni” 253 che tale professione in genere
comporta: denaro, successo, prestigio sociale, ecc. Ma egli partecipa anche dei “beni
interni”, che sono i valori specifici di quella stessa professione esprime e che risultano per
loro natura – a differenza dei “beni esterni” – beni comuni e inclusivi, nel senso che
arricchiscono non solo l’individuo ma l’intera comunità professionale.
Esercitare una pratica professionale significa, infatti, inserirsi inevitabilmente in un
determinato contesto socio-culturale, prendere cioè parte ad una comunità di
professionisti, con la sua identità, la sua storia, le sue tradizioni, le sue norme, ecc. La
pratica professionale quindi trascende la concreta individualità dei singoli professionisti,
ciascuno dei quali ne proporrà una propria personale interpretazione.
«Tale diversità appartiene alla realtà stessa della pratica professionale così come
nell’esecuzione della Nona Sinfonia di Beethoven si può dare una pluralità di
interpretazioni, ciascuna delle quali è in qualche misura legittima» 254.
In realtà, il fatto che non vi sia un’unica interpretazione legittima della pratica, bensì una
pluralità virtualmente infinita, non significa che tutte queste modalità di esercizio della
pratica siano ugualmente valide. Il problema è però che non risulta per niente agevole
definire il discrimine tra un’interpretazione corretta, anche se ardita, ed un travisamento
della pratica, posto, inoltre, che tale confine può mutare nel tempo e in funzione delle
diverse circostanze e situazioni. Per tale ragione viene postulata l’autoregolazione da
parte di chi aderisce alla comunità di pratica, il quale certamente più di altri dispone degli
strumenti idonei a tale valutazione. Valutazione ovviamente che mantiene come costante
punto di riferimento i “beni interni” della pratica professionale, che sono ciò che viene
spesso smarrito nelle “cattive pratiche”. È il caso, ad esempio, del “free rider”, cioè del
professionista che sfrutta il contributo degli altri rifiutandosi di fornire il proprio,
impoverendo tutti, quindi anche se stesso255.
Cruciale rispetto alla dimensione etica della pratica professionale, risulta essere, per Da
Re, il concetto aristotelico di virtù etiche. Secondo la lezione aristotelica, esse
rappresentano delle qualità umane, acquisite attraverso l’abitudine (dall’etimologia greca,
253
L’autore traduce letteralmente il vocabolo inglese “goods” con il termine “beni” e non “valori”, come
riportato nella versione italiana del testo di MacIntyre A., After Virtue, cit. Cfr. Da Re A., Vita
professionale ed etica, cit., nota n. 6, p. 99.
254
Da Re A. (2005), Vita professionale ed etica, cit., p. 104.
255
Cfr. D’Andrea Th., MacIntyre e il problema della pratica malvagia, in Da Re A., De Anna G. (a cura
di), Virtù, natura e normatività, Padova, Il Poligrafico, 2004, come citato da Da Re A., Vita
professionale ed etica, cit., p. 107.
103
éthos). Non sono doti naturali, anche se per natura l’uomo viene fornito della capacità di
coltivarle e farle “fiorire”256, sviluppando un carattere morale. Le virtù sono disposizioni
in base alle quali ci atteggiamo positivamente di fronte alle passioni; al contrario, i vizi
sono disposizioni in base alle quali ci atteggiamo negativamente. Le virtù etiche stanno
nel giusto mezzo, i vizi agli estremi, siano essi per eccesso che per difetto. Pensiamo ad
esempio alla virtù del coraggio, fondamentale per professioni d’azione, come quella del
soldato, ma anche quella dell’insegnante o del manager sociale. Non è il singolo atto di
coraggio che rende coraggioso (e quindi virtuoso) quel professionista, ma l’abitudine
consolidata ad agire con coraggio nelle difficili situazioni che si presentano nel corso
della sua pratica professionale. Il coraggio non sta nel non provare la paura, ma nel
reagire in modo positivo, non per difetto – e quindi non comportandosi in modo vile – ma
neppure per eccesso, dimostrando temerarietà e sconsideratezza.
La prospettiva delle virtù (aretaica) punta quindi l’attenzione non tanto sulle regole e
sulle norme, quanto piuttosto sulla personalità del soggetto morale: allorquando questi
verrà a trovarsi di fronte a problemi o a dilemmi morali, egli potrà risolverli più o meno
agevolmente, facendo affidamento sulle virtù che avrà saputo coltivare nel tempo.
L’abitudine virtuosa pone il soggetto non solo nelle condizioni (potere) ma anche nella
disposizione d’animo di scegliere (volere) il bene, in quanto essa contiene in sé anche una
componente motivazionale, cosa che una morale fondata solo su regole e norme
deontologiche di per sé non ha.
«Le regole, le norme non bastano; anche le regole del codice deontologico, pur
importanti, rimangono vuote se non traggono alimento da significati e motivazioni
adeguati. La cura del soggetto, dei tratti virtuosi del carattere, è indispensabile per
poter rendere effettive le regole»257.
L’esercizio delle virtù etiche rappresenta la strada attraverso cui il professionista
attualizza il proprio ideale professionale, cioè diventa il medico, l’insegnante, l’operatore
sociale, il manager che vuole essere. Esse sono anche lo strumento mediante il quale egli
riesce a raggiungere i beni che sono interni alla pratica.
Se è vero che le virtù vengono evocate e si sviluppano attraverso l’abitudine, all’interno
della praxis, allora possiamo ritenere che le diverse pratiche, le diverse professioni,
richiedano/sviluppino virtù differenti. Ciò è quanto si sostiene quando si parla di virtù
256
Il concetto di fioritura delle virtù mutua l’espresso inglese flourishing, cara al filosofo scozzese, cfr.
MacIntyre A., After Virtue, cit.
257
Da Re A., Il professionista tra deontologia ed etica, cit., p. 427.
104
interne alla pratica. Questo concetto può venire ben spiegato portando l’empio di due
professioni giuridiche: il giudice e l’avvocato. Entrambe le pratiche professionali hanno
come riferimento costitutivo il medesimo bene interno, che è la giustizia. Per la loro
diversità, tuttavia, tali ruoli si differenziano per alcune virtù specifiche: al giudice è
richiesta la virtù dell’imparzialità, che dovrà perfezionare essendo egli tenuto a trattare
tutti in maniera equanime; l’imparzialità non rappresenta invece una virtù per l’avvocato,
cui si chiede al contrario di porre al centro della propria azione gli interessi del proprio
assistito258.
Esistono delle virtù comuni, che sono richieste e che devono essere sviluppate all’interno
di tutte le pratiche professionali, come la competenza, la responsabilità e soprattutto la
saggezza pratica, cioè la phronesis aristotelica, virtù dianoetica259 della pratica per
eccellenza.
«È il phronimos, ovvero l’uomo saggio, colui che sa ben deliberare nella
concretezza delle situazioni, è il medico saggio, l’avvocato saggio e via dicendo,
che all’interno delle rispettive pratiche sanno interpretare al meglio il significato
della propria esperienza professionale e che dispongono delle risorse necessarie per
affrontare situazioni difficili e complesse» 260.
La saggezza pratica è la virtù che unisce la conoscenza dell’universale con quella del
particolare e da cui dipendono anche le altre virtù interne. La saggezza è, ad esempio,
quella facoltà che ci permette di discriminare, nella situazione concreta, l’atto di coraggio
da quello velleitario e che ci aiuta a discernere la scelta più giusta nei dilemmi che si
possono incontrare nella vita, come ad esempio quello rappresentato da Dietrich
Bonhoeffer in Resistenza e Resa.
«Mi sono chiesto spesse volte dove passi il confine tra la necessaria resistenza e
l’altrettanto necessaria resa davanti al “destino”. Don Chisciotte è il simbolo della
resistenza portata avanti fino al nonsenso, anzi alla follia […]; Sancho Panza è il
rappresentante di quanti si adattano, paghi e con furbizia, a ciò che è dato. Credo
che dobbiamo effettivamente por mano a cose grandi e particolari, e fare però
258
Ibidem. L’Autore qui va riferimento all’opera di MacIntyre A., After Virtue, cit. In merito al dibattito
sulla “moralità dei ruoli” e la contrapposizione tra “tesi separatista” e la concezione di un’etica generale
delle professioni si veda, inoltre Da Re A., Vita professionale ed etica, cit., p. 116 e Canto-Sperber M.,
Ogien R. (2004), La philosophie morale, trad. it. La filosofia morale, Bologna, Il Mulino, 2006 pp. 9192.
259
Le virtù dianoetiche (dal greco dìa nous, cioè attraverso la mente), quali la sapienza (sophia) e la
saggezza pratica (phronesis) per Aristotele afferiscono all’anima razionale, non sono soggette al
principio di moderazione e non si sviluppano con l’esperienza ma mediante lo studio e l’esercizio.
260
Da Re A., Vita professionale ed etica, cit., p. 116.
105
contemporaneamente ciò che è ovvio e necessario in generale; dobbiamo affrontare
decisamente il “destino” […] e sottometterci ad esso al momento opportuno» 261.
Il concetto di virtù rappresenta un importante snodo per comprendere la natura dell’etica
che non può ridursi ad un complesso di conoscenze (di norme, di regole, di valori, ecc.),
ma costituisce, come afferma Xodo, una vera e propria competenza.
«La competenza etica, alla maniera di ogni altra competenza, coincide non solo con
conoscenza, ma con un processo di apprendimento che trasforma il sapere oggettivo
in un modo di essere del soggetto»262.
Formare una competenza etica significa cioè acquisire innanzitutto conoscenze (sapere),
ma significa anche sviluppare abilità (il saper fare, legato appunto alle virtù) che da
habitus diventi un modo d’essere per la persona, al punto da caratterizzarne l’identità
(saper essere).
Elio Damiano intende la competenza etica come una “competenza trasversale” assai
complessa, che si compone tra le altre cose della capacità di discernere i valori in gioco
nelle scelte, grandi e piccole, che si devono assumere nel contesto quotidiano,
formulando giudizi morali a cui conformare le proprie azioni, ma anche la capacità di
“dire”, cioè di argomentare tali scelte263.
Tale competenza, però, non può essere una competenza professionale come le altre: essa
rappresenta il “principio integratore” dell’esperienza professionale, dato che riesce a
coniugare teoria e pratica, razionalità tecnica e pensiero riflessivo, “dover essere” della
professione e “saper essere” del professionista264.
La competenza etica, intesa come pensiero critico che accompagna l’azione e che genera
se stessa nel dialettico suo porsi di fronte all’esperienza, è più in generale una
metacompetenza, sia nel senso che è una competenza che crea altre competenze, come
l’apprendere ad apprendere, sia nel senso che è qualcosa che sta “oltre” la competenza,
261
262
263
264
Bonhoeffer D. (1970), Widerstand und Ergebung. Briefe und Aufzeichnungen aus der Haft, trad. it.
Resistenza e resa. Lettere e scritti dal carcere, Cinisello Balsamo, Mi, Edizioni Paoline, 1988, p. 289.
Xodo C., L’occhio del cuore. Pedagogia della competenza etica, cit., p. 232. Si veda anche Porcarelli
A. (a cura di), Formare per competenze. Strategie e buone prassi, Lecce, Pensa Multimedia, 2010, p.
118.
Damiano E., L’insegnante etico. Saggio sull’insegnamento come professione sociale, Assisi, Cittadella,
2007, pp. 321-322. Il concetto di “competenza trasversale” viene mutuato da Rey B. (1996), Les
compétence trasversales en question, trad. it. Ripensare le competenze trasversali, Milano, Franco
Angeli, 2003. Si veda anche Damiano E., La competenza etica degli insegnanti, in Xodo C., Benetton
M., (a cura di), Che cos’è la competenza? Costrutti epistemologici, pedagogici e deontologici, cit. pp.
151-161.
Damiano E., L’insegnante etico. Saggio sull’insegnamento come professione sociale, cit. p. 326.
106
che la qualifica e in qualche modo ci permette di definire come competenza ciò che
chiamiamo competenza. Non si può, infatti, parlare di prestazione eccellente senza
rispondere, anche implicitamente, alla domanda: “Eccellente rispetto a che cosa?”. È in
ultima analisi l’etica, con il suo portato assiologico, che permette di valutare, cioè
appunto dare un “valore” alla prestazione, alla competenza che esprimo con la mia
prestazione e, più in generale, alla pratica in cui tale prestazione si inserisce.
Abbiamo bisogno dell’etica, come ci avverte Da Re, per distinguere le pratiche buone,
come la cura nei confronti degli altri, da quelle malvagie, come ad esempio la tortura o lo
sterminio di massa265. Pensiamo ad esempio alle “fabbriche della morte” che ha saputo
creare la follia nazista, approntando un imponente apparato organizzativo, impiegando
tecnologie all’avanguardia, attuando strategie sofisticate di manipolazione delle
coscienze, ecc.266. Certamente possiamo parlare in tal caso di efficienza, ma come
potremmo parlare di vera competenza, quando saperi e tecniche sono orientati a finalità
così disumanizzanti?
Ma anche la pratica buona in sé ha bisogno dell’etica per non perdersi e chi opera
all’interno di tale pratica deve confrontare la propria competenza con questo metro di
misura. La pratica, infatti, se viene lasciata a se stessa, se non è guidata dalla competenza
etica, è fortemente esposta al rischio di smarrire il proprio senso, imboccando
l’inesorabile deriva della “tecnicizzazione”.
265
266
Cfr. Da Re A., Vita professionale ed etica, cit., pp. 120-122.
Il riferimento qui va alle acute e sconvolgenti pagine scritte al riguardo da Arendt H., La banalità del
male, cit.
107
4
La figura del manager
Quando ho più idee degli altri,
do agli altri queste idee,
se le accettano;
questo è comandare.
Italo Calvino
4.1
Le funzioni del manager
L’autore che per primo ha sviluppato in modo sistematico il tema del management e delle
sue funzioni è Chester Barnard267. La sua riflessione si colloca storicamente nel periodo –
i primi decenni del ’900 – in cui inizia ad affermarsi la figura del manager professionale
in modo distinto e, a volte, in qualche misura anche contrapposto alla proprietà. Su questa
distinzione e sulla dialettica tra manager e proprietario/azionista si sviluppa la sua visione
cooperativistica dell’organizzazione aziendale e la stessa fondazione etica della funzione
dirigenziale. Giovanni Bonazzi, a questo proposito, sostiene che:
«in contrasto con chi ritiene che per comandare occorrano spregiudicatezza e
cinismo, Barnard sottolinea che le doti di comando consistono in una complessità
morale e in un senso si responsabilità superiore alla media» 268.
Barnard tratteggia un identikit di un “dirigente in grigio” 269, un manager che dispone di
forti capacità di mediazione, alla ricerca del consenso e dell’accordo, piuttosto che un
autocrate e un risoluto decisionista. Proprio per “essere in mezzo”, per doversi cioè
equilibrare fra proprietà e dipendenti, il dirigente ricerca una sua legittimazione e la trova
proprio nel perseguimento dei fini organizzativi, distinti dai moventi personali dei vari
soggetti che fanno parte dell’organizzazione.
«La raffinata arte di decisione del dirigente consiste nel non decidere
problemi che non siano rilevanti ora, nel non decidere prematuramente, nel
267
Barnard C. (1938), The functions of the executive, trad. it. Le funzioni del dirigente. Organizzazione e
direzione, Torino, Utet, 1948.
268
Bonazzi G., Storia del pensiero organizzativo, Milano, Franco Angeli, 2000, p. 93.
269
Espressione mutuata da Bonazzi G., Storia del pensiero organizzativo, cit., p. 92.
108
non prendere decisioni che non possano essere prese efficacemente e nel non
prendere decisioni che altri potrebbero prendere»270.
Le funzioni dirigenziali, per Barnard, sono principalmente tre:
-
garantire il funzionamento efficace ed efficiente del sistema di comunicazioni
all’interno dell’organizzazione e con l’esterno;
-
provvedere al reperimento delle
risorse necessarie per il funzionamento
dell’organizzazione, intese come risorse strumentali, umane e finanziarie;
-
individuare i fini dell’organizzazione e orientare l’azione aziendale non in modo
soggettivo e velleitario, ma in stretta relazione con quanto emerge dall’interno del
sistema cooperativo.
Poiché, quindi, le decisioni devono nascere da processi complessi e sistemici, nella
caratterizzazione della “personalità dirigenziale” non prevalgono aspetti di decision
making, quanto piuttosto quelli comunicativi e di mediazione.
La questione della funzione dirigenziale viene affrontata da Henry Mintzberg in maniera
più pragmatica, andando ad analizzare la pluralità dei ruoli in cui si articola tale
funzione271.
I ruoli interpretati dal dirigente all’interno di un’organizzazione, secondo Mintzberg,
possono essere catalogati in tre grandi macro-categorie:
a.
ruoli interpersonali, in particolare il ruolo di riferimento simbolico per i propri
collaboratori, il ruolo di leader nell’assumere la responsabilità rispetto al lavoro
dei subordinati e nel conciliare finalità e bisogni dell’organizzazione con le
finalità e i bisogni dei singoli, ed infine il ruolo di collegamento intraorganizzativo
e con l’esterno;
b.
ruoli informativi, come il ruolo di monitor nella raccolta e catalogazione delle
informazioni, il ruolo di disseminatore di tali informazioni a quanti ne abbiano
270
271
Barnard C., Le funzioni del dirigente, cit., p. 174.
Mintzberg H., The structuring of organizations, Englewood Cliffs, Prentice-Hall, 1979. Il concetto di
ruolo, che va ben distinto da quello di posizione, risulta centrale nel discorso sul management. A
questo riguardo Cesare Kaneklin precisa che: “La posizione è una categoria o collocazione in un
sistema di classificazione sociale più o meno formalmente riconosciuto da una organizzazione sociale.
Essa è descritta in termini di contributo che deve fornire agli obiettivi organizzativi. Il ruolo è invece
l’insieme dei bisogni, scopi, convincimenti, sentimenti, atteggiamenti, valori ed azioni che i membri di
una comunità si attendono che caratterizzi l’occupante tipico di una posizione. Quando un individuo
assume un ruolo all’interno di una organizzazione ha necessità quindi di cogliere non solo il sistema di
diritti e doveri che caratterizzano la posizione alla quale il ruolo è associato, ma anche di cogliere
quegli attributi di ruolo che vengono solo dalla lettura della realtà specifica in cui interviene.” Kaneklin
C., Leadership, autorità e potere, in Bontadini P. (a cura di), Manuale di organizzazione, Milano,
Isedi, 1978, pp. 14-10.
109
utilità e il ruolo di portavoce, nel diffondere informazioni e richieste all’esterno
della propria unità di comando:
c.
ruoli decisionali, come il ruolo di innovatore, nel promuovere il continuo
cambiamento reso necessario dal mutare delle condizioni interne ed esterne, il
ruolo di assorbimento di eventuali fattori destabilizzanti, il ruolo di allocatore
delle risorse, dei carichi di lavoro e degli incentivi e il ruolo di negoziatore, inteso
come mediatore dei conflitti e promotore del consenso.
L’articolazione della funzione dirigenziale in più ruoli ben si concilia con una visione del
management non di tipo indistinto e accentrato, ma differenziato e diffuso lungo tutta la
struttura organizzativa.
La distribuzione del potere all’interno delle organizzazioni, poi, non è mai omogenea. Vi
possono essere organizzazioni in cui il potere è concentrato nel vertice aziendale (top
organizations) e organizzazioni in cui è diffuso su tutta la linea gerarchica (line
organizations), dove si possono originare conflitti e lacerazioni. Vi è, infine, una
tipologia di organizzazioni – rank organizations – in cui il potere è detenuto dalle
posizioni gerarchiche intermedie. È il caso, ad esempio, di alcune burocrazie
professionali, in cui viene assegnata un’importanza centrale alle competenze scientifiche
e culturali, anche se nell’organigramma dell’ente possono essere formalmente
subordinate agli organi amministrativi.
L’assunzione dei ruoli dirigenziali può poi avvenire in termini formali, esplicitamente
previsti e ufficialmente riconosciuti, o in termini sostanziali.
Questo può essere visto, in modo particolare, nel ruolo di leadership, ossia nell’esercizio
del potere di influenzare e motivare le persone.
Amitai Etzioni272 sostiene che vi sono due distinte fonti di legittimazione di tale potere: il
ruolo formale, ricoperto all’interno del sistema gerarchico, e le qualità personali del
leader. I due fondamenti, ufficiale e personale, possono ritrovarsi nello stesso individuo o
generare due strutture parallele di leadership, che potranno confliggere fra di loro come
pure convivere senza grossi problemi, spartendosi gli ambiti di competenza. È il caso, ad
esempio, di organizzazioni coercitive come le carceri, in cui c’è un livello di potere
gestito dal direttore, dai funzionari e dai secondini, legato a norme e regolamenti, ed un
altro livello di potere, interno al gruppo degli stessi detenuti, legato a caratteristiche
personali, a codici informali e a sottoculture organizzative. Generalmente i due ambiti si
tollerano e addirittura spesso si legittimano vicendevolmente.
272
Etzioni A., Complex organizations, New York, Free Press, 1961.
110
Secondo Etzioni, nelle organizzazioni di tipo normativo, proprio per la partecipazione
volontaria da parte dei membri e per la forte connotazione ideale che le pervadono, le due
fonti di legittimazione tendono ad integrarsi nella stessa élite formale. Questo grazie
anche al fatto che il carisma, qualità propria del leader, non è secondo questo Autoreuna
dote straordinaria e innata, come la intendeva Weber – Autore su cui ci si soffermerà
oltre – ma è una caratteristica che può essere in una certa misura acquisita, con
l’esperienza, all’interno della stessa organizzazione.
Etzioni individua due tipologie di leadership: strumentale, ossia rivolta al dominio delle
tecniche e delle procedure, ed espressiva, volta cioè ad influenzare il sistema dei valori,
degli ideali e delle convinzioni morali. Fra queste, quella espressiva è senz’altro la più
caratteristica del vero leader e quella che si accompagna al concetto di carisma.
La distinzione e i rapporti fra i concetti di management e di leadership non risultano
avere, però, una definizione univoca.
Nel pensiero di Philip Selznick, ad esempio, il concetto di leadership assume
un’accezione in parte diversa: è sempre una funzione che viene svolta dal manager e che
può
essere
assunta
informalmente
anche
da
altre
persone,
che
all’interno
dell’organizzazione non sono investite ufficialmente di particolari incarichi. Si tratta però
di una funzione di tipo “politico”, che ha a che fare non tanto con la più efficace ed
efficiente gestione tecnica aziendale, quanto piuttosto con i rapporti esterni, con il lavoro
di governance, con processi di cooptazione, ecc.
Il leader è colui il quale riesce a “trasformare un gruppo neutrale di individui in un
sistema politico impegnato”273.
Per Selznick la leadership non è necessaria: un’organizzazione può vivere ugualmente
con dirigenti che non sono dei veri leader, limitandosi ad una semplice sopravvivenza
adattiva alla realtà circostante.
La leadership è una attività creativa, ha a che vedere con decisioni critiche e fa assumere
all’organizzazione il ruolo di istituzione, di soggetto attivo, artefice dei cambiamenti del
contesto.
Le funzioni della leadership, secondo Selznick, sono quattro:
a.
273
definizione della missione e del ruolo dell’istituzione;
Selznick P. (1957), Leadership in administration. A sociological interpretation, trad.it. La leadership
nelle organizzazioni”, Milano, Franco Angeli, 1976, p. 89.
111
b.
incorporazione istituzionale dello scopo, cioè far sì che gli obiettivi
dell’istituzione vengano compresi e interiorizzati dai membri e influenzino modi
di agire e di pensare;
c.
difesa dell’integrità dell’istituzione, dei suoi valori e della sua identità;
d.
composizione dei conflitti interni, attraverso la mediazione e la ricerca del
consenso.
4.2
Esercizio del potere e disposizione all’obbedienza
Il rapporto fra manager e organizzazione è certamente complesso e si presta a diversi
piani di lettura. Uno di questi è certamente quello che si potrebbe definire “legame
gerarchico”, all’interno del quale viene riconosciuta al manager la prerogativa di dirigere
il lavoro delle persone che da lui dipendono.
L’esigenza di “far lavorare”, di controllare le prestazioni e la produttività, di ottenere
dagli operai la “giusta giornata di lavoro” è, del resto, l’elemento centrale del Taylorismo,
così come delle teorie post-fordiste.
La questione della gerarchia, rispetto all’esercizio legale del potere, assume un ruolo
centrale anche nel pensiero di Max Weber e negli studi che l’hanno seguito.
Esistono, per Weber, tre tipi ideali di potere legittimo: il potere carismatico, legato alla
personalità del leader e destinato a morire con lui, il potere tradizionale (di tipo
patrimoniale o feudale), caratteristico delle società premoderne, e il potere legale, che si
basa sul principio di equità delle leggi274.
La dinamica dell’autorità, del potere, è un tratto fondamentale nella costruzione teorica di
Weber: il complesso “castello” di norme e regolamenti costruito dalla burocrazia è lo
strumento attraverso il quale si esercita il potere, ma, al tempo stesso, il sistema attraverso
il quale ci si difende dal potere, lo si argina e contiene, attraverso la creazione di vincoli e
di contropoteri. La stessa funzione delle leggi e dei regolamenti è, da un lato, di difesa dai
possibili arbitri di chi è sovraordinato, ma è anche un espediente per spersonalizzare il
rapporto di potere, nascondendolo dietro la neutralità affettiva – sine ira et studio – di
disposizioni generali e astratte.
Il presupposto implicito è che l’esercizio del potere rappresenta un elemento necessario
per un’organizzazione, ma estremamente delicato, irriducibilmente conflittuale,
potenzialmente distruttivo.
274
Weber M. (1922) Wirtschaft und gesellschaft, trad. it. Economia e società, Milano, Comunità, 1961,
pp. 55-68.
112
«Il potere è la base della dinamica sociale degli individui tra loro, dei gruppi tra di
loro: esso è invisibile così come è invisibile la forza di gravità esistente nei corpi
che tendono al basso senza che si possa vedere la forza che li spinge» 275.
È qualcosa dal quale ci si deve anche difendere e molti aspetti della burocrazia (il
formalismo, la rigidità, la spersonalizzazione dei rapporti, ecc.) si spiegano appunto con
l’esigenza, da parte dei burocrati, di gestire questo “materiale pericoloso”.
Weber fa notare, ad esempio, come questo “gioco di potere” si avvantaggi spesso di
asimmetrie cognitive. Questo avviene all’interno dei rapporti gerarchici: il sottoposto può
non trasmettere alcune informazioni importanti al suo superiore o, se messo alle strette,
può occludere la linea gerarchica con una valanga di informazioni inutili.
Ma avviene anche nel rapporto con gli organi politici: il burocrate si può avvantaggiare
del fatto d’essere detentore di una conoscenza specialistica che il politico (specie se alle
prime armi) non ha.
«Un Parlamento male informato, e perciò impotente, è naturalmente gradito alla
burocrazia – nella misura in cui quella ignoranza sia compatibile con i propri
interessi»276.
Weber precisa comunque che questo problema non riguarda solo le democrazie
parlamentari; nei regimi di tipo autoritario, il dispotismo e la corruzione degli apparati
burocratici aumenta anziché diminuire. Egli ritiene semmai che proprio la formazione di
una classe politica professionalizzata assieme agli strumenti di controllo democratico, tra
cui la stampa, sono i maggiori antidoti a questa distorsione del potere legale.
Per comprendere tuttavia il legame gerarchico in chiave “ecologica” non ci si può
fermare al manager, ma bisogna arrivare fino all’ultimo anello della catena di comando,
cioè a chi subisce il potere, analizzando la disposizione ad obbedire e collaborare più che
l’attitudine a comandare.
Lo stesso Weber dà del potere una definizione “rovesciata”, descrivendolo come “la
possibilità per specifici comandi (per qualsiasi comando) di trovare obbedienza da parte
di un determinato gruppo di uomini” 277. È essenziale, quindi, la legittimazione al
comando, la quale per mantenersi nel tempo non può basarsi sulla coercizione, ma deve
trovare altri fondamenti su cui il rapporto di potere riesca a reggersi.
275
Spaltro E., Direzione e delega delle decisioni, in Il Sole 24 Ore, Milano, 25/03/1965, p. 5, come citato
da Kaneklin C., Leadership, autorità e potere, cit., p. 14-4.
276
Weber M., Economia e società, cit., p. 305.
277
Ivi, p. 207.
113
Per Barnard questo fondamento è il punto di equilibrio tra contributi e incentivi, tra costi
e benefici, così come vengono valutati dal lavoratore, a collaborare al perseguimento dei
fini dell’organizzazione. Un punto di equilibrio che varia nel tempo e che dipende da
molti fattori.
Secondo Barnard, l’organizzazione nasce attorno a un obiettivo che è troppo “alto” per le
forze dei singoli (come spostare un grosso masso) e che richiede l’attivazione di un agire
cooperativo. Si devono però tenere distinti i moventi personali di quanti cooperano
all’impresa rispetto ai fini dell’organizzazione:
«ciò che qui è importante non è quello che muovere il masso significa per ciascun
uomo personalmente, bensì quello che egli pensa significhi per l’organizzazione nel
suo complesso. [...] Ciò che ha significato per lui è la relazione fra lui e
l’organizzazione – quali sacrifici gli impone, quali benefici gli assicura» 278.
Il contributo fornito da un membro dell’organizzazione può cioè aumentare o diminuire
all’aumentare o diminuire degli incentivi che ne riceve in cambio o del valore che
soggettivamente attribuisce loro.
Si tratta di gratificazioni materiali, come quelle di tipo monetario o come le condizioni
fisiche generali del posto di lavoro, e di gratificazioni non materiali, fondate sulla
dimensione morale dell’agire cooperativo.
Queste ultime sono per Barnard fondamentali:
«Secondo me, quando le necessità minime sono soddisfatte, la pura forza degli
incentivi materiali è per la maggior parte degli uomini estremamente debole e un
suo aumento dipende quasi interamente dalla persuasione. [...] Anche in
organizzazioni strettamente economiche, in cui meno si suppone sia vero, il denaro
senza distinzione, prestigio, posizione, è così chiaramente inefficace che è raro che
si possa anche temporaneamente usare come stimolo un maggiore guadagno se
accompagnato da perdita di prestigio»279.
È una conclusione a cui erano pervenuti anche Elton Mayo e la sua Scuola delle
Relazioni Umane negli anni ’20-’30, notando che l’aumento della produttività delle
operaie negli stabilimenti di Hawthorne della Western Electric non dipendeva da fattori
ambientali (come la maggiore o minore illuminazione), ma dall’essere oggetto di
278
279
Barnard C., Le funzioni del dirigente, cit., pp. 85-86.
Ivi, pp. 132-134.
114
attenzione da parte degli studiosi, dall’integrazione raggiunta dal gruppo e dal tipo di
rapporto instaurato con i supervisori.
Gli studi in questa direzione sono molti ed estremamente interessanti.
Per Abraham Maslow280, ad esempio, questi incentivi, le motivazioni cioè a contribuire in
modo positivo ai fini dell’organizzazione, sono legati al soddisfacimento dei bisogni
personali. Tali bisogni possono essere così articolati:
1. bisogni fisiologici;
2. bisogni di sicurezza;
3. bisogni sociali;
4. bisogni dell’ego;
5. bisogni di autorealizzazione.
Fra questi bisogni esiste una rigida “gerarchia”, in base alla quale, soddisfatto un ordine
di bisogni se ne presentano altri di livello superiore. Questa gerarchia rispecchia
l’evoluzione psicologica dell’individuo e della società, per cui l’organizzazione dovrebbe,
secondo Maslow, modificare gli incentivi che fornisce in base allo stadio evolutivo a cui
è giunto il lavoratore.
Questo percorso di crescita della personalità, secondo Chris Argyris 281, può essere
rappresentato come un passaggio dallo stato di infanzia a quello di maturità. Fenomeni
molto comuni nei contesti organizzativi come apatia, disinteresse, conflittualità
esasperata sono causati proprio dall’incapacità dell’organizzazione di assecondare questa
naturale tensione evolutiva.
Per Frederick Herzberg282, invece, la tensione a sviluppare la propria personalità
nell’ambito lavorativo non è una caratteristica universale, ma è ristretta ad una particolare
categoria di persone, che egli definisce “ricercatori di motivazione”. Si tratta di una
minoranza, che vede nell’organizzazione un ambito in cui può realizzarsi come persona e
non semplicemente come un mezzo per soddisfare i propri bisogni materiali.
Contrariamente all’impostazione gerarchica della piramide dei bisogni di Maslow, i
ricercatori di motivazione possono tollerare dei margini anche notevoli di insoddisfazione
riguardo ad aspetti di ordine materiale.
Pensiamo, ad esempio, a molti operatori dei servizi, sottopagati e socialmente “poco
considerati”, che fanno con soddisfazione un lavoro di grande responsabilità e impegno.
280
Maslow A. (1954), Motivation and personality, trad. it. Motivazione e personalità, Roma, Armando,
2002
281
Argyris C., Personality and organization, New York, Harper, 1957.
282
Herzberg F., The motivation to work, New York, Wiley, 1959.
115
Secondo Herzberg, infatti, soddisfazione e insoddisfazione non rappresentano i poli
estremi di un continuum, come comunemente si crede, ma stanno su due piani differenti.
L’insoddisfazione è legata alla carenza di quelli che Herzberg chiama “fattori igienici”,
come ad esempio un salario basso, elementi di disagio ambientale, ecc.
Se migliorano i fattori igienici diminuisce l’insoddisfazione, ma non per questo aumenta
la soddifazione.
Questa è correlata ad altri fattori, i “fattori di motivazione”, che sono ancorati ai contenuti
stessi del lavoro, cioè alla prerogativa della mansione svolta di:
- stimolare l’ampliamento delle conoscenze professionali e la ricerca continua di nuovi
collegamenti tra le conoscenze già acquisite;
- sviluppare la creatività e il pensiero divergente;
- sperimentare ampi margini di autonomia decisionale;
- favorire la crescita globale dell’individuo come persona.
Come ci spiega Bonazzi, per Herzberg è necessario che il manager nel rapportarsi ai
propri collaboratori tenga conto di questa esigenza di crescita professionale.
«L’obiettivo del nuovo management diventa quello di dare ai ricercatori di
motivazioni mansioni ed incarichi tali da permettere loro di realizzarsi e di
progredire. Un uomo che cessa di progredire continuamente nella sua vita e che non
apprende nulla dal suo lavoro si limita a vegetare ed è psicologicamente “un
moribondo”. Il progresso dei singoli interessati sarà maggiore se le loro
realizzazioni vengono socialmente riconosciute. Ed il miglior riconoscimento è
quello di assegnare ai soggetti compiti nuovi e più complessi e che esigono ancora
più impegno. Il premio più ambito per un lavoro ben fatto – sostiene Herzberg –
non è tanto un aumento retributivo (anche se ovviamente non è da disprezzare…)
ma è il passaggio ad un nuovo lavoro che richiede più talento del primo» 283.
La questione della compliance, ossia della disposizione all’obbedienza da parte dei
membri di un’organizzazione, assume un ruolo centrale nel pensiero di Etzioni 284. Nella
sua impostazione, a differenza di quanto sosteneva Weber, ha scarso peso la
legittimazione o meno del potere; la compliance, può assumere infatti tre diverse
tipologie: quella fondata sulla forza (modello coercitivo), che genera alienazione e
risentimento in chi la subisce, quella fondata su remunerazioni materiali (modello
utilitaristico), che ingenera atteggiamenti opportunistici e ispirati al calcolo personale, ed
283
284
Bonazzi G., Storia del pensiero organizzativo, cit., p. 109.
Etzioni A., Complex organizations, cit.
116
infine quella fondata sulla condivisione di valori etico-culturali interiorizzati dagli
individui (modello normativo), che può indurre comportamenti di forte impegno da parte
dei membri.
Per quanto quest’ultimo sia da preferire in termini generali, Etzioni ritiene preminente
l’analisi della congruenza tra il modello di disposizione all’obbedienza e gli altri aspetti
dell’organizzazione, come le finalità e i vincoli organizzativi.
«Così, ad esempio, alcuni ospedali mentali […] hanno una struttura
compliance/scopi che è incongruente. Ci si attende che mantengano l’ordine (che ad
esempio i ricoverati non possano fuggire né suicidarsi) ma che per fare ciò
ricorrano a mezzi soprattutto normativi […]. Questa incongruenza genera pressioni
ad ottenere e ad aumentare il permesso sociale a usare la coercizione, oppure a
educare il pubblico in modo che sia consentito a quegli ospedali di valutare il
proprio successo non in base alla mancanza di evasioni ma in base alla percentuale
delle guarigioni, cioè ad adattare gli scopi alla struttura della loro compliance» 285.
Quindi, per Etzioni la condivisione dei valori etici dominanti non è un requisito
essenziale per la sopravvivenza di un’organizzazione, ma essenziale è la congruenza tra
fini istituzionali e tipologie di compliance: se le finalità dell’organizzazione sono il
mantenimento dell’ordine, risulta più funzionale il modello coercitivo; se lo scopo è
invece perseguire vantaggi economici, il modello più indicato sarà quello utilitaristico,
mentre se le finalità sono etico-culturali, è preferibile il modello di tipo normativo.
Secondo Daniel McGregor286, esistono due distinte e contrapposte concezioni del
rapporto uomo/lavoro, che sono sottese alle culture aziendali e che orientano gli stili
direzionali.
La prima, che egli chiama “Teoria X”, vede l’uomo come un essere pigro, che se può
evita di lavorare e di assumersi responsabilità; pertanto dev’essere diretto, controllato ed
eventualmente spronato con incentivi economici o con la minaccia di sanzioni. Per la
seconda, la “Teoria Y”, l’uomo invece ha una disponibilità naturale al lavoro, che è, anzi,
uno dei più importanti ambiti in cui egli riesce ad esprimere e sviluppare le proprie
capacità e la propria personalità.
Aderendo a questa seconda visione, McGregor ritiene che il controllo e la minaccia di
punizioni non sono il solo mezzo per indirizzare gli sforzi verso gli obiettivi aziendali e
285
286
Ivi, pp. 334-335.
McGregor D. (1972), The human side of enterprise, trad. it. L'aspetto umano dell'impresa, Milano,
Franco Angeli, 1986.
117
che si dovrebbe invece ricercare e promuovere quella naturale disposizione al lavoro e
alla realizzazione personale.
4.3
Leadership: una questione di stile.
I primi studi sulla leadership erano orientati alla ricerca dei tratti caratteristici che
consentono a un individuo di distinguersi e di assumere una posizione di prestigio e di
comando presso altri, presupponendo che un capo, per essere tale, dovesse essere
investito di particolari doti e qualità superiori a quelle di tutti i suoi “seguaci”.
V’è un’ampia letteratura in questa direzione287, che ha cercato di individuare i fattori
associabili al comando sia in termini di qualità individuali (intelligenza, dialettica,
originalità, autostima, ambizione, ecc.) che come status (livello di istruzione, classe
sociale, censo, popolarità, ecc.).
In realtà è stato osservato come:
«il comando non è uno stato passivo e non è attaccato al solo possesso di una certa
combinazione di tratti. Sembra essere piuttosto un rapporto tra i membri di un
gruppo, in seno al quale il capo ottiene il suo rango, grazie alla sua partecipazione
attiva e dimostrando che egli è capace di condurre in porto dei compiti cooperativi.
Gli aspetti più significativi di questa capacità di organizzare e di facilitare lo sforzo
collettivo sembrano esser l’intelligenza, la sensibilità ai bisogni e alle altrui
motivazioni e la comprensione delle situazioni, rinforzati da atteggiamenti quali
quello di responsabilità, di iniziativa, di perseveranza e di confidenza in sé» 288.
A partire dalla seconda metà del ’900 si afferma un approccio “situazionale” alla
leadership, che punta l’attenzione sulle circostanze sociali, sulle caratteristiche
dell’organizzazione, sulle aspettative e sulle dinamiche dei collaboratori più che sugli
attributi di personalità del capo.
«In questo senso quindi la funzione di leadership, e cioè l’insieme degli atti volti a
consentire al gruppo di raggiungere i suoi obiettivi, è vitale in ogni gruppo anche se
evidentemente il modo secondo il quale ogni gruppo tutela questa funzione può
essere molto diverso, riflettendo gli attributi personali e professionali dei membri,
la natura del gruppo e dei suoi compiti, i vincoli e le opportunità storiche e
287
288
Si veda al riguardo Kaneklin C., Leadership, autorità e potere, cit., p. 14-12.
Stodgil R.M., Personal factors associated with leadership. A survey of litterature, in “Journal of
Psichology”, vol. XXV/1948, come citato da Kaneklin C., Leadership, autorità e potere, cit., p. 14-6.
118
strutturali proprie del contesto in cui il gruppo è inserito. [...] È assurdo parlare di
comando in astratto poiché non è dato un capo senza collaboratori in quanto il
comando è una delle caratteristiche di ogni situazione di gruppo, pena un discorso
atemporale e aspecifico e quindi astratto»289.
Se è vero, poi, che il leader influenza il gregario, è altrettanto vero che lo stesso gregario
agisce una qualche influenza sul leader. Più in generale, si deve ritenere che ogni
componente del gruppo influenzi gli altri. L’immagine che ne esce è quella di una
leadership diffusa, orizzontale, non verticistica.
«Tutti i membri del gruppo sono, almeno in qualche misura, leader. E ciò
è vero semplicemente perché ogni membro, in qualche misura, deve
necessariamente influenzare le attività degli altri membri del gruppo. La
leadership, in altre parole, è una variabile quantitativa e non un elemento
rigido. Per esattezza non dovremmo parlare di leader in contrapposizione
a gregari, ma di una certa misura di leadership investita in determinate
persone, possono essere convenientemente definiti leader quei membri
del gruppo che cospicuamente influenzano il gruppo»290.
Non dobbiamo pensare a modalità di comando valide in astratto; lo stesso stile
direzionale può avere successo in determinate circostanze ed essere fallimentare in altre.
A decretare successo o insuccesso sono la tipologia e le finalità dell’organizzazione,
nonché gli obiettivi e i bisogni dei singoli membri. Ad esempio, uno dei processi attivati
dalle organizzazioni, che corrisponde ad un profondo bisogno di chi vi prende parte, è
quello dell’identificarsi con il leader, contenendo la diversità e l’alterità fra gli individui,
anche a costo di ridurre lo spazio di espressione e di sviluppo dell’identità personale. È
un bisogno che è alla base di ogni relazione capo-collaboratore, che però è presente in
misura disomogenea nei diversi gruppi ed è variabile nel tempo. È chiaro, quindi, che un
capo deve modulare il proprio stile di leadership in funzione di tale differenza e
variabilità.
Una questione che fin dalla fine degli anni ’30 ha avuto largo spazio all’interno degli
studi organizzativi è il rapporto fra il grado di “democraticità” della leadership e il
rendimento aziendale. Il “ciclo d’attenzione” fu avviato da un’interessante ricerca
sperimentale condotta da Kurt Lewin su tre gruppi di studenti universitari dell’Iowa: uno
289
290
Kaneklin C., Leadership, autorità e potere, cit., p. 14-4.
Kreck D., Crytcgfuekd R., Ballachey E., Individuo e società, Firenze, Giunti, 1964, come citato da
Kaneklin C., Leadership, autorità e potere, cit., p. 14-4.
119
condotto con metodi autoritari, uno con metodi permissivi e il terzo con metodi di tipo
democratico e partecipativo. Nell’esperimento di Lewin le migliori performance furono
realizzate da quest’ultimo gruppo291. Una conclusione che ha avuto nei decenni successivi
vari tentativi di conferma empirica, non sempre con esito conforme. Si è cioè visto come
il rendimento non dipenda sempre e solo dal grado di soddisfazione dei dipendenti; dove i
lavori sono ad esempio più semplici e ripetitivi e non c’è alcun modo per modificare la
natura e il grado di autonomia delle mansioni, i migliori risultati si ottengono proprio con
metodi autoritari.
Rensis Likert individua quattro stili di leadership: autoritario-sfruttatorio, paternalistico,
consultivo e partecipativo292. I primi due modelli sono i più indicati nell’ipotesi di lavori
ripetitivi e monotoni. Per quella categoria di mansioni professionali che egli chiama
“lavori variati”, invece, dove c’è un maggior spazio per l’autonomia e la creatività dei
dipendenti, essi riescono a raggiungere alti livelli di performance nel breve periodo, ma
dopo poco la curva del rendimento tende ad appiattirsi e, in alcuni casi, a calare a
vantaggio dei modelli di tipo consultivo e partecipativo.
Secondo Robert Blake e Jane Mouton293, lo stile di leadership può essere rappresentato
come la combinazione di due variabili: l’orientamento alla funzione e l’orientamento alle
persone. Quando il primo è alto e il secondo è basso, lo stile si caratterizzerà come
decisamente autoritario e la motivazione ed il coinvolgimento da parte dei lavoratori
saranno minimi. Ma anche la situazione inversa risulta poco produttiva, dato che gli
sforzi del management saranno rivolti alla conservazione del clima aziendale con un
eccessivo lassismo rispetto ai compiti. Le posizioni in cui un alto orientamento alle
persone si accompagna ad una altrettanto alta tensione verso i risultati, corrispondente a
quello che viene chiamato lo stile partecipativo, rappresentano per questi autori senz’altro
il mix più auspicabile.
La scelta dello stile di leadership, secondo Bernard Bass e Gerald Barrett 294, non può
essere assunta a priori, ma dev’essere fatta in ragione di vari fattori:
-
le caratteristiche individuali dello stesso leader, come i tratti della personalità o come
la formazione e le esperienze pregresse;
291
292
293
294
Riportato da Bonazzi G., Storia del pensiero organizzativo, cit., p. 110, che a sua volta cita come fonte
indiretta White R., Lipett R., Autocracy and Democracy, New York, Harper, 1969.
Likert R. (1967), The human organization: its management and value, trad. it. Il fattore umano nella
organizazione, Milano Esedi, 1971.
Blake R.R., Mouton J.S. (1969), The managerial grid, trad. it. Gli stili di direzione, Milano, Etas
Libri, 1969, pp. 232-233.
Bass B.M., Barrett G.V., People, work and organization, Boston, Allyn and Bacon, 1982, pp. 193195.
120
-
lo stile direzionale e i condizionamenti posti in essere dai superiori o dai pari grado
(effetto “a cascata”);
-
le funzioni da svolgere e il grado di autonomia richiesta ai collaboratori;
-
la maggiore o minore formalizzazione del contesto intra-organizzativo e la maggiore
o minore dinamicità dell’ambiente esterno (mercato);
-
caratteristiche dei subordinati, la loro professionalità, le loro motivazioni, il grado di
conflittualità che esprimono.
Rispetto alle caratteristiche dei subordinati e all’adeguatezza o meno degli stili di
leadership in funzione proprio di tali caratteristiche, è doveroso citare Kenneth
Blanchard295, il quale individua quattro tipologie:
S1: stile direttivo, che è orientato ai risultati e lascia poco spazio all’autonomia
personale o ai rapporti umani;
S2: stile moderatamente amichevole, che presta ancora attenzione ai risultati, ma lascia
spazio al valore dei rapporti umani;
S3: stile amichevole, in cui l’attenzione ai risultati e alle capacità professionali è bassa,
mentre è alta l’attenzione al clima del gruppo e al sostegno emotivo dei
collaboratori;
S4: stile della delega, in cui il leader “molla la presa” sul gruppo, lasciando che
cammini in autonomia.
Anche secondo questa prospettiva non esiste un modello valido in astratto, ma la validità
dipende dall’adeguatezza rispetto alla situazione – leadership situazionale – e in
particolare in relazione al grado di maturità dei collaboratori. Così, lo stile S1 sarà
richiesto quando i collaboratori dispongono di scarsa esperienza, di bassi livelli di
motivazione e di poche competenze. Man mano che queste aumentano, verrebbe
progressivamente meno la necessità della direzione e del sostegno e si renderebbe
necessario passare ad altri stili direzionali (S2, S3 e S4).
4.4 Le competenze del manager
295
Blanchard K. (1997), Managing by values, trad. it. Il Manager etico, Milano, Sperlign&Kupfer, 1998.
121
Esiste una sterminata letteratura sul tema del management, in particolare quello
aziendale, e in merito alle caratteristiche, alle conoscenze e alle abilità del manager.
Si tratta, per la maggior parte, di manuali con uno spiccato taglio prescrittivo, che
indicano supposti “sapere, saper fare e saper essere” del capo. Una produzione
editoriale, che segue l’estrema dinamicità del mercato delle teorie, dei servizi di
consulenza e di formazione aziendale e le mode che attraversano questo mercato.
La domanda a cui rispondono è legata a un’esigenza di sviluppo delle risorse umane
impiegate in ruoli direttivi, ma anche di valutazione e di incentivazione retributiva.
Marco Fertonani1 fa osservare come si è passati negli ultimi due decenni da sistemi
valutativi incentrati sulla posizione, sulle prestazioni e sul potenziale (la “regola delle
tre P”) a sistemi che prendono in considerazione un concetto più complesso e
articolato: le competenze.
«Nella sua formulazione più recente – che in qualche misura si discosta
dall’impostazione originaria di McClelland, Boyatzis e Spencer – le competenze
diventano un modo di estrinsecazione a livello umano della vision e della mission
aziendale. In altre parole, ciascuna azienda, quale conseguenza dell’elaborazione
dei valori fondamentali che devono improntare l’organizzazione, sia come
impostazione generale (vision), sia come strategia di attuazione di questi valori
(mission), definisce quelle che vengono appunto chiamate, con un termine ormai
entrato nell’uso corrente le “core competencies”, cioè quelle caratteristiche
soprattutto manageriali che uniscono gli aspetti organizzativi agli stili di
conduzione:
un
mix
di
competenze,
appunto,
che
devono
connotare
l’organizzazione nei suoi comportamenti, nella sua cultura specifica, nel suo stile,
in tutto quello che caratterizza l’azienda nella sua individualità e diversità da altre
aziende, in quello che dovrebbe caratterizzare il suo modo di operare per ottenere il
successo sulla base del suo modo di concepire il business»2.
In tal senso, il movimento delle competenze in ambito manageriale si avvicina ad altri
filoni di studio, che mettono l’accento su aspetti come i principi, i valori, i fondamenti
etici, ecc.
Su questa linea si trova, ad esempio, il “managing by values” di Blanchard 3. Il “saper
fare” del manager e le sue competenze sono strettamente correlati ai valori che
l’organizzazione si dà. Per sviluppare le competenze, quindi, è necessario avere chiari e
definiti i valori che devono ispirare l’organizzazione e soprattutto la gerarchia, cioè
Fertonani M., Le competenze manageriali, cit.
Ivi, p. 142.
3
Blanchard K., Il Manager etico, cit.
1
2
122
l’ordine di priorità, fra questi valori, nel caso non infrequente che si crei una situazione di
conflitto fra le diverse istanze.
Tra le competenze manageriali, un particolare spazio occupa il coaching4, cioè la
competenza del capo nel saper coordinare, accompagnare, potenziare i propri
collaboratori. Questo perché sempre più gli obiettivi di natura economico-gestionale si
accompagnano ad obiettivi di sviluppo dell’organizzazione stessa e della sua più grande
risorsa, il personale.
Il termine coaching, frequentemente utilizzato nella letteratura sul management,
introduce la metafora del manager come allenatore, che ha trovato risonanza in molti
contributi, tra cui quello di Giuseppe Negro:
«Sempre più la complessità regola la vita delle organizzazioni: ciò richiede
manager altamente preparati e professionali. Non sono più sufficienti doti tecniche,
conoscenze specialistiche, capacità di comando, abilità di programmazione e
controllo, occorrono nuovi riferimenti che siano prima di tutto culturali e poi
metodologici e strumentali. L’arte, la poesia, lo sport, possono fornire ai manager
nuovi paradigmi che generano spunti, riflessioni e indicazioni interessanti. [...] La
figura dell’allenatore accorpa molte delle dimensioni oggi richieste al buon
manager, per questo il parallelo utilizzato ci sembra esser pertinente» 5.
Il successo di questa metafora è legato, chiaramente, ai molti spunti che offre rispetto alle
competenze che deve acquisire il capo: motivare la squadra al raggiungimento dei
risultati, predisporre le strategie e gli schemi di gioco, assegnare i ruoli, stabilire gli
obiettivi, sviluppare le competenze dei giocatori e la coesione del gruppo, ecc.
È una metafora che “piace” ai manager, perché rimanda a contesti organizzativi molto
differenti rispetto all’ambiente d’ufficio o alla fabbrica: rimanda a palestre, a campi di
calcio, a piste di atletica, in cui ognuno è lì per divertirsi e raggiungere assieme risultati
condivisi.
È una metafora, quindi, che in qualche misura avvicina l’organizzazione di tipo
burocratico a modelli organizzativi molto distanti dal punto di vista culturale.
4.5 Il manager sociale
4
5
dall’inglese “coach” che significa allenatore.
Negro G., Il manager allenatore., Milano, Guerini e Associati, 2001, pp. 10-11.
123
Parlare del manager al singolare può far pensare al fatto che ci troviamo di fronte ad una
realtà omogenea, ad una figura professionale ben definita. In realtà il profilo del manager
risente molto del contesto in cui egli si trova ad operare.
Tra le diverse tassonomie che possono essere prese in considerazione per cercare di
“mappare” tale costellazione di differenti profili manageriali, credo di particolare
interesse quella proposta da Susanna Galli e Mauro Tomè, nella quale si vanno ad
individuare quattro tipologie di manager6. Va chiarito fin da subito che tale suddivisione
nella realtà non è mai netta, ma lascia anzi spazio a delle forme di “ibridazione” fra le
categorie, in relazione anche alle caratteristiche particolari del contesto organizzativo,
nonché alle peculiarità personali del singolo manager.
Queste quattro tipologie nascono dall’incrocio di due dimensioni portanti del lavoro
manageriale: l’oggetto del lavoro, ossia il “cosa”, ciò che si produce, e il “come”, vale a
dire le modalità con le quali quella “cosa” viene prodotta.
Il prodotto di ogni lavoro – il “cosa” – varia in termini di riconoscibilità esterna, cioè può
essere immediatamente riconoscibile ed apprezzabile dagli altri o richiedere un percorso
più o meno articolato di interpretazione e di attribuzione di valore.
Anche le modalità di realizzazione del lavoro variano, in quanto possono risultare più
spinte sul versante relazionale piuttosto che su quello dell’operatività concreta.
Orientamento
alla relazionalità
Manager
sanitario
Manager
sociale
COSA
Prodotto
riconoscibile
C
O
M
E
Manager
for-profit
Prodotto
interpretabile
Manager
pubblico
Orientamento
all’operatività
Fig. 2 – Tipi di manager
6
Galli S., Tomè M., Il manager sociale. Identità e competenze per coordinare e dirigere nel welfare,
Milano, Franco Angeli, 2010, pp. 36-40.
124
Esisterebbe quindi, secondo gli autori, una prima tipologia, il manager for-profit, il cui
lavoro produce qualcosa di ben riconoscibile e misurabile, ossia il profitto, e che si
orienta principalmente all’operatività.
Vi sarebbe poi la tipologia del manager sanitario, per il quale permangono alti livelli di
riconoscibilità del prodotto – sia in termini di prestazioni erogate che di risultati di salute
– associati ad un consistente investimento sul piano relazionale.
La tipologia del manager pubblico, invece, rappresenterebbe una figura fortemente
orientata alla realizzazione concreta di prodotti – provvedimenti, atti, circolari, ecc. – che
però risultano spesso difficilmente riconoscibili e valutabili dai destinatari finali e in
genere dall’esterno.
Vi sarebbe infine una tipologia di manager, che si ritrova precipuamente nei servizi alla
persona e che viene definito manager sociale, il cui “oggetto” di lavoro – come per il
manager pubblico – risulta difficilmente misurabile ma che, analogamente al manager
sanitario, investe molto del suo tempo e delle sue energie nella relazione. Questo manager
“è definito sociale proprio perché è nel sociale che trova scopo e senso del suo agire” 7.
Si tratta invero, secondo quanto è stato recentemente messo in luce in una ricerca svolta
nella Provincia di Milano, di una figura professionale tuttora in fase di formazione, la
quale ha ancora uno scarso livello di autoconsapevolezza8. Molti dei professionisti che
hanno partecipato alla ricerca, infatti, faticano a riconoscersi quali manager – e in
particolare quali manager sociali – evidenziando un più spiccato senso di appartenenza
alla categoria professionale di provenienza (psicologi, sociologi, assistenti sociali, ecc.) e
soprattutto alla propria organizzazione (sia essa una Pubblica Amministrazione ovvero un
soggetto del cosiddetto “privato sociale”).
Del resto il manager trova la propria qualificazione nel rapporto che egli intrattiene con
l’organizzazione. Il manager non può esistere senza la propria struttura di riferimento e
quindi non si può analizzare tale figura professionale in modo avulso rispetto al suo
contesto.
Credo, questo, un passaggio fondamentale nella costruzione di un discorso sul manager
sociale e sulla sua dimensione etica. A differenza di molte altre professioni di analogo
livello, pensiamo al medico o all’avvocato, i quali possono esprimere i loro saperi
all’interno di un’organizzazione – un ospedale o un’azienda – come pure attraverso la
7
8
Ivi, p. 39.
Provincia di Milano, documento conclusivo della ricerca sul manager sociale, paper inedito, come
citato da Galli S., Tomè M., Il manager sociale, cit., p. 40.
125
libera professione, il lavoro del manager può svolgersi ed acquista senso solo se si
inserisce in un’organizzazione. Questo legame organico è quindi costitutivo della stessa
identità professionale del manager, che si modifica in funzione dell’organizzazione.
Il profilo del manager sociale – e, conseguentemente il suo sistema etico-valoriale di
riferimento – varia se la struttura nella quale egli opera è un ente pubblico piuttosto che
una struttura privata o se l’istituzione eroga servizi agli anziani piuttosto che ai minori,
ecc.
Ma il profilo del manager sociale può variare anche in funzione del grado di
responsabilità che egli assume all’interno della stessa organizzazione. Vi possono essere,
infatti, specie nelle organizzazioni complesse, più livelli manageriali. Un primo livello è
quello apicale, a più stretto contatto con l’organo politico, che concorre a definire le linee
strategiche dell’organizzazione. Vi è poi, in molte organizzazioni, un livello intermedio,
quello direttivo, che presidia i livelli di efficacia ed efficienza del servizio. Vi è infine un
livello di management operativo, nel quale il “capo” ha la responsabilità del
coordinamento degli operatori e si trova con maggiore frequenza a diretto contatto con
l’utenza9.
Per questo anche dietro l’etichetta “manager sociale” viene ad essere rappresentato un
variegato insieme di diverse realtà professionali, che si diversificano in funzione
della tipologia organizzativa, ma anche del livello che il singolo professionista
occupa all’interno dell’organizzazione.
Si possono individuare comunque alcuni tratti comuni alla “categoria”. Uno di questi
viene indicato da Giuseppe Varchetta nella “sfida della cura”, cioè nel doversi
misurare con la ricerca del senso di un agire a sostegno delle persone in situazioni di
fragilità e sofferenza.
«La sfida della cura contiene la prospettiva di calare il processo di costruzione del
significato delle esperienze di cura all’interno di un universo simbolico capace di
dare, riconoscere valore a un insieme di pratiche sempre più sentite da molti come
essenziali»1.
9
Galli S., Tomè M., Il manager sociale, cit., p. 55.
Varchetta G., La sfida della cura: le istituzioni che curano, in Galli S., Tomè M., Il manager sociale, cit.,
p. 72.
1
126
Il manager sociale, infatti, è parte integrante di “un’istituzione che cura” e di questa cura
deve trovare e testimoniare il senso profondo.
Quella del sense making, cioè della ricerca e della attribuzione del senso all’esperienza
propria e dei propri collaboratori è quindi una competenza particolarmente
importante per il manager sociale. Essa presuppone la capacità di connettere azioni e
vissuti che si presentano spesso in modo frammentario e disorganico, dando loro una
forma. Ciò richiede al manager sociale la disponibilità a dedicare tempo al pensiero
riflessivo, la capacità di introspezione e di autoanalisi, l’attitudine all’ascolto, la
propensione narrativa a raccontare e raccontarsi1.
1
Galli S., Tomè M., Il manager sociale, cit., p. 138.
127
5
La ricerca sul campo
Le avventure capitano solo a
chi le sa raccontare.
Henry James
5.1 Ricerca e narrazione (della ricerca).
Riprendo qui quanto espresso nel primo capitolo, in merito al fatto che una ricerca non va
intesa come un processo “meccanico” di applicazione di un metodo predefinito, bensì
come un percorso attraverso il quale si definisce tale metodo. Il metodo, quindi, “emerge”
nel corso stesso della ricerca, quale prodotto di un agire riflessivo.
Un’altra indicazione che richiamo dal primo capitolo è l’opzione per un approccio mixed
methods, cioè per un approccio in cui i metodi, intesi in questo caso nel senso di tecniche
e strumenti operativi specifici, si integrano fra di loro, come dei fili che si intrecciano per
formare un unico tessuto.
Il primo di questi metodi, che ha acquisito via via rilievo, tanto da assurgere alla funzione
di “trama” nella tessitura della presente ricerca, è la Narrative Inquiry.
Questa scelta è scaturita dal progressivo rafforzarsi del mio interesse di ricerca non tanto
verso l’etica “dichiarata”, quanto piuttosto rispetto alle “conoscenze tacite”2 che vengono
ad affiorare nel corso dell’esperienza vissuta dell’agire morale. Tale esperienza non può
essere conosciuta dal ricercatore, se non attraverso il racconto. È attraverso il racconto da
me raccolto come ricercatore, che posso conoscere l’esperienza vissuta da quel singolo
manager sociale nel proprio contesto organizzativo. Non solo, ma è giusto attraverso il
racconto che questi fa tra sé e sé, come sottolinea Mortari, che egli stesso “conosce” la
sua propria esperienza.
«È il narrare che dà corpo all’esperienza. Quando un’esperienza non è raccontata si
dilegua, non assume realtà. […] Quando si deve rendere conto di un’esperienza il
raccontare, a noi stessi e/o agli altri, è il modo linguistico più adeguato. […] Il
2
Polanyi M., La conoscenza inespressa, cit.
128
raccontare è attività fondante di un processo epistemico, nel senso che lo struttura
intimamente»3.
Non è l’esperienza, quindi, ciò che faccio oggetto del mio ricercare, ma il racconto che
ricrea tale esperienza, dandovi forma e sostanza. Ed è su questo che si basa la Narrative
Inquiry.
«La ricerca narrativa si fonda sul presupposto secondo il quale alle persone
piacerebbe raccontare la loro esperienza sotto forma di storie e che questo
raccontare contribuisca a creare […]. Il raccontare storie avrebbe infatti una forza
strutturante l’esperienza, poiché raccontando si imprime una forma al vissuto. Si
parla per questo di potere demiurgico del racconto»4.
Il racconto quindi costruisce il proprio mondo. Esso non riproduce, in termini di
rappresentazione isomorfa, una realtà che esiste “là fuori”, ma la crea. Il racconto è
sempre poetico, in quanto attiene al fare creativo, alla poiesis5.
Nel costruire la propria storia, le persone mettono molto di sé, dei propri desideri, delle
proprie paure, delle pre-comprensioni che hanno rispetto alla realtà.
Come sostiene Simonetta Simoni, il problema della verità della narrazione (e, in parte,
della sua veridicità). passa in secondo piano. L’attenzione va posta sulle modalità con cui
viene costruita la “verità” che coinvolge in quel momento narratore e ascoltatore: qual è
la posizione di chi racconta, il suo punto di vista rispetto a quel tema, il suo sforzo di
capire meglio se stesso, il contesto in cui lavora e le relazioni con gli altri6.
Il racconto si rinnova con il tempo e, spesso, varia in funzione dell’ascoltatore per il quale
viene confezionato.
Una creazione che è libera, ma non è mai “anarchica”, in quanto risponde
necessariamente a delle regole. Del resto la creatività necessita per esprimersi di
disciplina, di regolarità e regole. Sono regole non scritte, che definiscono ciò che si può
dire e ciò che non si può dire – perché non tutto è dicibile – e soprattutto regole che
normano come si può parlare di determinate cose7.
