IL DIRITTO INDUSTRIALE•ANNO XVI SOMMARIO BREVETTI Opinioni CERTIFICATI DI PROTEZIONE COMPLEMENTARI E PREPARATIVI DI UN DOSSIER DI REGISTRAZIONE di Giuseppe Bianchetti 305 Giurisprudenza L’EFFICACIA “CROSS BORDER” IN AMBITO COMUNITARIO DEI PROVVEDIMENTI DI DESCRIZIONE (Corte di Giustizia CE, 27 settembre 2007, causa C-175/06) Il commento di Cristiano Bacchini 311 Documenti RICERCA DI ANTERIORITÀ RELATIVAMENTE ALLE DOMANDE DI BREVETTO PER INVENZIONE INDUSTRIALE (D.M. Sviluppo economico 27 giugno 2008) 320 MARCHI Giurisprudenza IL DIFFICILE EQUILIBRIO TRA “VALORE SOSTANZIALE” E CARATTERE DISTINTIVO DELLA FORMA (Tribunale di Venezia 24 gennaio 2008) Il commento di Marco Lamandini e Massimiliano Pappalardo 325 ANTITRUST Opinioni IL COMMERCIO PARALLELO DISINCENTIVA LA RICERCA FARMACEUTICA? di Claudia Desogus 335 Documenti CONTRO I CARTELLI E PER LA TUTELA DEI CONSUMATORI (Autorità garante della Concorrenza e del Mercato, Presentazione alla relazione annuale, 24 giugno 2008) 347 CONCORRENZA SLEALE Giurisprudenza IL MARCHIO DI FATTO COME OGGETTO DI UN GIUDIZIO DI FATTO (Cassazione Civile 22 febbraio 2008, n. 4531) Il commento di Iuri Maria Prado 353 L’ESAURIMENTO INTERNAZIONALE DEL MARCHIO (Cassazione Civile, Sez. I, 21 dicembre 2007, n. 27081) Il commento di Cesare Galli 356 PROPRIETA’ INTELLETTUALE Normativa LE NUOVE DISPOSIZIONI IN MATERIA DI TUTELA PENALE DEI DIRITTI DI PROPRIETÀ INDUSTRIALE (Disegno di legge 2 luglio 2008, n. C-1441) Il commento di Riccardo Castiglioni 373 IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 303 IL DIRITTO INDUSTRIALE•ANNO XVI PUBBLICITA’ Opinioni AUTODISCIPLINA E FUNZIONE ARBITRALE di Giorgio Floridia 381 Giurisprudenza RASSEGNA DEL GIURÌ DI AUTODISCIPLINA PUBBLICITARIA a cura di Vincenzo Guggino 389 DIRITTO D’AUTORE Giurisprudenza L’ISCRIZIONE AL PASSIVO FALLIMENTARE DEL CREDITO DELL’AUTORE (Tribunale di Firenze 16 gennaio 2008) Il commento di Paola Cavallaro 393 INDICI 397 REDAZIONE Per informazioni in merito a contributi, articoli ed argomenti trattati scrivere o telefonare a: IPSOA Redazione Casella postale 12055 - 20120 Milano telefono (02) 82476.321 - telefax (02) 82476.079 e.mail: [email protected] EDITRICE Wolters Kluwer Italia S.r.l. 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I Suoi dati saranno utilizzati dalla nostra società, da enti e società esterne ad essa collegati, nonché da soggetti terzi, titolari autonomi del trattamento, solo per l’invio di materiale amministrativo-contabile, commerciale e promozionale. Ai sensi dell’art. 7 del citato D.Lgs., Lei ha diritto di conoscere, aggiornare, rettificare, cancellare i Suoi dati, nonché di esercitare tutti i restanti diritti ivi previsti, mediante comunicazione scritta a Wolters Kluwer Italia S.r.l., Ufficio MID, Milanofiori, Strada 1-Palazzo F6, 20090 Assago (Mi). OPINIONI•BREVETTI Brevetti farmaceutici Certificati di protezione complementari e preparativi di un dossier di registrazione di Giuseppe Bianchetti Rassegna completa ed articolata di tutti i problemi che la pratica professionale e la pratica giudiziaria hanno messo in evidenza negli ultimi quindici anni in materia di protezioni complementari e registrazioni sanitarie. Certificati di protezione complementari La genesi dei “certificati di protezione” è da ricercarsi nella disparità fra il tempo di sfruttamento effettivo dei brevetti relativi a un farmaco (che può entrare in commercio soltanto dopo il lungo iter di registrazione) e quello dei brevetti il cui oggetto può essere commercializzato senza specifiche autorizzazioni. I primi certificati entrarono in vigore nel 1985 (Stati Uniti, come conseguenza del caso “Roche-Bolar”); seguì nel 1988 il Giappone. Quattro-cinque anni più tardi entrarono in campo le nazioni europee, prima con leggi nazionali (Francia, Italia, Svezia), poi con il Regolamento comunitario. E qui sorge un primo motivo di confusione, tuttora non completamente dissipato. Come tutti dovrebbero sapere (ma non è così) esistono in Italia due (1) tipi di certificato: a) i “Certificati Complementari di Protezione” (CCP), concessi secondo la l. 19 ottobre 1991, n. 349 e spesso definiti per comodità, anche se impropriamente, “certificati italiani”; b) i “Supplemental Protection Certificates” (SPC), concessi secondo il Regolamento CEE 18 giugno 1992, n. 1768/1992 e spesso definiti per comodità, anche se impropriamente, “certificati europei”. L’improprietà delle definizioni è dovuta al fatto che: a) entrambi sono stati; o sono, rilasciati dall’UIBM, Ufficio Italiano Brevetti e Marchi (dunque sono tutti “italiani”); e che b) a un SPC rilasciato in Italia può benissimo non corrispondere - a parità di prodotto farmaceutico - un SPC rilasciato in uno o più altri Paesi della CEE. L’aggettivo “europeo” significa soltanto che gli SPC ubbidiscono al Regolamento CEE sopra citato. Come tutti dovrebbero sapere (ma, ancora, non è così), fra CCP e SPC esistono profonde differenze, soprattutto di durata e di scadenza. Mentre i certificati complementari concessi negli USA (1985) e in Giappone (1988) avevano - e tuttora hanno - una durata massima di cinque anni - la legge italiana (l. n. 349 del 1991) istitutiva dei CCP prevedeva per gli stessi una durata massima di diciotto anni (il solo vincolo essendo quello che la somma di protezione “brevetto più certificato” non superasse trentotto anni). La normativa europea, allineandosi a quella statunitense, fissa anch’essa una durata massima di cinque anni. Non basta: mentre la normativa europea definisce in quindici anni la durata massima del “periodo di sfruttamento esclusivo” di un farmaco, secondo la l. n. 349 del 1991 tale durata era comunque di venti anni (2), a partire dalla data della prima autorizzazione alla messa in commercio. La l. n. 349 del 1991 rimase in vigore fino al 2 gennaio 1993, giorno dell’entrata in vigore della normativa CEE 18 giugno 1992, n. 1768 (3). Tale normativa conNote: (1) Persino l’art. 61 (“Certificato complementare”) del recente C.p.i. non è esplicito in proposito. Il comma 1 recita infatti: «1. Ai certificati complementari di protezione concessi ai sensi della legge 19 ottobre 1991, n. 349 [cioè ai CCP, n.d.s.] si applica il regime giuridico, con gli stessi diritti esclusivi e obblighi, del brevetto. Il certificato complementare di protezione produce gli stessi effetti del brevetto al quale si riferisce limitatamente alla parte o alle parti di esso relative al medicamento oggetto dell’autorizzazione all’immissione in commercio». I commi 2 e 3 riguardano la durata dei certificati, e soltanto dal comma 4 (sul quale tornerò in seguito) il lettore non iniziato viene a scoprire (potremmo dire: a sospettare) che esistono anche gli SPC. (2) Veniva così in una certa misura capovolta la disparità (sopra accennata) del periodo di sfruttamento esclusivo fra brevetti farmaceutici e non-farmaceutici: com’è facilmente comprensibile, anche fra il deposito d’un brevetto relativo a un prodotto che non richieda specifiche autorizzazioni, e la fabbricazione e la messa in commercio del prodotto stesso, possono trascorrere uno o più anni. (3) In un primo tempo l’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi ritenne di non dover accogliere domande di CCP presentate nell’“interregno” fra il 18 giugno 1992 e il 2 gennaio 1993, ma l’Avvocatura di Stato si pronunciò in senso contrario. Di fatto, vennero accolte varie domande di CCP depositate nell’ultimo trimestre del 1992. IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 305 OPINIONI•BREVETTI fermava la validità dei precedenti CCP concessi in base alle leggi nazionali francese, italiana e svedese. Fino al 2 gennaio 1993 l’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi aveva rilasciato oltre 400 CCP. La loro durata media era leggermente superiore a sette anni, ma nel 30% dei casi superava i nove anni, con numerose punte di dodiciquindici (e almeno due di diciotto anni) (4). Ho precedentemente citato la “legge italiana del 2002” che secondo l’autorevole funzionario ivi menzionato aveva limitato la durata dei “Certificati Complementari”. L’affermazione è giustificata esclusivamente per quanto riguarda i CCP “italiani”: la legge in questione, l. 15 giugno 2002, n. 112 (art. 3, comma 8) non avrebbe potuto interferire (e non ha interferito) con gli SPC “europei” rilasciati secondo la normativa CEE e - come già detto - della durata massima di cinque anni. La l. n. 112 del 2002 nrappresenta il tentativo, soltanto in parte condotto a termine, di compensare uno squilibrio - che non è eccessivo definire macroscopico - fra la durata dei CCP “italiani” e degli SPC “europei”, squilibrio le cui conseguenze negative colpivano duramente due categorie di operatori del settore: i produttori di principi attivi e i genericisti. Attuando detta legge, l’UIBM “ricalcolò” la durata dei CCP non ancora scaduti alla fine di giugno del 2002, con criteri riassunti nel già citato comma 4 dell’art. 61 del nuovo Codice della Proprietà Industriale (d’ora in poi, per brevità, “Codice”) (5). In data 24 gennaio 2003 l’UIBM inviò agli operatori del settore la Circolare n. 836.024 precisando i criteri seguiti dallo stesso Ufficio per il “ricalcolo” della scadenza dei CCP. Tali criteri sono stati in buona sostanza ribaditi dalla recentissima l. 28 febbraio 2008, n. 31. Degli oltre 400 CCP rilasciati al 31 dicembre 1992, e di durata così “ricalcolata”, ne rimarrebbero attualmente in vita circa 100, della seguente scadenza: a) circa 50 nel 2008; b) circa 40 nel 2009; c) i rimanenti fra il 2010 e il 2011. Ho scritto “ne rimarrebbero”: il condizionale è d’obbligo, per i seguenti motivi. La riduzione di durata prevista dalla l. n. 112 dl 2002 provocò la reazione di molti titolari dei CCP, che - fra l’altro - si appellarono alla Commissione dei Ricorsi dell’UIBM. Quest’ultima, a sua volta, interpellò la Corte Costituzionale in merito alla legittimità della l. n. 112 del 2002. Il 15 luglio 2005 la Corte dichiarò: a) l’inammissibilità della richiesta avanzata dalla Commissione dei Ricorsi, b) l’incompetenza dell’UIBM nel “ricalcolo” della scadenza dei CCP; c) la competenza, al riguardo, della sola magistratura. Si noti che la Corte non ha messo in discussione l’esattezza dei calcoli fatti a suo tempo dall’UIBM; secondo l’opinione di vari giuristi essa ha semplicemente stabilito che, nell’eventualità di controversie, sia il giudice a rifare il calcolo e/o a stabilire, caso per caso, se il criterio 306 IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 adottato dall’UIBM risponda a quanto stabilito dalla l. n. 112 del 2002 (6). Occupiamoci ora dell’altra categoria di certificati, cioè dei “Supplemental Protection Certificates” (SPC, certificati “europei”). Come già detto, la durata massima di tali certificati è di cinque anni a partire dalla data di scadenza del corrispondente brevetto, e il criterio adottato per il calcolo è quello di assicurare al titolare un periodo di sfruttamento esclusivo comunque non superiore a quindici anni. La sola eccezione potrebbe verificarsi nel caso (improbabile, ma possibile) in cui la prima AIC sia stata concessa entro cinque anni dal deposito del brevetto: non verrebbe allora rilasciato alcun SPC, ma il titolare potrebbe godere d’uno sfruttamento esclusivo protratto fino a normale scadenza del brevetto. Il calcolo di durata di un SPC avviene secondo una formula così rappresentabile: Data AIC - data deposito brevetto - 5 = durata SPC (7) Dove per “data AIC” deve intendersi la data della prima AIC rilasciata nella Comunità Europea. Ne segue che, a parità di prodotto, se la prima AIC è stata rilasciata - per esempio - in Germania, e soltanto Note: (4) Il criterio base adottato per calcolare la durata del CCP era costituito dai vent’anni (sopra accennati) di durata del periodo di sfruttamento esclusivo. Ipotizziamo che un brevetto scadesse nel 1995, e che la prima AIC risalisse al 1981. Il periodo di esclusiva sarebbe quindi scaduto nel 2001; ergo, la durata del CCP sarebbe stata di sei anni (2001-1995). Per un brevetto di scadenza 1993, prima AIC 1990, quindi sfruttamento esclusivo sino al 2010, la durata del CCP sarebbe stata di diciassette anni (2010-1993). (5) «4. Al fine di adeguare progressivamente la durata della copertura brevettuale complementare a quella prevista dalla normativa comunitaria, le disposizioni di cui alla l. 19 ottobre 1991, n. 349, e al Regolamento CEE n. 1768/1992 del Consiglio del 18 giugno 1992, trovano attuazione attraverso una riduzione della protezione complementare pari a sei mesi per ogni anno solare, a decorrere dal 1° gennaio 1994, fino al completo allineamento (di fatto verificatosi in pochissimi casi) alla normativa europea». (6) In sede giudiziaria potrebbero probabilmente essere discussi vari aspetti del “ricalcolo”, quali - oltre alla data di riferimento dalla AIC (quella del relativo decreto o quella della pubblicazione dello stesso sulla Gazzetta Ufficiale?) - le semplificazioni adottate dall’UIBM nell’Allegato 1 in merito alla data di scadenza del brevetto-base. Non mi sembra azzardato prevedere che gli scarti individuabili dal giudice possano aggirarsi in media su qualche mese in più o in meno rispetto alla scadenza attuale. (7) Qualche esempio (si tenga presente che la durata del brevetto è sempre di vent’anni): a) data della prima AIC: 1° marzo 1995; data di deposito del brevetto 1° marzo 1989, differenza fra le due date: 6 anni, cui bisogna sottrarne 5; durata SPC = 1 anno; periodo di sfruttamento esclusivo: 15 anni; b) Data della prima AIC: 1° marzo 1999; data di deposito del brevetto 1° marzo 1989, differenza 10 anni, durata SPC (105) = 5 anni; sfruttamento esclusivo: 15 anni; c) Data della prima AIC 1° marzo 1994, data di deposito del brevetto 1° marzo 1989, differenza 5 anni, durata SPC (5-5) = 0 anni; sfruttamento esclusivo: 15 anni. Ovviamente gli esempi sono semplificati. In realtà, il calcolo della durata tiene conto degli anni, dei mesi e dei giorni che intercorrono fra data di deposito del brevetto e data della AIC. OPINIONI•BREVETTI due anni dopo in Italia, la scadenza del certificato SPC per l’Italia sarà identica a quella del certificato tedesco, con uno sfruttamento esclusivo tuttavia inferiore di due anni. Alla fine del 2007 (8) risultavano concessi in Italia poco più di 600 SPC (9),un centinaio dei quali già scaduti; quasi la metà di essi ha la durata massima consentita (cinque anni “secchi”), una settantina ha una durata compresa fra quattro e cinque anni, altrettanti fra tre e quattro anni, gli altri fra qualche mese e tre anni. Citerò, a titolo di curiosità, la durata di due SPC: n. 468, 24 giorni, n. 645, 10 giorni. Di prossima entrata in vigore (fine luglio 2008), infine, è quello che qualche operatore del ramo definisce “prolungamento pediatrico”, e che - previa presentazione all’EMEA (European Medicines Agency) di un’accurata documentazione dei risultati di “Paediatric studies” (10) - dovrebbe consentire di ottenere un prolungamento di sei mesi della scadenza di SPC (11). Un ultimo aspetto dei certificati, ancora oscuro a qualcuno, è che sia i CCP sia gli SCP assicurano ai titolari la tutela non soltanto del medicamento (inteso come specialità farmaceutica in commercio) ma anche del principio attivo del medicamento stesso. Gli ultimi dubbi interpretativi sono stati infatti risolti dal Regolamento CEE 23 luglio 1996, n. 1610/96 che istituiva il certificato complementare per i cosiddetti “fitosanitari” (erbicidi, pesticidi eccetera) (12). co generico, la stessa l. 15 giugno 2002, n. 112, citata qui sopra a proposito della limitazione di durata dei CCP “italiani” (15), stabiliva (art. 3, comma 8) che: «le aziende che intendono produrre specialità farmaceutiche al di fuori della copertura brevettuale possono avviare la procedura di registrazione del prodotto contenente il principio attivo in anticipo di un anno rispetto alla scadenza della copertura brevettuale complementare del principio attivo». Questo testo è stato ripreso integralmente dall’art. 61, comma 5, del Codice. La dizione «avviare la procedura di registrazione» significa, a rigor di logica, «depositare il dossier di registrazione», e la logica è confortata in questo caso dal parere di illustri giuristi. Ciò implica che i preparativi necessari alla redazione del dossier possono essere effettuati anche prima dell’anno che precede la scadenza della «copertura brevettuale complementare del principio attivo», cioè del certificato complementare. Qualcuno mi ha domandato se a mio parere il provvedimento valesse non solo per il certificato complementare ma anche per un brevetto in base al quale non sia stato concesso alcun certificato. La mia risposta è stata positiva, anche qui con il conforto dei giuristi con i quali collaboro o ho collaborato: l’assenza del certificato (in particolare di un SPC “europeo”) può significare soltanto che il titolare del brevetto non ha Note: Preparazione di un dossier di registrazione In tutto il mondo, fino al 1984, i preparativi diretti a ottenere un dossier di registrazione, effettuati in vigenza d’un altrui brevetto, erano considerati contraffazione del brevetto stesso. Negli Stati Uniti, in seguito alla nota sentenza “Roche/Bolar” (che confermava detta contraffazione) il legislatore modificò l’art. 271 (e)1 nei seguenti termini: «Non costituirà atto di contraffazione produrre, usare, offrire in vendita o importare [l’oggetto di] un’invenzione brevettata (…) soltanto per impieghi ragionevolmente collegati allo sviluppo e alla presentazione di informazioni secondo la Legge Federale che regola la produzione, l’uso o la vendita di farmaci o di prodotti biologici veterinari». Undici anni più tardi apparvero quasi contemporaneamente in Italia e in Germania (13), i segnali di ravvedimento contro quello che sino ad allora costituiva un artificioso prolungamento della durata di vita di un brevetto (o certificato) al di là della scadenza stabilita dalle leggi. Cinque anni dopo (10 maggio 2000) la Corte Costituzionale tedesca stabilì “expressis verbis” l’illegittimità di tale artificioso prolungamento - e quindi la legittimità dei preparativi necessari a entrare in commercio subito dopo la scadenza dell’altrui brevetto - con una sentenza che venne commentata da uno specialista del settore con le parole «Germany (…) can be seen as (…) one of the most liberal countries in Europe» (14). Per quanto riguarda direttamente i produttori di farma- (8) Gli aggiornamenti vengono comunicati dall’UIBM con ritmo teoricamente trimestrale. (9) Ai quali l’UIBM ha assegnato (tanto per confondere le idee) la stessa sigla “CCP”dei precedenti certificati “italiani”, e una numerazione che parte da quella dell’ultimo CCP “italiano” concesso (n. 419). (10) Si tenga presente che l’età pediatrica giunge sino al compimento del diciottesimo anno. (11) E forse di brevetti per i quali non sia stato possibile ottenere un SPC. Non è chiaro, inoltre, se il prolungamento di sei mesi sia ammissibile per tutti gli SPC, qualunque sia la durata accordata agli stessi. (12) Il “considerando” n. 13 di detto regolamento stabilisce che il certificato (per i fitosanitari) tutela il principio attivo, i suoi sali e/o esteri; il “considerando” n. 17 dispone che altrettanto vale (retroattivamente) anche per il precedente Regolamento n. 1768/92 relativo agli SPC “europei”; e vale infine anche per i CCP “italiani” «alla luce del principio più volte affermato sia dalla giurisprudenza nazionale che da quella comunitaria… secondo cui tra le possibili interpretazioni del testo normativo prodotto dagli organi nazionali va prescelta quella conforme alle prescrizioni della Comunità», G. Del Corno, Brevetti e certificati protettivi complementari, in Riv. dir. ind., 1998, I, 47. (13) Ordinanza del Giudice Bonaretti nel caso Squibb/Testaguzza; sentenza del Bundesgerichtshof nel caso “Clinical Trials I”. (14) A chi interessasse, questa graduale modificazione di atteggiamento delle leggi e della giurisprudenza (anche in altri Paesi europei) è riassunta nell’articolo del sottoscritto citato in bibliografia, tuttavia “finito di stampare” poco prima della pubblicazione dei provvedimenti citati più avanti: G. Bianchetti, Evoluzione delle leggi e della giurisprudenza nell’interpretazione dell’“eccezione sperimentale, in Studi di Diritto Industriale in onore di Adriano Vanzetti, 2004, Milano. (15) Un panorama completo delle vicende giuridiche relative alla durata dei CCP “italiani” sarà contenuto in un lavoro di Giorgio Floridia che verrà pubblicato nel prossimo numero di questa Rivista. IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 307 OPINIONI•BREVETTI potuto soddisfare le regole previste per il rilascio del certificato stesso, cioè che già godeva di un periodo di sfruttamento esclusivo uguale o superiore ai quindici anni. Come già detto, la l. 15 giugno 2002, n. 112. Se qualche dubbio interpretativo poteva rimanere, esso venne dissipato da due provvedimenti successivi: 1) Il primo è costituito dalla Direttiva 31 marzo 2004, n. 2004/27/CE il cui art. 10 (relativo ai medicinali generici), par. 6, che recita come segue: «L’esecuzione degli studi e delle sperimentazioni necessarie ai fini dell’applicazione dei paragrafi 1, 2, 3 e 4 e i conseguenti adempimenti pratici non sono considerati contrari alla normativa relativa ai brevetti o ai certificati supplementari di protezione dei medicinali». Come si può osservare, la Direttiva cita espressamente anche i brevetti, oltre ai certificati, e conferma quanto detto poche righe più sopra (16). 2) Il secondo provvedimento è infatti costituito dall’art. 68 (Limitazioni del diritto di brevetto), comma 1a) del Codice: «1. La facoltà esclusiva attribuita dal diritto di brevetto non si estende, quale che sia l’oggetto dell’invenzione, a) agli atti compiuti in ambito privato e a fini non commerciali, ovvero in via sperimentale ancorché diretti all’ottenimento, anche in paesi esteri, di una autorizzazione all’immissione in commercio di un farmaco e ai conseguenti adempimenti pratici ivi compresi la preparazione e l’utilizzazione delle materie prime farmacologicamente attive a ciò strettamente necessarie». Si può constatare che entrambi i provvedimenti prescindono da precisazioni temporali. In altri termini, i “preparativi” risultano effettuabili in qualsiasi momento di vigenza dell’altrui brevetto o certificato, il solo limite essendo costituito dal momento di presentazione del dossier all’autorità sanitaria. Si noti tuttavia che quest’ultimo limite non appare nella Direttiva 31 marzo 2004, n. 2004/27/CE, art. 10 par. 6 sopra riportato. Questa contraddizione potrebbe essere risolta, se del caso, soltanto in ambito giudiziario; e in proposito mi permetto di rilevare che secondo alcuni specialisti del settore il deposito del dossier - provvedimento puramente formale - difficilmente potrebbe configurarsi agli occhi del magistrato come atto di contraffazione d’un brevetto. L’art. 68 del Codice, qui sopra riportato, menziona anche «la preparazione e l’utilizzazione delle materie prime farmacologicamente attive», e coinvolge pertanto, oltre ai genericisti, la seconda, rilevante categoria di interessati: i produttori di principi attivi. Già la l. 15 giugno 2002, n. 112 (art. 3, commi 8bis e 8ter), e più specificamente il successivo d.m. 17 ottobre 2002, si erano occupati di questi operatori, ai quali veniva concesso - nel rispetto di una serie di modalità - il diritto di chiedere una licenza per la produzione e l’esportazione in Paesi liberi da vincoli brevettuali. Le modalità della richiesta precisate nel decreto ministeriale sono state riprese pressoché integralmente dall’art. 200 del Codice. 308 IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 A oltre cinque anni di distanza dal decreto mi risulta che la concessione di detta licenza sia avvenuta in un numero limitato di casi, e dopo trattative la cui lungaggine ha molto spesso stancato i richiedenti. Per contro, hanno avuto pieno successo i ricorsi di produttori italiani alla Autorità garante della concorrenza e del mercato (per “abuso di posizione dominante”) contro il rifiuto che due titolari di CCP avevano opposto alla richiesta di licenza secondo quanto qui sopra citato (17). L’interessante commento dei professori Floridia e Lamandini (18) si conclude con una citazione tratta dalla sentenza del TAR, secondo la quale: «i CCP italiani ancora in vigore risultano meno efficaci in quanto circoscrivono al territorio italiano il godimento pieno della privativa da parte dell’impresa titolare, senza garantire più alcun diritto esclusivo fuori da questo ambito». I produttori di principi attivi sono interessati non soltanto all’esportazione nei paesi liberi da vincoli brevettuali, ma anche alla fornitura, ai genericisti italiani, del principio attivo necessario alla preparazione del dossier di registrazione (mi risulta, infatti, che molto raramente i genericisti sono in grado di prodursi da soli tali principi). In proposito, l’art. 68, comma 1a) del Codice (“Limitazioni del diritto di brevetto”), si occupa anche di questo aspetto, là dove rileva che non costituiscono contraffazione: «gli atti compiuti in ambito privato e a fini non commerciali, ovvero in via sperimentale ancorché diretti all’ottenimento, anche in paesi esteri, di un’autorizzazione all’immissione in commercio di un farmaco e ai conseguenti adempimenti pratici ivi compresi la preparazione e l’utilizzazione delle materie prime farmacologicamente attive a ciò strettamente necessarie». Mi sembra che il testo sia chiarissimo, nel senso che il produttore di principio attivo può sintetizzare e fornire al genericista soltanto il quantitativo (grammi, o chilogrammi, o quintali, dipendentemente dal dosaggio) che il genericista stesso dichiarerà necessario all’espletamento della sperimentazione prevista per la redazione del dossier. Note: (16) La direttiva, quantunque “ufficialmente” non recepita dall’Italia, ha trovato un chiaro riscontro nel Codice della Proprietà Industriale, come detto qui di seguito. Sull’argomento per approfondimenti cfr. C. Galli, L’uso sperimentale dell’altrui invenzione brevettata, in Riv. dir. ind., 1998, I; F. Massimino, Esenzione galenica: profili regolatori e brevettuali, in questa Rivista, 2004, 205 ss.; R. Sgarbi, L’uso dell’invenzione per scopi sperimentali, ivi, 1994, 740 ss.; Id., Experimental use e violazione del brevetto”, ivi, 1996, 16 ss. (17) Si tratta dei casi “Sumatriptan Succinato” e “Imipenem Cilastatina”, che mi è impossibile riassumere qui, ma che sono ampiamente illustrati in questa Rivista, 2006, 229-244 e 244-262, accompagnate dal ricorso di una delle società soccombenti al TAR del Lazio, che ha respinto tale ricorso. (18) G. Floridia, Principi attivi e specialità farmaceutiche nella disciplina dei brevetti, in questa Rivista, 2004, 513 ss.; G. Floridia e M. Lamandini, Commento ai casi “Sumatriptan Succinato e Imipenem Cilastatina, ivi, 2006, 272 ss. OPINIONI•BREVETTI Si può quindi riassumere quanto esposto nei seguenti termini: a) i preparativi materiali del dossier di registrazione, in vigenza di altrui diritti brevettuali (siano essi brevetti veri e propri, oppure certificati “italiani” o “europei”), sono resi possibili - anche anni prima della scadenza di tali diritti - dalla l. 15 giugno 2002, n. 112 e più chiaramente dall’art. 10, par. 6 della Direttiva 31 marzo 2004, n. 2004/27/CE e dall’art. 68, comma 1a) del Codice entrato in vigore nel febbraio 2005; b) il principio attivo per la realizzazione dei preparativi suddetti può essere prodotto e fornito al genericista nella quantità strettamente necessaria allo scopo, in base allo stesso art. 68, comma 1a del Codice testé citato; c) il dossier di registrazione può essere presentato all’autorità sanitaria un anno prima della scadenza dei diritti altrui, secondo la legge italiana n. 112, art. 3, comma 8, ripreso dall’art. 61, comma 5, Codice. La lettera della Direttiva n. 2004/27/CE, par. 6, ripresa nella sostanza dall’art. 68 dello stesso Codice, non prevede neppure questo limite; può tuttavia essere prudente attenersi all’art. 61 comma 5 del Codice, testé citato; d) ovviamente, la messa in commercio del farmaco generico può avvenire soltanto dopo la scadenza dell’altrui brevetto o certificato. IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 309 GIURISPRUDENZA•BREVETTI Tutela giurisdizionale L’efficacia “cross border” in ambito comunitario dei provvedimenti di descrizione CORTE DI GIUSTIZIA CE, Conclusioni dell’Avvcato generale Juliane Kokott 27 settembre 2007, causa C-175/06 - - A.T. c. Tomasoni Fittings s.r.l. e Rwo Marine Equipment Ltd. I Brevetti - Provvedimenti di descrizione - Efficacia transfrontaliera - Ammissibilità (D.Lgs. 10 febbraio 2005, n. 30, artt. 128 e 130; Regolamento CE n. 1206/2001, artt. 1 e 4) La nozione di assunzione di prove dalla quale dipende l’ambito d’applicazione del Regolamento (CE) del Consiglio 28 maggio 2001, n. 1206 deve essere intesa in modo autonomo facendo riferimento al significato letterale, alla genesi, alla ratio e allo scopo del Regolamento. II Brevetti - Provvedimenti di descrizione - Efficacia transfrontaliera - Ammissibilità (D.Lgs. 10 febbraio 2005, n. 30, artt. 128 e 130; Regolamento CE n. 1206/2001, artt. 1 e 4 ) Dal combinato disposto dell’art. 1, n. 1, e dell’art. 4, n. 1, lett. e) e f) del Regolamento (CE) del Consiglio 28 maggio 2001, n. 1206 deriva che l’oggetto della richiesta di assunzione di prove non ha confini ristretti e può riguardare anche atti o altri oggetti che possono essere presi in visione o esaminati da periti. III Brevetti - Provvedimenti di descrizione - Efficacia transfrontaliera - Ammissibilità (D.Lgs. 10 febbraio 2005, n. 30, artt. 128 e 130; Regolamento CE n. 1206/2001, artt. 1 e 4 ) Misure come la descrizione di cui agli artt. 128 e 130 C.p.i., costituiscono assunzioni di prove, che rientrano nell’ambito d’applicazione di cui all’art. 1 del Regolamento (CE) del Consiglio 28 maggio 2001, n. 1206, relativo alla cooperazione fra le autorità giudiziarie degli Stati membri nel settore dell’assunzione delle prove in materia civile o commerciale, e che l’autorità giudiziaria di uno Stato membro deve eseguire su richiesta dell’autorità giudiziaria di un altro Stato membro, sempre che non sussistano motivi di rigetto. (Omissis) III - Fatti e questioni pregiudiziali 13. Il 21 marzo 2005 il sig. T. ha presentato un’istanza di descrizione presso il Tribunale civile di Genova, ai sensi degli artt. 128 e 130 C.p.i., contro le ditte Tomasoni Fittings s.r.l. (in prosieguo: la «Tomasoni»), con sede in Genova, e RWO (Marine Equipment) Ltd. (in prosieguo: la «RWO»), con sede in Essex, Regno Unito. 14. Il sig. T. ha sostenuto di essere l’inventore di un sistema di imbracatura e di aver fatto tutelare tale invenzione depositando una domanda di brevetto. La ditta RWO, che opera in Italia attraverso l’impresa distributrice Tomasoni, avrebbe messo in vendita un sistema di imbracatura con caratteristiche tecniche identiche, per il quale sarebbe stata presentata domanda di brevetto successiva a quella relativa al prodotto del ricorrente. 15. Il 5 maggio 2005 il Tribunale civile di Genova ha IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 311 GIURISPRUDENZA•BREVETTI ordinato di procedere, inaudita altera parte, alla descrizione del prodotto sospettato di violare il diritto del ricorrente. In un primo momento la descrizione è stata eseguita in Italia presso la ditta Tomasoni. Il 20 giugno 2005 il Tribunale di Genova, sulla base del Regolamento n. 1206/2001, ha rivolto una rogatoria all’ufficio del Senior Master [organo giurisdizionale britannico, che coadiuva la Queen’s Bench Division; N.d.T.] of the Queen’s Bench Division of the Supreme Court of England and Wales [giudice civile britannico, analogo ai nostri tribunali; N.d.T.]. L’autorità giudiziaria interpellata avrebbe dovuto effettuare una corrispondente descrizione del prodotto della RWO presso i locali della stessa secondo la legge italiana. 16. La descrizione avrebbe dovuto riguardare anche ulteriori elementi di prova della condotta denunziata quali, «a titolo esemplificativo ma non esaustivo», fatture, bolle di consegna, ordini, lettere di offerta, materiale pubblicitario, dati dell’archivio informatico e documenti doganali. Il Tribunale di Genova ha altresì autorizzato l’utilizzo di ogni mezzo tecnico, l’intervento di un perito ed il prelievo di esemplari a titolo di campione. Le operazioni avrebbero dovuto limitarsi a quanto necessario per l’indagine. Il ricorrente e i suoi rappresentanti o i suoi tecnici sono stati esclusi dalla consultazione dei documenti. 17. Con una nota informale il Senior Master ha comunicato il suo rifiuto di eseguire la descrizione con la motivazione che l’indagine e il sequestro di oggetti e documenti non sarebbero conformi alla prassi dei funzionari del Senior Master e che l’operazione richiesta non potrebbe essere eseguita seguendo l’iter dell’assistenza giudiziaria. 18. Con ordinanza 14 marzo 2006 il Tribunale civile di Genova ha quindi sottoposto alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali: «a) Se la richiesta di procedere alla descrizione, nei termini di cui agli artt. 128 e 130 del codice italiano della proprietà industriale e intellettuale, secondo le modalità dettate da questo giudice nel caso di specie, sia, ai sensi e nei termini di cui al Regolamento [(CE) del Consiglio 28 maggio 2001, n. 1206, relativo alla cooperazione fra le autorità giudiziarie degli Stati membri nel settore dell’assunzione delle prove in materia civile o commerciale,] da comprendersi tra gli atti di “assunzione delle prove” per [i] quali l’autorità giudiziaria di uno Stato membro può, in base al Regolamento suddetto, chiedere all’autorità giudiziaria competente di un altro Stato membro di procedere all’assunzione della prova stessa. b) Se, in caso affermativo e in caso di richiesta di descrizione incompleta o che non soddisfa le condizioni di cui all’art. 4 del Regolamento, sussista per l’autorità giudiziaria richiesta l’obbligo: – di trasmettere una dichiarazione di ricezione nei termini e nei modi di cui all’art. 7 Regolamento; – di segnalare l’eventuale incompletezza della richiesta, 312 IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 onde consentire all’autorità giudiziaria richiedente di completare e/o adeguare la propria richiesta». 19. Nel procedimento dinanzi alla Corte hanno presentato osservazioni scritte e orali il sig. T., i governi italiano, finlandese, svedese, sloveno, ellenico e spagnolo, l’Irlanda, il governo del Regno Unito nonché la Commissione delle Comunità europee. (omissis). 1. Ambito d’applicazione del Regolamento n. 1206/2001 38. Il Regolamento n. 1206/2001 si applica, in base all’art. 1, n. 1, lett. a), dello stesso, in materia civile o commerciale allorché, conformemente alle disposizioni della propria legislazione, l’autorità giudiziaria di uno Stato membro chiede che l’autorità giudiziaria competente di un altro Stato membro proceda all’assunzione delle prove. Dal n. 2 del predetto art. 1 risulta inoltre che le prove di cui si chiede l’assunzione devono essere destinate ad essere utilizzate in procedimenti giudiziari pendenti o previsti. (Omissis). a) Interpretazione della nozione di assunzione delle prove 40. La nozione di «assunzione delle prove» di cui all’art. 1, n. 1, lett. a), Regolamento n. 1206/2001 non viene meglio definita dal legislatore comunitario. 41. Nella sua giurisprudenza relativa alla Convenzione di Bruxelles, la Corte ha stabilito il principio in base al quale le nozioni di tale convenzione devono essere interpretate in modo autonomo. In relazione alla definizione di «materia civile e commerciale» di cui all’art. 1 della Convenzione di Bruxelles - definizione fondamentale per determinarne l’ambito d’applicazione - la Corte, in particolare, ha statuito che dalla Convenzione devono derivare agli Stati contraenti ed agli interessati diritti ed obblighi, per quanto possibile, uguali ed uniformi. Pertanto, i termini di tale disposizione non potrebbero essere interpretati come un semplice rinvio al diritto interno dell’uno o dell’altro Stato interessato. 42. Analoghe considerazioni valgono anche per la nozione di assunzione delle prove, dalla cui interpretazione dipende l’ambito d’applicazione del Regolamento n. 1206/2001. Il suo significato e la sua portata devono essere determinati, pertanto, in modo autonomo facendo riferimento al significato letterale, alla genesi, alla ratio e allo scopo del Regolamento. 43. Come risulta dal suo secondo “considerando”, il Regolamento n. 1206/2001 è volto a favorire il corretto funzionamento del mercato interno, in quanto con esso la cooperazione tra le autorità giudiziarie nel settore dell’assunzione delle prove viene migliorata e, in particolare, semplificata e accelerata. Il raggiungimento di tale obiettivo viene agevolato se il meccanismo semplificato di assistenza giudiziaria istituito dal Regolamento n. 1206/2001 viene applicato al maggior numero possibile di misure giudiziali di acquisizione di informazioni. La nozione di assunzione di prove, pertanto, non dovrebbe essere interpretata restrittivamente. GIURISPRUDENZA•BREVETTI 44. Dal combinato disposto dell’art. 1, n. 1, e dell’art. 4, n. 1, lett. e) e f), del Regolamento n. 1206/2001 deriva quindi, prima di tutto, che l’oggetto della richiesta di assunzione di prove non ha confini ristretti. Soprattutto oggetto della rogatoria non può essere soltanto l’assunzione di testimonianze. Piuttosto, dall’art. 4, n. 1, lett. f), risulta che l’assunzione delle prove può riguardare anche atti o altri oggetti che possono essere presi in visione o esaminati da periti. La possibilità di disporre perizie è confermata inoltre dall’art. 18, n. 2, primo trattino, che disciplina il rimborso dei compensi versati per l’intervento di periti. 45. Gli oggetti menzionati dal Tribunale civile di Genova nell’ordinanza istruttoria - esemplari del sistema di imbracatura, nonché fatture di acquisto e di vendita, bolle di consegna, ordini, lettere commerciali di offerta, materiale pubblicitario, dati conservati nell’archivio informatico e documenti doganali ad essi relativi - costituiscono documenti e oggetti visionabili, che un’autorità giudiziaria può prendere in visione personalmente o far esaminare da un perito. Ne consegue che gli oggetti menzionati nell’ordinanza istruttoria in via di principio possono costituire oggetto di un’assunzione di prova ai sensi del Regolamento n. 1206/2001. b) Sull’assunzione preventiva di mezzi di prova in caso di violazione di diritti di proprietà intellettuale 46. L’ordinanza di rinvio trae origine da una rogatoria formulata nell’ambito di una speciale assunzione preventiva di mezzi di prova, relativa alla violazione di un diritto di proprietà intellettuale. Per un siffatto procedimento sono previste, sia a livello internazionale che a livello comunitario, norme speciali che prendono in considerazione le particolari esigenze di tutela giuridica in situazioni di tal tipo. Di tali norme occorre tener conto per interpretare, qui di seguito, il Regolamento n. 1206/2001. 47. Un’assunzione di prove presuppone di regola che l’oggetto e i mezzi di prova siano indicati dalla parte su cui grava l’onere probatorio. Tuttavia, il titolare di un diritto di proprietà intellettuale, che viene a conoscenza di una violazione del suo diritto, spesso si imbatte nella difficoltà di non poter indicare con precisione i relativi elementi di prova e di non aver nemmeno accesso ai medesimi, in quanto essi si trovano nella disponibilità dell’autore della violazione o di un terzo. Inoltre in siffatte ipotesi il più delle volte occorre agire con urgenza, per limitare il danno causato dalla violazione del diritto e per raccogliere le prove prima di un loro deterioramento. 48. Per garantire un’effettiva tutela della proprietà intellettuale, pertanto, l’art. 50 dell’Accordo TRIPs prevede la facoltà delle autorità giudiziarie di ordinare misure provvisorie immediate ed efficaci sia per impedire la messa in vendita delle merci illecite, sia per preservare elementi di prova relativi alla presunta violazione. 49. L’art. 7 Direttiva n. 2004/48 si rifà a questa disposizione dell’accordo TRIPs. In base al citato art. 7 le autorità giudiziarie devono poter disporre «celeri ed efficaci misure provvisorie per salvaguardare le prove pertinenti per quanto concerne l’asserita violazione». Siffatte misure possono «includere la descrizione dettagliata, con o senza prelievo di campioni, o il sequestro delle merci controverse e, all’occorrenza, dei materiali e degli strumenti utilizzati nella produzione e/o distribuzione di tali merci e dei relativi documenti». 50. In Italia queste previsioni della Direttiva hanno trovato attuazione nel diritto interno mediante gli artt. 128 ss. C.p.i. Altri Stati membri conoscono strumenti analoghi. Nel Regno Unito la Section 7 del Civil Procedure Act 1997 [legge britannica del 1997, in materia di procedura civile], in combinato disposto con la Rule 25.1, n. 1, lett. h), consente l’adozione di un search order. Tali disposizioni codificano l’istituto giurisprudenziale noto come Anton Piller Order. 51. In sede di interpretazione del Regolamento n. 1206/2001 dovrebbe tenersi conto delle disposizioni e degli obiettivi della Direttiva n. 2004/48, quantunque quest’ultima - come risulta dal suo undicesimo “considerando” - di per sé non si propone di armonizzare le norme in materia di cooperazione giudiziaria. Il citato “considerando”, infatti, prosegue affermando che «alcuni strumenti comunitari disciplinano queste materie in generale e, in linea di principio, si applicano anche alla proprietà intellettuale». 52. Tale motivazione induce ad approfondire l’analisi del sistema dell’assistenza giudiziaria, quale istituito dal Regolamento n. 1206/2001, nei procedimenti previsti dalla Direttiva n. 2004/48 per l’assunzione preventiva di mezzi di prova al fine di garantire un’effettiva tutela dei diritti di proprietà intellettuale anche in casi di controversie transfrontaliere. c) Obiezioni sollevate contro l’applicazione del Regolamento n. 1206/2001 53. Mentre la maggior parte dei soggetti che hanno presentato osservazioni alla Corte si pronuncia a favore dell’applicazione del Regolamento n. 1206/2001 in un caso come il presente, il governo ellenico, l’Irlanda ed il governo del Regno Unito si oppongono alla sua applicazione basandosi, fondamentalmente, sui seguenti argomenti: – la descrizione implicherebbe misure di perquisizione e sequestro (orders for search and seizure), non comprese nel Regolamento; – il Regolamento, al pari della Convenzione dell’Aja, non si estenderebbe alle misure cautelari ed esecutive (provisional and protective measures); – le richieste misure di assunzione di prove dovevano essere domandate ad un’autorità giudiziaria britannica sul fondamento del Regolamento n. 44/2001. IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 313 GIURISPRUDENZA•BREVETTI i) Sulla possibile applicazione del Regolamento n. 1206/2001 alle misure di perquisizione e sequestro 54. Secondo il governo del Regno Unito la descrizione comprenderebbe misure di perquisizione e sequestro non rientranti nell’ambito d’applicazione del Regolamento n. 1206/2001. L’assunzione di prove dovrebbe essere tenuta distinta dalle indagini preliminari alla vera e propria istruzione probatoria. Inoltre il Regolamento non conterrebbe alcuna previsione diretta a tutelare i diritti degli interessati in casi di perquisizione e sequestro. 55. Un’assunzione di prove consiste nella percezione sensoriale e nella valutazione di un elemento di prova. Le deposizioni testimoniali vengono ascoltate, i documenti vengono letti, gli altri oggetti vengono ispezionati. L’assistenza giudiziaria si estende a tutte queste operazioni, come risulta dall’art. 4, n. 1, lett. e) e f), Regolamento n. 1206/2001. 56. Per poter procedere all’assunzione delle prove si presuppone che l’autorità giudiziaria o una persona dalla medesima delegata, ad esempio un perito, e possibilmente anche il rappresentante processuale di una parte, possa accedere agli elementi di prova. Colui che è in possesso dell’elemento di prova viene obbligato, dal provvedimento che ordina la descrizione o da un search order, a permettere tale accesso. Siffatti provvedimenti sono collegati, pertanto, in modo inscindibile con l’assunzione delle prove. Ciò vale anche quando l’autorità giudiziaria non prende personalmente visione del materiale probatorio in loco, ma dà incarico a un’altra persona di documentare gli oggetti o di prelevare un campione, e la documentazione (fotocopie, foto, dati memorizzati su appositi supporti, o altro) o il campione viene direttamente esibito all’autorità giudiziaria solo in un momento successivo. 57. Nei casi di assunzione preventiva di mezzi di prova, inoltre, viene garantita anche la tutela dei diritti degli interessati. Nell’ambito dell’assistenza giudiziaria i corrispondenti provvedimenti istruttori di regola vengono eseguiti in conformità alle leggi dello Stato membro dell’autorità giudiziaria interpellata (art. 10, n. 2, Regolamento n. 1206/2001). In tal modo viene garantito il rispetto dei parametri processuali vigenti nel luogo di assunzione delle prove. Tali parametri tutelano i diritti della controparte e anche i diritti dei terzi nella cui disponibilità si trovano gli elementi di prova. 