3
4
5
6
7
Mortari L., Cultura della ricerca e pedagogia, cit., p. 179.
Ivi, p. 180.
Il termine “poeta” deriva infatti dal greco poiein, che significa appunto, fare, creare.
Cfr. Simoni S., Le culture organizzative dei servizi. La sociologia dell’organizzazione e i servizi alla
persona, Roma, Carocci, 2003, pp. 109-110.
Come vedremo in seguito, nelle narrazioni che ho raccolto nel corso della ricerca ci stanno molti
sottointesi, molte frasi interrotte con i puntini di sospensione, perché su certe cose… ci si capisce.
129
Di solito la storia prende avvio da un evento critico e si articola in una serie di vicende,
concatenate fra loro da vincoli causali, che generalmente si concludono con una
soluzione, anche provvisoria.
Un secondo motivo, che mi ha portato a scegliere l’approccio della Narrative Inquiry, è
l’idea, che si è andata man mano chiarificando, di un’etica intesa non come mero
ossequio a delle norme morali, bensì come “costruzione di senso”, come ricerca e
generazione del significato del proprio agire.
Questo significato non sta nell’atto in sé ma nell’agente e quindi solo il racconto da parte
dello stesso può avvicinarvisi. La narrazione permette, appunto, di cogliere il significato
come un oggettivo esame dei fatti non sarebbe in grado di fare, portando alla luce le
intenzioni che stanno dietro all’agire. Le idee, ma anche le emozioni, che di solito
rimangono represse e che proprio la dimensione “controllata” del racconto riesce a far
emergere.
Prendere come oggetto di ricerca la narrazione corrisponde anche ad un altro interesse
specifico del mio studio, che si indirizza alla dimensione dell’apprendimento
situazionale: come il manager sociale “impara” l’etica nel quotidiano confronto con la
sua “circostanza”, con la sua pratica professionale, con le persone che gli stanno
attorno… Il racconto, in questo senso, può davvero aiutarci a cogliere questo processo di
apprendimento nel suo svolgersi.
La narrazione non solo ci dà conto del “farsi” del processo di apprendimento, ma è essa
stessa dispositivo di apprendimento. La narrazione può avere, infatti, la funzione per il
singolo di recuperare vissuti e ripensare alla propria esperienza, mediando quindi nuovi
apprendimenti.
Ma le narrazioni, come afferma Simoni, possono anche avere, all’interno dei contesti
professionali, la straordinaria capacità di trasferire conoscenze e di veicolare
apprendimenti organizzativi. Per i gruppi di lavoro, infatti, esse costituiscono un
materiale prezioso, su cui confrontare e condividere significati, eventualmente anche per
trasmettere valori, soluzioni da adottare e regole che incoraggiano alcuni comportamenti
e ne scoraggiano altri8.
Per l’organizzazione le narrazioni possono essere, quindi, veicolo di apprendimento,
perché trasformano le informazioni in una conoscenza che guida l’operatività, ma anche
in un veicolo di cambiamento, attraverso il confronto tra storie alternative e contrastanti.
8
Cfr. Simoni S., Le culture organizzative dei servizi, cit., p. 107.
130
«D’altronde, la narrazione è stata, per millenni, la principale forma di conoscenza e
di trasmissione del sapere da una generazione all’altra ed è tuttora nella vita
quotidiana una delle modalità più diffuse, più naturali e facili per comunicare ad
altri la propria esperienza, quello che ci è successo»9.
Nel narrare comunichiamo non solo “quello che ci è successo”, ma anche e soprattutto
ciò che siamo. Vi è, infatti, un ultimo elemento del mio oggetto di ricerca che
“suggerisce” la scelta della metodologia narrativa, che è l’attenzione, che nella mia
indagine vorrei porre, al sé morale. Nella mia ricerca, cioè, non vorrei limitarmi a
descrivere le norme morali che guidano l’azione del manager sociale, ma intenderei
spingermi a delineare come queste vengano ad essere incarnate nell’identità personale del
soggetto morale. Il racconto in questo senso – come ci dice Mortari – dà la migliore
rappresentazione di questa identità, di questo sé. Un sé che, secondo il paradigma
ecologico, non è oggettivamente dato ma si costruisce nella narrazione.
«Nella prospettiva della gnoseologia realista, il raccontare non farebbe altro che
portare alla luce una realtà sostanziale sottostante, quella del sé che avrebbe già un
suo profilo oggettivamente dato, che attenderebbe solo la parola capace di
nominarlo; invece, con la svolta linguistica, il raccontare diventa un atto costitutivo,
che produce una costruzione retorica del sé»10.
Questa visione dell’identità personale corrisponde a ciò che Nucci ci indica essere il sé
morale, rappresentato appunto dalla storia che raccontiamo a noi stessi su ciò che noi
siamo e soprattutto su ciò che noi vogliamo essere.11
L’analisi delle narrazioni che andrò ad evocare nel corso della mia indagine intendono
appunto disvelare, con il rispetto e la delicatezza dovuti, questa intima concezione del sé.
La narrazione rappresenta per la Narrative Inquiry non solo l’oggetto della ricerca, ma
anche e soprattutto la componente fondamentale del metodo di ricerca, il modo di
procedere e di rendere conto dell’indagine e del suo svolgimento.
Nella letteratura anglofona sull’argomento, infatti, il termine narrative sta proprio ad
indicare la narrazione che il ricercatore fa del proprio processo di ricerca, mentre le
diverse narrazioni che egli raccoglie ed analizza nel corso dell’indagine vengono indicate
con il vocabolo stories12.
9
Ibidem.
Cfr. Mortari L., Cultura della ricerca e pedagogia, cit., p. 180.
11
Cfr. Nucci L.P., Educare il pensiero morale, cit., p. 150. Si veda al riguardo quanto detto nel par. 3.4.
12
Mortari L., Cultura della ricerca e pedagogia, cit., p. 177.
10
131
Qualsiasi attività di ricerca, anche quella improntata alla più stretta osservanza del
paradigma positivistico, è costellata di eventi, di vicende, di incidenti significativi. Un
approccio improntato al mito dell’oggettività, della descrizione asettica, chiaramente terrà
questi aspetti sullo sfondo; tenderà a contenerli e ad ignorarli, come delle fastidiose
interferenze.
Negli approcci che si ispirano invece al paradigma ecologico, come la Narrative Inquiry,
questi elementi accidentali diventano parte integrante del procedere scientifico.
Questo tipo di approccio supera il primato di un sapere scientifico guidato dalla logica
della linearità causale, della descrizione analitica, della “spiegazione”, della validazione
secondo il criterio vero-falso. La logica del sapere narrativo, infatti, è prevalentemente
circolare, olistica, mira alla comprensione di quello che accade, ricostruendone i
significati legati al contesto specifico.
Quello che viene postulato non è tanto la contrapposizione di un paradigma rispetto
all’altro, quanto, semmai, il superamento di questa contrapposizione, in modo che l’uno
lasci spazio anche all’altro. Perché il sapere scientifico, nelle sue diverse sfaccettature, e
il sapere narrativo possono coesistere, integrarsi e sostenersi vicendevolmente.
Una ricomposizione sostenuta da eminenti filosofi della scienza, come Jean François
Lyotard, il quale afferma che in realtà il sapere narrativo è una metafora che attraversa
anche il sapere scientifico e che lo scienziato altri non è che un “narratore di piccole
storie”13.
La ricerca è – come ci ricorda Mortari – un’esperienza e come tutte le esperienze può
essere raccontata ed è questo ciò che fa, in buona sostanza, la Narrative Inquiry14.
Il narrare l’esperienza euristica che si compie facendo ricerca fa emerge il significato, il
quale prende corpo nello svolgersi stesso del racconto15.
Ma anche questo racconto rinuncia alle pretese della rigorosa riproduzione del reale. Una
buona narrazione dell’esperienza di ricerca non si pone la questione della verità di quanto
si va raccontando, ma si preoccupa innanzitutto di restituire “orizzonti di senso” 16. Un
senso e un significato che si costruiscono nel corso della ricerca.
Si tratta di un approccio che, come ci indicano Giuseppe Mantovani e Anna Spagnolli,
risulta sempre più accettato nell’ambito della ricerca sociale.
13
Cfr. Lyotard J.F. (1979), La condition postmoderne. Rapport sur le savoir, trad. it. La condizione
postmoderna. Rapporto sul sapere, Milano, Feltrinelli, 1981, p. 108.
14
Mortari L., Cultura della ricerca e pedagogia, cit., p. 177.
15
Ivi, p. 183.
16
Ivi, p. 184.
132
«La maggior parte dei ricercatori sociali non è più disposta a credere che esistano
dei “dati” da estrarre nelle persone, come diamanti sepolti nelle profondità di una
miniera, da portare alla luce il più possibile puri, integri, intatti. […] Esiste ora nella
ricerca sociale una diffusa consapevolezza del fatto che non ci sono “dati oggettivi”
da “trovare”, ma costruzioni che vengono prodotte nel corso dell’attività di
ricerca»17.
Nell’indagine narrativa il ricercatore analizza le storie mediante un processo di sensemaking, cioè di elaborazione del significato. Il significato non è dunque un “diamante
sepolto”, che va semplicemente dissotterrato e “ripulito”, ma qualcosa che viene
“costruito” dal ricercatore. Il criterio di validazione non è tanto quello della “verità”,
quanto quello della “fedeltà”: l’elaborazione è fedele se riesce a “rendere” il senso di
quello che il narratore intende dire, cosa che si riesce a fare solo se tra ricercatore e
partecipante si crea un autentico rapporto dialogico18.
Di questo processo, il ricercatore deve dare conto attraverso la narrazione di ciò che fa:
da dove è partita la ricerca, come ha reclutato i partecipanti, come si è evoluta nel tempo
la struttura dell’indagine, come sono stati elaborati i dati, ecc.
«Nell’approccio narrativo, come in tutta la cultura ecologica della ricerca, rigore e
precisione non dipendono dall’applicazione di certi dispositivi tecnici, ma dal
rendere esplicito, e quindi sottoponibile al giudizio critico, il processo di
costruzione della ricerca, quello che nei rapporti classici viene tacitato perché tutta
l’attenzione è posta sul prodotto»19.
La narrazione deve esplicitare non solo quello che il ricercatore fa, ma anche e soprattutto
ciò che egli pensa. Deve cioè dar conto dell’esperienza interiore, di quella che è – per
usare un’espressione di Arendt – la “vita della mente”20. Dar voce ai pensieri che
accompagnano la ricerca, raccontare ciò che si pensa, ma anche ciò che si sente. Questo
richiede al ricercatore una postura cognitiva che riesca ad accogliere anche la dimensione
emotiva del fare ricerca.
17
Mantovani G., Spagnoli A., Metodi qualitativi in psicologia, Bologna, Il Mulino, 2003, p. 23.
Mortari L., Cultura della ricerca e pedagogia, cit., pp. 181-182. L’Autrice qui si rifà allo studio di
Blumenfeld-Jones D, Fidelity as a criterion for practising and evalutating narrative inquiry, in
“Qualitatives Studies in Education”, n. 8/1995,p. 25-35. Questi parla, a tal proposito, di “betweeness”, per
indicare lo speciale legame che deve intercorrere tra i due soggetti. Sul rapporto dialogico si veda in
particolare Buber M. (1923), Ich und Du, trad. it. Il principio dialogico, Milano, Edizioni Comunità,
1958.
19
Ivi, p. 188.
20
Arendt H., La vita della mente, cit.
18
133
«Il razionalismo dominante con cui interpretiamo la ricerca ci fa stare, invece,
distratti rispetto al sentire. Accade, però, che quando il sentire sfugge alla
riflessione, quando perdiamo una parte di sapere, allora la narrazione si fa neutra e
in questa anestesia del sentire si smarrisce il potere ermeneutico. Elevare il sentire a
sapere e, dunque, elaborare riflessivamente l’esperienza emozionale dà sostanza
vitale alla narrazione»21.
Del resto un racconto non è quasi mai neutro, dal punto di vista emotivo: muove
generalmente dei sentimenti, che possono essere di adesione o di rifiuto. Un buon
racconto è quello che riesce a sollecitare l’interesse e la partecipazione dell’ascoltatore
tanto sul piano cognitivo quanto su quello emotivo, sviluppando elaborazioni concettuali,
ma anche richiamando in lui vissuti personali, ricordi, risonanze interiori.
5.2
Da dove partiamo?
Credo opportuno iniziare il “racconto” della mia ricerca con un riferimento
autobiografico che risale a parecchio tempo fa, al febbraio 1998, quando ho iniziato a
lavorare per il Comune di Schio come responsabile dei servizi sociali. Mi ero laureato già
da qualche anno, avevo continuato il mio percorso formativo post-laurea con due corsi di
perfezionamento e avevo maturato già un’esperienza lavorativa in ambito amministrativo,
ma il bagaglio di competenze che avevo accumulato – per quanto utile – si dimostrava
alla prova dei fatti insufficiente per far fronte alla complessità del compito che dovevo
svolgere. Fu proprio iniziando a “fare” che incominciai ad apprendere il “mestiere”. Sono
stati anni molto impegnativi, in cui mi sono misurato giorno per giorno con numerosi
problemi lavorativi e con i miei limiti e ho imparato molto, grazie anche al sostegno,
all’aiuto e all’insegnamento ricevuto dalle persone con cui ho collaborato.
Da marzo 2010 ho avviato una nuova esperienza lavorativa come dirigente dei servizi
sociali e abitativi del Comune di Vicenza. Mi sono quindi trovato a confrontarmi con un
contesto organizzativo più complesso, con una realtà sociale più problematica e
soprattutto con un ruolo di maggiore responsabilità. Qui, pur beneficiando delle
conoscenze e competenze maturate nel precedente incarico, ho potuto rivivere l’iniziale
sensazione d’inadeguatezza, che solo il tempo e la pratica riescono a far superare.
21
Mortari L., Cultura della ricerca e pedagogia, cit., p. 189.
134
Penso che competenze professionali di chi fa il mio lavoro – così come, del resto, ogni
altra professione – siano sempre perfettibili e che possano essere sviluppate soprattutto
attraverso la pratica, lavorando.
Ciò senza disconoscere ovviamente il valore e l’importanza della formazione “in aula”,
dello studio personale, delle letture e degli approfondimenti teorici, che ho sempre
considerato necessario portare avanti e integrare il più possibile con l’esperienza
professionale.
Ritengo che questa nota autobiografica sia utile per inquadrare il mio interesse personale
rispetto al tema dell’apprendimento in situazione e alla figura del manager sociale.
Una figura professionale, quella del manager sociale, che avevo già fatto oggetto
d’indagine nella mia tesi di laurea specialistica in Politiche e Servizi Sociali, conseguita
nel 2005. In quella occasione avevo condotto una piccola ricerca sul tema del
management nei servizi sociali di un Comune. Il mettermi a confronto con altri colleghi,
rispetto alla gestione dei servizi, ha rappresentato a quel tempo un’esperienza
significativa per la mia formazione personale e soprattutto per il rafforzamento della mia
identità professionale. L’idea di mantenere, anche in questa ricerca, il focus d’attenzione
sul management dei servizi alla persona ha rappresentato quindi una scelta “naturale”.
Credo, peraltro, che il fatto di condividere con i soggetti partecipanti delle esperienze
analoghe sia un aspetto che favorisce la comprensione e la costruzione del significato,
obiettivo a cui tende l’indagine. Sentivo però la necessità di trovare un ambito
organizzativo diverso dai servizi sociali comunali. Questo perché ritenevo che una
differente “ambientazione” potesse fornirmi la “giusta distanza” rispetto al mio oggetto di
ricerca, evitando rischi di eccessiva immedesimazione nelle situazioni rappresentate e
favorendo uno sguardo interpretativo più distaccato, senza avere per questo pretese di
neutralità oggettiva.
Inizialmente mi ero orientato sulle Aziende ULSS, che nel Veneto gestiscono, oltre alla
sanità, servizi socio-assistenziali. Ho però optato per le Ipab 22.
Anche questa scelta è molto legata ai “casi della vita”. Nel 2008, infatti, ho partecipato ad
un concorso pubblico per il posto di dirigente in un’ Ipab del Padovano che gestisce
servizi residenziali per anziani. Ho quindi avuto modo di avvicinarmi a questa realtà
istituzionale, che avevo sempre visto da una certa distanza. Per prepararmi alle prove
22
Istituzioni Pubbliche di Assistenza e Beneficenza. Si tratta di enti assistenziali istituiti dalla Legge
Crispi del 1890, per le quali la legge-quadro dei servizi sociali – L. 328/2000 – prevede la trasformazioni
in Aziende pubbliche di Servizi alla Persona (ASP) o in fondazioni private. Nel Veneto tale riforma non
è ancora stata introdotta.
135
d’esame ho studiato a fondo la normativa e sono venuto a conoscenza dell’attività svolta
dall’ “Associazione Nazionale dei manager del Sociale, tra i Direttori ed i Dirigenti di
Istituzioni Pubbliche e Private in ambito assistenziale, socio-sanitario, educativo”
(Ansdipp).23.
Si tratta di un’associazione professionale che opera a livello nazionale, particolarmente
attiva nel Veneto, la quale ha maturato in questi ultimi anni una specifica attenzione allo
sviluppo delle competenze professionali del manager sociale. Da quanto ho rilevato, si
tratta dell’unica associazione professionale tra direttori esistente in Italia 24. Raccoglie
soprattutto direttori di Ipab che gestiscono servizi per anziani, anche se possono aderirvi
anche direttori di istituzioni private o che gestiscono altre tipologie di servizi.
I primi contatti con l’Ansdipp sono iniziati partecipando ad alcuni convegni e seminari.
Pur avendo chiaramente un taglio molto centrato sulla gestione delle strutture residenziali
per anziani, l’offerta formativa dell’associazione proponeva anche dei momenti di
approfondimento sul tema del management in generale, che mi interessavano molto in
termini professionali e di studio.
Fin dal primo anno di dottorato avevo quindi individuato questa realtà come un possibile
“interlocutore” per la mia ricerca sulla figura del manager.
La scelta invece della dimensione etica come ambito di approfondimento è maturata nel
tempo e senza, apparentemente, uno specifico episodio biografico ad orientarla. Andando
a rileggere gli appunti personali e la relazione da me prodotta alla fine del primo anno di
dottorato, osservo come l’interesse di ricerca fosse inizialmente indirizzato verso le
competenze professionali del manager sociale in genere, tra cui ricomprendevo anche
quelle “etico-valoriali”.
Penso che siano state le letture da me compiute, tra il primo e il secondo anno, a guidare
questa progressiva focalizzazione sul tema dell’etica professionale. Un percorso di letture
che parte da due autori, Schön e Wenger, per “risalire” alla teoria dell’indagine di Dewey
e da questa agli straordinari scritti del filosofo pragmatista americano sull’educazione
morale.
È da tale percorso di letture, che ha conosciuto invero ampie divagazioni, nonché dalle
riflessioni che lo hanno accompagnato, che sono nate le due ipotesi di ricerca. La prima
23
24
La denominazione estesa è:.
Esistono invece altre associazioni che riuniscono gli enti che si occupano della gestione di questi
servizi. Si cita in particolare l’Unione Nazionale Istituzioni e Inisizative di Assistenza Sociale
(UNEBA). A livello regionale si segnala invece l’Unione Regionale Istituti per Anziani della Regione
Veneto (URIPA)
136
collega l’acquisizione/sviluppo dei principi morali professionali all’agire riflessivo che il
manager realizza nel corso della propria pratica lavorativa. La seconda collega lo
sviluppo di tale dimensione etica alla partecipazione da parte del manager ad una
learning organization e ad una comunità di pratica.
Si tratta di due ipotesi che sono andate man mano chiarendosi nel corso del tempo ma che
rimangono necessariamente – in coerenza con l’approccio epistemologico a cui mi
richiamo – delle ipotesi “deboli”, che non hanno nulla a che vedere con concezioni di tipo
deterministico.
Sotteso a queste due ipotesi vi è il presupposto – che si richiama ad una visione di matrice
costruttivista – che i principi morali siano almeno in parte immanenti, cioè siano in
qualche misura costruiti e appresi anche all’interno della pratica.
Un altro presupposto che ha guidato la ricerca è l’idea che esista nei manager, così come
in ogni persona, una divaricazione più o meno ampia tra le “teorie dichiarate” e le “teorie
in uso”, tra l’etica professata e l’etica concretamente agita.
Per fare emergere la seconda – generalmente implicita – ho ritenuto necessario elaborare
una traccia per un’intervista semi-strutturata che puntasse a mettere in evidenza
l’esperienza vissuta. Si tratta di proporre, quindi, domande-stimolo che sollecitassero in
particolare il racconto di storie personali e organizzative, nelle quali gli intervistati si
fossero trovati ad affrontare situazioni “eticamente sensibili”.
TRACCIA DELL’INTERVISTA SEMI-STRUTTURATA
1. Qual è stato il suo percorso formativo e professionale?
2. Quali sono i principi etici su cui si basa il suo lavoro?
3. Mi può raccontare un episodio in cui, nel suo lavoro, si è trovato a misurarsi con
decisioni eticamente sensibili? È cioè mai “inciampato” in un problema etico?
Come l’ha affrontato? Come è cambiato il suo quadro di riferimento?
4. Ha per caso dovuto mai affrontare un dilemma morale nello svolgimento del suo
lavoro?
5. Ricorda qualche episodio in cui ha incontrato un conflitto tra norma giuridica e
norma etica?
6. Come ritiene sia cresciuta, nel corso degli anni di esperienza professionale, la sua
competenza etica? Quali sono stati gli elementi che hanno contribuito a questa
crescita?
7. Quale spazio ha avuto ed ha la dimensione associativa o sociale in genere nello
sviluppo di tali competenze?
8. Ritiene che tra i compiti del manager vi sia anche quello di far crescere le
competenze etiche dei collaboratori? Se sì, in che modo? Ricorda qualche
momento in cui è riuscito o non è riuscito a partecipare tali competenze?
9. Qual è il senso del suo lavoro?
10. Secondo lei quali sono le proposte formative utili per sostenere le competenze
etiche del manager?
Tab. 1 – Traccia dell’intervista semi-strutturata
137
Nel comporre e, in un certo qual modo, “perfezionare” la traccia dell’intervista, sono stati
particolarmente utili i colloqui avuti con Damiano Mantovani, Presidente nazionale
dell’Ansdipp, e con Renzo Zanon, che all’interno dell’associazione è Referente per i temi
dell’etica professionale.
Importante per comporre la scaletta di domande delle interviste e per l’individuazione
degli intervistati è stato poi il contatto con Stefano Guerra, della Direzione Servizi Sociali
della Regione Veneto, a cui devo i dati sulle Ipab.
Da questi dati emerge un quadro piuttosto interessante. La presenza di queste istituzioni
pubbliche nel territorio regionale è infatti numericamente rilevante: in totale ci sono 202
enti, diversamente distribuiti nelle sette province. Oltre la metà di questi gestisce in
prevalenza servizi residenziali, semi-residenziali o domiciliari a favore degli anziani. Le
restanti Ipab operano a favore dei minori d’età – soprattutto gestione di scuole
dell’infanzia e asili nido – o nell’area della disabilità, oppure gestiscono altre tipologie di
servizi (scuole professionali, convitti studenteschi, trasporto dei malati, ecc.). Vi è infine
un gruppo di Ipab, dette “elemosiniere”, che non gestiscono direttamente servizi, ma
amministrano dei patrimoni, con i quali – in maniera diretta o indiretta – intervengono a
minori
disabili
elemosin.
altro
Tot.
Provincia
anziani
sostegno di determinate categorie di soggetti bisognosi.
Belluno
3
4
0
2
1
10
Padova
17
5
1
2
1
26
Rovigo
7
4
0
1
0
12
Treviso
21
17 1
2
2
43
Venezia
13
5
0
3
3
24
Verona
22
16 2
1
2
43
Vicenza
27
8
3
5
44
Tot.
110 59 5 14 14 202
Area
1
Tab. 2 – Ipab del Veneto per Provincia e attività (Fonte: Regione Veneto).
138
La scelta di occuparmi in particolare delle Ipab che gestiscono servizi per anziani, già in
sostanza presa per ragioni di interesse personale, ha trovato pertanto un conforto nei dati
numerici, che attestano l’importanza a livello regionale di questa realtà istituzionale.
Compendiando l’esigenza di lavoro in profondità con la necessità di avere un gruppo di
riferimento sufficientemente ampio, ho fissato a dodici il numero dei partecipanti.
Si poneva quindi la necessità di procedere alla scelta dei direttori a cui proporre
l’intervista. Trattandosi di una ricerca qualitativa, i criteri che hanno guidato questa scelta
rispondono ad istanze non di rappresentatività, bensì di significatività. Significatività che
risulta collegata ovviamente a ciò che si vuole conoscere con l’indagine empirica.
Nella mia ricerca mi interessava innanzitutto studiare l’apprendimento situazionale e il
ruolo che in esso giocano le reti relazionali tra i manager dei servizi alla persona, siano
esse reti formali – come un’associazione professionale – o informali – come le comunità
di pratica. Mi interessava però anche avere un quadro abbastanza variegato e composito
di esperienze di direzione in strutture di diverse dimensioni e a livello abbastanza diffuso
e articolato nel territorio regionale.
Conseguentemente, ho adottato una strategia di campionamento a “scelta ragionata”,
sulla base di criteri di massima variazione25.
Il primo criterio di composizione del campione non rappresentativo è stato pertanto
quello dell’appartenenza o meno all’associazione professionale. Sei dei dodici
partecipanti sono stati scelti all’interno di una rosa di nominativi, che mi sono stati forniti
dal presidente nazionale dell’Ansdipp. Si tratta di soci che aderiscono attivamente
all’associazione, alcuni dei quali ricoprono al suo interno anche ruoli direttivi. le
rimanenti sei persone sono state scelte all’esterno dell’associazione, attingendo
dall’elenco fornitomi dalla Regione. Nella scelta di entrambi i sottogruppi, ho cercato
comunque di mantenere una composizione eterogenea rispetto alle dimensioni dell’ente,
al suo contesto sociale – città capoluogo o realtà provinciali – nonché rispetto alla
distribuzione nel territorio regionale. Per ogni struttura ho individuato il soggetto da
intervistare nella persona del Direttore, che in alcuni enti assume la qualifica di
Segretario-Direttore. Nel caso dell’Ipab di Vicenza, la conoscenza diretta e personale mi
ha consentito di selezionare, oltre al Direttore, altre due figure, con qualifica dirigenziale,
il cui apporto poteva fornirmi una rappresentazione diversificata dell’esperienza
manageriale all’interno di un’organizzazione complessa come quella vicentina. In sintesi:
25
Cfr. Sorzio P., Struttura e processi nella ricerca qualitativa in educazione, cit., p. 50. Secondo l’Autore
questo tipo di campionamento si presta in particolare per cercare configurazioni comuni al variare di
alcune caratteristiche rilevanti per la ricerca.
139
Ipab
Casa di Riposo di Noventa
Padovana
I.R.A. - Istituto di Riposo per
Anziani
Casa Albergo Per Anziani
I.S.R.A.A. - Istituti per Servizi di
Ricovero e Assistenza Anziani
Casa Di Riposo Guizzo Marseille
Antica Scuola dei Battuti - Ente
per la Gestione dei servizi per la
persona anziana
I.R.E. - Istituzioni di Ricovero ed
Educazione
I.A.A. - Istituto Assistenza
Anziani
Casa di Riposo Serse Panizzoni
Ipab di Vicenza
Comune
Dirigenti
Noventa Padovana (Pd).
Raffaella Celin
Padova (Pd).
Sandra Nicoletto
Lendinara (Ro).
Damiano Mantovani
Treviso (Tv).
Giorgio Pavan
Volpago del Montello
(Tv).
Barbara Militello
Mestre-Venezia (Ve).
Marino Favaretto
Venezia (Ve).
Lupo Nardi
Verona (Vr).
Dino Verdolin
Camisano Vicentino (Vi). Maddalena Dalla Pozza
Franco Zaccaria
Vicenza (Vi).
Patrizia Scalabrin
Paolo Rossi
Tab. 3 – Elenco partecipanti
I contatti iniziali sono stati attivati generalmente tramite e-mail, a cui è seguita una
telefonata per raccogliere l’adesione e organizzare l’incontro. Tutti i soggetti individuati
hanno dato la loro disponibilità e pertanto non è stato necessario procedere a sostituzioni.
La ricerca sul campo ha materialmente preso avvio nel mese di aprile e si è conclusa nel
mese di settembre del 2011. Le interviste duravano circa un’ora e venivano documentate
con l’ausilio di un registratore-audio. Ho mantenuto per tutte la domanda di “apertura”
sul percorso professionale, che ho constatato essere un buon modo per mettere a proprio
agio l’interlocutore e “creare” il clima. Per il resto, pur avendo una scaletta di domande,
ho volutamente lasciato gli intervistati molti liberi di spaziare.
In complesso la partecipazione è stata molto buona. Credo che un fattore di successo sia
stato l’aver definito in anticipo, assieme all’interessato, alcuni elementi che potevano
risultare problematici. Ad esempio, fin dalla prima e-mail, ma anche nel contatto
telefonico, ho specificato la durata dell’incontro – aspetto fondamentale per riuscire a
condurre un’intervista narrativa – in modo da poterlo realizzare in momenti di maggiore
tranquillità. Un altro accorgimento utile è stato, nel richiedere l’autorizzazione per la
140
registrazione-audio, garantire l’invio delle trascrizioni ai diretti interessati per eventuali
rettifiche o integrazioni.
Un altro fattore di successo credo sia legato comunque all’argomento, al fatto cioè che
nell’intervista ai manager si chiedeva di parlare di loro stessi, del loro lavoro e delle
competenze che questo richiede, specie rispetto ad un ambito così complesso come quello
dell’etica professionale.
5.3
L’analisi con ATLAS.ti
Per l’analisi delle interviste ho ritenuto opportuno avvalermi del software Atlas.ti
(versione 5.0). Si tratta di un programma che consente la codifica dei testi e
l’individuazione – al loro interno – di nessi logici, al fine di elaborare dei modelli teorici
congruenti26. Uno strumento quindi specificamente pensato per analisi di tipo induttivo –
nasce infatti come applicativo a supporto delle ricerche che si richiamano al modello
della Grounded Theory – ma che si presta con grande versatilità anche ad essere
utilizzato in altri tipi d’indagine.
L’impiego che ho fatto di tale software ha sfruttato solo parzialmente le vaste potenzialità
da esso offerte, come pure il ricorso alla Grounded Theory si è limitato solamente alla
fase di codifica e interpretazione dei dati. Va ribadito, infatti, che tale teoria prevede un
procedere radicalmente induttivo, in cui il ricercatore individua solamente l’ambito
d’indagine, mentre ogni teorizzazione nasce dal processo circolare di raccolta dei dati sul
campo, sistemazione, interpretazione27.
Nel mio caso, per una parte degli obiettivi conoscitivi che mi proponevo di perseguire
con la ricerca, avevo già una teoria di riferimento – anzi più di una – e avevo anche delle
ipotesi di ricerca – seppure “deboli” – relative a come il manager sociale in genere
acquisisce le competenze etiche all’interno della pratica riflessiva e nel confronto
relazionale con gli altri. Per questa parte della ricerca non si può certo parlare di
approccio induttivo, visto che si indirizza a verificare ipotesi già costruite a monte.
Ma la ricerca si poneva anche e soprattutto l’obiettivo di comprendere una realtà; di
costruire, partendo dal basso, una conoscenza. Ciò che volevo “costruire” induttivamente
26
Cfr. Chiarolanza C., De Gregorio E., L’analisi dei processi psico-sociali. Lavorare con ATLAS.ti,
Roma, Carocci, 2007. Di questo software esiste in commercio una versione più aggiornata – 6.0 – che
offre funzioni aggiuntive, tra cui anche la possibilità di codificare documenti non testuali (es. foto,
disegni, filmati). Per le finalità della mia ricerca ho ritenuto più che adeguata la versione 5.0.
27
Cfr. Mortari L., Cultura della ricerca e pedagogia, cit., p. 150.
141
erano in particolar modo le “teorie-in-uso” dei manager sociali in merito alle competenze
etiche e a come queste si apprendono; e tale conoscenza poteva essere acquisita solo
assieme a loro, partendo da ciò che del loro sé morale veniva ad essere disvelato nelle
interviste.
Pur non aderendo pienamente al modello della Grounded Theory, ho ritenuto utile
mutuarne, per una parte della ricerca, il modo di procedere “dal basso”, incrociando
questo approccio con un altro più di tipo ipotetico-deduttivo. Questo nella convinzione
che la ricerca si fa tanto più produttiva quanto più riesce a “meticciare” convenientemente
i metodi”28. Il che significa impostare la strategia d’indagine, nonché scegliere le tecniche
e gli strumenti più indicati rispetto allo specifico obiettivo che la ricerca si pone.
Il lavoro di codifica delle interviste è stato preceduto dalla rilettura delle trascrizioni, in
modo da familiarizzare con i contenuti e riuscire, per quanto possibile, ad avere una
visione d’insieme del materiale raccolto. Ho poi dato avvio all’open coding. Questa
funzione consiste nell’evidenziare una quote, cioè una porzione di testo di senso
compiuto – che in alcuni casi poteva essere una singola parola, ma di norma era una frase
o un brano più o meno esteso – e attribuirvi un code, cioè un’espressione sintetica (una
sorta di “etichetta”), che ne descrivesse in sintesi il contenuto. È stato un lavoro
particolarmente complesso, perché il materiale da trattare era corposo – 12 documenti per
un totale di quasi 200 pagine. Ma la difficoltà è stata soprattutto quella di gestire l’elenco
dei codici, il quale si andava ad allungare man mano che procedevo con il lavoro di
codifica: al termine della prima “lettura-filtro” di tutte e le interviste, ne avevo creati circa
150. Molti di questi differivano di poco fra loro, perché descrivevano con parole diverse
lo stesso concetto. Altri erano troppo specifici; ad esempio, per alcuni avevo ritenuto
inizialmente opportuno utilizzare la funzione code in vivo e quindi riportare come
etichetta la stessa quote. Ho dovuto perciò provvedere ad una generale revisione dei
codici, accostando quelli simili e cercando di capire se si potevano fondere, mediante la
funzione merge del software. Per far questo bisognava riprendere le citazioni collegate ai
singoli codici e verificare che effettivamente potessero essere assimilate. In questa
operazione mi è stato utile procedere man mano ad una progressiva suddivisione dei
codici in famiglie e alla creazione di collegamenti – link – tra i codici stessi, utilizzando a
tal fine gli strumenti di rappresentazione grafica forniti dal programma per visualizzare i
network, cioè le reti di codici che si andavano via via a creare. Da questo lavoro è
scaturito un elenco di 87 codici, e 10 “supercodici”, cioè dei codici che non si collegano
28
Ivi, p. 193.
142
direttamente a delle quotes, ma che “tengono assieme” degli altri codici. Con questa lista
ho proceduto ad una rilettura, rivedendo integralmente la codifica delle interviste.
Molto utile in questa seconda “lettura” è stata la funzione memo – che avevo utilizzato
poco all’inizio, forse perché dovevo ancora impratichirmi nell’uso dello strumento – la
quale mi ha consentito di fissare alcuni appunti veloci, in modo da ritrovare i pensieri nel
momento della scrittura del report.
Il programma fornisce varie modalità di rappresentazione dei risultati, tra cui la Codes
Primary Document Table, una tabella a doppia entrata che mette in evidenza la ricorrenza
dei diversi codici in ciascuna intervista (P).
INTERVISTE
CODICI
accogliere la sofferenza
appartenenza, fedeltà
apprendimento esperienziale
assetto organizzativo
associazionismo professionale
attenzione ai collaboratori
autodeterminazione dell’ospite
autorevolezza
aziendalismo
bellezza
benessere dell’ospite
benessere organizzativo
buonismo, pietismo, "cuore tenero"
cambiamento organizzativo
CAPACITA’ RELAZIONALI
capacità di ascolto
casualità
centralità della persona
chiarezza
coaching
coerenza
COMPETENZA ETICA
competenze professionali
COMPONENTE MOTIVAZIONALE
comunità di pratica
condivisione di principi e valori
conflitto etico interiore, dilemmi morali
conflitto etico tra persone
conflitto etico: tra etica e legalità
confronto con le altre esperienze come
P
1
0
0
0
2
7
1
5
0
0
0
4
0
0
1
0
0
0
0
0
2
0
0
2
0
0
1
2
3
1
0
P
2
0
1
1
0
0
1
0
1
1
0
1
1
1
0
0
0
0
1
2
1
1
0
1
0
0
1
3
2
1
0
143
P
3
0
3
0
0
4
1
0
0
0
0
3
1
0
0
0
0
1
3
0
0
7
0
1
0
1
2
2
3
4
1
P
4
0
2
5
0
1
0
2
0
0
0
5
1
0
0
0
0
1
4
0
0
1
0
1
0
0
7
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2
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0
P
5
0
1
3
0
3
1
1
0
0
0
2
0
0
2
0
1
0
2
9
2
3
0
1
0
0
3
4
3
2
0
P
6
0
1
0
0
1
1
0
0
6
0
5
0
4
2
0
0
1
1
3
0
0
0
2
0
0
1
5
4
0
3
P
7
0
1
0
0
1
0
0
0
3
0
2
0
0
2
0
0
0
1
1
0
3
0
1
0
0
1
2
2
1
1
P
8
0
0
0
0
1
2
0
1
2
1
2
0
1
2
0
0
1
2
1
0
0
0
0
0
0
3
3
1
3
0
P P P
9 10 11
3 0 2
3 1 2
3 3 2
0 0 0
1 1 2
0 2 2
0 0 1
1 1 2
0 0 1
0 0 0
0 2 0
0 0 2
0 0 0
1 2 2
0 0 0
0 1 2
0 0 1
0 5 0
0 0 1
0 1 0
3 1 0
0 0 0
3 1 3
0 0 0
0 1 2
2 1 1
0 1 2
2 3 1
0 1 1
1 0 1
P
12 TOT.
6
1
16
1
19
2
2
0
22
0
11
0
10
1
6
0
13
0
1
0
29
3
5
0
6
0
14
0
0
0
4
0
5
0
20
1
17
0
6
0
20
1
0
0
16
0
0
0
5
1
26
3
28
4
26
0
14
0
7
0
occasione di crescita
coraggio, determinazione
crederci
credibilità
crescita professionale
cultura organizzativa
decisione
delega
distinzione dei ruoli e delle competenze
economicità, pareggio di bilancio
efficienza
empatia
ENTE PUBBLICO
episodio emblematico
esempio
etica professionale
famiglia
fermezza, tenacia e rigore
fiducia
flessibilità
formazione dei collaboratori
formazione del manager
formazione etica
gestione dell’incertezza e del rischio
giustizia, equità, pari opportunità
imparzialità e trasparenza
impegno
laicità
legalità
libertà di movimento dell’ospite
MANAGEMENT
MANAGER
manager sociale
mediazione
mission dell’organizzazione
modelli manageriali
onore
ORGANIZZAZIONE
orgoglio professionale
orientamento al risultato, efficacia
pensiero morale
pensiero riflessivo
percorso formativo-professionale
personalizzazione degli interventi
piacere del lavoro
politica
0
0
0
0
0
6
0
1
1
1
0
0
0
0
3
1
0
0
0
1
3
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0
0
0
0
0
4
4
0
0
1
0
0
5
0
0
0
3
0
0
3
2
0
0
1 0 0
0 3 0
0 2 1
1 7 1
0 0 2
3 4 2
0 0 1
0 0 0
1 0 0
0 0 0
1 0 2
0 0 0
8 0 2
4 1 1
0 0 2
0 0 0
1 0 0
1 0 4
0 0 0
0 1 2
0 3 0
0 0 3
0 1 0
1 0 0
2 5 0
6 12 0
0 0 0
0 1 1
0 0 0
0 0 0
0 0 0
0 0 1
0 1 1
0 0 1
1 2 3
0 0 0
0 0 0
0 0 0
1 2 0
0 0 0
0 0 2
0 2 1
0 1 1
2 1 0
0 1 1
144
2
0
0
1
0
6
1
1
0
0
1
0
4
0
1
7
0
3
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0
1
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2
2
2
4
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0
0
1
1
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1
1
2
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0
2
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5
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1
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4
1
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2
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2
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1
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3
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3
1
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0
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0 1 0
0 1 1
1 0 0
2 2 2
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0 3 0
0 0 1
0 0 0
1 4 0
0 0 0
0 1 0
0 0 0
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2 2 2
6 4 0
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2 5 1
2 0 0
0 0 1
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0 0 1
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6 0 2
2 14 1
3 0 0
2 0 1
0 0 0
0 0 0
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0 0 3
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0 5 0
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0 0 0
1 0 2
0 0 0
0 0 0
2 0 0
1 2 2
0 0 0
0 0 0
0 2 3
0
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0
0
0
5
0
0
0
2
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0
2
1
0
3
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0
0
1
0
1
0
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0
2
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0
0
0
0
0
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2
1
0
0
0
0
0
2
1
0
0
0
0
2
0
6
0
3
2
1
2
0
0
0
0
2
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0
0
1
1
0
0
1
6
1
1
4
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0
0
0
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1
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1
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0
2
0
1
1
0
2
2
0
0
0
1
1
1
0
0
0
0
1
0
2
0
1
1
0
0
0
0
0
2
0
1
0
3
1
0
0
0
0
0
0
1
2
0
0
1
0
0
0
1
0
0
0
6
7
4
25
3
38
5
4
16
3
6
0
23
16
17
16
10
11
4
6
10
10
10
8
19
48
4
11
4
0
0
9
3
9
21
2
0
4
12
0
15
17
4
6
10
PRINCIPI MORALI
pubblica amministrazione
QUALITA’ PERSONALI
qualità del servizio e miglioramento
continuo
questioni di bioetica
questioni di senso
relazionalità
religione
responsabilità
rispetto
ruolo del manager
senso del proprio lavoro
SERVIZIO ALLA PERSONA
sé morale
sfida
solidarietà e pubblico bene
solitudine del manager
standardizzazione del servizio
stile
sviluppo delle competenze dei collaboratori
umiltà
utilità sociale
0
1
0
0
0
0
0
3
0
0
1
0
0
3
0
0
3
0
0
5
0
0
3
0
0
3
0
0
0
0
0
1
0
0
0
0
23
1
0
8
0
0
1
0
4
0
2
0
0
16
2
0
0
1
6
2
1
0
0
0
0
0
2
0
1
2
0
0
0
2
2
0
2
2
1
1
0
1
0
3
2
0
1
4
1
0
1
5
1
1
2
1
0
1
0
3
0
0
1
5
2
1
2
1
0
1
2
0
4
0
8
1
0
1
1
0
0
6
0
0
1
0
0
1
2
0
5
2
1
0
0
2
0
3
1
0
1
0
0
2
2
2
0
1
4
0
3
0
0
0
0
0
0
1
1
0
0
1
0
2
0
1
0
0
1
0
0
0
0
2
1
0
0
2
0
3
0
2
1
2
2
0
1
0
0
1
2
0
5
0
3
0
1
0
0
1
2
0
0
0
2
0
0
3
0
0
2
0
1
0
2
2
0
1
1
0
1
0
0
0
0
0
0
0
0
0
2
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0
0
0
3
0
0
2
4
4
0
0
1
0
0
2
0
0
2
0
3
1
3
5
1
1
2
0
0
0
3
1
1
2
0
0
1
3
0
TOT.
89 77 125 93 118 105 75 105 67 61 98 62
0
0
6
23
16
7
29
13
22
3
0
15
4
9
18
12
12
15
10
12
1.075
Tab. 4 – Codes-Primary-Documents-Table
L’analisi di questa semplice tabella è stata già di per sé fonte di molte riflessioni, che
hanno contribuito a riformulare ricorsivamente i codici e i loro collegamenti.
Il software offre anche altre funzioni, di cui però non ho fatto utilizzo, come la codifica
automatica o il “Word cruncher”, che conta tutte le parole presenti nei documenti,
evidenziando quelle più ricorrenti. Ho ritenuto, infatti, che ciò non fosse particolarmente
utile ai fini dell’indagine.
Un tool che ho utilizzato invece con profitto, ai fini della creazione dei network, è stata
l’analisi delle co-occorrenze. Il programma consente infatti di individuare possibili
associazioni trai codici, in base alla loro vicinanza all’interno del testo. Il computer, in
buona sostanza, incrocia ciascuno degli 87 codici con gli altri e riporta il numero delle
volte in cui si sono ritrovati all’interno della stessa quote o in quotes diverse ma almeno
parzialmente sovrapposte. Chiaramente, trattandosi di una ricerca di tipo qualitativo, da
tali dati numerici non può essere fatta derivare alcuna evidenza statistica. Essi mi hanno
tuttavia fornito delle semplici indicazioni che sono state poi sottoposte a un’analisi e a un
confronto diretto sui testi. La creazione dei collegamenti tra i codici si è servita dunque di
145
tale strumento – per usare un’espressione mutuata da Mortari 29 – solo a livello
“indiziario”, dato che la sua costruzione è risultato solamente di un processo d’analisi
teoretico-argomentativa.
Nei prossimi capitoli procederò a presentare le risultanze di questo lavoro di
“costruzione”, illustrando i diversi codici – che verranno evidenziati, riportandoli in
corsivo – e mettendo in luce i collegamenti individuati fra loro. Con ciò cercando di dare
a questo report di ricerca, per quanto possibile, un “profilo narrativo”.
A tal fine, darò molto spazio nell’esposizione alla “viva voce” dei manager intervistati,
riportando stralci delle interviste realizzate. Ogni citazione è contrassegnata con il codice
attribuito automaticamente dal programma Atlas.ti. In tale codice il primo numero si
riferisce al documento primario e quindi è associabile all’intervistato, mentre il secondo
numero individua la singola quote. Per questioni di riservatezza ho omesso o modificato
ogni elemento che potesse rendere riconoscibili gli autori dei singoli contributi.
Nel riportare questi brani ho cercato di mantenermi il più aderente possibile al contenuto
letterale del racconto dei manager, apportandovi – quando l’ho ritenuto indispensabile per
la comprensione del teso – solo lievissime modifiche relative alla forma, mai sostanziali.
29
Ivi, p. 147.
146
6
I protagonisti della narrazione
Quando ho più idee degli altri,
do agli altri queste idee,
se le accettano;
e questo è comandare.
Italo Calvino
6.1
Il manager sociale
La narrazione inizia dal protagonista principale, la “figura” che stacchiamo, per un
istante, dallo “sfondo” del suo contesto organizzativo.
Per quanto riguarda la formazione di base, prevale nel nostro campione non
rappresentativo l’indirizzo di studi giuridico-amministrativi; dei dodici dirigenti
intervistati, infatti, 6 sono laureati in scienze politiche e due in giurisprudenza, mentre
due hanno una laurea in psicologia, uno in pedagogia (vecchio ordinamento). e uno il
diploma di maturità.
La casualità sembra essere l’elemento guida che li ha fatti “approdare” alla direzione di
una struttura di ricovero per anziani. Ci si sono cioè ritrovati per caso, senza una precisa
intenzionalità, seguendo i corsi della vita, nei quali però qualcuno intravede una qualche
predisposizione o un qualche “destino”…
«Beh, sono arrivata casualmente a lavorare in ambito case di riposo. Io ho la
maturità linguistica e con questo diploma ho vinto inizialmente un concorso in
Comune. Dal Comune sono arrivata per mobilità in una casa di riposo. È stata una
coincidenza, diciamo, molto, molto casuale: quei treni che si prendono una volta
nella vita e non si sa dove portano» (4:1).
«Un po’ per caso, nel senso che io ho vinto un concorso nel ’98 in realtà come
ragioniere economo di questa struttura. Poi dal 1° gennaio ’98 ho fatto il ragioniere
economo» (5:1).
«Occasionalmente, nel ‘90, avevo appena iniziato, ho deciso di fare un concorso,
così per provare, perché nel settore pubblico sei un po’ più agevolato per poter
studiare e mi è andata bene subito al primo colpo» (6:1).
147
«Ho fatto questo concorso perché? Il perché all’epoca è che era stato un semplice
istinto, cioè nel senso che a me la pubblicità e le affissioni, cioè un settore fiscale,
non mi… non lo sentivo soddisfacente, non che non mi piacesse, ma non mi dava
un…no? E ho detto: “Mah, proviamo a fare un salto in questo mondo
dell’assistenza, del sociale”. Ma non avevo assolutamente cognizione di quello…»
(11:2).
«Direi che sono arrivato qua un po’ perché, come tutte le cose di questo mondo,
abbiamo qualcuno che ci indica o ci aiuta a individuare una strada» (8:4).
I percorsi professionali dei 12 intervistati sono estremamente eterogenei, per cui è
difficile individuare un denominatore comune, se non la “matrice pubblicistica” della loro
carriera. Per alcuni, la crescita professionale è avvenuta sempre all’interno della stessa
Ipab, altri invece hanno cambiato più volte ente, provenendo anche da settori diversi,
dall’assistenza anziani e dal sociale, ma generalmente rimanendo nell’ambito pubblico.
Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, quindi, sembrerebbe più facile – o
comunque più percorribile – il passaggio dalla gestione di settori diversi della Pubblica
Amministrazione rispetto a quello tra la direzione di una casa di riposo privata e la
direzione di una casa di riposo pubblica.
«Io sono dipendente dell’Ipab da oltre 35 anni, ho iniziato come impiegato in
segreteria in una casa di riposo, successivamente ho migliorato la mia posizione e
sono diventato funzionario, poi direttore della sezione amministrativa, poi
funzionario diciamo con compiti specifici nella posizione organizzativa e poi son
diventato dirigente appunto nell’arco di questi 35 anni. Nel corso di questi anni ho
anche avuto modo di prestare la mia opera in vari settori dell’ente, noi siamo un
ente piuttosto complesso e variegato che amministra una serie di servizi per persone
anziane e per giovani e giovani adulti e ha un considerevole patrimonio immobiliare
quindi nel corso della mia carriera ho anche prestato servizio presso l’ufficio
patrimonio. Sono stato responsabile dell’ufficio patrimonio, sono stato responsabile
della segreteria generale; insomma ho un’esperienza abbastanza variegata di questo
ente, che mi ha condotto nella posizione in cui mi trovo attualmente da 4 anni circa»
(7:1).
«Nel ’98 ho iniziato; in un primo periodo mi occupavo della ragioneria, tra l’altro in
una struttura, che è questa, che all’epoca aveva un apparato amministrativo fatto di
nulla. In realtà eravamo il direttore ed io; non c’era assistente sociale, non c’era
148
coordinatore, non c’era nulla e questo mi ha messo di spaziare: mi occupavo degli
ingressi, mi occupavo delle rette, mi occupavo dei turni… ho potuto in questo modo
esplorare tutti i settori, dal punto di vista sia amministrativo e contabile, sia
operativo, quello cioè che significava coordinare gli operatori, eccetera» (5:11).
«Ho avuto esperienze in altri enti, oltre al mio, nel senso che sono oltre 20 anni che
sono lì, facendo poi altre esperienze a scavalco in altri enti, ma poi rimanendo
sempre incardinata in questo. Questo è il mio panorama professionale» (9:9).
«Ho di fatto lavorato nell’ambito della pubblica amministrazione e il mio stile è
sempre stato quello di cambiare possibilmente lavoro ogni tot anni, perché ritenevo
e ritengo tuttora che un arricchimento professionale soprattutto una diversa
qualificazione passi anche attraverso l’acquisizione di esperienze che devono
effettivamente darti la possibilità di arricchirti, da una parte, e dall’altra di meglio
conoscerti» (3:1).
Per i direttori che hanno una formazione non strettamente giuridico-amministrativa, in
particolare per i due psicologi, sembra invece prevalere l’interesse professionale specifico
per l’ambito degli anziani, piuttosto che il profilo generico di “manager pubblico”.
Questo si collega a scelte già maturate durante il loro percorso formativo universitario.
«Quindi io ho una costanza di interesse professionale per il problema in generale
dell’invecchiamento e se vogliamo negli ultimi ventidue/ventitré anni ho sempre
lavorato all’interno di strutture pubbliche con funzioni e ruoli di responsabilità,
come organizzatore di servizi e, con questo momento di apice che è stato in questi
ultimi mesi, di direttore di questa struttura. Il futuro vedremo cosa ci riserva. Questo
per sommi capi il mio percorso formativo-professionale» (10:1).
«Allora,
mi
laureo
in
psicologia,
inizio
un
percorso
con
una
tesi
sull’invecchiamento, il decadimento cognitivo nell’invecchiamento, una delle prime
dell’epoca, e inizio a lavorare come tecnico, diciamo, come psicologo sul tema degli
aspetti cognitivi dell’invecchiamento» (11:1).
Al di là dell’articolazione dei percorsi professionali di ciascuno, ho colto negli intervistati
una forte identità professionale di “manager sociale”, che è fatta innanzitutto di idealità,
di motivazioni, di ciò che dà senso al proprio lavoro nell’ambito sociale.
«Adesso faccio fatica a dire il manager, un manager in astratto. Io mi sento
fortunato a lavorare in questo settore. Quando sono andato via poi, per vari motivi,
potevo andare anche in altri settori, però mi sarebbe spiaciuto molto e mi sento
149
fortunato a lavorare in questo settore, perché ti senti parte della creazione di utilità
sociale… poi, anche l’impresa crea utilità sociale, ma la sento in maniera diversa. È
una motivazione che uno si dà, insomma… sicuramente va benissimo fare il
manager in un’industria però la vivrei comunque diversamente» (6:45).
Un’identità che, come ogni altra identità, si costruisce nel confronto e nella relazione con
gli altri ed in particolare con l’organizzazione. Il manager sociale è un professionista che
sta dentro ad un’organizzazione, intrattenendo con essa un rapporto quasi “simbiotico”.
Egli è chiamato a modificare la struttura organizzativa, venendone a sua volta modificato.
«Per quanto mi riguarda, per la mia esperienza, è il manager che dà l’imprinting, nel
senso che sta proprio a questa figura professionale calcare alcuni aspetti
organizzativi piuttosto che altri» (4:12).
L’organizzazione determina le funzioni e la natura stessa del lavoro del direttore, oltre
che influire inevitabilmente sul modo di interpretare il ruolo professionale.
«Solo un dato, il dato dimensionale. Noi in Veneto abbiamo strutture medio-grandi,
anche grandi. In altre regioni ci sono molte strutture medio-piccole. In molte regioni
è normale avere strutture di 60 posti letto. Lì chi fa il direttore di struttura, fa il
direttore di struttura ma fa un diverso mestiere, perché avrà un diverso contatto,
avrà diverse funzioni…» (6:40).
In molte delle Ipab visitate, il ruolo apicale è denominato “Segretario-Direttore”. Tale
espressione sta ad indicare un cambiamento professionale avvenuto nel tempo, che è
stato vissuto in prima persona da molti degli intervistati e che forse per certi aspetti non è
stato ancora interamente metabolizzato all’interno dei modelli professionali e della
cultura organizzativa.
Esisteva tradizionalmente in questi enti la figura del Segretario, che aveva principalmente
la funzione di garante della regolarità giuridica degli atti amministrativi. A questa
funzione si sono andate ad aggiungere attribuzioni di gestione manageriale. Ne è scaturita
quindi la figura composita del “Segretario-Direttore”, che assomma appunto queste due
differenti “anime”.
«Naturalmente da allora ad oggi la professione ha subito un rivolgimento radicale.
Allora io ricordo bene che il ruolo era veramente strettamente amministrativo, era
molto simile a quello che era il segretario comunale; era fare il segretario della
struttura, non c’erano direttori allora, c’erano i segretari, per cui il ruolo era
150
puramente burocratico, diciamo così. L’evoluzione negli anni fino ad oggi è stata
indirizzata verso una diversa formulazione del ruolo in funzione degli obiettivi della
struttura. In quel momento, in cui sono stata assunta io, bastava fare gli atti giusti,
legalmente giusti, oggi bisogna dare dei risultati, che sono dei risultati sia in termini
economici, a cui tengono tanto i nostri interlocutori istituzionali, giustamente in un
momento come questo, difficile, ma sono anche e principalmente dei risultati di
salute per gli ospiti» (1:3).
«Le spiego il significato del profilo di “Segretario Generale” che ho avuto modo di
imparare in una lezione universitaria: segretario perché al di sopra nella nostra testa
c’è la legge. Ricordo che esistono per esempio il Segretario alla Presidenza della
Repubblica, il Segretario generale del Comune o della Provincia, il Segretario della
Fondazione Cassa di Risparmio. L’evoluzione dei tempi e cioè l’accentuarsi del
momento gestionale rispetto a quello del mero rispetto delle leggi vigenti, ha portato
a creare l’immagine del “direttore manager”, come se fossimo una impresa privata»
(9:19).
Si tratta di un cambiamento organizzativo prima che professionale, avviato agli inizi
degli anni ‘90, che tende a introdurre in un sistema chiuso e autoreferenziale come quello
della burocrazia pubblica, tutto rivolto all’ossequio della norma, al rispetto formalistico
della legalità, nuove istanze di efficienza, di efficacia, di economicità. Ciò significa
modificare la cultura organizzativa degli enti pubblici, “contaminandola” con elementi di
tipo aziendalistico, che non sono solamente dati da procedure e strumenti gestionali, ma
anche da nuovi valori, che vanno ad aggiungersi e, spesso, a collidere con i valori di cui è
portatrice la Pubblica Amministrazione. Un passaggio quindi di non poco conto.
«Bisogna ammettere che il passaggio da una gestione prevalentemente giuridica ad
una gestione imprenditoriale ha bisogno di un certo rodaggio, poiché esige un
cambiamento di mentalità di portata epocale» (9:19).
I dirigenti rappresentano il motore di tale cambiamento, in quanto sono chiamati a
riformare la cultura organizzativa, attraverso l’introduzione di nuovi strumenti operativi,
ma anche e soprattutto di nuovi valori. Ciò ha richiesto loro la fatica di rivedersi in
termini di ruolo professionale, mettendosi in gioco, aprendosi al confronto e ripensandosi
come manager sociali.
151
«Nel momento in cui tu rifletti su di te come manager, non rifletti solo su aspetti
meramente tecnici, ma anche sul tuo ruolo ed è importante vedere anche altri mondi
perché altri mondi hanno visioni diverse» (6:40).
Una riflessione, questa, che ha coinvolto anche la dimensione etica, dato che si andava a
rifondare una professione e quindi si veniva a porre la questione del senso del proprio
lavoro e del modo più giusto per svolgerlo.
«Per cui questo ha rivoluzionato sicuramente la nostra professione negli ultimi
vent’anni e questo in merito anche al tema che interessa a lei, cioè dell’etica, perché
nel momento in cui c’è stata una presa di coscienza del fatto che dovevamo
rispondere non solo di risultati di tipo economico, ma di salute degli ospiti,
naturalmente abbiamo dovuto iniziare ad avventurarci su una serie di temi che non
sono strettamente di competenza di una funzione amministrativa come può essere la
mia» (1:3).
Questi enti non sono stati privatizzati, conservano la loro natura giuridica pubblica, la
quale prevede che le funzioni di governo siano affidate ad un organo politico. Quindi
sono tenute ad assumere effettivamente un approccio di tipo “imprenditoriale”, ma nel
contempo devono mantenere quel sistema di garanzie tese ad assicurare la trasparenza,
l’imparzialità e il buon andamento della Pubblica Amministrazione. Ciò richiede al
manager di svolgere al meglio entrambe le funzioni di Segretario-Direttore.
«….a proposito di questa doppia veste: segretario da una parte e direttore
dall’altra… perché c’è l’organo politico, ecco, per questo è richiesta la doppia
funzione…» (9:19).
Siamo di fronte a un mutamento radicale della natura stessa della professione, che
incontra chiaramente le inevitabili resistenze al cambiamento, che ogni sistema o
organismo mette in atto in queste occasioni.
«C’è ancora una sacca di resistenza che a mio modo di vedere è molto ferma, molto
importante, che reputa che il manager possa essere ancora abbastanza burocrate, e si
occupa delle sue “cartine”, della legalità degli atti e basta» (1:20).
Evidentemente in questo cambiamento emergono le capacità individuali di adattamento al
nuovo, la flessibilità che ciascun dirigente riesce ad esprimere, in misura più o meno
accentuata, nell’acquisire le competenze che gli sono richieste dal mutato profilo
professionale.
152
«C’è quello che è più orientato a guardare che tutti gli aspetti amministrativi siano a
posto, ma poi si disinteressa di tutto ciò che viene riversato, in termini di contenuti,
all’interno dell’organizzazione o delega altri a farlo…» (4:12).
Per quanto riguarda i modelli manageriali, nessuno degli intervistati si riconosce – per lo
meno dichiaratamente – nel tipo del “burocrate”, probabilmente anche perché vi è la
consapevolezza che si tratta di un modello non più sostenibile. Ho potuto cogliere
certamente delle differenze di “stile” nell’approcciarsi a questo nuovo profilo
professionale, ma devo dire che emerge in tutte le interviste un’asserita adesione all’idea
di un manager sociale molto “speso” all’interno della gestione. Le differenze sono
semmai nel tipo di gestione manageriale. Per alcuni è declinata più sul versante dei conti,
del bilancio, degli atti gestionali. Per una larga componente del gruppo di riferimento,
invece, riguarda anche e soprattutto gli aspetti organizzativi e quindi si addentra nel
merito della gestione assistenziale e della realizzazione dei risultati di salute dell’ospite.
«Sì, io non sono quel tipo di direttore, nel senso che un giorno sono andata ad un
corso in cui il relatore parlava di walking manager, cioè il direttore che è dentro ai
reparti, che guarda. Io i miei due o tre giretti, non per andare a controllare, ma per
guardare tutta una serie di cose, me li faccio. Mica faccio il topo di archivio qua
dentro, sempre qui dentro, infischiandomene di quello che succede fuori» (4:38).
«C’è una necessità per il direttore, che è il manager del sociale, di entrare nei
processi di lavoro e di avere una conoscenza non dico operativa, perché
evidentemente non è che io sappia “fare un bagno”, però una certa conoscenza da
vicino di quello che succede nei processi di lavoro e comunque un dialogo continuo
con chi lavora in prima linea, in trincea» (17:17).
Questo essere responsabili dei risultati di salute dell’ospite, spinge alcuni manager sociali
a lasciare il proprio ambito originario, fatto di norme giuridiche e di prassi
amministrative, al cui interno si muove con confidenza, per avventurarsi in campi
sconosciuti, in cui è più che mai necessario interloquire con altre professionalità e
soprattutto acquisire nuove conoscenze e competenze professionali.
«Eh, vede, in realtà è proprio questo, perché alla fine siamo sempre noi responsabili,
anche delle competenze mediche. Nel senso che noi siamo i gestori di tutte le
attività, anche sanitarie, per cui quando il medico fa qualcosa, bene o male, noi
siamo chiamati a rispondere per lo meno in vigilando. Per cui nel mio ente, per
153
esempio, alcune materie che possono sembrare di stretta competenza medica, per
esempio questa materia dell’alimentazione artificiale o quella della contenzione,
delle spondine (spondine che non possono essere messe se non dietro una
prescrizione medica)… però nel nostro ente in queste materie, che hanno una
connessione con l’etica abbastanza importante, noi abbiamo definito con una nostra
regolamentazione che il medico comunque deve condividere con l’equipe. […] Il
direttore è responsabile nell’aver correttamente costruito dei percorsi decisionali
corretti. E quindi è ovvio che se dopo la spondina decidono di non metterla e
succede qualcosa non sono direttamente responsabile io. Sono responsabile però se
non ho dato loro gli strumenti corretti per lavorare, non ho dato disposizione che
l’Uoi si debba fare, che ci sia il tempo per farla, per discutere, cioè
dell’organizzazione. Io sono responsabile dell’organizzazione» (1:47).