58. Quando l’assunzione delle prove viene eccezionalmente effettuata secondo una procedura particolare prevista dalla legge dello Stato membro dell’autorità giudiziaria richiedente (art. 10, n. 3, Regolamento n. 1206/2001), la controparte o i terzi, che si trovano nel luogo di assunzione delle prove, si vedono posti di fronte ad una legislazione processuale straniera. 59. Tuttavia, le misure di assunzione preventiva di mezzi di prova relative alla violazione di diritti di proprietà intellettuale sono state armonizzate con la Direttiva n. 314 IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 2004/48. In quest’ambito le legislazioni processuali degli Stati membri - una volta correttamente attuata la Direttiva - possono ancora divergere tra loro solo entro i margini di discrezionalità attuativa concessi dalla Direttiva stessa. Peraltro, le legislazioni degli Stati membri devono conformarsi a principi di validità generale, quali il principio del processo equo, dell’inviolabilità del domicilio e della proprietà, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU). 60. Se, ciò nonostante, l’assunzione delle prove secondo la legislazione processuale straniera dovesse risultare incompatibile con le leggi nazionali o rivelarsi impossibile a causa di notevoli difficoltà d’ordine pratico, permane, quale estremo rimedio, la possibilità di rifiutare la richiesta (art. 10, n. 3, seconda frase, Regolamento n. 1206/2001). Prima di giungere a ciò, tuttavia, l’autorità giudiziaria interpellata deve optare per un rimedio meno drastico, provando ad eseguire la misura richiestale con una procedura modificata che assicuri il rispetto delle garanzie previste dal diritto interno. 61. Occorre rilevare, infine, che le considerazioni finora svolte si riferiscono all’ipotesi in cui colui che ha la disponibilità dell’elemento di prova partecipi spontaneamente all’assunzione delle prove. Solo quando l’interessato nega l’accesso agli elementi di prova si deve eventualmente ricorrere a mezzi coercitivi per effettuare l’assunzione delle prove. Queste più incisive aggressioni ai diritti dell’interessato sono attuate, ai sensi dell’art. 13 Regolamento n. 1206/2001, solo in conformità alla lex fori dell’autorità giudiziaria interpellata. 62. Con riferimento al presente caso, ciò significa che l’autorità giudiziaria britannica doveva eseguire la descrizione, in conformità alla richiesta fattale, in via di principio seguendo la procedura particolare prevista dagli artt. 128 e 130 C.p.i., a meno che non sussistessero motivi di rigetto. L’assunzione di tale prova consiste principalmente nella documentazione del sistema di imbracatura e dei relativi documenti e dati. Essa può anche comprendere, ove occorra, il prelievo di documenti e di oggetti da visionare, allo scopo di sottoporre tali oggetti ad un perito o alla diretta valutazione dell’autorità giudiziaria interpellata o di quella richiedente. Nell’esecuzione di tali operazioni deve essere rispettato il principio di proporzionalità. 63. Inoltre, ai sensi dell’art. 7 della Direttiva n. 2004/48 deve essere salvaguardata la tutela delle informazioni riservate. Quest’obbligo vale tanto per l’autorità giudiziaria interpellata quanto per quella richiedente. Il Tribunale civile di Genova, pertanto, pur avendo consentito al ricorrente e ai suoi procuratori di assistere alla descrizione, li ha esclusi dalla consultazione dei documenti prelevati e ha richiesto la trasmissione dei documenti in busta sigillata. Potrebbe ipotizzarsi, ad esempio, che il Tribunale di Genova introduca nel procedimento i documenti commerciali di particolare delicatezza solo qualora si convinca, sulla base della documentazione, GIURISPRUDENZA•BREVETTI che vi è stata una violazione del brevetto. Solo in tal caso risulta necessario conoscere le cifre esatte delle vendite per calcolare l’entità del danno. 64. Se la RWO non fornisce spontaneamente gli oggetti, l’art. 13 Regolamento n. 1206/2001 consente l’applicazione di mezzi coercitivi. Ove ciò sia possibile nel diritto britannico e risulti necessario per effettuare l’assunzione della prova, potrebbe essere sequestrato, ad esempio, un esemplare del sistema di imbracatura. 65. Pertanto non è corretta, in questi termini generali, la tesi secondo cui le misure richieste dal Tribunale civile di Genova non rientrerebbero, in quanto misure di perquisizione e sequestro, nell’ambito d’applicazione del Regolamento n. 1206/2001. ii) Divieto della pre-trial discovery 66. Le riserve del governo del Regno Unito in ordine all’estensione dell’assistenza giudiziaria a misure di assunzione preventiva di mezzi di prova nella fase preprocessuale si ricollegano, evidentemente, anche al trattamento, sempre controverso nell’ambito della Conferenza dell’Aja, della cosiddetta pre-trial discovery. 67. A tale proposito occorre prima di tutto osservare che ai sensi dell’art. 1, n. 2, del Regolamento n. 1206/2001 non sono ammesse le rogatorie intese a ottenere prove che non siano destinate ad essere utilizzate in procedimenti giudiziari pendenti o previsti. È dubbio che la rogatoria soddisfi in tutto e per tutto tali requisiti, dal momento che con essa è stata ordinata la descrizione di ulteriori elementi di prova riguardanti l’asserita violazione, quali - a titolo esemplificativo ma non esaustivo fatture, bolle di consegna, ordini, lettere di offerta, materiale pubblicitario, dati dell’archivio informatico e documenti doganali. 68. A differenza della Convenzione dell’Aja (art. 23 della medesima), il Regolamento n. 1206/2001 non contiene alcuna clausola esplicita di riserva in relazione alla pre-trial discovery. Tuttavia il Consiglio, all’atto dell’adozione del Regolamento n. 1206/2001, ha formulato la seguente dichiarazione n. 54/01: «La “pre-trial discovery” comprese le indagini esplorative (c.d. “fishing expeditions”) sono escluse dall’ambito d’applicazione del presente Regolamento» [traduzione libera]. 69. Secondo una costante giurisprudenza, una dichiarazione inserita in un verbale del Consiglio può essere presa in considerazione per l’interpretazione di un atto normativo qualora il suo contenuto trovi riscontro anche nel testo di tale atto e sia utile per precisare una nozione generale. Nel presente contesto la dichiarazione inserita nel verbale chiarisce l’elemento «utilizzo delle prove in procedimenti pendenti o previsti», costitutivo della fattispecie di cui all’art. 1, n. 2, Regolamento n. 1206/2001. 70. L’esclusione della pre-trial discovery, menzionata nella dichiarazione, non può essere intesa nel senso che è esclusa qualsivoglia procedura di accertamento dei fatti che preceda l’instaurazione del giudizio di merito. A tale interpretazione osta la lettera dell’art. 1, n. 2. Piuttosto la dichiarazione in esame chiarisce che gli elementi di prova devono essere determinati per lo meno con un grado di precisione tale che risulti chiaro il loro legame con il procedimento pendente o previsto, nonché nel senso che l’assistenza giudiziaria può riguardare soltanto gli elementi di prova veri e propri, e non già circostanze che si ricolleghino solo indirettamente al procedimento giudiziario. 71. Per evitare, in caso di provvedimenti istruttori con i quali si ordina la produzione di determinati documenti, un’indagine sulla controparte mediante una fishing expedition (tentativo irrituale di acquisire prove) occorre procedere alla seguente distinzione. 72. Un provvedimento istruttorio è inammissibile quando i documenti di cui si chiede la produzione siano rivolti solo a far emergere materiale probatorio utilizzabile, ma di per sé non soddisfino scopi probatori inerenti al processo (cosiddetto «train of enquiry» - ricerca illecita di materiali probatori rilevanti). In tali casi le prove vengono utilizzate solo in via indiretta. Pertanto, non risulta integrato l’elemento «utilizzo in un procedimento giudiziario», costitutivo della fattispecie. 73. È invece ammissibile un provvedimento istruttorio con cui si ordina la produzione di documenti che vengano trovati soltanto in sede di esecuzione dell’ordine stesso, purché tali documenti siano indicati o descritti con sufficiente precisione e presentino un legame diretto con l’oggetto della lite. Solo così può evitarsi che abbia luogo un’indagine a carico della controparte che vada al di là dell’oggetto della lite. 74. Nel procedimento principale il provvedimento istruttorio dell’autorità giudiziaria italiana, con il quale si chiede la descrizione di fatture di acquisto e di vendita, bolle di consegna, ordini, lettere commerciali di offerta, materiale pubblicitario, dati conservati nell’archivio informatico e documenti doganali, serve a rintracciare questi elementi di prova. Con l’aiuto dei documenti il ricorrente intende provare la violazione del brevetto in quanto tale e la sua portata e in tal modo stimare l’entità di eventuali pretese risarcitorie. Essendo tali elementi di prova destinati ad essere utilizzati nel procedimento pendente o in un procedimento previsto, la richiesta dell’autorità giudiziaria italiana risulta ammissibile. 75. Invece, il passo del predetto provvedimento istruttorio non è ammissibile quando l’autorità giudiziaria italiana chiede la descrizione di documenti ulteriori, non menzionati («in via esemplificativa ma non esclusiva»). Qui manca una precisa indicazione delle ulteriori tipologie di documenti. iii) Distinzione fra assunzione delle prove e misure cautelari ed esecutive 76. Il governo ellenico, l’Irlanda ed il governo del Re- IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 315 GIURISPRUDENZA•BREVETTI gno Unito, a differenza degli altri soggetti che hanno presentato osservazioni alla Corte, sono dell’avviso che la descrizione, comprensiva del sequestro di documenti e campioni, costituisca una misura cautelare o esecutiva e non un’assunzione delle prove ai sensi del Regolamento n. 1206/2001. Questa tesi poggia su due premesse: la prima è che le misure cautelari ed esecutive non rientrino nell’ambito d’applicazione del Regolamento; la seconda è che le misure di assunzione preventiva di mezzi di prova qui in discussione siano misure cautelari ed esecutive di tal fatta. Posso condividere la prima premessa, ma non la seconda. – Le misure cautelari ed esecutive non rientrano nell’ambito d’applicazione del Regolamento n. 1206/2001 77. Prima dell’emanazione del Regolamento n. 1206/2001 il fondamento primario dell’assistenza giudiziaria in materia di assunzione delle prove era costituito sostanzialmente dalla Convenzione dell’Aja, quanto meno tra gli Stati aderenti alla medesima, tra cui figuravano, tuttavia, solo undici Stati membri. Il Regolamento è rivolto a fornire un fondamento comune all’assistenza giudiziaria all’interno di tutta la Comunità (ad esclusione della Danimarca) e a semplificare ulteriormente tale assistenza. 78. L’iniziativa della Repubblica federale di Germania in vista dell’adozione del Regolamento del Consiglio relativo alla cooperazione fra i giudici degli Stati membri nel settore dell’assunzione delle prove in materia civile e commerciale si rifaceva, per la determinazione dell’ambito d’applicazione, alla corrispondente formulazione di cui all’art. 1 della Convenzione dell’Aja. In base a tale previsione il Regolamento avrebbe dovuto trovare applicazione alle richieste concernenti un atto di istruttoria o un altro atto giudiziario, ad eccezione della notifica di atti giudiziari o extragiudiziari o di misure cautelative o esecutive. Infatti, come sottolineato nel settimo e nell’ottavo “considerando” dell’iniziativa tedesca, tali misure risultano, infatti, già disciplinate, da un lato, dal Regolamento (CE) del Consiglio 29 maggio 2000, n. 1348, relativo alla notificazione e alla comunicazione negli Stati membri degli atti giudiziari ed extragiudiziali in materia civile o commerciale e, dall’altro, dalla Convenzione di Bruxelles. 79. Discostandosi dall’iniziativa, il Regolamento n. 1206/2001 rinuncia a comprendere nel proprio ambito d’applicazione gli «altri atti giudiziari» e menziona soltanto l’assunzione delle prove. Pertanto, le misure cautelari o esecutive non hanno nemmeno bisogno di essere espressamente escluse dall’ambito di applicazione del Regolamento, in quanto potrebbero essere considerate solo come altri atti giudiziari, ma non già come assunzione di prove. È quindi corretta l’opinione secondo cui le misure cautelari o esecutive non rientrano nell’ambito d’applicazione del Regolamento. 316 IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 – Se un’assunzione preventiva di mezzi di prova costituisca una misura cautelare od esecutiva 80. Le precedenti valutazioni non implicano, tuttavia, che sia corretta anche la seconda premessa, cioè che una misura di assunzione preventiva di mezzi di prova, quale la descrizione richiesta nel procedimento principale, costituisca una misura cautelare o esecutiva alla quale non si applichi né la Convenzione dell’Aja né il Regolamento n. 1206/2001 che su tale convenzione si basa. La correlazione genetica tra il Regolamento n. 1206/2001 e la Convenzione dell’Aja non è quindi in grado di fornire alcun ulteriore contributo ai fini della distinzione tra l’assunzione di prove e le misure cautelari ed esecutive. 81. A seconda dello scopo perseguito si devono distinguere due tipi di misure provvisorie: i provvedimenti diretti a garantire la sentenza stessa, da una parte, e le misure di acquisizione e garanzia delle prove, dall’altra. Tale distinzione può essere illustrata sull’esempio della presente lite pendente dinanzi al Tribunale civile di Genova. 82. In caso di vittoria del ricorrente la sentenza imporrà al convenuto di porre fine all’illecito, ed eventualmente lo obbligherà a risarcire il danno. Un’efficace misura per tutelare tale diritto alla cessazione di un atto di concorrenza sleale è costituita dal sequestro della merce controversa o dei dispositivi destinati alla sua produzione. 83. Tuttavia, il presente procedimento non concerne una misura di tal tipo, diretta a garantire la successiva esecuzione della sentenza, come potrebbe essere, ad esempio, il sequestro di tutti gli esemplari esistenti del sistema di imbracatura per impedirne la distribuzione. Una misura del genere avrebbe dovuto avere a fondamento l’art. 129 C.p.i. Il giudice a quo, invece, ha chiesto all’autorità giudiziaria britannica di procedere ad un’assunzione preventiva di mezzi di prova ai sensi dell’art. 128 C.p.i. 84. L’art. 7 della Direttiva 2004/48 confonde infelicemente questi due tipi di misure provvisorie. All’inizio, infatti, tale disposizione parla di misure di protezione delle prove, ma poi tra queste misure menziona, tra l’altro, il sequestro delle merci controverse e, all’occorrenza, dei materiali e degli strumenti utilizzati nella produzione e/o distribuzione di tali merci e dei relativi documenti. Come prima illustrato, queste in realtà non sono misure di assunzione preventiva di mezzi di prova, bensì misure provvisorie finalizzate alla tutela della domanda principale. 85. All’interno della Direttiva n. 2004/48 una chiara separazione delle misure può anche risultare superflua. Essa è, invece, fondamentale per determinare l’ambito d’applicazione del Regolamento n. 1206/2001. Difatti il Regolamento non è assolutamente applicabile alle misure volte a garantire la domanda principale, mentre lo è senz’altro alle misure di assunzione preventiva di mezzi di prova. GIURISPRUDENZA•BREVETTI 86. Questa interpretazione della nozione di misure cautelari ed esecutive è confermata anche da una considerazione sistematica della sua funzione all’interno del regime istituito dalla Convenzione dell’Aja. L’esclusione di tali misure serve a delimitare i rispettivi ambiti d’applicazione della Convenzione dell’Aja e della Convenzione di Bruxelles. Tale finalità emerge espressamente nell’iniziativa tedesca per il Regolamento. 87. Deve convenirsi con il governo del Regno Unito che anche la nozione di assunzione delle prove di cui al Regolamento n. 1206/2001 non dovrebbe includere le misure cautelari ed esecutive, che rientrano nell’ambito d’applicazione del Regolamento n. 44/2001, dal momento che anche qui sussiste la medesima esigenza di delimitazione degli ambiti di applicazione. 88. L’Irlanda ed il governo del Regno Unito, tuttavia, sono anche del parere che le misure di assunzione preventiva di mezzi di prova qui in esame potessero essere richieste direttamente ad un’autorità giudiziaria britannica sul fondamento dell’art. 31 del Regolamento n. 44/2001, con conseguente esclusione di qualsiasi rilevanza del Regolamento n. 1206/2001. 89. L’art. 31 del Regolamento n. 44/2001 prevede, analogamente all’art. 24 della Convenzione di Bruxelles, che «i provvedimenti provvisori o cautelari previsti dalla legge di uno Stato membro possono essere richiesti al giudice di detto Stato anche se, in forza del presente Regolamento, la competenza a conoscere nel merito è riconosciuta al giudice di un altro Stato membro». 90. Nella sentenza St. Paul Dairy Industries la Corte ha statuito che l’art. 24 della Convenzione di Bruxelles non si applica a misure autonome di assunzione preventiva di mezzi di prova, richieste in una fase antecedente all’instaurazione del giudizio di merito. 91. Per motivare tale statuizione la Corte ha rilevato, tra l’altro, che per provvedimenti provvisori ai sensi dell’art. 24 della Convenzione di Bruxelles devono intendersi i provvedimenti volti, nelle materie oggetto della detta Convenzione, alla conservazione di una situazione di fatto o di diritto onde preservare diritti dei quali spetterà poi al giudice del merito accertare l’esistenza. Tale disposizione, quindi, vale per misure volte a preservare la pretesa di fatto e di diritto, e non già all’effettuazione di misure processuali, quali sono gli atti di istruzione probatoria. 92. La Corte ha segnalato, altresì, il pericolo di un’elusione delle norme stabilite nel Regolamento n. 1206/2001 per l’assistenza giudiziaria in materia di assunzione delle prove nell’ipotesi in cui fosse possibile, sul fondamento dell’art. 24 della Convenzione di Bruxelles, chiedere direttamente misure di tale natura ad un giudice diverso dal giudice del merito. La Corte in tal modo ha fatto implicitamente capire che misure autonome di assunzione preventiva di mezzi di prova devono essere qualificate come assunzione di prove ai sensi del Regolamento n. 1206/2001. 93. Pertanto, l’iter indicato dall’Irlanda e dal Regno Unito come prioritario - vale a dire, far acquisire preventivamente le prove direttamente dal giudice del luogo dove si trovano gli elementi di prova, fondandosi sull’art. 31 del Regolamento n. 44/2001 - in base alla giurisprudenza della Corte risulta precluso. Conseguentemente non sorge nemmeno un problema di delimitazione se le misure di assunzione preventiva di mezzi di prova vengono considerate come un’ipotesi cui si applica il Regolamento n. 1206/2001. Piuttosto, proprio l’esclusione di siffatte misure dall’ambito d’applicazione del Regolamento n. 44/2001 impone che sia consentito percorrere l’iter dell’assistenza giudiziaria di cui al Regolamento n. 1206/2001, affinché sia in qualche modo possibile ottenere l’assunzione preventiva di mezzi di prova in un altro Stato membro fondandosi sul diritto comunitario. (Omissis). V - Conclusioni 113. Alla luce delle considerazioni che precedono, propongo alla Corte di risolvere la prima questione pregiudiziale proposta dal Tribunale civile di Genova come segue: Misure di assunzione preventiva di mezzi di prova, quale la descrizione di cui agli artt. 128 e 130 del codice italiano della proprietà industriale, costituiscono assunzioni di prove, che rientrano nell’ambito di applicazione di cui all’art. 1 del Regolamento (CE) del Consiglio 28 maggio 2001, n. 1206, relativo alla cooperazione fra le autorità giudiziarie degli Stati membri nel settore dell’assunzione delle prove in materia civile o commerciale, e che l’autorità giudiziaria di uno Stato membro deve eseguire su richiesta dell’autorità giudiziaria di un altro Stato membro, sempre che non sussistano motivi di rigetto. IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 317 GIURISPRUDENZA•BREVETTI IL COMMENTO di Cristiano Bacchini Le conclusioni dell’Avvocato Generale sono le uniche prese di posizione concernenti l’applicabilità del Regolamento CE n. 1206/2001 agli strumenti di istruzione preventiva posti a tutela delle privative industriali. Infatti la causa di interpretazione pregiudiziale non ha avuto seguito e conseguentemente la Corte di Giustizia non ha avuto l’occasione di esprimere la sua interpretazione pregiudiziale che - com’è noto - è vincolante. Osservazioni generali in merito all’ambito di applicazione del Regolamento n. 1206/2001 Le Conclusioni rassegnate dall’Avvocato Generale, nel caso in esame, presentano non pochi elementi di interesse. In primo luogo, viene definito l’ambito di applicazione del Regolamento CE n. 1206/2001, partendo dal presupposto che il significato da attribuire alla nozione di assunzione di prove, di cui all’art. 1 della normativa in parola, deve essere determinato in modo autonomo, facendo riferimento al significato letterale, alla genesi, alla ratio ed allo scopo del Regolamento. L’approccio in questione appare essere conforme con la giurisprudenza comunitaria (1). Sul punto, infatti, la Corte di Giustizia CE, causa C-283/91, ebbe a stabilire come: «Ogni disposizione di diritto comunitario va ricollocata nel proprio contesto e interpretata alla luce dell’insieme delle disposizioni del suddetto diritto, delle sue finalità, nonché del suo stadio di evoluzione al momento in cui va data applicazione alla disposizione di cui trattasi» (2). Detto ciò, è utile rilevare come ai sensi dell’undicesimo considerando del Regolamento CE n. 1206/2001 «la facoltà di rifiutare l’esecuzione di una richiesta di esecuzione dell’assunzione delle prove dovrebbe essere limitata a ben definite situazioni eccezionali». Tale essendo il presupposto, alla luce dei criteri ermeneutici definiti dalla Corte, l’oggetto della rogatoria di cui al Regolamento in esame non può essere limitato alle sole assunzioni di testimonianze. Ciò lo si desume, in ogni caso, anche dall’art. 4, n. 1 lett. f) che espressamente prevede come l’assunzione possa riguardare “atti o altri oggetti da ispezionare”. In tale contesto, l’eventuale ausilio di tecnici all’uopo nominati per l’espletamento della