«Il direttore è il responsabile della salute della persona accolte e quindi io, forte di
questo, sono anche diciamo andata oltre a quella che è vista la modalità del
direttore… però all’interno del sistema non siamo pronti, secondo me, a cogliere
questo tipo di spunti… cioè il direttore deve fare il direttore e guardare le carte,
punto. Poi per tutto il resto ci sarà qualcun altro, il coordinatore, il medico,
l’infermiere… cioè nella visione collettiva della persona direttore, le persone, il
sistema, alcuni attori dentro nel sistema, pensano ancora che il direttore debba
essere quello che si preoccupa solo delle carte, punto. Non che le carte sono
propedeutiche al fatto che… se nelle carte ci sono scritte tutta una serie di cose che
abbiamo condiviso prima: abbasso la conflittualità, facciamo tutti lo stesso
percorso, abbiamo tutti una meta da raggiungere, degli obiettivi e che rispetto a
questo dei riflessi positivi sicuramente ci possono essere all’interno di una
organizzazione… no, il direttore deve star chiuso in ufficio e quindi stare là, a girare
le carte…» (4:37).
Per quanto attiene al ruolo, si ritrova la consapevolezza, da parte di molti dei manager
intervistati, di gestire un ruolo di potere nei confronti della struttura organizzativa, in cui
il direttore ha “il coltello dalla parte del manico”.
«Dopo va detta anche un’altra cosa, che è la parte meno nobile del ragionamento. Il
dirigente, il direttore, non deve mai perdere di vista che il coltello dalla parte del
manico ce l’ha… è inutile che si arrabbi, inutile che entri in conflitto. Si entra in
conflitto quando due elementi sono equidistanti allora uno deve per forza dimostrare
all’altro che è più forte, ma quando tu hai il coltello dalla parte del manico, rispetto
agli aspetti formali, decisionali, perché devi andare a irritare un’altra persona,
154
perché devi entrare in conflitto… provi a ragionare, provi a fargli capire che forse
c’è un altro pensiero... se non lo vuole capire, va beh, poi tanto decido io (ride).
Però sta però il fatto di non lasciare tracce di irritabilità, di conflitto: è già
importante, perché uno che decide e che fa anche baruffa, eh... crea un clima di
terrore» (10:18).
Si tratta di un potere ed una distinzione del direttore che si rendono materialmente
visibili, anche attraverso segni esteriori, i quali ne indicano lo status e il ruolo di prestigio
all’interno dell’organizzazione. Ciò che può sembrare di primo acchito un insieme di
privilegi ingiusti svolge tuttavia una funzione di riconoscimento sociale e avrebbe anche
ragioni di utilità generale.
«Ho imparato anche che le persone vanno messe nella condizione di rendersi conto
di chi hanno di fronte. Io, ad esempio, ho dovuto fare un lavoro su di me, sul
ruolo… Oggi ad esempio mi vede così, in jeans, perché oggi ho fatto il mio
ragionamento, ho detto: “Ma sì, è venerdì, vado tranquilla, comoda oggi…”. Ma ho
imparato che ci sono dei comportamenti che agiscono in maniera molto più
profonda delle parole per dire chi siamo e per mettere anche gli altri nella
condizione di sapere con chiarezza con chi stanno parlando e di cosa possono o non
possono permettersi. Per cui ho fatto un lavoro anche sul ruolo, sul modo di pormi,
a livello di percorso personale… chi sono a livello di organizzazione e, per esempio,
che io avessi – cosa che una volta io rifuggivo – un ufficio tutto mio, che io avessi
come direttore un apri-cancello che gli altri non hanno, che io come direttore ho
determinate caratteristiche, per esempio che ho l’ufficio arredato meglio degli altri –
“sparo” – non è un’ingiustizia, perché le persone non sono tutte uguali. Ma le
persone devono avere quello che serve al lavoro. Che io abbia l’apri-cancello non
significa che io sia meglio e l’altro è peggio, ma che io ho un certo costo all’interno
dell’organizzazione, ho un certo ruolo, per cui i miei tempi devono essere
razionalizzati, spesi al meglio. Una volta io mi facevo problema a chiedere ad un
collaboratore di farmi una fotocopia, perché mi pareva di umiliarlo e mi pareva che
fosse un segno di… che me lo facessi io. Ma nel tempo in cui mi dedico alle
fotocopie non faccio quella cosa che posso fare solo io, perché sono il direttore e
quindi non consento alla struttura di avere le cose che io le devo dare» (5:54).
Il manager gode quindi di benefici che lo distinguono dagli altri membri
dell’organizzazione. Questi benefici sarebbero giustificati dal fatto che andrebbero ad
ottimizzare l’impiego di una risorsa importante per l’organizzazione.
155
L’esercizio del potere come servizio è un concetto che ho ritrovato spesso nelle interviste
realizzate.
«… io mi penso sempre come il prosciutto in mezzo al panino, dove sopra di me ho
delle persone che hanno delle aspettative riguardo a quello che devo portare avanti
io, che hanno delle logiche a volte molto diverse da quelle che hanno quelli che
sono gerarchicamente sotto di me, ma che comunque condividono tutta una serie di
aspetti di gestione interna… se poi andiamo a mettere insieme l’aspettativa
dell’Amministrazione comunale piuttosto che quelle dell’Ulss, piuttosto che quelle
della Regione, piuttosto che quelle dei familiari, lei capisce che tenere insieme tutti i
pezzi e cercare di essere rispondente, per quello che è possibile, rispetto a tutti
questi tipi di aspettative o mediare rispetto al fatto che questa può essere più
conciliante con quella o vediamo di mettere prima questa piuttosto che quella,
diventa un lavoro molto di equilibrismo e credo che all’interno dei servizi alla
persona l’equilibrio sia la strada maestra da percorre» (4:28).
Quello del manager è un ruolo difficile, che esige delle competenze professionali
diversificate e di alto livello. Richiede innanzitutto una conoscenza su un vasto spettro di
saperi, essendo egli all’apice della struttura, a cui fanno capo diversi ambiti professionali.
Il manager, infatti, per poter esercitare il suo ruolo di direzione e di coordinamento, deve
riuscire a entrare nel merito dei diversi contenuti professionali, anche al fine di valutare
l’operato dei propri collaboratori.
«Il direttore deve essere una persona competente. Non sarebbe certo bello sapere
che i tuoi collaboratori dicono: “Non vado dal direttore, perché ne sa meno di
me…”. Questa sarebbe una cosa grave e invece è importante che un direttore
conosca gran parte della materia dei collaboratori, non certo entrare nel dettaglio,
perché sarebbe impensabile, però saper capire qual è il problema, saper anche
giudicare se il proprio collaboratore – nel mio caso sono i “quadri”, cioè le figure
intermedie – hanno risolto i lavori a loro affidati. Questo è importante, perché un
direttore non deve essere ostaggio dei propri collaboratori» (9:36).
Il manager rischia di divenire “ostaggio” dei propri collaboratori se non conosce
sufficientemente i loro diversi ambiti, proprio perché la conoscenza è potere.
Chiaramente una certa asimmetria informativa è inevitabile, perché è il singolo
professionista lo specialista della sua materia, ma il manager deve saper dialogare con
tutte le figure professionali che fanno capo a lui e riuscire anche a dirigere il loro lavoro.
156
Ciò implica che il manager deve diventare una sorta di “tuttologo”, cioè deve sapere,
almeno nelle linee generali, un po’ di tutto.
«Diciamo che nella media… lasciamo stare quei pochi enti grossi come questo, a
livello regionale… Nella media degli enti c’è un direttore unico che fa da direttore,
fa da segretario, fa le delibere, le termina tutte lui… quindi, è chiaro che in quella
dimensione lì […] a te chiedono di essere un tuttologo. Non puoi fare il dirigente
che si specializza in un settore, perché non è consentito… quindi, sicurezza del
personale, appalti, legislazione sanitaria, socio-sanitaria, l’HACCP 30, di tutto… e
questo ti fa sentire di più il peso… è un lavoro che è bello, perché comunque ti
arricchisce molto, perché ti fa conoscere le cose, volenti o nolenti ti… cioè…te le fa
conoscere tutte, perché ti vengono passate comunque, ti vengono addosso
comunque. Non riesci a essere lo specialista delle norme, della norma del settore,
perché è impossibile, però ti costringe ad avere un certo livello di approfondimento,
ecco. E quindi questo ti arricchisce molto; almeno io ho sentito che questo consente,
anche quando affronti un problema, di mettere assieme possibilmente i vari aspetti,
ti viene naturale nel tempo facendo questo lavoro qua da soli, ti viene naturale,
quando ti metti ad affrontare un tema, pensare ai collegamenti… però ecco questo è
il bello, il rovescio è che sei solo nel momento in cui decidi» (11:53).
Effettivamente non c’è la possibilità, se non magari nelle strutture di grandi dimensioni,
dove ci sono diversi ruoli dirigenziali, di specializzarsi in un determinato ambito. Si deve
necessariamente spaziare, perché è quello che ti chiede il sistema. Se esiste un qualche
“specifico” disciplinare del manager, potremmo forse trovarlo nella scienza
dell’organizzazione. All’interno della nuova visione di manager, molto impegnato sul
campo dell’organizzazione dei servizi, più che sul versante amministrativo, quello è
chiaramente un ambito di saperi fondamentale.
«Devi conoscere un po’ tutte quelle che sono le ramificazioni della gestione degli
enti, quindi e devi occuparti anche, è buona norma occuparsi anche della gestione
dei servizi, perché non puoi fare il direttore solo della parte amministrativa, che già
sarebbe tanto… ciò che qualifica il direttore secondo me è la parte, diciamo,
organizzativa, come facciamo progredire i sevizi, come facciamo a garantire una
frontiera di benessere, quali sono le risorse in campo, come cercare di miscelarle
30
L'HACCP (Hazard Analysis and Critical Control Points) è un sistema di autocontrollo igienico imposto
a tutte le strutture che erogano servizi di ristorazione ai propri utenti. Esso si basa sul controllo
sistematico dei punti della lavorazione e di somministrazione degli alimenti in cui vi sia un pericolo di
contaminazione sia di natura biologica che chimica ma anche fisica.
157
bene, come… ecco quindi io mi occupo, specialmente in quegli enti, sono tornato a
occuparmi molto in diretta dei servizi…» (11:55).
C’è chiara consapevolezza, da parte degli intervistati, che le competenze richieste dalla
loro professione vanno al di là della mera conoscenza.
«Quindi io direi prima di tutto… chiamiamola competenza: di che cosa è fatta la
competenza di un direttore? Certo, devono esserci delle conoscenze, devi sapere
delle cose, perché questo è importante… Però devi sapere anche relazionarti con gli
altri» (5:7).
In particolare, tra le competenze professionali richiamate maggiormente dagli intervistati,
molta importanza viene attribuita a quelle comunicative e relazionali, ciò in
considerazione dell’elevato “tasso di relazionalità” che ha questo tipo di lavoro.
«Inoltre il nostro lavoro consiste in buona parte nel metterci in relazione con le
persone – dipendenti e ospiti e familiari – persone che evidentemente presentano
anch’esse problemi sempre nuovi. Quindi il nostro lavoro richiede applicazione, ma
anche fantasia e creatività» (9:6).
Alla capacità relazionale va associata la capacità di risposta alle diverse esigenze
collegate alla variabilità di un lavoro che non è un “lavoro di scrivania”:
«Dico sempre che non abbiamo un lavoro di scrivania, cioè un lavoro che si ripete
di mese in mese o di semestre in semestre, come hanno invece i miei collaboratori
dove ognuno ha le proprie competenze e del lavoro ordinario da sbrigare; le proprie
scadenze da rispettare e quindi un lavoro che si ripete. Noi dirigenti o direttori
abbiamo naturalmente una parte di lavoro legato alla nostra funzione, ma dobbiamo
essere pronti ad affrontare e risolvere i problemi nuovi che la vita e l’ordinamento
giuridico suscitano in continuazione» (9:6).
Ed è forse proprio questa variabilità del lavoro, questo essere chiamati ad assumere
decisioni tempestive, a risolvere problemi complessi, che richiede anche competenze di
tipo etico:
«Quando si opera a questo livello bisogna avere una scala di valori […]. Occorrono
quindi doti culturali e intellettuali, ma esse non bastano, bisogna avere principi
etici, che servono a risolvere nel modo più giusto possibile i problemi vecchi e
nuovi che sorgono» (9:6).
158
Ma questo è, ovviamente, un argomento che riprenderemo più avanti.
6.2
Il contesto organizzativo
Dal fatto che il manager è un professionista in un’organizzazione, con la quale intrattiene
un rapporto “simbiotico”, consegue che non si possa considerare il primo (il manager)
senza prendere in esame anche la seconda (l’organizzazione), tanto risultano intrecciate le
due entità. Un intreccio e una consonanza che sono insiti nel rapporto organico tra
direttore ed ente: il direttore è un organo dell’ente e quindi ne incarna finalità e mission
dell’organizzazione.
«… c’è comunque una trasposizione dei fini, perché se tu sei in un’organizzazione
come questa, tu ti senti responsabile in prima persona di tutta la filiera e quindi porti
avanti…» (6:3).
«Bisognerebbe lavorare in un’ottica di condivisione, partendo sempre dalla mission.
Allora se io penso alla mia mission: qual è la mia mission? Innanzitutto quella di
fare in modo che le persone che sono accolte qua dentro vengano adeguatamente
tutelate e assistite… stiamo parlando sempre di persone in stato di bisogno e quindi
io mi vedo, tra virgolette, come il garante rispetto al fatto che un’organizzazione
riesca a mettere in atto tutta una serie di percorsi e di processi che vadano a dare,
come risultato, questa cosa e quindi a creare un benessere rivolto all’ospite. Allora,
più io cerco di avvicinarmi a quelle che sono le sue esigenze e più io rispondo alla
mission dell’organizzazione, che è anche la mia mission» (4:16).
Un rapporto che è quasi di identificazione:
«Io sono una struttura che garantisce un servizio ad una comunità ed uno stipendio a
100 e passa famiglie a certe condizioni…» (6:19).
Un’immedesimazione rispetto ad una soggettività plurale, la quale va a costruirsi e a
rafforzarsi attraverso un processo di distinzione e a volte di contrapposizione con
l’esterno:
«… non sono il Comune che ha fondi appositi, non sono l’ULSS che garantisce il
servizio sanitario fino ad un certo livello gratuito per tutti…» (6:19).
L’identità della Casa di Riposo è certamente cambiata molto nel corso del tempo, ma
conserva la sua natura di istituzione a cui non ci si accosta quasi mai molto volentieri.
159
«La situazione ci ha portato poi a riflettere, cioè innanzitutto a prendere atto del
fatto che noi, come strutture, siamo l’ultima frontiera e che nessuno ci porta,
accompagna qui, il proprio anziano volentieri e che quando le famiglie arrivano a
fare questa scelta, nella stragrande maggioranza dei casi, c’è un problema di
relazione» (5:36).
Questa istituzione vorrebbe cambiare, assieme al nome, anche il proprio modo di essere e
di essere percepita, avvicinandosi al modello familiare. Ma in questo incontra
inevitabilmente delle difficoltà.
«Io ho la profonda convinzione che noi stiamo facendo un qualche cosa di
estremamente importante: offrire una risposta assistenziale residenziale alle persone
anziane, ma che è una risposta tanto importante quanto anomala, quanto artificiosa.
Tanto importante quanto contronatura, un po’ artefatta... sì... Voglio dire... noi
stiamo dando delle risposte che sono le risposte di un momento preciso della
persona che è il momento della fragilità, della difficoltà a sostenere e affrontare
l’assistenza, a fronte di una fragilità funzionale, di limiti legati alle malattie, legati a
determinate condizioni di salute... quindi noi dobbiamo cercare di dare una risposta
che sia puntuale rispetto a un bisogno, consapevoli che stiamo offrendo una
soluzione, che non è quella che ognuno di noi si immagina o potrebbe immaginarsi”
(nessuno di noi – né io né Lei – c’immaginiamo che dagli ottant’anni/ottantacinque
li passeremo in una casa di riposo). e quindi dobbiamo essere consapevoli che
questa è una situazione come non voluta, che non può essere assolutamente
omologata a quello che è l’ambiente naturale della famiglia, della casa,
dell’ambiente familiare. Quindi noi dobbiamo perseguire da un lato un obiettivo di
maggior qualità della vita, di salute, di benessere nella consapevolezza che [gli
anziani] qui sono in un luogo che non è quello pensato, immaginato, fantasticato.
Allora c’è lo sforzo a dare il massimo in termini di efficienza, di qualità e servizio,
prestando attenzione a quelle che possono essere le aspettative delle persone,
offrendo elementi di familiarità… Questo pur sapendo che qui è molto difficile…
Qui siamo una istituzione, per quanto ci sforziamo di chiamarci in modi diversi. Noi
siamo sempre un’istituzione, anche se ci chiamiamo Centro Servizi. E questa
dimensione di istituzione è presente nel nostro lavoro. Allora cos’è che noi
dobbiamo fare: dobbiamo, da un lato, perseguire un servizio che sia di qualità, che
sia un servizio con tutti gli elementi, ma dall’altro lato dobbiamo anche tendere – io
uso uno slogan – a far sì che le persone non si sentano "alieni" dal mondo che hanno
160
lasciato. Il concetto di mantenere i legami con il contesto familiare, sociale,
affettivo che hanno lasciato a casa» (10:2).
Perché chiaramente non è facile cancellare il passato e cambiare un modo di vedere la
casa di riposo. Ma dire che non è facile, non significa dire che è impossibile e che non si
debba lavorare per questo cambiamento.
«Dirò di più, dirò di più, io sto portando avanti una battaglia sul tema dell’abolire il
termine istituzionalizzazione. Per quanto mi riguarda, io mi faccio in quattro per
non sentirmi dire: “Ho dovuto portarlo in casa di riposo, perché non avevo
alternative”. La casa di riposo ha un suo valore nel momento in cui è la scelta
migliore per quella persona in quel momento, se non è la scelta migliore è giusto
che la scelta sia un’altra, ma se è la scelta migliore, allora diventa la buona scelta,
non la scelta di ripiego, ma la buona scelta. Per me non è indicativo del benessere
dove uno abita, ma come uno sta… è più importante come uno sta…» (12:24).
Si parla spesso, a tale proposito, di umanizzazione dei servizi di cura. La casa di riposo di
un tempo si sta trasformando in un centro di assistenza in cui la componente sanitaria
risulta sempre più predominante. S’innalza l’età d’ingresso in struttura, si aggrava la
tipologia di utenza, aumentano i livelli assistenziali e le case di riposo assomigliano
sempre più ad ospedali di lungodegenza. Ciò va coniugato con l’esigenza, altrettanto
impellente, di umanizzare questi luoghi, renderli uno spazio di vita e di relazione,
all’interno dei quali gli “ospiti” possano sentirsi, per quanto possibile, a casa loro.
«L’Istituto è la loro casa, quindi le nostre convivenze accolgono persone come ho
detto all’inizio gravemente malate, gravemente non autosufficienti e con le quali,
soprattutto quando giro tra i reparti o sono presente per qualche manifestazione, si
instaura anche un rapporto umano. Ne conosco tanti di loro con i quali ho costruito
un rapporto umano, che va oltre l’aspetto amministrativo, gestionale del personale,
dei piani di lavoro, della direzione, dei bilanci, dei consuntivi, degli adempimenti
fiscali, delle relazioni sindacali» (9:44).
Ho rilevato, nel corso delle interviste una diffusa percezione di essere, come strutture di
assistenza agli anziani, all’interno di una stagione di importanti cambiamenti
organizzativi.
«Gli scenari che si propongono nel giro di 3-4 anni sono veramente diversi. Da
strutture chiuse, simil-manicomiali, perché noi siamo tra le strutture considerate
asili all’inizio del secolo, perché prendiamo in carico completamente la persona e
161
quindi istituzionalizziamo, come nostro DNA, come nostra matrice. Oggi abbiamo
un DNA che è o dovrebbe essere completamente l’opposto, cioè l’estrema apertura
al territorio, ai nodi della rete e quindi, anche per noi, questo significa fare proprio
una rivoluzione copernicana in tutte le sfaccettature del nostro lavoro» (1:3).
Tali cambiamenti organizzativi sarebbero anche funzionali alla trasformazione dei
bisogni sociali. Un cambiamento che si pone, quindi, come risposta adattiva alle mutate
condizioni ambientali, per non “estinguersi come i dinosauri”.
«Ci sono alcune cose che mi sembrano ovvie, cioè, come puoi pensare di arroccarti
in certe posizioni? Ma sei perdente. Se cioè il contesto attorno a te dice che ti stai
trasformando da casa di riposo in centro di servizio, perché questo è il bisogno,
vuoi perché la Regione taglia le risorse, vuoi perché è questo che emerge dai
cittadini… qualunque sia il motivo, se questo è quello che emerge e tu vuoi stare a
galla, devi gestire quello che c’è. Come puoi pensare che sia vincente la scelta di
arroccarti su determinate posizioni? Cioè, se non avessimo saputo, anche proprio
come specie umana, adattarci alla realtà per come si trasformava, scriveremmo
ancora sulla pietra. Cioè è stata questa la strategia vincente, quella di essere stati
“risposta” ai bisogni. Se cambiano i bisogni dobbiamo cambiare anche noi, da casa
di riposo a centro di servizio. Se il bisogno è meno orientato sulla residenzialità e si
va sul territorio, ti devi trasformare in risposta altrimenti diventi un dinosauro…»
(5:61).
Che le condizioni ambientali e i bisogni sociali mutino nel tempo, non è una novità.
Molte delle Ipab che ho visitato hanno una storia secolare alle spalle, nel corso della
quale hanno cambiato più volte la loro mission.
«…una curiosità che forse è dettata anche dai tempi in cui la costituzione è stata
approvata… l’articolo 31 dice che “La Repubblica protegge la maternità, l’infanzia
e la gioventù”; per quanto riguarda il nostro specifico lavoro, l’infanzia e la
gioventù fanno parte di una linea specifica di intervento dell’ Ipab e da…poco
tempo io…insomma noi abbiamo promosso anche un ulteriore ambito di intervento
che è quello della tutela della genitorialità, intesa come un concetto di maternità un
po’ più articolato e un po’ più esteso non parla però della vecchiaia, curiosamente il
problema della vecchiaia allora non si poneva ancora nelle dimensioni così
incombenti come si pone adesso. Credo che tutte quante queste strutture siano
proprio nate come strutture al servizio dei poveri, come orfanotrofi e poi si sono
convertite in case di riposo… Storicamente il nostro ente è nato dapprima come un
162
ricovero per poveri – parlo nel ’500 – dopodiché si è sviluppato come protezione
sempre dei poveri e delle vedove anche, perché c’era anche questa componente di
assistenza alla vedovanza, che è spesso stata presente… io per esempio l’ho
riscontrata in determinate strutture che ho visto ad Amsterdam, in cui c’era
esattamente il parallelo di una delle nostre strutture… la tutela delle vedove dei
marinai… si coglieva facilmente lo stato di debolezza di una moglie che perdeva la
sussistenza anche economica oltre che quella…oltre che il sostegno morale…»
(7:12).
Un cambiamento, quindi, che c’è sempre stato, ma sicuramente ora lo si percepisce più
profondo, ma soprattutto più rapido, perché l’evoluzione sociale ha dei tempi, tutto
sommato, molto veloci.
«…gli interventi sociali hanno sempre una dimensione molto ristretta dal punto di
vista dell’orizzonte cronologico… si esercitano nell’arco generazionale al massimo,
perché nel tempo di vent’anni, sono talmente cambiati i riferimenti… i problemi, le
situazioni… le emergenze sociali che difficilmente si riesce a trovare una
continuità… una continuità, diciamo così, operativa… c’è una continuità ideale,
storica» (7:15).
E quindi l’organizzazione deve correre, se vuole restare al passo con questa realtà in
veloce cambiamento. Le strutture sono sfidate dalla realtà circostante a innovarsi
continuamente, a migliorare le proprie performance e il gradimento da parte degli utenti.
«…perché comunque sei sempre ricerca per cose nuove, perché cambiano… cambia
la qualità dei servizi, cambia il servizio stesso, cambia il materiale, cambiano le
attrezzature, cambiano le esigenze e quindi bisogna sempre stare attenti a non…»
(8:14).
Una sfida, questa, per l’organizzazione, che chiama in causa il manager in prima persona,
richiedendogli la capacità di farsi promotore e artefice di questa innovazione e quindi
innanzitutto la capacità di pensare, di sognare l’organizzazione e come questa potrebbe
essere, per divenire più correttamente “risposta” ai bisogni emergenti.
«Io mi sento una persona che deve far sì che questa realtà si esprima come casa di
risposo nel miglior modo possibile. Cioè, io credo moltissimo al fatto che questa
deve essere una realtà assolutamente innovativa, attuale, assolutamente puntuale nel
rispondere ai bisogni. Deve essere in sintonia con i tempi, con le esigenze delle
persone, con le esigenze degli anziani di adesso, non di quelli di una volta… cioè, io
163
sento veramente che dobbiamo svilupparla come pensiero, come immagine, come
efficienza, come produttività, come valore» (10:27).
In tale passaggio, di cui è testimone diretto chi ha lavorato in queste strutture negli ultimi
vent’anni, non sono cambiate solo la logistica, la strumentazione, l’organizzazione, ma
assieme a queste sono venuti a cambiare anche la cultura, i valori e il modo di
concretizzarli. Un concreto esempio si trovanelle modalità e nei criteri di accesso degli
ospiti alla struttura stessa.
«Chi ha iniziato come me, vent’anni fa, ha vissuto tutta la trasformazione, la
rivoluzione, di un settore che prima era definito come un settore marginale. Prima
avevamo le case di ricovero, adesso abbiamo il centro servizi (sorride). E questo
percorso si è realizzato negli ultimi vent’anni. Quindi, quelli di questa generazione
hanno come dire l’esperienza di una trasformazione unica. Prima eravamo quelle
strutture un po’ autarchiche ai confini dell’impero, che decidevano loro chi far
entrare e chi e chi far uscire… beh, far uscire non tanto, ma chi far entrare, sì. E
questo era l’inizio, dove trovavi la lista delle persone che volevano entrare e tu che
eri entrato un secondo prima a far la domanda eh... non c’era verso che entravi
prima dell’altro anche se l’altro aveva tutti i problemi di questo mondo solo perché
eri il primo in classifica. E quindi c’era una visione molto parziale del sistema più
generale. E siamo passati a un sistema di, tanto per dire, che riguarda gli
accoglimenti dove la casa di risposo non decide assolutamente nulla, viene deciso
dal sistema, dalla rete, dalla rete di servizio» (10:32).
Non c’è solamente un’idea di cambiamento di tipo evolutivo. Ho colto in alcune
interviste anche un pensiero, o meglio una preoccupazione, rispetto a un movimento
involutivo, che frena e rischia di riportare l’organizzazione indietro.
«… nell’ultimo biennio i segnali che arrivano da vari livelli fanno crescere un po’
una sensazione di ansia. Una volta si era più liberi, ma non incoscienti, più liberi nel
dire: “Sì, te ghe da fare… fa del tuo meglio…”. Qualche flessibilità per arrivare al
risultato… adesso sai che con la Corte dei Conti è diventato veramente un sistema
che da questo punto di vista non consente più di… essere gratificato…» (11:68).
È la normativa, sono i sistemi di controllo, è il processo di responsabilizzazione che,
fondamentali per regolare l’evoluzione di questo sistema, possono però anche degenerare
e creare rigidità e involuzioni.
164
«Adesso sempre più per esempio io vedo che c’è un degrado notevole, negli ultimi
due anni nella normativa, perché adesso è diventato… oltre a essere diventata
confusa, molto pregnante, è molto penalizzante sul piano della flessibilità, perché
ti…ti terrorizza, ti mette paura, cioè ti mette addosso delle responsabilità come se tu
fossi chissà cosa, no? Che ti costringe un po’ a fare un passo indietro su alcune
cose, ti costringe proprio perché ti butta… ti mette in croce …» (11:53).
L’involuzione sembrerebbe in qualche modo ineluttabile. Il sistema assistenziale ha
d’innanzi a sé la stessa questione che si pone di fronte alla nostra civiltà occidentale,
quella della sostenibilità. La crescita, l’evoluzione, che ha caratterizzato le strutture
residenziali per anziani e il sistema di Welfare in genere non possono proseguire
all’infinito; c’è un problema di risorse e di sostenibilità complessiva che richiede ad un
certo momento un “fermo” o addirittura una “marcia indietro”, chiaramente non facile da
affrontare.
«È un momento difficile, non solo sul piano normativo, ma anche su quello delle
risorse, che vanno contraendosi. Quindi, è un sistema che probabilmente dovrà
trovare un altro equilibrio… Siamo in una fase in cui questo sistema passa da un
equilibrio a un altro che sarà inferiore, che comunque sarà inferiore, cioè una
retromarcia in qualcosa va fatta… e quindi a maggior ragione uno che ha esperienza
forse riesce a governare ’sto passaggio e chi non ha esperienza secondo me si
troverà molto in difficoltà perché le ripercussioni te le troverai a vario livello del
malcontento» (11:67).
Una dimensione organizzativa molto importante, fra quelle rilevate nel corso delle
interviste, è quella della natura di Pubblica Amministrazione. Una natura pubblicistica
iscritta nel DNA di questi enti. Infatti, la Legge Crispi del 1871 istituiva le Istituzioni
Pubbliche di Beneficenza (ora Ipab), nazionalizzando gli enti caritativi privati e
assoggettandoli al controllo del nascente Stato unitario, il quale assumeva tra le proprie
funzioni la risposta al bisogno sociale, risposta che a quel tempo veniva intesa come
beneficenza.
«C’è una continuità ideale, storica, che io ritengo di vedere nel nostro ente: è quella
dell’intervento statale, laico, cioè, nel campo dell’assistenza e/o della beneficenza,
perché sono due concetti un po’ diversi» (7:16).
L’essere ente pubblico significa essere al servizio del pubblico, al servizio dei cittadini, in
buona sostanza…
165
«Apro un altro discorso un po’ collegato a questo, che è il concetto del pubblico.
Noi non siamo una struttura privata, siamo una struttura pubblica e questo fa sì che,
in fondo in fondo, di passaggio in passaggio, ciò a cui rispondiamo sono i cittadini.
[…] Io come direttore rispondo al mio Consiglio d’Amministrazione, il quale a sua
volta risponde a un Sindaco che l’ha nominato, il quale a sua volta risponde ai
cittadini. Quindi, seguendo la filiera, in fondo – senza tanto in fondo – insomma,
anche noi amministriamo soldi pubblici e ai cittadini rispondiamo. Anche questo
concetto è importante averlo, perché nelle scelte che si fanno non è “Oddio, la corte
dei conti ci controlla…”, ma il cittadino mi controlla nelle scelte che facciamo e in
come spendiamo queste risorse» (5:14).
Accanto alla responsabilità e all’orgoglio di far parte di un ente pubblico, che non lavora
per un seppur legittimo interesse privato d’impresa, ma per il pubblico bene, vi è la
percezione, vissuta a volte con amarezza, di essere ingiustamente bersaglio di un diffuso
sentimento di diffidenza da parte dell’opinione pubblica. Ingiustamente, non perché non
si debbano stigmatizzare le inefficienze e i guasti della Pubblica Amministrazione, ma in
quanto l’attacco generalizzato colpisce anche le persone di buona volontà, che sono
presenti e operano tanto nel pubblico quanto nel privato.
«Però, sai, al giorno d’oggi sempre di più cresce ’sta sensazione che all’esterno vi
sia un meccanismo un po’ punitivo verso la dirigenza pubblica in generale, contro
l’ente pubblico… quindi c’è un po’ una caccia, per cui non è che puoi contare tanto
che chi arriva dall’esterno, poi, sia così comprensivo rispetto alla tua buona fede»
(11:19).
Ciò che caratterizza l’ente pubblico è lo stretto rapporto con la politica, che in questi
anni, al pari della categoria dei dipendenti pubblici, non gode di una buona fama e che
anzi è spesso oggetto dell’indignazione e del discredito popolari, che rischiano di far
perdere il senso vero e alto dell’impegno politico, il valore etico dell’occuparsi della “res
publica”.
La figura del dirigente è, all’interno dell’ente pubblico, il punto di congiunzione e di
snodo tra struttura organizzativa e organi politici.
«Io chiaramente non solo mi raffronto con il personale, ma mi raffronto anche con
l’organo politico in quanto l’Ipab è una istituzione pubblica che viene amministrata
da un Consiglio di Amministrazione di nomina politica e precisamente da parte del
Comune» (9:15).
166
È, questo, un aspetto critico, perché è fondamentale il rapporto fiduciario tra dirigente e
amministratore. In questo senso, la recente normativa ha affiancato all’accesso mediante
concorso pubblico, la possibilità di conferimento di incarichi temporanei fiduciari da
parte degli amministratori, un po’ come avviene nell’ordinamento statunitense con il
cosiddetto spoil system.
«Ho fatto un concorso, un concorso pubblico perché le Ipab sono enti pubblici a
tutti gli effetti, per cui, per essere assunti a quell’epoca, allora non c’era lo spoil
system, bisognava fare un concorso» (1:1).
Tale sistema però comporta dei rischi per l’autonomia e l’indipendenza del dirigente
rispetto ad eventuali pressioni, che possono arrivargli dall’organo politico, per finalità
diverse dal pubblico bene.
In qualità di “Direttore”, il manager della casa di riposo, deve seguire gli indirizzi degli
Amministratori. Ma egli è, come abbiamo detto prima, Segretario-Direttore, e in questa
veste è lì a controllare che tutto corrisponda alla legge. Di questo è responsabile.
«Ti dirò questo, questo m’è successo talvolta con qualche dipendente, più spesso
con qualche politico… cioè per esempio nel senso che nella mia storia io ho avuto
nettamente delle esperienze difficili, dove vedevo proprio che io avevo un fine
aziendale nel senso… nell’interesse no, del tuo ente e quindi…e quando sentivo,
avvertivo che magari gli interessi erano altri, magari la visibilità o altri ancora, ecco
io lì andavo, andrei ancora adesso, in crisi… Non riuscirei a reggere… […].
Insomma, io quando uso i soldi degli altri, per me questo è un peso e sto più attento,
quando io devo rapportarmi con le persone in azioni che possono incidere nel loro
futuro o delle loro famiglie, per me è una responsabilità, capito? E invece vedo
persone che son fatte come “macchine da guerra”, che passano sopra a tutto e a tutti
perché mettono al centro se stessi… e i loro interessi e questa è una cosa che per me
è profondamente inconcepibile… E questo tipo di persone le ho riscontrate, più che
nell’ambiente di lavoro, come dipendenza, più nell’ambiente politico dove
l’investimento eccessivo su, su sé, rendeva disponibili alcuni a fare disastri…»
(11:46).
Non vanno fatte, chiaramente, indebite generalizzazioni, ma può capitare che la scelta di
spendersi in politica da parte di qualche amministratore muova da esigenze di tipo
individualistico, che possono non essere coincidenti, ma piuttosto confliggenti, con gli
interessi pubblici.
167
«Sono io che sono al servizio della struttura, non che la struttura riempie i miei
vuoti e i miei buchi… E questo lo si vede in certe dinamiche che mi capitano
rispetto a chi ha potere su di me… Mi capita di accorgermi che a volte si vivono
delle dinamiche di potere, dove chi sta al di sopra di me utilizza la struttura per i
propri interessi» (5:12).
Il fatto di che il politico trasponga sull’ente pubblico obiettivi di visibilità personale o di
rafforzamento del proprio partito politico, può interferire anche pesantemente con la
mission istituzionale.
«Poi, molte volte, ci conforta anche con i valori etici legati al proprio datore di
lavoro, il Consiglio di Amministrazione. Se tu hai un CdA che è sensibile ad alcune
problematiche, farai meno fatica a far passare o a condividere tutta una serie di
proposte o di progetti organizzativi che rientrano nella mission dell’ente. Se tu hai
un Consiglio di Amministrazione orientato solo ad un aspetto d’immagine, fai molta
più fatica» (4:24).
La critica che viene posta ai politici non è solo il protagonismo, ma anche il fatto di avere
una visione troppo ristretta ad obiettivi di consenso immediato e quindi un po’ miope,
perché non riesce a pensare in termini di medio-lungo periodo. A questo proposito, risulta
quanto mai opportuno distinguere la figura del politico, che pensa alle prossime elezioni,
da quella dello statista, che riesce a vedere più in là 31. Vedere più in là è necessario anche
per gestire meglio l’oggi, perché il vivere alla giornata non è un “bel modo di vivere”.
«Ecco, quello che io rimprovero alla politica in generale è la mancanza di futuro.
Perché la politica è preoccupata di raggiungere il risultato il giorno dopo; se non c’è
risultato diretto e immediato non puoi essere confermato. Viceversa i risultati non
tutti e necessariamente sono raggiungibili il giorno dopo, hanno dei tempi, che
richiedono di essere meglio “spalmati”, meglio assimilati, meglio vissuti e
probabilmente tu riscontri il termine di una certa questione a distanza di qualche
anno, di qualche tempo. E questo non avviene. Una mancanza di visione di futuro
che poi ti limita anche nella visione del quotidiano perché l’agire nel quotidiano ti
richiede delle risorse che spesso non ci sono date, non siamo messi in condizioni di
averle, e soprattutto vanno a limitare il tuo modo di interfacciarti. Non riesci ad
31
La frase attribuita ad Alcide De Gasperi – “Un politico guarda alle prossime elezioni. Uno statista
guarda alla prossima generazione” – secondo Wikiquote sarebbe stata da lui ripresa dal politico
statunitense Paul Clarke (www.wikiquote.org/Alcide_De_Gasperi).
168
avere riscontri. Questo sì lo vivo come un limite. Lo dico con te, ma lo direi in
qualsiasi contesto» (3:55).
Quando parliamo qui di politica ci riferiamo non tanto alla politica come riflessione,
come pensiero politico, ma alla vita, all’agone politico, con le sue alte battaglie e con le
sue piccole meschinità. In inglese ci sono due distinti termini per indicare questi concetti:
policy e politics. In quest’ultima accezione, la dimensione politica comporta il reale e
concreto rischio di trascinare l’istituzione in polemiche e scontri, che sono spesso
alimentati da un clima di accesa animosità e di scontro ideologico, che non ha niente a
che fare con il bene dell’ente e dei suoi ospiti.
«Beh, l’altra grande battaglia è stata quando abbiamo avuto qualche hanno fa un
attacco mediatico della stampa: per un anno intero eravamo oggetto di attacchi con
fini secondari e quindi veramente ti sentivi di essere, essere attaccato da tutti
ingiustamente e con motivazioni non certamente finalizzate al bene dell’istituto, ma
a fini, a fini politici…» (8:49).
È una dimensione politica che può a volte interferire in alcuni ambiti gestionali, come ad
esempio nella gestione delle relazioni sindacali, mettendo il dirigente in una situazione di
particolare difficoltà.
«Ci sono inoltre le relazioni sindacali che non sono da poco, considerato che si
tratta diuna componente politica che può far saltare gli equilibri consigliati dal solo
rapporto di lavoro» (9:16).
Non si deve però generalizzare, perché i politici – così come le persone – non sono tutti
uguali e si possono incontrare degli amministratori il cui comportamento esemplare può
costituire un imprinting importantissimo, come ci indica la seguente testimonianza:
«Eh…si, io ricordo in particolare quando ero in Comune e mi occupavo di vendite
immobiliari come capo servizi legali e contratti; l’amministratore di riferimento per
me era il Sindaco. Ricordo che avevamo a che fare logicamente con proprietari
terrieri. […] Mi sono resa conto che il Sindaco dava la stessa identica importanza
all’ultimo dei fittavoli che al grande imprenditore che veniva a richiedere di poter
insediare un’azienda. Questa è una cosa che ricordo con molta, con molta
precisione: mi ha fatto molto pensare. Mi ricordo una volta che c’era un signore
che, proprietario di un minuscolo pezzettino di terreno, non poteva venire nei nostri
uffici perché anziano, così, siamo andati a casa sua a spiegargli le cose, siamo
169
andati col Sindaco e un’altra persona, siamo andati a casa sua, e il sindaco ha
preteso di fare una cosa del genere, per me è stato molto illuminante…» (2:10).
170
7
Dove si narra dei principi morali del manager sociale
Per quanto mi riguarda, mio
caro, preferirei che la mia lira
fosse scordata o stonato un
coro da me allestito e che una
quantità di gente si dichiarasse
in disaccordo con me piuttosto
che essere io, dentro di me, in
disarmonia e contraddizione
con me stesso.
Socrate
7.1
Principi morali in pratica
Dopo la presentazione del manager e del suo contesto organizzativo, passiamo ora ad
analizzare quanto rilevato sul campo in merito ai principi morali della professione. Si
tratta di un corpus di asserti morali la cui conoscenza risulta un presupposto necessario,
seppur non sufficiente, per lo sviluppo di una competenza etica.
I principi morali della professione del manager sono il livello in cui i valori, che per loro
natura sono generali ed astratti, vengono concretamente tradotti – come ci ricorda
Elisabetta Neve32 – in una sorta di “linee-guida”, di indirizzi operativi, rispetto ai quali
conformare il proprio agire professionale. Principi, che possono essere articolati a loro
volta in norme prescrittive e manifestarsi in atteggiamenti e comportamenti pratici.
Valori, principi e prassi rappresentano distinti livelli del discorso etico, che spesso nelle
interviste realizzate, così come avviene sul piano del discorso comune, si possono
presentare confusi e difficilmente districabili fra di loro.
Mi riferirò, qui, ai principi morali della professione del manager sociale, limitandomi a
questo livello di analisi, pur sapendo che tali principi rimandano “a monte” a dei valori
universali e si traducono “a valle” in puntuali prescrizioni all’agire e in atti concreti.
Nel paragrafo 3.3 ho richiamato il concetto di etica professionale, postulando che
ciascuna professione richieda e sviluppi dei “beni interni”, suoi propri 33. L’interesse della
mia indagine si è rivolto quindi a far emergere dalle interviste, dalle dichiarazioni e dai
racconti, quali siano questi “beni interni” e quali siano i principi che traducono tali “beni
interni” in adeguate “linee guida”.
32
33
Neve E., Il servizio sociale. Fondamenti e cultura di una professione, Roma, Carocci, 2000, p. 146.
Cfr. Da Re A., Vita professionale ed etica, cit. p. 99.
171
Dall’analisi “grounded” delle 12 interviste raccolte, ho ricavato 26 codici, descrittori di
altrettanti principi morali.
Nella presentazione dei dati, ho ritenuto opportuno suddividere questo insieme di 26
principi, distinguendo quelli che potrebbero essere in qualche modo riconducibili allo
specifico profilo professionale del manager da quelli che invece attengono maggiormente
alla struttura organizzativa all’interno della quale egli opera. E tra questi, ho
ulteriormente distinto quanto potrebbe essere legato alla natura di Pubblica
Amministrazione di questa organizzazione e quanto invece sia ascrivibile al suo essere
Servizio alla persona.
Da questa analisi sono scaturite 3 sottocategorie, che corrispondono nell’analisi in
Atlas.ti ad altrettante famiglie di codici:
•
Principi morali dell’Ente Pubblico;
•
Principi morali dei Servizi alla Persona;
•
Principi morali del Management.
È opportuno precisare che tale classificazione, effettuata sulla base di procedimento
argomentativo, corrisponde più a esigenze espositive che a reali distinzioni
fenomenologiche. Ad esempio, principi come la solidarietà e la giustizia, che ho inserito
tra i principi morali dell’Ente Pubblico, appartengono anche ai Servizi alla Persona, come
pure non possono essere considerati estranei al Management.
172
Fig. 3 – Mappa dei principi etici del manager sociale
173
7.2
Principi morali dell’Ente Pubblico
Tra i principi morali espressi dai manager intervistati, che si collegano strettamente alla
dimensione di ente pubblico delle Ipab, vi è innanzitutto quello della laicità.
Poiché opera in un ente pubblico, il manager è chiamato ad un atteggiamento laico, che
non significa laicista. Il laicismo è esattamente il contrario della laicità, perché muove da
un sentimento antireligioso, contrapponendosi in maniera integralista alla manifestazione
di altri pensieri. La laicità dà invece spazio e pari dignità, sul piano delle libertà civili, ad
ogni espressione di religiosità o di non religiosità.
«L’Ipab è anzitutto un ente pubblico, e allora è prevalente ovviamente l’etica del
funzionario pubblico che è un’etica essenzialmente laica. […] C’è una continuità
ideale, storica, che io ritengo di vedere nel nostro ente ed è quella dell’intervento
statale, laico cioè, nel campo dell’assistenza e/o della beneficenza perché sono due
concetti un po’ diversi» (7:16).
Altro principio etico che si collega all’operare all’interno di una Pubblica
Amministrazione è quello della legalità, che non va confuso con il legalismo, cioè
l’ossequio formalistico della norma. Si può infatti osservare scrupolosamente la norma,
obbedire alla lettera, ma tradirne il senso e lo spirito. Il principio di legalità, invece,
orienta l’azione amministrativa al rispetto autentico (nel senso dell’autore, che è il
Legislatore) della norma stessa. La fonte normativa rappresenta quindi la prima e la
principale sorgente, da cui attingere il senso, le finalità e i modi dell’agire di un ente
pubblico.
«In tema di etica ho come base mia personale quella normativa, quindi la legittimità
e in questo campo ho iniziato a fare dei passi movendo da quello che sapevo e cioè
dalla base normativa per poi avventurarmi sul terreno dell’etica. […] Quando noi
facciamo delle cose all’interno dell’ente, la visione della legittimità in me è sempre
molto presente e quindi il contorno è sempre quello» (1:4).
Ed è innanzitutto alla Costituzione che si rifanno i manager pubblici e, in generale, i
dipendenti pubblici, per conoscere i principi morali che devono guidare il proprio
operare.
«Valgono i principi costituzionali della non discriminazione, per esempio, ma
valgono anche tutti quei principi che afferiscono alla gestione della cosa pubblica
174
che sono […] per esempio nell’articolo 98: “I pubblici impiegati sono al servizio
esclusivo della nazione”. […] Quindi a fianco di un’etica personale c’è anche
un’etica codificata proprio da delle norme, delle leggi, prima di tutte appunto la
Costituzione, che noi come impiegati pubblici o come pubblici ufficiali o come
incaricati di pubblico servizio (a seconda di quale sia la fattispecie), siamo tenuti a
rispettare» (7:3).
Ed è sempre nella Costituzione che il manager pubblico può andare a rintracciare il fine a
cui tende del suo lavoro, il senso ultimo, che è il pubblico bene.
«E quindi io dico con tutti sempre che, nel decidere, occorre dare attuazione
all’articolo 97 della Costituzione, dove chi lavora deve farlo, come nel nostro caso,
nell’interesse pubblico. Se questo non c’è come elemento di traino diventa difficile
dire che porti dei valori, li vuoi esprimere e vuoi identificarti in questi valori»
(3:41).
Strettamente collegati con il principio di legalità sono i principi di imparzialità e
trasparenza della Pubblica Amministrazione. Per lo Stato democratico tutti i cittadini
sono uguali davanti alla Legge e per questo presupposto di uguaglianza, la condotta dei
funzionari pubblici deve essere imparziale, cioè non favorire illegittimamente alcuni a
danno di altri. Di questo, gli enti pubblici devono dare conto, agendo in modo trasparente,
cioè dando l’opportuna pubblicità ai propri atti, consentendo l’accesso da parte degli
interessati e favorendo il controllo diretto da parte dei cittadini.
Si tratta di un principio cardine dell’azione amministrativa, che in molti casi appesantisce
e rallenta la gestione degli enti, ma che va tenuto sempre presente, da chi ha
responsabilità direzionali, e coerentemente “praticato fino in fondo”.
«A volte, per forniture per le quali il regolamento te lo consente, fai affidamenti
diretti a ditte per la loro alta professionalità, non certo per connivenza. Se c’è un
aspetto che mi ha molto preso dal punto di vista etico è appunto la correttezza e la
trasparenza negli affidamenti delle forniture di beni e servizi. È un atto dovuto,
articolo 97 della Costituzione, però sai questo non basta dirlo, bisogna praticarlo
fino in fondo…» (3:65).
Un altro principio che emerge dalle interviste è quello di appartenenza e fedeltà
all’istituzione. Si tratta di un principio che non è legato precipuamente alla Pubblica
Amministrazione, ma che si ritrova nelle organizzazioni in genere.
175
Far parte, sentirsi coinvolti, condividere le sorti di una stessa organizzazione, a cui si
appartiene, sono aspetti fondamentali dell’identità professionale del manager sociale, che
egli è chiamato a trasmettere ai suoi collaboratori.
«E poi devi creare quindi non solo al livello amministrativo, un po’ dappertutto, un
senso di appartenenza alla tua azienda quindi devi fare in modo che il dipendente si
senta sì dipendente, perché giustamente lo stipendio è l’obiettivo principale, ma si
senta anche partecipe del destino di questa azienda, sapendo che se l’azienda va
bene comunque va bene anche il dipendente» (11:25).
Il manager deve porsi intenzionalmente come attivatore di questo senso di appartenenza,
promovendo momenti di riconoscimento e di condivisione, che possono essere ad
esempio le riunioni periodiche di equipe.
«D’altra parte forse sono stato un po’ rigido con qualcun altro perché ho detto:
“O/o…, o si crede a questo gruppo o si fa a meno a venire a questo gruppo!”. Che
cosa significa questo? Che se tu non stai attento a far crescere certi momenti, che
sono momenti di appartenenza e quindi di crescita del gruppo, possono innescarsi
situazioni di ritorno all’indietro» (3:92).
Far parte di un’organizzazione significa vedere l’organizzazione come un tutt’uno e
quindi concepire il proprio ruolo come quello di una “rotellina” all’interno di un
complesso “ingranaggio”.
«… qua può esserci la tentazione, essendo responsabile di un pezzetto, che gli
obiettivi siano quelli esclusivamente tuoi magari anche a scapito dell’intera altra
organizzazione. Perché questa è la mia fetta di organizzazione per la quale sono
responsabile e quindi non mi interessa niente di quello che succede al di fuori di
questa mia fetta e vado avanti per la mia strada. Questa è una tentazione che c’è
nelle organizzazioni grandi» (6:3).
Appartenere a questa entità collettiva è pure rassicurante. L’organizzazione, quale
sistema cooperativo, arriva a realizzare ciò che i suoi componenti singolarmente presi
non possono fare, riuscendo anche a surrogarne l’assenza o le difficoltà.
«Il fatto che ti allontani per qualche giorno vuol dire che c’è un’organizzazione che
riesce a reggere quello che è il fattore della gestione in maniera buona e quindi c’è
una tenuta del sistema» (3:17).
176
Si tratta di un appartenere, di un essere fedeli che si riferisce ad un’istituzione, cioè ad
un’entità astratta, ma che è fatta di persone.
«Quando sono andata a Venezia a trattare l’approvazione del conto consuntivo, in
modo tale che si evitasse il commissariamento ad acta”, mi hanno chiesto come mai
continuavo a lavorare all’Ipab, perché avrei potuto anche andarmene… ma
insomma ho voluto essere fedele all’Ente perché nel frattempo era cambiato il
Consiglio di Amministrazione. C’era una brava persona come Presidente che
meritava rispetto quindi mi pareva brutto lasciare le persone, soprattutto quando
sono oneste» (9:29).
È il gruppo in particolare che crea senso di appartenenza e che riesce a sostenere i singoli
operatori, istaurando un sistema che favorisce l’acquisizione da parte loro di nuovi
apprendimenti, per fronteggiare il difficile compito assistenziale che devono affrontare
quotidianamente.
«Si parla molto di burn-out degli operatori. Il burn-out deriva dal fatto che rispetto
ad una mansione faticosa dal punto di vista fisico e di fronte ad utenti difficili –
d’altronde se non fossero difficili non verrebbero qua – io che cosa metto in gioco?
Cioè, se io ho un’organizzazione che mi sostiene posso mettere in gioco determinate
cose. Se io provo in un modo, provo in un altro e alla fine vedo che non c’è nessuno
che mi dia una soluzione anche parziale rispetto ad un problema che io ravviso, è
chiaro che…» (4:47).
Il sostegno del gruppo non si gioca solo sul versante operativo e dell’apprendimento
sociale, ma anche su quello emotivo. È il fatto di condividere per lungo tempo gli stessi
luoghi lavorativi e un comune impegno, che fa sorgere quei rapporti di fiducia che sono
alla base dell’appartenere. Ed è questo appartenere che fa sentire chi lavora in tali ambiti
meno soli di fronte alle inevitabili difficoltà.
«… di essere sostenuta da un gruppo nel quale si sono costruiti dei rapporti di
fiducia […] e quindi il fatto che ci siamo sentiti tutti sulla stessa barca, cioè non
c’era il più bravo e il meno bravo oppure: “Ah, ma ce l’aveva con lei e quindi…”.
Mi sono sentita sostenuta come ad esempio non mi era mai successo nella mia
famiglia» (4:44).
Altro principio non necessariamente legato alla Pubblica Amministrazione ma che in essa
trova particolare declinazione è quello di giustizia e delle sue declinazioni in termini di
177
equità e pari opportunità. In quanto ente pubblico, l’Ipab è chiamata ad operare con
giustizia.
«Ecco, un altro valore che mi sento dentro è il concetto della giustizia, che non vuol
dire dare a tutti in maniera uguale, ma dare a tutti secondo il bisogno. Perché non
c’è niente di più ingiusto di fare parti uguali tra disuguali, come diceva don
Milani…» (5:55).
Il mondo è un mondo di disuguali, per questo il senso di giustizia del manager sociale si
esplicita attraverso la valutazione dei diversi bisogni e la tutela delle situazioni di
maggiore fragilità.
«Mah, io direi di sì, direi di sì, anzi lo dico sempre quando mi dicono: “Ma perché
lei non fa questa cosa?” e io rispondo che non faccio questa cosa perché il costo di
questa azione, di questa iniziativa, magari un’iniziativa che è…stimolata: “Ma sai,
dobbiamo dare una mano a…”. E io dico: “Non posso porre a carico di una persona
in stato di bisogno, magari piagata, porre a carico di questa persona il costo per
aiutare una che magari è più giovane, più sana, più capace, più autonoma…”»
(8:12).
L’agire con giustizia del manager non si riferisce solo agli utenti, ma anche ai
collaboratori e in genere all’attività gestionale.
«Il mio tassello, il mio piccolo contributo per migliorare il mondo in questa
posizione lo posso fare, perché se interpreterò questo ruolo, se vivrò questo ruolo
con giustizia, con rispetto, con… e quindi, non lo so, se riuscirò a realizzare delle
condizioni di lavoro eque e giuste per quei 70 dipendenti, per quei 70 dipendenti
sarà fatto, non avrò cambiato il mondo, ma quel piccolo pezzetto di puzzle…»
(5:74).
Di stretta derivazione costituzionale è anche il principio di solidarietà che viene posto tra
i doveri inderogabili di cui ha da farsi carico la Pubblica Amministrazione.
«Ecco…quali sono gli articoli che sono importanti, partendo proprio dalla Carta
Costituzionale? Nei principi fondamentali: “La Repubblica riconosce e garantisce i
diritti inviolabili dell’uomo e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di
solidarietà politica, economica e sociale” … Ecco, questo è uno dei fondamenti
dell’azione sociale di un impiegato (non occorre che sia un manager, come si usa
dire adesso), di un qualsiasi impiegato pubblico. Non solo, l’articolo 3 dice che “È
compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che
178
limitando di fatto la libertà di uguaglianza impediscono il pieno sviluppo della
persona umana”. Questo, per quanto mi riguarda è una sorta di etica proiettata
all’azione, alla ragione del proprio lavoro…» (7:3).
La solidarietà, che è rivolta al perseguimento del pubblico bene, è un principio iscritto,
prima ancora che nella Costituzione repubblicana, nel nostro statuto di esseri umani,
partecipi cioè di un medesimo destino, che ci lega insolubilmente gli uni agli altri, fin dal
nostro nascere e per tutto il corso della nostra esistenza.
«Ma come puoi pensare di salvarti solo tu? Cioè siamo inequivocabilmente legati
l’uno all’altro… cioè se vado giù io…» (5:60).
Un principio solidaristico, che per il manager dell’ente pubblico si traduce nel fatto che
egli non si può comportare come un qualsiasi operatore economico, ma deve
contemperare gli interessi economici dell’ente con il pubblico bene.
«Normalmente l’Ipab si comporta così: quando nella rivendicazione di un proprio
diritto rischia di causare più danni di quelli che sarebbe chiamata a riparare
dall’altra parte come ente pubblico, normalmente stempera l’esigenza di questo
diritto in considerazione di questo principio. Ad esempio, se un inquilino non paga
l’affitto devo metterlo in strada lui e 5 bambini? Evidentemente, per recuperare o
cercare di recuperare non so, 5.000 euro, creo un danno talmente… un danno
sociale talmente evidente, talmente notevole, che devo assolutamente interrogarmi
se io, sebbene abbia il dovere di proseguire in questo senso, ho poi una convenienza
diciamo così in un bilancio sociale a fare questo. […] Noi siamo tenuti appunto al
buon andamento della nostra amministrazione, ma ripeto contemperiamo il danno
che la precisa esazione di ciò che è nostro diritto potrebbe determinare nei confronti
della società nel suo insieme. In poche parole è la stessa ragione per cui noi, pur
avendo un patrimonio immobiliare che è destinato a sostenere una parte delle nostre
attività assistenziali, partecipiamo alle politiche abitative del Comune… evitando
azioni men che meno speculative ma neanche di punta di mercato con le nostre… In
poche parole affittiamo le case, affittiamo i nostri appartamenti, che pure
dovrebbero sostenere le nostre attività, a un canone concordato, a un canone…
quelli che si chiamano i patti territoriali, insomma a un canone moderato, moderato
per la maggior parte, invece per le attività commerciali… traiamo dai nostri affitti,
dai nostri immobili, il massimo reddito possibile…» (7:19).
179
Una principio di solidarietà che si scontra spesso con l’esigenze di bilancio e di azienda
che deve far quadrare i propri conti.
«Mah, parlando dei servizi alla persona succede tutte le volte in cui ti trovi di fronte
ad utenti che hanno effettivamente la difficoltà di pagare… il limite tra… tra
l’impresa per così dire o l’aziendalizzazione di un servizio alla persona e il bisogno
sociale è un limite fragile…» (2:28).
7.3
Principi morali dei Servizi alla Persona
Rispetto ai principi espressi dai manager intervistati, che possono ricondursi al carattere
di “servizio alla persona” dell’organizzazione in cui operano, ritengo opportuno partire
dal quello che definirei accogliere la sofferenza. Ho a lungo pensato alla definizione più
corretta di questo principio, perché la sofferenza è più che altro un dato di fatto
ineluttabile, che si cerca sempre di fuggire e che non ha niente della bellezza e della
desiderabilità di ciò che in noi evoca più di frequente l’etica, intesa come ricerca della
“vita buona”. Ho pensato quindi a definizioni come “alleviare la sofferenza”, “lenire il
dolore”, “aiutare chi soffre”… Riflettendo e andando a rivedere le interviste, ho ritenuto
che il principio morale sia proprio quello di accogliere la sofferenza, che si richiama ad
un valore più grande, che è quello dell’umanità. Forse è proprio questo il senso della
sofferenza, quello di ricordarci la nostra umanità e di ciò che ci accomuna agli altri esseri
umani. È l’esperienza diretta e personale del dolore che ci mette veramente a contatto con
la sofferenza dei nostri simili.
«No, c’è un episodio che mi ricorda ancor più di aver accelerato questa dimensione
ed è stato nel 2005 [… ], dal 2005 al 2010 io ho subito 7 interventi chirurgici, e le
esperienze di profondo dolore e di sostanziale non autosufficienza hanno irrobustito.
Io mi ricordo che quando stavo male pensavo a come… a come si fossero sentiti gli
anziani nelle stesse condizioni, cioè in qualche maniera pensavo al mio male ma
pensavo… io ho un male, spero, temporaneo, transitorio, una persona non
autosufficiente sta così in modo permanente. Allora queste consapevolezze, questi
passaggi… insomma è stato un passaggio che ha ulteriormente rinforzato le
motivazioni, le convinzioni che erano già comunque devo dire forti …» (12:12).
Nella nostra società si tende ad allontanare il più possibile la sofferenza, a nasconderla, a
circoscriverla, a rinchiuderla in posti come, appunto, le Case di Riposo.
180
«Cioè, tu sei in un mondo dove sai che in questo mondo per definizione è il mondo
dove c’è sofferenza. Tu… è inutile che vai tanto in cerca di girarci intorno, devi
sapere che questo mondo è un mondo in cui la sofferenza è il primo attore e chi ci
opera non può non tenerne conto. Quindi la sofferenza. Tu puoi cercare di limitarla,
cercare di deviarla, cercare di… – …di accoglierla… – …di accoglierla, di gestirla,
ma non negarla, no. Per cui non si può negare che questi sono ambienti di
sofferenza, per cui questa premessa vuol dire che l’ospite soffre, mediamente, e non
solo sul piano fisico. Il parente mediamente soffre, il dipendente, mediamente,
lavora in questo circuito…allora questa è la premessa dalla quale bisogna partire,
sennò altrimenti si fanno dei castelli in aria rispetto a progetti terapeutici. Sai è tutto
un discorso molto bello, organizzato, dove si danno obiettivi, ma devi sapere da
dove parti e questo è il primo punto» (11:11).
Le strutture residenziali per anziani sono effettivamente luoghi di sofferenza.
«La nostra struttura non è un ospedale, dove si entra per un fatto acuto, o si subisce
un intervento e a seguire si prospetta una dimissione. Qui da noi le persone entrano
e aspettano la morte» (9:43).
Questo è il dato di partenza, di cui non si può non tenere conto. Va però detto anche che
l’impegno di quanti lavorano nella struttura dev’essere quello di farne un luogo di
relazioni e di vita, quello di riempire di vita questa attesa.
Un secondo principio espresso dai manager intervistati è creare utilità, cioè essere utili.
Generare, quindi, attraverso il proprio lavoro, un valore aggiunto, a beneficio della
società.
«Diciamo che il senso di un’attività è quello molto banale di meritarsi il proprio
stipendio, cioè di cercare di meritarsi il proprio stipendio. In che senso? Nel senso
di lasciare almeno quanto ci hanno dato. Di permettere che altri mietano
quantomeno gli stessi semi che tu hai usato per seminare, ecco. Questo come
obiettivo minimo, diciamo così… E quindi diciamo che l’etica dovrebbe aiutarti ad
ottenere questo risultato; ovviamente non è il risultato che ci si pone, ma uno dice:
“Questo è il minimo che io posso fare.” Dopodiché invece la tendenza è
possibilmente lasciare qualche semino in più di quello che si è utilizzato per
seminare…» (7:54).
Un principio di utilità che trova all’interno di queste organizzazioni, che producono
servizi alla persona, una fondamentale declinazione sociale.
181
«… mah, ti posso dire che comunque io personalmente, ma penso tutti quelli che
lavorano in questo ambito, si rendono conto di dare molto di più proprio perché la
propria azione è finalizzata non tanto ad un business ma ad un’azione che ha una
valenza sociale, cioè un’utilità sociale molto forte. Io lì personalmente trovo un
senso molto forte. Se avessi dovuto guardare prestazioni rispetto ad aspetti
retributivi, avrei fatto altri discorsi. Sono passato sopra a tante cose proprio perché
dico: “Ma, io sono già appagato per tutta una serie di aspetti del lavoro che svolgo e
quindi posso anche evitare di massimizzare altri aspetti di tipo economico”» (6:43).
È il lavoro nel sociale, con ciò che produce in termini di benessere degli ospiti e
dell’organizzazione in genere, che gratifica il manager sociale.
«Quello che rimane, il tipo di lavoro che facciamo ha un senso perché lo vediamo…
siamo gratificati dalla qualità e dal ritorno che ti danno gli assistiti» (9:52).
Altro importante principio che si rileva dalle interviste è quello della centralità della
persona. È la persona il “primo bene”.
«No, direi che l’attenzione ai miei principi sono quelli dell’attenzione massima
all’uomo e alla persona. Il primo bene in assoluto che abbiamo sono le persone, non
sono le cose» (8:43).
«… l’importanza della persona… della persona, mi verrebbe quasi da dire fisica, se
non… se non fosse un paradosso… della persona presa in tutte le sue componenti,
fisiche e spirituali. Diciamo che questo è quello che guida: l’importanza
dell’individuo, della persona, sia esso cittadino o non cittadino, sia esso giovane,
adulto, grande, piccolo. […] Diciamo i valori della persona sono quelli più
importanti…» (7:28).
Mettere al centro di un servizio la persona significa, però, ridiscutere l’intero impianto
organizzativo e la filosofia che sta dietro all’organizzazione dei reparti.
«Allora, noi abbiamo investito tutto e soprattutto sulle persone. Soprattutto sui
destinatari dei servizi, per cui la persona è al centro sotto tutti i profili, tanto più che
abbiamo avvertito la necessità di rivedere le stesse linee guida dell’Unità Operativa
Interna. Non ci siamo limitati ad avere le linee guide che in genere scandisce la
Regione con qualche provvedimento» (3:18).
182
Ma significa anche ridiscutere il lavoro assistenziale, come cioè ci si avvicina all’anziano,
alla persona anziana, trattandola come persona e non come oggetto, non solo come corpo
da lavare, da imboccare, da muovere…
«…Vedere questa persona anziana non come uno che devono lavare, cambiare,
mettere a letto, cioè delle mie cose standardizzate da fare, ma pensare a questa
persona come una risorsa verso la quale io posso ancora dare risposta. [Bisogna] far
passare il messaggio che l’ospite non è mio, l’anziano non è mio, per cui lo metto a
letto quando voglio io, deve mangiare quando voglio io… c’è uno zoccolo duro del
personale che viene già da un percorso di formazione di diversi anni fa… mentre
bisogna avere ben chiaro in testa il fatto che la persona è ancora persona, anche
quando…» (4:41).
Riconoscere l’anziano come persona vuol dire riconoscerne l’identità, unica e irripetibile,
e la storia personale che lo ha portato fin qui.
«Adesso, con questo esempio, le spiego concretamente cosa intendo per
"riconoscere le persone". C’era un signore qua fuori che io ho saputo che è stato
insegnante di inglese. Mi avvicino, lo saluto e gli chiedo qualcosa legato alla sua
vecchia professione. Lei non può immaginare come in un secondo ha cambiato
espressione. Questo qui ha detto: “Ah, qualcuno mi riconosce, sa che sono stato un
insegnante d’inglese”, ha cambiato letteralmente espressione. Allora tu puoi lavarlo
bene, dargli da mangiare bene, offrigli tutte le cose belle legate a un servizio, ma se
non lo riconosci con una sua identità di persona, eh... non stai dando una cosa che
ha valore. Quindi ci devono essere due elementi qua: riconoscere le persone, sapere
che alla fine qui dentro devono essere riconosciute, devono continuare a sentirsi
ancora parte di una società e dargli un servizio che sia il più possibile un servizio di
qualità» (10:10).
È questo un approccio relazionale che non si limita agli utenti o ai familiari, ma che deve
contraddistinguere tutti i rapporti che il manager intrattiene all’interno della struttura,
anche quelli con i collaboratori.
«Rispetto della individualità delle persone, che è vero particolarmente per gli
anziani, ma è vero anche per gli operatori, per i lavoratori. Rispetto assolutamente
dell’individualità, del ruolo, non del ruolo, del valore dei singoli . Cioè, i singoli
non possono essere mischiati nello sfondo di una massa” (non sono numeri
insomma). Io veramente ho sempre in mente questo pensiero, di riconoscere, di
conoscere il valore di ogni singolo: operatore, lavoratore, collega, anziano, utente,
183
quello che si vuole. Eh... e non è facile quando hai tanti numeri, però questo deve
essere l’atteggiamento giusto, lo sforzo giusto, perché poi alla fine questo è il modo
più rispettoso di vivere una realtà complessa, che se non la rispetti poi è pronta a
risucchiarti, a mangiarti” (sorride). Cioè, se tu entri – non dico in lotta – ma se tu
hai un atteggiamento di ostilità o di rigidità nei confronti della struttura, perché ti
scoccia uno che ti chiede una cosa, perché è pesante il fatto che un anziano ti chieda
per l’ennesima volta… un familiare… ecco, alla fine non ne esci, non ne esci. Certo
che è pesante essere attento a tutto, però non c’è alternativa, non c’è alternativa.
Ecco. Quindi il mio valore di fondo è veramente la considerazione, il rispetto, la
valorizzazione di ogni singolo per i talenti che ha, che sono uno, mezzo, tre, cinque,
mille, mille, un milione, ma…» (10:11).
Dal principio di centralità della persona discendono una serie di altri principi, come ad
esempio quello della personalizzazione degli interventi, che si collega al concetto di
unicità della persona e al valore della diversità.
«…innanzitutto tutelare l’unicità della persona ma anche, se possiamo guardare
l’altra faccia della medaglia, valorizzare le diversità» (4:10).
Poiché gli anziani sono persone e le persone sono uniche e irripetibili, gli interventi
assistenziali non possono rispondere ad una rigida e fredda standardizzazione, non
possono seguire logiche di produzione in serie, che massimizzano l’efficienza a danno
della qualità delle relazioni. Se la persona è al centro, sono le procedure di lavoro che si
devono adattare, attraverso un progetto assistenziale individualizzato, che viene “tagliato
su misura” per l’ospite.
«Il rispetto della individualità della persona passa attraverso una serie di strumenti
che utilizziamo. Il PAI, ad esempio, che è il progetto assistenziale individuale, è una
cosa un po’ seria, nel senso che significa che la persona viene presa in carico nella
sua individualità e quindi c’è una equipe di professionisti che prende in
considerazione la situazione della persona, specialmente le sue capacità residue, per
rispettarle, prima di tutto, e poi svilupparle, se possibile. Perché rispettarle vuol dire
che, se per esempio lei non è incontinente, perché le devono mettere il pannolone?»
(11:31).
Mettere al centro del proprio lavoro la persona, significa lavorare per il benessere
dell’ospite, che è un altro principio importante per i manager intervistati.
184
«Ricordiamoci che al centro del nostro lavoro c’è l’ospite; se noi riusciamo a farlo
stare bene, un po’ meglio di come stava prima noi abbiamo ottenuto un risultato, io
sono, non lo dico tanto per dire, io sono convinta che il lavoro sia di base
sostanzialmente questo…» (2:31).
Un principio, quello di far stare le persone “un po’ meglio”, che si traduce in concreti
impegni per il Direttore di una struttura, a cui competono le azioni finalizzate a creare
condizioni di comfort per gli ospiti, a cominciare dagli aspetti logistici.
«Ad esempio, aver maturato l’idea che le persone per poter vivere in maniera
dignitosa in contesti come questo necessitano di spazi adeguati. Lo spazio sembra
una sciocchezza, ma ti dirò che io sono arrivato qui nel ‘94, che era una struttura
fatiscente, da chiudere, con lo stesso numero di persone che abbiamo adesso. Erano
195 ospiti allora e sono 203 adesso… bene, abbiamo il 60% di spazi in più. Ora,
l’aver lavorato molto su questo non è solo questione di rispondenza agli standard
imposti dalla norma, ma piuttosto lavorare per costruire delle condizioni di
vivibilità, e quindi di spazio, laddove lo spazio e il tempo a disposizione fossero tali
da avere più respiro. Il valore che deve essere dato alla vita delle persone, il rispetto,
richiede che ci siano spazi di agibilità» (3:49).
È bene considerare con la dovuta attenzione le condizioni materiali che creano o almeno
favoriscono il benessere dell’ospite, come ad esempio il decoro e la pulizia all’interno
della struttura, nonché il modo di presentarsi degli operatori.
«Se io dico che l’impegno è quello di dare benessere all’ospite, non possiamo, per
dire una stupidaggine, un giorno mi ricordo quando sono arrivato che c’erano gli
operatori con 2 divise, poi siamo arrivati a 3, adesso a 4, e senza limiti di lavaggio.
Per dire, non possiamo approcciarci all’utente sporchi, con la divisa sporca, con la
divisa che puzza. Dobbiamo avvicinarci all’ospite con uno stile che è piacevole. E
quindi, come deve essere pulita la divisa, deve essere pulito il letto, deve essere
pulita la stanza, deve essere pulita la tovaglia, deve essere pulito… tutto. Cioè è un
modo di essere, no? Allora se tu pretendi questo, pretendi che anche
l’abbigliamento sia uno stile di rapportarsi, uno stile che non deve essere formale
rispetto solo all’abbigliamento ma che si deve tradurre tutto in atteggiamento che va
– dicevo prima – dalla stanza al letto, dalla sala da pranzo al linguaggio, al saluto e
via discorrendo…» (8:31).
185
Si persegue il benessere dell’ospite principalmente agendo sulle condizioni immateriali,
legate al clima che si percepisce quando si entra in una struttura assistenziale. Un clima
“di casa”.
«Soprattutto una condizione che ti consenta di vivere ambienti come questo come se
fossero la casa delle persone, il luogo dove la persona deve star bene e sentirsi bene.
Questo è un fattore di tipo valoriale da cui non si può prescindere» (3:34).
Questo lega a filo doppio il benessere dell’ospite con il Benessere Organizzativo che è un
altro principio espresso nelle interviste.
Perché è chiaro che in un servizio alla persona la qualità del prodotto si misura anche sul
grado di soddisfazione dei lavoratori e sul clima organizzativo che si riesce ad instaurare.
È questa una delle differenze sostanziali tra le organizzazioni che producono servizi alla
persona e le organizzazioni che producono beni. Come consumatori, noi non ci
accorgiamo se un determinato bene, ad esempio un paio di scarpe, è realizzato in una
fabbrica che produce malessere organizzativo, in cui gli operai sono sottopagati o esposti
a condizioni di pesante sfruttamento. Nei servizi alla persona come quelli in esame,
invece, proprio per il loro alto profilo di relazionalità, è fondamentale che le relazioni
all’interno dell’organizzazione siano sane, perché da esse soprattutto dipende la qualità di
ciò che viene “prodotto”, che è il benessere degli utenti.
Se è vero che dal benessere degli operatori dipende il benessere dell’ospite, è vero anche
il contrario, che cioè far star bene l’ospite fa star bene anche l’operatore.
«Ed è chiaro che benessere, quindi benessere della persona come destinatario,
significa benessere dei dipendenti» (3:21).
La “partita del benessere”, in questo senso, non è un gioco a “somma zero”, per cui se
uno vince, l’altro perde… si vince tutti o tutti ce ne rimettono, in qualche misura.
Sul benessere vanno fatte delle scelte organizzative importanti, che possono chiaramente
avere anche un impatto economico di un certo tipo.
«Su questo abbiamo insistito molto non solo perché vi sia rispetto degli standard –
noi siamo sopra standard, quindi non ottemperiamo certo al minimo richiesto dalla
Regione –, ma soprattutto che il personale sia orientato, ben improntato, soprattutto
formato ed informato. La formazione è stato uno dei fattori sul quale abbiamo
investito e stiamo investendo. E soprattutto la garanzia del lavoratore sotto il profilo
della sicurezza e anche direi dello stress da lavoro correlato» (3:21).
186
Si tratta di un ambito in cui il direttore assume un ruolo fondamentale, essendo una sua
precisa responsabilità quella di creare i presupposti per un benessere organizzativo.
«… nella gestione del personale, è una banalità pensare di doversi occupare solo
della gestione delle pratiche. Quello è un aspetto, ma in realtà riuscire a mediare i
bisogni della persona coi bisogni dell’organizzazione e fare in modo che le persone
vengano a lavorare volentieri e quando vengono si trovino comunque accolte in un
ambiente che gli permette di esprimere la loro capacità professionale, di farle
crescere, in cui stanno volentieri, ecco; quello secondo me è il compito che alla
fine…» (2:32).
«Terzo punto importantissimo per me è la cura del clima, cioè in una struttura che
appunto parte dal presupposto della gestione della sofferenza, come direttore, hai la
responsabilità del clima organizzativo… che è una cosa su cui si deve lavorare, non
è che viene da sola, sul clima organizzativo devi lavorare con varie leve…» (11:20).
Altra
declinazione
del
concetto
di
centralità
della
persona
è
quello
dell’autodeterminazione dell’ospite, principio fondante dei servizi sociali, che discende
dal presupposto che la persona è un essere unico e irripetibile.
«Poi, nel tutelare l’unicità della persona, possiamo metterci dentro tante cose… cioè
garantire che questa persona abbia il più possibile l’opportunità di essere, tra
virgolette, libera di fare le scelte, che possono essere dalla scelta di come
alimentarsi, alla scelta di partecipare ad una attività, alla scelta di poter uscire…»
(4:10).
Il principio di autodeterminazione dà concreta applicazione al valore assoluto della
libertà, espresso nelle scelte quotidiane.
«L’autodeterminazione dell’ospite […]. Cioè, se noi andiamo a parlare
dell’alimentazione dell’ospite, della sua autodeterminazione, a cominciare dalla
banalità proprio di mangiare troppo e di ingrassare, ad esempio… su questa banalità
ci si potrebbe scrivere un libro, nel senso che un individuo, al di fuori della casa di
riposo, può decidere se essere magro o essere grasso, come crede, salvo poi essere
obeso e dover quindi essere curato. In casa di riposo se non si sta attenti, un’ottica
strettamente sanitaria ti imporrebbe di stare a dieta stretta. Per cui l’ambito
dell’etica incomincia proprio dal basso, cioè dalla possibilità di fare le minime
scelte di vita che sono però fondamentali per l’autodeterminazione e anche quindi
per l’espressione della dignità della persona» (1:26).
187
In base a questo principio la struttura deve consentire all’anziano di sentirsi libero,
com’era o similmente a quando stava a casa sua. Sentirsi quindi meno “ospite” e più “a
casa propria”, in quella che è la propria vita.
«Se io mi sento un ospite per cui devo chiedere permesso per tutto ciò che faccio, se
io non sono a conoscenza di alcune attività che la struttura potrebbe offrirmi e di
fatto divento proprietà di un’organizzazione, che di fatto mi fa fare quello che vuole
lei, avrò una certa visione di come funziona qui dentro; se invece io mi sento un
attore, rispetto al fatto di dire io avrei bisogno di questo oppure avrei piacere di
sperimentare quest’altra cosa, avrei piacere di vedere mio figlio o quant’altro, è
chiaro che la mia percezione del mondo è completamente diversa. Io credo che
l’organizzazione dev’essere funzionale all’utente e non viceversa» (4:20).
L’autodeterminazione dell’ospite significa che dev’essere lui a voler restare e se vuole
andarsene ed è in grado di farlo: non può essere trattenuto.
«Il diritto all’autodeterminazione della propria vita, che arriva fino al limite che...
beh, l’altro giorno mi chiamano perché uno vuole andare via… ma se è in grado di
intendere e di volere, e vuole andare via, ha il diritto di andare via, gli ho detto:
“Vada via quando vuole, mi faccia una lettera dove dice “io voglio andare via, non
voglio più stare qua”. Verifichiamo le condizioni, che non sia nelle condizioni di
restare su una strada… – questo aveva una casa, aveva soldi – e vai a vivere la tua
vita”; è stato dimesso 15 giorni fa» (12:22).
L’autodeterminazione si traduce a sua volta nel principio di libertà di movimento
dell’ospite, tema molto avvertito dagli intervistati.
«Poi una grossa battaglia, che è ancora sottovalutata negli enti, è quello del
principio del libero movimento dell’ospite. Quindi della limitazione della
contenzione. Perché c’è ancora un’idea del valore della contenzione terapeutica,
cosiddetta, molto utilizzata nelle strutture… beh, se lei va a vedere negli ospedali è
ancora molto utilizzata in certi reparti ospedalieri; dove ci sono anziani è facile che
vengano legati gli anziani, e spondinati – perché anche la spondina è un mezzo di
contenzione – con una certa superficialità ed inconsapevolezza su quelle che sono le
ripercussioni negative di questo sistema di gestione assistenziale, perché non è che
alzare la spondina non voglia dire niente: dietro a quella scelta c’è tutta una serie di
limitazioni delle libertà personali, ma anche proprio della dignità della persona, che
188
poi “rotolano” verso delle situazioni di degenerazione in termini di qualità di vita»
(1:29).
Quello della contenzione è in effetti un problema che viene sollevato da molti direttori e
che è fonte a volte di tensioni all’interno della struttura, in quanto in esso si scontrano il
principio di libero movimento con il principio di tutela della salute e dell’incolumità
dell’anziano.
«A volte mi sono trovata a scontrarmi pesantemente con i miei coordinatori su
scelte che riguardavano ad esempio la contenzione, perché naturalmente, nel
contenere la persona, subentra molto la paura di chi assiste e quindi è in contatto
diretto… per tutelare la persona… quindi si lega la persona perché si ha paura che
cada e si faccia male. Arrivando a volte a delle modalità che sono inaccettabili per
me…» (1:53).
Un tema su cui il direttore interviene spesso direttamente, anche per una specifica
competenza, che in alcuni regolamenti interni viene assegnata a questa figura, quale
massimo responsabile della salute degli ospiti.
«… potrei parlare di qualche episodio di contenzione in cui non condividevo
assolutamente…. Le nostre linee guida prevedono che per un certo tipo di
contenzione, la tuta per esempio, dev’esserci un’autorizzazione specifica del
direttore, allora là magari mi è successo una volta di intervenire…» (1:54).
La tensione fra il principio di libertà di movimento e le esigenze di tutela può essere
vissuta internamente dal manager sociale come un dilemma etico.
«Quando scappa una persona affetta da demenza, il primo pensiero è: “Evviva, ce
l’ha fatta! Se era la libertà che voleva, l’ha raggiunta”; dopo dico: “Andiamo a
cercarlo, perché se non lo trovo mi mettono dentro”. Così come abbiamo superato la
questione “Il non autosufficiente può uscire dalla struttura?”. Secondo me se la
persona non autosufficiente è in grado di intendere e di volere, ha il diritto di uscire,
ha il diritto e noi dobbiamo garantirglielo, deve stare ad alcune regole: Quando vai?
Dove vai? Quando rientri? Se hai bisogno mi chiami…» (12:23).
Altro principio legato al concetto di persona che emerge dalle interviste è quello di
famiglia. Valorizzare la famiglia significa ricordarsi che quando un ospite entra, si porta
appresso una storia e dei legami che sono importanti, perché fanno parte inscindibile di
ciò che egli è.
189
«Quello che conta è la persona e la sua storia… e qui c’è un altro valore che è la
famiglia. […] Io… o comunque all’interno di questa struttura, insomma, abbiamo
consapevolezza del valore della persona, nel senso che si dà valore a tutto ciò che ci
ha portato fin qui. E quindi quando io e lei ci incontriamo, lei e io siamo frutto di
una storia, di un percorso, eccetera, del quale non siamo interamente responsabili,
nel senso che è anche quello che hanno fatto i nostri genitori e che poi hanno agito
su di noi e che ci hanno portato a essere ciò che siamo… non ne siamo responsabili:
diventiamo responsabili di ciò che ne facciamo, sicuramente sì. Per cui l’integrare
nell’incontro… avere consapevolezza che nell’incontro ha valore tutto ciò che ti ha
portato fino a qui, fino all’incontro con me e che quindi io devo in qualche modo
gestire…» (5:18).
Il rapporto tra la struttura e la famiglia non è mai semplice, come vedremo in seguito, ma
rimane un aspetto importante, da curare con attenzione, a volte anche un po’ mediando
con le esigenze dell’organizzazione.
«Adesso sono andato via da Xxxxx, ma una cosa che mi sarebbe piaciuto fare è un
maggior coinvolgimento della famiglia nel processo di valutazione dell’ospite.
Quindi una partecipazione nel momento dell’Unità Operativa. Avevo già cercato di
introdurlo, questo, ma ho incontrato molte resistenze da parte del personale per cui
avevo detto: “Vabbè, facciamo che diamo la restituzione al familiare subito dopo in
forma più strutturata…”. Però riuscire a fare in modo che qualsiasi decisione
sull’ospite sia presa con piena coscienza da parte della famiglia…» (6:34).
La famiglia è, in fondo, il modello a cui guarda anche la stessa organizzazione del
servizio, al fine di rendersi sempre più consona ai bisogni dei suoi utenti.
«Questo è l’elemento che mi che mi ha guidato in questi anni, il massimo rispetto di
un bisogno e l’attenzione verso qualche cosa che qui dentro difficilmente trovano,
che è quello della dimensione familiare, che è quello della quotidianità, che è quello
dei ritmi normali di una vita familiare. Quindi lo sforzo che tutto sia finalizzato poi
al riconoscimento della identità della persona. Se io riconosco il valore di certe
abitudini, alla fine vuol dire che vado a ragionare sul singolo, sui valori del singolo,
sulla individualità, sulla personalità, sulle esigenze che ha il singolo di essere
riconosciuto» (10:9).
Dare valore alla famiglia, significa dare un valore anche alla famiglia dell’operatore, non
dimenticarsi che anche l’operatore ha una famiglia e quindi degli impegni personali, che
deve conciliare con gli impegni di lavoro.
190
«Che cosa vuol dire? Vuol dire esattamente, come nel concetto di prima del
servizio, cioè faccio quello che serve ma nello stesso tempo non posso dimenticarmi
che sei un operatore ma anche una mamma, che per esempio ha dei figli e quindi a
una famiglia e che nelle scelte dei progetti obiettivo, degli straordinari ecc. bisogna
star attenti a non fare delle scelte che mettano le persone in condizioni impossibili,
che non riescono a reggere. Stesso discorso per quanto riguarda i familiari, cioè è
vero che noi siamo i tecnici, che noi ci occupiamo della cura, che siamo noi che
sappiamo fare le cose, ma dobbiamo integrare il nostro punto di vista con quello
della famiglia. Questo non vuol dire che mi devo far dire dalla famiglia quello che
devo fare, ma che la famiglia mi dice tutto quello che è stata la persona prima
dell’incontro con me e che non posso certo dimenticare, ma che anzi diventa una
risorsa per la cura, perché se ci racconta che il suo caro amava fare determinate
cose, che adesso non è più in grado di fare da solo, questa può diventare una leva,
una risorsa nei progetti, in quello che si fa» (5:18).
Molto presente nelle interviste è il principio del rispetto, che si richiama anch’esso al
valore della persona e all’importanza che nelle relazioni umane non si perda mai il senso
della ricchezza che ciascuna parte porta con sé in quanto persona.
«…vediamo un po’ quelli che sono arrivata a maturare… Innanzitutto un concetto
di rispetto, nel senso che quello che ho maturato è il fatto di vivere il rispetto per
l’altro, partendo dal rispetto per se stessi. […] Più si rispetta sé e più si rispetta
l’altro. […] Nella relazione con l’altro è importante questo concetto del rispetto,
della consapevolezza che l’altro è un valore, perché lo sei anche tu…» (5:4).
Si tratta di un principio che il dirigente deve sentire e praticare in prima persona,
vigilando attentamente sui propri atteggiamenti e comportamenti. Questo perché il ruolo
di potere che ricopre lo pone spesso a rischio di perdere di vista tale principio.
«Altro aspetto voglio dire di etica o comunque di comportamento per quanto mi
riguarda è sempre stata quello di cercare di avere rispetto quindi di non utilizzare il
ruolo, che tu ricopri quindi magari un ruolo che ti consentirebbe anche di gestire
determinati rapporti in maniera… autoritaria o comunque… e invece cercare di
avere sempre in primo luogo davanti, che sia il dipendente, che sia l’ospite, che
sia… il rispetto del tuo interlocutore, quello è la prima cosa» (11:42).
E quindi, anche nel momento in cui il dirigente deve essere fermo e deciso nei confronti,
ad esempio, dei suoi collaboratori, non può mai ovviamente scadere in comportamenti
191
irrispettosi e di prevaricazione, abusando in qualche modo della sua posizione di
superiorità.
«… cioè, anche quando devi eventualmente richiamare, devi farlo con una forma
comunque di rispetto, cioè… è un’altra persona. Io gli dico quello che devo dire, ma
non devo mica “sbranarlo”, no? Gli dico le cose come stanno e lì a volte, magari
non tutti, hanno questa capacità, non riescono a gestire il rapporto col rispetto che
per me è un punto principale. Lo pretendo anche io nei miei confronti, però prima
devo darlo» (11:21).
Il rispetto nei confronti dei collaboratori è un punto essenziale dell’etica professionale di
un manager. E questo rispetto si deve tradurre in un’attenzione alle singole persone e in
una valorizzazione di quanto queste possono dare.
«Il rispetto, rispetto quindi delle loro esigenze, rispetto delle loro possibilità… che
io esigo a mia volta. Quindi, il rispetto è sicuramente una caratteristica che deve
permeare il comportamento che si mette in campo» (2:7).
Il rispetto va rivolto soprattutto agli anziani ospiti, che devono rappresentare la prima
attenzione del direttore e della struttura che egli dirige.
«… il rispetto anche degli utenti, perché noi lavoriamo per dare loro una risposta e
l’utente è sempre al centro del lavoro…» (2:7).
Il manager sociale deve promuovere questo sentimento di rispetto, cercando di
“contaminare” l’ambiente in cui opera, in modo tale che i propri collaboratori lo
recepiscano e lo trasmettano a loro volta.
«… il rispetto della persona è fondamentale e io ritengo che questo deve essere
profondo in chi dirige una struttura, perché, a caduta, condiziona, orienta. È come…
io uso questa metafora: abbiamo come dei protoni, che escono dalla pelle delle
persone e, quando viaggiano, contaminano. Allora l’aspetto etico è… il rispetto
della persona che è tanto più elevato quanto più compromessa è la persona. Tanto
più la persona non è in grado di essere autonoma, di difendersi, di autodeterminarsi,
tanto più il direttore deve farsi carico del rispetto della dignità umana. Oltre al
principio, c’è l’elemento pratico perché poi dissertare sull’etica e dopo “razzolare”
male non va bene, e allora questo si coniuga con aspetti operativi che sono legati a
piccole cose come i luoghi, gli ambienti e le attività che vengono erogate ogni
giorno… il “tu” e il “lei” all’anziano, il fatto di rispettare, ad esempio, l’intimità
192
dell’anziano, il fatto, ad esempio, di informarlo delle cose che si stanno facendo a
suo favore, anche quando l’anziano sembra apparentemente non comprendere le
cose che tu gli dici. Ecco questa è - come dire - la pragmatica di un’etica che
dovrebbe orientare il mio lavoro come direttore, per poi fare in modo che i colleghi,
i collaboratori, eccetera, cerchino di portarlo avanti anche sul piano operativo,
insomma…» (12:4).
Sul mancato di rispetto da parte degli operatori nei confronti degli anziani, ho raccolto
parole molto dure, che fanno riferimento a episodi che suscitano chiaramente sgomento e
indignazione.
«… ma tu non puoi usurpare la dignità della persona, ecco, su questo io divento
intollerante, è un limite per me invalicabile, non ci sono scuse, nessuna scusa…
“Oh, mi è morto il cane, il gatto, il marito, la moglie, i figli…”. Non ci sono scuse,
se stai male, tu stai a casa e ti curi, ma tu non puoi venire qui a usurpare la dignità di
un anziano, semplicemente non puoi e se lo fai paghi a caro prezzo. Su questo devo
dire sono… mi sento in dovere di farlo, perché io devo difendere queste persone, la
loro dignità, la loro non autosufficienza… io credo che paragonabile alla violenza
su un non autosufficiente sia solo lo stupro di una donna o di un bambino, ecco. Io,
io penso questo e quindi io capisco che chi stupra probabilmente è stato stuprato,
ma questo non ti dà il diritto di far star male un’altra persona, insomma» (12:33).
Il principio della centralità della persona si collega anche con quello della relazionalità.
Le strutture residenziali per anziani sono luoghi in cui la relazione è un aspetto
fondamentale. È sulla relazione tra le persone che abitano o gravitano in questo contesto
di vita, che si misura in ultima analisi la qualità del servizio.
«Il tema centrale è sempre stato, per molti anni, la qualità della vita delle persone
anziane che noi assistiamo; questa diciamo era la coincidenza tra l’obiettivo e il
valore. In verità negli ultimi anni questo valore si è espanso e per noi l’elemento
valoriale è la persona e le relazioni, e la qualità delle relazioni all’interno dell’ Ipab.
Cosa vuol dire? Che si supera l’idea dell’anziano in senso stretto, che rimane
comunque al centro dell’attenzione dal punto di vista degli obiettivi dell’azienda,
ma viene ampliato, perché si dice che è importante la persona in sé, l’operatore, il
familiare, il volontario, le persone che vivono all’interno dei nostri contesti. E
quindi è la persona in sé, le relazioni tra le persone, che diventano l’aspetto
valoriale della nostra organizzazione…» (12:3).
193
Le Case di Riposo sono e devono diventare sempre di più luoghi di relazione, luoghi in
cui il rapporto non è solo “professionale”, che qualcuno malamente intende nel senso di
freddo e impersonale, ma umano.
«L’Istituto è la loro casa, quindi le nostre convivenze accolgono persone come ho
detto all’inizio gravemente malate, gravemente non autosufficienti e con le quali,
soprattutto io quando giro tra i reparti o sono presente per qualche manifestazione,
si instaura anche un rapporto umano. Ne conosco tanti di loro con i quali ho
costruito un rapporto umano, che va oltre l’aspetto amministrativo, gestionale del
personale, dei piani di lavoro, della direzione, dei bilanci, dei consuntivi, degli
adempimenti fiscali, delle relazioni sindacali» (9:44).
Occorre creare un tessuto di relazioni che creano benessere, che fanno cioè star bene,
perché all’interno di queste relazioni le persone si sentono “viste”, riconosciute, accolte,
amate.
«Ai miei collaboratori dico spesso che ogni persona, che sia capo o addetto alle
pulizie, agisce secondo i meccanismi della psicologia umana, cioè siamo persone e
tutte le persone stanno bene se hanno qualcuno che gli dice “Ti voglio bene” o che
gli dà un minimo di gratificazione rispetto al lavoro, che gli dà un minimo di
relazione positiva, che le considera, insomma. E questi sono i meccanismi che
caratterizzano non l’anziano, non il manager, diciamo, il direttore, ma che
caratterizza il genere umano» (12.13).
Creare relazioni, creare legami, è qualcosa che spetta in primo luogo al dirigente, che
deve porselo come obiettivo del suo lavoro, acquisendone le necessarie competenze.
«Inoltre il nostro lavoro consiste in buona parte nel metterci in relazione con le
persone – dipendenti e ospiti e familiari – persone che evidentemente presentano
anch’esse problemi sempre nuovi» (9:5).
«Un valore molto importante per me è quello di sapere lavorare con gli altri e quindi
di garantire le persona, rispetto a tutta una serie di problematiche organizzative, e
costruire rapporti, costruire squadra, costruire fiducia, costruire nuove cose, nuovi
progetti, dare motivazione...» (4:41).
Questa disponibilità costruttiva e progettuale ha luogo partendo dalla capacità della figura
dirigenziale di creare un clima di fiducia e confidenza, all’interno del quale non vi sia
distacco o distanza tra la struttura e chi dirige. Questo si traduce anche in un vantaggio
194
per l’organizzazione, in quanto le comunicazioni riescono a passare meglio e a facilitare
il raggiungimento dei traguardi che ci si propone.
«Di queste 50 persone, l’80 per cento mi dà del tu, le altre non mi danno del “tu”,
perché hanno magari 20-25 anni di meno di me e fanno fatica e io non forzo la
mano e va come va, insomma, tanto non è il “tu” o il ”lei”, è l’autorevolezza che ti
porti dietro, questa è la mia convinzione, insomma, per cui ci si da del “tu”… Io
vado con, non so, un coordinatore qualsiasi, un professionista qualsiasi e si sente il
dialogo, è un dialogo sul “tu”, insomma e quindi il dialogo tra persone che sanno e
condividono cose, ecco. Io sono sufficientemente informato su quello che capita
ogni giorno in giro, insomma…» (12:18).
Molto dipende chiaramente dallo stile personale del manager. Ad esempio nel rapporto
con i fornitori, vi può essere un approccio un po’ più distaccato che mantiene la relazione
sul piano dello scambio commerciale e un altro approccio che invece preferisce una
diversa interlocuzione.
«Oggi è venuto qui un rappresentante a vendermi dei prodotti. […] Quello che si è
avviato come un rapporto di tipo commerciale si è risolto in un confronto e nello
sviluppo di un’ipotesi di percorso per cercare di migliorare un certo processo,
entrando nel merito. Se un interlocutore, dall’altra parte, sente che da quest’altra
parte non sei con la testa solo sui conti, sulle delibere, sulle normative – che sono
terribili – e entri nel merito, nella sostanza della cosa… io penso che
quell’interlocutore abbia letto che l’Ipab si presenta in una certa maniera…
Insomma, non è che vieni a presentarti da me solo perché io devo comprare il tuo
prodotto e “buona notte!”… dobbiamo condividere qualcosa di più… L’azienda
deve capire, anche quella che vende qualcosa deve capire, che venendo qua viene a
condividere degli aspetti valoriali, sennò io non la voglio, non la voglio; uno che
“me vende par vendere” non mi interessa…» (12:20).
7.4
Principi morali del management
Nelle interviste emergono anche dei principi che ritengo siano riconducibili in senso
stretto al management e quindi al portato professionale specifico del manager e al suo
ruolo all’interno dell’organizzazione.
Il primo fra questi, è il principio della responsabilità, che evidentemente non è peculiarità
esclusiva del direttore: tutte le figure professionali che operano all’interno della struttura
195
sono chiamate a rispondere di ciò che fanno. Il concetto di responsabilità assume però
indubbiamente, nel caso del manager, una rilevanza particolare, essendo egli il primo
responsabile della struttura e dovendo egli essere anche esempio di responsabilità per tutti
i suoi collaboratori.
«La prima cosa è sapere che il direttore è responsabile, pensando a questa realtà, di
un centinaio di famiglie di lavoratori e di quasi 130 famiglie di ospiti. È importante
questo, perché il direttore deve garantire un equilibrio economico, garantire il futuro
lavorativo a chi vi opera e quindi una tranquillità a tutte queste famiglie, però nello
stesso tempo garantire anche le famiglie degli ospiti, in modo tale che la retta non
sia tale da strozzare le famiglie. Questo per me è un principio importante e
fondamentale. Un meta-principio, diciamo così, perché io ho sempre sentito questa
responsabilità molto importante» (6:2).
La responsabilità è legata ad un potere, che è il potere di agire, di cambiare in qualche
misura il mondo o almeno quel “pezzettino di mondo” che è il contesto in cui si opera.
«Sì, credo che il segreto sia proprio questo, assumersi la responsabilità di cambiare
qualche cosa, di fare, pagando ovviamente quello che è….le difficoltà di questa
scelta, insomma, ecco…» (2:38).
«Per cui i grandi ideali vanno poi tradotti… Comunque io ho la possibilità di
cambiare il mondo, anche se pulisco scale… Come direttore questa possibilità è
certamente più ampia della signora che pulisce le scale… in fondo dipendono da me
una settantina di dipendenti, 90 anziani, una serie di collaboratori…» (5:107).
Avere responsabilità nell’agire, significa disporre della consapevolezza che ogni azione è
comunque aperta all’errore e al fallimento e quindi responsabilità significa assumere su di
sé il rischio di sbagliare.
«Le responsabilità, ahimè, sono individuali. Insomma, sono datore di lavoro di 560
persone, sono una persona che ogni giorno deve decidere…30-40 cose; ho 50 mail
al giorno, eccetera, eccetera, e devo dare risposta e la risposta è la risposta che do
io… magari qualcuna giusta e qualcuna che è sbagliata, perché la vita è fatta di
queste cose…» (12:27).
Una responsabilità che pesa, anche perché non si è i soli a pagare per gli
eventuali/inevitabili errori. Questi errori ricadono spesso su tutta l’organizzazione, in
quanto le azioni del manager hanno quasi sempre una ripercussione collettiva.
196
«È chiaro che non ci si può buttare senza un briciolo di… cioè proprio sbaglio…
proprio perché il concetto di responsabilità – un altro valore, se vuole aggiungerlo al
mucchio, cioè agli altri – presuppone anche la consapevolezza che non si è soli poi
a portare le conseguenze di determinate scelte. Quindi, se prendo delle decisioni,
poi ne risponde assieme a me, come conseguenza, tutta la struttura che mi sta dietro.
Quindi è chiaro che non ci si può “buttare”…» (5:22).
Una responsabilità che il direttore si deve assumere e che deve pretendere con forza e
costanza dagli altri, siano essi collaboratori o altri soggetti istituzionali, come ad esempio
il Comune di residenza degli ospiti, quando ad esempio non intende integrare la retta di
un indigente.
«Potevo lasciare lì questo anziano […] da questo punto di vista avrei quindi potuto
lasciarlo lì. Però comunque sarebbe stata una scelta sbagliata. Cioè io volevo che ci
fosse una presa in carico da parte dell’autorità competente, perché secondo me
professionalità vuol dire che ciascuno si assume le sue responsabilità…» (6:58).
La responsabilità, per il manager sociale, si declina in primo luogo in una responsabilità
nei confronti dell’azienda che gestisce, cioè in un principio che potremmo definire di
aziendalismo, ossia di attenzione al valore sociale, prima che economico, che l’azienda
ha in sé.
«La prima responsabilità è perché, pur essendo una struttura di tipo pubblico, nulla
è certo, nel senso che oggi, come ha fatto fallimento o quasi una fondazione di
Padova, per dire… una responsabilità prima di tutto nei confronti dei 570
dipendenti. Io vengo anche dal catechismo di san Pio X, dove si diceva che uno dei
peccati che grida vendetta al cospetto di Dio è “non dare la giusta mercé agli
operai”. Nell’etica di un’economia, di un’azienda, vista anche come anche bene
sociale oltre che personale, come proprietà privata… conservare i posti dei
dipendenti credo sia cosa fondamentale. Ma io sono arrivato qua, in questo ente che
aveva 7 miliardi reali di buco e c’era chi aveva tentato… aveva cercato di fare
“spezzatino”… c’è stato invece un impegno di tutti, mio personale, ma anche del
commissario, poi del presidente… abbiamo salvaguardato questi posti di lavoro.
Abbiamo perso poi, nel frattempo, qualche posto, perché abbiamo perso centinaia di
posti, però questi 570 li abbiamo conservati. L’ente oggi è sano, ha fatto grossi
investimenti nel tempo e questo è il primo impegno, la responsabilità…» (8:22).
197
L’azienda è un “bene sociale”, al quale il manager deve assicurare la conservazione, la
continuità nel tempo, perché da questo dipende anche la prosecuzione dell’utilità sociale
che essa realizza a vantaggio degli anziani, ma anche perché da questo dipende il futuro
dei lavoratori e delle loro famiglie.
«Garantire il futuro lavorativo a chi vi opera e quindi una tranquillità a tutte queste
famiglie, però nello stesso tempo garantire anche le famiglie degli ospiti, in modo
tale che la retta non sia tale da “strozzare” le famiglie. […] Mi devo sempre
ricondurre a quello che è il fine ultimo, che è da un lato dare un servizio adeguato
all’utente e dall’altro […] dare un’adeguata redditività, tale per cui non ci siano
problemi per il futuro dell’azienda» (6:3).
La difficoltà che il manager spesso si trova davanti è proprio nel corrispondere a questa
responsabilità, a fare cioè in modo che si mantenga in piedi l’azienda, sapendo però che è
un’azienda che, per propria mission, non può essere insensibile ai problemi, anche
economici, delle persone.
«Mah, parlando dei servizi alla persona, succede tutte le volte in cui ti trovi di fronte
ad utenti che hanno effettivamente la difficoltà di pagare… il limite tra l’impresa,
per così dire, o l’aziendalizzazione di un servizio alla persona, e il bisogno sociale è
un limite fragile…» (2:28).
Non è un’impresa facile coniugare esigenze prettamente aziendali e istanze squisitamente
sociali, perché i bisogni sono tanti e tante sono le richieste che provengono dalla
collettività.
«A volte ci si sente in difficoltà a dover fare per forza sintesi fra le esigenze di
bilancio: finanziarie quindi quelle che sono le risorse che tu puoi spendere,
investire, e quelle che hai a disposizione, a fronte di una richiesta di aiuto, di
assistenza, che va anche oltre a volte a quello che puoi fare, quindi a volte ti senti in
difficoltà a dire: “Come riesco a far sintesi di tutto questo?”» (11:40).
Certamente i tempi sono cambiati rispetto a qualche decennio fa e se si vuole mantenere
questo “bene”, che è il servizio alla persona anziana, bisogna fare delle scelte, guidate
anche dal criterio della sostenibilità.
«Sì, perché comunque purtroppo le risorse sono scarse. Ragionare come se fossimo
guidati da principi religiosi… la Divina Provvidenza o quant’altro, secondo me…
Una volta le nostre strutture erano al servizio di tante cose, facevano anche da
198
“ammortizzatore sociale”. Sia nei piccoli paesi che qui si diceva: “Ma quello,
poverino, lo mandiamo a fare l’operatore di assistenza, perché ha perso il lavoro,
perché non trova lavoro, perché quella ha divorziato…”. Una volta era così. Ora
questa carenza di professionalità non è più gestibile, tant’è che l’operatore di
assistenza non è che entra più così, deve fare il suo percorso… Ma lo stesso noi non
dobbiamo fare più gli ammortizzatori sociali per altre situazioni, sennò poi ci
troviamo in situazioni che non sono splendide…» (6:10).
Va mantenuto fermo, quindi, un approccio anche di tipo aziendalistico e questo spetta in
primis a chi esercita funzioni dirigenziali, al manager sociale, che però non può
interpretare il suo ruolo, complesso e delicato, come fanno i “tagliatori di teste”, ma deve
agire secondo un’etica professionale e umana.
«Tutti quanti sono capaci, sai, di fare i conti, non c’è mica bisogno di gran che per
tenere i conti in ordine, gestire bene un ente. Il difficile è invece mettere insieme,
come dicevo prima, attenzione ai dipendenti, attenzione agli utenti, attenzione
all’ambiente… perché, sa, venire qua e fare come fanno i “taglia-testa”… in sei
mesi “tagliare teste”, non richiede mica tanto di capacità, non è mica… non è un
grande chi è capace di “tagliare le teste” e sanare i bilanci, è un grande chi sana il
bilancio e si ricorda che l’azienda è un bene, è un bene… è anche un bene
sociale…» (8:34).
Vanno fatti certamente dei tagli, perché c’è molto da cambiare, riordinare, correggere, ma
bisogna incominciare tagliando gli sprechi, che nel settore pubblico non mancano
certamente.
«… soprattutto evitando, per quanto è possibile, gli sprechi, perché gli sprechi…
Noi abbiamo sanato l’ente evitando, eliminando gli sprechi… eliminando gli
sprechi: questa è la grossa responsabilità!» (8:34).
Occorre poi anche chiaramente scegliere qual è il profilo dei servizi che si intendono
realizzare, qual è il livello assistenziale e di qualità che si vuole erogare per intercettare in
maniera adeguata la complessa e mutevole domanda di aiuto proveniente da una
collettività.
«Non c’è servizio se non ci sono utenti […] allora qua c’è una grande diatriba tra
quello che vuole l’utente, quello che vuole il familiare, quello che sarebbe giusto
dare e quello che sarebbe possibile dare… metti insieme questi quattro filoni e dai
quello che mediamente per la comunità è giusto dare. Anche qui la grande
199
responsabilità è quella di non esagerare né da una parte né dall’altra. Dicevo prima,
non si può esagerare in qualità. Tutti saprebbero dare grandi servizi, ma poi chi li
paga? E poi se la retta invece di essere 50 è 100, quanti sono capaci di accedere a
quel servizio da 100? Ma è buono! Benissimo, ma quanti? Chi può accedere a 100
di servizio, per dire? Allora “responsabilità” nei confronti degli utenti è dare
esattamente quello che è possibile dare col giusto costo di mercato» (8:34).
Non è una cosa semplice. Un progetto aziendale parte dalla definizione del cliente e dei
suoi bisogni. Ma chi è il cliente della Casa di Riposo? L’anziano che ne usufruisce,
ovviamente, ma poi c’è anche la famiglia di questo anziano, la Regione che corrisponde
la quota sanitaria, il Comune, quando è prevista un’integrazione economica, ma anche la
comunità locale dove la struttura insiste e con la quale essa si interfaccia
necessariamente. E anche questi soggetti hanno le loro necessità e le loro attese, che
vanno saggiamente mediate.
«Molte volte questo confronto, questo confrontarsi si scontra con le attese dei
familiari che vorrebbero tutto a un prezzo bassissimo, non vorrebbero inghippi…
non vorrebbero qualche difficoltà; come dicevo prima quello che vuole l’utente e
quello che vuole il familiare sono cose completamente diverse… Beh senta abbiamo
l’aria condizionata qui dentro ed è sempre oggetto di scontro tra l’utente, che tutto
sommato vuole poca aria condizionata, e il familiare, che dice sempre che è caldo,
perché c’è poca aria condizionata… ma in realtà l’utente vuole poca aria
condizionata, cioè poco freddo, per dire. […] Poi l’altra grande responsabilità è nei
confronti comunque di una società, di un servizio come il nostro, un servizio
pubblico nei confronti comunque di una società…» (8:23).
Si tratta di bisogni ed attese che si modificano nel tempo, così come si devono modificare
le risposte che la struttura è tenuta a dare.
«A noi sta il compito di innovarlo, di cogliere le prospettive future, perché la casa di
riposo di 40 anni fa era tutt’altra organizzazione e dava altri servizi, ma anche
quella di 20 anni fa era tutt’altro, perché oggi abbiamo gente con grossi problemi di
salute. E quindi dare delle risposte ai bisogni di questa gente, non della gente che
noi vorremmo, bella, che cammina… quella bella, che cammina, si arrangia da sola,
ecco…» (8:23).
Avere attenzione nei confronti della continuità e dello sviluppo dell’azienda come “bene
sociale”, si collega ad un principio che definirei di economicità. Intendere l’economicità
200
come principio morale e concepire le preoccupazioni del manager per il contenimento dei
costi e per il pareggio di bilancio un atteggiamento etico e non solo economico, non è
intuitivo.
«Principi etici particolari non ne vedo, a meno di non considerare il pareggio del
bilancio, il non fare buchi, un’istanza etica… – Potrebbe essere anche quella
un’istanza etica? – Sì, certo, all’interno di un’idea ampia di etica, per carità.
Utilizzare bene le risorse che si hanno… però, ripeto, secondo me è difficile riuscire
a parlare di etica se non si parla di ospiti. Sennò l’etica diventa molto vuota» (1:58).
Va però considerato il concetto di “bene sociale” a cui è associata l’attenzione al pareggio
di bilancio; non si tratta di avarizia, di arida parsimonia, ma di un atteggiamento
propriamente etico, di responsabilità rispetto a risorse che sono limitate e che vanno
impiegate al meglio. Si può quindi, a mio avviso, parlare di etica anche quando si parla di
bilancio e di mantenimento degli equilibri economici e finanziari dell’ente.
Anche rispetto a questo principio di economicità vanno ponderate le scelte da compiere
nel gestire eticamente la struttura, come ad esempio quelle legate alla dotazione organica.
Sapere che assumere una persona in più ha un costo e sapere quanto costa è un
atteggiamento di responsabilità anche etica.
«Torniamo sempre allo stesso discorso… tu, intanto, ogni qual volta assumi una
persona sai che ti assumi un costo al bilancio e sai che questo costo al bilancio
qualcuno lo deve pagare. Ma non lo pagano in senso così ampio lo Stato, la
Regione, no! I soldi per gestire questo ente ce li procuriamo ogni giorno con gli
utenti che abbiamo, con il contributo che ci dà la Regione, ma perché abbiamo un
utente con noi, sennò non abbiamo il contributo… con la retta che ci pagano i
parenti… ma se non abbiamo utenti, non abbiamo una retta, quindi ci procuriamo
ogni giorno i mezzi per fa funzionare questo ente. Io dico che noi siamo veramente i
manager, non come i presidi di scuola, che non sanno quanto costa un insegnante…
noi ogni giorno ci procuriamo i nostri contributi, i nostri mezzi per sopravvivere,
per fare… Allora ogni volta che tu fai una spesa, sai che la poni a carico del
bilancio, bilancio che tu devi… portare a fine anno almeno in pareggio e comunque
questo è proprio uno degli aspetti fondamentali…» (8:40).
Va quindi mantenuto un equilibrio; ci sono dei livelli oltre i quali non si può andare, pena
il rischio di perdere il “bene sociale”, e perderlo per tutti, anche per i lavoratori.
201
«…già noi ne abbiamo tante di persone che non sarebbero forse all’altezza di questo
compito, tante nel senso…le famose percentuali naturali, ci crediamo, non c’è
niente da fare, è come la malattia… la malattia sappiamo che un 7-8% delle persone
anziane è in malattia, però, sappiamo anche che non possiamo andare oltre. Perché
poi ci scontriamo con quelle richieste che l’utente ci fa che il familiare ci fa, e non
possiamo anteporre il bene dell’operatore al servizio, perché alla fine non daremmo
servizi e non avremmo nemmeno un lavoro… quindi è un circolo vizioso …»
(8:40).
Collegato al principio di responsabilità è anche quello di efficacia, cioè l’essere orientati
al risultato, che è in buona sostanza il benessere dell’ospite.
«Il manager è responsabile dei risultati e nel momento in cui andiamo a dire che è
responsabile dei risultati di salute, è evidente che nei risultati di salute c’è la qualità
del servizio, il benessere dell’ospite, la qualità di vita dell’ospite, la possibilità per
lui di scegliere e quindi attraverso questa strada noi entriamo direttamente dentro ai
processi assistenziali, sanitari eccetera, dove l’ambito dell’etica è trasversale e
determinante in tante delle nostre decisioni» (1:21).
È necessario che il risultato venga reso visibile e quindi rilevato mediante delle procedure
di monitoraggio costante degli scostamenti rispetto a quanto viene dichiarato nelle Carte
dei Servizi.
«È evidente che anche noi dobbiamo parlare di risultati, il nostro primo obiettivo
dev’essere il risultato di salute e il loro benessere dev’essere verificato, dev’essere
misurato. L’utente deve poter manifestare la propria soddisfazione o meno ed il
fatto che possa non manifestarla, perché riscontra che il servizio non è positivo, è
segno evidente che il servizio mostra le sue carenze e su questo bisogna lavorare…
ecco, io credo che i report che abbiamo introdotto ci aiutano molto… noi abbiamo
dei report di verifica periodici, raccolti semestralmente, coi quali possiamo
monitorare come stiamo lavorando» (3:37).
Collegato ai concetti di efficacia ed economicità c’è quello di efficienza. Le tre “E” sono
entrate nella cultura organizzativa delle Pubbliche Amministrazioni attraverso le riforme
introdotte negli anni ’90, non solo come slogan, ma come veri e propri principi del
management, impegnato a “sburocratizzare” il lento apparato pubblico.
«È per quello che io mi arrabbio tanto con chi vuole ingessare le organizzazioni,
perché l’efficacia e l’efficienza delle organizzazioni si raggiunge anche con la
202
velocità delle scelte. Se burocratizzi le scelte chiaramente non riesci più a fare
questo tipo…» (1:41).
Si raggiunge l’efficienza entrando nelle logiche di una produzione standardizzata di
servizi, che deve in qualche modo definire dei profili omogenei.
«Dal mio punto di vista devo essere professionale e arrivare fin dove devo arrivare e
non oltre, perché sennò metterei in discussione alla lunga la stabilità dell’ente nel
suo complesso, perché appunto io devo ragionare sempre che devo garantire un
servizio standardizzato a tutti» (6:53).
La standardizzazione del servizio corrisponde ad un principio di efficienza aziendale, che
va comunque mediato con quanto si diceva prima in merito alla personalizzazione degli
interventi. In buona sostanza, gli interventi assistenziali vanno programmati in termini il
più possibile preordinati, vanno realizzati seguendo precisi protocolli operativi, vanno
monitorati attraverso schede di controllo e quant’altro.
«Ci siamo accorti che troppi sono i cambiamenti durante l’anno, perché fai conto
che noi abbiamo un turn-over, cioè di cambiamento delle persone ospitate, che
arriva al 50%. Quindi vuol dire che in un anno qui gravitano circa 300 persone.
Questo ci ha fatto capire che è fatica pensare ad una programmazione in termini
personalizzati in maniera adeguata e quindi, rivedendo le linee guida, abbiamo
cercato di prevedere dei codici di percorso, tipo quelli ospedalieri, laddove il
significato del colore fosse abbinato al tipo di progetto che tu vai a fare sulla
persona» (3:19).
Questo, però, senza perdere mai di vista il fatto che si ha a che fare con persone e quindi
bisogna avere la capacità di saper adattare tutto ciò a quella singola persona e alla sua
situazione concreta di quel momento.
Tra i principi etici che si collegano all’aziendalismo, porrei senz’altro anche quello che si
potrebbe definire di miglioramento continuo, che è quella tensione incessante a spingersi
sempre più in là, a riformare costantemente, a modernizzare, a ricercare soluzioni
innovative per aumentare la qualità del servizio reso. Il principio del manager è quindi
quello di ricercare, inseguire il nuovo. Non temerlo, ma anzi subirne quasi il “fascino”.
«Anche sul percorso qualità abbiamo inteso profondere diverse energie sia personali
che sul piano delle risorse umane ed economico-finanziarie. Ci siamo certificati in
un percorso che è stato direi interessante, perché quando abbiamo fatto la scelta,
203
non abbiamo scelto subito di farla secondo le norme ISO 34 e di settore, abbiamo
voluto essere noi elaboratori di un manuale della qualità nel percorso. […] Questo
ci è stato molto d’aiuto anche in sede di percorso sull’accreditamento. Forse altri
potrebbero considerarla come mania del direttore, ma in genere abbiamo voluto
sempre avventurarci seguendo il fascino del nuovo» (3:7).
Una ricerca di miglioramento che traspare, non senza un certo orgoglio, dal racconto che
il manager fa della propria organizzazione:
«Infatti abbiamo fatto l’accreditamento, siamo stati i primi del Veneto, ma perché
abbiamo partecipato alla sperimentazione. Dopodiché, non contenti, abbiamo voluto
fare un altro percorso nell’ambito del sistema qualità, sposando un marchio europeo
[…]. Dopodiché, dopo qualche tempo, abbiamo abbracciato un altro percorso, […]
che si chiama “Marchio qualità benessere”» (3:10).
«Oggi per esempio ci può essere il discorso della musicoterapia o della pet-terapy o
tutta una serie di altre cose: i laboratori innovativi, l’informatizzazione… adesso
abbiamo informatizzato praticamente tutto qui, dal registro delle consegne e tutto il
resto…» (3:53).
Guardandosi indietro, guardando ciò che è stato fatto, ma anche pensando agli obiettivi
che il manager si pone e pone alla propria organizzazione, si può comprendere
l’importanza di questa tensione continua a migliorare. Una disposizione che parte dalla
capacità di mettersi in discussione e di analizzare criticamente la situazione in cui si trova
la struttura, per cercare di far stare tutti meglio.
«Sono cose che di primo acchito potresti non avvertirle nella loro portata, ma che
nel loro insieme sono a dimostrazione di un percorso che è stato fatto e di un
cambiamento. Questo è stato fatto perché ti sei posto domande, ti sei posto
interrogativi, cercando di verificare che cosa significa lavorare per il miglioramento
continuo, non solo per la vita delle persone che qua abitano, ma anche di quelle che
qua ci lavorano e anche del contesto aziendale. Ora, ecco, questo credo che sia un
fattore che nel suo riscontrarsi positivamente ti dà stimoli per andare avanti» (3:53).
Perseguire il miglioramento continuo significa non solo aumentare progressivamente la
funzionalità delle strutture, ma la loro bellezza. La tensione al bello non è solamente un
fatto estetico, ma anche etico. Bellezza intesa come cura per l’ambiente in cui si lavora e
34
Il riferimento è al sistema di certificazione della qualità codificato secondo le norme
dell’Organizzazione Internazionale per le Standardizzazioni (ISO 9000).
204
dove vivono le persone assistite, ma anche come espressione del proprio gusto e della
propria personalità.
«Ma che deve anche corrispondere a un bisogno che è il bisogno che io dico sempre
nel più ampio termine molto difficile come concetto, per carità, che fa molto
discutere, di bellezza. L’ordine che diventa bellezza e la bellezza che è anche
manifestazione allo stesso tempo di ordine, di creatività e quindi di capacità di far
emergere i bisogni, i piaceri, i desideri delle persone. Questo è il grande impegno di
un manager» (8:33).
Un ultimo principio riconducibile al management che rilevo dalle interviste è quello della
distinzione dei ruoli e delle competenze, che corrisponde ad una esigenza organizzativa
molto sentita.
«Cioè noi dobbiamo essere parte di un tutto. Dobbiamo fare la nostra parte, però
dobbiamo garantire alcune cose. Perciò se io sono professionale nel mio servizio,
questo ricadrà sugli altri. Io sono arrivato all’ Ipab quando non c’era il direttore, il
direttore era il segretario comunale e c’era quindi un’autogestione. L’autogestione
comporta che ci si dà dei valori e lì per fortuna c’era una situazione positiva. Però
c’era una confusione di ruoli, c’era interventismo… quando sono andato ad
intervenire su questo, ero visto come il tecnocrate. Però poi il personale ha
introiettato queste cose. Cioè io non è che faccio da qua fino a là, perché sono come
un impiegato ministeriale, ma perché è giusto che su quest’altro aspetto venga
coinvolta quell’altra persona. Non è che io lasci correre la cosa, coinvolgo gli altri»
(6:25).
Un’esigenza innanzitutto di chiarezza, che si traduce anche nella possibilità di far
crescere autonomie e competenze nei collaboratori.
«Primo la chiarezza dei compiti, se tu vuoi lavorare in un buon ambiente, no? E
creare un buon clima organizzativo: devi riuscire a dare a ciascuno i propri compiti
in maniera chiara, trasparente, in modo che ognuno sappia cosa deve fare» (11:22).
Distinguere i ruoli e le competenze non significa però separare gli ambiti professionali,
che anzi devono interagire, intersecarsi, per poter dare risultati. Perché è chiaro che il
singolo professionista deve fare il proprio mestiere e lo deve fare bene, ma per produrre
risultati in contesti di questa complessità, non ci si può limitare ognuno a fare il proprio
pezzetto.
205
«Quel tipo di manager [si riferisce al manager “vecchio stampo”] non avrebbe mai
interagito o messo in discussione appunto il modo di lavorare del medico… cioè
una separazione di competenze professionali che implica la non interferenza con
altri ambiti professionali, specie forti, cioè quelli sanitari» (1:57).
Le nuove organizzazioni si reggono sulla capacità di integrazione dei saperi e delle
competenze ed il manager sociale è chiamato a corrispondere a tale esigenza, lavorando
nei “confini”.
206
8
Dove si parla della competenza etica del manager sociale
Il lavoro non mi piace – non
piace a nessuno – ma mi piace
quello che c’è nel lavoro: la
possibilità di trovare se stessi.
La propria realtà – per se
stesso, non per gli altri – ciò
che nessun altro potrà mai
conoscere.
Joseph Conrad
8.1
La competenza etica
I principi morali rappresentano delle “conoscenze” e quindi una componente necessaria
per costruire la competenza etica. Necessaria ma non sufficiente. Vanno certamente
conosciuti i principi morali, ciò che è bene fare e ciò che non è bene fare dal punto di
vista etico, ma non basta chiaramente sapere per poi agire conseguentemente. Occorre
dell’altro.
Nel lavoro di analisi effettuato con Atlas.ti ho codificato altri ventuno elementi che a mio
giudizio concorrono a costituire tale competenza, che ho ritenuto di raggruppare secondo
criteri di tipo argomentativo in tre categorie (qualità personali, capacità relazionali e
componente motivazionale), che illustrerò nei paragrafi successivi.
207
Fig. 4 – Mappa delle competenze del manager sociale
208
8.2
Le qualità personali
Parliamo ora delle qualità personali del manager sociale, che utilizzando un termine
ritornato in auge, potremmo definire anche le “virtù” del manager35.
Possiamo intendere la virtù come un habitus, un’abitudine consolidata ad agire in modo
virtuoso. Non è il singolo atto, come abbiamo già avuto modo di dire, che fa virtuoso un
uomo, ma una disposizione comportamentale consolidata ad agire secondo virtù in
determinate circostanze.
Una delle qualità personali, che ho rilevato dalle testimonianze raccolte, è
l’autorevolezza, che va ben distinta dall’autoritarismo. L’autorevolezza è l’esercizio
“sano” del potere:
«… la capacità di interpretare il proprio ruolo in una maniera corretta, cioè non
l’esercizio del potere, insito nel ruolo, fine a se stesso, ma l’esercizio sano, ecco …»
(11:37).
L’autoritarismo, invece, si esprime quando non c’è piena padronanza del ruolo. È una
sorta di “scorciatoia” che si prende per esercitare il proprio ruolo di manager, cioè il ruolo
di chi deve far fare delle cose ai propri collaboratori. Ma è una scorciatoia sbagliata, che
denuncia non una forza, ma una debolezza del manager, magari di fronte alle pressioni
che gli vengono dagli amministratori, dalle responsabilità di legge o da quant’altro.
«Posso ricordarmi, come dire... un periodo in cui un periodo in cui lo stile era
tutt’altro che rispettoso di queste cose qua. Poi va detta anche una cosa, che talvolta
eh... ci si muove su queste strade, che sono poi delle scorciatoie, che sono
pericolose: non dell’autorevolezza ma dell’autorità. Ci si muove perché magari ci
sono delle pressioni forti da parte dell’organizzazione e tu non sei così lucido nello
spiegare che certe cose non si possono raggiungere (sorride) e ti fai trascinare. A
volte le tensioni, le pressioni, che l’organizzazione pone su un responsabile,
possono portare questo responsabile, se non ha la lucidità, l’esperienza, ad essere
trascinato in comportamenti (sorride) poco lungimiranti, eh…» (10:14).
L’esperienza è importante. Essere autorevoli, fuggendo le tentazioni autoritaristiche, è
questione, in certa parte, di un’attitudine, ma è soprattutto qualcosa che si acquisisce.
«Quindi io credo che sia questo poi il fatto: non è che c’è una formula matematica,
insomma, è un atteggiamento… sicuramente c’è un’attitudine perché ognuno ha il
proprio stile […]. C’è sicuramente un’attitudine di comportamento, di tipo
35
MacIntyre A., Dopo la virtù., cit. Si veda, al riguardo, il paragrafo 3.5.
209
caratteriale, mi viene da dire, e poi ci sono dei comportamenti che si apprendono»
(2:37).
Sono certi comportamenti, che si apprendono con l’esperienza, a fare in modo che il
manager riesca a dirigere la propria organizzazione senza imposizioni autoritaristiche.
Si tratta di comportamenti che si declinano in stili manageriali, i quali possono essere più
meno direttivi, senza per questo risultare rigidamente autoritari.
«Il comportamento è importante, perché è un elemento per raggiungere quella
autorevolezza per cui per farsi obbedire non è necessario imporre la propria
autorità» (9:6).
«Io sono piuttosto direttiva, perché non è mica che non lo sia, tutt’altro. Sono
piuttosto direttiva, però nello stesso tempo non sono… non sono autoritaria, ecco
questo non lo sono…» (2:37).
Avere un manager autorevole è fondamentale per una struttura, perché chi prende
decisioni importanti, che condizionano l’andamento organizzativo, chi impartisce
direttive rispetto all’azione dei singoli lavoratori, deve poter dare affidamento.
L’autorevolezza, però, non la si acquisisce perché si ha vinto un concorso pubblico,
perché si hanno “i gradi”, ma la si guadagna sul campo, attraverso il tenace e quotidiano
impegno, nell’ampliare costantemente le proprie conoscenze, nel consolidare le proprie
competenze professionali e nello spendersi concretamente nei problemi lavorativi a
fianco dei propri collaboratori.
«Trasmettere… anche sicurezza, rassicurare i collaboratori. Trasmettere la
convinzione che, così facendo, operano nel giusto. Ecco la sicurezza è anche un
valore… Sì, è un riferimento, se ho problemi so che c’è lui… vado da lui…
trasmettere sicurezza…» (9:53).