prova, è indirettamente confermato dal disposto di cui all’art. 18 n. 2 che disciplina il rimborso dei compensi versati per l’intervento di periti. Inoltre, il disposto di cui all’art. 1 n. 2, secondo cui la prova richiesta deve essere destinata ad essere utilizzata in procedimenti giudiziari “pendenti o previsti”, sem- 318 IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 bra ammettere l’applicabilità del Regolamento de quo allorquando si verta in materia di procedimenti di istruzione preventiva (3). Quanto alla riferibilità del Regolamento n. 1206 ai provvedimenti di descrizione propri della materia brevettuale, condivisibile appare l’analisi esegetica operata dall’avvocato generale, al fine di determinare la compatibilità della disposizione comunitaria con lo strumento processuale previsto dal diritto industriale nazionale, in forza della Direttiva CE n. 48/2004 sul rispetto dei diritti di proprietà intellettuale (4). E infatti, sebbene l’undicesimo considerando della Direttiva in parola affermi come detto strumento normativo non si proponga di stabilire norme armonizzate in materia di cooperazione giudiziaria, lo stesso al contempo sembra confermare come vi siano, comunque, alcuni strumenti comunitari finalizzati a disciplinare questa materie in generale che, in linea di principio, trovano applicazione anche alla proprietà intellettuale (5). Ebbene, posto che l’art. 7 della Direttiva de qua contempla le misure di protezione delle prove attuate, inter alia, mediante gli artt. 128 ss. C.p.i., il Regolamento n. 1206/2001 sembra poter trovare applicazione allo strumento della descrizione brevettuale. In tale contesto va tuttavia affermato che le disposizioni comunitarie in materia di assunzioni di prove previste dal Regolamento n. 1206/2001 non possono trovare applicazione agli altri provvedimenti aventi natura ablativa previsti dallo stesso art. 7 della Direttiva CE n. 48/2004, quali il sequestro delle merci controverse e dei materiali e degli strumenti utilizzati nella produzione e/o distribuzione di tali merci e dei relativi documenti, posto che questi non possono essere qualificati alla stregua di misure di assunzione preventiva di mezzi di prova, bensì quali misure provvisorie finalizzate alla tutela della domanda principale. Con riguardo, poi, ad eventuali conflitti con altre disposizioni comunitarie quali l’art. 31 del Regolamento CE n. 44/2001 (conforme al testo dell’art. 24 della Note: (1) Per una più esaustiva disamina sull’argomento si veda Carbone, Frigo, Fumagalli, Diritto processuale civile e commerciale comunitario, Milano, 2004, 164 ss. (2) Cfr. Corte di Giustizia CE 2 ottobre 1982, causa C-283/81, Srl Cilfit e Lanificio di Gavardo s.p.a. c. Ministero della Sanità, punto 20. (3) Carbone, Frigo, Fumagalli, op. cit., 168. Quanto alla qualificazione dei provvedimenti di descrizione alla stregua di provvedimenti di istruzione preventiva successivamente al D.Lgs. n. 30/2005 si richiama Ghidini, De Benedetti, Codice della Proprietà Industriale, Milano, 2006, 327 (4) Cfr. Conclusioni dell’Avvocato Generale in Commento punto 49 ss. (5) Appare chiara la riferibilità dell’undicesimo considerando della Direttiva n. 48/2004 al Regolamento CE n. 1206/2001. GIURISPRUDENZA•BREVETTI Convenzione di Bruxelles), che disciplina i provvedimenti provvisori e cautelari, vi è da rilevare che la Corte di Giustizia con decisione del 28 aprile 2005, causa C-104/03 (6) ha ribadito come tale strumento non possa trovare applicazione con riguardo a misure aventi natura istruttoria, in relazione alle quali appunto è stato destinato il Regolamento n. 1206/2001. L’efficacia cross border dei provvedimenti di descrizione tra brevetti italiani e brevetti europei Posta - alla luce delle conclusioni dell’Avvocato Generale - l’applicabilità del Regolamento CE n. 1206/2001 ai provvedimenti di descrizione di cui all’art. 128 C.p.i., alcuni spunti di riflessione debbono essere evidenziati in relazione all’estensione territoriale della privativa a fondamento della quale il provvedimento viene richiesto. Come è noto, il Regolamento in parola, essendo destinato a regolare la cooperazione comunitaria nel settore dell’assunzione delle prove, non pone alcun vincolo quanto alla validità, nell’ambito dello Stato membro richiesto, del titolo a fondamento del quale il provvedimento di istruzione viene domandato. Ne deriva che un provvedimento siffatto può essere domandato anche allorquando si verta in materia di soli brevetti italiani - ovvero di brevetti europei non estesi allo Stato membro richiesto - con il limite contemplato dall’art. 1 n. 2 del Regolamento, ossia che la rogatoria deve essere destinata ad essere utilizzata in “procedimenti pendenti o previsti”. Trattasi di un vero e proprio elemento costitutivo della fattispecie normativa. Ciò significa che un provvedimento d’istruzione preventiva cross border diviene inammissibile quando i documenti di cui si chiede la produzione non soddisfino scopi probatori inerenti il processo. È quindi indubbio che al fine di valutare l’ammissibilità della rogatoria, particolare rilievo dovrà essere conferito alla necessaria corrispondenza tra le istanze avanzate con il ricorso per descrizione e la chiara indicazione della causa petendi e del petitum che formeranno oggetto del futuro giudizio di merito. In assenza infatti dell’esatta indicazione degli elementi costitutivi dell’azione di merito nell’ambito del ricorso per descrizione, non potrà essere valutata la sussistenza dei requisiti di cui all’art. 1 n. 2 Regolamento CE n. 1206/2001. Ciò premesso, è opinione dello scrivente che sia altresì necessario che i documenti, in relazione ai quali si chiede il provvedimento di istruzione preventiva, vengano descritti con sufficiente precisione e presentino un legame diretto con l’oggetto della lite. In tale contesto, allorquando si verta della sola violazione di diritti di esclusiva relativi ad un brevetto italiano ovvero frazione italiana di brevetto europeo, la rogatoria dovrà riguardare solo gli elementi di prova concernenti la denunciata violazione e la sua entità nell’ambito dello Stato membro richiedente. Ne deriva che, ad esempio, l’acquisizione in copia della documentazione contabile riguardante l’oggetto realizzato in violazione della privativa dovrà essere limitata alle sole esportazioni nello Stato membro richiedente. Dubbia potrebbe essere, inoltre, la possibilità di descrivere nello Stato membro richiesto oggetti costituenti violazione di una privativa valida nel solo Stato membro richiedente e i mezzi adibiti alla produzione dei medesimi. Lo stesso dicasi in relazione alla possibilità di prelevare campioni. Altro elemento di discussione potrebbe essere dato dall’assenza di coordinamento tra la disposizione di cui al comma 6 dell’art. 128 C.p.i. e l’art. 10 n. 1 Regolamento CE n. 1206/2001. Sebbene la disposizione normativa comunitaria espressamente preveda, infatti, la possibilità da parte dell’autorità giudiziaria richiesta di dare esecuzione alla richiesta entro 90 giorni dalla sua ricezione, ciò potrebbe creare non pochi problemi interpretativi quanto all’efficacia delle relative risultanze nell’ambito del successivo giudizio di merito in ambito nazionale italiano, giusto il disposto di cui all’art. 675 c.p.c. richiamato dall’art. 128 C.p.i. Tale conflitto potrebbe essere, all’occorrenza, superato facendo ricorso ai criteri indicati della Consulta e relativi al posizionamento dei Regolamenti CE nell’ambito delle fonti di diritto italiano. In particolare, lo scrivente si riferisce alla sentenza n. 170/84 nell’ambito della quale la Corte Costituzione ha sancito la possibilità, a determinate condizioni, da parte dei giudici di merito, di disapplicare la normativa nazionale in contrasto con quella comunitaria. Sul punto la Consulta ha infatti stabilito che «Le disposizioni della CEE, le quali soddisfano i requisiti dell’immediata applicabilità devono, al medesimo titolo, entrare e permanere in vigore nel territorio italiano, senza che la sfera della loro efficacia possa essere intaccata dalla legge ordinaria dello Stato. Non importa, al riguardo, se questa legge sia anteriore o successiva. Il Regolamento comunitario fissa, comunque, la disciplina della specie. L’effetto connesso con la sua vigenza è perciò quello, non già di caducare, nell’accezione propria del termine, la norma interna incompatibile, bensì di impedire che tale norma venga in rilievo per la definizione della controversia innanzi al giudice nazionale» (7). Note: (6) Cfr. Corte di Giustizia CE 28 aprile 2005, causa C-104/03, St. Paul Dairy Industries NV c. Unibel Exser BVBA, punto 25. (7) Cfr. Corte cost. 5 giugno 1984, n. 170. IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 319 DOCUMENTI•BREVETTI Brevetto europeo Ricerca di anteriorità relativamente alle domande di brevetto per invenzione industriale Il 1° luglio 2008 è entrato in vigore l’Accordo di lavoro fra l’Ufficio Europeo dei Brevetti e l’Ufficio Italiano dei Brevetti approvato dal Consiglio di Amministrazione dell’Epo il 12 dicembre 2007. In base a tale accordo l’Ufficio dei Brevetti Europeo effettuerà la ricerca di anteriorità corredata da un’opinione scritta sui brevetti depositati in Italia. Si tratta del raggiungimento di un grande obiettivo che qualifica il brevetto italiano e ne eleva la qualità sanando la differenza esistente attualmente fra i trentamila brevetti europei che ogni anno scelgono l’Italia come mercato dove entrare in vigore e i circa diecimila brevetti nazionali concessi dall’Ufficio Italiano. Questo accordo restituisce parità a tutti i brevetti che entrano in vigore in Italia e va nel senso di aumentare la qualità del brevetto in Europa ed è quindi un’attività che si iscrive anche nella missione dell’Ufficio Europeo dei Brevetti. DECRETO MINISTERO DELLO SVILUPPO ECONOMICO 27 giugno 2008 Ricerca di anteriorità relativamente alle domande di brevetto per invenzione industriale IL MINISTRO DELLO SVILUPPO ECONOMICO Vista la Convenzione sulla concessione di brevetti europei firmata a Monaco il 5 ottobre 1973, ratificata con legge 26 maggio 1978, n. 260 ed in particolare gli articoli 17 e 92; Visto il regolamento di esecuzione della predetta Convenzione, ratificato con legge 26 maggio 1978, n. 260 ed in particolare le regole 44, 45, 46 e 47; Visto il decreto legislativo 10 febbraio 2005, n. 30 recante il codice della proprietà industriale, a norma dell’art. 15 della legge 12 dicembre 2002, n. 273, ed in particolare l’art. 170, comma 1, lettera b) per il quale l’esame delle domande di brevetto per invenzione industriale, delle quali sia stata riconosciuta la regolarità formale, è rivolto ad accertare i requisiti di validità quando con decreto del Ministro dello sviluppo economico venga disciplinata la ricerca delle anteriorità; Visto il decreto 2 aprile 2007 del Ministro dello sviluppo economico di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze che ha determinato la misura dei diritti sui brevetti e sui modelli, in attuazione del comma 581, dell’art. 1, della legge 27 dicembre 2006, n. 296; Visto in particolare l’art. 6 del citato decreto interministeriale 2 aprile 2007 col quale si dispone, tra l’altro, che i diritti per la ricerca e per rivendicazioni entreranno in vigore nei termini e con le modalità fissati dal Ministro dello sviluppo economico, con proprio decreto, ai sensi dell’art. 226 del citato codice della proprietà industriale; 320 IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 Visto il decreto 3 ottobre 2007 del Ministro dello sviluppo economico che ha individuato nell’Ufficio europeo dei brevetti l’autorità competente ad effettuare la ricerca di anteriorità relativamente alle domande di brevetto per invenzione industriale depositate presso l’Ufficio italiano brevetti e marchi; Visto l’Accordo tra il Ministero dello sviluppo economico - Direzione generale per la proprietà industriale - Ufficio italiano brevetti e marchi e l’Organizzazione europea dei brevetti, che detta le modalità di svolgimento delle ricerche di anteriorità e la redazione dei rapporti di ricerca, approvato dal consiglio di amministrazione dell’Organizzazione europea dei brevetti l’11 dicembre 2007 e firmato il 18 giugno 2008, dopo che le parti hanno concordato regole particolari per applicare le linee guida per gli esaminatori dell’Ufficio europeo dei brevetti; Considerata la necessità che il Ministro dello sviluppo economico detti proprie norme regolamentari per adempiere alle prescrizioni di cui al decreto legislativo 10 febbraio 2005, n. 30 e ai decreti 2 aprile 2007 e 3 ottobre 2007 sopraccitati; Decreta: Art. 1. Ricerca di anteriorità 1. L’Ufficio Europeo dei Brevetti (EPO) è l’autorità competente ad effettuare la ricerca di anteriorità relativamente alle domande di brevetto per invenzione in- DOCUMENTI•BREVETTI dustriale depositate presso l’Ufficio italiano brevetti e marchi. Le modalità sono stabilite da un apposito Accordo stipulato tra il Ministero dello sviluppo economico Ufficio italiano brevetti e marchi e l’Organizzazione europea dei brevetti. 2. La ricerca di anteriorità si applica alle domande di brevetto per invenzione industriale depositate a partire dal 1° luglio 2008. 3. La ricerca di anteriorità riguarda le domande di brevetto per invenzione industriale per le quali non è rivendicata la priorità ai sensi dell’art. 4 del decreto legislativo 10 febbraio 2005, n. 30 d’ora innanzi denominato «Codice». 4. Se la domanda di brevetto è una prima domanda priva di rivendicazione di priorità, l’Ufficio italiano brevetti e marchi invia all’Ufficio europeo dei brevetti la richiesta del rapporto di ricerca entro cinque mesi dalla data della domanda medesima e l’Ufficio europeo dei brevetti redige il rapporto di ricerca entro nove mesi dalla data della suddetta domanda. 5. L’Ufficio italiano brevetti e marchi può non assoggettare alla ricerca di anteriorità le domande di brevetto per invenzione industriale per le quali l’assenza dei requisiti di validità risulti assolutamente evidente in base alle stesse dichiarazioni ed allegazioni del richiedente oppure sia certa alla stregua del notorio. Il richiedente viene informato prontamente e la comunicazione dell’esclusione dalla ricerca deve essere adeguatamente motivata. Si applica l’art. 173, comma 7 del Codice della proprietà industriale. Art. 2. Descrizione e rivendicazioni della domanda di brevetto 1. Salvo quanto stabilito dall’art. 148, comma 1 del Codice in tema di ricevibilità, la domanda di concessione di brevetto per invenzione industriale deve contenere oltre a quanto indicato all’art. 160, comma 1 del Codice, il cognome, il nome, la nazionalità e la residenza della persona fisica o la denominazione e la sede dell’ente o dell’impresa richiedente. Il richiedente, se risiede all’estero, deve eleggere il suo domicilio in Italia ai sensi dell’art. 197 del Codice. 2. La domanda di brevetto per invenzione che ha per oggetto o utilizza materiale biologico di origine animale o vegetale, deve contenere la dichiarazione di provenienza del materiale biologico utilizzato di cui all’art. 5, comma 2, decreto-legge 10 gennaio 2006, n. 3 convertito con modificazioni dalla legge 22 febbraio 2006, n. 78. La mancanza della dichiarazione è annotata sul registro dei titoli di proprietà industriale. 3. La descrizione di cui all’art. 160, comma 3, lettera a) e comma 4, del Codice deve per quanto possibile anche in relazione alla natura dell’invenzione: a) specificare il campo della tecnica a cui l’invenzione fa riferimento; b) indicare lo stato della tecnica preesistente, per quanto a conoscenza dell’inventore, che sia utile alla comprensione dell’invenzione ed all’effettuazione della ricerca, fornendo eventualmente i riferimenti a documenti specifici; c) esporre l’invenzione in modo tale che il problema tecnico e la soluzione proposta possano essere compresi. d) descrivere brevemente gli eventuali disegni; e) descrivere in dettaglio almeno un modo di attuazione dell’invenzione, fornendo esempi appropriati e facendo riferimento ai disegni, laddove questi siano presenti; f) indicare esplicitamente, se ciò non risulti già ovvio dalla descrizione o dalla natura dell’invenzione, il modo in cui l’invenzione può essere utilizzata in ambito industriale. 4. Le rivendicazioni di cui all’art. 160, comma 4 del Codice definiscono le caratteristiche specifiche dell’invenzione per le quali si chiede protezione. Devono essere chiare, concise, trovare supporto nella descrizione ed essere redatte su pagine separate dalla descrizione secondo le seguenti formalità: a) devono essere indicate con numeri arabi consecutivi; b) la caratteristica tecnica rivendicata deve essere esplicitamente descritta: il richiamo alle figure è consentito solo a scopo di maggior chiarezza; c) le caratteristiche tecniche menzionate nelle rivendicazioni, qualora facciano riferimento ai disegni, possono essere seguite dal numero corrispondente alle parti illustrate dagli stessi fermo restando che tale riferimento non costituisce una limitazione della rivendicazione. Art. 3. Domanda di brevetto 1. Nel caso di deposito cartaceo la descrizione, il riassunto, le rivendicazioni ed i disegni acclusi alle domande di brevetto devono essere impressi in modo indelebile con linee e caratteri a stampa neri su carta bianca forte di formato A4 (29,7 x 21 cm). Per i disegni e per il testo, i margini superiore e inferiore e i margini a sinistra e a destra sono di almeno 2,5 cm. Gli stessi formati devono essere rispettati nel caso in cui il testo ed i disegni siano allegati ad una domanda depositata con il sistema telematico. 2. Il testo è scritto con interlinea 1ø e carattere le cui maiuscole corrispondano ad una altezza minima di 0,21 cm. L’Ufficio stabilisce con circolare la data a partire dalla quale la presentazione del testo debba essere tale da permettere il riconoscimento ottico dei caratteri ovvero l’acquisizione elettronica del testo medesimo. 3. I disegni, che possono essere anche eseguiti a mano, compresi in una o più tavole, devono essere numerati progressivamente ed i numeri dei disegni stessi, nonché i numeri e le lettere che ne contrassegnano le varie parti, debbono essere richiamati nella descrizione. IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 321 DOCUMENTI•BREVETTI 4. Ove con il deposito della domanda siano stati presentati una descrizione o disegni provvisori, l’esemplare definitivo depositato deve essere presentato entro due mesi dalla data di deposito della domanda stessa. 5. Se la domanda di brevetto per invenzione ha per oggetto o utilizza materiale biologico di origine umana, il consenso di cui all’art. 5, comma 3 decreto-legge 10 gennaio 2006, n. 3 convertito con modificazioni dalla legge 22 febbraio 2006, n. 78, consiste in una dichiarazione, allegata alla domanda, con la quale il richiedente afferma che l’invenzione non rientra nella fattispecie di cui al citato art. 5, comma 3 o, in alternativa, che il consenso è stato acquisito. 6. La dichiarazione di cui all’art. 5, comma 4 decreto-legge 10 gennaio 2006, n. 3 convertito con modificazioni dalla legge 22 febbraio 2006, n. 78, può consistere in una autocertificazione. 7. La mancanza della dichiarazione di cui al comma 5 e al comma 6 è annotata sul registro dei titoli di proprietà industriale. 8. Se la domanda riguarda una invenzione biotecnologica con la quale si richiede la protezione di sequenze di nucleotidi o aminoacidi, dette sequenze devono essere fornite in formato elettronico, secondo le modalità stabilite con decreto del direttore generale per la proprietà industriale - Ufficio italiano brevetti marchi. Art. 4. Rapporto di ricerca e opinione scritta 1. L’Ufficio europeo dei brevetti redige i rapporti di ricerca in ottemperanza al Regolamento attuativo della Convenzione europea sui brevetti e, in particolare, all’articolo 61(1), (2), (3), (4) e (6) dello stesso, e alle direttive di esame dell’Ufficio europeo dei brevetti, in particolare alla Parte B delle stesse relative alle disposizioni del Regolamento attuativo sopra menzionate. 2. L’Ufficio europeo dei brevetti redige inoltre opinioni scritte in ottemperanza al Regolamento attuativo del Trattato di cooperazione in materia di brevetti (PCT) e in particolare all’art. 43-bis dello stesso e alla parte V delle direttive di ricerca internazionali PCT relative alla disposizione sopra menzionata contenuta in detto regolamento. 3. Se l’Ufficio europeo dei brevetti ritiene che la domanda non risponde ai requisiti di unità dell’invenzione, redige il rapporto di ricerca per quelle parti della domanda che si riferiscono all’invenzione o al gruppo di invenzioni menzionati per primi nelle rivendicazioni facendone menzione nel rapporto di ricerca. 4. L’Ufficio europeo dei brevetti non è obbligato ad eseguire una ricerca su una domanda di brevetto se e nella misura in cui l’oggetto di detta domanda si riferisce a trovati non brevettabili conformemente alle disposizioni dell’art. 45, commi 2, 3, 4 e 5 del Codice. 5. L’Ufficio europeo dei brevetti, se ritiene che la domanda presenta difetti tali da impedire una ricerca 322 IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 adeguata in merito ad alcune o a tutte le rivendicazioni, a) o perché essa si riferisce a contenuti che secondo il comma 4 l’Ufficio europeo dei brevetti non è tenuto a ricercare, b) o perché la descrizione, le rivendicazioni o i disegni contengono astrusità, incongruenze o contraddizioni, dichiara, in modo circostanziato, che una ricerca adeguata è impossibile o redige, per quanto possibile, un rapporto di ricerca parziale. La dichiarazione o il rapporto parziale dell’Ufficio europeo dei brevetti costituisce in tal caso il rapporto di ricerca. 6. Quando l’Ufficio europeo dei brevetti (EPO) ha in corso lo svolgimento della ricerca di una domanda di brevetto per invenzione industriale, l’istanza di esame anticipato di cui all’art. 120, comma 1 del Codice deve indicare se l’Ufficio italiano brevetti e marchi può svolgere l’esame senza attendere il risultato del rapporto. In questo caso l’Ufficio definisce il procedimento e provvede ad inviare successivamente al richiedente il risultato del rapporto di ricerca. 7. Nei casi in cui il brevetto è concesso senza il rapporto di ricerca o con un rapporto di ricerca relativo soltanto ad alcune rivendicazioni, sull’attestato di concessione del brevetto è fatta la corrispondente annotazione. 8. Se l’Ufficio europeo dei brevetti (EPO), nell’effettuare la ricerca di anteriorità, accerta che la domanda comprende più invenzioni, il relativo rapporto di ricerca riguarda esclusivamente l’invenzione indicata nel rapporto stesso. 