«Perché più sai, più dai e più ti viene riconosciuto questo ruolo, però te lo devi
conquistare il ruolo; non è che perché sei direttore tutto funziona bene o comunque
le persone ti dicono “Bravo direttore!”, no! Devi conquistartelo proprio con fatica,
dimostrando che comunque ti stai impegnando per te, per loro, per l’ente…»
(11:29).
Impegnarsi significa “dedicare se stessi” al compito che si è chiamati a svolgere. È
qualcosa che fa parte della persona, che è stata profondamente interiorizzata.
L’impegno non è, però, solo un impegno a “fare”, ma un impegno ad “esserci”.
210
«Credo, per certi aspetti, che su questo rientri un po’ la formazione che hai ricevuto,
sul piano culturale, sul piano religioso, sul piano umano, sul piano anche civico»
(3:40).
«Avverti su di te non tanto il peso, anche se a volte è un peso, ma quanto l’impegno
di esserci, di essere disponibile e soprattutto di dedicare te stesso» (3:40).
“Esserci” al fianco dei propri collaboratori, specie nei momenti difficili, perché
sono proprio quelli i momenti in cui è importante avvertire la presenza del capo.
Questo richiede una disponibilità a rispondere anche quando si è “fuori servizio”,
dato che la struttura funziona “24 ore”, cioè è sempre aperta.
«Loro sanno che non sono da soli, che se c’è un problema e loro vengono lo
affrontiamo assieme. […] loro non possono dire che io me ne lavo le mani, ecco,
loro sanno… il mio telefono è acceso di domenica, è acceso di sera… abbiamo
avuto l’episodio di un ospite che voleva buttarsi dal terrazzo, sono riusciti a portarlo
dentro eccetera. Quando mi hanno chiamato io ci sono sempre stata, loro sanno che
io ci sono. Io so che se mi chiamano è perché hanno bisogno, non perché non
vogliono fare una cosa…» (2:34).
L’impegno del manager si traduce in una dedizione quasi completa al lavoro e quindi
comporta sacrifici e rinunce esemplari.
«… vengo qua il sabato anche per studiare. Cioè, è un incarico. Mi porto via la roba
e la leggo anche la domenica, perché quello che devo dare, devo dare. Dopo
miracoli no, ma neanche…» (11:32).
«È un lavoro che se vuoi fare bene… io non so quante ore faccio alla settimana…
faccio ciò che è necessario… se senti il lavoro, se vuoi realizzare cose, devi darti a
questo lavoro, perché ci credi, sei esempio per gli altri, insomma porti avanti…»
(12:31).
Questo significa però sacrificare con la vita privata anche la famiglia, la quale
richiederebbe anch’essa impegno e dedizione. Una doppia presenza, un doppio “esserci”,
che chiaramente non è semplice da conciliare per il manager.
«… e quindi la famiglia… devi avere una famiglia solida, di persone che ti vogliono
bene, di persone che capiscono, che poi sai curare anche queste cose, quando sei
fuori dal lavoro, a casa, insomma, e quindi questo è un elemento morale importante
211
perché io sono responsabile secondo mia moglie della crescita di due figli…e
questo è un aspetto importante» (12:31).
L’impegno dev’essere prima di tutto del capo, perché è lui che è chiamato a dare il buon
esempio. È poi un impegno che egli deve esigere anche dai propri collaboratori, perché
essere al servizio significa “fare ciò che serve”.
Occorre precisare che l’impegno non è sono nel dedicare tempo ed energie, non è solo un
“esserci”, ma l’esserci in un certo modo, secondo un certo stile. E questa cifra stilistica,
che il manager dovrebbe avere, dovrebbe anche riuscire a trasmetterla alla propria
organizzazione.
«Se decidiamo di fare un progetto per la limitazione della contenzione
farmacologica e quindi non diamo più la terapia serale al bisogno – e quindi è
necessario che facciamo delle attività per evitare… – e questo significa che si deve
lavorare di sera, si lavora di sera. Se serve che il nostro orario di lavoro sia di un
tipo piuttosto che un altro, si fa quello che serve, perché concetto è che siamo al
servizio» (5:80).
«Un altro grande impegno che è quello dell’educare ad uno stile. Intanto uno stile lo
devi avere innanzitutto tu. […] Il problema di fondo è questo: se tu vuoi che il tuo
istituto, i tuoi operatori, i tuoi capi reparto, i tuoi collaboratori più stretti, abbiano un
modo di rapportarsi, devi darti tu stesso uno stile, che loro devono percepire, che è
uno stile nei rapporti interpersonali, che è uno stile nel linguaggio, nel vestire, nel
comportarsi, nel rispondere, nel salutare, cioè è uno stile che nasce, che non è
formale, ma che è la risposta a un tuo progetto culturale» (8:32).
Una qualità importante per il manager è poi l’umiltà, che nasce dalla consapevolezza di
ciò che egli è. Non si tratta quindi di falsa modestia, non si tratta di disconoscere
l’importanza del proprio ruolo all’interno dell’organizzazione e il valore dell’unicità che
si esprime, ma anche essere consci del proprio peso all’interno del proprio micro-cosmo
lavorativo.
«Ma dobbiamo avere la consapevolezza del nostro limite. Siamo il cosiddetto
“granello di sabbia nel deserto”. Il deserto sono milioni di granelli, miliardi, per cui
non è che noi possiamo incidere per modificare, però il nostro piccolo apporto, il
nostro piccolo impegno si deve manifestare e soprattutto dev’essere ben
riconoscibile rispetto a quelli che sono gli interlocutori» (3:73).
212
Umiltà significa, quindi, mettersi di fronte alla propria limitatezza, significa ammettere di
essere fallibili ed essere consapevoli dei propri difetti.
«… e lì io mi sono sentita impotente per il fatto di non riuscire a garantire qualcosa
di diverso a quel povero cristiano…» (4:34).
«So anche di poter sbagliare, perché sbagliare è umano, è umano…» (12:29).
«… io ho un brutto carattere, ad esempio, e questo nega molto di quello che è il mio
modo di fare, perché la mia reazione è spesso impulsiva, porta a bloccare più che a
costruire… questo è un elemento di negatività …» (3:119).
«… quando qualche volta io scado nel mio stile, perché mi arrabbio… un capo è
anche questo, non è che un capo sia sempre freddo, impassibile … a me dispiace,
perché non dovrei mai perdere l’equilibrio, comunque…» (8:85).
Un elemento essenziale consiste anche nel riuscire ad ammettere i propri errori, rispetto a
comportamenti, orientamenti, decisioni, sapendo pure chiedere scusa, quando si sbaglia:
«Io mi sono trovata qualche volta a dover, di fronte a lamentele, di fronte a
richiami, a reclami, a dover chiedere scusa per il comportamento, per qualcosa che
era avvenuta a livello di reparto… perché la persona si meritava che le si chiedesse
scusa, insomma, perché non eravamo magari stati all’altezza della situazione,
all’altezza delle aspettative…» (2:9).
L’umiltà si esprime a volte nel sentire che si ha bisogno dell’aiuto degli altri, che non si
può sapere tutto e che è buona cosa confrontarsi e imparare dall’esperienza altrui.
«…se non ci fosse questa squadra io non andrei da nessuna parte, ma proprio da
nessuna parte…» (12:25).
«Mi confronto con i colleghi dirigenti del Comune o di altre Ipab o della Regione.
Una caratteristica che deve avere un dirigente è quella dell’umiltà; è un aspetto
pregevole perché confrontarsi con gli altri ed essere umili paga nel tempo» (9:33).
Un’altra qualità che emerge dalle interviste è il coraggio, che non significa non avere
delle paure, ma sapersi misurare con esse, non esserne soggiogati. Questo, consci che ci
sono cose che si possono affrontare ed altre che trascendono ogni nostra possibilità di
intervento.
213
«… io la domanda me la sono fatta… se uno mi dicesse: “Fammi arrivare primo a
questa gara d’appalto, sennò violento tua figlia”… il mio comportamento quale
sarebbe? Per cui i grandi ideali vanno poi tradotti… […]. Per quello che riguarda
me, credo di essere molto coraggiosa. Cioè, nelle scelte che riguardano me ho molta
fiducia nella vita. Per cui se uno mi dicesse “Se non mi fai vincere la gara d’appalto,
violento te” è un discorso, quando riguardano altri, il marito i figli, le scelte
sarebbero totalmente diverse» (5:75).
Il coraggio che viene chiesto al manager non è comunque, nella maggior parte delle
situazioni, il coraggio che permette di affrontare aggressioni e violenze. Si tratta in larga
misura del coraggio di rischiare dal punto di vista giuridico: subire una condanna, con le
relative conseguenze di tipo economico per sé e per l’Ente, ma soprattutto con il grave
pregiudizio alla propria carriera e con una squalifica professionale, che può rimanerti
addosso come una macchia indelebile. La questione è che la sicurezza totale contro
questo tipo di evenienze non si può avere e quindi il coraggio del manager è quello di
gestire l’incertezza e il rischio.
«Ti piomba addosso di tutto… ti mette in difficoltà, cioè a volte devi, devi forzare
un pochino, no? Per garantire i servizi, non puoi fare solo l’aspetto... insomma poi
lavori in un settore anche tu sociale… Sono quelle aree lì dove se tu pretendi un
discorso di tutela piena sempre e comunque, su tutto, non ti muovi più, quindi devi
capire che c’è un’alea, in cui comunque ti devi buttare e rischiare un po’, ecco
rischiare un po’ vuol dire non certo fare chissà cosa…» (11:17).
Il manager sociale è consapevole del fatto che rischia in proprio, ma che rischia anche per
gli altri, nel senso che le conseguenze delle sue scelte si ripercuotono su tutta
l’organizzazione.
«Quindi, se prendo delle decisioni, poi ne risponde assieme a me, come
conseguenza, tutta la struttura che mi sta dietro» (5:26).
Il coraggio del manager non è buttarsi ad occhi chiusi, ma conoscere bene le possibili
conseguenze delle sue azioni (o delle sue omissioni) e calcolare rapidamente che cosa
conviene fare per garantire anche efficacia ed efficienza all’organizzazione.
«Io nella mia esperienza qualcosina in là sono andato per garantire i servizi, perché
se avessi dovuto seguire, non so, l’assunzione temporanea, coi tempi, nelle modalità
di scorrimento delle graduatorie a tempo non determinato, avrei lasciato reparti
214
scoperti, per cui a volte insomma si contemperava l’esigenza con la norma, si
valutava anche il rischio, capito?» (11:51).
Questo richiede che chi svolge funzioni dirigenziali compia, caso per caso, un’analisi del
rischio, il che comporta una valutazione del danno che quella determinata azione
potrebbe arrecare e delle probabilità che quel fatto dannoso si realizzi. Un’analisi che si
fa in situazione, “dialogando” con la situazione: elemento caratterizzante ogni scelta di
carattere etico.
«Quindi è chiaro che non ci si può buttare allo sbaraglio. [...] per cui sono scelte
veramente che vai a fare osservando un po’ gli attori e correndo anche qualche
rischio, perché devi stare anche a guardare la famiglia in che posizione si pone…
[…] Caso per caso. cioè, poi partecipare a tanti convegni, dove ti senti dire… ma è
caso per caso…» (5:26).
Molto di quello che il manager si trova di fronte è comunque imponderabile, perché è
affidato a un insieme di circostanze estremamente complesso o al caso fortuito o perché
comunque non è del tutto in mano al manager, ma dipende anche dai suoi collaboratori,
di cui è “costretto a fidarsi” (12:36).
Si creano a volte situazioni anche molto pesanti anche dal punto di vista emotivo e il
coraggio del manager consiste anche nel dissimulare la paura che prova, per non
trasmetterla a chi gli sta attorno, perché la paura è contagiosa.
«… una grande capacità di resistenza alla paura, di non comunicare paura attorno a
te, alla famiglia che hai a casa… di non comunicare paura… a volte taci su questi
problemi, il che comporta, comporta… comporta il cambiamento della personalità.
Mia moglie qualche volta mi ha detto chiaramente: “Da quando hai cominciato a
fare il dirigente a quel livello, con quella responsabilità, hai cambiato personalità”.
Non è che sono diventato un altro, ho cambiato personalità, ecco. Perché certamente
il sopportare un’accusa ingiusta non è facile e non si risolve dicendo: “Butto via il
tutto e comincio…”, ecco…» (8:37)
A volte la dissimulazione riguarda il dubbio e l’incertezza che rimangono quando il
manager prende delle decisioni che non lo convincono del tutto, ma che nondimeno deve
prendere, riuscendo anche a convincere i propri collaboratori ad andare avanti su tali
decisioni.
215
«… la capacità, non la capacità, il dovere di decidere, non c’è niente da fare.
Quando sei in certe posizioni hai, devi decidere e devi decidere comunicando a chi è
vicino a te la certezza della decisione che hai preso. Anche se dentro di te hai molti
dubbi, molte riserve su quello che hai deciso, devi comunicare certezza nella
decisione che hai preso» (8:17).
Una delle qualità personali del manager è in effetti la decisione, l’essere decisi, che la
capacità di ragionare sulle diverse opzioni e di assumere delle decisioni. Capacità che
potremmo definire anche, con sfumature connotative diverse, decisionalità o
decisionismo.
Il lavoro del manager è un lavoro che richiede inoltre di prendere delle decisioni in tempi
rapidi e in modo spesso “solitario”.
«Le decisioni sono sempre solitarie ed è proprio questo che io scrivevo in
quell’articolo. Uno stile di leadership, di condivisione in gruppi di lavoro non
significa che poi alla fine la decisione ultima spetti al manager. Cioè non è che la
condivisione del lavoro significhi che la decisione e la responsabilità conseguente
vengano diffuse. La responsabilità poi è sempre mia alla fine, per cui è evidente che
è mia cura rimanere in costante contatto con i miei collaboratori, per non prendere
decisioni stupide… è uno strumento di lavoro: il gruppo di lavoro, la condivisione,
eccetera. Poi alla fine può essere che io decida conformemente a quello che pensa
tutto il gruppo, può essere, come ho fatto in certi momenti, che decida in modo
difforme, prendendomene la responsabilità, naturalmente. Non è detto che il gruppo
ti dia la risposta che secondo te è corretta, per cui a volte, a volte, anzi, sì, sempre,
quasi sempre, si decide in solitudine» (1:65).
La differenza tra un atteggiamento decisionale ed uno decisionista sta, a mio avviso, nel
fatto che nel primo si valorizza lo spazio di ascolto, soprattutto dei collaboratori, cosa che
spesso mette al riparo dal prendere decisioni azzardate, sbagliate o semplicemente
“stupide”.
«Sì, il capo è solo, è solo perché, quando deve prendere le decisioni, le deve
prendere lui. È solo di fronte alle scelte, perché nel suo ruolo c’è il compito di
decidere…» (2:18).
La decisione è un processo che avviene analizzando la situazione in cui si è inseriti,
vagliando costi e benefici di ogni possibilità che si ha di fronte, cercando di decidere la
cosa migliore, non in senso assoluto, ma per quella singola e particolarissima situazione.
216
«…decidere di volta in volta… perché mi è capitato di prendere decisioni diverse…
perché mi è capitato più di una volta …» (5:67).
Questo atteggiamento decisionale espone spesso il manager alla tentazione di accentrare,
di voler decidere tutto lui. La moderazione, il giusto mezzo, che sono le modalità in cui si
esprimono le virtù etiche, richiedono che si faccia crescere un gruppo capace di assumere
anche decisioni autonome.
L’impegno a far crescere la decisionalità del gruppo si scontra però, a volte, con il fatto
che possono mancare nei collaboratori le competenze indispensabili perché si attui questo
processo di responsabilizzazione.
«Il gruppo c’è, la squadra c’è, io vengo a lavorare sempre volentieri, io sto bene con
i miei collaboratori, che siano quelli dell’ufficio, che siano quelli dei reparti, io sto
bene. Certo la solitudine è legata alle scelte, quello sì, perché poi sei tu che ne devi
rispondere, sei tu che hai deciso ad un certo punto di fare una determinata cosa e ne
rispondi. Però, se l’ambiente è di un certo tipo, c’è anche un atteggiamento proattivo e non solamente di attesa delle decisioni del capo, secondo me non c’è questo
peso, ecco, io non lo sento in modo forte…» (2:18).
«Sei solo nel momento in cui decidi… ti confronti col tuo gruppo, ma son gruppi
gracili anche sul piano professionale… e si ha quel che si ha…» (11:77).
Un’altra qualità “celebrata” dai manager intervistati è quella della coerenza, intesa
innanzitutto come coerenza tra i valori e i principi professati e ciò che concretamente si
agisce nel quotidiano.
Tale qualità assume una posizione assolutamente centrale nell’ambito del discorso etico.
È “l’elemento pratico” ciò che contraddistingue l’etica, in quanto sapere prescrittivo, e
quindi è fondamentale rinforzare l’abitudine a far corrispondere ciò che viene dichiarato
con ciò che viene fatto.
«Oltre al principio c’è l’elemento pratico, perché dissertare sull’etica e dopo
“razzolare” male non va bene, e allora questo si coniuga con aspetti operativi che
sono legati a piccole cose come i luoghi, gli ambienti e le attività, le risorse che
vengono erogate ogni giorno…» (12:5).
«Cos’è che mi guida nel lavoro? La coerenza, cioè non ci devono essere cose che si
dicono con la bocca e che poi non vengono tradotte in azioni. Cioè è inutile ch’io di
217
fronte a un familiare, di fronte ad un dipendente, di fronte agli anziani mi metta a
riempirmi la bocca di bei discorsi e poi, quando si toglie il “fumo”, la realtà è
diversa da quello che si dice» (5:9).
Questa coerenza è importante anche perché genera rispetto. Si possono anche non
condividere le idee e i valori dell’altro, ma se questi agisce con coerenza, mantiene
comunque la sua autorevolezza, diviene buon testimone della sua verità.
«Penso che una delle doti che più ispirano e più stimolano l’imitazione positiva sia
la coerenza… siano la sincerità e la coerenza. Paradossalmente […] la coerenza nei
valori cristiani […] può stimolare la coerenza nei valori laici […]. Molti di noi –
non io, perché non sono particolarmente… – ma molti amici, colleghi, parenti
eccetera, eccetera, hanno in mente la coerenza del sacerdote cattolico. Loro non
sono per niente praticanti, ma la coerenza di quella persona ha come stimolato la
coerenza verso altri valori… è la coerenza in sé che è un valore, forse, ecco…»
(7:48).
La coerenza, intesa come concreta aderenza ai propri valori, fa sì che non vi sia poi un
così netto scollamento tra sé personale e sé professionale, tra la persona – uomo o donna
– e il direttore.
«Ecco, a mio avviso non si può scindere la scelta valoriale: quello che risulta essere
in termini di vita personale, rispetto a quello che è il contesto del lavoro
professionale, in questo caso “fare il direttore”. Questo non significa confondere
momenti che possono appartenere alla propria vita personale, però spesso sei un
pochino “sopraffatto”… forse non è il termine più appropriato, ma sei così
“immedesimato”…» (3:39).
Ciò attribuisce alla figura del manager credibilità, requisito fondamentale perché egli
possa svolgere il ruolo di guida e, in qualche modo, di “trascinatore” al quale è chiamato.
Per “trascinare” gli altri, per far crescere la propria struttura, è necessario comunicare
determinati valori, non tanto a parole, ma dandone testimonianza attraverso i propri
comportamenti.
«Io credo che un leader è credibile nella misura in cui anche il suo comportamento
di ogni giorno ripropone le stesse modalità… non si può parlare bene e poi
razzolare male… però, dal mio punto di vista, è molto importante l’imprinting che il
manager riesce a dare all’organizzazione rispetto a tutta una serie di valori» (4:67).
218
Importanti sono anche le qualità di fermezza, tenacia e rigore. Il ruolo richiede, infatti,
volontà e la capacità perseverare anche nelle avversità.
In più occasioni, nel corso delle interviste, è emersa l’importanza di disporre di questa
forza di carattere, che consente di reggere di fronte alle difficoltà e di non perdere mai la
fiducia in se stessi e nel futuro.
«Cioè per carattere sono fedele a me stessa, nel senso che stabilito un certo
percorso, tenuti presenti i valori della rettitudine, della correttezza, della coerenza e
della fedeltà all’Ente, diventa difficile per me staccarsi dalla strada intrapresa»
(9:17).
«Sono riuscito a superare, insieme con tutti quanti, questa grande battaglia, che ci
ha visto veramente soli e attaccati da tutti. Io credo con la fermezza morale e la
personalità che uno ha, ecco, per cui, convinto che non avevamo fatto del male e
convinti che comunque la giustizia prima o poi prevale, eh! Trionfa…» (8:52).
Ciò comporta talvolta la necessità di imporsi, solo contro tutti, vincendo l’inerzia di
queste organizzazioni, superando le resistenze al cambiamento e l’ostinata chiusura
difensiva di quanti a volte, per conservare i propri benefici particolari, possono perdere di
vista l’interesse generale.
«… quello di sapersi in qualche modo imporre su chi ti sta vicino… imporre nel
senso di saper rompere quelli che sono i piccoli egoismi dei collaboratori, che non
vorrebbero piccole modifiche e ogni modifica, anche lo spostamento da un reparto
all’altro, diventa a volte un problema di assunzione di impopolarità nei confronti del
personale, dei collaboratori stessi che non vorrebbero modifiche, che non
vorrebbero cambiamenti, che vorrebbero mantenere lo status quo, perché così, fa
comunque piacere, fa comodo non essere disturbati insomma…» (8:43).
Ciò comporta anche una certa intransigenza: non può andar bene tutto e il contrario di
tutto, va chiaramente espresso ciò che è accettabile e ciò che non è accettabile in
un’organizzazione.
«No, io per esperienza e per educazione e per maestri che ho avuto… gli amiconi di
tutti sono persone che non vanno bene per nessuno, alla fine… anche perché gli
amiconi è gente che certamente non imposta la vita con un certo taglio etico, per cui
va bene essere di bianco vestiti come di rosso, tanto è il discorso di prima, uno
viene a scuola in pantaloni corti perché gli fa comodo e allora tutti noi facciamo le
cose che ci fanno comodo, questo è l’amicone, l’amicone per essere amico di tutti
219
deve accettare da tutti il compromesso. I compromessi, mi creda, ogni volta che
abbiamo fatto un compromesso l’abbiamo pagato in maniera molto, molto, molto
pesante; poi alla fine ci è ritornato il problema più pesante di prima…» (8:27).
Questo significa essere disposti anche a essere impopolari, a fare “la parte del cattivo”,
cioè a porsi in situazioni di rottura, che spesso concorrono a isolare il manager rispetto
alla propria organizzazione.
È, questa, una posizione necessitata spesso dal ruolo che egli ricopre, dalla responsabilità
che ha assunto, dal senso del dovere. Chiaramente ciò comporta ripercussioni anche
emotive. Non fa piacere, ma è una cosa dalla quale egli avverte di non potersi esimere,
pena un danno per l’intero servizio.
«Il personale ti critica, dice che sei un “boia”, perché comandi, perché pretendi,
perché ordini, ecco. Però da parte tua comunque c’è bisogno di questo… è una
responsabilità che è tua interiore. O la senti o non la senti. O ce l’hai o non ce l’hai,
insomma, e questo è prima di tutto, anche se poi paghi il conto molto forte sul piano
dell’immagine e comunque dell’isolamento… però insomma io sento in giro,
girando per la città, che l’istituto oggi ha un’immagine positiva ecco…» (8:22).
«… perché comunque sei additato come, sì, come un cattivo, un ingiusto, quello
che toglie […]. È sempre bello, apparire generosi è una cosa molto bella. “Arriva
un capo nuovo, eccolo qua, è arrivato il direttore nuovo, ci toglie quello che invece
quello di prima ci aveva regalato…”. Insomma non è una bella posizione
sicuramente…» (2:20).
Gli elementi di conflittualità non riguardano solo i rapporti che il manager ha con la
propria struttura organizzativa, ma anche con l’esterno.
Si tratta di una necessaria severità, che va logicamente regolata, come si regola il volume
della radio, perché non risulti eccessiva. Essa può, infatti, sfociare anche nella spietatezza
e nel cinismo, quando l’eccesso trasforma la virtù nel suo contrario. È questione a volte
di sensibilità personale e di un apprezzamento che si può fare – ancora una volta –
solamente calandosi nella situazione concreta.
«Sì, io mi sono trovato in situazioni… la situazione classica della retta non pagata.
Dove va l’ospite? Io ho sempre cercato di forzare. Io minacciavo anche
pesantemente il Sindaco del paese: “Guarda te lo porto in Municipio e lo faccio”.
[…] Però non volevo assolutamente che, per il bene e per la pace, non andavo a
220
scontrarmi con il Sindaco, non andavo a scontrarmi con i dirigenti dell’ULSS, non
andavo a scontrarmi con la famiglia» (6:20).
«Cioè, su questo sono stato anche molto pesante, anche in termini di lettere scritte.
[…] Però bisogna essere molto pesanti, molto decisi. […] Il Comune di
appartenenza ti dice “Ma sì, vedremo, casomai facciamo la determina…”. No, si
muovono. Perché se vai dopo, loro ti dicono “Ma ho fatto la determina dal primo
giugno e, per la retta dei giorni precedenti, vai dalla famiglia”, che non ha soldi…»
(6:23).
«E mi è capitato in un caso di un ospite che deambulava e c’era il fratello che
nicchiava, non voleva pagare la retta… una situazione un po’ degradata… ho
minacciato di portare lì l’ospite… il fratello aveva un esercizio pubblico, siamo
andati lì, quindi ha capito che non si scherzava…» (6:13).
Certamente anche l’eccedere, al contrario, nei “buoni sentimenti” trasforma la virtù nel
suo contrario. Buonismo, pietismo, "cuore tenero" sono atteggiamenti che ricevono
riprovazione da alcuni degli intervistati, in quanto non corrispondono all’agire con
professionalità e al “dover essere” del manager.
«Poi un altro valore importante è la professionalità sotto un altro punto di vista,
cioè evitare pietismi. Perché ci sono tante situazioni che magari singolarmente
sembrano pietose, però dal mio punto di vista devo essere professionale e arrivare
fin dove devo arrivare e non oltre, perché sennò metterei in discussione alla lunga
la stabilità dell’ente nel suo complesso […]. Faccio un esempio concreto: “Ma
questo ha problemi a casa per i soldi, la retta…”. Se tu parti da queste situazioni ti
troverai nel giro di cinque anni con un certo tot di rette non pagate, perché
“Poverini, poverini…” e quelle rette non pagate ricadranno su tutti quanti, perché il
bilancio dell’Ente è quello. Perciò io dovrò essere anche pesante e tranchant verso
l’utente che non paga, perché ci sono situazioni in giro che con la storia del
“Poareto…” vengono lasciate lì. Ma siccome nessun pasto è gratis, lo pagano tutti
gli altri utenti. Perché se si crea un buco, anche se piccolo, nel bilancio della
struttura, qualcun altro pagherà. Per cui io devo essere molto professionale, da
questo punto di vista, con gli utenti, così come lo devo essere nei confronti dei
dipendenti che possono avere determinate problematiche» (6:9).
Il discorso sulle virtù trascina con sé a volte anche vocaboli forse un po’ desueti, ma che
conservano ancora una loro attualità ed un significato che va forse precisato. È il caso del
termine onore, richiamato invero da un unico manager, per il quale però esso assume
221
evidentemente un notevole valore. Ritengo opportuno riportare pressoché integralmente il
brano di questa intervista, in quanto credo questo il modo migliore di rappresentare come
tale concetto sia andato chiarificandosi – ma direi anche, forse, a costruirsi socialmente –
nel corso dello scambio dialogico.
Dialogo sull’onore
D:
«Quali sono, secondo lei, le competenze in ambito etico di un direttore di una
struttura come la sua?»
R:
«Cosa significa competenze in ambito etico?»
D:
«Le qualità morali del dirigente…»
R:
«Allora, l’PAB è anzitutto un ente pubblico e allora è prevalente ovviamente
l’etica del funzionario pubblico […]. A fianco di un’etica personale c’è anche
un’etica codificata proprio da delle norme, delle leggi, prima tra tutte
appunto la Costituzione che noi come impiegati pubblici siamo tenuti a
rispettare. Permetta un momento adesso le trovo esattamente perché è
interessante anche dal suo punto di vista la citazione esatta dell’articolo,
basta che lo trovi… l’articolo che le citavo prima era il 54… che dice: “Tutti
i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica, di osservare la
costituzione e le leggi” – che va beh è assolutamente acquisito e quello che…
mi riferivo è questo – “I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno
il dovere di adempierle con disciplina ed onore” questo è il…disciplina ed
onore…non è un concetto anche personale? Cioè…è un concetto che è rivolto
alla dimensione personale dell’adempimento…è il 54 non me ne ricordavo
più…»
D:
«Effettivamente è un termine un po’ desueto… il “codice d’onore”, insomma,
questa cosa un po’ forse…
R:
«Sì, ma sa… ci sono delle parole che hanno un ritorno ciclico; l’ultima è
quella della patria… quando ero ragazzo io e uno diceva patria prendeva le
botte… prendeva le botte dai comunisti e adesso i comunisti sono quelli che
sono più…»
D:
«Legati un po’ a…»
R:
«E quindi non mi stupirei che…»
D:
«Che a anche disciplina e onore…»
R:
«… Disciplina e onore, che fa tanto da moto del cacciatorpediniere ritorni di
moda»
222
D:
«…sono termini un po’ così… aulici, che comunque… ma parlando un po’
per esempio anche dell’onore, l’onore di un direttore di una struttura come la
sua, ecco, dov’è che risiede… D: quali sono quelle…»
R:
«È un po’ difficile, è un po’ difficile, guardi. Quando le persone e le strutture
si misurano con delle necessità contingenti connesse per esempio al mercato
o al…o ad un andamento economico, il concetto di onore è particolarmente,
fra virgolette, difficile da rispettare, perché presuppone un atteggiamento di
fermezza, di coerenza, di… non mi viene… rigidità non è la parola giusta,
diciamo fermezza, coerenza…»
D:
«Solidità?»
R:
«Fermezza, coerenza, solidità, che è messo continuamente a dura prova da
tutto l’ambiente che ti circonda. Un’istituzione come la nostra si misura
anche tutti i giorni con un “quasi mercato”, quindi lei chiederebbe a un
manager privato del concetto dell’onore che cosa ne pensa? Io non so che
cosa le risponderebbe… non so, non sono sicuro che… non sono sicuro che la
sua risposta sarebbe pienamente coerente a quello che lui pensa… comunque
in ogni caso c’è un onore nella istituzione, fra virgolette. La coerenza ai
propri principi e soprattutto un comportamento tale che crei affidamento,
questo è quello che secondo me è l’onore…»
D:
«Rispondo alla domanda, che è retorica certamente, ma secondo me nel
mercato un po’ di onore e onorabilità, soprattutto, credo che ci voglia, anzi è
fondamentale, perché tutto si costruisce sulla fiducia, no? Beh è la fiducia che
fa andare avanti il mercato, perché se tu non hai fiducia, vai a comprarti
neanche un paio di scarpe…»
R:
«Sì, ma vede la fiducia è la dimensione esterna dell’onore. È quello che le
dicevo prima, l’onore non è, secondo me… - non vorrei… lungi da me, non
sono argomenti che ho mai affrontato, quindi vado un pochino a lume di
naso… - l’onore è la dimensione interna della onorabilità… Uno può creare
fiducia, può avere fiducia ma non avere onore, tra virgolette, o quantomeno
non avere quello che tradizionalmente si chiama onore…»
D:
«…vendere fumo, insomma…»
R:
«…nella truffa è normale creare fiducia… certamente il mercato si basa sulla
fiducia, ma l’onore è qualche cosa di diverso, di più… le ripeto è la
dimensione interna dell’onorabilità che…»
D:
«È un bel concetto, in effetti, perché è vero che la…»
R:
«…per questo le dico… le dicevo prima… è interessante la dizione con
“disciplina e onore”, disciplina è qualche cosa… è esattamente alla metà fra
223
l’azione e il modo di essere, l’onore fa parte del modo di essere…
specialmente quando non è codificato in determinati comportamenti… ma
non è il codice d’onore che fa l’onore, l’onore è un’altra cosa, non sta nel
codice, sta in sé…»
8.3
Le capacità relazionali
La competenza etica non è fatta solo di principi morali e virtù personali. È costituita
anche – come già emerso in precedenza – dalla capacità di stare in relazione. Stare in
relazione con se stessi e con gli altri. Se l’etica è quel sapere teorico-pratico fondamentale
per essere nel mondo con gli altri, per entrare in contatto, per creare relazioni, allora la
competenza etica non può non prevedere come fondamentale presupposto le capacità
relazionali.
Mettersi in relazione, prima ancora che scambiare cose o informazioni, significa “sentire”
assieme all’altro. Significa provare empatia, che, come abbiamo visto, è quella facoltà
acquisita nel corso dell’evoluzione filogenetica dell’essere umano, che è alla base di
quello che Lecaldano chiama “sentimento morale” 36.
Provare empatia è una capacità fondamentale per ogni professionista che voglia porsi con
un atteggiamento etico di fronte alle persone, con le quali interagisce nell’ambito della
propria pratica professionale. Ciò implica lo sforzo di “mettersi nei panni” dell’altro,
pensarsi al suo posto, considerare le questioni anche dal suo punto di vista.
«Io dico sempre: “Ricordiamo che siamo noi i prossimi ospiti e vorremmo avere e
trovare qualcuno che ci aiuta…”» (8:15).
«Questa cosa mi ha molto segnato in maniera individuale, perché ho pensato a come
potevano essersi sentiti i familiari […]. E poi pensare alla reazione che avrei avuto
io se fosse successo a mio padre… e poi pensare a lui, come persona, e mettermi nei
panni suoi, di questo signore che si chiama Ettore […]» (4:32).
E soprattutto sentirsi accomunati da un medesimo destino, per cui le gioie o le sofferenze
dell’altro non ci sono estranee, ma concorrono a determinare le nostre gioie o le nostre
sofferenze.
«… per esempio nella nostra struttura ultimamente abbiamo vissuto delle situazioni
parecchio pesanti. Una collega con gravi problemi oncologici e un’altra il cui figlio
36
Cfr. Lecaldano E., Prima lezione di filosofia morale, cit., p. 9.
224
ha fatto un incidente. Non posso essere felice da sola. Per quanto non è toccato a
me, d’accordo, ma non sono così felice come sarei stata felice se non fosse capitato
niente. Se cioè sei il figlio di Antonia stesse bene, sarei più felice; se Carla non
fosse malata sarei più felice. Sono felice nella misura in cui sono felici quelli che
sono attorno a me. Felici da soli… Cosa si può costruire appoggiando i piedi sulla
testa di qualcuno e nel cacciarlo sotto per emergere io? » (5:60).
Sentire assieme all’altro, percepirsi come legati gli uni agli altri, è l’atteggiamento
dell’uomo “buono”, vuoi per natura, vuoi per virtù appresa attraverso l’educazione e
l’esperienza. È un orientamento positivo nei confronti del mondo che potremmo chiamare
anche fiducia negli altri.
«Ritengo che la crescita più grande che può dare questo tipo di lavoro, di
professione, sia quella… può sembrare una cosa banale, ma poi spiego… di riuscire
a far crescere all’interno di noi stessi la fiducia negli altri, nel senso che quando io
come direttore mi tolgo dalla visione personale di questo mondo e mi approccio a
tutta una serie di altre persone, pensando che se creo delle regole, se creano una
organizzazione che funziona, la maggior parte delle persone mi restituiscono delle
cose positive, credo che questo sia molto gratificante» (4:25).
Porsi in relazione significa evidentemente anche comunicare. Comunicazione che parte
dalla capacità di ascolto, che è fondamentale per il manager sociale.
Sapersi mettere in ascolto delle persone, specie di quelle che soffrono com’è nel caso
degli ospiti di una casa di riposo, è una capacità che il direttore è chiamato non solo ad
avere ma anche a far crescere nei propri collaboratori.
«Quanto più io so ascoltare chi ho davanti e per ascoltare non intendo solo con le
orecchie, diciamo così, so leggere chi ho davanti, e tanto più saprò gestire» (5:108).
«… devi convincere la gente che deve ascoltare, quindi anche se una giornata è
pressante mi devi ascoltare…» (11:65).
Questo sapendo che non è facile, anche perché i ritmi di lavoro, la necessità di
ottimizzare i tempi, di rispettare le scadenze, pone il direttore in primis nella condizione
di sacrificare l’ascolto in nome di un efficientismo, di un fare per…, che spesso perde di
vista il senso e il valore della relazione.
225
«…la capacità di ascolto… perché comunque è difficile… a volte il lavoro ti porta a
fare tanta sintesi e l’ascolto a volte cade, ma non perché non lo vuoi, ma magari
perché devi fare in fretta…» (11:36).
Saper ascoltare, sapersi collocare adeguatamente all’interno del contesto, sono
presupposti fondamentali per l’efficacia comunicativa di un buon manager sociale.
«Devi saper gestire bene il sistema delle comunicazioni. Anche lì la responsabilità
di un direttore è gestire la comunicazione, affinché il clima resti buono. Vuol dire
sapere cosa dire, a chi dirlo e quando dirlo. Può sembrare una banalità, ma quando
tu gestisci bene la comunicazione e quindi dici le cose tenendo conto di chi, quando
e come, crei un bel clima» (11:24).
Un aspetto importante nella comunicazione del manager è la chiarezza. Nel comunicare,
ad esempio, con i collaboratori, il capo deve riuscire a trasmettere messaggi chiari e
inequivocabili. Si tratta, evidentemente, come ci insegna la Scuola di Palo Alto, di una
chiarezza che attiene non solo ai contenuti, ma anche e soprattutto alla relazione, a come
ci si pone di fronte all’interlocutore37.
«Chiarezza, perché do delle risposte, cerco insomma di dare delle risposte sempre
chiare, sia in termini di aspettativa, sia in termini di risultato. Quindi loro sanno,
non faccio promesse che non posso mantenere. Se c’è qualche cosa che non è
andata bene, se c’è un loro comportamento che non è andato bene, ne parliamo
insieme in modo chiaro, la chiarezza…» (2:5).
Un rapporto che si costruisce “posizionandosi” rispetto a determinate scelte, in modo da
consentire all’altro di fare altrettanto, sapendo fino a dove può spingersi…
«… io ad esempio ho visto che se tu sei molto chiaro a mettere certi paletti… il
dipendente… Ad esempio quelli che hanno mal di schiena… io posso individuare
dei posti con contenuto di lavoro meno gravoso, ma non posso inventarmi dei posti
di lavoro ad hoc per quello che ha quel problemino… Facendo così il primo effetto
è che si riducono di molto le richieste, perché tutti i giochi sono chiari. Secondo me
37
Cfr. P. Watzlawick, J. H. Beavin, D. Jackson (1967), Pragmatics of Human Communications: a study
of interactional patterns, pathologies and paradoxes, trad. it. La pragmatica della comunicazione
umana, Roma, Astrolabio, 1971. Uno degli assiomi che vengono argomentati in questa opera sostiene
infatti che ogni comunicazione contiene in sé elementi di contenuto ed elementi di relazione, che vanno
parimenti presidiati.
226
professionalità da questo punto di vista è anche evitare pietismi che poi portano a
situazioni che alla lunga sono ingestibili, ingovernabili…» (6:9).
Questo va contemperato con un’esigenza che definirei di mediazione, cioè con la capacità
di calarsi nella situazione concreta e porsi con una certa flessibilità di fronte alle
specificità del contingente, all’unicità e all’imprevedibilità dei casi, resi virtualmente
infiniti dalla presenza dell’imponderabile “fattore umano”.
«Però io credo che sia il confrontarsi con la gestione della risorsa umana, che è
sempre una cosa imprevedibile e anche gratificante, che porta delle volte a fare un
lavoro per tentativi, un lavoro di mediazione… ecco, la capacità di mediare era una
cosa che io non avevo assolutamente… Adesso ho imparato, anche in situazioni
diverse dal lavoro a confrontarmi… il pensiero che mi viene ora in mente, anche
nella mia vita personale, è: “Come posso mediare rispetto a questa cosa?”» (4:26).
La capacità di mediare si esercita anche rispetto ai conflitti, sapendosi rapportare in
maniera costruttiva nei confronti delle diverse persone.
Questo non significa rinunciare alle proprie posizioni, derogare da quella chiarezza di cui
si parlava prima, ma portarla avanti con sensibilità e tatto, sapendo che tutto può essere
detto, purché si usi il modo giusto.
«I rapporti con colleghi di pari grado ma non di uguale anzianità devono essere
gestiti con particolare tatto e diplomazia, affinché non sorgano conflitti inutili»
(9:41).
«La mia sincerità è stata ed è spesso poca diplomazia, perché credo che poi le stesse
cose si potrebbero dire in maniera molto più soft, anche con eleganza se vuoi.
Perché spesso me lo dicono, sono l’elefante che arriva nella cristalleria e quindi è
più il danno che altro. Quando poi le cose si sarebbero potute dire, però, sai, c’è
modo e modo» (3:97).
Il capo non deve solo saper “comandare”, deve riuscire a porsi in termini negoziali nei
confronti dei propri collaboratori e in generale rispetto ai soggetti con i quali si rapporta38.
E questo è qualcosa che si impara sul campo.
«Allora io, venti e passa anni fa, non la pensavo così... molto ingenuamente pensavo
che uno, perché aveva i gradi, doveva solo comandare e gli altri erano obbligati a
38
Cfr. Fletcher K. (1998), Negotiation for health and social services professionals, trad. it. La
negoziazione nei servizi sociali e sanitari. Guida per dirigenti, coordinatori e case manager, Trento,
Erickson, 2000.
227
ubbidire, eh... con il tempo ho capito che è un modo ingenuo, infantile, poco
intelligente di intendere e ho capito che alla fine paga di più in termini proprio
concreti, pratici avere un atteggiamento che sia rispettoso del singolo… il che non
vuol dire farsi sempre condizionare dal pensiero dell’altro. Vuol dire riconoscere
l’altro, provare a ragionare, provare a confrontarsi… vuol dire provare a spiegarsi…
quindi io queste cose le ho imparate un po’ sulla mia pelle, con l’esperienza... le ho
imparate strada facendo…» (10:12).
La postura etica del manager dev’essere improntata ad una particolare attenzione ai
collaboratori, che sono importanti risorse per l’organizzazione, ma sono innanzitutto
persone, con i propri bisogni e desideri, di cui il direttore deve tener conto e che deve, se
possibile, conciliare con le istanze dell’organizzazione.
«Faccio quello che serve ma nello stesso tempo non posso dimenticarmi che sei un
operatore, ma anche una mamma, che per esempio ha dei figli, una famiglia… e
quindi nella scelta dei progetti obiettivo, degli straordinari, ecc. bisogna star attenti
a non mettere le persone in condizioni impossibili, che non riescono a reggere»
(5:21).
Un’attenzione non solo a parole, ma concretamente tradotta in iniziative di
riorganizzazione dei servizi, che tengano conto di questo aspetto.
«Perché non è che tu abbia dei risultati così, bisogna che tu faccia degli investimenti
in termini di manutenzione, di benessere organizzativo… noi abbiamo un progetto
che dura da sei anni sul benessere organizzativo, che non vuol dire fare chissà quali
interventi a livello di incentivi o di benefit, nei confronti del personale, ma che
significa più che altro cercare di avere un dialogo continuo con il personale, che ti
metta in grado di capire quali sono le difficoltà, quali sono le esigenze… Le faccio
un esempio pratico. Noi, nella gestione del turno (perché il 90% del personale è
turnista, il turno è uno strumento di lavoro importante, ma ha tutta una serie di
criticità…), ad un certo momento abbiamo fatto una scelta che è stata quella di
centralizzare il turno, in modo da poter garantire dei criteri di equità nella
distribuzione del turno, quindi in termini di quante domeniche fai, quante notti fai,
quanti rientri in servizio, quante ferie, eccetera. Quindi noi ogni sei mesi
rendicontiamo a tutto il personale, diamo a ciascuno un foglietto in cui noi
rendicontiamo quante di queste cose abbiamo chiesto a lui e quanto agli altri del suo
gruppo di lavoro, proprio per dimostrare che vogliamo perseguire un criterio di
228
equità nella distribuzione di queste criticità e che il dipendente è guardato con
attenzione su questo» (1:38).
L’attenzione ai collaboratori si traduce anche nella capacità di gratificarli,
riconoscendone e valorizzandone il merito.
Pur conoscendo l’importanza della comunicazione per la crescita delle relazioni, molte
persone – per carattere o per altro – fanno molta fatica ad esternare ciò che provano
realmente. È quindi una sensibilità che occorre coltivare pazientemente.
«Devi riconoscere il buon lavoro, cioè così come a volte devi riconoscere qualcosa
che non va, ma devi, ecco…» (11:24).
«Uno dei limiti che mi riconosco è quello di non riuscire a gratificare gli altri in
maniera adeguata… è un limite che ho qui e che ho a casa… io mi definisco
calvinista, perché pretendo molto da me stesso come pretendo molto dagli altri, però
questo alla fin fine non sono capace di trasformarlo in riconoscimento adeguato
anche in termini di soddisfazione. Ora chi mi conosce e vede le cose sa anche
cogliere che questo aspetto c’è… ma non traspare tanto. Per certi aspetti lo vedo
come un disvalore, che mi fa stare male, perché se tu lavori per essere di esempio in
termini valoriali poi non sai nello stesso tempo saper gratificare, questa mancanza di
riconoscimento ti gioca contro, ti si ritorce. Questo lo vedo come un valore non
praticato, ecco, potremmo chiamarlo un valore non praticato rispetto a quanto
potrebbe essere fatto» (3:82).
8.4
Le componenti motivazionali
Nella competenza etica non può mancare una componente motivazionale. Non basta cioè
conoscere i principi morali, avere delle qualità personali e delle capacità. È necessario
anche volere agire in modo etico. La motivazione è quella spinta interiore che induce il
soggetto ad agire e rappresenta, per riprendere la metafora già citata di Spencer e
Spencer, la parte sommersa di quell’iceberg che chiamiamo competenza39.
Nel corso dell’intervista sono emersi diversi aspetti di tipo motivazionale a cominciare
dal piacere del lavoro che ricorre in molte testimonianze.
39
Spencer L.M., Spencer S.M., Competenza nel lavoro, cit., p. 30
229
Un piacere che deriva dal fatto di “riconoscersi” in ciò che si fa, nel risultato del proprio
lavoro. Il piacere di creare con il proprio agire, dell’essere generativi, che è secondo
quanto ci insegna Erik H. Erikson il fondamentale portato dell’età adulta40.
«Il secondo punto, per quanto mi riguarda, è la bellezza del lavoro, no? Il principio
è cercare di dire: “Io sto facendo qualcosa per cui vedo il mio risultato o per lo
meno la parte che io posso incidere”, nel senso che io ho dei parametri, no? Mi
vengono date delle risorse dall’Amministrazione, mi vengono dati anche degli
obiettivi, ecco… ma l’importante, la soddisfazione, è quella che uno trova nel dire:
«Sono riuscito ad aprire un reparto!”. Sento che parte del mio lavoro, del mio
sacrificio, anche delle mie paure…» (11:13).
Il piacere sta nel fare e nel fare bene, nel provare soddisfazione nel lavorare bene41.
«Stiamo facendo questo, facciamolo bene… cioè, lo possiamo fare, ma possiamo
farlo bene. Se lo facciamo bene, siamo soddisfatti e contenti, se lo facciamo e basta,
probabilmente alla fine siamo anche mortificati e non vediamo l’ora di uscire dalla
porta e di andare a casa… e invece così lo facciamo volentieri, ecco… e questo
volentieri, questo stare insieme volentieri, secondo me è anche uno stare insieme…»
(2:39).
Fa piacere soprattutto lavorare con altre persone, sentirsi una squadra che sta bene
assieme, condividendo l’esperienza del lavoro.
«… l’impegno, la soddisfazione di portare a compimento un lavoro… la
soddisfazione che si prova a lavorare in team, a lavorare in gruppo quindi a
condividere il successo e queste sono sicuramente delle motivazioni forti e dei
valori che si trasmettono…» (2:53).
Un piacere di lavorare assieme che permane, nonostante le difficoltà e i vincoli che
sembrano divenire giorno dopo giorno più gravosi: gli elementi di difficoltà e di disagio
nel lavoro in una casa di riposo, in amministrazione o nei reparti, non mancano
certamente.
40
Cfr. Erikson E.H. (1982), The life cycle completed. A review, trad. it., I cicli della vita. Continuità e
mutamento, Roma, Armando, 1999.
41
Sul valore della “cosa ben fatta”, si veda Toffano Martini E., La cultura dei diritti umani e l’educazione
delle prime età. Indizi di un “prima” e di un “oltre” in Emmanuel Mounier, in Xodo C., Benetton M. (a
cura di), Origini e prospettive della Scuola di Pedagogia di Padova, Lecce, Pensa MultiMedia, 2007, pp.
343-345.
230
«No, no, no ti preoccupa, adesso aumenta la preoccupazione, ciò nonostante è
comunque ancora un bel lavoro… è un momento difficile […], però ecco, devo dire
quello che io trovo ancora è che c’è ancora voglia e piacere di fare questo lavoro…»
«In ufficio di qua molto spesso sono sulle barricate, perché ci sono momenti in cui,
per le scadenze, per… bisogna veramente, veramente tirarsi su le maniche. Nei
reparti, poi, non ne parliamo... Pensiamo a quando abbiamo i familiari di qualche
ospite che li insultano, abbiamo anche persone che insultano, che mancano di
rispetto, però il personale sa che non è da solo, ci sono…devi dare tu degli esempi
per fargli vedere che non è da solo…» (2:39).
La difficoltà stessa può però costituire un elemento di motivazione, dato dalla sfida, cioè
dall’impegno a superare tali ostacoli, a trovare costruttivamente le possibili vie d’uscita.
Si tratta di una sfida che ripaga non in termini economici, ma di soddisfazione personale..
«…sono convinto che la gestione di una casa di riposo, di un’Ipab, ti dà anche una
sfida con il quotidiano…» (8:5).
«Quando io ho accettato la sfida del cambiamento ho perso il 30% delle mie entrate.
Non mi sono interessato a questo, però devo dire che sono stato fortunato: mi hanno
sempre pagato di più di quello che a me serve, insomma…» (12:39).
Le gratificazioni economiche sono certamente importanti per un manager, così come per
ogni lavoratore, ma non sono essenziali. Essenziale è soprattutto crederci, credere in ciò
che si fa e farlo con passione e altruismo.
Credere convintamente in quello che si sta facendo è qualcosa di fondamentale per poter
andare avanti, anche senza attendere da altri le conferme o gli incoraggiamenti che talora
possono non arrivare.
«Mah, anzitutto, se non ci fosse la convinzione non lo faresti. […] Ci devono essere
delle cose che si aggiungono e io credo che siano quello che riguarda da un lato la
passione, dall’altro la dedizione. Il fatto di credere a quello che stai facendo e
soprattutto una forte motivazione» (3:15).
«Ci son tanti momenti, insomma, in cui ti trovi in difficoltà dal punto di vista
proprio del rapporto e quanto più sei sicuro dentro di te in base all’esperienza, che
stai facendo la cosa giusta, tanto più ti supporti da solo nel fare ’sto percorso…»
(11:44).
231
Tra i fattori motivazionali troviamo anche l’orgoglio professionale, legato all’essere parte
di una gloriosa tradizione, di essere inseriti in un’organizzazione può avere una storia
secolare.
«… beh c’è una certa considerazione, un certo orgoglio a far parte di un qualche
cosa che – seppure con le inevitabili fratture che ci sono nel decorso storico… – di
un qualche cosa che risale al 1270 […]. C’è una certa, come posso dire…
consapevolezza, di far parte di qualche cosa… il tutto poi è praticamente incarnato,
concretizzato dal nostro archivio storico nel quale appunto abbiamo le primissime
pergamene fondative delle nostre istituzioni. Quindi si può anche quasi toccare con
mano l’evoluzione…» (7:14).
Istituzioni che hanno un illustre passato, ma che hanno anche un importante presente.
Molte delle Ipab del Veneto costituiscono per dimensioni e fatturato delle realtà
economiche di un certo rilievo, tanto che nel tessuto produttivo in cui si inseriscono, fatto
principalmente da aziende di piccole dimensioni, possono rappresentare un importante
volano per l’economia locale.
«L’istituto è la più grossa Ipab del Veneto come struttura pubblica, perché poi c’è
l’YYYYYY, che però è una struttura privata… quindi la più grande casa di riposo
pubblica del Veneto. Abbiamo attualmente circa 600 assistiti residenziali e poi con
il nuovo centro diurno che verrà aperto a XXXX, avremo un altro centinaio di
persone che verranno assistite con il modello semi-residenziale, cioè arrivano la
mattina e vanno a casa la sera, quindi complessivamente saranno 700 gli assistiti…
e il personale si aggirerà all’incirca sulle 500 unità, che non vuol dire “soggetti”,
perché ci sono anche i part-time…» (9:1).
Ogni organizzazione ha la propria identità, la propria storia, le proprie tradizioni, i propri
valori, i propri punti di forza, come i propri punti deboli. Non è infrequente che il
manager si rispecchi con soddisfatto orgoglio nella propria organizzazione,
evidenziandone gli aspetti caratteristici che gli rendono gratificante il fatto di
appartenervi.
«Una delle cose migliori che a me capitano è vedere persone, amici o conoscenti
italiani, stranieri, che vengono in visita alle nostre strutture. Io non avviso
normalmente nessuno nelle visite, vado dove è giusto, in giro insomma, spesso
interloquisco con chi c’è intorno e i “ritorni” che spesso ho dalle persone, anche a
232
distanza, sono la competenza e la qualità delle relazioni. La qualità delle relazioni
che vedono: persone sorridenti, gentili, affabili, ambienti curati…» (12:16).
Il senso di appartenenza, messo in luce dagli intervistati, genera in loro, come si è visto,
un certo orgoglio, che però resta un fattore altamente motivante se si ha anche la capacità
di non prendersi troppo “sul serio”, scherzandoci perfino un po’ su.
«Mi prendono in giro. Mi dicono: “Eh sì, perché noi abbiamo il modello XXXXX,
no?”. Mi dicono questa cosa anche degli amici che sono andati via: “Eh, qui non c’è
il modello XXXX”… intendono proprio riferirsi a questo background, mescolato di
valori, etica, convinzioni, che il vero patrimonio dell’azienda» (12:16).
233
9
Dove si narra di come vengono acquisite le competenze etiche
L’inferno dei viventi non è
qualcosa che sarà; se ce n’è
uno è quello che è già qui,
l’inferno che abitiamo tutti i
giorni, che formiamo stando
insieme.
Due modi ci sono per non
soffrirne, il primo riesce facile a
molti: accettare l’inferno e
diventarne parte fino al punto
di non vederlo più. Il secondo è
rischioso ed esige attenzione e
apprendimento continui:
cercare e saper riconoscere chi
e cosa, in mezzo all’inferno,
non è inferno e farlo durare, e
dargli spazio.
Italo Calvino
9.1
Lo sviluppo delle competenze etiche
Dopo aver esposto quanto è stato generato nel corso della ricerca sulle competenze
etiche, passo ora a dar conto degli elementi prodotti, nello scambio dialogico delle
interviste, relativamente ai processi di acquisizione e di sviluppo di tali competenze.
Dal lavoro di codifica effettuato con Atlas.ti ho individuato 17 elementi riconducibili al
tema dell’acquisizione delle competenze, una parte dei quali si riferisce al manager,
mentre la restante parte riguarda l’organizzazione e i collaboratori.
234
Fig. 5 – Mappa dello sviluppo delle competenze
235
9.2
L’acquisizione delle competenze etiche nella pratica manageriale
Inizio dai processi di apprendimento del manager, di come cioè il manager sociale
acquisisce le proprie competenze professionali ed in particolare la competenza etica.
Nel conseguimento delle competenze professionali da parte del manager, un ruolo di
primo piano viene giocato innanzitutto dalla formazione.
Oltre alla formazione di base, che rappresenta un necessario prerequisito, risultano
indispensabili ulteriori percorsi di apprendimento. La professione, infatti, richiede al
manager conoscenze e competenze ampie e soprattutto diversificate, che egli acquisisce
attraverso degli interventi formativi specifici, i quali possono essere il convegno o il
seminario di aggiornamento, ma anche percorsi più articolati.
La formazione e l’aggiornamento continui sono indispensabili per svolgere correttamente
la professione di manager, tanto che alcuni riterrebbero opportuno che divenissero un
vero e proprio obbligo, analogamente a quanto avviene nelle professioni sanitarie con il
sistema dei crediti formativi (Ecm).
«Nel corso del tempo sono sempre stata meno laureata in legge e più “laureata”
(sorride) nelle varie discipline che sottostanno alla professione. Quindi in termini
gestionali mi sono sempre più allontanata dalla mia formazione iniziale, che rimane
però sempre la base» (1:8).
«… c’è un percorso che è stato avviato, sul quale si insiste, affinché ci sia una
chiara consapevolezza di obbligo di formazione permanente. Obbligo, quindi. Non è
che uno quando si è seduto qui dice: “Oh, ho raggiunto il traguardo!”. No, ha
assunto una responsabilità per cui ogni giorno gli vengono richiesti sviluppo di
competenze, conoscenze e soprattutto quelle capacità che sappiano introdurre
soluzioni innovative» (3:68).
Tra i vari ambiti disciplinari necessari per la formazione del manager sociale, vi è anche
l’etica professionale, rispetto alla quale alcuni intervistati avvertono il bisogno di una
maggiore offerta formativa.
Probabilmente è vero che tale istanza non è ancora entrata pienamente nella cultura
professionale del manager, contrariamente a quanto avviene per altre professioni, come
quella del medico. Ho riscontrato comunque in alcuni degli intervistati un notevole
interesse personale per la materia, che li ha portati ad intraprendere percorsi individuali di
approfondimento.
236
«Le proposte formative in questo ambito sono veramente molto poche, nel senso
che è molto diffusa l’idea che questo sia un ambito specifico di professionalità
medica, sanitaria, ma in questo momento, culturalmente, non è previsto che ci sia
uno specifico modulo professionale di etica per i direttori…» (1:56).
«Io sentivo la necessità di approfondire anche le competenze in ambito etico e ho
frequentato un corso di perfezionamento all’Università di Padova, perché sentivo di
dover avere dei punti fissi in questo» (6:33).
Al di là delle inclinazioni e degli interessi personali, l’attenzione per i temi dell’etica si
sta facendo strada nel comune sentire del manager sociale, contestualmente all’affermarsi
di una nuova concezione del ruolo che questi deve assumere all’interno dei servizi alla
persona. Ciò soprattutto per merito del lavoro di promozione culturale svolto
dall’associazionismo professionale, che – come vedremo meglio più avanti – gioca un
ruolo fondamentale per lo sviluppo delle competenze professionali.
«Noi, ad esempio, l’anno scorso abbiamo partecipato ad un seminario sulla bioetica.
Ma bioetica per i direttori, perché è dalle nostre scelte minute, di tutti i giorni, che
passa appunto la qualità di vita dell’ospite. […] Per cui siamo stati noi come
Ansdipp ad organizzare questo corso di bioetica proprio per direttori. È la nostra
associazione che ha fatto emergere, ripeto, all’interno di una proposta di manager di
un certo tipo, l’esigenza che questo manager sia informato anche di etica, altrimenti
nei corsi che lei trova in giro non è considerato… questo tipo di capacità
professionale, è generalmente riferita al medico, all’infermiere professionale»
(1:56).
È la formazione – che riguardi i temi dell’etica o qualsiasi altra disciplina professionale –
a rispondere di per sé ad un’istanza etica, quella di aiutare il professionista a svolgere
bene il proprio lavoro, sviluppando incessantemente le proprie qualità e virtù e
realizzando in tal modo, oltre che traguardi professionali, anche se stesso42.
«Come valore-guida direi prima di tutto la ricerca continua della professionalità.
Questo lo metto come una cosa importante e fondamentale. Noi nei servizi sociosanitari – e in particolare quelli residenziali – abbiamo avuto uno stravolgimento
negli ultimi anni e quindi per rendere un buon servizio è importante che ci sia da
parte del manager una sua capacità di evolversi professionalmente. Evolvere
attraverso lo studio, evolvere attraverso la partecipazione ad attività di formazione
42
Crf. Berti E., Alle radici del concetto di capacità: la Dunamis di Aristotele, cit., pp. 31-44.
237
ed è una cosa che non ti puoi aspettare all’interno dell’ente, ma dev’essere un tuo
stimolo, guardando quello che fanno gli altri, essere curiosi, in questo senso. E
quindi questa capacità che ha un manager deve tradursi in un valore, cioè se io
voglio rendere un servizio adeguato all’utenza devo essere in grado di cambiare,
perché siamo all’interno di un contesto dinamico. Questo sicuramente è importante»
(6:6).
La formazione si inserisce infatti, come fattore fondamentale, in un complessivo processo
di crescita professionale e, più in generale, di crescita umana. Si tratta di un processo
continuo, di apprendimento, di maturazione e di crescita.
Senza contare che si continua ad apprendere lungo tutto l’arco della vita ed è la vita
stessa, spesso, che ci “insegna”, che cioè letteralmente ci “lascia i segni” del suo
passaggio.
«Quando tu fai un percorso di crescita, è come per l’età evolutiva per certi aspetti,
impari a camminare, impari a scrivere, impari a leggere, la tua conoscenza è
progressiva e soprattutto è evolutiva, fino a che diventi adulto, ma quando diventi
adulto non è che hai raggiunto il livello del top, è sempre un continuo crescere…
Ecco, io ho sempre vissuto questa esperienza come un continuo crescere, un
continuo essere portati nell’ambito della conoscenza per acquisire sempre di più
competenze specifiche» (3:42).
«Non si finisce mai di apprendere e di conoscere. Lo dicevano i filosofi greci che
erano dei sapienti … Socrate diceva: “So di non sapere”. Quindi non hai mai finito
di apprendere. Ci sono le difficoltà che ti portano ad apprendere sempre di più
perché devi risolvere ciò che è stato ignoto per te fino a quel momento. Le
competenze si acquisiscono con l’esperienza. L’esperienza inoltre ti porta a non
prendere di petto tutti i problemi ma a risolverli con abilità» (9:24).
Non è però scontato il fatto che il cambiamento sia sempre un cambiamento positivo. Lo
scorrere del tempo, la routine quotidiana, il confronto con le asperità di un lavoro che a
volte può essere anche alienante, possono portare il manager sociale a perdere il senso del
proprio operare, a chiudersi, a restringere i propri orizzonti.
Sta evidentemente alla capacità del singolo non lasciarsi fagocitare dalla ripetitività e
mantenere continuamente vivi gli aspetti che fanno del lavoro uno spazio di
umanizzazione.
238
«Direi che in questo lavoro molte volte si può anche correre il rischio… Perché è
assorbente e quindi ti può anche a volte limitare… La mia fortuna è stata che oltre
al lavoro avevo altri interessi e quindi ho coltivato altri ambienti che mi hanno
aiutato poi nel mondo del lavoro, professionale, ad affrontare lo stesso con un’ottica
estremamente, estremamente diversa, più ampia, direi. Sempre porto all’interno del
mondo del lavoro quanto conosco, quanto vedo fuori… E poi direi che la mia
curiosità mi aiuta, mi stimola a fare qualcosa di più, perché comunque sono sempre
alla ricerca di cose nuove, perché…cambiano» (8:13).
Emerge in alcune interviste l’idea di una “maturazione” professionale ed umana intesa
come cambiamento “naturale”, come evoluzione preordinata del soggetto, che ha forse a
che fare con lo sviluppo cognitivo o semplicemente con lo scorrere del tempo e con il
mutamento della prospettiva dalla quale si vedono le cose.
«Di certo, dall’inizio dei 40 anni, della strada ne è passata, è passata per tutti, è
passata come età, è passata come forze fisiche ma soprattutto è passata come…
maturazione … della persona» (8:13).
«Direi che c’è stata una normale maturazione delle persone… una maggiore
consapevolezza… più che altro della complessità dei problemi…» (7:35).
Il percorso di crescita non prevede solo l’acquisizione di nuove conoscenze e abilità, ma
anche e soprattutto lo sviluppo di una maggiore consapevolezza di sé e della capacità di
stare bene con se stessi e con gli altri, magari facendosi accompagnare in questo percorso.