9. L’Ufficio italiano brevetti e marchi procede, senza ritardo, a trasmettere al richiedente il rapporto di ricerca e l’opinione scritta ricevuti dall’Ufficio europeo dei brevetti; quest’ultima ha valore puramente informativo. Art. 5. Facoltà del richiedente 1. Dopo la ricezione del rapporto di ricerca e prima del termine di diciotto mesi dalla data della domanda il richiedente, ferme restando le facoltà di cui all’art. 172, comma 2 del Codice della proprietà industriale, può inviare all’Ufficio italiano brevetti e marchi: a) una stesura modificata della descrizione, delle rivendicazioni e dei disegni; b) argomentazioni sul rapporto di ricerca e precisazioni sull’ammissibilità delle rivendicazioni emendate e sulla conformità delle stesse alle disposizioni dell’art. 76, comma 1, lettera c) del Codice della proprietà industriale; c) una richiesta di presentazione di una o più domande divisionali. 2. Decorsi i termini di cui all’art. 53 del Codice, l’Ufficio italiano brevetti e marchi rende accessibile al pubblico la domanda di brevetto, con la descrizione, le rivendicazioni e i disegni come originariamente depositati, il rapporto di ricerca e l’opinione predisposti dall’Ufficio europeo dei brevetti, le argomentazioni e la DOCUMENTI•BREVETTI nuova stesura della descrizione, rivendicazioni e disegni ove presentati ai sensi del comma 1. 3. L’opinione scritta è messa a disposizione del pubblico solamente a titolo informativo. Art. 6. Procedura d’esame 1. L’Ufficio italiano brevetti e marchi, dopo la pubblicazione della domanda, provvede all’esame di cui all’art. 170, comma 1, lettera b) del Codice sulla base del rapporto di ricerca e della eventuale documentazione prodotta dal richiedente ai sensi dell’art. 5, comma 1, nonché ad accertare il rispetto dell’art. 76, comma 1, lettera c) del Codice. 2. L’Ufficio italiano brevetti e marchi, se rileva che per la domanda esaminata, tenuto conto del rapporto di ricerca e delle eventuali argomentazioni e modifiche apportate alle rivendicazioni e al testo dal richiedente, non può essere concesso il brevetto, emette una lettera interlocutoria di rifiuto adeguatamente motivata, ai sensi dell’art. 173, comma 7 del Codice. Sono fatte salve in questa fase le facoltà di cui all’art. 172. comma 2 e comma 3 e art. 84, comma 2, del Codice. 3. Contro i provvedimenti dell’Ufficio italiano brevetti e marchi emessi ai sensi del presente decreto è ammesso il ricorso di cui all’art. 135 del Codice della proprietà industriale. Art. 7 Direttive 1. Con decreto del direttore generale dell’Ufficio italiano brevetti e marchi saranno emanate le direttive per l’esame delle domande di brevetto per invenzione industriale e ad esso si rimanda per tutto quello che non è disciplinato dal presente decreto. Art. 8. Diritti 1. I diritti per la ricerca e per le rivendicazioni di cui alla tabella A), lettera A), nn. 6 e 7, allegata al decreto 2 aprile 2007 del Ministro dello sviluppo economico di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze entreranno in vigore il 1° luglio 2008 con le stesse modalità ivi previste. 2. I diritti di cui al comma 1 non devono essere versati per le domande per le quali è rivendicata la priorità di cui all’art. 1, comma 3. 3. La prova del pagamento dei diritti di deposito di cui alla tabella A), lettera A), allegata al decreto 2 aprile 2007, richiamato al comma 1, deve attestare il pagamento dei diritti per le rivendicazioni di cui al numero 6 e, se la traduzione delle rivendicazioni in lingua inglese non sia stata unita alla domanda di brevetto per in- venzione, dei diritti per la ricerca di cui al numero 7 della stessa tabella. 4. Il mancato pagamento dei diritti per la ricerca al momento del deposito della domanda è inteso come riserva di invio della traduzione in lingua inglese delle rivendicazioni. Detta riserva deve essere sciolta entro il termine di due mesi dal deposito della domanda di brevetto. 5. Qualora entro il termine di cui al comma 4 non risulta prodotta la traduzione in lingua inglese delle rivendicazioni o la prova del pagamento dell’integrazione dei diritti per la ricerca, effettuato ai sensi dell’art. 230 del Codice, l’Ufficio italiano brevetti e marchi assegna al richiedente il termine improrogabile di un mese per produrre la traduzione o effettuare l’integrazione. Scaduto detto termine, se non risulta pervenuta la traduzione o la prova del pagamento dell’integrazione, l’Ufficio respinge la domanda. 6. Il mancato rispetto del termine di cui al comma 4 non consente l’osservanza dei termini di cui all’art. 1, comma 4. 7. La tassa per la ricerca di cui alla tabella A), lettera A) n. 7, richiamata al comma l è rimborsata solo se la domanda non è stata oggetto di invio all’Ufficio europeo dei brevetti per la produzione del rapporto di ricerca. Art. 9. Risorse finanziarie 1. Gli oneri derivanti dal presente decreto, in applicazione dell’Accordo tra il Ministero dello sviluppo economico - Direzione generale per la proprietà industriale - Ufficio italiano brevetti e marchi e l’Organizzazione europea dei brevetti, che detta le modalità di svolgimento delle ricerche di anteriorità e la redazione dei rapporti di ricerca, approvato dal Consiglio di amministrazione dell’Organizzazione europea dei brevetti l’11 dicembre 2007 e firmato il 18 giugno 2008, graveranno sul capitolo 7476 - interventi in materia di brevettualità e per le attività connesse alla ricerca di anteriorità - del Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2008. Il presente decreto entra in vigore il giorno stesso della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana. IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 323 GIURISPRUDENZA•MARCHI Marchio di forma Il difficile equilibrio tra “valore sostanziale” e carattere distintivo della forma TRIBUNALE DI VENEZIA, Sezione spec. per la proprietà industriale e intellettuale, 24 gennaio 2008 Pres. Caparelli - Rel. Maiolino - Gilmar s.p.a. c. Immagine Eyewear s.r.l. I Marchi - Marchio descrittivo (C.p.i. artt. 12, 24, 25 e 121) Un marchio non è descrittivo quando il suo collegamento con il prodotto non è diretto bensì mediato da un secondo passaggio ed è configurabile solo come un collegamento di secondo grado (in applicazione di questo principio il Tribunale di Venezia ha negato la descrittività del marchio "ICE" per contraddistinguere occhiali non giudicando rilevante la sequenza ICE-EYES-OCCHIALI). II Marchio - Linguaggio commerciale - Uso comune (C.p.i. artt. 12, 24, 25 e 121) Sono di uso comune le parole che nel linguaggio commerciale o comune sono utilizzate abitualmente per indicare categorie merceologiche tra loro eterogenee, oppure una rivendicazione di qualità attinente non ad uno specifico prodotto bensì a qualunque tipo di prodotto. III Marchi - Marchio di forma - Registrabilità (C.p.i. artt. 12, 24, 25 e 121) Non è registrabile come marchio di forma solo il marchio che per le sue specifiche modalità di realizzazione dia al prodotto un aspètto estetico idoneo ad assicurargli un significativo vantaggio competitivo, di guisa che non svolge più la funzione tipica di collegamento del prodotto ad una determinata impresa e al valore ad essa connesso e neppure la funzione di trasferire sul prodotto quelle caratteristiche proprie dei prodotti contraddistinti con lo stesso marchio e provenienti quindi dalla stessa impresa. IV Marchio - Registrazione - Uso - Decadenza del marchio (C.p.i. artt. 12, 24, 25 e 121) L’uso concreto rilevante per impedire la decadenza del marchio registrato non è assimilabile all’uso necessario per acquisire il diritto sul marchio di fatto e deve essere valutato con maggiore indulgenza. IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 325 GIURISPRUDENZA•MARCHI Fatto e svolgimento del processo Gilmar s.p.a. ha convenuto in giudizio Immagine Eyewear s.r.l. (d’ora in avanti per brevità “IE”), riferendo di operare nel settore della moda in genere, di essere titolare di molteplici marchi nazionali e internazionali, figurativi e denominativi, tra cui Ice, Sport Ice, Golf Sport Ice, Ice Design, Ice Glasses, Ice B e di utilizzare sempre ICE quale radice dei propri marchi. Sostenendo la forza del proprio marchio ICE e invocando i precedenti giurisprudenziali che le avevano confermato la tutela dei citati segni distintivi, anche affermandone la notorietà, si doleva l’attrice del fatto che IE avesse prodotto e commercializzato occhiali con il marchio XICE sulle aste, ottenendo anche la registrazione del marchio il 20 dicembre 2001. Denunciando la situazione di confondibilità che era venuta a crearsi tra i marchi, chiedeva fosse dichiarata la nullità del marchio registrato da IE e che fosse accertata la responsabilità della convenuta per la contraffazione del proprio marchio e per la concorrenza sleale per imitazione servile, concorrenza parassitaria e atti contrari alla correttezza professionale nonché per l’illecito aquiliano; chiedeva quindi che fosse pronunciata l’inibitoria alla commercializzazione e pubblicizzazione degli occhiali e lenti recanti marchio X-ICE o ICE o altro marchio simile confondibile con quelli registrati da Gilmar, fosse disposta la pubblicazione del provvedimento, fosse determinata una penale per ogni violazione; con riserva di un successivo giudizio per il risarcimento del danno patito. Si costituiva in causa, riferendo che nel 2001 aveva lanciato una linea di occhialeria posizionata nel segmento di prodotti trendy, contraddistinta dal marchio X-ICE. Sosteneva peraltro l’assenza di confondibilità tra i marchi a confronto, atteso che nel segno di IE il carattere distintivo del marchio poggiava sulla X iniziale, insolita e fortemente caratterizzante, e dal suo accostamento al termine inglese ICE, che da un lato indicava un particolare tipo di lenti, dall’altro si pronunciava come l’altro termine inglese EYES, ovvero “occhi”, neppure sussisteva confondibilità con i marchi dell’attrice Ice B o Ice J atteso che in X-ICE la X anticipava e non seguiva la parola ICE. Sottolineava poi come i marchi dell’attrice risalissero al 2004 e fossero quindi successivi a quelli di IE e comunque non risultavano registrati per gli occhiali, in ogni caso come il marchio ICE non godesse della celebrità del marchio ICEBERG e come IE fosse riuscita piuttosto a creare un valore simbolico del tutto autonomo al proprio marchio, per accreditare un’immagine indipendente da quella di Gilmar, tanto è vero che ormai da anni entrambe le società partecipavano a fiere del settore dell’occhialeria, senza che si fossero mai verificate né episodi confusori né contestazioni. Rilevava altresì come il termine ICE fosse descrittivo nel settore dell’occhialeria, sia perché espressiva della caratteristica della specchiatura delle lenti sia perché 326 IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 omofona alla parola EYES, tanto è vero che esistevano moltissimi marchi comprendenti il termine ICE. Il marchio di Gilmar doveva quindi ritenersi nullo per difetto di capacità distintiva: non a caso, proseguiva la convenuta, il marchio ICE non era mai stato utilizzato per l’occhialeria e la maggior parte dei marchi attorei non si esauriva nel termine ICE, ma conteneva elementi aggiuntivi e solo l’imitazione di questi ultimi avrebbe potuto dar luogo ad una condotta contraffattiva da parte di IE. Il mancato utilizzo del marchio ICE per l’occhialeria determinava altresì la decadenza per non uso del segno, la licenziataria del marchio Iceberg per gli occhiali (Perlinea s.r.l., poi Visibilia s.r.l.) aveva infatti riferito che nessun modello di occhiali ICE era stato commercializzato quanto meno dal luglio 1997 ad ottobre 2004. Infine doveva rilevarsi come Gilmar avesse utilizzato il marchio ICE sulle stanghette degli occhiali non quale marchio, bensì in funzione meramente decorativa, resa con strass o lettere metalliche particolari, tanto che spesso la parola ICE non risultava neppure leggibile. La convenuta chiedeva quindi il rigetto della domanda attorea e in via riconvenzionale la declaratoria di avvenuta decadenza parziale per non uso in relazione agli occhiali e ai prodotti per l’occhialeria dei marchi di Gilmar contenenti la parola ICE e in particolare dei marchi di cui alla registrazione n. 495.942, n. 511.144, n. 512.238, n. 557.701, n. 557.700, n. 710.754, n. 511.753, nonché della frazione nazionale dei marchi internazionali n. 528436, n. 674618, n. 540312 e n. 541473. La causa è stata documentalmente e testimonialmente istruita e, su richiesta congiunta delle parti, è stata trattenuta per la decisione collegiale all’esito della discussione orale tenutasi all’udienza del 15 giugno 2007. Motivi della decisione Preme al Tribunale chiarire in primo luogo di quali marchi Gilmar chieda la tutela. Ovvero precisare con riferimento a quali marchi la società attrice denunci la confondibilità con il marchio X-ICE di IE. La precisazione si rende opportuna giacché parte della difesa attorea ha ad oggetto i plurimi marchi “a base Iceberg” registrati da Gilmar, ma - deve ritenersi - ciò solo al fine di un più contestualizzato inquadramento storico della fattispecie concreta, atteso che poi la domanda risulta riferita ai soli marchi contenenti il segno ICE. E invero la citazione introduttiva nel paragrafo dedicato alla confondibilità (…) discute esclusivamente della confondibilità tra ICE e X-ICE, cosicché l’accertamento della contraffazione richiesto tra le conclusioni di Gilmar deve essere inteso come “contraffazione del marchio ICE”. Ebbene, i marchi ICE direttamente rilevanti ai fini della specifica decisione sulla contraffazione sono sostanzialmente due: un marchio figurativo, ove il segno ICE è scritto in modo simile a come è riportato nell’occhiale GIURISPRUDENZA•MARCHI sub doc. n. 126 attoreo, registrato il 13 maggio 1997 per la classe 9 (…), e un marchio denominativo ICE depositato il 21 gennaio 1987 per le classi 18 (tra cui profumeria, oli essenziali, cosmetici) e 25 (abbigliamento, calzature, cappelleria) e rinnovato per venti anni (…). Vi sono ulteriori marchi ICE intestati a Gilmar, ma tutti registrati in data successiva rispetto alla registrazione di X-ICE. L’eccezione di nullità del marchio ICE La descrittività del segno Un marchio è descrittivo, quando, in estrema sintesi, preannuncia le caratteristiche del prodotto per il quale è utilizzato. Ritiene il Collegio che l’eccezione sollevata dalla convenuta non appaia sotto questo aspetto fondata: il segno adottato da Gilmar, a tutto voler concedere, può risultare suggestivo ma non descrittivo. Invero, anche valorizzando l’aspetto fonetico del marchio ICE, che si legge in modo simile (e peraltro non identico) al diverso termine EYES, e anche valorizzando - secondo la tesi difensiva della convenuta e senza approfondire in questa sede la problematica del marchio reso in lingua straniera - la traduzione in “occhi”, il collegamento con gli occhiali non sarebbe comunque diretto, bensì mediato da un secondo passaggio, atteso che già il termine “occhi” non indica gli occhiali né una caratteristica degli occhiali e quindi non è descrittivo del prodotto “occhiali”, ma indica solo ciò che gli occhiali proteggono. Nel caso di specie, poi, il collegamento (indiretto) sarebbe addirittura di secondo grado, giacché si parte dal termine inglese ICE e, valorizzando il simile effetto fonetico, si passa al diverso termine inglese EYES (dizione simile ma scrittura completamente diversa: e il marchio non solo si pronuncia, ma anche si legge e si memorizza nella sua composizione di singole lettere), successivamente da EYES si giunge al prodotto “occhiali”. Il percorso è davvero troppo articolato perché si possa affermare la mera descrittività del marchio ICE utilizzato per l’occhialeria: la censura di descrittività del marchio non appare quindi fondata. Neppure infine la difesa appare condivisibile laddove sottolinea che il termine ICE sarebbe utilizzato nel settore dell’occhialeria per riferirsi alla specchiatura delle lenti, giacché in primo luogo manca in giudizio una prova rigorosa del generalizzato utilizzo del termine allo scopo indicato e in ogni caso di tratterebbe di un termine prettamente tecnico, ignoto in detta accezione al consumatore tipico del settore. L’uso comune del segno ICE Il marchio ICE non può neppure ritenersi divenuto di uso comune nel linguaggio corrente o commerciale (art. 12/1 lett. a C.p.i.), tale dovendosi interpretare solo la parola che nel linguaggio commerciale o comune è utilizzata abitualmente per indicare categorie merceolo- giche tra loro eterogenee oppure una rivendicazione di qualità attinente non ad uno specifico prodotto, bensì a qualunque tipo di prodotti. Ebbene, se si considera che l’impedimento alla registrazione di cui si discute è stato riconosciuto per marchi quali “leader”, “group”, “elite”, “standard”, “extra”, “super” o, secondo la stessa pronuncia della Corte di Giustizia CE 4 ottobre 2001, causa C517/99 citata da IE, “bravo” (…), ritiene il Collegio che risulti chiara la differenza rispetto al marchio ICE, che non appare idoneo ad identificare categorie di prodotti oppure ad identificarne una qualità, senza che tale conclusione possa essere modificata per il solo fatto che si tratti di un marchio particolarmente presente nel mercato. D’altra parte neppure la società convenuta ha indicato a quali caratteristiche astrattamente generali ICE farebbe in equivoco riferimento. D’altra parte, la stessa ricostruzione di parte convenuta smentisce la tesi proposta, laddove viene sottolineato come il marchio ICE sarebbe particolarmente utilizzato nell’ambito di marchi diffusi nel settore degli occhiali, giacché la circostanza varrebbe comunque a smentire che il segno ICE abbia assunto portata identificativa di prodotti tra loro eterogenei. L’uso del marchio ICE in funzione ornamentale Sostiene IE che, come confermato anche dall’avvenuta registrazione come modello di una particolare realizzazione della scritta ICE sull’asta di occhiali, il marchio sarebbe utilizzato da Gilmar con modalità tali da attribuire al prodotto un valore sostanziale e che quindi andrebbe riconosciuto un ulteriore impedimento alla registrazione del marchio attoreo, secondo la prescrizione dell’art. 9 C.p.i. (e, prima, dell’art. 18/1 lett. c). Nel caso di specie si contesta che venga utilizzato quale marchio un segno tridimensionale che, per le modalità con cui è reso (con strass o lettere metalliche di peculiare grafismo), attribuirebbe al prodotto cui è applicato un valore estetico autonomo, tanto da far scendere in secondo piano la funzione distintiva del marchio e addirittura da risultare difficilmente leggibile la parola ICE. Ritiene in proposito il Collegio che l’impedimento alla registrazione in esame si configuri solo quando il marchio, per le specifiche modalità di realizzazione e non per il suo carattere distintivo dell’impresa di provenienza, dia al prodotto un aspetto estetico idoneo ad assicurargli un significativo vantaggio competitivo; il segno non svolge più la funzione tipica del marchio (o, quanto meno, la sua funzione principale) di collegamento del prodotto ad una determinata impresa e al valore ad essa connesso, non svolge più la sua funzione di trasferire sul prodotto contrassegnato quelle caratteristiche proprie di prodotti con lo stesso marchio e provenienti quindi dalla stessa impresa, ma ha un valore estetico autonomo, di per sé decisivo nel l’esercitare un’autonoma forza attrattiva sul consumatore il quale, quindi, non acquisterà più il prodotto in considerazione della provenienza indicata dal marchio, ma per la forza at- IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 327 GIURISPRUDENZA•MARCHI trattiva del suo aspetto estetico, ottenuto attraverso una peculiare realizzazione del segno. Proprio in questa ipotesi, infatti, il marchio perde la sua funzione distintiva e assume un’estranea funzione estetica. Se si esaminano però gli occhiali di Gilmar, anche quelli “censurati” dalla convenuta (…) ritiene il Tribunale che, se una forza attrattiva deve essere riconosciuta in un elemento estetico, ciò sia garantito soprattutto dalla forma dell’occhiale, dai colori prescelti e dal loro abbinamento, dalla forma delle lenti e dall’uso dei materiali: di fonte a tutti questi elementi il valore estetico della concreta modalità di realizzazione del segno ICE e della sua applicazione sulla stanghetta può sì avere un valore estetico proprio, ma che va ad aggiungersi e non ad esaurire la principale forza attrattiva della linea armoniosa dell’occhiale nel suo complesso. L’acquirente di un occhiale prodotto da una casa di moda, quando sceglie un occhiale, si concentra sull’aspetto estetico dello stesso, ma nel suo ‘‘percorso di selezione” sceglie prima di tutto la forma dell’occhiale medesimo e solo in un secondo momento si farà condizionare dalla modalità di applicazione del marchio o comunque da un decoro sulla stanghetta. Vale al riguardo altresì ricordare come lo specifico impedimento di cui si discute sia stato riconosciuto in giurisprudenza per un marchio per piastrelle formato dalla testa di una medusa realizzata con particolari modalità, essendosi ritenuto che il disegno in questione configurasse (al tempo) speciale ornamento, tale da giustificare la registrazione quale modello (Pret. Modena 26 gennaio 1999, in Giur. ann. dir. ind., 1999, 879): ma se una piastrella sotto un profilo estetico ben può essere preferita ad un’altra in considerazione del disegno sulla stessa raffigurato (a prescindere dal fatto che lo stesso disegno configuri anche il marchio del produttore), è più difficile dichiarare in assoluto e in linea generale che un occhiale venga preferito ad un altro in considerazione della modalità, decorativa con cui è riportato il segno distintivo del produttore sulla stanghetta. La gradevolezza di forme, con cui il marchio è riportato sul prodotto, non ne preclude certo la registrabilità, non potendosi certo pensare che l’imprenditore voglia riportare la provenienza dell’articolo dalla propria azienda in maniera sgradevole o comunque che, al momento del proprio ingresso nel mercato, non voglia tenere conto e valorizzare anche la particolare funzione del prodotto in questione: e l’occhiale viene comunemente ormai utilizzato non solo per correggere i difetti della vista o riparare gli occhi dal sole, ma anche quale accessorio di moda con una forte valenza estetica. Deve quindi concludersi per il rigetto dell’eccezione di nullità del marchio ICE registrato da Gilmar. La decadenza del marchio per non uso Dispone l’art. 24 C.p.i. (e, prima, l’art. 42 l. marchi) che il marchio debba essere effettivamente utilizzato, giacché ti non uso protratto per un quinquennio ne de- 328 IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 termina la decadenza; il problema evidentemente sta nel fornire una definizione dell’“uso effettivo”, che la convenuta ha negato nel caso di specie. La prova del non uso grava su chi eccepisca la decadenza (art. 121 C.p.i.). Partendo dai documenti a disposizione, deve rilevarsi come l’occhiale sub doc. n. 16 attoreo riporti il marchio ICE e corrisponda al modello IG 591 (…), IG 592, IG 593 (…), sub doc. n. 128 attoreo vi è invece il modello d’occhiale della serie IG 520. Ebbene il modello IG 591 risulta raffigurato nelle pubblicità apparse nel settimanale D di Repubblica da dicembre 1997 fino a maggio 1998 (…); i modelli IG 591, IG 592 e IG 593 sono, ancora, oggetto di fatturazione da marzo 1998 a maggio 1999 (…) mentre il modello IG 520 è oggetto di fatturazione a febbraio 2000 (…). Che i modelli citati presentassero il marchio ICE risulta poi dal prospetto acquisito nell’accordo delle parti all’udienza del 10 gennaio 2007. Al riguardo preme peraltro sottolineare come appaia irrilevante che ICE fosse indicato da solo oppure unitamente al (l’autonomo) marchio ICEBERG: ciò che rileva ai fini della valutazione di fondatezza della eccezione di decadenza del marchio per non uso è la verifica che il segno ICE fosse utilizzato e - di più - che fosse utilizzato quale marchio. Ebbene, basta esaminare il modello sub doc. n. 126 attoreo per sgombrare il campo da qualsiasi dubbio: ICE campeggia sulla stanghetta perfettamente visibile e leggibile, mentre ICEBERG è scritto molto più in piccolo sopra la C di ICE, cosicché va senz’altro affermato che ICE nel citato occhiale fosse utilizzato quale marchio. Tornando al prospetto acquisito ai verbale d’udienza 10 gennaio 2007, risulta che in Italia nel 1998 furono venduti n. 5807 occhiali con marchio ICE (e non ICEBERG, atteso che il prospetto stesso distingue i due tipi di prodotto), nel 1999 n. 749 pezzi e nel 2000 n. 388 pezzi, all’estero nel 1998 n. 18186 pezzi, nel 1999 n. 2470 pezzi e nel 2000 n. 151 pezzi. Il teste S. ha poi riferito che la nuova produzione dei modelli di occhiali Gilmar con marchio ICE è ripresa con la collezione Sole 2004/2005 in particolare i nuovi modelli erano stati progettati tra fine 2003 e inizio dell’anno 2004, gli ordini di produzione e acquisto risalivano ad aprile 2004, i distributori esteri avevano visto i nuovi prodotti a fine luglio 2004 e quelli italiani a fine agosto; gli occhiali erano stati infine presentati pubblicamente ad ottobre 2004 (...). Parte convenuta contesta che i ridotti quantitativi di occhiali venduti tra il 1998 e il 2000 siano sufficienti ad impedire la decadenza per non uso del marchio ICE, quanto meno per il settore dell’occhialeria. Giova senz’altro partire dalia ratio della norma, che sanziona con la decadenza il non uso del marchio: la stessa consiste nell’evitare che si verifichino fenomeni c.d. di accaparramento di marchi (ovvero registrazione di marchi poi non utilizzati) o di c.d. cimiteri di marchi (ovvero che si accumulino marchi interdetti ai concorrenti, ma che ormai non vengono utilizzati dagli originari GIURISPRUDENZA•MARCHI titolari e quindi risultano ingiustificatamente preclusi alla concorrenza) evidentemente è il secondo rischio che rileva nel caso in esame, atteso che è pacifico che, quanto meno fino ad un determinato periodo di tempo, il marchio ICE è stato utilizzato per nuovi modelli di occhiali. È stato definito “uso effettivo” quell’utilizzo non meramente simbolico o per quantitativi di prodotto (e quindi di marchio) irrilevanti, il concetto deve comunque ritenersi relativo, dovendosi evidentemente distinguere a seconda del tipo di prodotto in esame: l’uso effettivo di un marchio di merendine sarà senz’altro superiore all’uso effettivo di un marchio di automobili. E infatti la Corte di Giustizia CE ha individuato l’uso simbolico in quell’uso “finalizzato al mero mantenimento dei diritti conferiti dal marchio”, senza peraltro che la dimensione quantitativa assuma dirimente rilievo e pretendendo piuttosto un uso sul mercato e non meramente interno all’impresa, anche se avente ad oggetto merci già presenti sul mercato e non immesse ex novo (Corte di Giustizia CE 11 marzo 2003, causa C-40/01). Tentando una definizione positiva, si è suggerito che l’uso effettivo del marchio sia quello che trova una giustificazione di carattere economico in seno all’imprese e quindi che consente l’acquisto (in caso di uso iniziale) o il mantenimento (in caso di uso diminuito in un momento successivo alla registrazione) dell’avviamento connesso al marchio. Si è anche sostenuto in dottrina che l’uso concreto rilevante per impedire il verificarsi della decadenza dovrebbe essere analogo all’uso necessario per l’acquisto del diritto sul marchio di fatto. In proposito, però, il Collegio condivide la tesi attorea, per cui l’uso effettivo dovrebbe essere riconosciuto con maggiore indulgenza nell’ipotesi di cui all’art. 1 C.p.i., soprattutto ove si tratti di valutare l’intervenuta decadenza di un marchio efficacemente utilizzato per anni, rispetto all’ipotesi del marchio di fatto: nel primo caso, infatti, si tratta di caducare una privativa pur registrata ed esercitata nel tempo, mentre nel secondo caso si tratta di attribuire una privativa, mai registrata, unicamente quale conseguenza dell’uso concreto. Ebbene, tornando ai dati evincibili dall’istruttoria svolta, ritiene il Tribunale di dover in primo luogo sottolineare come senz’altro debba riconoscersi un uso effettivo del marchio ICE per l’occhialeria da parte di Gilmar per l’anno 1998. Proprio nel 1998 infatti videro la luce tre nuovi modelli di occhiali da sole (IG 591, 592 e 593) lo si desume sia dalle pubblicità giornalistiche citate che dal prospetto acquisito ricordarsi come gli occhiali vengano comunemente tenuti esposti in apposite vetrine o espositori, cosicché se è presente agli atti il dato delle vendite, non è noto ma deve essere necessariamente superiore il dato degli occhiali esposti; volendo tentare una quantificazione, può ipotizzarsi che nel 1999, se sono stati venduti 749 pezzi, saranno stati esposti - quanto meno - anche tutti gli occhiali che so- no stati venduti negli anni successivi quindi, considerando anche gli anni successivi al 2000 sulla base del prospetto citato, saranno stati esposti circa 2000 pezzi, ovvero oltre un terzo degli occhiali venduti nel 1998. Infine, ritiene il Collegio sia altresì rilevante, nel valutare se l’uso pur ridotto del marchio fosse idoneo a mantenere il relativo avviamento in capo a Gilmar, il fatto che gli occhiali in questione venissero comunemente esposti e venduti assieme agli occhiali con marchio Iceberg (trattati come si è visto in quantità nettamente superiori) o comunque anche nell’ambito di corner o negozi monomarca di cui ha riferito la teste G.: è inevitabile che il consumatore di riferimento, una volta visti accostati i due marchi ICE e ICEBERG, quand’anche non avesse in precedenza conosciuto il primo, sarebbe stato indotto ad accomunare i segni come provenienti dalla stessa impresa, così da riconoscere la portata distintiva di ICE anche quando il suo uso fu ridotto, ma continuò ad avvenire in stretto collegamento con il marchio ICEBERG. Da quanto esposto deve concludersi che, se l’uso effettivo del marchio ICE è riconoscibile - quanto meno - fino a tutto l’anno 1999, essendo comunque proseguite le vendite anche nel 2000, e se l’uso è ripreso con nuovi investimenti e nuovi modelli al più tardi nell’estate 2004, quando i nuovi occhiali sono stati presentati ai venditori esteri e italiani, o in via estremamente prudenziale nell’ottobre 2004 alla fiera di settore, l’eccezione di decadenza per non uso non può dirsi fondata, atteso che la prova fornita dalla convenuta è fortemente contrastata dalle circostanze descritte. L’eccezione di decadenza del marchio ICE va quindi rigettata. Le considerazioni esposte rendono questo punto ultronea ogni valutazione di affinità tra prodotti (occhiali e altri prodotti per cui il marchio ICE non fu mai ridotto nel suo utilizzo; la questione sarà invece approfondita nell’ambito della valutazione della denunciata contraffazione) ovvero di notorietà o addirittura rinomanza del marchio ICE, questioni pure trattate dalle parti. La domanda di nullità del marchio registrato dalla convenuta L’art. 25 C.p.i. stabilisce che il marchio registrato sia nullo, tra le altre ipotesi, quando uno degli impedimenti di cui all’art. 12 C.p.i. Prevede a sua volta l’art. 12 C.p.i. che non sono nuovi i marchi che siano simili ad un segno già noto come marchio o segno distintivo per produrre servizi identici o simili, se a causa dell’identità o somiglianza tra i segni o dell’identità o somiglianza tra i prodotti possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico, che può consistere anche in un rischio di associazione tra i segni (…). La valutazione di novità del marchio X-ICE può condursi con riferimento ai marchi attorei consistenti esclusivamente nel termine ICE si può centrare la presente analisi sul marchio figurativo (…) registrato il 13 IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 329 GIURISPRUDENZA•MARCHI maggio 1997 per la classe 9 (…), e il marchio denominativo ICE depositato il 21 gennaio 1999 per le classi 18 (tra cui profumeria, oli essenziali, cosmetici) e 25 (abbigliamento, calzature, cappelleria) e rinnovato per venti anni (…). Il marchio di IE, asseritamente privo del carattere di novità, consiste in una particolare scrittura del segno X-ICE, resa in “caratteri stilizzati outline”, come recita la dichiarazione di protezione allegata all’attestato di registrazione (…). Preme ricordare come la comparazione tra i segni a raffronto al fine di valutarne la confondibilità debba condursi in astratto, ricostruendo però quale sia la situazione che possa verificarsi sul mercato e tenendo quindi conto della natura del prodotto in questione e dell’attenzione media del consumatore tipico. Quanto al pubblico di riferimento dei prodotti di cui si discute, gli occhiali in questione sono venduti o da negozi monomarca oppure da negozi o punti vendita di occhiali che espongano articoli di molteplici marche o ancora da esercizi commerciali che vendano abbigliamento o accessori di livello medio o medio-alto, il consumatore di riferimento può individuarsi nel soggetto che acquisti l’occhiale non solo come strumento utile, ma anche come prodotto dotato di autonoma valenza estetica; in sostanza un consumatore attento anche alla linea e all’aspetto esteriore dell’occhiale. Questo non significa però che si tratti di un consumatore che si rivolga all’acquisto con l’intenzione a priori di acquistare l’una piuttosto che l’altra marca: egli desidera un prodotto che gli piaccia e magari conforme ai dettami della moda, ma non necessariamente è affezionato all’una piuttosto che all’altra casa produttrice. Ebbene, ritiene il Tribunale che il rischio confusorio tra i marchi a raffronto sussista sia che si prenda a riferimento il solo marchio figurativo di Gilmar sia che si esamini anche il marchio denominativo della medesima società attrice. Premesso che, nel momento in cui si raffrontino due marchi con valenza sia denominativa che figurativa, la nullità va affermata anche se la confondibilità debba essere riconosciuta anche sulla base del raffronto dei soli elementi denominativi, va osservato come ICE e XICE abbiano ad avviso del Tribunale un significativo e decisivo grado di somiglianza per giungerne ad affermarne il rischio confusorio: foneticamente il secondo segno riprende integralmente il primo, riproponendolo identicamente: il trattino, infatti, separa la lettera X dal termine ICE, che quindi è presente identicamente nei due segni. L’aggiunta della lettera X, infatti, non vale ad eliminare il rischio confusorio, come sostiene la convenuta. In primo luogo perché, se si ritiene che si tratti di una lettera di scarso significato, come rileva parte convenuta all’atto della sua costituzione, lungi dal ridurre, finisce per accentuare la somiglianza tra i due segni, giacché gli stessi vengono a differenziarsi esclusivamente per un elemento ritenuto scarsamente significativo e quindi privo di autonomo e significativo potere distintivo. Al- 330 IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 l’opposto, non convince la contraria tesi sostenuta dalla convenuta nelle proprie note conclusive, laddove indica nella X il cuore o il tipo del marchio: la lettera X non appare inequivocabilmente dotata di un significato autonomo, collegato al mondo fantascientifico, e se anche voglia attribuirsi rilievo allo studio semantico inerente la lettera X, pubblicato successivamente allo scadere dei termini istruttori maturati in giudizio, ciò non toglie che nel caso di specie la lettera in questione non appare tale da neutralizzare il richiamo all’identico termine costituente (per intero) il marchio attoreo. Cosicché, invariato il termine ICE, poiché X-ICE non risulta possedere un significato autonomo e diverso rispetto ad ICE, la “caratterizzazione fantascientifica” ben potrebbe essere anche propria di Gilmar. In secondo luogo perché, dovendosi comunque calare i marchi nell’ambito della realtà commerciale nella quale vengono utilizzati, non può disconoscersi che Gilmar usa declinare i propri marchi o, meglio, la radice dei propri marchi (ICE) in più segni autonomi, distinti tra loro dalla sola aggiunta di una lettera (ICE B, ICE J), dedicati a prodotti diversi; e il fatto che nel caso di IE la lettera aggiuntiva sia anteposta e non posposta alla parte centrale del segno (ovvero X-ICE e non ICE X) non ha valenza decisiva nella valutazione odierna, trattandosi in effetti di un elemento del tutto casuale, che non vale ad escludere che Gilmar per ipotesi abbia cosi voluto denominare una propria linea, eventualmente di stampo più “aggressivo”, caratteristica rivendicata dalla produzione di IE. Ancora, ad abundantiam non può disconoscersi che Gilmar è titolare di plurimi marchi (…), molti dei quali sono incentrati sul termine ICE, nel senso che presentano il segno ICE accompagnato da altri elementi (lettere o parole), che però non tolgono ad ICE la posizione di centralità: Twice Iceberg, Sport Ice (…), Ice B (…), Golf Sport Ice (…), cosicché è inevitabile che un segno distintivo, che successivamente intenda fare il proprio ingresso nel settore merceologico di riferimento avvalendosi del termine ICE, verrà facilmente collegato alla “famiglia di marchi” utilizzata dalla società attrice; cosicché il nuovo marchio dovrà quanto meno accompagnare il termine ICE ad ulteriori elementi, che assumano autonoma funzione distintiva, atta a neutralizzare il collegamento con il precedente segno e tale da concentrare l’attenzione del consumatore non più su ICE ma proprio sull’elemento aggiuntivo o quanto meno a trasformare la particella ICE in un segno autonomo. Dalle considerazioni che precedono ritiene il Collegio di poter desumere che la particolare linea trendy e - come rileva la convenuta - financo “aggressiva” scelta da IE per i propri occhiali non valga a scongiurare il rischio confusorio comunque insito delle forti similitudini tra i segni. La linea di produzione attualmente seguita da IE è un elemento occasionale: anche la società convenuta potrebbe quindi un domani affiancare all’at- GIURISPRUDENZA•MARCHI tuale prodotto un occhiale più tradizionale; conseguentemente non vale a configurare un pubblico di riferimento del tutto autonomo rispetto a quello già descritto. Specularmente, l’attuale linea di occhiali di IE ben potrebbe configurare un’autonoma linea di occhiali più aggressiva riconducibile alla società Gilmar presente in vari settori soprattutto della moda con linee di differente tipologia. In conclusione, va accolta la domanda di nullità avente ad oggetto il marchio nazionale X-ICE di IE; va conseguentemente anche accertata la contraffazione da parte della convenuta del marchio attoreo in precedenza indicato. Rimane a questo punto superflua la trattazione in ordine al secondo marchio attoreo citato, ovvero quello puramente denominativo. Va altresì inibito alla società convenuta l’utilizzo in qualsiasi forma del marchio di cui è stata dichiarata la nullità e quindi la produzione, commercializzazione, pubblicizzazione, anche nel sito internet, di occhiali o prodotti per occhialeria con marchio X-ICE. Appare opportuno assegnare alla società convenuta un termine di “tolleranza”, per consentirle di eliminare la merce contestata e - intervento un po’ più laborioso - ogni riferimento al marchio dal proprio sito, appare congruo un termine di venti giorni dalla comunicazione del dispositivo delta presente decisione ovvero dalla notificazione di parte, se anteriore. Va altresì prevista una penale a garanzia dell’adempimento della pronunciata inibitoria, che può quantificarsi in euro 200 per ogni occhiale prodotto, venduto o offerto in vendita o per ogni episodio di pubblicizzazione del marchio X-ICE ovvero di euro 100,00 per ogni giorno di ritardo nella “pulitura del sito”. Quanto alle ulteriori domande svolte da Gilmar, deve osservarsi come la richiesta di accertamento della condotta di concorrenza sleale possa essere accolta solo con riferimento all’ipotesi di cui al n. 1 di cui all’art. 2598 c.c., atteso che non vi è traccia di condotte rilevanti ai sensi delle altre due fattispecie astratte delineate dalla medesima norma sub n. 2 e n. 3. Va invece accolta la domanda di pubblicazione della presente decisione, limitatamente ai capi relativi alla nullità del marchio X-ICE e alla contraffazione del marchio attoreo ICE. Vi provvederà la convenuta entro il termine di venti giorni indicato: in caso di inadempimento, potrà provvedervi l’attrice, salvo obbligo di rimborso da parte della convenuta. Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza. Dall’art. 282 c.p.c. discende la provvisoria esecutività della presente decisione. La sentenza va trasmessa all’Ufficio Italiano Marchi e Brevetti. epigrafe indicata (…), ogni diversa istanza, eccezione e domanda rigetta, – rigetta l’eccezione di nullità dei marchi attorei, sollevata dalla società convenuta; – rigetta l’eccezione di decadenza per non uso in relazione agli occhiali e ai prodotti per l’occhialeria dei marchi di Gilmar s.p.a. di cui alla registrazione n. 495.942, n. 511.144, n. 512.238, n. 557.701, n. 557.700, n. 710754, n. 511.753 nonché della frazione nazionale dei marchi internazionali n. 528436, n. 674618, n. 540312 e n. 541473; – dichiara la nullità del marchio nazionale X-ICE di Immagine Eyewear s.r.l., di cui alla registrazione n. 857880 per la classe n. 9, concessa il 20 dicembre 2001, su domanda del 5 ottobre 2001; – accerta e dichiara la condotta contraffattiva di Immagine Eyewear s.r.l. ai danni dei marchio ICE di Gilmar s.p.a., specificamente indicato in parte motiva; – accerta la condotta anticoncorrenziale di Immagine Eyewear s.r.l. ai danni di Gilmar s.p.a. ai sensi dell’art. 2598 n. 1 c.c.; – inibisce alla società convenuta l’utilizzo in qualsiasi forma del marchio X-ICE e quindi la produzione, commercializzazione, pubblicizzazione, anche nel sito internet, di occhiali o prodotti per occhialeria con marchio X-ICE; – fissa ai danni della convenuta una penale di euro 200,00 per ogni occhiale prodotto, venduto o offerto in vendita o per ogni episodio di pubblicizzazione del marchio X-ICE nonché di euro 100,00 per ogni giorno di ritardo nella eliminazione di qualsiasi riferimento al marchio X-ICE da ogni sito della medesima società, successivamente al decorso del termine di venti giorni dalla comunicazione del dispositivo della presente decisione ad Immagine Eyewear s.r.l. ovvero dalla notificazione di parte, se anteriore; – dispone la pubblicazione sul quotidiano La Repubblica dei capi terzo e quarto del presente dispositivo a cura di parte convenuta a caratteri doppi del normale: entro il termine di venti giorni decorrenti come già indicato; in caso di inadempimento, potrà provvedere alla pubblicazione l’attrice, salvo rimborso da parte della convenuta; condanna la convenuta alla rifusione integrale delle spese processuali sostenute dalla società attrice, liquidate d’ufficio in assenza di nota in complessivi euro 13.040,00, di cui euro 340,00 per anticipazioni non imponibili, euro 200,00 per spese imponibili, euro 2,500,00 per diritti ed euro 10,000,00 per onorari, oltre 12,5% su diritti e onorari, IVA e CPA come per legge; – dispone la trasmissione della presente decisione all’Ufficio Italiano Marchi e Brevetti. P.Q.M. Il Tribunale di Venezia in composizione collegiale, Sezione Specializzata per la Proprietà Industriale e Intellettuale, definitivamente pronunciando nella causa in IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 331 GIURISPRUDENZA•MARCHI IL COMMENTO di Marco Lamandini e Massimiliano Pappalardo Questo contributo costituisce il primo approfondimento delle conseguenze interpretative connesse al passaggio dalla forma che presenta uno “speciale ornamento” registrabile solo come modello alla forma che conferisce un “valore sostanziale” al prodotto. Anche una forma distintiva può ben attribuire un valore sostanziale al prodotto e certamente ciò non esclude che sia registrabile come marchio. Premessa La sentenza in epigrafe affronta e risolve, per vero, una molteplicità di questioni controverse in tema di marchi, non ultima quella, oggetto della quarta massima, sulla nozione di “uso effettivo” rilevante ai fini della decadenza per non uso su cui si veda l’importante Corte di Giustizia 11 marzo 2003, causa C-40/01, Ansul c. Ajax (1) a stregua della quale «per uso effettivo deve intendersi un uso non simbolico, ossia finalizzato al mero mantenimento dei diritti conferiti dal marchio, bensì conforme alla funzione essenziale del marchio» di modo che «il marchio deve essere utilizzato sul mercato delle merci e dei servizi che ne sono contrassegnati e non solamente in seno all’impresa interessata» (2), pur potendosi ritenere uso effettivo anche l’uso del marchio a contraddistinguere “accessori o prodotti connessi” o “servizi di manutenzione e riparazione”. La sentenza, inoltre, dedica un’accurata analisi al difficile tema del rapporto tra forma distintiva e forma a valenza estetica, interrogandosi sul significato della formula dell’art. 9 C.p.i. che esclude dalla registrazione come marchio i segni composti dalla forma che «dà un valore sostanziale al prodotto». Modalità di realizzazione del marchio