«…la questione del benessere del manager… cioè se io sto bene rispetto alle
dinamiche
che
porto
qua
dentro,
posso
essere
veramente
funzionale
all’organizzazione, che è qualcosa di prioritario per il manager… perché non è che
l’organizzazione deve essere funzionale a lui ma è lui che dev’essere funzionale al
fatto di gestire bene l’organizzazione perché poi venga gestita bene l’assistenza. E,
quindi, rispetto al benessere del manager, io credo che chi gestisce persone e quindi
gestisce dinamiche, gestisce gruppi, gestisce aspettative… […] ha la necessità di
attivare anche dei percorsi di sostegno personale, che appunto lo facciano uscire da
una logica attraverso la quale io ripropongo sempre la mia dinamica, che poi è
quella del mio ambiente familiare da cui arrivo, quello che mi sono costruito nel
tempo… per poter poi leggere con un occhio più pulito tutta una serie di dinamiche
e di aspettative delle parti che poi devo gestire qua dentro. Che sono aspettative del
sistema, aspettative dal territorio, aspettative degli amministratori…» (4:28).
239
Questo lavoro su di sé è fondamentale quindi anche per migliorare le relazioni con gli
altri. Del resto, l’accettazione, la stima e l’amore di sé sono requisiti indispensabili per
accettare, stimare e amare l’altro43.
«Più ci si conosce, più si lavora su se stessi e meglio si può capire anche l’altro»
(5:5).
Ricorrono anche nello specifico ambito dell’etica le idee di crescita e di “maturazione”,
che si coniugano con il controverso concetto di “carattere morale”. Secondo questa
visione, crescendo la persona rafforzerebbe determinati valori, ma anche imparerebbe a
mediare alcune posizioni, a vedere le sfumature.
«I valori sono molto legati al carattere della persona e questi valori si rafforzano
sempre più nel tempo» (9:23).
«Lei sa benissimo che da giovani bianco e nero sono assolutamente evidenti…
sembra impossibile che qualcuno abbia dei dubbi se una cosa è bianca o è nera, poi
crescendo sembra impossibile che qualcuno non abbia dei dubbi…» (7:35).
Questo aspetto “evolutivo” si intreccia comunque strettamente con quello che è
l’apprendimento e in particolare l’apprendimento attraverso l’esperienza. Il solo scorrere
del tempo non basta, né è sufficiente il “fare”. È necessario accompagnare questo
divenire del tempo e questo fare con una riflessione, che trasformi il succedersi degli
eventi e delle azioni in esperienza che fa crescere. È necessario cioè un processo di
apprendimento esperienziale.
L’esperienza rimane una dimensione fondamentale per l’acquisizione delle competenze
che servono ad un buon manager sociale. “Chi fa, sa”. Cioè, è misurandosi con i problemi
quotidiani che si generano apprendimenti significativi.
«Il più delle volte uno è chiamato ad a essere responsabile di qualche cosa solo
perché ha delle conoscenze in più, ma non delle competenze… te le fai un po’ alla
volta… poi non è detto che tutti quanti a una certa età le acquisiscono. Sono
processi di riflessione che poi maturano stili, convinzioni, valori. Io certe cose non
mi sognerei mai di farle adesso» (10:16).
«In relazione al concetto di abilità per risolvere le situazioni faccio l’esempio delle
“relazioni sindacali” che sono talvolta defatiganti e a volte devo dire logorano la
43
Harris T. A. (1969), I’m OK, you’re OK, trad. it. Io sono OK, tu sei OK. Come risolvere al meglio il
problema del rapporto con gli altri, Milano, Rizzoli, 2000.
240
salute più dei lavori classificati come “usuranti” Ci sono state in passato delle forti
tensioni per l’erogazione del salario accessorio, quello che dovrebbe essere
destinato a premiare il “merito”. Questa esperienza mi ha insegnato a distaccarmi
psicologicamente dai problemi e dalle persone che li incarnano» (9.24).
È la natura stessa del compito, la sua notevole complessità e la sua ampia imprevedibilità,
che rendono inefficace un approccio “applicativo”, improntato meramente alla razionalità
tecnica, richiedendo invece quella che Schön chiama “artistry”, ossia quella competenza
che non si può acquisire dai manuali, ma mettendosi in “dialogo” con il caso concreto,
con l’esperienza44.
«In questo tema io vedo che è proprio l’esperienza… Ce lo stiamo costruendo
vivendo… Nelle UOI [Unità Operative Interne] non è che esista un libro, un
manuale che ti dice: “Quando hai determinate situazioni…» (5:28).
Le esperienze maturate sul campo risultano fondamentali per la creazione e il
rafforzamento delle competenze professionali del manager. Vi è chi considera importante
soprattutto diversificare tali esperienze e chi mette in primo piano non tanto il cambiare
spesso ente, come invece frequentemente succede nelle aziende private, dove il manager
arriva, sta due o tre anni e poi si sposta, quanto piuttosto il fatto di coltivare un impegno
costante.
«Non ho fatto percorsi formativi per diventare direttore - tra l’altro neanche ce ne
sono - lo diventi sul campo. Certo mi ha facilitato un po’ secondo me il fatto di aver
fatto, prima di diventare direttore, 7-8 anni di esperienze anche diverse. Io ho visto
che poi quando ho fatto il direttore, a me queste esperienze diverse sono state utili
nel cominciare insomma questa attività» (11:3).
«…non ho fatto grandi cambiamenti. Io non sono uno di quelli convinti che un
manager si forma con la flessibilità… un manager si forma con la costanza…»
(8:6).
Il cambiamento più importante sembrerebbe essere quello che si realizza nel quotidiano,
nel trovare sempre all’interno del proprio lavoro degli elementi di stimolo per rinnovarsi
e innovare.
«Direi che è stato un percorso che, a differenza di altre mie esperienze, non mi ha
portato a dire dopo alcuni anni “Cambio”. Questo testimonia che se tu ti dedichi con
44
Cfr. Schön D.A., Il professionista riflessivo, cit., p. 68
241
grande passione, con la passione che dev’esserci, con competenza e con dedizione,
in lavori come questo, puoi trovare molti spunti e soprattutto molte novità giorno
dopo giorno. Quindi è vero che puoi anche vivere, come spesso avviene, la
solitudine del leader, è vero che spesso sei pressato dalle carte, ma è altrettanto vero
che puoi trovare spunti di carattere innovativo non indifferenti. […] Forse uno dei
motivi per cui non sono più andato via, a differenza della mia esperienza precedente
in cui ogni tot numero di anni preferivo cambiare lavoro, è perché qui sei
continuamente spinto dalle innovazioni e dal cambiamento e soprattutto questa
continua voglia di fare progettualità, quindi percorsi innovativi…» (3:13).
La consapevolezza di un apprendimento acquisito soprattutto “sul campo”, nel quotidiano
misurarsi con il compito, si ritrova soprattutto quando si parla di competenze etiche, la
cui acquisizione deve combinare teoria e pratica che, solo se unite, riescono a produrre
reale apprendimento.
«La competenza etica… ci sono dei corsi, ma le basi dell’etica si acquisiscono
lavorando con le persone…e sforzandosi di avere effettiva cura del loro benessere
materiale e spirituale. – E questo l’ha imparato proprio … – l’ho imparato sul
campo, esatto» (9:45).
«Allora eh... Gli apprendimenti più veloci sono quelli che uniscono le due cose…
dove noi riusciamo ad avere i maggiori step di miglioramento è dove esiste
l’elemento, come dire, soggettivo e dei percorsi strutturati, dove si passano concetti,
si trasmettono dei valori e via dicendo. Le due cose da sole non producono grandi
effetti. Ovvero, bisogna in qualche modo seminare, nella speranza che qualcuno di
questi frutti poi autonomamente cresca e diffonda riflessioni individuali, che poi
aiutano gli altri a sviluppare le loro. Cioè, la formazione o meglio le proposte
formative strutturate, ci devono essere. Eh, butti là cento, raccogli uno. Ma
quell’uno che raccogli è uno che a partire da questi input poi fa una riflessione, una
elaborazione interiore. Ci sono argomenti che solo così vengono fuori… ci deve
essere un pensiero, non sono nozioni, è un pensiero che cresce. È un pensiero che
deve essere però fatto, strutturato. Bisogna aiutare le persone a discernere le cose
buone da quelle…» (10:26).
L’esperienza non è sempre positiva, ma si impara anche quando le cose vanno male e
forse in questi casi si impara anche di più.
«In realtà noi diciamo sempre che si impara da qualunque caso, sia che la situazione
vada bene, sia che la situazione non vada bene, perché si impara anche da quello
242
che non si fa. Non è cioè che solo se ha un esito positivo diciamo che abbiamo
imparato, ma anche quando si fa magari un errore dietro l’altro… anche da quello
che non si fa, si impara» (5:32).
L’esperienza si deve accompagnare al pensiero riflessivo: è riflettendo durante
l’esperienza (reflection-in-action) e facendo l’esperienza stessa oggetto di riflessione
(reflection-on-action), che si sviluppano le competenze in ambito etico45.
Il pensiero riflessivo ha bisogno del confronto diretto con le situazioni. Nel lavoro del
manager viene richiesta frequentemente la soluzione di problemi e l’assunzione di
decisioni e ciò non può essere fatto convenientemente in termini solipsistici, ma entrando
in contatto, “dialogando” – come si diceva prima – con la situazione problematica,
aprendosi ad altri punti di vista e raccogliendo tutti gli elementi che consentono di far
progressivamente chiarezza.
«Come in tutte le professioni, quando si fa esperienza, si maturano anche delle
riflessioni, che crescono nel tempo. Quanto più io acquisisco esperienza e
conoscenza nel mio settore, tanto più sono in grado anche di elaborare dei pensieri,
delle riflessioni, anche di natura etica…» (11:39).
«Le decisioni che prendevo non le prendevo con filtri del tipo: “Lo dico a qualcuno
che lo dice a qualcun altro”. Quindi le decisioni che c’erano di prendere in Unità
Operativa Interna, che non riguardavano ovviamente gli aspetti sanitari, assistenziali
per i quali io ero lì come supervisore, ma per aspetti patrimoniali o quant’altro, le
prendevo assieme […]. Il problema c’è quando si è chiusi nell’ufficio, guardo le
carte, ho un terzo a cui dico… l’essere distanti può essere uno stile, ma per me è
uno stile che non paga, proprio perché siamo in un servizio particolare che ha a che
fare con le persone» (6:46).
L’atteggiamento riflessivo impone al manager l’esigenza di interrogarsi continuamente. Il
suo compito è farsi domande, prima ancora che fornire risposte.
Porsi domande, considerando quelli che sono gli stimoli e le sollecitazioni che vengono
dagli altri, per modificare ciò che si ha il potere di cambiare maggiormente, cioè se stessi.
«…E del perché faccio alcune cose… e soprattutto rispetto a queste cose, le posso
fare meglio? Le posso fare in maniera diversa? Posso dare degli spunti di mio? »
(4:47).
45
Cfr. Schön D.A., Formare il professionista riflessivo, cit., p. 65.
243
«A volte mi dicono: “Ma mi pare che tu sia un po’ più attento a quelle persone
piuttosto che a quella sede …”. Allora mi interrogo… se ho questo ritorno vuol dire
che qualcosa leggono, vero o falso. E’ chiaro, non è… è una percezione e quindi
una percezione è vera, per definizione… magari non condivisibile, ma vera»
(12:21).
Il pensiero riflessivo non è quindi una postura cognitiva di ripiegamento su se stessi, un
gioco che rimane all’interno della mente, ma – come insegna Dewey – è qualcosa che si
deve interfacciare continuamente con il contesto situazionale, dove sono presenti anche
altri soggetti46.
Fondamentale, per lo sviluppo delle competenze professionali e in particolare per quella
etica, è il confronto con gli altri.
Il pensiero riflessivo, per molti versi, si intreccia con l’apprendimento sociale, attraverso
lo scambio che avviene all’interno di ciò che chiamiamo comunità di pratica.
Si tratta, per definizione, di una realtà sociale difficilmente “contornabile”, della cui
esistenza tuttavia ho ritrovato molti indizi nel corso della mia ricerca empirica.
«… una certa positività deriva dai briefing che facciamo con una certa periodicità.
Questo ti aiuta a darti una carica e anche a osservare limiti tuoi e
dell’organizzazione. Anche oggi abbiamo fatto questo incontro e sono emerse
alcune criticità che sicuramente… cioè ti fanno avere un feed-back rispetto a quello
che è il tuo essere, il tuo rapportarti, ma ti danno anche modo di capire meglio come
addentrarti nell’organizzazione» (3:82).
«Allora, esiste una rete di persone, alcuni direttori e alcuni no, che sono quelli della
mia generazione. Esistono un manipolo di persone che hanno, con la stessa passione
mia, continuato in questi anni a lavorare in questo settore e che ci troviamo dopo
vent’anni a confrontarci. Qualcuno è direttore, qualcuno non è direttore, eh... però
c’è un percorso comune. Chi ha iniziato come me, vent’anni fa, ha vissuto tutta la
trasformazione, la rivoluzione, di un settore che prima era definito come un settore
marginale. Prima avevamo le “case di ricovero”, adesso abbiamo i “centri servizi”
(sorride). E questo percorso si è realizzato negli ultimi vent’anni. Quindi, quelli di
questa generazione hanno come dire l’esperienza di una trasformazione unica. […]
Ecco, chi ha vissuto tutte queste trasformazioni è chiaro che rimane in contatto
perché c’è un bagaglio di dati, di esperienze (sorride), di situazioni, che è unico.
46
Cfr. Dewey J., Natura e condotta dell'uomo, cit., pp. 48-49.
244
Quindi più che organizzazioni… anche se c’è l’ Ansdipp, che è fondamentale… alla
fine rimangono forti i legami di esperienza, di conoscenza, di amicizia…» (10:31).
Il fattore attrattivo, che coagula le persone in questa comunità di pratica, è la pratica
stessa, il fatto di occuparsi dell’organizzazione dei servizi alla persona.
La comunità si basa su dei legami che vengono cementati dall’utilità ma anche – direi –
dal piacere di stare assieme e che si trasformano a volte anche in relazioni d’amicizia.
«Io sono psicologo di formazione, ma i miei legami veri non sono con degli
psicologi. Ovvero, il caso vuole che alcuni siano anche psicologi, ma io ho dei
legami forti con persone che hanno iniziato con me a occuparsi di servizi,
organizzazione di servizi… alcuni erano psicologi, alcuni non lo erano e siamo
arrivati in questi anni a occuparci a vario titolo di questa realtà, ma non per forza
sono legati alla formazione di base, psicologi etc., ma sono legati a un percorso
professionale» (10:31).
«Devo dire che la rete di amicizia, stima e amicizia che abbiamo… le persone che
ha visto, che sono andate via prima… abbiamo dei progetti in comune, ma siamo
amici, insomma. Siamo stati a prendere un caffè e abbiamo continuato a lavorare
attorno a un caffè nel bar, per dire, di un progetto, eccetera, eccetera, e ogni tanto ti
sfoghi, ogni tanto discuti, ogni tanto …» (12:27).
Si tratta per lo più di legami trasversali rispetto alla singola organizzazione, che vengono
generalmente ad intrecciarsi all’esterno dell’ente, tra il direttore e i suoi “omologhi” di
altre istituzioni, ma che possono a volte svilupparsi all’interno della stessa Ipab, tra il
manager e alcuni dei suoi collaboratori.
«Comunque è abbastanza logico... molto spesso questi collegamenti sono al di fuori
dell’ente, non sono all’interno dell’ente... Beh, allora posso dire una cosa, rispetto
all’interno... Io ho fatto qui un’esperienza molto bella, di grande professionalità e di
grande coesione tra il cosiddetto "vertice" e le "seconde linee", che, ad esempio,
nell’altra struttura non avevo trovato. Qui ho trovato gente competente e molto
attaccata e molto in sintonia con il vertice. Diciamo che io non ho fatto niente per
rompere questo, anzi... Ho trovato delle persone naturalmente interessate e
predisposte a collaborare con il vertice e molto competenti, molto competenti. Eh...
quindi io qui all’interno ho trovato delle grandi affinità, grandi intese, grandi
collaborazioni» (10:31).
245
Propriamente, la costruzione di una comunità di pratica presuppone rapporti paritari di
mutualità e di reciprocità, che mal si conciliano con la disparità gerarchica esistente,
all’interno di un’organizzazione, tra capo e collaboratori.
Questa differenza gerarchica sembra costituire una pesante ipoteca sulla qualità delle
relazioni che il manager intrattiene all’interno dell’ente.
Sono relazioni spesso minate dal sospetto, dalla diffidenza, perché egli indossa la casacca
del capo e questo inevitabilmente va ad influire sui rapporti personali.
«Io ho imparato che all’interno della struttura i salti gerarchici sono come i salti
generazionali in una famiglia, per cui ogni volta che io cerco un rapporto da pari
con chi mio pari non è, all’interno della struttura, è come se facessi un… “incesto”.
E quindi che il rapporto tra pari va cercato con i pari reali» (5:59).
«Io ho sempre vissuto le relazioni qui dentro chiedendomi: “Ma sarà per me o sarà
per il ruolo?”. Cioè, qualunque cosa, qualunque di loro agisca nei tuoi confronti, ad
un livello profondo parla la paura di fraintendere: “Lo stanno facendo perché sei il
capo, per sviolinarti…”» (5:59).
Un conto, poi, è avere delle relazioni amichevoli con i propri collaboratori, altro è “fare
amicizia”, cosa che può ingenerare serie difficoltà nella gestione dell’organizzazione.
Questo non solo per le gelosie e le invidie che si possono creare negli altri dipendenti, ma
anche per i condizionamenti che possono agire sullo stesso manager. È necessario quindi,
per il buon andamento dell’organizzazione, prestare molta cautela nei rapporti con i
dipendenti, così come in quelli con i consulenti esterni e i fornitori.
«Perché poi ti metti in una condizione di dovere, per cui questo ti aiuta e allora tu ti
senti in dovere… D’altro canto devo anche riconoscere, per quanto riguarda me, che
nelle relazioni che creo io ci metto sempre la parte personale e questa è una cosa
con la quale mi devo confrontare… anche con i consulenti è difficilissimo che io
riesca a mantenere la relazione solamente sul piano professionale. Io devo sempre
metterci qualcosa in più, chissà perché…» (5:59).
Quanto sopra si collega al tema della solitudine del manager, tema che ho incrociato in
maniera assolutamente accidentale nel corso della mia prima intervista e che poi ho fatto
oggetto di una specifica attenzione nel prosieguo della ricerca.
Con l’interessata avevamo combinato di incontrarci a Padova, a margine di un convegno
dell’Ansdipp, a cui lei prendeva parte come relatrice. L’argomento trattato nel convegno
– la riforma delle Ipab nel Veneto – mi interessava e quindi decisi di parteciparvi.
246
Durante la tavola rotonda ci fu una veloce battuta, da parte sua, sulla ”solitudine del
capo”, che ritenni di riprendere nell’intervista – forse per le familiari risonanze che aveva
in me – chiedendone spiegazione alla stessa:
«Questa è una storia vecchia, perché anni fa ormai mi è stato chiesto di fare un
intervento sulla solitudine del manager ad un convegno, che poi è stato riportato in
una rivista. Io appunto ho detto tutta una serie di cose, solo che è diventato una sorta
di manifesto, nel senso che moltissimi colleghi mi hanno scritto, mi hanno
telefonato, comunicandomi che l’idea che avevo scritto la condividevano e che
questa solitudine era piuttosto diffusa» (1:49).
Quello del manager è effettivamente un lavoro di relazione: egli ha tantissime relazioni,
ma la quantità rischia – almeno in questo ambito – di andare a discapito della qualità. È la
qualità, a volte mediocre, delle relazioni del manager ad innescare la sensazione di
solitudine. Questo vissuto ricorda molto il senso d’abbandono che si prova in mezzo alla
folla, quando cioè si hanno intorno molte persone, ma non si hanno relazioni qualificate e
qualificanti e si smarrisce anche la percezione, il contatto con se stessi47.
«Io ho mille relazioni quotidiane, ma di pessima qualità, non perché ho pessimi
rapporti, ma perché sono brevi, sono fugaci, sono sempre di corsa e questo elemento
è un elemento disumano… Io ho consapevolezza di perdermi il bello della vita e il
bello della vita sta nelle relazioni… Sto rilasciando l’intervista adesso, ma di fatto
sto sfogandomi di un disagio… no, ma è un disagio interiore, non tutti sanno quanto
soffri, non tutti sanno, sai…» (12:28).
Si tratta di un disagio che è avvertito da molti dei manager intervistati, che si riconoscono
in questa realtà di solitudine. Il consistente investimento rispetto al lavoro può infatti
sottrarre anche molto, in termini di tempo e di energie, alla normale vita relazionale.
«Sì, sì, sì, a volte si è talmente stressati da persone, da telefonate, appuntamenti,
eccetera… però alla fine il direttore è una persona sola, con se stesso e con il
proprio dovere» (9:31).
«Molte volte, sai, quando arrivi a sera, arrivi a sera e non c’è nessuno. Oppure hai il
telefono che suona 20 volte all’ora e che il sabato e la domenica rimane muto, anche
perché nel frattempo tu non hai curato tanto le amicizie, anche perché se torni a casa
47
Cfr. Albisetti V., Il benessere della solitudine. Mille ragioni per stare bene con se stessi, Milano,
Edizioni Paoline, 1995, p. 16.
247
tardi la sera non è che vedi gli amici… magari ti trovi qualche volta il sabato o la
domenica… non dico di essere proprio solo, ma quasi…» (8:25).
Non si tratta solo di avere poco tempo per coltivare interessi e amicizie all’esterno
dell’ambiente di lavoro.
«Non è questa solitudine che pesa: è quella che senti proprio dentro quando sei nel
tuo ambiente che… che ti salutano quando passi, perché tutti, ti devono salutare, ma
di fondo se possono ti eviterebbero sicuramente, ti eviterebbero ogni volta che fosse
possibile. L’isolamento è un peso che si paga, che pagano un po’ tutti quelli che
hanno il potere: il potere in parte comporta anche isolamento…» (8:25).
Sembrerebbe essere proprio la posizione di potere l’elemento che inficia le relazioni del
manager all’interno dell’organizzazione. Per questo la comunità di pratica si svolge
preferibilmente fuori dall’ente, nella trama delle relazioni che si intessono tra i manager
sociali. Relazioni che nascono e si sviluppano in termini assolutamente spontanei ed
informali, ma che certamente possono essere favorite e sostenute dall’associazionismo
professionale.
È il caso dell’Ansdipp, che ha rappresentato per alcuni un importante ambito di
socializzazione, nel quale superare il senso di solitudine ed isolamento qui evidenziato.
«Per esempio il mio grande antidoto alla solitudine è stato far parte di Ansdipp,
questa è stata la grande cura a questa malattia, a questa sensazione di solitudine»
(5:59).
Occorre però qui distinguere: un conto è l’associazione, altro conto è la comunità di
pratica che ruota attorno all’associazione. Non basta cioè avere la tessera
dell’associazione per appartenere alla comunità di pratica: l’elemento che segna
l’appartenenza – come indica Wenger – è quello della partecipazione attiva48.
«La grande cura è stata appunto quella di partecipare, non solo metterci la quota ed
associarmi, ma il partecipare alla vita dell’associazione. E quindi andare alle
assemblee, quando è possibile, ovviamente, ai convegni… ma lì stai ancora
ricevendo… ma essere partecipe proprio delle scelte dell’associazione, l’avere un
ruolo attivo, quello è stata la cura alla solitudine, l’entrare in un’associazione di
pari, di qualcuno che non è all’interno della tua struttura ma che comunque senti…»
(5:59).
48
Cfr. Wenger E., Comunità di pratica, cit., p. 180.
248
Esiste quindi un gruppo ristretto, all’interno dell’associazione, che le modalità di
campionamento a “scelta ragionata” ha consentito di far emergere, il quale non si pone in
posizione di mero fruitore delle proposte associative, ma che investe molto in termini di
attiva partecipazione.
Un gruppo di manager che, grazie al fatto di condividere un impegno all’interno
dell’associazione, ha instaurato rapporti di sostegno reciproco, fondamentali per
affrontare le difficoltà della professione.
«Probabilmente c’è un gruppo che sta trainando, c’è un gruppo che ci sta credendo e
anche dedicando molte risorse ed energie a livello personale. Non altrettanto vi è
consapevolezza da parte di che vi aderisce perché in tutta onestà potrebbe essere
una situazione di comodo, perché hai un’associazione che ti dà una serie di
strumenti per essere aggiornato, per essere formato e questa potrebbe essere una
scelta al ribasso. Sono convinto che più di qualcuno la sta facendo in questi termini,
però abbiamo un gruppo dirigente che sta spingendo, perché crede molto a quello
che stiamo facendo…» (3:75).
«Mi pare questo un principio di solidarietà tra enti pubblici che io ho trovato con
alcuni direttori in Ansdipp, senza i quali non avrei potuto fare il mio lavoro e io
sono profondamente grata. E io mando avanti quello che posso» (5:64).
Il sostegno tra pari è reso indispensabile anche dall’estensione e dalla dinamicità del
contesto giuridico in cui operano i direttori delle case di riposo. Non essendo dei
“tuttologi”, i manager devono poter contare su un sistema mutualistico, che metta in
comune informazioni e competenze specifiche.
«L’apporto dell’Ansdipp rispetto a tutta una serie di tematiche è stato molto
importante, anche perché chiaramente rispetto a molte cose che si devono gestire,
che si devono portare avanti, avere dei supporti anche rispetto alla normativa non è
cosa da poco» (4:27).
«Nel nostro settore le cose evolvono in modo davvero veloce e per allineare la
struttura a quella che è la necessità interna ed esterna c’è bisogno di avere tante
informazioni e quindi le hai sicuramente attraverso l’associazione dei direttori, che
per me è uno strumento di lavoro sicuramente fondamentale, di interscambio, di
sostegno – ci sosteniamo tra di noi – anche informativo» (1:10).
249
È in questo gruppo ristretto, i cui confini però non sono nettamente definiti, che hanno
luogo i processi di elaborazione culturale delle proposte formative dell’associazione.
«Per dirti, il conclave stesso, sembrerà una sciocchezza, ma è un modo concreto per
sviluppare nel tempo, consolidandoli, valori e soprattutto idee, conoscenze e
confronto. Quello che facciamo a giugno prossimo è il confronto fra manager in
modo tale che si possa condividere, all’interno dello stesso percorso, alcune scelte»
(3:75).
È sempre all’interno di questo gruppo che vengono pensate anche l’identità professionale
del manager sociale e la funzione che l’associazione deve svolgere per lo sviluppo di
questa professionalità. Una funzione che si indirizza, più che alla difesa corporativa, a far
crescere le competenze professionali di chi fa questo “mestiere”.
«Io credo che l’associazione abbia sgombrato il terreno dalla possibilità di fare
partite equivoche… cioè, è uscita definitivamente dalla logica sindacale e
lobbystica. Questo non vuol dire non farsi carico di un percorso di riconoscimento,
anche a livello nazionale, rispetto ad un’attività intellettuale non riconosciuta…
crediamo anzi, nella certificazione delle competenze, ma non per creare registri o
cosiddetti albi d’élite, come avviene negli ordini professionali, quanto piuttosto per
aver, all’interno di coloro che appartengono ad un certo tipo di managerialità, le
competenze e le conoscenze che vanno in un certo tipo di direzione. L’impegno
dell’associazione è soprattutto sul versante della qualificazione professionale, sul
piano della continua formazione permanente, e soprattutto delle partnership con le
università, perché ci sia la chiara e concreta possibilità di avere persone sempre più
preparate. E su questo stiamo lavorando sia nei tour tematici sia nei momenti
formativi. E anche la questione etica e bioetica rientrano in questo percorso, perché
sono fortemente sentite per come dev’essere il manager di oggi e di domani. Un
manager capace ed attento alle persone, tanto da essere in grado di farsi carico delle
persone a 360 gradi» (3:69).
Le proposte formative e di aggiornamento professionale che fa l’associazione si
inquadrano quindi all’interno di un disegno complessivo, di un più ampio progetto
culturale, che ha al centro un’idea precisa di manager sociale. Tratteggiano cioè il profilo
del “Manager Ansdipp”.
«L’Associazione è nata nel 1994 e quindi un bel po’ di anni fa, ma per molto tempo
non ha avuto una mission, una vision così focalizzata sulla competenza
250
professionale come ce l’ha in questo momento. C’è stata una maturazione nel corso
del tempo e specialmente negli ultimi anni della connotazione del “manager
Ansdipp”, diciamo così, cioè del manager che si riconosce nell’associazione. E,
faccio una parentesi: noi non siamo una associazione maggioritaria, cioè non
raccogliamo la maggioranza dei colleghi né a livello regionale né tanto meno a
livello nazionale, e proponiamo un modello di managerialità che non viene
ampiamente condiviso in questo momento […]. Quindi il tipo di direttore, di
managerialità, che propone Ansdipp, si discosta da quello che viene sentito dalla
maggioranza dei colleghi. In questa nostra visione, il tema dell’etica è
fondamentale, perché naturalmente quando noi andiamo a dire che il manager è
responsabile dei risultati e nel momento in cui andiamo a dire che è responsabile dei
risultati di salute, è evidente che nei risultati di salute c’è la qualità del servizio, il
benessere dell’ospite, la qualità di vita dell’ospite, la possibilità per lui di scegliere
[.] di esprimere la propria volontà […]. Ciò fa sì, secondo me, che si possano
raggiungere dei risultati in termini di vita degli ospiti che sono strettamente
collegati all’ambito etico, all’ambito dell’autodeterminazione, alle scelte etiche, e di
bioetica, che è l’ambito in cui noi agiamo di più con le decisioni sulla nutrizione e
quindi il rifiuto dell’accanimento nutrizionale o dell’accanimento terapeutico. Ci
sono ancora molti enti per i quali questo tipo di determinazioni vengono demandati
al medico, alla sanità, alle suore, a chi c’è, insomma. Per Ansdipp, per i manager
Ansdipp, è fondamentale che vengano assunte nella sfera di gestione del direttore.
Questa è la linea di distinzione del manager Ansdipp, che fa anche di questo
ambito delle scelte etiche un ambito forte di professionalità propria» (1:17).
Questa visione del manager sociale sviluppata all’interno dell’associazione, in cui è
fortemente presente l’attenzione ai temi etici, viene poi calata nella pratica professionale,
sperimentando, ciò che viene elaborato sul piano concettuale, all’interno del lavoro
concreto nelle strutture.
«Abbiamo
maturato come Associazione – ecco qua il grande pregio
dell’Associazione e quindi di riflesso della mia attività – che non puoi non fare
percorsi formativi anche nel campo della bioetica e quindi anche la questione del
fine vita ha un suo peso. Noi abbiamo introdotto qui un questionario sul fine vita
che in genere sottoponiamo alle persone che vengono ad essere ospitate qui ma
anche all’hospice. […] Ecco, questa è una scelta importante che ho maturato e sto
vivendo, perché siamo in un’organizzazione così pronta, preparata, però questa serie
di spunti, questa discriminante rispetto ad altri momenti mi è stata possibile anche
251
grazie al lavoro di approfondimento che stiamo facendo con l’associazione stessa»
(3:43).
Partecipare a una comunità di pratica dà soprattutto l’opportunità di attivare un confronto
con le altre esperienze, che rappresenta un’importante occasione di crescita per il
manager e la sua organizzazione.
«… vedendo un po’ le esperienze condotte altrove, perché, se c’è qualcosa che mi
ha sempre caratterizzato, è stata la curiosità per il nuovo e per le esperienze che,
essendo frutto di buona prassi operativa, sono anche un chiaro esempio a cui
attingere a piene mani. Questo è avvenuto. Posso dire sicuramente che questo
insieme di progettualità ci ha consentito di fare un buon salto di qualità. Anche dalle
esperienze degli altri abbiamo preso molto. Direi copiando, ma copiando bene.
Perché, sai, a volte si fa presto a copiare, copiando male però si corre solo il rischio
di fare degli strafalcioni» (3:6).
Nell’individuazione del campione non rappresentativo della ricerca ho opportunamente
incluso direttori che non fanno parte attiva dell’Ansdipp, per capire come veniva vista
dall’esterno questa realtà associativa.
I rilievi principali che ho colto sono legati al fatto che l’associazione sarebbe poco
“partecipata” e non sufficientemente aperta al confronto a livello nazionale.
«Ci sono delle reti, sono molto deboli però… c’è un’associazione professionale dei
manager del sociale ma non è molto partecipata… Un po’ perché noi siamo un
mondo speciale, abbiamo la caratteristica particolare, noi siamo sostanzialmente un
po’ quasi una nicchia negli enti pubblici, per una serie di ragioni legislative, per cui
non siamo come i segretari comunali, faccio un esempio, che hanno un’amplissima
rete di colleganze, contatti, scambi culturali, notizie professionali… C’è, ma non
particolarmente…» (7.51).
«Credo che sia importante anche perché non c’è granché. Ci sono associazioni che
però rimangono molto a livello regionale mentre credo sia importante uno scambio
più allargato a livello nazionale. Io ho visto situazioni anche molto differenziate da
regione a regione e il confronto fa crescere» (6:36).
Non so dire quanto di queste osservazioni discendano da un’effettiva conoscenza di tale
realtà e quanto questi elementi incidano sulla decisione di non parteciparvi. Aderire o non
252
aderire ad un’associazione professionale è chiaramente una scelta individuale, che si basa
molto spesso sulle disposizioni personali di ciascuno.
«No, direi questo, io sono forse per natura un solitario, non ho… molte volte ho
criticato i miei colleghi per le scelte che hanno fatto, soprattutto le ultime leve,
completamente diverse dalla mia formazione, per questo devo riconoscerlo ormai
che sono vecchio, no? La mia formazione… molte volte più impegnati su un piano
puramente finanziario o diciamo nell’impegno di assistenza quindi no, sulla rete
non ho… io poi ho anche rinunciato a iscrivermi all’associazione di categoria
proprio perché non condividevo le loro posizioni… sono quasi un battitore
libero…» (8:47).
Alcuni manager poi non sentono affatto l’esigenza di rompere l’isolamento, di superare la
solitudine cercando rapporti paritari con altri colleghi all’esterno dell’ente, ma ritengono
bastevole la dimensione “verticale” dei rapporti all’interno dell’organizzazione con i
collaboratori, da una parte, e con gli amministratori dall’altra.
«La dimensione sociale e professionale con la quale mi sono sempre misurato è
stata quella nell’ambito dell’ente. Cioè non è una dimensione come posso dire
orizzontale, ma è una dimensione verticale, nel senso verso l’alto e verso il basso»
(7:53).
9.3
Lo sviluppo delle competenze etiche nell’organizzazione
Nel paragrafo precedente ho esposto il prodotto della ricerca relativamente
all’acquisizione delle competenze – ed in particolare delle competenze etiche – da parte
del manager. Passo ora a relazionare su quanto è stato elaborato in merito allo sviluppo
delle competenze etiche dell’altro “protagonista” del nostro racconto, l’organizzazione.
Si tratta di due processi fortemente intrecciati fra di loro: manager e organizzazione
crescono assieme.
L’organizzazione in genere non “nasce” con il dirigente, ha una sua storia pregressa, ha
un suo set di competenze, ha una sua cultura, che dialoga con le realtà con le quali si
rapporta, ricevendone stimoli a cui reagisce nel suo proprio modo49.
49
Cfr. Pipan T., Il labirinto dei servizi. Tradizione e rinnovamento tra i dipendenti pubblici, Milano,
Raffaello Cortina 1996, pp. 21-30.
253
«… l’organizzazione ha già la sua cultura organizzativa che proviene dalla storia,
dai vissuti, dagli input che le sono stati dati. Anche lì bisogna andare a vedere
quanto questi input sono filtrati all’interno dell’organizzazione» (4:13).
Una parte consistente di questi input, che sollecitano un processo adattivo di modifica
dell’organizzazione, di generazione di apprendimenti organizzativi e di sviluppo delle
competenze, è data proprio dal rapporto che essa intrattiene con il suo manager: un
rapporto di interazione e di reciproco influenzamento, che contribuisce alla crescita delle
competenze etiche dell’organizzazione, soprattutto attraverso la condivisione di principi
e valori.
Non si tratta soltanto di una “trasmissione” unidirezionale – dal manager ai collaboratori
– bensì di un processo circolare, attraverso il quale il manager partecipa i suoi principi e i
suoi valori, ma anche acquisisce e si riconosce in quelli dell’organizzazione.
Si tratta quindi di una vera e propria condivisione, che nasce con il tempo, il confronto
assiduo, la conoscenza reciproca, il vivere assieme le situazioni e i problemi. Cosa che
non si può pensare che il manager riesca a fare su larga scala. Questa condivisione
avviene in genere all’interno del gruppo dei più stretti collaboratori, che a loro volta poi
condivideranno tali elementi con i rispettivi uffici o reparti.
«Per esempio, oggi nella riunione […] ho riconosciuto, in quella che era la
considerazione portata in campo da un collaboratore, la condivisione e quindi il
ritrovarmi in quelle che erano le considerazioni che faceva e quindi viverle come
valori» (3:91).
«Questa Ipab ha 560 dipendenti, inoltre ha circa un altro centinaio di persone che
lavorano con un altro tipo di contratto… in totale 650 persone circa, più o meno…
La squadra sulla quale io posso confidare, quasi ciecamente, diciamo, è almeno una
cinquantina di persone, se non ci fosse questa squadra io non andrei da nessuna
parte, ma proprio da nessuna parte. All’interno di questa squadra ci sono i cerchi,
no? Per dire, c’è un cerchio stretto fatto da una quindicina di persone, alle quali io
potrei chiedere qualsiasi cosa e con le quali condivido gli aspetti … discutiamo di
queste cose… non si discute mai di bilancio senza discutere di qualità della vita.
Non si discute mai di turni di lavoro senza discutere della qualità della vita. Quando
per anni ti trovi a discutere di queste cose, sei naturalmente portato a condividere, a
sentire di condividere un fondo comune…» (12:17).
254
La circolazione dei principi e dei valori all’interno dei gruppi di lavoro genera processi di
apprendimento sociale. Più il gruppo si allarga e più le dinamiche interne si complicano;
ma di pari passo aumentano anche le opportunità di apprendimento.
«In questa struttura abbiamo 100 ospiti e ci sono cinque persone che stanno
prendendo in mano tutta una serie di dinamiche organizzative, dove poi
confluiscono dinamiche personali ed è un bel peso… cioè, più tu allarghi la squadra,
con tutte le unicità che ci possono essere rispetto agli apporti individuali, più lavori
su obiettivi comuni e sulla costruzione di rapporti di fiducia e più tutta una serie di
valori etici, che sono propri di questa organizzazione, potrebbero confluire in un
codice, dove ci possono essere tantissime sfaccettature. Per esempio, io ci metterei
dentro delle cose, mentre altri potrebbero metterne altre. Alcune possono essere
simili e altre diverse» (4:42).
Questa partecipazione corale nella costruzione di un orizzonte etico condiviso tra
manager e collaboratori va un po’ a mitigare quanto detto, in precedenza, in merito alla
solitudine del capo e alla difficoltà, che egli può incontrare, nel fare comunità all’interno
della sua stessa organizzazione. In realtà, tale comunità si può rintracciare – almeno in
una certa misura – tra il manager e il “primo cerchio” dei collaboratori.
L’abilità del manager sta nel far convivere questa dimensione “orizzontale”, di confronto
e di scambio paritetico, con la dimensione “verticale”, nella quale egli è il capo
“allenatore” che, secondo il suo compito dirigenziale, deve far crescere le competenze –
anche etiche – della “squadra”.
La relazione tra dirigente e collaboratori è necessariamente asimmetrica, perché spetta al
primo il ruolo di promotore, di propulsore e di guida dello sviluppo organizzativo.
«Mi sembra di poter dire che c’è un dialogo sui contenuti, che ci ha visti
convergere, e il dialogo sui contenuti l’ho portato avanti io, insomma. Io avevo
un’idea di organizzazione, un’idea di funzionamento, un’idea di motivazione,
un’idea di che cosa sia importante dal punto di vista della messa in ordine delle
priorità» (12:21).
In questo dialogo tra manager e organizzazione vi è, da parte del primo, una precisa
intenzionalità, volta a “far crescere” la seconda. Il direttore assume, infatti, tra i
propri compiti anche quello di sviluppare l’organizzazione.
255
Per “educare l’ambiente” bisogna innanzitutto creare l’assetto organizzativo giusto e
funzionale, iniziando con il costituire legami stabili, all’interno dei quali possa
effettivamente instaurarsi un discorso “formativo-educativo”.
«Un capo deve educare l’ambiente e i suoi collaboratori, ma l’ambiente ha un certo
stile e quindi deve dare testimonianza di questo stile e pretendere questo stile.
Impegno, quest’ultimo, molto difficile e sul quale alle volte riscontri il tuo
fallimento, perché cambiare mentalità, modi, approccio, stile è molto, molto, molto
duro» (8:86).
«Il servizio si fa con il personale, per cui se effettivamente l’obiettivo è quello di
produrre dei risultati di salute, l’unico modo per farlo è il corretto utilizzo del
personale, che comincia dal fatto di non avere personale “usa e getta”, come quello
delle cooperative. Bisogna appunto avere un sistema di fidelizzazione, diciamo così,
del personale, che passa inevitabilmente – ma questa è la mia esperienza –
attraverso ciò che faccio io nell’ente che dirigo. Passa attraverso l’idea di averlo
come dipendente. Il personale di cooperativa secondo me non consente, per quanto
ci sia una partnership, una condivisione degli obiettivi. La gestione del personale è
il principale strumento per l’ottenimento di risultati di qualità. Se viene
esternalizzato, ci si priva dello strumento principe per farlo e quindi dello strumento
per poter arrivare ai risultati. Quindi la prima cosa, secondo me, è quella di avere
del personale proprio e fare degli investimenti sul proprio personale» (1:37).
Va poi impostato un certo tipo di rapporto con il personale, cercando di consolidare i
legami di fidelizzazione nei confronti dell’Ente e di creare un buon clima organizzativo.
È, questo, un passaggio propedeutico rispetto a qualsiasi discorso formativo-educativo, di
sviluppo delle competenze, con particolare riguardo alla formazione etica.
«Sicuramente per arrivare al tema dell’etica bisogna avere dei prerequisiti di
gestione del personale. […] Se rispetti questi step allora ti trovi con personale che è
idoneo, che è un buon terreno per poter anche fare dei passi successivi in termini di
qualità di vita degli ospiti. Allora puoi iniziare a parlargli di etica, di quello che è
giusto e di quello che non è giusto e che non bisogna mettergli la spondina, che
bisogna fare dei progetti personalizzati… è un percorso… l’obiettivo dell’etica è un
percorso continuo, giornaliero» (1:35).
256
Per sviluppare l’organizzazione e renderla, quindi, maggiormente idonea a rispondere alle
sollecitazioni esterne, bisogna poi puntare sulla crescita professionale di chi in questa
organizzazione opera, cioè promuovere lo sviluppo delle competenze dei collaboratori.
«Personalmente cerco sempre di favorire tutte le crescite di carattere professionale,
perché ovviamente sono un arricchimento per la persona e poi parto sempre
dall’idea che, insomma, persone più ricche servano meglio la causa» (7:36).
Lo strumento necessario, anche se non sufficiente, per favorire questo sviluppo è senza
dubbio la formazione dei collaboratori. Nelle interviste ho rilevato un’attenzione
particolare alla formazione degli operatori socio-sanitari (Oss), che rappresentano il
profilo professionale preponderante nelle dotazioni organiche di questi enti e che
soprattutto sono le figure a più diretto e continuativo contatto con gli utenti.
La formazione deve puntare allo sviluppo di tutte le competenze necessarie per svolgere
il lavoro di cura dell’anziano ospite della struttura, ivi comprese quelle etiche, che spesso
vengono trascurate anche nella formazione di base.
«… e poi, naturalmente formazione, formazione che vuol dire aggiornamento
continuo, perché poi le cose cambiano in continuazione anche per il personale. Per
me, aggiornamento vuol dire principalmente aggiornamento esperienziale. Cioè
quando noi parliamo di imboccare l’ospite, finché noi non abbiamo fatto provare
agli operatori cosa significa essere imboccati abbiamo poco da dirgli che devi
rispettare i tempi dell’ospite, devi tagliargli bene…, eccetera. L’operatore si rende
conto solo nel momento in cui un altro lo imbocca e lo soffoca. Per cui tanta
attenzione all’aggiornamento, al tipo di aggiornamento, al tipo di criticità che
vengono evidenziate. In un certo momento ti trovi con tanti ospiti disfagici e allora
devi essere veloce nel dare una risposta» (1:40).
«Mi sono occupata di formazione degli OSS rispetto proprio all’etica. Questa
materia è vista come una cosa così, po’ scontata, perché uno che va a fare un lavoro
in ambito sociosanitario, dovrebbe, nella mentalità comune, avere già tutta una serie
di conoscenze etiche sue personali, cosa che non sempre è» (4:9).
La formazione professionale in genere e quella mirata allo sviluppo delle competenze
etiche in particolare non devono però, come si è visto, risolversi nella mera trasmissione
di saperi teorici. Viene rilevata la necessità di una formazione vicina all’esperienza. È
l’esperienza reale, a partire da quella portata in “aula” dagli stessi operatori, che va fatta
oggetto di riflessione all’interno dei momenti formativi, al fine di produrre apprendimenti
257
significativi. E, quindi, la formazione dovrebbe, in qualche modo, abilitare il pensiero e la
capacità di riflettere sulle situazioni che poi gli operatori si trovano ad affrontare nel
quotidiano.
«Io per formazione intendo proprio una formazione di tipo esperienziale, legata alla
soluzione di casi. Perché lì io ci metto dentro del mio rispetto poi all’output di
risultato che do e che quindi si ripercuote su una persona. Avviare quindi un
ragionamento su ciò che si fa: “Io proverei a fare così” oppure “Insieme potremmo
fare questa cosa in questo modo”. Non solo “Sarebbe bello fare questa cosa… ma in
che modo? Come facciamo questa cosa? Andiamo a destra? Andiamo a sinistra?
Che ripercussioni ci sono? Che cosa puoi mettere in gioco tu?”. Perché mica siamo
nati tutti esperti di etica o coordinatori o gestori di risorse… quella secondo me è la
vera formazione vincente, non ce ne sono altre…» (4:43).
L’etica va insegnata, tanto nella formazione di base quanto nei percorsi di aggiornamento
professionale, proponendo dei moduli formativi ad essa dedicati, al cui interno vengano
ad essere articolati i contenuti curricolari specifici di questo insegnamento, ma poi
dovrebbe entrare anche nel cosiddetto “curricolo nascosto”50. Riferimenti all’etica
dovrebbero emergere anche nel corso degli altri insegnamenti professionalizzanti, perché
si parla di agire morale non solo nell’ora di “Elementi di etica e deontologia
professionale”, ma anche quando si affrontano le questioni della cura degli anziani, delle
relazioni con i familiari, del rapporto di lavoro, ecc.
La crescita professionale dei collaboratori, però, non avviene solamente “mandandoli a
fare dei corsi”, per quanto ben impostati, ma si gioca costantemente sul campo,
nell’ambito della stessa pratica professionale.
È nell’immergersi dentro l’ambiente organizzativo, nel confrontarsi con gli altri, nel
misurarsi con i problemi concreti di ogni giorno, che tanto il manager quanto i suoi
collaboratori acquisiscono o migliorano molte delle competenze necessarie alla riuscita
del lavoro.
In questo agire professionale quotidiano, un importantissimo strumento a disposizione del
manager per far crescere le competenze etiche dei collaboratori, rimane l’esempio.
«Dico una cosa che me la ripetevano quarantacinque anni fa le mie insegnanti di
catechismo all’asilo, che è il famoso esempio. Il famoso esempio è fondamentale e
credo che chi svolge funzioni di direzione, di dirigenza in una struttura,
50
Cfr. Paparella N., Il progetto Educativo. Vol. II – Comunità educativa, opzioni, curricoli e piani, Roma,
Armando, 2009, pp. 159-160.
258
inevitabilmente dà un messaggio attraverso il suo stile, il suo modo di comportarsi,
di muoversi, di salutare le persone… e attraverso l’esempio, la presenza fisica,
passa moltissimo.
Il buon esempio. Sembra una stupidaggine, ma il buon esempio. Che poi il buon
esempio è tante cose, come ti avvicini alle persone, come le saluti, come le accogli,
come affronti centomila problemi... […]. Se tu li accogli con un certo stile, loro si
accorgono che quello è il tuo modo di essere e poi viene apprezzato. Quindi le cose
si trasmettono con gli stili, con l’esempio, quello che mi dicevano le suore tanti anni
fa (sorride)» (10:19).
«Si chiede come corredo di un manager la capacità di essere d’esempio. Diciamo
che dovrebbe essere anche così, dovrebbe essere anche una certa attitudine a
stimolare dei comportamenti per imitazione» (7:45).
La funzione dell’esempio è, appunto, quella di stimolare comportamenti di imitazione. Si
tratta di un dispositivo d’apprendimento fondamentale per molte specie animali e che ha
da sempre rappresentato anche per la specie umana, in tutta la sua storia evolutiva, una
modalità straordinariamente efficace di trasmissione dei saperi.
«Io credo che la guida per ciascuno di noi, lo dico anche riconoscendo i miei limiti,
sia l’esempio. Del resto, se andiamo a vedere la nostra storia, l’esempio sono stati i
nostri padri, che hanno fatto questa Repubblica e per questa hanno dato la propria
vita… l’esempio dovrebbe essere l’elemento che ti caratterizza» (3:82).
Ed è proprio la tipologia di questo sapere “etico” a prediligere tale modalità di
trasmissione. Il temine “etica”, così come il termine “morale”, rimanda etimologicamente
al concetto di usi, di costumi, di comportamenti condivisi e consolidati, che si
acquisiscono fin da piccoli sulla base degli insegnamenti ricevuti, ma soprattutto
imitando attivamente gli altri. Certamente intervengono, lungo la crescita, lo sviluppo
delle capacità di pensiero critico e una sempre più raffinata elaborazione di un’etica
autonoma,
ma
all’inizio
del percorso ontogenetico
è quanto
mai
rilevante
l’apprendimento per imitazione51. Molto spesso accade anche in età adulta che prevalga
un certo conformismo morale, che porta ad assumere una determinata condotta – giusta o
sbagliata che sia – senza particolare convincimento personale o adesione intima, ma solo
perché “così fan tutti” o perché così fanno le persone che si ritiene di dover emulare.
51
Cfr. Kohlberg L, Le esperienze adulte richieste per lo sviluppo morale, cit., pp. 116-119.
259
Il comportamento quotidiano del dirigente è comprensibilmente al centro dell’attenzione
dei collaboratori, proprio per il ruolo che egli ricopre all’interno dell’organizzazione.
Anche, ma non solo, per il fatto di avere tanti occhi puntati addosso e di sapere che i suoi
comportamenti non passeranno inosservati, egli dovrà prestare particolare attenzione a
non disconfermare nei fatti quanto con fatica è andato a costruire nel tempo.
«Tu puoi dire quello che vuoi, ma se dopo alla fine c’è una frattura tra il tuo modo
di essere fisicamente, come ti muovi, come saluti, come ti relazioni con le persone,
se non c’è una coerenza tra quello che dici e quello che poi appare, non si va da
nessuna parte. Cioè sembra di dire una stupidaggine, una cosa banale, ma il famoso
esempio è molto efficace, è fondamentale... Se i tuoi colleghi un giorno ti scoprono
– perché tu puoi perdere le staffe – ad avere atteggiamenti di un certo tipo, non se lo
scordano, eh... rimane in mente e hai voglia tu a recuperare…» (10:19).
Ciò non significa chiaramente avere il controllo assoluto sulle proprie reazioni emotive,
che a volte sono comprensibili ed anche necessarie.
«…perché non è detto che tu non debba arrabbiarti, che vuol dire sottolineare
disappunto, insomma. Non è che tu sei chiamato a essere l’angelo perfetto o la
persona immacolata, tu puoi benissimo anche non essere d’accordo» (10:19).
Quello che viene postulato è un atteggiamento di autenticità, di coerenza, è l’impegno a
rispecchiare nelle proprie azioni quelli che sono i principi e i valori professati.
È proprio questa l’immagine che, come in un gioco di specchi, viene proiettata negli altri
e che gli altri ci rimandano.
«Per cui io credo che i valori si trasmettono nel momento in cui li si incarna,
semplicemente vivendoli e le modalità sono nei propri comportamenti. Perché
diventa diverso il modo di porsi, diventa diverso il modo di parlare, ecc. Anche
utilizzando gli spazi… il fatto di avere un ufficio per conto mio fa la differenza.
Con questo simbolo, io comunico delle cose e in maniera molto più potente di
quanto io non comunichi con altre…» (5:54).
«Uno mostra quello che è, intanto. Mostriamo quello che siamo e la struttura poi lo
riflette. E per fortuna non siamo statici, siamo in evoluzione e, che lo si voglia o no,
si trasmette ciò che si è. Il direttore mostra ciò che è e la struttura probabilmente lo
riflette, proprio come uno specchio. Per me è stato un momento duro quando ho
scoperto che la struttura mi rifletteva per il livello in cui ero in quel momento, anche
di non chiarezza, anche di confusione, ecc. Poi ho visto che, via via che mi chiarivo
260
io, a cascata, si chiarivano anche gli altri, proprio perché “agivo” delle situazioni
che consentivano agli altri di avere la chiarezza. Cioè, ce l’avevo io e poi nelle UOI
[Unità Operative Interne] la trasmettevo in qualche modo. Però non so dirle come,
probabilmente negli interventi, probabilmente nelle scelte, probabilmente nei modi
di porsi…» (5:54).
Tuttavia, l’esempio da solo non basta. Al manager viene richiesto di porsi attivamente
come “sviluppatore” delle competenze dei suoi collaboratori, esercitando la funzione di
coaching. Si tratta di un ruolo – che definirei formativo, quasi “educativo” –
particolarmente sentito dai manager intervistati – dal quale può derivare loro una certa
gratificazione, perché riconosciuto e apprezzato anche dai collaboratori52.
«Spesso mi sono sentita dire dai miei collaboratori che sono contenti di lavorare con
me perché hanno imparato a lavorare, hanno imparato a comportarsi in un certo
modo. L’anno scorso una persona è andata via da questo ufficio, come succede, ha
intrapreso un’altra esperienza professionale, e mi ha lasciato una bellissima lettera
che mi ha fatto molto piacere e in cui diceva che le sembro molto dura, molto rigida
– è vero che è così – ma in realtà le avevo insegnato tanto. Diceva che era contenta
di aver lavorato con me e mi ringraziava… insomma, non aveva nessun motivo, dal
momento che se ne andava, intendo dire, per cui io credo che fosse assolutamente
sincera, ecco… e non è stato l’unico caso, quindi credo di trasmettere dei valori…»
(2:12).
L’intervento “educativo” del manager nei confronti dei collaboratori si gioca – come del
resto avviene nell’educazione in genere – attraverso la relazione educativa: rapporto che
fa crescere tutte le persone coinvolte, che sviluppa l’intera organizzazione, che crea
indirettamente benessere anche per gli utenti.
In questa relazione il direttore gioca ovviamente il ruolo di leader, ma di un leader attento
all’ascolto dei collaboratori, del loro pensiero, anche se – soprattutto se – critico, perché
le critiche aiutano a far cresce l’organizzazione.
«… un dialogo continuo con chi lavora in prima linea, in trincea. Uno scambio
continuo, perché poi chi lavora a stretto contatto con l’ospite è la persona che può
darti un feed-back in termini concreti, operativi, su quello che altrimenti rischia di
essere il sesso degli angeli» (7:17).
52
Cfr. Negro G., Il manager allenatore, Milano, Guerini e Associati, 2001.
261
«Detto con vera modestia, mi dicono che un po’ “trascino”. C’è un po’ di mio in
questa cosa, una sorta di leadership naturale, che aiuta… E c’è il tema di affrontare
insieme sfide, di parlare, di confrontarsi liberamente. Io non voglio “yes-man”
vicino, mi arrabbio quando ho persone che mi dicono “Sì”. Voglio persone che
pensano, che mettono la loro, che costruiscono, che accettano la critica e io stesso
accetto la critica… la chiedo la critica…» (12:21).
L’impegno del manager – come già detto – non è infatti solo quello di produrre un
servizio, ma anche quello di far crescere i collaboratori, favorendo il loro processo di
realizzazione umana e professionale, aiutandoli a trovare, all’interno del loro duro lavoro,
elementi di gratificazione personale e di motivazione intrinseca.
«... offrire ai tanti operatori che sono qui dentro la possibilità di sentirsi gratificati e
appagati nel fare un lavoro difficile, umile e con poche gratificazioni. Quindi aiutare
queste persone ad acquisire una consapevolezza rispetto a una professione, a una
professione che non avrà il riconoscimento economico, ma può avere il
riconoscimento di chi poi beneficia di questi servizi, del cittadino, dell’utente, delle
famiglie, della collettività. E questo favorendo percorsi di formazione, di
professionalizazione, di miglioramento della professionalità e dell’attenzione a
come si lavora, attenzione alla propria professione» (10.30).
Il lavoro di coaching, meglio di formazione del personale, non deve puntare soltanto a
trasmettere conoscenze, ma deve tendere soprattutto a sviluppare pensiero riflessivo, deve
cioè cercare di modificare l’atteggiamento, la “postura”, che i collaboratori hanno di
fronte alla loro pratica professionale. L’attitudine a riflettere sulle cose, a farsi domande,
a confrontarsi con gli altri, a problematizzare alcuni aspetti che sembrano scontati, ecc.
«Se io riuscissi a trasmettere alla mia organizzazione il fatto di riflettere in termini
etici su che cosa sto facendo quando lego un ospite, anche se c’è la prescrizione,
anche se poi lo devo fare, ma riflettere in termini etici, perché questa cosa non deve
diventare una standardizzazione… Se la persona domani non ha più la necessità di
essere contenuta, se io rifletto sul perché lo lego, poi mi porrò il problema: “Ma, ha
ancora necessità di essere legata?”. E quindi possono proporre di fare il percorso
inverso. Se invece io la reputo una standardizzazione, anzi mi facilita la vita, perché
questo sta fermo lì, non si muove… ecco che l’approccio etico alla persona è
completamente diverso. Anche il fatto di fermarsi a riflettere su certe cose, ma che
semplicemente il fatto di dircele. “Ma, oggi c’è successa questa cosa e io mi sono
sentito… ho pensato… ho provato a mettermi dall’altra parte… Come essere
262
umano, dal mio punto di vista, si sarebbero dovute fare delle altre cose…”. Cioè,
proprio confrontarci su aspetti che delle volte possono essere molto, molto semplici,
ma che danno degli input importanti, secondo me, rispetto alla dimensione etica del
servizio» (4:45).
Il lavoro formativo-educativo di sviluppo delle competenze etiche non può basarsi su
un’idea di rigido controllo, ma deve mirare alla crescita morale del singolo,
all’acquisizione di una morale autonoma, in base alla quale il dipendente agisce
correttamente, anche se non c’è nessuno a controllarlo e a sanzionarlo53.
Il manager può attivare questo percorso di crescita professionale anche mediante una
corretta impostazione del processo di delega, da cui discende la responsabilizzazione dei
collaboratori, come pure la valorizzazione delle loro competenze.
«Se il mio modello etico di valorizzare la persona viene messo in atto solo finché
sono lì a controllare e quando vado via la gente fa quello che vuole e non recepisce i
contenuti di quello che io voglio trasmettere, allora lì diciamo che siamo fuori
ambito» (4:13).
«Devi avere un processo di delega che entri in funzione…. dai prima le regole, alla
fine verifichi, ma in mezzo devi lasciare che la gente “respiri”, accettando anche il
rischio di qualche errore…» (11:78).
Gli errori, infatti, vanno messi in conto, fanno parte del gioco. Dagli errori si deve
ripartire, come ci si rialza dopo una caduta. Dagli errori si deve anche imparare, perché
sono lezioni preziose54.
Il manager non deve “lasciar correre”, deve anzi rilevare le mancanze, sanzionandole
quando serve. Ma la censura, la “punizione”, non devono mai eccedere, per non inibire –
anziché agevolare – questo processo di apprendimento.
«Devi “colpire”, tra virgolette, l’errore, rilevandolo, ma senza che diventi un
terrore. Cioè lo evidenzi nella maniera giusta per questa persona, che poi è
riconoscente e non lo fa più…» (11:60).
Questo lavorare sullo sviluppo delle competenze produce, con il tempo, un
coinvolgimento da parte dei collaboratori, che non si limitano a fare il “minimo
53
54
Il riferimento è alla teoria dello sviluppo stadiale di Kohlberg presentata nel paragrafo 3.4. (Cfr.
Kohlberg L, Le esperienze adulte richieste per lo sviluppo morale, cit., pp. 116-119).
Cfr. Zanato Orlandini O., Educare all’errore, educare al cambiamento. Riflessioni pedagogiche
sull’errore nella prospettiva popperiana e oltre, Brescia, La Scuola, 1995.
263
sindacale”, ma accettano di mettersi in gioco, di assumere un ruolo più propositivo,
condividendo le responsabilità e collaborando attivamente a supporto del manager.
«Io mi accorgo che molto spesso i miei collaboratori mi difendono dai problemi,
diversamente da quello che si può pensare. Beh, come dire: “C’è una persona che se
ne fa carico, bene glieli buttiamo addosso”. Da parte di molti avviene anche il
contrario: “La dottoressa ne ha già abbastanza, aspetta che vediamo se questa cosa
la riusciamo a risolverla noi”. Ed è un crescendo, è una cosa che capita, che mi è
capitata più di una volta all’interno delle organizzazioni in cui sono stata. […]
Secondo me è meraviglioso quando viene, non so, Eleonora dell’ufficio personale e
dice: “Dottoressa, ci sarebbe questo problema qua e io avrei pensato che potremmo
fare così…”. E fino a un anno fa ciò non avveniva… eh, perché lei ha fatto un
percorso, nel pensare la soluzione, lei ha la soddisfazione di riuscire a pensarci, ma
c’è anche la volontà di non caricarmi delle cose. Ma lei ha bisogno del mio
feedback per essere in sintonia, perché noi siamo in sintonia e per avere la
tranquillità che quella cosa che ha pensato si può fare e la può fare, ma è anche un
modo, anche protettivo nei miei confronti, nel senso che… ce li dividiamo un po’ i
compiti insomma…» (2:33).
I collaboratori però sono persone e le persone sono differenti l’una dall’altra. Ci sono,
come abbiamo visto, i “ricercatori di motivazione”, che investono molto nel lavoro per
una propria crescita personale e ci sono i “ricercatori di igiene”, che aspettano solo la fine
del mese55. C’è pertanto anche chi non vuole condividere le responsabilità, chi si vuole
attenere allo stretto indispensabile, per poca disponibilità o semplicemente per timore. Il
manager deve quindi essere consapevole di questo differente approccio al lavoro, ma
ugualmente deve saper trattare con chiunque, gestendo la diversità e cercando di lavorare
sul coinvolgimento, sulla responsabilizzazione, sulla crescita delle competenze, per
ridurre sempre più il fronte di questi collaboratori “refrattari”.
Gli strumenti per attuare questa modificazione dei comportamenti cambiano in base a chi
si ha di fronte.
«Il metodo non è uguale con tutte le persone… c’è chi viene e dice: “Ho questo
problema…” e vuole assolutamente una risposta, anzi chiede che tu gli mandi la
mail e conserverà per tutta la vita quella mail a riprova che chi ha scelto sei stato tu,
perché non vuole condividere la responsabilità… ci sono anche questi, però sono
55
Cfr. Herzberg F., The motivation to work, cit.
264
pochi, e non solo qui. Per me è sempre stato così, sono poche le persone che non
vogliono condividere con te questa cosa, assolutamente…» (2:52).
«Poi è chiaro che questa cosa passa attraverso modalità personali, cioè se io ho il
dipendente che non la recepisce perché fa parte anche del suo modo di vivere dare
più importanza a determinati valori piuttosto che ad altri, mica possiamo qua
“svitare la testa” delle persone. Però attraverso alcuni parametri organizzativi,
attraverso alcune regole organizzative possiamo cercare di garantire il benessere
all’ospite attraverso standard adeguati e dichiarati anche nei confronti del personale.
Se per me tu, dipendente di questa organizzazione, la mattina devi salutare quando
vai ad alzare l’ospite, devi chiudere la porta, devi essere gentile, devi segnalare una
serie di aspetti critici dell’ospite… se questo è il mio standard, prima lo
condividiamo, poi ce lo diamo come modalità che comunque deve essere garantita
qui dentro, poi se non lo garantisci, allora lì andiamo su altri ambiti, voglio dire…»
(4:21).
Chiaramente il manager non può “svitare la testa” dei suoi collaboratori, non può pensare
di cambiare in toto o da un giorno all’altro la modalità che persone adulte hanno di
relazionarsi nei confronti del mondo e degli altri, modalità che sono andate
consolidandosi profondamente nella loro identità personale. Il lavoro educativo che il
manager deve compiere è principalmente su di sé, sulla sua capacità di capire chi ha di
fronte e quali sono le modalità di rapportarsi più funzionali, al fine di ottenere i risultati
che si propone a livello organizzativo, e relativamente al benessere dell’ospite.
«… per esempio, io dico, se mostro ad una persona le cose come dovrebbero essere,
le vedrà. In realtà non è così. Non è che se io mostro le cose alle persone, le persone
avranno occhi per vedere. Si dice che non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire
e non c’è peggior cieco di chi non vuol vedere… per cui anche se mostri loro le
cose e non vogliono vederle non le vedranno. In realtà tu non puoi cambiare l’altro.
Questa è una cosa che ho imparato. Devi semplicemente gestire. Ed è una gestione
che parte da chi ho davanti. Quanto più io so ascoltare chi ho davanti – e per
ascoltare non intendo solo con le orecchie – quanto più so leggere chi ho davanti, e
tanto più saprò gestire. Perché con qualcuno potrò adottare l’arma della paura: cioè,
se tu capisci solo questo linguaggio, è questo il linguaggio che devo usare, se è
funzionale all’organizzazione che tu faccia determinate cose in un determinato
modo. Con altri potrà funzionare qualcosa di diverso. Tanto più ti saprò “leggere” e
meglio saprò poi gestire le situazioni, perché non ci sono energie più sprecate di
quelle dedicate a cambiare gli altri. Non esiste… l’unico cambiamento che puoi
265
agire è quello su di te… sugli altri sono veramente energie buttate fuori della
finestra. E lo dice una che ne ha buttate tante di energie fuori della finestra» (5:56).
Questo sapendo anche accettare il limite, ciò che non puoi cambiare, prendendo atto che
esistono dei collaboratori “difficili” e che devi in qualche modo gestire al meglio la loro
attività professionale agendo molto anche indirettamente.
«Bisogna solo gestirli. Fare in modo che un gruppo cresca e che questi diventino la
minoranza… e quindi, sai che devi “trascinarteli dietro”… cercare di arginarli il più
possibile, perché tanto è fiato sprecato. Cioè, loro sono così… Però se hai un gruppo
che è sempre più responsabile e cresce rispetto anche ad un’ottica di valori etici e di
modalità organizzative più orientate alla personalizzazione dell’assistenza, cioè, se
in mezzo a tanti ce n’è uno, vabbè, ce lo trasciniamo dietro, purtroppo, fino a che
non andrà in pensione» (4:48).
266
10
Pensiero e sé morale
Bene, quello che stavo dicendo
è che costa molto essere
autentica, signora mia. E in
questa cosa non si deve essere
tirchi, perché una è tanto più
autentica, quanto più somiglia
all’idea che ha sognato di se
stessa.
Pedro Almodòvar
10.1
Il pensiero in azione
La ricerca empirica da me condotta si proponeva anche l’obiettivo di conoscere – per
quanto possibile – le competenze etiche nella loro dimensione dinamica, cercando di
coglierle “sul fatto”, nel momento in cui esse si esprimono attraverso il pensiero morale.
Un pensiero che viene qui “ritratto” nel suo confrontarsi con situazioni problematiche dal
punto di vista etico (dilemmi morali, ma anche conflitti etici con altri soggetti, conflitti
fra dimensione etica e norme giuridiche, nonché alcune questioni di bioetica).
Il discorso sul pensiero morale si incrocia, nelle testimonianze raccolte nel corso
dell’indagine, con i temi dell’etica professionale, del sé morale e della ricerca del senso
delle cose e del proprio lavoro. Argomenti che, come avrò modo di illustrare, ritengo
essere strettamente collegati fra loro.
sé morale {15-3}
is associated with
is associated with
conflitto etico interiore, dilemmi morali
{28-1}
conflitto etico tra persone {26-1}
pensiero morale {0-7}
is associated with
is associated with
etica professionale {17-3}
conflitto etico: tra etica e legalità {14-1}
questioni di bioetica {6-1}
is associated with
is associated with
questioni di senso {23-4}
senso del proprio lavoro {3-1}
Fig. 6 – Mappa dello sviluppo delle competenze
267
10.2
La narrazione del pensiero: conflitti morali e bioetica
Inizio ad illustrare quanto è stato prodotto nel corso delle interviste rispetto al tema dei
dilemmi morali, che si presentano allorquando il manager si trova in difficoltà nella scelta
del comportamento eticamente più adeguato da adottare, in una determinata situazione,
per il fatto che due o più norme morali, principi o valori vengono a confliggere fra di
loro.
Si tratta di situazioni che si realizzano con estrema frequenza, più di quanto non si
immagini, ma che a volte non riconosciamo – forse solo perché il termine può essere
distante dal lessico comune – e quindi crediamo che non ci riguardino, come si rileva in
alcune interviste.
«Mmmh, direi di no, direi… direi di no…direi che proprio dilemmi etici non me ne
vengono in mente adesso, così… ci possono essere delle situazioni nelle quali
l’applicazione di una regola appare non del tutto proporzionata all’evento che l’ha
reclamata, ma di problemi etici veri e propri, come quelli con cui magari si potrebbe
trovare davanti qualche altra categoria di professionisti, non ne ho mai trovati.
Insomma, non ho mai avuto questa… come posso dire… Anche perché noi ci
occupiamo di attività che non coinvolgono problemi etici così profondi; non ci
troviamo a discutere della vita o della morte delle persone, in poche parole, non ci
troviamo a discutere del rischio o meno di una determinata operazione… Ci
troviamo in cose per fortuna meno coinvolgenti e meno drammatiche…» (7:33).
Tuttavia i dilemmi etici non sono questioni che riguardano esclusivamente determinate
categorie di professionisti; coinvolgono tutti, ma chiaramente bisogna essere in grado di
riconoscerli. E, “scavando bene”, dilemmi ne saltano fuori di certo.
«Capita, può capitare che avviene un determinato fatto, per cui sei costretto a
prendere determinate misure disciplinari. A me non è ancora successo e spero che
non mi succeda. […] In altri campi purtroppo si è costretti ad agire anche se la
misura in qualche modo si ritiene sproporzionata… il piccolo negoziante che sei
costretto a perseguire dal punto di vista legale per ottenere un determinato
pagamento, che ne so, di un qualche cosa che ti è dovuto, ma che in questo modo
spingi al fallimento, alla chiusura dell’attività, a qualche altro grosso problema…»
(7:29).
I dilemmi morali non si riscontrano propriamente solo quando in gioco c’è la vita o la
morte delle persone, come nel caso della professione medica, ma anche nell’agire di altre
268
figure professionale come quella del manager sociale, il quale può imbattersi – come di
fatto avviene – ogni giorno in questioni etiche. Questioni – come nel caso sopra
menzionato, del negoziante che non riesce a pagare l’affitto all’Ipab – che hanno a che
fare contemporaneamente con dei principi che possono apparire in antitesi fra di loro,
come ad esempio la giustizia e la solidarietà. Ed è proprio sul conflitto tra questi due
principi che prendono le mosse molti dei dilemmi morali riportati dai manager nelle
interviste. Un conflitto che potremmo in qualche misura ricondurre alla contrapposizione
tra etica della giustizia ed etica della cura56.
Le situazioni “dilemmatiche” incontrate dal manager riguardano in particolare i rapporti
con il personale.
«… Beh, per me i conflitti più duri ce li hai ogni qualvolta intervieni sul personale,
perché ogni volta che tu adotti anche un provvedimento di licenziamento – e
l’abbiamo fatto – il più delle volte sono persone che hanno grandi problemi sociali
loro, familiari e di salute, anche. O qualcuno che era abituato anche a fare il
furbetto… Io, ogni qualvolta ho adottato un provvedimento di questo genere, mi
sono sempre trovato in un grande dilemma. Oppure quando non hai fatto superare il
periodo di prova a una persona e sai che a casa ha dei grossi problemi o sai che ha
delle scarse capacità, per cui è un problema che ha oggi con te e che avrà domani
con un’altra istituzione, con un’altra cooperativa, con un altro ente, un’altra
società… Questi sono i grandi problemi che si pongono ogni volta che si fanno
delle scelte che coinvolgono la persona» (8:36).
Ad acuire questo conflitto fra la “voce della giustizia” e la “voce della cura” nel manager
sociale potrebbe essere proprio la sua formazione personale e, diciamo così, la sua
“deformazione professionale”. Infatti, essendo egli chiamato a sviluppare, per il lavoro
che fa, una certa sensibilità al bisogno, alle problematiche sociali, alla fragilità umana,
può vivere con maggiore intensità e sofferenza le decisioni che coinvolgono dei “casi
umani”.
«Alle volte hai il dipendente che è tossicodipendente, situazione sociale brutta,
deficit cognitivo importante e fa stupidaggini nel lavoro e allora tu ti trovi qua nella
necessità di dover essere il giudice di questa persona… Il giusto, no? E sei tirato, da
una parte, dall’aspetto umano di questa persona che sta male, perché per via della
mia formazione, insomma, so benissimo come ha reagito… e, dall’altra, dalla
56
Cfr. Gilligan C. (1982), Con voce di donna, cit., e quanto riportato nel paragrafo 3.2.
269
necessità di dire: “C’è una giustizia, una meritocrazia, una…”. Cioè, avere una
cultura psicoterapica… quindi tu capisci che c’è un male profondo e con ciò rischi
di essere giustificazionista, per certi aspetti… e il dovere che ho nel mio ruolo di
esercitare il senso della giustizia, cioè di dire: “Chi ha sbagliato, paga”» (12:32).
La complessità dei dilemmi sta anche nel fatto che non è sempre chiaro come agire
secondo il “principio di giustizia” e come agire secondo il “principio di cura”.
«La richiesta che molti dipendenti fanno di avere prestiti… Si affidano spesso a
finanziarie e siccome mi viene richiesta anche una valutazione in termini, come
dire, di solvibilità, se io credo che non ci sia, do parere negativo… pur
comprendendo che per carità in quel momento hanno magari bisogno, però… Ecco,
sì, il rischio è anche che si rivolgano a qualcuno di poco corretto… però, però lo
devo fare, cioè se loro hanno già la cessione del quinto, se lo stipendio è al limite, se
hanno figli piccoli, eccetera, io devo assumermi questa responsabilità: sono io che
devo dire o sì o no ed è capitato in due o tre casi in cui ho detto di no. Ci sono in
gioco parecchie sfaccettature… c’è il bisogno… e non è facile, in qualche caso… in
un caso una persona ho cercato di indirizzarla – non io direttamente, si era aperta un
po’ di più con i colleghi dell’ufficio e quindi attraverso loro abbiamo cercato di
indirizzarla al sindacato – in modo che ci fosse comunque una tutela e che non
finisse a chiedere i soldi a chissà chi. Ma sono sempre scelte difficili, perché, se
hanno bisogno di soldi, qualcosa ci devono fare… Vedi questo circolo vizioso, vedi
queste persone che si stanno rovinando con le loro mani e io non me la sento di far
finta di non averlo visto, insomma ecco… È molto discrezionale, in realtà, perché
potrei anche dire che dal punto di vista, come dire, meramente formale, una persona
ce la può fare a pagare… Se poi gli restano 300 euro al mese per vivere e deve
magiare, ha un bambino… cioè, non so, non so come fa. Potrei anche non
curarmene, ma non ci riesco…» (2:29).
Ci sono delle funzioni attribuite al manager che si presentano piuttosto problematiche,
come quella di promuovere i procedimenti disciplinari. Le sanzioni più pesanti vengono
poi prese da un comitato di disciplina, ma l’avvio delle procedure spetta sempre al
dirigente. A volte può capitare – ma è l’eccezione – che tutto sia chiaro, che le cose si
presentino facili, come quando si tratta di censurare un comportamento scorretto assunto
in modo deliberato e intenzionale, senza che vi siano particolari “profili umani” di cui
tenere conto.
270
È, nella fattispecie in esame, proprio l’elemento psicologico del dolo di chi pone in atto il
comportamento sconveniente a sciogliere ogni perplessità in merito all’avvio del
procedimento disciplinare. Le conseguenze del “misfatto” in questo caso, cioè l’entità del
danno che questo comportamento ha arrecato, sembrerebbero secondarie.
«… Beh, a me viene in mente per esempio ogni qualvolta mi trovo a fare dei
procedimenti disciplinari, perché come competenza mia devo anche far questo. A
volte è difficile svolgere questo ruolo. Quando ti trovi di fronte ad un caso in cui hai
la certezza che comunque c’è una persona che ha volutamente fatto delle cose
negative… allora vai via tranquillo» (11:43).
«Ci sono limiti invalicabili. Se uno si addormenta al lavoro è una cosa, se uno dà
una sberla ad un anziano sulla gola è un’altra… Allora nella prima io cerco di
mettere in atto operazioni, diciamo… Nella seconda metto in atto una sola
operazione, dico alla persona: “O tu ti licenzi domani mattina o io domani mattina
vado in Procura della Repubblica…”. Punto e a capo, ecco. Questo è un principio
inderogabile, perché può caderti l’anziano nel lavoro e può fratturarsi e farsi male
peggio, però questo fa parte del lavoro, può capitare… vediamo come risolvere…»
(12:33).
Le questioni però si possono complicare e anche molto. Ci si può trovare di fronte a
situazioni in cui non c’è dolo e non c’è neanche forse una “colpa”, ma ci sono comunque
delle conseguenze che richiedono un provvedimento.
«Mi è capitato e mi capita ogni tanto di trovarmi di fronte a persone che sono
effettivamente in difficoltà, ma in difficoltà di vita, in difficoltà, perché …. Perché
non sempre le scelte che hanno fatto sono state scelte felici e non sanno come
affrontare un bisogno. Mi viene in mente adesso una situazione di questo tipo, per
esempio… ecco, mi sta un po’ tormentando la situazione di una dipendente che si
comporta in una maniera… che ci mette nelle condizioni di sanzionarla ogni tanto,
perché arriva in ritardo al lavoro. Non è rispettosa del turno. Lei è infermiera, quindi
non può fare una cosa del genere e ci tocca sanzionarla, perché mi arriva la
segnalazione da parte del capo reparto e io sono costretta a sanzionarla, quindi farle
partire la segnalazione, poi portarla in commissione disciplina, farle il rimprovero,
eccetera. E questa persona non è assolutamente in grado di cambiare questo suo
comportamento, perché soffre di depressione e quando va a casa, ed è depressa e sta
male, prende una pastiglia e poi non si sveglia la mattina dopo in orario. E più che
farle la predica, più che dirle di andare da un medico, di avere un periodo di
271
aspettativa… ma non si può permettere l’aspettativa, perché senza stipendio non
potrebbe stare… io lì mi sento bloccata. Mi sento bloccata, perché vedo proprio la
difficoltà di questa persona, però devo applicare la regola, perché è il mio ruolo e gli
altri, gli altri collaboratori, si aspettano che io faccia e basta… gli altri collaboratori
che poi sono le vittime del suo comportamento, nel senso che lei non è ligia, non è
attenta. Sono le vittime, perché? Perché devono restare in reparto, devono aspettare,
non sanno che… è accaduto in più di un’occasione che il collega prima di uscire dal
turno abbia dovuto chiamarla, lei era addirittura a casa a letto, l’ha svegliata, perché
si era dimenticata di venire, insomma situazioni che sono assolutamente
sanzionabili, non c’è dubbio. La persona deve assolutamente venire a lavorare in
condizioni ottimali… Tra l’altro, c’è il problema anche delle condizioni nelle quali
viene a lavorare, di come faccia a lavorare, per cui la devo mettere a lavorare in un
reparto in cui c’è almeno un altro infermiere, che deve rendersi conto se lei è in
grado quel giorno in cui accade quella cosa, se non è troppo assonnata, se è in grado
effettivamente di svolgere le sue prestazioni e questo denota le sue difficoltà, mette
in luce le sue difficoltà che lei non è assolutamente in grado, in grado di superare,
ecco…» (2:28).
Dopo aver ascoltato questo racconto avrei voluto commentare: “È uno sporco lavoro, ma
qualcuno lo deve pur fare!”. Non sapevo come sarebbe stata presa la battuta, perciò mi
sono autocensurato, limitandomi ad appuntarla nel block-notes.
La dirigente è spinta, per il senso del dovere, a procedere disciplinarmente, anche se
capisce che non è giusto e che poi non serve a nulla, perché non farà certo passare la
depressione alla dipendente. Ma deve procedere, perché il comportamento trasgressivo
crea un danno che va riparato. C’è in questo un’idea espiatoria della sanzione
disciplinare; una sanzione che viene esatta dai colleghi danneggiati dal comportamento
dell’infermiera depressa: questi si aspettano che vengano assunti dei provvedimenti e la
dirigente è in qualche modo “costretta” a procedere, per quanto con difficoltà.
Quindi, la sanzione non sempre viene assunta perché è utile in termini “educativi” a chi è
incorso nell’infrazione disciplinare, ma spesso viene posta in essere in quanto serve per
riparare il torto arrecato, ristabilire l’ordine violato e soddisfare il senso giustizia degli
altri membri dell’organizzazione. È un concetto che si ritrova anche in un’altra intervista.
«A volte ti trovi di fronte magari anche a dipendenti bravi, dipendenti che ci
mettono passione, che hanno sempre messo passione e restano molto male quando
ricevono una lettera in cui tu chiedi conto di un comportamento e giustamente
272
dicono: “Come? Ho fatto una vita lavorativa… quella volta che mi capita qualcosa,
lui mi chiama a rapporto e magari mi sanziona…”. E vai in difficoltà, ma tu sai
anche che se tu fai delle eccezioni… rispetto a gruppi di lavoro, lo stesso
comportamento non puoi una volta sanzionarlo e una volta lasciar correre… al
limite puoi pensare a graduare le sanzioni, ma non puoi lasciarlo correre, e questo a
volte qualcuno non lo capisce e ci vede anche qualcosa di personale…» (11:43).
Le decisioni del manager in questo ambito sono certamente un fatto di coscienza, un fatto
personale, ma evidentemente hanno una risonanza esterna anche rilevante. Egli quindi si
pone la questione di come la sua decisione potrà essere interpretata, senza per questo
tuttavia farsi eccessivamente condizionare dal giudizio degli altri, i quali probabilmente
avrebbero qualcosa da ridire in tutti i casi.
«Dopo alla fine chiudi sempre con la serenità di dire, “Ok, ma la cosa importante è
che sei pulito, non hai niente da nascondere…”, ma poi la lettura che viene fatta a
volte dall’esterno non è sempre quella pulita… di certe scelte in cui hai privilegiato
l’esperienza, magari si fanno certe letture…» (5:67).
Alcuni dei dilemmi morali riportati dai manager intervistati rimandano ad un’altra
contrapposizione, quella fra scelte ispirate dl deontologismo e al consequenzialismo. Si
tratta di situazioni nelle quali l’osservanza da parte del manager di determinate norme,
prescritte per dovere d’ufficio, comporta conseguenze che possono magari risultare
contrastanti con gli interessi dell’ente.
«C’è una situazione che mi capita di vivere nei concorsi. Nei concorsi ti trovi anche
ad avere persone che conosci, con le quali non si pone una situazione di
incompatibilità, però magari è un collega che ha lavorato a termine e poi,
finalmente, fa il concorso a tempo indeterminato. Magari riconosci la prova o
magari arrivi all’orale quando è chiaro… tu lo sai, perché ha lavorato con te un
anno e sai che lavora bene, ma magari fa un orale “da schifo”. Una delle domande
è: “Lo valuto sulla base della prova o lo valuto sulla base della conoscenza?”. Se lo
valuto sulla base della prova, dici: “Ma vado a bocciare uno che so che è bravo…”.
E quindi ti domandi se stai facendo quello che serve: “Qual è l’interesse che sto
perseguendo?”. Se invece lo valuti sulla base della conoscenza pregressa, cioè dici:
“Vabbè, faccio finta di non aver sentito la prova che ho sentito e lo valuto sulla base
della conoscenza”, ma come ti poni nei confronti di tutti gli altri che non conosci? E
quindi, questa procedura concorsuale, se da un lato deve garantire dei buoni risultati
273
per l’Amministrazione, in maniera imparziale nei confronti dei cittadini… come si
concretizza tutto questo?» (5:65).
Il quesito sulle conseguenze delle proprie azioni, che accompagna ogni scelta di ordine
morale, talvolta – specie quando si devono assumere decisioni incresciose, come ad
esempio quella di licenziare un collaboratore – si pone in maniera molto drammatica.
Drammatica e complessa, perché nel valutare le conseguenze vanno soppesati molti
aspetti che sono in contrasto fra di loro. Mentre nell’approccio integralmente
deontologico, una volta chiarito qual è il dovere da assolvere, “si va avanti dritti”,
nell’etica consequenzialista le cose si fanno complicate.
«Un dilemma di fronte al quale mi sono trovato è stato, ad esempio, il
licenziamento di un dipendente… Io mi sono trovato costretto, per certi aspetti,
perché secondo me non c’erano le condizioni per proseguire il rapporto di lavoro. È
chiaro che ti porta al dilemma di dire: “Ma questo che adesso resta a casa, cosa fa,
cosa non fa? Ha famiglia, non famiglia…”. C’è una causa in corso; io non so come
se ne uscirà, se prenderemo ragione o prenderemo torto. È chiaro che dal punto
strettamente del diritto ritengo di aver fatto la cosa corretta. Sul piano poi di una
scelta strettamente etica, è giusta o non è giusta e, se è giusta, poi che conseguenze
può arrecare… quello che poi mi chiedo anche, a proposito delle domande:
“Sarebbe stato più etico confermare al lavoro una persona che alla fin fine non era
certamente illuminante come esempio per i suoi colleghi, e quindi questo è stato un
modo per recidere il rischio della non sostenibilità o sarebbe stato meglio mantenere
la situazione?” Questo è un dilemma…» (3:56).
L’interrogarsi sulle conseguenze apre effettivamente uno scenario denso di criticità,
perché gli elementi da considerare sono molti – non solo riferiti, come in questo caso, al
dipendente da licenziare, ma anche all’ente e ai colleghi; l’aspetto di imponderabilità
generato da una qualsiasi scelta non è mai del tutto eliminabile57.
La questione è che, di fronte ad un dilemma morale, si deve scegliere: anche non far
niente, non pervenire ad alcuna decisione, è una scelta. Il “possesso” di competenze
etiche dovrebbe appunto consentire al manager di assumere queste scelte – e poi tradurle
in decisioni e azioni concrete – con una certa serenità d’animo.
«Mi sento di dire che non ho grandi dilemmi morali, nel senso che… non lo so, io
anche di fronte ai problemi, anche in gruppo, eccetera, io dico: “Ma qual è il bene
57
Cfr. Da Re A., L’etica tra felicità e dovere, cit., p. 31.
274
della persona della quale stiamo parlando?”. E proviamo, nelle soluzioni che
adottiamo, ad avvicinarci quanto più possibile a questo e quindi, quando so che ho
fatto questo ragionamento… so anche di poter sbagliare, perché sbagliare è umano,
è umano…» (12:30).
Quello che consente al manager di sciogliere i dilemmi morali è il fatto di porsi di fronte
alla situazione in termini riflessivi, analizzando gli elementi del problema, a partire da se
stesso – Chi sono io? Qual è il mio ruolo? Di cosa sono responsabile? Quali sono gli
interessi in gioco? Quali principi sono in gioco? Quali alternative ho? – per ricavare
proprio da questa analisi un’ipotesi di soluzione convincente, che va poi “validata” sul
campo.
«Sì, sì. Eh... Pochi giorni fa c’è stata una selezione con un professionista, che
lavorava con noi per un po’ di ore alla settimana… da un bel po’ di tempo, di fatto,
e non è stato confermato… Si è fatta scelta una persona che a giudizio della
commissione era più qualificata. Allora, il problema è dire: “Ma adesso? Questo
qua ha famiglia…”. Questioni di questo genere. E poi ovviamente ero il presidente
della commissione. Ma mi sono dato una ragione. Ho detto: “Ok, io devo
salvaguardare gli interessi dell’Ente, chiaro?”. Interessi dell’Ente è avere i migliori
professionisti per determinate cose. Abbiamo avuto l’opportunità di selezionare un
gruppo di professionisti, pensiamo che ci sia un professionista migliore di questo e
quindi scegliamo il migliore… E mi sono detto: “Ma i problemi di questa persona,
con la sua famiglia, eh?”. Come dire: “È giusto che io mi senta coinvolto?”. E ho
detto: “No, il primo a essere responsabile di questa famiglia è il capofamiglia, è
lui…”. Che vuol dir che cosa? Che vuol dire che se non ha funzionato, se non ha
dato il massimo per poter essere preso, deve guardare lui al suo percorso, al suo
impegno. Deve essere lui responsabile nei confronti della sua famiglia e io sono
responsabile di questa tra virgolette “famiglia”, che è la struttura… non è stato
facile dire: “Eh, in questo momento rispetto a questa decisione non mi faccio
carico… non posso sentirmi io responsabile di quella famiglia, ma deve essere lui
responsabile di quella famiglia…”. Che vuol dire che doveva pensarci prima, che
vuol dire impegnarsi, studiare, far tante cose diverse, alcune cose diverse, essere
pronto per questa occasione, che poi non l’ha saputo dall’oggi al domani, aveva un
anno di tempo per prepararsi. Ecco, è stato un momento di conflitto non
indifferente. Io l’ho risolta dicendo: “Ma c’è un valore, c’è un valore etico rispetto
al mio ruolo di dirigente, di direttore, che è quello anzitutto di guardare agli
interessi di questa struttura nella sua globalità. E l’altra cosa, l’altra questione, non
275
posso assumerla io… Sei tu che devi mettere in piedi strumenti, la responsabilità
della tua famiglia ce l’hai tu”. Questo momento, può immaginare, è doloroso, però,
d’altronde... Questo discorso può sembrare in contraddizione con quello di prima…
No, no. C’è un rispetto delle persone, ma c’è anche un valore che deve guidarci, che
è quello di dire questa è un’entità che deve essere gestita al meglio per poter
sopravvivere, per poter sviluppare servizi di qualità, per poter essere qualificata, per
poter essere considerata un luogo dove si può tranquillamente, serenamente portare
il proprio congiunto. Cioè, alla fine, la qualità della struttura si misura con anche
con la qualità di chi lavora dentro e sui prodotti di chi lavora all’interno della
struttura» (10:22).
L’etica del manager sociale ha come perno una responsabilità, che è quella nei riguardi
dell’ente che gestisce. Nell’assumere le proprie decisioni è chiaro che egli tiene conto
delle situazioni personali, dei casi umani, ma la sua responsabilità principale è rivolta
all’organizzazione e a quanti da essa dipendono.
«… un operatore o un capo reparto… a me è successo di non confermarlo in ruolo.
Ricordo il caso di una persona che è venuta da noi, era una persona madre di
famiglia, con 4 figli, compagnia bella, non l’abbiamo confermata in servizio: è stata
una cosa molto, molto difficile, molto dura, molto impegnativa, ma, vede, lì
torniamo sempre allo stesso discorso: tu intanto, ogni qualvolta assumi una persona,
sai che ti assumi un costo al bilancio e sai che questo costo al bilancio qualcuno lo
deve pagare. […] Ma il secondo aspetto, che è il principale forse, è che questa
persona poi comunque si scontra con una realtà del servizio, la realtà del servizio
che è valutata dai parenti, cioè il fatto la mattina che tu hai un operatore non
all’altezza del compito, un capo reparto non all’altezza del compito, una capo casa
non all’altezza del compito, questo poi alla fine si scontra con l’immagine e con la
qualità del servizio» (8:40).
La necessità di definire quella che è la responsabilità di ciascuno rientra a pieno titolo nel
discorso etico, laddove pensiamo all’etica come un sistema che rende sostenibile per il
singolo e la società il sentimento di umana compassione per l’altro58.
Un’istanza che ho ritrovato anche in altre interviste, per quanto non sempre l’attribuzione
chiara e definita delle responsabilità riesce a dirimere tutti i dilemmi etici, perché se
l’altro non si assume la sua di responsabilità, il dilemma rimane in qualche modo aperto.
58
Cfr. Bauman Z., L’etica in un mondo di consumatori, cit., p. 48.
276
«Sì, se la situazione non si risolveva, io dal punto di vista meramente teorico potevo
lasciare lì questo anziano che, devo dirti, non era neanche una persona che suscitava
compassione, per una storia di alcolismo, di vita dissoluta… da questo punto di
vista avrei quindi potuto lasciarlo lì. Però comunque sarebbe stata una scelta
sbagliata. Cioè io volevo che ci fosse una presa in carico da parte dell’autorità
competente, perché secondo me professionalità vuol dire che ciascuno si assume le
sue responsabilità. […] Il fatto è che comunque ti senti responsabile della presa in
carico dell’ospite. Non puoi agire il bluff di lasciarlo lì. Ma lo lascio lì, dove?»
(6:13).
I dilemmi morali sono dei conflitti etici interni alla persona; tuttavia si possono ritrovare
spesso, nel corso della pratica professionale, situazioni in cui vi è anche un conflitto etico
tra persone diverse. In ultima analisi, è la diversità delle persone, dei loro sistemi
valoriali, ma anche semplicemente dei loro punti di vista, ad originare situazioni di
contrapposizione conflittuale.
«Sì, e non solo una volta, perché logicamente quando si assume un certo incarico, si
cresce nella gerarchia aziendale, situazioni di questo genere capitano per forza di
cose, perché poi l’interesse che hai tu o anche la visione che hai tu è parziale e non è
magari una visione appunto complessiva o comunque altri hanno una visione
diversa… è un momento sempre molto difficile…» (2:19).
Non di rado i conflitti che si creano nel contesto lavorativo possono essere vissuti con
grande sofferenza personale e generare interrogativi di natura etica su ciò che è giusto
fare, sull’utilità della scelta, ma anche sul senso del proprio agire.
«Io ho avuto qui una guerra sindacale che mi è stata fatta nel 2006 in maniera
pretestuosa, a mio avviso, che alla fine si è risolta se vuoi senza grandi vincitori e
vinti, anche perché la vittoria strappata dal sindacato era forse ciò che io stesso
avevo già acconsentito, però questo mi ha fato star male, mi ha fatto vivere male, mi
ha fatto soprattutto avere dei momenti di tensione notevoli, sui quali – per come mi
sono mosso – ritenevo e riterrei ancora di aver agito correttamente e che però hanno
creato momenti di crisi, perché hanno generato tensioni, hanno generato momenti di
grossa difficoltà nell’approccio stesso… Tu vedevi che nell’incontrarti con alcune
di queste persone non c’era serenità e soprattutto c’era tensione che si poteva
palpare. Questo a me è dispiaciuto perché ne ha risentito il sistema,
l’organizzazione, anche se abbiamo cercato di preservarla. Io credo che gli anziani,
cioè i destinatari del servizio, abbiano avvertito in maniera assai relativa questo
277
stato di tensione, però c’è stato, c’è stato e mi ha fatto soffrire non poco e mi ha
fatto vivere questo dilemma anche dal punto di vista etico, perché alla fine qual era
il bene comune da salvaguardare? Era quello che andava in una direzione o
nell’altra? E il cedere in un senso o nell’altro era di maggiore o minore vantaggio?
Queste sono state situazioni pesanti vissute» (3:57).
Molti dei conflitti che si generano all’interno dell’organizzazione muovono da “interessi”
contrapposti e/o da un diverso sistema di valori. Una cosa assolutamente normale, ma che
può a volte però degenerare, perché non c’è la capacità di gestire il conflitto in maniera
corretta.
«…si perché non abbiamo la stessa scala di valori, come ho più volte detto, anche
perché gli interessi sono contrapposti……. e spesso sono difesi con metodi non
corretti…» (9:39).
L’ipotesi delineata nel corso delle interviste è che esisterebbe, all’interno delle
organizzazioni, una normale dialettica, anche accesa, tra le diverse componenti, e questo
sarebbe fisiologico. Il conflitto vero e proprio esploderebbe per il comportamento o
l’atteggiamento più o meno deliberato della singola persona, che eccede nei toni, che
trasforma il confronto in scontro.
«Io non ho ricordi di conflitti nati a prescindere dalla persona. Io ho ricordi di
conflitti maturati in una logica di contrapposizione: direzione invece che lavoratori
o cose del genere. Ma sempre erano alimentati, mediati, incentivati poi da stili
individuali di persone. Quindi, di per sé, l’appartenere a diverse categorie innesca il
conflitto solo se le persone, se gli stili dei soggetti debordano. Voglio dire, a meno
che uno non abbia dei pregiudizi così forti per cui uno, perché ha i capelli… non è
meritevole del mio ascolto… ma nella mia esperienza non ho mai percepito conflitti
solo perché si faceva parte di categorie ben precise. Eh... alla fine se c’erano
conflitti, venivano sempre alimentati dal contributo che dava il singolo. Eh... sì, o
forse sono stato così ingenuo a non vederli nella loro nella dimensione…» (10:20).
La dialettica interna che anima l’organizzazione può discendere da etiche professionali
differenti, pur essendo queste ispirate a medesimi principi. Per esempio, direttore e
coordinatori, pur occupandosi tutti di servizi alla persona, possono avere delle posizioni
differenti, delle prospettive di analisi differenti, dei principi morali differenti, così come
avviene nel caso del giudice e dell’avvocato, professioni che si occupano entrambe di
278
giustizia, ma che non presuppongono – com’è stato detto – le stesse specifiche
competenze etiche. 59
«A volte mi sono trovata a scontrarmi pesantemente con i miei coordinatori su
scelte che riguardavano, ad esempio, la contenzione, perché naturalmente nel
contenere la persona subentra molto la paura di chi assiste e quindi è in contatto
diretto… per tutelare la persona… e quindi si lega la persona, perché si ha paura che
cada e si faccia male. Arrivando a volte a delle modalità che sono inaccettabili per
me…» (1:53).
Lo “scontro” può a volte anche vedere contrapposti manager e consigli di
amministrazione, tra cui può non esserci sempre perfetto allineamento sui principi o su
come quegli stessi principi debbano declinarsi nelle scelte gestionali dell’ente.
«... e poi anche con il Consiglio di Amministrazione, quando tu hai fatto delle
proposte in relazione alle rette per cui eticamente credi sia corretto agire in questi
termini… e poi sentirti dire di no, è vissuto anche male, perché vuol dire ridurre o
riconsiderare certi principi…» (3:60).
Il conflitto può anche travalicare i confini dell’organizzazione e interessare due diverse
istituzioni e il modo peculiare di intendere e di perseguire il “pubblico bene”, che
ciascuna può avere.
«… Avevamo degli SVP, cioè degli stati vegetativi permanenti. Una cosa toccante è
stata una ragazza di 42-43 anni che era una vittima del 118, cioè salvata dopo 45
minuti di… in stato vegetativo… con la figlia adolescente, senza marito, coi
genitori, uno di questi malato di tumore… e questi che contavano sempre in un
futuro risveglio… questo ti scatena molte cose… lì c’era un grosso dilemma, perché
in tutte le ULSS lo stato vegetativo permanente è riconosciuto fino al suo exitus. Lì
era solo per un anno, rivedibile… il loro intento era dire: “Dopo un anno passa in
una struttura per non autosufficienti”. Naturalmente negli stati vegetativi hai un
corrispettivo più alto, ma hai anche un investimento in termini di tempo e di azione
sull’ospite che è veramente più alto. Ed era già capitato un paio di volte che gli
ospiti di un SVP, dopo l’anno, erano stati fatti transitare nella graduatoria per non
autosufficienti ed erano stati ricoverati nella RSA al piano di sopra, dove erano
quelli fissi, perché la famiglia comunque gradiva che rimanessero là, ma c’era un
sovraccarico di lavoro in quel reparto, perché potevi decidere o di dare meno servizi
a tutti gli altri ospiti o dare meno servizi a questo, la cui famiglia però era stata
59
Da Re A., Il professionista tra deontologia ed etica, cit., p. 427.
279
abituata per un anno a ricevere quel tipo di servizio… oppure, cosa? Chiedere un
corrispettivo in più? Purtroppo io sono andato via e non so come si siano evolute le
cose, perché io mi sono battuto molto, perché non volevo che l’ospite venisse
espulso dal suo status di SVP, perché per vari motivi abbisognava di parecchie ore
di assistenza che io potevo dare in quel reparto, perché mi davano più soldi di
contributo e io potevo mettere più ore di personale. Di sopra, o tagliavo servizi agli
altri o riducevo i servizi per questa ospite… ma non sono arrivato a risolvere il
dilemma perché quando sono andato via l’ULSS aveva comunque prorogato la
SVP, ma io avevo comunque fatto delle mosse, diciamo secondarie, perché
arrivasse alla direzione generale dell’ULSS questo problema. Non so come si sia
evoluta la questione, perché quando esco, esco… però sarebbe stata una cosa che
sarebbe stata pesante, perché effettivamente dopo un anno che una persona è seguita
in un certa maniera… mi sarei dovuto scontrare con la famiglia, ma mi sarei
scontrato malvolentieri, perché secondo me l’aspetto problematico era l’ULSS, che
è famosa per essere sempre a pareggio o addirittura in avanzo, ma bisogna poi
vedere come si raggiunge questo avanzo. Anche con azioni positive, per carità,
perché curano molto la territorialità, ma anche con scelte anche drastiche» (6:35).
Le diversità possono avere anche una base culturale: il confronto tra persone che sono
portatrici di identità culturali e religiose differenti può effettivamente far sorgere dei
conflitti all’interno del contesto lavorativo, che non sono sempre facili da dirimere.
In questo confronto ci sono effettivamente degli aspetti su cui è possibile trovare
un’intesa, un accomodamento, e altri che non sono mediabili, perché si riferiscono a
principi e valori non “negoziabili”.
«Un anno fa avevamo un dipendente egiziano, extracomunitario… alla fine
abbiamo scoperto che era un responsabile religioso della sua comunità. Quindi noi
avevamo notato che – i gruppi sono quasi tutti femminili, lui era un uomo –aveva
delle difficoltà a lavorare con delle donne e alla fine, dopo una serie di episodi
successivi, sempre più gravi, lui è andato fuori dai gangheri e ha quasi picchiato una
collega. Chiaramente nel momento in cui ho dovuto fare il colloquio con lui, lui mi
ha messo di fronte tutta una serie di problematiche legate alla sua religione e ai
rapporti con le donne e a quel punto là, non so se lei lo vuole considerare un
dilemma etico, per me lo è stato, ho dovuto dire: “Guarda, io rispetto la tua
religione, però in questo momento, in questo tipo di lavoro, tu devi stare alle regole
che ci sono e quindi devi comportarti in un certo modo”. Poi è finita che lui si è
280
licenziato. Però, dal mio punto di vista, non era tollerabile quel tipo di
comportamento» (1:55).
«Sì, noi abbiamo avuto problemi con stranieri. Avendo 50 posti temporanei per
dimissioni ospedaliere e quando ci arrivavano africani era un po’ difficile per
abitudini della famiglia anche pesanti. Adesso io ricordo un africano che era morto
lì da noi con tutti i parenti in corsia che gridavano, perché faceva parte del loro rito
e fecero la richiesta che stesse in camera mortuaria per una settimana, perché era
previsto… Da un lato dici: “Tra un po’ dovremo attrezzarci anche per queste cose”.
Dall’altro intervieni più facilmente, perché hai lo schermo di dire: “Ma guardate,
per noi questa è l’usanza”. Gli devi far capire che sei comunque più forte… il
servizio è più forte… e poi è un problema igienico…» (6:29).
Non basta la diversità ad innescare il conflitto. Ad esempio le diversità che ci possono
essere tra il direttore e gli anziani ospiti – che credo non siano poche – non generano
particolari conflittualità, probabilmente perché ci si pone su un piano diverso, di
maggiore tolleranza.
«… con gli anziani non ho mai avuto problemi in senso stretto, nel senso che… chi
è anziano ha ragione per definizione, insomma , noi siamo al loro servizio e
dobbiamo metterci nei loro panni…» (12:32).
Anziani che conservano – e a volte acuiscono – i propri modi di pensare, le proprie
chiusure e i propri pregiudizi, che però vengono accettati di buon grado, quasi con
tenerezza.
«Nella realtà della casa di riposo… penso, non dico a conflitti, però ad
atteggiamenti ostili tra ospiti. Eh, è un po’ curioso (sorride), ma è così. Io penso a
come certe persone nate e vissute all’interno del centro storico della città non
riuscivano serenamente a parlare con quelli della campagna, con quelli che erano da
fuori delle mura e la cosa impensabile però è che c’erano alcune persone che con i
campagnoli, quelli che abitavano fuori dalle mura non volevano avere a che fare.
Vabbé, erano persone di una certa età, quindi nati con pregiudizi, con modelli
culturali dove c’erano gli eletti e i meno eletti» (10:21).
I conflitti si innescano invece più frequentemente con i familiari degli ospiti, che tendono
spesso a ingerire su aspetti della cura dell’anziano, di competenza della struttura.
281
«A volte il problema è il familiare, perché a volte ha delle idee e deve a volte anche
lui conformarsi a quelle che sono le decisioni dell’unità operativa interna, di questa
equipe che decide di queste cose. Nel momento in cui non è d’accordo, deve
prendere in considerazione che la persona è in gestione alla struttura e quindi è la
struttura che risponde e lui non può decidere» (1:69).
Si tratta propriamente di conflitti valoriali, avendo i familiari delle concezioni differenti
da quelle della struttura in merito al benessere e alla cura migliore per il proprio
congiunto. A volte, però, dietro a questi conflitti con la struttura, si può nascondere un
malessere più profondo: il ricovero del proprio anziano in istituto viene spesso vissuto
con difficoltà e persino con sensi di colpa. Il familiare va quindi aiutato a capire che cosa
è meglio per l’anziano e talvolta anche accompagnato nel percorso di accettazione
dell’ineluttabile esito di un processo che è già in atto.
«Mah, era che per la famiglia sono importanti certe cose marginali, mentre per lo
staff è importante tutt’altro. Per la famiglia è importante che l’ospite sia sempre
alzato, quando invece sarebbe meglio che certe giornate stesse a letto… Lì gli
scontri sono su una diversa interpretazione dei bisogni dell’ospite, specialmente
dell’ospite che non si riesce ad esprimere. E lì la famiglia ritiene che certe cose
siano valori fondamentali, quando invece sono stupidaggini, facendo un’analisi
professionale. E non si riesce a volte a trasmettere certe cose. È una cosa difficile,
perché se uno viene un’ora al giorno… poi c’è questa cosa del senso di colpa… se
tu vieni un’ora al giorno a trovare il tuo anziano, lo vuoi trovare tutto bello, lavato,
pettinato, pimpante, per modo di dire… se lo trovi perso per qualsiasi motivo, puoi
scatenare il finimondo... Ma per i sensi di colpa che hai tu» (6:32).
«… rispetto al percorso finale o comunque rispetto a scelte importanti, come
mettere una peg o quant’altro... Anche su questo della peg abbiamo avuto degli
scontri… perché per l’ospite può essere una liberazione da grossi fastidi, ma la
famiglia pensa: “Con la peg diventa irreversibile la sua non autosufficienza…”.
Perché non capisce, perché non vuole vedere l’evidenza, che è quella la strada…»
(6:34).
Un’altra problematica sulla quale mi sono soffermato nel corso delle interviste è quella
del conflitto tra etica e legge, cioè quel contrasto che si può non infrequentemente
rinvenire tra il sistema personale dei principi e delle norme etiche dell’individuo e il
sistema giuridico della società a cui l’individuo appartiene. Si tratta di una tensione che
282
può venirsi normalmente a creare allorquando il soggetto maturi un’etica personale
autonoma, unitamente alla capacità di esercitare anche una coscienza critica, nei
confronti non solo della moralità comune, ma anche del diritto positivo vigente
all’interno della sua stessa comunità in quel determinato momento storico.
Dalle interviste realizzate, risulterebbe comunque un sostanziale rispecchiamento tra il
sistema morale personale del manager e l’ordinamento normativo vigente, per lo meno,
com’è ovvio, relativamente ai principi basilari del rispetto dei diritti della persona.
«No, direi che i miei principi sono quelli dell’attenzione massima all’uomo e alla
persona; il primo bene in assoluto che abbiamo sono le persone. […] No,
sull’attenzione all’uomo non mi sono mai scontrato con la mia coscienza» (8:44).
Anche allorquando si incontrassero delle norme che potrebbero sembrare di estrema
severità, si può infatti sempre trovare il modo, pure rimanendo all’interno
dell’ordinamento giuridico, di stemperarne gli effetti più duri.
La norma, infatti, può essere interpretata in maniera più o meno estensiva, in modo da
avvicinarla maggiormente al contesto in cui la si deve calare.
«Noi eroghiamo un servizio a fronte di una retta; quando non vi fossero più i mezzi
o non vi fosse più l’intenzione da parte degli obbligati di pagare la retta per il
parente, in teoria dovremmo prendere una persona anziana, fragile, ammalata, con
gravi problemi di salute e fare che cosa? Non so neanche io, forse metterla per
strada… Tutto questo in teoria. Evidentemente vale sempre quel principio di… non
so la definirei proporzionalità dell’azione, per cui in nessuno di questi casi mai
l’Ipab fa una cosa di questo genere, né io lo permetterei in ogni caso,
indipendentemente poi anche dall’interpretazione letterale delle regole, che le
regole non sono così “spietate” come sembrano» (7:31).
«Diciamo che nel momento in cui mi si è posto questo dilemma… sì la legge non è
matematica e quindi si riesce secondo me a trovare il modo per… interpretarla»
(1:61).
La critica che si rivolge ad alcune delle norme giuridiche non è tanto il fatto di essere
ingiuste, quanto piuttosto di essere irrazionali e spesso di imporre inutili adempimenti,
che si traducono in maggiori costi per gli enti.
Le norme che reggono la Pubblica Amministrazione, in particolare, impongono
determinati obblighi, determinate procedure, determinati formalismi, che si dimostrano al
lato pratico poco efficienti e poco efficaci.
283
«Di certe norme ti domandi a chi o a cosa servono, qual è la finalità…» (5:68).
«Ci sono norme così astruse a volte, che ti dà fastidio dover fare alcune cose, perché
ti rendi conto che spendi tanti soldi, che poi vanno sempre a carico dell’utente
debole, e che magari sono interventi che non hanno grande importanza e che si
potrebbero evitare, ma queste sono incongruenze del piccolo, del peccato… del
famoso peccato originale…» (8:44).
«Poi ho vissuto male gli esiti di certi concorsi, male perché a mio avviso io li ho
condotti correttamente, come la norma richiede, e quindi trasparenti – non bisogna
dimenticare che questo è un ente pubblico – ma poi non ho avuto le risposte che mi
sarei aspettato, cioè le persone che hanno vinto, alla resa dei conti e nel concreto,
non hanno manifestato questo tipo di approccio veramente e sino in fondo
professionale…» (3:59).
Il manager è costretto a misurarsi ogni giorno con un sistema normativo che si fa sempre
più complesso e stringente e che rischia di “ingessare” la Pubblica Amministrazione.
«Sì, spessissimo, come penso tutti i dirigenti pubblici, si maneggia ’sto limite fra la
rigidità del diritto, della norma, e l’esigenza di movimento, che è molto tipica dei
servizi alla persona. Perché è chiaro che se io compro degli arredi, probabilmente
non sorge tanto il conflitto, ma è nei servizi alla persona, dove io nella mia
esperienza qualcosina in là sono andato per garantire i servizi…» (11:50).
«In tutta onestà – però usa bene questo – io ho cercato di fronte a certi vincoli della
norma, di capire come meglio calarla. Caso concreto: la norma ci dice che tu non
puoi fare appalti cosiddetti “frazionati” per eludere la norma… se tu hai una gara
europea devi farla così… allora, di fronte a quelli che erano gli impegni, per dirti, il
rifacimento della cucina: gara europea… mi sono attenuto… Di fronte ad altri
interventi, che se vuoi potevano rientrare in una loro certa dimensione complessiva,
ho cercato di capire qual era il modo migliore di operare dell’ente, per cui senza
frazionare in maniera artefatta – ma qualcuno potrebbe interpretarla così – ho
distinto progetti di minima che ci consentissero di poter operare, perché tu potevi
farlo attraverso l’albo delle ditte che ti eri formato, scegliendone 5, perché l’importo
fino a 500 mila euro te lo consente, però uno poteva anche dirti: “Se l’intervento
complessivo è di un milione e mezzo, lo fai per lotti… fai una gara unica”. Su
questo, per dirti ho bypassato, non per eludere ma per meglio corrispondere rispetto
a quella che era l’esigenza del risultato… la norma bisogna interpretarla rispetto al
risultato… non violarla, ma interpretarla rispetto al risultato, questo sì» (3:63).
284
Un nodo problematico sta anche nel fatto che le norme sono molte e a volte in contrasto
fra di loro: per rispettarne una si rischia di venir meno ad un’altra. E quindi al manager si
pone la necessità di operare delle scelte, su cui pesa ovviamente anche il suo sistema
valoriale di riferimento.
«In effetti io ho cercato sempre di essere rispettoso – e tuttora lo sono – della
norma, ma credo che la norma è cogente anche se non deve essere impediente, cioè
non puoi… per dirti, io non ho mai vissuto come orpello o come vincolo negativo
aspetti che derivavano dalla norma come il blocco delle assunzioni. Io non mi sono
mai posto il problema. Perché attraverso l’interpretazione corretta, anche se un po’
ardita, io ho sempre detto che il rispettare gli standard regionali non può porti il
vincolo della norma, per cui tu devi assicurarli e quindi non ci sono patti di stabilità
o elementi che possono in maniera coercitiva farti venir meno… ecco, su questo
non mi sono mai posto il problema, nel senso che la scelta dell’operare doveva
essere al di sopra di qualsiasi altra considerazione. Dopodiché, rispetto a questo, è
anche vero che a volte ho cercato di bypassare le norme» (3:61).
Ci possono essere delle occasioni in cui questo sistema di riferimento impone di prendere
decisioni anche difficili, di aperta disubbidienza alla norma.
«Cioè, in momenti in cui venivano richiesti determinati adempimenti che erano
evidentemente sciocchi, io ho fatto anche delle azioni di disubbidienza civile, per
così dire, e mi sono autodenunciata, facendo però anche notare la stupidità del tutto.
Non mi hanno mai beccato, però uno si prende la responsabilità. […] Diciamo
comunque che l’etica per me prevale sulla legge» (1:61).
Comunque sia, la via della disubbidienza è particolarmente problematica per chi ha scelto
di fare il dirigente in una Pubblica Amministrazione e quindi, per coerenza, è obbligato a
rimanere all’interno delle “regole del gioco”, date dalle disposizioni normative
prescrittive.
«Ci sono delle norme ingiuste... ci sono ci sono delle norme che sono
incomprensibili rispetto a quello che potrebbe essere il pensiero comune o quello
che è il buon senso comune delle cose. Delle norme o delle disposizioni o delle
decisioni e quant’altro, ma nel momento in cui sei entrato nella logica della norma
devi accettarla e raramente io mi trovo a dire: “Va bene la norma non è giusta, noi
facciamo il contrario, perché…”. Cioè nel mio ruolo di direttore posso dire fino a
domani “Questa è una stupidaggine”, però non è che posso fare tanti giri di parole.
285
Al massimo inviterò un avvocato a studiare meglio la cosa. Cioè, voglio dire, una
struttura come la nostra – non perché è pubblica, ma perché alla fine ci sono tanti
aspetti che sono normati – ci obbliga ad accettare le norme, ci obbliga a seguirle, ci
obbliga ad essere ubbidienti… ecco, la parola ubbidiente è una parola che si usava
una volta… ubbidienti… è chiaro che a volte capita che ci siano situazioni
paradossali, però com’è che le affrontiamo queste situazioni paradossali? Le
affrontiamo usando gli stessi strumenti, ovvero le norme. Faccio un esempio, così
forse è più chiaro quello che sto dicendo. Noi qui abbiamo una coppia di persone,
marito e moglie... bene, questa coppia entra qua dentro finché qua dentro riescono a
vendere la loro casa, casa intestata a uno dei due coniugi. Succede che questo
coniuge titolare di questo bene sta beneficiando dell’intero valore di questo bene e
l’altro coniuge si trova nella condizione di non avere niente da questa vendita, da
questa operazione, e si trova nella condizione di dover denunciare il marito per una
decisione strana – a dir poco strana – del giudice rispetto alla situazione. Alla fine
noi abbiamo invitato uno dei due coniugi a fare un’azione legale contro l’altro
coniuge per avere quello che gli spetta. Allora non è che noi abbiamo detto a questo
punto: "Ma sì, facciamo finta di niente e tu gli passi metà o altre cose”. No,
abbiamo detto: “Visto che il giudice si è già mosso, dobbiamo usare gli stessi
strumenti”. Ci siamo messi le mani sui capelli, abbiamo sorriso per non piangere
rispetto a una situazione che troviamo illogica, però si usano gli stessi strumenti…
le regole del gioco… sì, perfetto, le regole del gioco... E noi non possiamo andare
tanto fuori dalle regole del gioco. Noi non possiamo uscire dalle regole. Da questo
punto di vista un dirigente, non può inventarsi delle cose, almeno al giorno d’oggi,
non è possibile, non è possibile. Ci sono delle cose che sono delle contraddizioni,
dei nonsenso, però non possiamo neanche inventarcele» (10:24).
Dura lex, sed lex. Talvolta può capitare che sia il manager ad incappare nei rigori del
diritto e a dover accettare quella che viene vissuta, amaramente, come un’ingiustizia della
legge o del sistema giurisdizionale che la deve applicare.
«Qualche volta abbiamo avuto dilemmi morali quando dobbiamo decidere se
denunciare o non denunciare un qualche fatto… sono cose veramente che ti
lasciano… e poi quando tu stesso sei stato denunciato… e quindi l’accettare una
denuncia, denuncia che tu ritieni impropria e ingiusta, eppure l’accetti. Oppure un
rinvio a giudizio, che è immotivato, perché hai fatto tutto quello che era nelle tue
possibilità e previsto per legge, eppure tu hai avuto una denuncia per omicidio
colposo una volta, come ho avuto un rinvio a giudizio, che poi magari è stato
286
archiviato. Cioè, anche quando ricevi queste ingiustizie ti senti, ti senti sul piano
morale impotente e ti domandi il perché di quanto è avvenuto, perché può
avvenire…» (8:61).
«Sulla legge in specifico trovi a volte ingiusto quando sei accusato… Io ho avuto
qualche denuncia come RPP, cioè come responsabile della sicurezza… “Ma lei non
le ha insegnato che non si toglie… ? Cioè, lei doveva, come datore di lavoro, come
responsabile della sicurezza, informare l’operatrice che il cestino della lavapiatti
non si toglie mai…”. “Ecco, io so che a casa mia non lo tolgo mai” […]. “Ma, sa,
lei comunque non lo ha insegnato…”. Questo è bastato per… Se poi vedevi il caso
in specie, che era un piano di lavoro alto un metro e dieci, regolamentare, lavapiatti
regolamentare, bastava mettere i piatti all’interno della lavapiatti e lei ha spostato il
cestello e si è fatta male alla schiena… Ecco, questa è stata una delle cose che
veramente mi ha profondamente offeso come persona e mi ha offeso anche
l’applicazione della norma di legge, nel senso non c’era, insomma… “Lei non le ha
insegnato questo…” […]. Lì ho sbottato, perché mi pare che sia una cosa… Queste
sono le cose assurde, ma questa è più insomma, è più l’applicazione della legge… la
famosa battuta: “Non basta aver ragione, ma bisogna trovare qualcuno che te la
dia”» (8:46).
Nel corso delle interviste sono emerse anche alcune questioni di bioetica che, sebbene
non rientranti nell’oggetto specifico della mia indagine, ritengo di inserire, non solo per
“dovere di cronaca”, a conclusione di questo paragrafo, ma perché interpellano con una
certa frequenza le figure dirigenziali Ipab.
Va detto che l’interesse per queste tematiche è riconducibile solo ad una parte degli
intervistati; si tratta in particolare dei manager che aderiscono all’Ansdipp.
L’associazione, come è già stato accennato, si è impegnata molto in questo ambito e ha
promosso dei percorsi formativi proprio su tale argomento, corrispondendo in questo ad
un precisa visione del ruolo e delle competenze che dovrebbe avere il manager sociale.
Uno dei temi emersi nelle interviste è quello dell’accanimento nutrizionale, problematica
che negli anni passati aveva attratto l’attenzione anche della cronaca a livello nazionale e
internazionale.
«Il dilemma etico per antonomasia in questo momento è quello dell’accanimento
nutrizionale, perché anche qua si sono passate varie fasi: da un momento in cui
veniva messo “a nastro” il sondino e la PEG e ci si trovava con una serie di persone
anziane in nutrizione artificiale […]. E allora diciamo che è il dilemma etico più
287
importante, perché poi con la contenzione ce la siamo anche cavata bene, in un
certo senso… Con la nutrizione artificiale si vanno a toccare anche degli interessi
forti, non so anche quelli dei medici. Perché l’ospite va in ospedale e poi torna con
il sondino senza che si sia fatta una valutazione a 360 gradi di quelli che possono
essere i benefici o i malefici o l’aspettativa di vita o la qualità di vita della persona.
Appunto da questo […] è nata la necessità di non accettarle e quindi noi abbiamo
fatto un percorso, ci siamo messi in contatto con il comitato di bioetica della nostra
ULSS, ci siamo confrontati, abbiamo cercato di costruire delle linee guida assieme
ai nostri medici e adesso si valuta con molta più cautela il caso, in cui appunto si
presenti la situazione di dover intubare una persona. Ci sono delle cose da fare,
delle accortezze da avere e soprattutto una attenzione molto maggiore alla volontà
della persona, qualunque sia la situazione normativa che in questo momento…
Bisogna sempre cercare, come dire… non di superarla… Però, sapendo che quando
hai messo un sondino non lo togli più, prima di metterlo stai attento…» (1:46).
Collegato al tema dell’accanimento nutrizionale è un altro importante argomento toccato
nelle interviste, che è la questione del fine vita.
«Per dirti, una questione che ci stiamo ponendo in maniera forte, soprattutto
nell’ultimo anno, è quella del fine vita. Cioè parlare di benessere delle persone non
può non impegnarti anche su questo versante. E lo sto avvertendo sempre di più,
perché ho visto in questi ultimi anni come ci possa essere il rischio da una parte del
cosiddetto accanimento terapeutico e dall’altra del voler comunque essere pronti a
dar risposte, quando magari risposte non ci sono. Abbiamo maturato come
associazione – ecco qua il grande pregio dell’associazione e quindi di riflesso della
mia attività – che non puoi non fare percorsi formativi anche nel campo della
bioetica e quindi anche la questione del fine vita ha un suo peso. Noi abbiamo
introdotto qui un questionario sul fine vita che in genere sottoponiamo alle persone
che vengono ad essere ospitate qui, ma anche all’hospice. Non è così semplice né da
somministrare né da gestire… però la riflessione che io sto facendo, che stiamo
facendo, è porsi il problema di quello che la persona vorrebbe per sé, come
desiderio. E quindi se valga la pena o meno di fare una peg o un sondino nasogastrico… Chiaro che quindi arrivi anche a scontrarti e anche alla necessità di
mediare con scelte cliniche, scelte che fa il medico, ma devono essere scelte che
devono essere assunte attraverso una condivisione, che se non è direttamente
rinvenibile con la persona interessata, quantomeno lo dev’essere attraverso un
rapporto con i familiari e attraverso un rapporto con l’equipe. Ecco, questa sì è una
scelta importante, che ho maturato e sto vivendo, perché ne avverto i limiti, perché
288
siamo in un’organizzazione così pronta, preparata… però questa serie di spunti,
questa discriminante rispetto ad altri momenti mi è stata possibile anche grazie al
lavoro di approfondimento che stiamo facendo con l’associazione stessa. Su queste
questioni, da una parte ti aiuta a rimetterti in discussione come manager e dall’altra
ti aiuta a chiederti cosa tu stesso vorresti per te» (3:46).
Si tratta di tematiche particolarmente attuali e importanti, che il manager sociale deve
affrontare, riconoscendovi dentro una parte di responsabilità professionale propria, ma
anche mettendosi necessariamente in dialogo con le altre figure professionali, perché in
questo ambito, più che in altri, vale molto, oltre alla capacità riflessiva del singolo, il
confronto sociale, per costruire saperi e significati condivisi.
«Poi possono esserci altri aspetti all’interno dell’ente di dilemmi etici sul piano
terapeutico a favore dell’ospite, che ho incontrato partecipando come componente
dell’Unità Operativa Interna. Però lì ho avuto la fortuna di trovare una certa
sintonia. Parlando ad esempio di bioetica, come accompagnare il morente, sono
stato fortunato a non dovermi mai scontrare con medici eccessivamente
interventisti, che sarebbe stata per me la cosa peggiore. Si è sempre cercato di
garantire, e questo perché ho avuto la fortuna di lavorare sempre con geriatri, non
solo come medico coordinatore ma come medici di struttura, e quindi di evitare
sofferenze, e quindi di accompagnare verso la fine, e quindi di evitare accanimenti
terapeutici, sempre condividendo con la famiglia. Devo dire che altri colleghi non
sono stati così fortunati, perché si sono trovati a scontri proprio con il personale
medico» (6:13).
10.3
L’etica professionale, il sé morale e la questione del senso
Mi avvio verso la conclusione del “racconto” di quanto si è andato a generare nel corso
della ricerca sul campo, tracciando un quadro di sintesi rispetto all’etica professionale del
direttore dell’Ipab. Un’etica che risulterebbe non avere una sua propria codificazione,
come neppure una sua strutturazione unitaria, componendosi – come una sorta di puzzle –
di diversi elementi.
In questo disegno, molto spazio occupa la componente dell’etica dell’ente pubblico, della
Pubblica Amministrazione, a sua volta assai composita, con le sue norme e i suoi
principi, a cui molto il nostro direttore si richiama.
289
«Diciamo che non esiste una codificazione della professione del direttore, del
dirigente sociale, diciamo che la linea etica, il rispetto della deontologia sta proprio
nell’interpretare assieme, nell’unire assieme determinati principi» (7:17).
«Devo dirle che esiste un mix, una mescolanza, una ….commistione… è brutto da
dire, ma insomma… una sintesi, ecco, una sintesi fra le varie anime, fra le necessità,
fra l’etica del pubblico ufficiale, dell’impiegato pubblico e quella del direttore di
una istituzione pubblica che ha dei fini ben precisi» (7:22).
Un’altra porzione del puzzle è composta da quella che definirei l’etica del servizio, che
deriva dall’essere, il nostro manager, inserito in una struttura che eroga servizi alla
persona e alla persona fragile e bisognosa.
«Cos’altro mi guida nel mio lavoro? Il concetto del servizio e non la logica del
potere, cioè avere sempre ben chiaro che siamo qui per essere a servizio e cioè
siamo qui per essere utili. […] Siamo qui per essere al servizio, siamo qui per essere
utili e non per esercitare logiche di potere o per soddisfare i nostri bisogni, ma per
fare ciò che serve. Questo cosa vuol dire? Vuol dire che se serve che io sia qua alle
nove di sera, perché i consigli di amministrazione si possono fare solo alle nove di
sera per “X” ragioni, se è questo quello che serve, questo è quello che si fa. […] Il
che però non vuol dire che devo annullare tutta la mia vita e che devo essere qua a
disposizione come un Cristo in croce… non è questo il concetto, ma che sono io che
sono al servizio della struttura, non che la struttura riempie i miei vuoti e i miei
buchi… […] Quello che si fa dev’essere utile. Se non è utile, non si fa… se non
serve a niente, non si fa» (5:11).