Il Tribunale di Venezia afferma il principio di diritto secondo cui l’impedimento alla registrazione di cui all’art. 9 C.p.i. «si configura solo quando il marchio, per le specifiche modalità di realizzazione e non per il suo carattere distintivo dell’impresa di provenienza, dia al prodotto un aspetto estetico idoneo ad assicurargli un significativo vantaggio competitivo»; qui infatti, secondo il Tribunale, «il segno non svolge più la funzione tipica del marchio (o quanto meno la sua funzione principale) di collegamento del prodotto ad una determinata impresa e al valore ad essa connesso, non svolge più la sua funzione di trasferire sul prodotto contrassegnato quelle caratteristiche proprie di prodotti con lo stesso marchio e provenienti quindi dalla stessa impresa, ma ha un valore estetico autonomo, di per sé decisivo nell’esercitare un’autonoma forza attrattiva sul consumato- 332 IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 re». «Il consumatore - prosegue la sentenza - non acquisterà più il prodotto in considerazione della provenienza indicata dal marchio, ma per la forza attrattiva del suo aspetto estetico, ottenuto attraverso una peculiare realizzazione del segno. Proprio in questa ipotesi infatti il marchio perde la sua funzione distintiva e assume una estranea funzione estetica». Facendo governo di questo principio nel caso sottoposto al suo esame, il Tribunale ha tuttavia escluso che il valore estetico della concreta realizzazione del marchio “ICE” con strass o lettere metalliche di particolare grafismo (realizzazione che risulterebbe anche oggetto di registrazione come modello) valesse ad escludere la registrabilità come marchio di forma: e ciò sul presupposto che «l’acquirente di un occhiale prodotto da una casa di moda, quando sceglie un occhiale, si concentra sull’aspetto estetico dello stesso, (…) sceglie prima di tutto la forma dell’occhiale medesimo e solo in un secondo momento si farà condizionare dalla modalità di applicazione del marchio o comunque da un decoro sulla stanghetta. Per tale ragione il Tribunale ha escluso - si direbbe correttamente - che un occhiale venga preferito ad un altro in considerazione della modalità decorativa con cui è riportato il segno distintivo del produttore sulla stanghetta». Forme registrabili come marchi L’interpretazione della formula legislativa dell’art. 9 C.p.i. così come del suo antecedente - di derivazione comunitaria - di cui all’art. 18.1. lett. c) l. marchi ha dato luogo, come è ben noto, a diversi indirizzi. Da un lato, si è dato rilievo al valore estetico della forma, sostenendosi che, in ossequio al principio di alternatività delle tutele, non sarebbero registrabili come marchi quelle forme che presentano il gradiente estetico sufficiente ad accedere alla tutela come modello (3). Dall’altro lato, si è evidenziato come non si tratterebbe tanto di equiparare sempre e comunque forma ornamentale e forma che attribuisce un valore sostanziale, Note: (1) In questa Rivista, 2004, 46. (2) In senso conforme vedi tra i tanti Abriani, in Trattato Cottino, Padova, 2001, 116; Vanzetti - Di Cataldo, Manuale di diritto industriale, Milano, 2003, 237; Trib. Torino 3 marzo 2000, ined. ma citata da Quaranta, Decadenza per non uso e affinità, in questa Rivista, 2003, 70; Trib. Perugia 11 settembre 1999, in Giur. ann. dir. ind., 1999, 4026. (3) Su questo indirizzo, consolidato in specie nella vigenza della pregressa disciplina in tema di brevetti per modello, che subordinava l’accesso alla tutela al requisito dello speciale ornamento vedi per tutti Vanzetti, I diversi livelli di tutela delle forme ornamentali e funzionali, in Riv. dir. ind., 1994, I, 330; Cavani, Commento generale alla riforma, in Ghidini, La riforma della legge marchi, Padova, 1995, 32; più di recente Di Cataldo, Rassegna di giurisprudenza - Proprietà industriale, in Giur. comm., 2007, 14; in giurisprudenza Cass. 17 gennaio 1995, n. 484, in Giur. ann. dir. ind., n. 3190; Comm. Ricorsi, 26 ottobre 2001, ivi, 2002, n. 4460. GIURISPRUDENZA•MARCHI quanto piuttosto di escludere dalla registrazione quelle forme che, per la loro estetica, incidono in modo determinante nell’apprezzamento del prodotto, ben potendo una forma gradevole e ornamentale - come nel caso non incidere in modo determinante sull’apprezzamento del pubblico e dunque non dare “un valore sostanziale” al prodotto (4). La riforma dei titoli di protezione per modello e l’adozione del criterio dell’individualità in luogo di quello dello speciale ornamento, che caratterizzava nella pre-vigente normativa i modelli ornamentali, sembra infatti aver determinato, per dirla con le parole di una recente sentenza, «il venire meno del confine tra modelli ornamentali e marchi, ammettendo il sovrapporsi delle due fattispecie e il concorso delle due normative e consentendo il passaggio, ove si verifichino le necessarie condizioni, da forma-modello a forma marchio» (5). Si è così ammessa in dottrina la possibilità di registrare come marchio la forma del prodotto, in particolare laddove «l’estetica del prodotto, pur scarsamente differenziata rispetto ai concorrenti, sia stata memorizzata dal pubblico in funzione identificatrice di uno e un solo imprenditore. Questa memorizzazione infatti non è verosimilmente “spontanea”, ma riflette presumibilmente investimenti di natura promozionale diretti a stimolare l’attenzione del pubblico sui pur marginali elementi di caratterizzazione del bene» (6). Tutela Il caso in esame sembra ben illustrare i diversi esiti cui si perviene, nei singoli casi concreti, a seconda dell’indirizzo interpretativo prescelto. Ove infatti nel caso deciso dal Tribunale di Venezia si equiparasse valore estetico e valore sostanziale, la circostanza che il marchio sia stato registrato come modello e che effettivamente presenti i requisiti di accesso a tale tutela dovrebbe di per sé escludere la registrabilità come marchio, a prescindere dal ruolo che tale forma svolge in concreto nell’indirizzare la scelta di acquisto del consumatore (e dunque anche qualora la forma oggetto di registrazione risulti in concreto non determinante per l’apprezzamento del pubblico come nel caso avviene per il marchio ICE rispetto agli occhiali). Ove viceversa si aderisca, come mostra di aver fatto, convincentemente, il Tribunale di Venezia, al secondo orientamento, l’esito è diametralmente opposto. Infatti, qui la forma registrata - pur presentando un carattere individuale - non è stata reputata dal Tribunale connotata da un gradiente di originalità, dal punto di vista estetico, tale da costituire autonoma ragione di acquisto del prodotto e, quindi, tale da attribuire valore sostanziale al prodotto medesimo. In tal modo la pronuncia in commento fa dunque proprio l’orientamento già espresso da quella parte della dottrina, la quale - all’indomani della riforma - si era orientata ad ammettere il cumulo originario (e perciò indipendente dagli eventuali effetti propri del c.d. secondary meaning) delle protezioni come marchio di forma e come modello, pur riconoscendolo - in con- siderazione dei rischi monopolistici insiti nella fattispecie - limitatamente alla forma dei contenitori e di quei prodotti che non vengono acquistati sulla base di valutazioni di gradevolezza estetica (7). Forme industriali Pur convenendo dunque che possono esservi forme di valore estetico che ciò non di meno restano estranee al processo di selezione psicologico che conduce il consumatore all’acquisto e che di conseguenza, a dispetto del loro valore estetico e del gradimento astratto che suscitano nel consumatore non aggiungono “valore sostanziale” - sul piano dell’agone competitivo - al prodotto, resta tuttavia da chiedersi se davvero l’adozione di un simile criterio “soggettivo” e “di mercato” fondato sull’apprezzamento e sulle motivazioni d’acquisto dei consumatori sia effettivamente idoneo a differenziare in modo “workable” tra forme distintive (protette come marchi) e forme ornamentali (protette come modelli o design). Ogni forma industriale originale - anche brutta - può fungere infatti da meccanismo di attrazione per i consumatori e dunque incidere sulla scelta di acquisto; e ciò a maggior ragione quando ad essa si accompagni un’intensa promozione pubblicitaria che colleghi proprio a quella forma e a quell’estetica - bella o brutta che sia - uno status, una tendenza, una moda o comunque un motivo di desiderabilità sociale. Può anzi dirsi che tanto maggiori sono gli investimenti pubblicitari e il conseguente accresciuto potere di vendita collegato alla forma del prodotto tanto più l’estetica di quel prodotto dà valore sostanziale al prodotto stesso. Con un vero paradosso, dunque, una forma nuova e originale di un prodotto, inizialmente incapace in sé di “dare valore sostanziale” al prodotto ma comunque idonea, per la sua natura individualizzante, a differenziare i prodotti sul mercato (e dunque inizialmente registrabile come marchio) potrebbe in tal modo correre il rischio di essere successivamente considerata non registrabile quando essa, anche per la maggior distintività acquisita e dunque per l’accresciuta capacità attrattiva che riesca ad esercitare per effetto degli investimenti pubblicitari effettuati, per la sua estetica venga percepita si come veicolo di riconduzione di quel prodotto ad una certa Note: (4) Cfr. Sena, Il nuovo diritto dei marchi, marchio nazionale e marchio comunitario, Milano, 2001, 17; Sarti, I marchi di forma tra secondary meaning e funzionalità, in Studi in Onore di Adriano Vanzetti, Milano, 2004, 1427; Bosshard, Divieto di imitazione servile confusoria, marchio di forma e “nuova” privativa sul design, ivi, 265; in giurisprudenza tra le altre Trib. Milano 22 aprile 2004, in Giur. ann. dir. ind., 2004, n. 474 a proposito del marchio Adidas; Trib. Napoli 5 novembre 1998, in Riv. dir. ind., 1999, 262. (5) Trib. Catania 10 dicembre 2004, in Le Sezioni Spec. della Prop. Int. e Ind., 2004, 84. (6) Cfr. Sarti, op. cit., 1427; Di Cataldo, op. cit., 15; Bosshard, op. cit., 272. (7) Cfr. Sarti, op. cit., 1447 ss. IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 333 GIURISPRUDENZA•MARCHI impresa, ma anche e soprattutto come tale da incidere proprio per la capacità evocativa e suggestiva della forma - in modo significativo sulle scelte di acquisto del consumatore. di elementi estetici, i quali tuttavia sono certamente secondari sotto il profilo ornamentale e assumono invece rilevanza essenziale quali segni distintivi (11). Forme complesse Registrabilità dipendente dall’estetica A noi sembra che, a dispetto della vaghezza del parametro valutativo offerto dal legislatore, a riguardo debba essere cercato e trovato un ragionevole punto di equilibrio tra ragioni di protezione degli investimenti pubblicitari e ragioni del pubblico dominio. È pertanto senz’altro vero - come ha di recente precisato la Corte di Giustizia (8) - che una forma di cui sia impedita ab origine la registrazione come marchio perché fin dal principio capace di “dare valore sostanziale al prodotto” non può divenire registrabile successivamente a seguito di una sorta di effetto riabilitativo della stessa che, grazie agli investimenti pubblicitari effettuati, abbia trasferito nella percezione del pubblico il valore della forma dal piano del gradimento estetico a quello della differenziazione distintiva: il limite di registrazione dell’art. 9, al pari di quello fissato dal carattere originariamente funzionale della forma (9), non viene meno per gli sforzi pubblicitari volti a dare valore distintivo a quelle caratteristiche formali che attribuiscono, sotto il profilo estetico, valore sostanziale al prodotto. Non ci pare tuttavia che possa dirsi vero il contrario. Non ci pare cioè che una forma originariamente solo distintiva possa perdere il requisito della registrabilità come marchio perché la sua estetica, per effetto degli investimenti pubblicitari effettuati, venga a svolgere anche una funzione selettiva e venga così ad incidere sull’apprezzamento del pubblico (e non già perché quel prodotto sia fabbricato o commercializzato da questa o quella impresa ma perché a quella forma è ricollegato un riconoscimento sociale come spesso avviene con gli status symbols, i prodotti di tendenza e di moda). A noi sembra necessario operare qui una, pur difficile, distinzione tra investimenti pubblicitari tesi a promuovere le caratteristiche estetiche del prodotto e, quindi, a creare nel pubblico dei consumatori un’esigenza di acquisto in relazione a nuove forme in quanto percepite per la loro valenza estetica, rispetto agli investimenti tesi a fare di uno specifico articolo proveniente da un determinato produttore un oggetto cult, dando così origine a quel fenomeno noto come secondary meaning, che - rispetto ai marchi di forma - si impone ogniqualvolta, in mercati pur affollati, si afferma chiara nella percezione del consumatore l’individuazione del solo e unico “originale” dalla schiera delle “imitazioni”, che pur presentando linee estetiche molto simili, risultano del tutto sprovviste dell’appeal dell’originale: ragione d’acquisto è, dunque, il fatto che il prodotto sia quello percepito dal pubblico come l’originale e non che il prodotto presenti certe caratteristiche formali (10). Qui si sviluppa nel pubblico una particolare sensibilità nella capacità di distinguere la forma dell’“originale” dalla “copia”, anche sulla base 334 IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 Particolare cautela merita poi l’apprezzamento giuridico delle forme complesse. Pacifico è infatti che in una forma costituita da una pluralità di elementi, alcuni di essi possono rivestire una funzione essenziale dal punto di vista estetico, mentre altri risultano essere esteticamente neutri (irrilevanti, quindi, nell’orientare le scelte d’acquisto del consumatore). In tal caso, mentre i tratti sostanziali dal punto di vista ornamentale, saranno proteggibili unicamente come modello e, quindi, per un periodo limitato di tempo per poi cadere in pubblico dominio, per converso, la forma complessa nel suo insieme, idonea a individuare il prodotto proveniente da una certa impresa, dovrà ritenersi suscettibile di protezione anche come marchio. Come ha infatti correttamente osservato il Tribunale di Napoli nel caso “Cipster” «(…) una stessa forma può vedere la coesistenza di una funzione utilitaristica, tecnica (o un profilo ornamentale) con quella propria di marchio, se questa è prevalente nell’uso» aggiungendo «né può trascurarsi che l’art. 18 contiene l’avverbio “esclusivamente”, il che comporta che le forme non riconducibili in via esclusiva ad esigenze tecniche possono assolvere anche altre funzioni,vale a dire quella di marchio» (12). Analogamente - ai sensi dell’art. 9 C.p.i. - a noi sembra che possano costituire oggetto di registrazione come marchio di impresa i segni tridimensionali che non siano costituiti “esclusivamente” “dalla forma che dà un valore sostanziale al prodotto”. Naturalmente tanto maggiori saranno gli elementi formali idonei ad attribuire valore sostanziale al prodotto e, quindi, suscettibili di cadere in pubblico dominio, tanto più debole sarà il marchio di forma, fino all’estremo del venir meno della stessa funzione distintiva, ove la valenza estetica della forma risulti prevalente sulla funzione distintiva. Note: (8) Corte di Giustizia CE 20 settembre 2007, causa C-371/06, Benetton c. G-Star, in Foro it., 2007, IV, 602. (9) Vedi Corte di Giustizia CE 18 giugno 2002, causa C-299/99, Koninklijke Philips Electronics NV c. Remington Consumer Products Ltd, in Giur. ann. dir. ind., 2002, n. 4464, 1135. (10) In relazione all’applicabilità del secondary meaning ai marchi di forma si veda Frassi, L’acquisto della capacità distintiva delle forme industriali, in Segni e forme distintive, la nuova disciplina, Milano, 2001, 279. (11) In ordine alla rilevanza del momento percettivo nei c.d. nuovi marchi - di colore, di suono e di forma - si veda S. Sandri, Valutazione del momento percettivo del marchio, in questa Rivista, 2002, 537-538. (12) Trib. Napoli 26 luglio 2001 (ord.), in questa Rivista, 2002, II, 159. OPINIONI•ANTITRUST Ingiunzioni parallele Il commercio parallelo disincentiva la ricerca farmaceutica? di Claudia Desogus Il contributo esamina la revisione giurisprudenziale che sembra si stia verificando in ordine all’orientamento nettamente favorevole alla politica di incoraggiamento del commercio parallelo mediante la condanna delle pratiche restrittive per sostituirlo con un orientamento contrario. Introduzione Dopo aver perseguito per circa quaranta anni una politica di incoraggiamento del commercio parallelo (1), attraverso la condanna di pratiche restrittive della concorrenza intrabrand (2), la giurisprudenza comunitaria ha recentemente iniziato un processo di revisione dei principi giuridici ispiratori di tale orientamento in relazione al settore farmaceutico. Il ribaltamento della posizione giurisprudenziale, collocandosi in seno al processo di “modernizzazione” del diritto comunitario della concorrenza in senso maggiormente specialmente i casi riguardanti il rifiuto da parte di imprese farmaceutiche in posizione dominante di fornire i grossisti che, oltre a servire il mercato domestico, svolgono attività di export (3). Nel noto caso Adalat (4), ad esempio, la Corte di giustizia delle Comunità europee (di seguito “CGCE”) ha indirettamente legittimato le restrizioni quantitative imposte da Bayer ai distributori spagnoli e francesi, qualificando la fattispecie non come divieto di esportare oggetto di un’intesa ex art. 81 Trattato CE, ma come una condotta unilaterale, annullando così la decisione della Commissione e distanziando notevolmente la giurisprudenza precedente in materia (5). Allo stesso modo, nel caso Syfait, avente per oggetto una questione pregiudiziale ex art. 82 Trattato CE riferita alla CGCE dall’Epitropi Antagonismou (l’autorità an- Note: (1) Si veda CGCE, Sez. V, 16 gennaio 1992, causa C-373/90, Criminal Proceeding against X, dove la Corte ha spiegato la ratio di questa politica affermando che «parallel imports enjoy a certain protection in Community law because they encourage trade and help reinforce competition». (2) La giurisprudenza è particolarmente ricca per i casi ex art. 81 Trattato CE. Ex multis si veda CGCE, 8 giugno 1971, causa C-78/70, Deutsche Grammophon Gesellschaft mbH v Metro-SB-Großmärkte GmbH & Co. KG; CGCE, 13 luglio 1966, cause riunite C-56/64 e C-58/64, Établissements Consten S.à.R.L. and Grundig-Verkaufs-GmbH v Commission of the European Economic Community; CGCE, 1° febbraio 1978, causa C-19/77, Miller International Schallplatten GmbH v Commission of the European Communities; CGCE, 12 luglio 1979, causa C-32/78, C-36/78 e C-82/78, BMW Belgium v Commission of the European Communities; CGCE, 8 novembre 1983, cause riunite C-96-102/82, C-104/82, C105/82, 108/82 e C-110/82, NV IAZ International Belgium and others v Commission of the European Communities; CGCE, Sez. VI, 11 gennaio 1990, causa C-277/87, Sandoz prodotti farmaceutici SpA v Commission of the European Communities; Trib. I grado CE, Sez. II, 21 ottobre 2003, caso T-368/00, General Motors Nederland BV and Opel Nederland BV v Commission of the European Communities; e CGCE, Sez. III, 6 aprile 2006, causa C-551/0,3 General Motors BV v Commission of the European Communities. Per i corsi ex art. 82 Trattato CE, si veda CGCE, 14 febbraio 1978, causa C-27/76, United Brands Company and United Brands Continentaal BV v Commission of the European Communities; Trib. I grado CE, 14 febbraio 1978, causa T-65/89, BPB Industries and British Gypsum v. Commission. La casistica è ricca quale di casi ex Artt. 28-30 Trattato CE: si veda CGCE, 31 ottobre 1974, causa C-16/74, Centrafarm BV et Adriaan de Peijper v Winthrop BV e CGCE, 31 ottobre 1974, causa C-15/74, Centrafarm BV et Adriaan de Peijper v Sterling Drug Inc.; CGCE, 5 dicembre 1996, causa C-267/95, Merck & Co. Inc. and Others v Primecrown Ltd. and Others; CGCE, 11 luglio 1996, causa Bristol-Myers Squibb v Paranova A/S (C-427/93) e C. H. Boehringer Sohn, Boehringer Ingelheim KG and Boehringer Ingelheim A/S v Paranova A/S (C-429/93) e Bayer Aktiengesellschaft and Bayer Danmark A/S v Paranova A/S (C-436/93). (3) Per i casi ex art. 81 Trattato CE, l’inversione giurisprudenziale è rappresentata dalla decisione del Trib. I grado CE, 27 settembre 2006, causa T-168/01, GlaxoSmithKline plc v Commission of the European Communities, dove la Corte ha parzialmente annullato la decisione della Commissione, affermando che l’accordo volto ad impedire il commercio parallelo non era anticompetitivo nel suo oggetto ma solo nel suo effetto. La decisione è stata appellate da entrambe le parti. Si veda Desogus, Il caso Glaxo e il futuro del commercio parallelo di farmaci in Europa, in Giur. comm., II, 2008. (4) Si veda CGCE, seduta plenaria, 6 gennaio 2004, cause riunite C2/01 e C-3/01, BAI v Bayer and Commission of the European Communities. (5) Il termine “accordo” è stato interpretato in maniera estensiva dalla Corte di giustizia CE, che ha spesso identificato la presenza di un accordo laddove le parti fossero pervenute ad un consenso, anche di massima, sul comportamento da adottare sul mercato, senza che questo avesse assunto necessariamente una veste formale. Ad esempio, l’esistenza di un accordo può desumersi dalle circostanze di fatto e basarsi sulla persistenza di relazioni commerciali fra le parti. In conformità a questa premessa, si è ritenuto che l’invio da parte di un’impresa produttrice ai suoi grossisti di fatture riportanti la scritta “esportazione vietata” integrasse la fattispecie di un’intesa verticale in quanto connessa a relazioni commerciali disciplinate da un accordo di distribuzione sottoscritto in precedenza. Si veda CGCE, 15 luglio 1970, causa C-41/69, ACF Chemiefarma NV v Commission of the European Communities, par. 12 e Sandoz, cit., sommario, par. 13. IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 335 OPINIONI•ANTITRUST titrust greca) (6), l’Avvocato Generale Jacobs formulò un’opinione che si poneva in considerevole contrasto con gli altri precedenti giurisprudenziali (7). Egli, infatti, ritenne che il rifiuto di GlaxoSmithKline (di seguito “GSK”) di fornire alcuni grossisti greci, finalizzato a restringere il commercio parallelo, non configurava necessariamente un abuso di posizione dominante, in quanto esso era finalizzato a recuperare risorse finanziarie da destinare alla ricerca farmaceutica, con effetti positivi sull’efficienza dinamica (8). Ciononostante, la questione della legittimità del rifiuto di