Ed infine c’è una dimensione legata alla cultura manageriale, l’etica del management, che
è fortemente orientata all’azione, al cambiamento. In base a questa etica, il manager è
spinto al miglioramento continuo dell’organizzazione e di se stesso, attraverso anche lo
sviluppo di capacità riflessive. Per cambiare egli deve infatti riuscire innanzitutto a
fermarsi e pensare, ponendosi domande di senso, del tipo: “Che cosa significa fare bene il
proprio mestiere? Bene, perché? Bene, per chi? Bene, rispetto a cosa? Bene, come?”.
«Anche i primissimi direttori della Xxxxxxx facevano bene il loro mestiere, anche
quelli che hanno creato danni a persone e a cose, molto probabilmente – anzi, quasi
certamente – senza rendersi conto di quello che facevano. Facevano bene il loro
mestiere? Sì, portavano a casa dei dividendi, portavano a casa dei bilanci in utile,
espandevano la propria attività… Però contemporaneamente inquinavano il mondo,
290
creavano problemi di salute ai propri lavoratori…Quindi far bene il proprio mestiere
è qualche cosa di più ampio del riconoscimento formale di questa capacità e delle
manifestazioni pratiche di questa cosa… Diciamo, forse, è far bene il proprio
mestiere secondo i propri convincimenti, la propria etica…» (7:43).
Nel confronto con gli intervistati si è andata anche a “coagulare” l’idea di un’etica
professionale che non si può reggere da sola, ma che trova sostegno e nutrimento nella
dimensione etica personale.
Anzi, più ancora che dall’etica della persona, il sostegno e il nutrimento sono dati
dall’identità stessa della persona.
«I direttori, i dirigenti, i capi ufficio, chiunque… è prima di tutto una persona e i
valori personali si sovrappongono a quelli dell’attività, del lavoro, ai valori
professionali» (7:45).
«Allora, non ci può essere una deontologia professionale staccata dalla tua
formazione morale, io parlo di morale che è, per me, cosa molto più profonda di
etica… non può esserci una deontologia professionale che si stacca dalla tua
personalità. La tua deontologia professionale la fai vivere o meglio la sostanzi nel
tuo essere persona, che è alla base del tuo operato prima ancora di essere un
professionista, questo è il grande, è il grande punto…» (8:55).
Il discorso si sposta, quindi, dal pensiero morale alla persona che pensa questo pensiero,
al sé morale. È la persona, con la sua identità, con la sua storia, che dà unità a questo
insieme di elementi, a questi importanti frammenti che compongono il discorso etico.
L’etica trova un senso ed uno sviluppo in quello che sei stato e sei.
«Io poi sono uno di quelli che non ho abbandonato il paese di origine dove vado
tutte le sere a dormire, nel quale tutti i giorni comunque mi confronto e poi quando
torno nel paese dove abito non sono il “direttore”, ma sono XXX YYY, ecco. Molti
mi chiamano professore, addirittura, per dire qual è il rapporto. Quando arrivi a
casa, l’ambito del direttore lo lasci e ti confronti con la tua realtà di tutti i giorni, coi
vicini di quartiere che quindi conosci da 40 anni, col tuo amico di scuola
elementare, che quando ti trova ti dà del lei e gli dici: “Ma monega, dammi del ti”.
E lui dice: “Ma no, hai fatto strada…”. Tutte le cose prendono forse la giusta
dimensione. Allora, io ho detto questo, perché? Perché il tuo vissuto antropologico
di origine e di base e quotidiano ti dà la dimensione di chi sei e di che persona sei e
dei valori nei quali tu ti immergi e ti rifletti ogni giorno» (8:55).
291
Ma l’etica trova linfa anche e soprattutto in quella che è l’idea di sé, cioè in quello che
vuoi essere, in quello che vuoi diventare. Un’idea di sé che è diventata anch’essa adulta e
che quindi si misura con l’analisi di realtà, con la consapevolezza del limite, ma che
rimane comunque un motore importante per il cambiamento.
Essere realmente se stessi significa anche sviluppare una coscienza critica nei confronti
dei modelli culturali imperanti nel nostro stesso tempo storico, i quali possono agire un
condizionamento sul nostro modo di essere.
«Io ho sempre avuto la convinzione non che dovevo cambiare il mondo, ma che
dovevo lasciare il mio segno. Di lasciare un segno, fare la mia piccola parte per
cambiare il mondo. Cresciamo, abbiamo questa grande idealità, quando sei
adolescente, di dire: “Io cambierò il mondo… quando sarò grande io…”. E poi ti
scontri con la realtà e ti ritrovi che questi grandi ideali poi tradotti nella
concretezza…» (5:69).
«Diciamo che un direttore, per quella che è la mia esperienza, si trova a fare una
serie di ragionamenti nella sua testa, rispetto a problematiche etiche che gli derivano
da modalità di pensiero o di visione della vita e del mondo che ci sono nella
società… Io ho lavorato sempre nell’ambito anziani, quindi, se nostro modello
culturale è quello di essere Xxxxxx, “figo” e bello fino a ottant’anni, che si fa i
lifting… è chiaro che il mio pensiero non sarà quello di dire: “Ma io quando sarò
vecchio vorrei che ci fosse qualcuno che mi garantisse alcune cose e che soprattutto
potesse anche recepire tutta una serie di aspetti positivi della mia esperienza di vita
o comunque di quello che io posso ancora dare”. Perché sono funzionale alla società
solo finché funziono io e quindi lavoro, prendo molti soldi e quant’altro…» (4:23).
Essere se stessi significa anche superare se stessi, riuscire a trascendere la datità della
propria storia, dell’ambiente da cui si proviene. Quello che dovrebbe fare il manager per
svolgere bene il suo lavoro è travalicare i confini della sua storia personale o almeno
riuscire a guardare un po’ oltre.
Il monito socratico “Conosci te stesso”, che è alla base di qualsiasi discorso etico, va
quindi inteso non semplicemente come invito a conoscere chi siamo ora, ma anche chi
potremmo essere, chi vogliamo diventare, a chi desideriamo assomigliare. Noi siamo,
infatti, anche i nostri progetti, i nostri ideali e i nostri sogni.
292
L’agire morale non corrisponde ad un ossequio alle norme della società, ma è la risposta
all’istanza di essere fedeli a se stessi, di non tradire se stessi. Una risposta che esige
impegno e dedizione.
«Io sono uno di quelli che conosce quanto costa un litro di latte e un chilo di pane.
Io so come vive la gente che prende 1.100 euro al mese e so come vive la gente che
prende 10 o 20 o 30.000 euro al mese, perché frequento anche questi ambienti.
Però, sia nel primo caso che nel secondo, non si può essere bloccati in quella
dimensione e basta, perché sei bloccato… non puoi pensare di vivere solo quella
dimensione, ma devi saper cogliere come dicevo prima, quello che effettivamente la
comunità ti chiede. E allora, deontologicamente, puoi agire quelle iniziative, quegli
atteggiamenti, quei comportamenti, quelle sensibilità, che ti permettono – mettendo
insieme queste varie componenti – di dare una risposta al tuo essere direttore, al tuo
essere manager in questa struttura…» (8:55).
«Il fatto di credere a quello che stai facendo e soprattutto una forte motivazione.
Che sono i valori che ti ritrovi a vivere all’interno del tuo percorso di vita. Per cui
non puoi pensare di poter venire meno, credo, rispetto a questi valori che ti guidano.
Una grande passione che ti fa andare oltre alla questione del tempo, dei limiti che
potresti ritrovare…» (3:24).
Questo sé morale ci viene in qualche misura dato.
In questo chiaramente confluiscono gli apporti formativi: gli incontri fatti, le esperienze
vissute, gli insegnamenti ricevuti. Un ruolo importante nella formazione di questo sé è
svolto, ad esempio, dalla religione o comunque dall’educazione ad una dimensione
spirituale dell’esistenza umana.
«… a me viene naturale, tra l’altro, non è che devo sforzarmi, perché io sono fatto
così, quindi non è che…» (11:31).
«È la storia della mia vita… sono sempre stato impegnato sul versante sociale ed
interessato marginalmente all’aspetto economico, all’aspetto economico personale,
intendo dire…» (12:12).
«Mah io vengo dal mondo cattolico… io vengo dall’azione cattolica, perché sono
stato poi a suo tempo – ero ancora molto giovane – vicepresidente diocesano, già
quando avevo 27 anni. Quindi io vengo da quel mondo, dal mondo dell’azione
cattolica, dal mondo cattolico. Sono cattolico tuttora praticante. lo dico sempre
anche qua dentro, il mio impegno è quello di servire la persona in stato di difficoltà
293
di poterle dare il massimo, quanto è possibile dare con i mezzi che abbiamo a
disposizione. Direi che il mio impegno, la mia motivazione, sono motivazioni della
formazione culturale insomma ecco, del mondo cattolico…» (8:7).
Il sé morale viene anche in qualche misura costruito, nel corso della propria vita,
attraverso l’iniziativa personale, l’impegno a coltivare, ad alimentare questo sé.
È la vita stessa che ti insegna a vivere, che ti offre lezioni importanti – se le sai cogliere –
non solo per imparare come fare il manager, ma anche per acquisire umanità, per sapere
ad esempio come porsi di fronte alla sofferenza e al dolore degli altri.
«Ah, sì, io ho una deformazione genetica di mio su questo, nel senso che l’ambito
sociale è da sempre stato il mio interesse, a prescindere dal lavoro. Fuori dal lavoro
continuo diciamo a impegnarmi socialmente su altre questioni che riguardano i
bambini, gli affidi. Io stesso insomma sono all’interno di processi di questo tipo… E
quindi c’è un elemento insomma, dico genetico, ma in realtà non è propriamente
genetico, ma insomma questo è il mio elemento. Però va alimentato e irrobustito.
Come? Attraverso le letture, io l’ultima lettura che sto facendo… [mostra un libro
che tiene nel cassetto: Il Manager Etico]» (12:6).
«Noi abbiamo 160 persone che muoiono ogni anno qui da noi. Il tema della morte è
un tema forse, anche da un punto di vista etico… che pone una serie di questioni. Ti
pone interrogativi sulla vita, sul senso delle cose… e devo dire che da questo punto
di vista ho partecipato direttamente a processi di formazione che hanno contribuito
a cambiarmi come persona, cioè ad aggiungere competenze etiche. Una volta
dicevo: “Muore una persona e non telefono per non disturbare”. Era solo una difesa
mia. Oggi muore una persona vicina, diciamo, e telefono immediatamente. Ma
questo è determinato da un percorso che fai. Quindi, mi viene da pensare che alcune
combinazioni nella nostra crescita ci abbiano portati a interiorizzare valori ed etica,
assumendoli dai contesti che abbiamo frequentato in giovane età. Però poi la
coltivi… e la coltivi leggendo, approfondendo, sperimentando, vivendo, mettendoti
in gioco, insomma…» (12:8).
Ci sono situazioni che più di altre ti sollecitano a metterti in gioco. Ci sono eventi che ti
interpellano prepotentemente, ti inducono a porti degli interrogativi. Interrogativi che
riguardano a volte il senso della vita: questioni di senso ineludibili.
294
La postura etica consiste proprio nel porsi domande di senso, chiedersi cosa ci stia dietro
il nostro fare, a cosa debba tendere il nostro agire. Ci invita ad alzare lo sguardo da ciò
che è l’operatività, per rammentarci di ciò che ci motiva ad agire.
«… è importante questo, soprattutto quando ti ritrovi di fronte a questioni che
riguardano persone che stanno morendo. Non bisogna scordare d’altro canto il
destino che ciascuno di noi ha e quindi dovrebbe coinvolgerlo anche rispetto a se
stesso. Ma non tanto per essere macabri, quanto piuttosto per dire: “Cosa sto
facendo della mia vita?”» (3:48).
«Per me il tema dei principi e dei valori è un tema irrinunciabile, irrinunciabile. E
l’etica, di conseguenza, è un tema irrinunciabile, cioè vitale. Quando andiamo a
parlare alle conferenze, ma anche alle riunioni, veleggia sempre l’ideale, veleggia
sempre il principio. Io non finisco mai una riunione se non ricordo a me stesso e
agli altri perché siamo lì, cosa ci stiamo a fare… e qual è il nostro scopo» (12:14).
«Ecco, alle volte dico: “Ma dove sto andando? Ma la mia qualità della vita, dove
va? Che relazioni instauro?” » (12:28).
La questione del senso non deve rimanere un discorso astratto, come se stessimo parlando
dei massimi sistemi, ma deve interpellarci su ciò che quotidianamente facciamo e del
perché lo facciamo. Ad esempio, il senso del lavoro che svolgiamo.
«È un domandone! Qual è il senso? Mi piacerebbe essere come quei personaggi che
se ne escono con la frase del secolo… Provo a dire una cosa che mi viene in
mente… Io ho una convinzione, che io troverei il senso profondo anche se andassi a
pulire scale. Nel senso che mi convincerei del fatto che potrei migliorare la vita
delle persone che passano di là, perché scale pulite e profumate dicono “Ah, la
giornata inizia meglio”» (5:69).
Credo indispensabile, per comprendere l’etica professionale dei manager sociali, tentare
di “inquadrare” la questione del senso, cercando di riflettere sulle finalità profonde di
questa professione. Del resto, un’etica che descrivesse e prescrivesse che cosa deve fare
un buon manager per essere tale, senza però spiegarne il perché, mi sembrerebbe in
qualche modo incompleta.
Il discorso sul senso dovrebbe cercare di illuminare questo aspetto, chiarendo i perché, e
quindi facendoci capire “chi o cosa ce lo fa fare” a comportarci in un certo modo, anche
se è più difficile, anche se è meno remunerativo.
295
Il senso del lavoro del manager di istituti come le Ipab è soprattutto quello di essere utili,
di creare utilità sociale, di rispondere ai bisogni delle persone anziane in difficoltà.
«Credo che il senso per me è sentire che sto dando il mio piccolo contributo perché
il mondo cambi, perché il mondo migliori, perché nel mondo si realizzino quei
valori di giustizia di cui ho detto all’inizio. E in questo ruolo ho la possibilità di
farlo» (5:69).
«Il senso… una domanda… Mah, ti posso dire che comunque io personalmente…
ma penso tutti quelli che lavorano in questo ambito, si rendono conto di dare molto
di più, proprio perché la loro azione è finalizzata non tanto ad un business, ma ad
una valenza sociale» (6:43).
L’utilità del lavoro del manager sta poi nel far scoprire anche ai collaboratori l’utilità del
loro servizio, nel promuovere anche in loro la ricerca del senso.
«Parlando dei servizi io dico sempre ai miei collaboratori, quando ci troviamo nelle
riunioni: “Ricordiamoci che al centro del nostro lavoro c’è l’ospite; se noi riusciamo
a farlo stare bene, un po’ meglio di come stava prima, noi abbiamo ottenuto un
risultato”. Io sono, non lo dico tanto per dire, io son convinta che il lavoro sia di
base sostanzialmente questo…» (2:30).
Il manager si sente utile perché offre ai propri collaboratori occasioni di crescita, non
soltanto professionale, ma anche umana.
Si sente utile perché contribuisce a migliorare gli ambienti organizzativi in cui è chiamato
ad operare.
Utile perché contribuisce anche a modificare la percezione negativa che spesso
accompagna, nell’immaginario collettivo, queste istituzioni assistenziali.
«Il senso profondo di questo lavoro è il fare qualcosa per gli altri e il dare messaggi
positivi in termini di rispetto della persona, che possano far crescere gli operatori,
non solo in ambito organizzativo, ma anche nell’ambito umano. Cioè quando io
vedo, ad esempio, che all’interno di un gruppo di lavoro migliora il clima
organizzativo, ma migliora anche la percezione di dove vogliamo andare insieme,
per dare qualità alle persone anziane che sono qui dentro, questo secondo me è un
valore etico… il fatto di aver saputo trasmettere qualche cosa a cui io credo… ed
essere riuscita a farla “passare” ad altre persone» (4:29).
296
«Mi piace pensarmi come strumento che produce relazioni positive, che permette la
creazione di relazioni positive» (12:28).
«Eh... io sarei contento se alla fine dicessero che il mio lavoro ha contribuito a
rendere più interessante, più appetibile, più riconoscibile, più bella l’immagine,
l’idea che si ha di una casa di riposo. Cioè farla “passare”, eh. Far sì che questa
struttura, ma la struttura in generale della casa di riposo, come dire, riuscisse a fare
un passo in avanti nell’immaginario delle persone. Perché? Perché sono convinto
che noi come direttori, come responsabili, dobbiamo lavorare anche su sul
contenitore, dobbiamo far sì che la persona pensi in termini positivi e non riduttivi
alla casa di riposo» (10:27).
Il senso del lavoro del manager sta anche nel piacere di lavorare, nella gratificazione che
egli ricava dal fare ciò che fa.
«Mah, guarda, il senso del lavoro io penso che in primo luogo è che lo fai,
nonostante tutto. Nonostante le difficoltà che comunque incontri in questo lavoro.
Perché all’inizio sembra tutto bello, no? Dopo si capiscono le responsabilità che ti
piovono addosso col tempo. Comunque il senso del lavoro è che a tutt’oggi piace, ti
gratifica, quindi è un lavoro che ti dà ancora soddisfazioni…» (11:68).
Il piacere del lavoro, così come il senso, va però ricercato, non si rivela immediatamente.
«Si, bisogna anche un po’ trovarselo, perché se dopo uno pensa magari solo ai
problemi, con tutte le cose, coi sindacati, col Consiglio di Amministrazione, dove
magari devi mediare o ti tocca subire certe cose… Cioè, hai tanti momenti di stress,
no? […] Quindi hai tante situazioni in cui… che se vai a casa solo con quelle, non
lo fai ’sto lavoro. Cioè, è una cosa un po’ da kamikaze, farlo, se uno vede solo
questo. Se dopo invece trova soddisfazione, perché il tuo lavoro comunque si
tramuta in benessere di vita di qualcun altro, perché comunque hai creato delle
condizioni organizzative in cui l’ospite sta meglio, senti anche la gratificazione di
questo lavoro. Se apro un reparto e vedo la gente che ha più comfort di prima…
Ecco, quelle sono soddisfazioni… Se vedi che il personale è contento…» (11:68).
Il piacere del lavoro del direttore sta nella possibilità di realizzare qualcosa, in cui egli si
può riconoscere e che può essere anche riconosciuto dagli altri. Un’opportunità che non
tutte le professioni offrono e di cui egli sembra essere piacevolmente consapevole.
«Difatti, qualcuno, tipo mia moglie, mi dice: “Vedi, nel rapporto che abbiamo
ciascuno con il proprio lavoro, tu fai comunque qualcosa che ti piace o quantomeno,
297
anche non dovesse piacerti, lo vedi finalizzato. Io, viceversa, sto facendo un lavoro
meccanico, ripetitivo, irrituale per certi aspetti, anche se è nel rito, e che non trova
riscontro in termini di soddisfazione, perché nessuno è nelle condizioni di
potermelo venire a dire”. Non ha tutti i torti, in effetti…» (3:121).
10.4
Cinque storie sul manager sociale e la sua dimensione etica
In quest’ultimo paragrafo darò particolare spazio alla narrazione degli stessi manager.
Nel corso dell’indagine ho infatti raccolto 23 episodi emblematici, cioè 23 storie – alcune
molto brevi, altre lunghe ed articolate – che raccontano delle vicende di cui i manager
intervistati sono stati protagonisti sociali. Di questi racconti ritengo opportuno riportarne
alcuni tra i più significativi, quelli cioè che più inquadrano la figura del manager sociale,
la sua dimensione etica e il processo di apprendimento esperienziale.
In queste storie si potranno riconoscere molti dei riferimenti che ho cercato di
rappresentare, in modo il più possibile organico, nelle pagine che precedono.
Il primo racconto affronta il tema della contenzione farmacologica e del conflitto che a
volte si può ingenerare, all’interno della stessa struttura, tra due approcci che hanno
dietro di sé non solamente valutazioni di tipo clinico, ma delle impostazioni etiche e
anche delle concezioni della persona contrapposte.
«Una situazione che aveva dei risvolti etici e che mi è girata dentro in termini
emotivi per lungo tempo è stato il fatto che un medico di base, che operava
all’interno della struttura dove lavoravo prima, ha legato una persona
autosufficiente. Le spiego bene. Questa persona era praticamente valutata un
“profilo uno”, quindi completamente autosufficiente, ma con una diagnosi
psichiatrica, che lui praticamente s’è portato dietro per tutta la sua vita. Un soggetto
molto complesso, nella sua unicità, e caratterialmente molto particolare, che era
entrato in casa di riposo con la moglie; li abbiamo accolti tutti e due. Lei un
“Alzheimer conclamato”, lui una persona autosufficiente… Molto credente… L’ho
visto assistere ad alcune messe sempre in ginocchio sul pavimento di marmo…
Lettore della Bibbia e del Vangelo, il quale ovviamente all’ingresso in struttura ha
iniziato a portare tutta una serie di sue problematiche, rispetto alla vita comunitaria.
Ad esempio: “Io non voglio che un maschio vada a cambiare mia moglie; non
voglio che un maschio vada in bagno con mia moglie; sono solo io che posso
toccare mia moglie; devo vedere quando le fate il bagno…”. Nel momento in cui
298
l’equipe cercava di mediare rispetto al fatto che purtroppo delle notti c’era anche
l’operatore maschio, perché in altro modo non si poteva fare, lui aveva delle crisi di
ansia, si buttava per terra, iniziava ad avere la bava alla bocca, si metteva ad
urlare… una volta ha dato una bastonata ad un’infermiera… ma erano crisi che noi
abbiamo valutato, insieme ai medici… legate a questa patologia psichiatrica, però
che venivano scatenate da fattori esterni, che lui non riusciva a controllare. Per cui
la modalità comportamentale che c’eravamo dati era quella intanto di lasciarlo là
che si sbollisse e poi gli dicevamo: “Guardi che se lei non sta bene chiamiamo il
118 e la portiamo in ospedale”. Perché lui aveva avuto diversi infarti… Quando gli
dicevamo “Chiamiamo il 118”, lui s’alzava e ci diceva che stava meglio. Nel
momento in cui è cambiato il medico; il nuovo che è subentrato ha avuto un
approccio completamente diverso rispetto alla gestione delle sue problematiche; ha
cominciato a sedarlo fino a quanto lui, da persona autosufficiente, si è visto ridotto
in carrozzina con la bocca a penzoloni, la cintura di contenzione… Alle nostre
richieste di non contenerlo, perché comunque non era una persona aggressiva, la
dottoressa ha prescritto anche la cintura a letto e le spondine a letto, cosa per la
quale io nutro profondo terrore, nonché repulsione, perché provo a pensare a cosa
potrebbe succedere a me se qualcuno mi legasse a letto, senza avere libertà di
muovermi. Una sera, siccome lui aveva il cellulare, ha chiamato suo figlio di notte e
ha detto a suo figlio: “Guarda qua cosa mi hanno fatto, mi hanno legato come un
salame, mi sento un prigioniero, che non può neanche essere considerato come
persona, che può dire che cosa vuole per se stessa”. Ovviamente i figli alla mattina
sono venuti, volevano chiamare i carabinieri… il medico: irremovibile rispetto al
fatto che questa persona è psichiatrica e quindi va sedata e va contenuta… e questa
cosa mi ha veramente toccata dentro, perché come direttore mi sono sentita
impotente a fare in modo che a questa persona non toccasse questa violenza –
chiamiamola violenza – psicologica e fisica. Rispetto a questo poi è stata attivata
una visita psichiatrica che ha confermato che lui non doveva essere legato, ma
nonostante questo il medico si è rifiutato di togliere la prescrizione della
contenzione e lì io mi sono sentita impotente per il fatto di non riuscire a garantire
qualcosa di diverso a quel povero cristiano. Fino a quando non ho suggerito ai
familiari di fargli cambiare medico. È arrivato un altro medico, che ha tolto sia la
sedazione che tutte le cinture che aveva e lui, pian pianino, ha ricominciato a vivere
in una forma più decente rispetto a quello che è successo prima, a come l’avevano
ridotto prima. Per cui questa cosa mi ha molto segnato in maniera individuale,
perché ho pensato a come potevano essersi sentiti i familiari: oggi vieni a trovare
tuo papà e lo trovi che cammina, legge il suo Vangelo e dopo cinque giorni vieni
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qua e lo trovi che ha la cintura di contenzione in carrozzina, ha la testa sbilenca, la
bava alla bocca, la bocca storta, imbottito da farmaci e psicofarmaci e dire: “Ma
qua, cosa stanno a fare questi?”. E poi pensare alla reazione che avrei avuto io se
fosse successo a mio padre… e poi pensare a lui, come persona, a mettermi nei
panni suoi, di questo signore che si chiama E. e dire: “Ma sono venuto qua… ma
sono loro i pazzi, non io psichiatrico…» (4:30).
Questo racconto credo metta bene in luce un meccanismo fondamentale per l’agire etico,
che è quello di “mettersi nei panni”, di provare empatia – nei confronti di Ettore e dei
suoi familiari – ma anche il concetto di responsabilità e di potere. La protagonista di
questa storia sente di essere, come direttore della struttura, la responsabile del benessere
degli ospiti, ma avverte anche il senso di impotenza, perché non sa come fare, fino a
quando non trova con i familiari una via d’uscita.
Anche la seconda storia parla della responsabilità del manager; la responsabilità che egli
ha di farsi carico dei problemi, di agire, di cambiare lo stato delle cose, sapendosi anche
mettere in relazione con gli altri in modo positivo.
«C’era al Centro Diurno un volontario, una persona che collabora con
l’associazione, che ci fa il trasporto, che non si comportava bene, aveva l’abitudine
di essere molto, molto sgradevole con i dipendenti. Li apostrofava, dava ordini: “Tu
vieni qua, porta quello, fai quell’altro, fai così, non avete voglia di lavorare, non
avete nessuna voglia, tocca sempre a me, voi non fate niente…”. Insomma
veramente molto, molto sgradevole e poi aveva addirittura episodi di aggressività
qualche volta con gli ospiti finché guidava: “Dai Mario, sbrigati, sali, smettila, zitti,
mi state infastidendo…”. Un paio d’anni fa, io ero qui da poco, perché sono tre anni
e mezzo solo che sono qua. Ero qui da poco e mi è stata raccontata questa cosa.
Allora io ho detto alle ragazze: “Me la scrivete, me la scrivete e mi circostanziate un
episodio. Accade una cosa e voi me la segnalate”. La prima cosa che loro mi hanno
detto: “È una situazione che va avanti da molti anni, dottoressa… anche chi c’era
prima, il precedente dirigente, aveva detto che avrebbe fatto, ma non è mai
cambiato niente, perché questo signore fa parte di questa associazione…”. Erano
diciamo sicure che non sarebbe cambiato niente. “Vabbé, me lo scrivete e poi
vediamo…”. Questo volontario non c’è più, perché era assolutamente inadeguato.
Ma non ho mica dovuto fare grandi cose. Ho chiamato la presidente
dell’associazione, ne abbiamo parlato un attimo. Una signora gradevolissima e ci
siamo confrontate su questo: “Ma a lei piacerebbe vivere in un ambiente così? Se
300
questo signore è così nervoso, non va bene, non va bene neanche per voi, perché
effettivamente anche voi come associazione non fate una bella figura”. Ecco, io
credo che alla fine affrontare le cose in questo modo sia vincente. Che sia vincente
la chiarezza, di cui parlavo prima. Ce lo siamo detti: “È una persona importante e fa
tante ore, ho capito che fa tante ore, era bravo, faceva l’autista, ma se per fare tante
ore insulta tutti e si comporta in questo modo, forse davvero non vale la pena che
rimanga con noi…”. E alla fine è andata così. I dipendenti non se lo sono
dimenticato. Anche recentemente mi sono trovata in una situazione: “… quella
volta, dottoressa, se non ci fosse stata lei…”. Quindi, così come non ti perdonano
niente se fai… Ecco, si ricordano anche, che ti sei impegnata per risolvergli un
problema…… Come accade per tutti noi. Sì, credo che il segreto sia proprio questo,
assumersi la responsabilità di cambiare qualche cosa, di fare, pagando ovviamente
quello che è, le difficoltà di questa scelta, insomma, ecco…» (2:38).
Il terzo racconto è una storia di onestà e coraggio. Un fatto accaduto diverso tempo
addietro, ma che rappresenta per la protagonista un episodio emblematico, una vicenda
che ha segnato una sorta di imprinting fondamentale per la sua condotta morale.
«C’è una cosa che mi è capitata all’inizio della mia carriera lavorativa, il mio primo
lavoro che ho fatto. Lavoravo all’ufficio tecnico erariale, quello che era il Catasto
una volta. Son stata assunta li, avevo 19 anni… Ho iniziato a lavorare e dopo sono
andata all’ufficio volture, l’ufficio dove si fanno i passaggi… i notai portano gli atti,
no? Si fanno i passaggi di proprietà, si registrano le modifiche. Eh, è capitato una
volta, io ero lì da poco, è capitato che è venuto un signore e mi ha portato una
pratica, che era proprio una pratica di voltura… Così, me l’ha consegnata, come
sempre si faceva, perché io controllassi se era fatta bene, poi io dovevo dare la
ricevuta a mano. Quindi io l’ho aperta e dentro c’erano 10.000 lire… ed era bianca.
Io l’ho chiusa e gliel’ho data e gli ho detto: “Geometra, non è compilata la voltura”.
E lui ha detto: “Ma ha visto bene?”. Ed io ho detto: “Sì, ma non è compilata la
voltura”. E lui ha ripetuto: “Ma ha visto bene?”. Io a quel punto ho detto.
“Geometra, io non accetto, compili la voltura”. Lui mi ha risposto: “Stupida
ragazza, perché deve lasciare agli altri quello che potrebbe prendere lei? A me basta
uscire da qui e trovo 10 persone che sono disposte a farmi questa pratica e a
prendere questa mancia…”. Io ho pianto 2 giorni, avevo 19 anni… io ho pianto 2
giorni e non riuscivo a capire perché piangevo, perché… E l’ho capito tanto tempo
dopo: piangevo perché lui si era permesso di pensare che io non avrei obiettato di
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fronte alle 10.000 lire. Il mio stipendio in quel momento era di 175.000 lire, quindi
10.000 lire erano assolutamente significative… Per lui… Ecco, lui aveva dato per
scontato il fatto che io fossi comprabile, questa è una cosa che mi aveva molto
offeso ed è per quello che io piangevo, ma l’ho capito molti anni dopo e…così
come ho capito che quello è stato il momento in cui io ho fatto una precisa scelta, di
cui non mi sono mai pentita. Sono successe altre cose, anni dopo, di persone, di
situazioni insomma, di appalti, anche importanti, che hanno cercato… persone che
hanno cercato, così, di trovare un accordo, di propormi un accordo e non mi ha mai
solleticato questa cosa, mai. E ripeto, non me ne sono pentita, spero di non cambiare
indirizzo, ma insomma è un interesse che non ho, ecco. E quindi, tornando
all’esempio da diciannovenne, certo i miei colleghi lo facevano e forse non era
neanche, dal loro punto di vista, così scandaloso, nel senso che loro dicevano: “Io
gli faccio questa pratica e lui mi paga, che problema c’è?”. Ma dal mio punto di
vista, invece, lo era, perché non aveva i requisiti del rapporto di lavoro. Tu sei lì per
fare un’altra cosa, non puoi durante il tuo lavoro fare… il lavoro per un terzo e farti
anche pagare e diventare suo… suo schiavo, no? Perché poi alla fine, sei
ricattabilissimo, sotto tutti i punti di vista. Ma no, io questi ragionamenti non li ho
fatti, in quel momento non ero in grado, non avevo nessuna informazione mia,
insomma. È stato proprio un discorso a pelle, ecco, non ho voluto, quella è
un’esperienza che mi ha molto segnato… E poi il tono, no? “Stupida ragazza,
perché lasciare agli altri quello che potrebbe prendere lei? Cosa crede?”. Perché,
ecco con questa presunzione, ecco, c’era stata questa aggressività, che mi aveva
molto colpito, questa aggressività… lui aveva dato per scontato che insomma…
avrei assolutamente accettato, dritto… l’ho raccontata anche a mia figlia adesso che
comincia a crescere…» (2:25).
Durante l’ascolto di questo racconto, mi è parso di cogliere ancora una velatura di
commozione. Mi è sembrata una cosa bella. Del resto, l’agire etico ha molto a che vedere
con le emozioni e i sentimenti. L’etica ha infatti una componente “tacita”. La nostra
protagonista “sentiva” che quel comportamento era sbagliato. Le “parole” sono venute
dopo. Dopo è arrivata l’argomentazione morale, dopo è stato dato anche un nome ed una
spiegazione al dolore che aveva provato.
Anche la storia che segue parla di onestà e coraggio, ma anche di attaccamento al lavoro
e di fedeltà all’Ente.
«Invece un altro episodio che mi ha fatto crescere e maturare sotto il profilo umano
e professionale è successo una decina di anni fa. Un dirigente di questo istituto e
302
anche una componente del Consiglio di Amministrazione avevano investito una
somma ingente presso un istituto bancario diverso dal Tesoriere e con alea. Poiché
gli investimenti a rischio sono vietati dalla norma, ho dovuto segnalare l’operazione
al collegio dei revisori e ad altre persone, poiché l’investimento stava causando un
danno erariale all’ente. Quando ho segnalato la cosa, l’attività di investimento non
era ancora conclusa, ma era ancora in evoluzione. Per 15 giorni sono stata
un’appestata qui dentro, non mi rivolgeva la parola nessuno, perché ho messo tutti
con le spalle al muro. C’erano ancora le lire, avevano investito 5 miliardi di
liquidità in borsa, in gestione patrimoniale fondi anziché in titoli dello Stato. Io ero
il ragioniere-capo all’epoca e ho visto subito che c’erano delle cose che non
quadravano, perché le registrazioni contabili erano gestite in maniera scorretta. A
distanza di qualche giorno cambiò il Consiglio di Amministrazione. La cosa ha
avuto un’evoluzione pesante, che è durata circa 6 mesi, fintantoché c’è stata la
relazione alla Corte dei Conti e devo dire che per più di un anno, quasi due anni,
quando mi veniva in mente quell’episodio, perché ovviamente mi è stato fatto anche
del male, mi scendevano le lacrime. C’erano i funzionari del Comitato di
Controllo… non so se lei sa cos’è il comitato, c’era fino al 2003 e aveva il compito
di controllare la legittimità degli atti degli enti locali e Ipab… Quando sono andata
a Venezia a trattare l’approvazione del conto consuntivo, in modo tale che si
evitasse il commissariamento “ad acta”, mi hanno chiesto come mai continuavo a
lavorare qui, perché avrei potuto anche andarmene, ma insomma ho voluto essere
fedele all’Ente, perché nel frattempo era cambiato il Consiglio di Amministrazione.
C’era una brava persona come presidente che meritava rispetto, quindi mi pareva
brutto lasciare le persone, soprattutto perché erano oneste. Quell’esperienza mi ha
segnato moltissimo, perché ripeto per molto tempo con facilità mi si riempivano gli
occhi di lacrime, ma questo mi ha anche fatto capire come…si possa facilmente
passare da un momento di serenità a un momento burrascoso» (9:25).
L’ultimo racconto, particolarmente ricco di spunti e di riflessioni, narra principalmente di
un apprendimento esperienziale, di un episodio significativo che ha attivato una serie di
cambiamenti organizzativi, ma soprattutto nel modo di concepire e vivere alcuni valori
all’interno dell’organizzazione. È la storia di un conflitto fra l’istituzione e un familiare
che funge da “detonatore” per far esplodere – ma anche per poi avviare a soluzione –
tutta un’altra serie di situazioni problematiche interne alla struttura e di gestione dei ruoli
direttivi.
303
R: «Per esempio noi abbiamo accolto un caso che ha fatto scuola qui da noi, perché
ad esempio ha cambiato il mio modo di vedere la famiglia all’interno della struttura.
È il caso di un anziano, di una coppia, marito e moglie, che ha sempre vissuto…
senza figli… che hanno sempre vissuto in simbiosi una vita… benestanti e
culturalmente preparati; della Venezia bene lei, lui toscano e quindi avevano case di
qua e di là, avevano viaggiato un sacco, una coppia innamoratissima, felicissima…
Poi, ad un certo punto, la malattia… lui aveva una demenza di tipo Alzheimer e lei,
che aveva vissuto prima la fase del tenerlo la casa, poi il centro diurno ed alla fine
l’aveva portato qui. Questa situazione si è conclusa che lei se lo è riportato a casa…
Ma siamo arrivati quasi a parlarci attraverso i rispettivi legali, da quanto la
situazione è arrivata a logorarsi e una sera ho chiamato persino i carabinieri, perché
la signora non voleva andarsene dal mio ufficio… per dire come si era evoluta la
faccenda.
Praticamente, cosa succede? Succede che all’inizio, quando questa signora aveva
portato qui il marito, noi avevamo un concetto, che era quello di cercare di integrare
la famiglia, ma all’epoca non avevamo la chiarezza di quale fosse il ruolo della
famiglia. Noi per primi vivevamo male il nostro ruolo, non avevamo una chiarezza
del nostro ruolo, perché abbiamo consentito alla signora di dirci come dovevamo
fare il nostro lavoro, praticamente. Perché le consentivamo di controllarci, cioè di
venire a verificare il bagno, di fermarsi qui a mangiare, di dirci come dovevamo
pulire… Avevamo iniziato dandole il dito, e poi la mano, e poi braccio… Per
quanto noi continuassimo a cercare di dare una risposta, ad accogliere le sue
richieste, con l’idea che avremmo conquistato la sua fiducia, non ne venivamo mai
fuori… Cioè, sempre di più, sempre di più, sempre di più...
La situazione c’ha portato poi a riflettere, cioè innanzitutto a prendere atto del fatto
che noi, come strutture, siamo l’ultima frontiera e che nessuno ci porta, accompagna
qui, il proprio anziano volentieri e che quando le famiglie arrivano a fare questa
scelta, nella stragrande maggioranza dei casi, c’è un problema di relazione,
comunque, e perciò tutte le azioni che tengono vicina questa relazione sono
sbagliate. Cioè, quei comportamenti che noi attuavamo, di consentire alla signora di
essere qua in tutti i momenti, erano sbagliati. Perché quando finalmente lei era
riuscita a fare la scelta di portare qua il marito…
Abbiamo capito, ma successivamente, che quando una famiglia porta qui il suo
caro, nella stragrande maggioranza dei casi, c’è un problema di relazione, cioè è la
relazione tra di loro che ha qualcosa che non va… Questo è supportato anche dai
dati che abbiamo messo a confronto tra noi e il Distretto per l’assistenza
domiciliare… Cioè, generalmente si crede che si mette in casa di riposo un anziano
304
quando il carico assistenziale è molto alto. In realtà questa tesi è smentita proprio
dai dati del Distretto, che dice: “Guardate che i casi più gravi sono sul territorio, non
sono in casa di riposo. O comunque non sono distribuiti in maniera così netta, da
dire che in casa di riposo ci vanno i casi gravi e nel territorio rimangono i casi
lievi”. Non è così e questo ci ha portato alla conclusione che è la relazione tra la
famiglia e l’anziano a determinare la scelta. Quando una famiglia arriva a fare la
scelta della casa di riposo è come se… Sa quando uno spinge una carriola su per
una scala? Quella forza che la famiglia ha finalmente manifestato per distaccarsi da
una relazione che comunque è problematica, quella forza va sfruttata, non va
placata. Mentre la nostra precedente politica era quella di consentire… “Ma vieni
qua quando vuoi…”, per rendere più soft il distacco… il distacco non andava reso
più soft, ma andava anzi rafforzato, perché potesse avvenire… un po’ come una
carriola che tu spingi su una scala: se uno è riuscito a fare lo sforzo da fargli fare il
gradino, deve sfruttare quello sforzo, non deve rallentarlo… E quindi abbiamo
capito che erano sbagliate quelle azioni… “E vieni tutte le ore…”, perché in questo
modo si continuava ad alimentare una relazione che è malata, invece la relazione
andava troncata […]. Per cui abbiamo rivisto i nostri progetti di accoglienza e non
abbiamo più fatto i cosiddetti inserimenti in cui c’erano, appunto, queste modalità e
abbiamo rivisto il ruolo della famiglia, modificando gli ingressi e dicendo:
“Famiglia, tu sei importante non perché ti metti a fare al nostro fianco, ma perché ci
dai delle informazioni sulla storia, sui gusti… Cioè il tuo ruolo è di integrare il
nostro punto di vista con quello che ha tu hai visto e fatto fino a quel momento, in
modo che diventi patrimonio di ciò che possiamo fare anche noi”. In tutta questa
esperienza, questa coppia, appunto, c’ha portato a rivedere il modo in cui facevamo
gli ingressi, andando noi a casa, cioè adesso facciamo noi il primo passo. Noi
diciamo alla famiglia: “Tu sei importante per noi ed è importante per noi tutto
quello che tu hai fatto fino a questo momento, che diventa patrimonio che metti
nelle nostre mani, perché adesso tocca a noi, perché stai delegando a noi il lavoro di
assistenza… Adesso che tocca a noi, noi possiamo dare continuità a quello che hai
fatto tu, portando avanti quello che hai fatto tu”. In che modo? Andiamo noi a casa
e quindi la persona la accogliamo a casa sua e quindi facciamo noi il primo passo di
andare lì e ci facciamo dare tutta una serie di informazioni che poi integriamo qui e
questo è nato da quel caso particolare.»
D: «In questo episodio c’è stata quindi una sorta di escalation, in cui la signora
chiedeva sempre di più…»
305
R: «Sì, chiedeva sempre di più… cioè per noi all’epoca non era chiaro il concetto
della delega, cioè la famiglia non può mettersi al nostro fianco e fare l’operatore
addetto all’assistenza o fare il fisioterapista… Cioè praticamente questa signora
pretendeva di insegnarci come dovevamo lavarlo, ma dal punto di vista tecnico,
come dovevamo farlo camminare, come dovevamo imboccarlo… Tutte queste cose
che sono competenza tecnica nostra. Lei poteva darci un altro genere di
informazioni, ma noi le abbiamo consentito, l’abbiamo lasciata in bagno, abbiamo
lasciato tutta una serie di cose… Abbiamo lasciato che ci dicesse come doveva
camminare… Abbiamo cioè permesso che facesse il tecnico al nostro fianco. Era la
relazione fra di loro ad essere malata e lei aveva tutto un senso di colpa e una
simbiosi… che invece noi avremmo dovuto agire in maniera diversa, ma da lì poi,
quando abbiamo capito, indietro era impossibile ritornare, la struttura era ormai
ostaggio. Per fortuna che in qualche modo la situazione si è sbloccata, perché io ad
un certo punto ho iniziato capire e ho detto: “Basta, se lo porti a casa… cioè è
impossibile…”. Ho capito che era venuto meno, anzi non c’era mai stato, il rapporto
fiduciario e che lei se lo doveva portare a casa. Grazie all’intervento di una
psicoterapeuta [la signora] è riuscita ad agire la leva. Lei se lo è riportato casa e noi
siamo stati liberi, ma guardi, era un incubo…»
D: «Lei non voleva portarlo a casa, quindi? »
R: «Aveva bisogno di tempo per maturare la scelta, probabilmente, però per noi
quella situazione è stata determinante, perché ci ha aiutato a capire la situazione in
cui c’era questo miscuglio, cioè: “Ma tu chi sei? Chi siamo noi? Qual è il tuo
compito e qual è il nostro?”… Da quel miscuglio siamo riusciti a far chiarezza, cioè
arrivare a capire chi siamo e cosa dobbiamo fare e qual è il compito della
famiglia… Perché all’epoca si aveva una gran confusione. Determinata cosa? Qual
è stato il grande insegnamento che io ho imparato da quest’esperienza? Che a livello
di responsabili della struttura, per lavorare bene, ci dev’essere condivisione di
valori. Se i valori del direttore non sono condivisi anche dal gruppo dei responsabili,
in prima istanza, per poter essere poi diffusi, si litiga continuamente, perché in una
unità operativa, quando io mi trovo di fronte alla scelta se per Mario Rossi, che
magari ha il diabete e vuole mangiare qualcosina di più, c’è una figura, l’operatore
che dice “Ma sì, non importa, lasciamolo mangiare…” e l’infermiere che dice “No,
ha il diabete, deve stare nella dieta, eccetera…”, a quel punto, quando si va a
discutere, non stiamo più discutendo di Mario Rossi e del piatto di pasta, ma sono a
confronto due sistemi valoriali: uno è “Ma sì, meglio un giorno da leone che 100 da
pecora” e l’altro è esattamente il contrario. E dietro alle posizioni che ciascuno
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assume c’è proprio il sistema valoriale e, quindi, ciò che aveva consentito a quella
situazione di diventare esplosiva era stato che il fatto che tra me e il mio
coordinatore avevamo, rispetto alla famiglia e rispetto alla struttura, due punti di
vista molto diversi… che poi si è visto nella situazione…
Un altro elemento, che non so se chiamare valore, ma che per me è importante è la
chiarezza, cioè deve essere chiaro a che titolo e che cosa sto facendo, in ogni
situazione, mentre invece se ciò che ti piace è stare nel torbido… Io sto bene nella
chiarezza, tu stai bene nel torbido, siamo in due situazioni diverse. Quindi, mentre
io andavo con la signora a disciplinare tutto, perché mi interessava fare degli
accordi chiari, cioè da quando a quando, per quale motivo, eccetera, eccetera,
quando li faceva il coordinatore era che: “Mi va bene non mettere in luce tutti gli
aspetti, perché tutto ciò che non è definito poi io me lo tiro a mio vantaggio…”.
Sono due modi di stare nella relazione che si confrontano…»
D: «Quindi c’è stato un conflitto di valori non soltanto tra la struttura e la famiglia
ma all’interno della struttura stessa? »
R: «Sì, tra di noi di sicuro. »
D: «Quali erano secondo lei i valori che si contrapponevano in questa situazione?»
R: «La signora aveva potato il marito credendo che potesse fare come a casa
propria. Cioè la signora non aveva certamente capito o elaborato o non era in grado
di farlo, insomma, che lei portava qui il marito e che portandolo in una struttura
delegava ad altri l’assistenza. Lei l’aveva portato qui credendo… e qui apro una
parentesi – o qualcuno le aveva fatto credere – che avrebbe potuto fare comunque
quello che voleva. Noi gliel’abbiamo consentito. Nei primi tempi, nel lasciarle tutto
quello che… E il bagno, e questo, e quest’altro… Le abbiamo veramente lasciato
credere che lei l’aveva portato qua, ma era lei a decidere delle cose. Invece un
familiare deve comprendere – per cui siamo diventati molto chiari da questo punto
di vista – che quando accompagna qui un anziano, l’assistenza la sta delegando a
dei terzi: sono mie le mani che ti lavano, sono mie le mani che ti imboccano, sono
mie le mani che ti cambiano il pannolone, che ti vestono, che ti fanno camminare,
ecc. Il che non vuol dire che taglio fuori famiglia, cioè, se non c’è disfagia, potete
andare a mangiare fuori, potete mangiare anche qua assieme, potete andare a fare
passeggiate, ecc. Ma se ci sono situazioni di rischio, cioè tipo se il tuo anziano è
disfagico, non lo puoi imboccare tu. Da ciò, da questa situazione, sono derivate
delle scelte che hanno portato, ad esempio, a eliminare l’assistenza privata e a non
concedere ai familiari, in situazioni di rischio, che loro imbocchino i loro cari,
307
perché se l’hai portato qui hai delegato ad altri determinate azioni. Se c’è un fattore
di rischio, se questa persona è a rischio di disfagia, devo imboccarlo io. Se invece
non c’è, per carità di Dio… ma sennò devo imboccarlo io. Tu puoi imboccarlo, ma
fuori, cioè io sono disponibile a insegnarti a farlo, ma se è qui, sono io che faccio…
Mentre alla signora è stato lasciato credere – non ce l’avevamo chiaro neanche noi –
che lei potesse mettersi a nostro fianco e quindi fare al posto nostro. Ma tutta questa
situazione ha portato a riflettere, ad esempio, sull’assistenza privata. Perché siamo
arrivati a dire: “Fuori l’assistenza privata”? Perché la struttura, per esercitare
l’attività, ha bisogno di una sorta di patente, l’autorizzazione, l’accreditamento, i
titoli che il personale deve avere per fare quel che fa… L’assistenza privata chi è?
L’assistenza privata si mette a fare cose che dovremmo fare noi, ma senza nessun
titolo. E quindi, in che modo una struttura, che per esercitare la sua attività deve
avere delle patenti, può essere integrata da una figura che non ha nessuna
preparazione al riguardo? Domanda numero uno. Domanda numero due:
l’assistenza privata si legittima quanto più la struttura fa schifo, tra virgolette,
perché l’assistenza privata è qualche cosa che la famiglia mette quando la struttura
non dà tutto quello che dovrebbe dare. Quindi una domanda che dobbiamo fare è
perché uno deve pagare una retta per poi aggiungere degli altri soldi per cose che
dovremmo fare? Quindi io sto autodichiarando il mio fallimento. Altro aspetto:
l’assistenza privata, poiché prende soldi da una famiglia, avrà tutto l’interesse a dire
che la struttura è molto carente e questo farà circolare problemi, cosa che infatti poi
abbiamo visto. Cioè quella situazione è stata veramente maestra per tanti aspetti,
proprio a partire da quello che abbiamo consentito a quella signora…
Quali sono gli aspetti di chiarezza che ci sono venuti? Uno: che quando un familiare
porta un suo anziano in casa di riposo ci sono dei problemi di relazione. Due: che,
quindi, se hanno avuto il coraggio, la capacità, la forza di far qualche cosa che
interrompe quella relazione, noi dobbiamo sfruttare quella forza, non la dobbiamo
attutire e quindi che dobbiamo prendere in carico, con tutte le cose che fa la
psicoterapeuta. È un lutto che avviene e la psicoterapeuta lo prende in carico,
proprio come se fosse un lutto, con gli stessi tempi e quindi a uno, a tre, a sei mesi...
Fa proprio il percorso di elaborazione del lutto, perché questa separazione non va
attutita, ma va vissuta.
Poi abbiamo capito qual è il nostro ruolo: che cioè noi abbiamo ricevuto dai
familiari la delega. Abbiamo capito qual è il loro valore, nel darci informazioni, nel
vivere comunque la relazione con il loro caro, nel darci la storia, tutto ciò che lo ha
portato fino all’incontro con noi e del fatto che siamo noi a dover fare il primo
passo. Cioè non possiamo dire a parole ai familiari e alla persona “Ma, noi ti
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integriamo…”, quando sei già qui e sei già stato costretto ad adattarti. Veniamo
prima casa, raccogliamo lì le informazioni, torniamo in struttura, cerchiamo di
adattare i piani di lavoro, eccetera, e dopo ti accogliamo. E allora ha un senso…
Torno al concetto di coerenza… È inutile che io dica “Adatto la mia organizzazione
a te”, ma tu sei già venuto qui e ti sei già dovuto adattare tu per primo. E quindi
questa è stata una situazione maestra. Lei mi aveva fatto la domanda: “In che cosa
erano diversi i valori?”. I valori erano diversi nel senso che la signora credeva di
poter fare un po’ quello che voleva qui… non era un concetto di diversità di
valori… non era chiaro a lei ma non era molto chiaro neanche per noi, ma questo
percorso ci ha portato a dirle: “Ma guarda che forse tu non volevi portarlo qui,
volevi continuare a prendertene cura come stai dimostrando… Prova a riportarlo a
casa…”. E quindi è stata fatta prima una prova che l’ha portata a dire: “Sì, ce la
faccio”, poi a vivere in maniera definitiva a casa. »
D: «Mentre tra lei e il coordinatore c’era un conflitto di valori o sulla diversa
interpretazione data degli stessi valori…»
R: «La diversità c’è stata sui diversi aspetti. Cioè intanto, come abbiamo detto
prima, la coerenza è qualche cosa che appartiene a me, che sento io, ma che non
apparteneva al coordinatore… cioè il coordinatore prometteva delle cose e poi non
le eseguiva. È come se io adesso, con lei mi impegno… Lei mi dice: “Le manderò
la relazione, lei me la correggerà, io le dico “Sì”, ma poi quando lei me la manda io
non lo faccio. Il coordinatore funzionava così: lui faceva dei colloqui con i familiari,
si impegnava a fare delle cose, poi non era in grado di portare avanti ciò che diceva.
Per cui, se vuole aggiungere un altro valore alla lista: la sostenibilità. Cioè devo
essere capace di rispondere alle cose che mi vengono chieste, perché deve essere il
mio ruolo… devo avere la capacità di rispondere… Cioè, se viene messo sul mio
tavolo qualcosa che non mi compete, devo avere capacità di rinviarlo al tavolo
giusto, cosa che invece lui non faceva. Cioè, per lui, aver detto delle parole
significava solo aver detto delle parole… E poi io mi trovavo i familiari e che
venivano a dirmi: “Ma mi ha detto che mi avrebbe fatto…” e poi non faceva. Ed era
su questi valori… La famiglia era importante a parole, ma che cosa vuol dire che la
famiglia è importante? Per lui significava che la famiglia poteva fare tutto quello
che voleva. Ma non può, si deve conciliare con una responsabilità. L’operatore
aveva vissuto un periodo… La signora, nell’azione di controllare il bagno, che cosa
stava facendo? Stava svalutando l’operatore. Perché se tu metti la moglie a
controllare o a dire all’operatore come deve fare il bagno, stai svalutando gli
operatori. Infatti gli operatori si sentivano veramente svalutati nel loro ruolo, nelle
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loro competenza, perché gli veniva detto da un familiare come dovevano fare… Ma
non un come dovevano fare nel senso buono del termine: “Io a casa gli tenevo le
mani…”. Quindi strategie per tranquillizzarlo… Strategie per cui mi dici: “Se tieni
la musica accesa, o l’acqua tiepida, o questo, o quello…”. Ma proprio là, così, a
controllarli. Tra l’altro, cosa che c’è stata spiegata dopo, che abbiamo capito dopo,
se adesso io e lei stiamo facendo colloquio, un conto è che siamo io e lei, altro conto
è che ci sia uno che osserva. L’osservatore all’interno del sistema altera il sistema.
E quindi anche quella moglie, anche se si fosse messa lì in silenzio, alterava la
situazione rendendola diversa. Anche dal punto di vista tecnico non era cosa da fare.
Per cui erano proprio anche questi gli aspetti nei quali la struttura viveva delle
grossissime lacerazioni.
Cos’è che ha portato certe cose ad andare a posto? Essersi messi come responsabili
a dire: “Quali sono i valori nei quali crediamo e come li realizziamo
concretamente?”. E questo c’ha portato a vedere la diversità e a renderci conto che
effettivamente i valori erano diversi. Se sono gli stessi, va tutto bene, ma se sono
diversi… Cioè, le diversità caratteriali si possono anche reggere, ma le diversità di
valori sono inconciliabili… Su queste non si può derogare e allora bisogna trovare il
modo per integrarli, cioè di convivere con valori diversi… Per fortuna nel caso del
coordinatore il problema si è risolto, perché è andato via dalla struttura, però il
periodo è stato difficile, proprio perché… Cioè, ad esempio, il discorso della
coerenza… Cioè quando ti sei assunto un impegno, devi portarlo a termine, non è
una cosa sulla quale si può tanto discutere. Sei un responsabile. Se dici: “Sì, ti do
questa carta entro il tal giorno…”, poi devi dare la carta entro il tal giorno… Poi
farai tu l’esame di coscienza su come mai non ce la fai, se ti sei preso troppo lavoro,
se hai calcolato male i tempi, per carità, tutte le giustificazioni, però non possiamo
continuare a stare in una situazione in cui tu non rispondi.
Quello che mancava, secondo me, era un concetto di rispetto per tutti gli attori del
sistema. Cioè, nel momento in cui ho stabilito di valorizzare la famiglia non posso,
perché valorizzo famiglia, svalutare gli operatori o viceversa […]. A questi
comportamenti non posso mai scendere, bisogna trovare un modo, una strategia, per
valorizzare uno senza svalutare l’altro. Valorizzare l’uno e valorizzare l’altro.
Valorizzarli entrambi, questo è il concetto… Non lo so se ce l’ho chiaro adesso, ma
sicuramente al tempo molto, molto, meno.
In questo senso quella situazione è stata maestra per dissipare un po’ di caos…
Tenga presente che eravamo una struttura molto piccolina, con 50 posti letto che nel
giro di niente è aumentata, passando a 90 e quindi la crescita è stata brusca:
immagini un adolescente, che fino a ieri era così e poi ti ritrovi a un corpo che non
310
sai gestire… Eravamo quindi in quella situazione. Il problema lì era che c’era una
mancanza di chiarezza e poi dei valori professati con la bocca, perché a sentirlo
parlare… Ma poi non agiti nella quotidianità, cioè quelle parole non significavano.
Poi, ciò che mi rendo conto adesso, parlandone, è che in realtà ciò che uno esprime
è se stesso. Io esprimevo il mio stato di quel momento, cioè il mio essere una che
non si valorizzava, anzi… E lui invece le sue caratteristiche, di essere cioè l’uomo
delle parole ma non dei fatti…» (5:42).
311
Conclusioni
Al termine di questa presentazione di un’“avventura” di ricerca, credo opportuno
riprendere brevemente le premesse da cui eravamo partiti, gli obiettivi che questa
indagine si poneva.
Innanzitutto si intendeva delineare il quadro concettuale di riferimento rispetto al
contesto di ricerca, contesto che si presentava fin da subito smisuratamente ampio e
complesso. Per questo l’obiettivo era stato indirizzato realisticamente – riprendendo
un’immagine di Bateson1 – non alla riproduzione fedele di un “territorio”, ma alla
creazione di una “mappa”.
In base a tali premesse, è stato tratteggiato un veloce inquadramento epistemologico, che
ho considerato utile non tanto per dare al mio lavoro un “cappello” introduttivo, quanto
piuttosto per una necessaria, preliminare chiarificazione rispetto ad alcune idee di fondo,
che volenti o nolenti, in modo esplicito o implicito, guidano i nostri processi di
conoscenza. Per questo ho ritenuto importante soffermarmi un poco sulla questione di che
cosa sia la realtà e come la si possa conoscere. Realtà che intendiamo in genere come se
fosse necessariamente declinata al singolare, ma che invece dovremmo pensare
soprattutto al plurale: si ha, infatti, a che vedere con le realtà. Fra queste vi è la realtà
dell’etica della professione del manager sociale, che è una realtà a sua volta plurale, la
quale ha un suo proprio modo di essere e di essere studiata, che è un modo di essere e di
essere studiata differente rispetto a quello della fisica dei neutrini, per fare un esempio
dotato di evidenza.
Una prospettiva di marca costruttivista ritengo possa rappresentare un valido punto di
osservazione per questa realtà specifica. Da queste posizioni ha preso le mosse la mia
ricerca, postulando, come si è visto, che i principi morali del manager sociale siano
almeno in parte immanenti alla professione stessa e che vengano appresi anche “in
situazione”.
Nella presente tesi sono stati illustrati brevemente alcuni modelli teorici di apprendimento
situazionale, a cui si è fatto riferimento per l’elaborazione delle ipotesi di ricerca. Si è poi
tematizzata la figura del manager e dello specifico profilo di manager sociale 2. Sono state
1
2
Bateson G., Verso un’ecologia della mente, cit., p. 57.
Nell’inquadramento del campo di ricerca è certamente mancato un approfondimento sui servizi socioassistenziali per gli anziani, meritevoli di una trattazione a parte.
312
inoltre tracciate alcune coordinate essenziali per addentrarsi nell’ambito dell’etica delle
professioni e del management dei servizi alla persona.
Ciò ha consentito di problematizzare la dimensione etica del manager dei servizi alla
persona – secondo obiettivo di ricerca – facendo emergere una serie di questioni, che
sono state poi sintetizzate nella traccia delle domande-stimolo utilizzata per la
realizzazione delle interviste semi-strutturate. Il presupposto attorno al quale ruota
l’indagine è che esista nei manager, così come in ogni altra persona, una divaricazione
più o meno ampia tra le “teorie dichiarate” e le “teorie in uso”, tra l’etica professata e
l’etica concretamente agita. L’interesse di ricerca è andato naturalmente verso
quest’ultima, a come questa etica si configuri, a come si modifichi, attraverso la pratica e
il confronto con gli altri.
La ricerca empirica ha dato poi modo di conseguire l’ulteriore obiettivo di evidenziare il
percorso generativo delle competenze etiche, fornendo sostanziale conferma all’ipotesi
iniziale, secondo cui l’acquisizione e lo sviluppo delle competenze etiche del manager
sociale sarebbero collegati anche all’agire riflessivo nella pratica professionale e alle
relazioni con il contesto sociale d’appartenenza.
Le storie, a cui la ricerca ha dato voce, descrivono bene questo instancabile processo di
apprendimento che avviene nelle situazioni dentro le quali il manager si trova ad agire,
mettendo in luce l’importanza del pensiero riflessivo e del confronto che può aver luogo
nell’ambito dell’associazionismo professionale, delle reti informali o della stessa
organizzazione.
Le narrazioni hanno posto altresì in evidenza il ruolo che il manager svolge nel
promuovere lo sviluppo delle competenze dei collaboratori e nella crescita organizzativa.
La dimensione del racconto, introdotta in aderenza al metodo d’indagine della Narrative
Inquiry, a cui mi sono rifatto principalmente, ha poi favorito il perseguimento di un altro
obiettivo assegnato alla ricerca, quello di tematizzare un possibile “orizzonte” comune di
senso nella professione del manager sociale, cioè di prospettare un profilo identitario di
gruppo, un’etica condivisa per questa categoria professionale.
Il racconto, in quanto poiesis, ha dato in qualche modo corpo ad un’astrazione, perché di
questo parliamo quando ci riferiamo all’etica professionale dei dirigenti delle Ipab che
operano nell’area degli anziani. Ciò non solo perché non esiste – a differenza di altre
professionalità – alcuna espressione formale specifica di tale sapere all’interno di un
codice deontologico, ma in quanto l’etica, per sua stessa natura, tende a sfuggire rispetto
ad ogni velleità definitoria. L’immagine dell’orizzonte è effettivamente quella che meglio
313
la rappresenta, suggerendo anche l’idea di qualcosa di inattingibile, di un desiderio mai
pago d’inseguire una meta che non si fa raggiungere.
Il racconto ha dato vita, pertanto, non ad una strutturazione unitaria di questa etica
professionale, bensì ad un’immagine composita, all’interno della quale si è ritenuto di
individuare tre componenti: l’etica dell’ente pubblico, l’etica del servizio e l’etica del
management.
Da questo racconto a più voci emerge, accanto ad un possibile orizzonte condiviso, in cui
tutti si possano riconoscere, il senso che ciascuno dà al proprio impegno lavorativo, che si
radica profondamente nel sé morale, cioè nell’identità personale del singolo soggetto.
L’ultimo obiettivo consisteva nel raccogliere indicazioni e suggerimenti per orientare
possibili percorsi formativi, finalizzati allo sviluppo delle competenze etiche.
A questo riguardo, si è rilevato che tale formazione, di cui si avverte diffusamente la
necessità, dovrebbe avere certamente dei contenuti curricolari specifici, ma soprattutto
dovrebbe, in qualche modo, affinare il pensiero e la capacità di riflettere sulle situazioni.
La formazione etica, quindi, dovrebbe parlare di principi e di valori, di comportamenti e
di virtù, e insieme insegnare a ragionare sulle cose, a discutere, ad argomentare.
Rimanendo vicina all’esperienza. È l’esperienza concreta, a partire da quella portata in
“aula” dagli stessi operatori, che va fatta oggetto di riflessione all’interno dei momenti
formativi, al fine di produrre apprendimenti davvero significativi.
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