fornire con lo scopo specifico di impedire il commercio parallelo non può considerarsi risolta dal punto di vista giuridico. Infatti, se da un lato i recenti casi summenzionati si differenziano notevolmente rispetto alla casistica giurisprudenziale antecedente, d’altro canto essi non forniscono un orientamento chiaro per la soluzione di casi futuri. La ragione di ciò deriva in primis dal fatto che nel caso Adalat la CGCE, nell’analizzare l’esistenza di un’intesa restrittiva della concorrenza, ha incentrato il proprio ragionamento solo sull’esistenza della stessa, senza proseguire l’esame della questione nel merito. Inoltre, la Corte ha rifiutato la propria competenza a decidere sul caso Syfait, dal momento che essa non ritenne che l’autorità greca garante della concorrenza potesse essere considerata un “Tribunale” ai sensi dell’art. 234 Trattato CE. Di conseguenza, il merito della questione venne affrontato solo nella menzionata, non vincolante giuridicamente, opinione dell’Avvocato Generale. L’esistenza di questioni tuttora aperte al riguardo appare confermata dal fatto che tre anni dopo il rigetto del caso Syfait, un nuovo set di questioni pregiudiziali (9) uguali alle precedenti sono state portate davanti alla CGCE (10), la quale si trova ora nella situazione di doversi pronunciare sui seguenti quesiti, oggetto del presente commento: «(…) Se il rifiuto, da parte di un’impresa in posizione dominante, di soddisfare integralmente gli ordinativi che le vengono inoltrati dai grossisti di prodotti farmaceutici, quando sia diretto a restringere le attività di esportazione di questi ultimi e a limitare in tal modo il danno causato dal commercio parallelo, costituisca di per sé un comportamento abusivo ai sensi dell’art. 82 Trattato CE». E: «(…) Come si debba valutare l’eventuale carattere abusivo nel caso in cui la Corte dovesse ritenere che la restrizione del commercio parallelo, (...), non costituisca sempre una pratica abusiva, quando sia posta in essere da un’impresa in posizione dominante». Il 1° aprile 2008 l’Avvocato Generale Ruiz-Jarabo Colomer ha comunicato la propria opinione sul caso. Al pari dell’AG Jacobs, egli ha rifiutato una lettura dell’art. 82 Trattato CE come norma che proibisce per se condotte unilaterali abusive da parte di imprese dominanti. Egli ha, invece, accettato l’applicazione di una rule of reason, in considerazione dell’eventuale presenza di cosiddetti 336 IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 efficiency gains derivanti dalle condotte stesse (11). Tuttavia, l’opinione in commento differisce in maniera significativa dalla precedente, dal momento che gli argomenti addotti da GSK non sono stati ritenuti idonei a fornire una giustificazione obiettiva e proporzionata al rifiuto di soddisfare gli ordinativi dei grossisti greci. In particolare, l’AG Colomer ha ritenuto che l’esistenza di efficiency gains non è stata sufficientemente provata. L’abuso di posizione dominante Le Corti e la Commissione Europea comunemente rifiutano l’idea che un’impresa in posizione dominante sia sempre soggetta ad un obbligo di fornitura (12). Generalmente, infatti, le società hanno la libertà di scegliere con chi stabilire le proprie relazioni commerciali. Tuttavia, tale principio subisce un’eccezione Note: (6) Si veda CGCE, 31 maggio 2005, causa C-53/03, Reference for a preliminary ruling from the Epitropi Antagonismou in Synetairismos Farmakopoion Aitolias & Akarnanias (Syfait) and Others v GlaxoSmithKline plc and Others. (7) Si veda United Brands, cit. (8) Tale approccio innovativo ha avuto risonanza anche a livello nazionale. Ad esempio, il Conseil de la Concurrence francese nella decisione n. 05-D-72 del 20 dicembre 2005 decise che i laboratori farmaceutici non abusano della loro posizione dominante quando restringono o rifiutano le forniture agli esportatori di specialità medicinali. Il Conseil con la successiva decisione n. 07-D-22 del 5 luglio 2007 ha poi accettato il sistema di quote proposto da varie società farmaceutiche per razionalizzare la distribuzione nel mercato francese. Tale decisione è stata appellata da parte dei distributori. (9) Si veda gli undici casi riuniti C-468 to 478/06, Sotiris Lèlos kai Sia E.E and others v. GlaxoSmithKline AEVE Farmakeftikon Proïonton. (10) Nel settembre 2006 l’autorità garante per la concorrenza greca decise che GSK aveva abusato della propria posizione dominante ex art. 2 della legge antitrust greca (l’equivalente a livello nazionale della norma comunitaria che proibisce l’abuso di posizione dominante), ma non dell’art. 82 Trattato CE. Tale decisione fu appellata da undici distributori farmaceutici davanti al Dioikitiko Efeteio Athinon (la Corte d’Appello Amministrativa di Atene) e davanti al Polymeles Protodikeio Athinon (il Tribunale di primo grado di Atene), sostenendo che GSK aveva abusato della propria posizione dominante anche ex art. 82 Trattato CE e rivendicando il diritto a ricevere la normale quantità mensile di prodotti incrementata del 20%. Mentre il primo processo è attualmente pendente, il secondo si è concluso con una pronuncia negativa del giudice di primo grado, che è stata appellata davanti al Trimeles Efeteio Athinon (Corte d’Appello tripartita di Atene), il quale ha riferito la questione alla CGCE perché fornisse un’interpretazione alla luce del diritto comunitario. (11) Si veda par. 72 dell’opinione dell’AG Ruiz-Jarabo Colomer. (12) Si veda, ad esempio, la decisione della Commissione Europea 7/500/EEC del 29 luglio 1987 relativa ad un procedimento ex art. 86 (ora 82) del Trattato CE (IV/32.279 - BBI/Boosey & Hawkes: Interim measures), dove affermò che un’impresa dominante non deve sussidiare i concorrenti e potrebbe essere intitolata a rivedere la propria relazione commerciale, specie se caratterizzata da termini particolarmente favorevoli, con il cliente che diventi suo con corrente. Si veda anche negli Stati Uniti, dove le Corti hanno esplicitamente rigettato l’idea che una società sia sempre soggetta ad un obbligo a contrarre con i concorrenti. Si veda U.S. V. Colgate and Co., 250 U.S. 300, 333 (1919) («a business is generally free to deal with whomever it chooses so long as that conduct is in the absence of any purpose to create or maintain a monopoly»); Aspen Skiing Co. v. Aspen Highlands Skiing Corp., 472 U.S. 585, 601-03 (1985); American Key Corp. v. Cole National Corp., 762 F.2d 1569, 1578 (11th Cir. 1985) («the antitrust laws do not compel a company to do business with anyone»). OPINIONI•ANTITRUST quando il rifiuto di fornire è suscettibile di “eliminare completamente la concorrenza” nel mercato a valle, ovvero quando l’effetto eliminatorio causato dalla condotta risulta nella creazione di un monopolio downstream. In tal caso, l’obbligazione di fornitura può essere legittimamente imposta sull’impresa in posizione dominante (13). Generalmente il rifiuto di contrarre con clienti/concorrenti nasconde una situazione di leveraging, ovvero il tentativo da parte dell’impresa di estendere la propria posizione dominante dal mercato del prodotto a monte a quello a valle. Il rifiuto di fornire un prodotto, input essenziale per l’accesso al mercato downstream, di cui la società ha il monopolio nella produzione, automaticamente preclude l’accesso a valle a potenziali rivali. Essa può poi affacciarsi in tale mercato come monopolista, dal momento che non incontra alcun tipo di concorrenza. La casistica relativa all’art. 82 Trattato CE indica che un’impresa in posizione dominante, avendo una «responsabilità speciale, è tenuta in modo particolare a non compromettere col suo comportamento lo svolgimento di una concorrenza effettiva e non falsata nel mercato comune» (14), e deve perciò evitare ogni azione che aumenti il proprio potere di mercato e restringa la concorrenza (15). Conformemente, la Commissione e le Corti hanno generalmente assunto un atteggiamento negativo verso il rifiuto a contrarre sproporzionato e ingiustificato da parte di un’impresa dominante nei confronti di un cliente (16), considerandolo una violazione quasi per se dell’art. 82 Trattato CE (17). In Commercial Solvents, il monopolista a livello mondiale nella produzione e commercializzazione di nitropropano aveva rifiutato di fornire una società italiana produttrice di etambutolo, per la cui produzione la menzionata materia prima costituisce input necessario. Il rifiuto consentiva a Commercial Solvents di entrare nel mercato di etambutolo producendolo e vendendolo direttamente, eliminando così la concorrenza della società italiana e diventando monopolista anche nel mercato a valle. Perciò la condotta venne considerata contraria all’art. 82 Trattato CE (18). In maniera del tutto analoga, in Telemarketing, la CGCE affermò che la fattispecie abusiva viene integrata nel momento in cui un’impresa dominante, senza alcuna necessità oggettiva, tenti di riservare per se stessa un’attività commerciale secondaria svolta anche da un’altra impresa in un altro mercato (19). Note: (13) Tale principio è stato riassunto dall’AG Jacobs nella sua opinione al par. 66, dove egli ha affermato che un’impresa dominante è obbligata a fornire i propri prodotti o servizi solo quando questo elimini la concorrenza tra l’impresa e i suoi concorrenti nel mercato downstream o tra l’impresa e i suoi concorrenti nel mercato upstream. Si veda CGCE, 6 marzo 1974, cause riunite C-6-7/73, Istituto Chemioterapico Italiano S.p.A. and Commercial Solvents Corporation v Commission of the European Communities, che è il caso che ha dato origine al presente orienta- mento giurisprudenziale in materia di rifiuto a fornire nel diritto comunitario della concorrenza. Si veda inoltre United Brands, cit., dove la società aveva rifiutato di fornire uno dei suoi distributori perché aveva collaborato con un concorrente. (14) Si veda CGCE, 9 novembre 1983, causa C-322/81, Nederlandsche Baden - Industrie Michelin v Commission, (Michelin I), al par. 57. L’origine del “responsabilità speciale” risale al principio liberale in base al quale le imprese che sono price makers, ovvero che possiedono un potere di mercato (significativo), non solo hanno l’obbligazione negativa di non porre in atto condotte lesive della concorrenza, ma anche l’obbligazione positiva di comportarsi come se non avessero tale potere di mercato. (15) Il concetto di “concorrenza normale” fu menzionato per la prima volta in Hoffman La Roche, par. 120 e poi riferito come “concorrenza sulla qualità” dalla CGCE, sez. V, 3 luglio 1991, causa C-62/86, AKZO Chemie BV v Commission of the European Communities, parr. 70 e 81, e come “concorrenza nel merito” dal Trib. I grado CE, 7 ottobre 1999, caso T228/97, Irish Sugar v Commission, par. 111. Come fu affermato dalla CGCE, 13 febbraio 1979, causa C-85/76, Hoffmann-La Roche & Co. AG v Commission of the European Communities, par. 91, un’impresa dominante non concorre nel merito quando «through recourse to methods different from those which condition normal competition in products or services on the basis of the transactions of commercial operators, has the effect of hindering the maintenance of the degree of competition still existing in the market or the growth of that competition». L’abuso è quindi una pratica commerciale che non può essere considerata come concorrenza normale basata sulla qualità e sul prezzo e che ha l’effetto di restringere la concorrenza. Ovvero, in base alla formulazione fatta dal Trib. I grado CE, 30 settembre 2003, caso T-203/01, Manufacture française des pneumatiques Michelin v Commission of the European Communities (Michelin II), parr. 107 e 110, si tratta di qualunque condotta che manchi di giustificazione economica. (16) Come Ahlborn e Padilla, From Fairness to Welfare: Implications for the Assessment of Unilateral Conduct under EC Competition Law, cit., 20, notano, la terminazione di una relazione commerciale esistente da parte di un’impresa dominante viene considerata in maniera differente dal rifiuto di fornire un distributore con il quale essa non ha mai avuto rapporti commerciali. Mentre la prima viene considerata abusiva quando ha effetti negativi sulla concorrenza e non è oggettivamente giustificata, quest’ultima soggiace ad un test più stringente, in base al quale l’accesso ad prodotto o servizio sia “indispensabile” per stare sul mercato, come stabilito in Bronner e IMS Health. Da questo punto di vista l’AG RuizJarabo Colomer ha giustamente ridotto il numero di precedenti giurisprudenziali cui fare riferimento per la soluzione del caso, rispetto all’AG Jacobs. Al par. 45, infatti, egli ha esplicitamente affermato che Telemarketing Bronner, Magill e IMS sono diversi dal punto di vista fattuale e concettuale dal caso in oggetto. I casi sulle “essential facilities”, infatti, riguardano situazioni in cui l’incumbent ha rifiutato l’accesso ad una facility coperta di un diritto di proprietà intellettuale ad un soggetto con il quale non aveva rapporti commerciali. Secondariamente, il rifiuto a fornire nel caso di specie manifesta piuttosto la volontà di imporre un certo comportamento su il distributore. La lesione alla concorrenza deriva pertanto dalla possibilità per l’impresa dominante di vessare i suoi clienti, non dal fatto che essa controlli una “essential facility”. Contra si veda Subiotto-O’Donoghue, Defining the Scope of the Duty of Dominant Firms to Deal with Existing Customers under Article 82 EC, in E.C.L.R., 2003, 24, 683, che affermano che la distinzione fra un obbligo a contrarre con clienti nuovi o esistenti sia arbitraria, in quanto entrambi sono soggette al requisito che il prodotto o servizio sia “essenziale”. (17) Ahlborn-Padilla, From Fairness to Welfare, cit., 20 osservano che la Commissione giustifica questo approccio affermando che l’esistenza di una relazione commerciale presuppone che essa sia efficiente. Tuttavia, gli Autori oppongono che in ogni settore commerciale le relazioni commerciali sono terminate e ricreate, in risposta di condizioni di mercato mutevoli. La terminazione di una relazione commerciale esistente non giustifica la presunzione (rifiutabile) di un comportamento anticoncorrenziale. (18) V. commercial solvents, cit. (19) V. CGCE, sez. V, 3 ottobre 1985, causa C - 311/84, Centre Belge d’etudes de marché - Telemarketing (CDEM) v. SA compagne Luxemburgeoise de Telediffusion (CIT) et information publicité Benelux (IPE), parr. 25-27. IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 337 OPINIONI•ANTITRUST In BPB, l’impresa dominante fu accusata di aver violato l’art. 82 Trattato CE per aver concesso sconti ad alcuni grossisti di pannelli in un dato Stato membro in risposta alla minaccia di un gruppo di grossisti di vendere pannelli importati da un altro Stato membro ad un prezzo inferiore. Tuttavia, il Tribunale di Prima Istanza decise che tali sconti non costituivano concorrenza nel merito ma erano diretti a rafforzare la propria posizione dominante e abusarne, perché la condotta aveva il potenziale di influenzare la struttura di mercato laddove questa, a causa della presenza dell’impresa, era già ristretta (20). Rispetto ai casi citati, il caso in commento presenta delle caratteristiche analoghe, ma allo stesso tempo peculiari, dal momento che l’effetto eliminatorio della concorrenza manifesta qui due dimensioni: esso, infatti, afferisce sia al mercato di esportazione (la Grecia) sia ai mercati di importazione. Riguardo al mercato di esportazione, la condotta ha l’effetto potenziale di creare uno svantaggio competitivo per i grossisti che non ricevono i prodotti rispetto a coloro i quali continuano a riceverli e rimangono pertanto nella posizione privilegiata di soddisfare gli ordinativi delle farmacie. Tale trattamento differenziale ha pertanto l’effetto di rendere la catena distributiva parzialmente rigida e chiusa alla concorrenza tra grossisti nel mercato domestico. Inoltre, le restrizioni alla fornitura generano distorsioni anche fuori del mercato di esportazione verso i mercati di importazione: in assenza di stock sufficienti, i distributori che svolgono attività di export perdono, in tutto o in parte, la possibilità di accedere ai mercati di importazione. Infatti, essendo costretti a praticare prezzi maggiori rispetto a quelli che avrebbero potuto praticare in assenza delle restrizioni (21), essi perdono la propria competitività nei confronti degli altri distributori (autorizzati). Ciò, oltre ad influenzare i flussi commerciali tra Stati membri, ha un effetto negativo sulla disponibilità dei prodotti nei mercati di importazione e restringe la concorrenza intrabrand. Quando l’accesso al mercato della distribuzione viene precluso totalmente, la società manifatturiera è nella posizione di riservare (indirettamente) per se stessa la distribuzione nel mercato di importazione. Da ciò segue che, se l’impresa possiede una posizione dominante in relazione ad un determinato prodotto nel mercato di esportazione, ha la possibilità di estenderla anche ai mercati di importazione, nel caso in cui non vi sia un valido sostituto (22). In assenza di una concorrenza efficace sui prezzi fornita dal commercio parallelo, il potere di mercato dell’impresa dominante non è soggetto ad alcun freno e quest’ultima ha la possibilità di praticare prezzi più alti (23). Nell’impossibilità di acquistare una variante più economica del prodotto e in assenza di un pungolo che induca l’impresa dominante a moderare i prezzi, i consuma- 338 IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 tori nei mercati di importazione esperiranno prezzi più alti e una conseguente riduzione del loro benessere (24). L’analisi degli effetti del rifiuto a fornire di GSK qui svolta trova sostengo nell’affermazione dell’AG Colomer, il quale ha ritenuto che la condotta di GSK sia contraria agli obiettivi del Trattato, dal momento che influenza il flusso di commercio tra Stati membri, isola i mercati nazionali, e restringe la concorrenza all’interno del mercato interno, potenzialmente riducendo il benessere dei consumatori (25). Ciononostante, l’AG Colomer ha ritenuto che l’analisi giuridica non potesse concludersi con una qualificazione tout-court della fattispecie come di un abuso per se (26). Egli ha osservato, infatti, che un’attenta lettura dell’art. 82 Trattato CE non supporta una simile interpretazione della norma. In primo luogo, il tenore letterale della disposizione, come confermato dalla giurisprudenza, indica chiaramente che la condotta di un’impresa dominante equivale ad un abuso quando due condizioni sono cumulativamente soddisfatte: l’esistenza di un effetto eliminatorio nel mercato a valle, e l’assenza di una Note: (20) V. Trib. i grado CE, 10 luglio 1990, causa T - 64/89, BPB and British Gypsum v. Commission, par. 69. (21) Il concetto di “eliminazione totale delle aconcorrenza” non implica necessariamente una completa chiusura dell’accesso al mercato a valle ai concorrenti. È infatti, sufficiente che si impedisca loro di sfruttare le loro economie di scala, cosi diminuendo la loro efficienza. Si veda Elhauge, Defining Better Monopolisation Standards, in 56 Stanford Law Review, 2003, 321; Salop-Scheffman, Rising Rivals’Costs, 73 American Economic Review, 1983, 267, anche se relativo al contesto americano. Tuttavia, si noti che se l’attività principale del distributore è l’export, il rifiuto a fornire causa la competa chiusura dell’accesso ai mercati esteri. (22) L’autorità greca garante della concorrenza ritenne che GSK fosse in posizione dominante per uno dei tre prodotti medicinali oggetto del rifiuto, l’antiepilettico Lamictal, che all’epoca non aveva alcun sostituto efficace nel mercato rilevante, a causa degli effetti collaterali degli altri farmaci equivalenti. Si veda il par. 17 dell’opinione del A.G. Colomer. (23) Si veda Ganslandt-Maskus, Parallel Imports of Pharmaceutical Products in the European Union, in World Bank Policy Research Working paper No. 2630, 2001, dove si fornisce evidenza empirica dell’effetto positivo sui prezzi legato al commercio parallelo in Svezia tra il 1995 e il 1998: all’incremento della fetta di mercato dei prodotti importati in parallelo era corrisposta una diminuzione del prezzo medio del prodotto sul mercato di importazione. Circa tre quarti di questo effetto è stato attribuito ai minori prezzi dei prodotti importati in parallelo e un quarto a minori prezzi praticati dalla società manifatturiera. (24) Si veda CGCE, 21 febbraio 1973, causa C-6/72, Europemballage Corporation and Continental Can Company Inc. v Commission of the European Communities, che affermò che il concetto di abuso comprende sia un danno diretto sia un danno indiretto i consumatori. Il danno indiretto deriva dal fatto che «only undertakings remain in the market whose behaviour depends on the dominant one». (25) Si veda il par. 54 dell’opinione dell’AG Ruiz-Jarabo Colomer. Si veda anche Koenig - Engelmann, Parallel Trade Restrictions in the Pharmaceuticals Sector on the test Stand of Article 82 EC - Commentary on the Opinion of Advocate General Jacobs in the Case Syfait/GlaxoSmithKline», in E.C.L.R., 2005, n. 6, 341. (26) Si vedano i parr. 54-62 dell’opinione dell’AG. OPINIONI•ANTITRUST valida giustificazione obiettiva e proporzionata al rifiuto (27). Diversamente dall’art. 81, infatti, l’art. 82 Trattato CE non prevede un meccanismo di esenzione delle pratiche anticompetitive: o la condotta è abusiva, o non lo è (28). E se ci fosse una presunzione iuris et de iure di abuso per le condotte di società in posizione dominante, senza un’analisi delle possibili giustificazioni, esse sarebbero private di fatto del loro diritto difesa. Al contrario, gli esempi di condotte abusive elencati alle lett. a-d del n. 2 dell’art. 82 Trattato CE sono semplicemente delle presunzioni iuris tantum, con l’effetto di assegnare all’impresa l’onere della prova dell’esistenza di una “difesa” alla condotta (29). In sostegno al ragionamento dell’AG Colomer si osserva qui che un approccio per se sarebbe contrario al principio giurisprudenziale in base al quale l’analisi del contesto economico e giuridico nel quale la condotta ha avuto luogo riveste un ruolo decisivo nell’esame di anticoncorrenzialità della stessa (30). Ma ciò che è più importante, tale criterio sarebbe in conflitto con la ratio dell’art. 82 Trattato CE, il cui obiettivo è quello di preservare il processo competitivo, come mezzo per proteggere il benessere dei consumatori (31). La casistica giurisprudenziale indica chiaramente che la valutazione di anticoncorrenzialità di una condotta passa necessariamente per l’analisi degli effetti della stessa nel mercato in cui essa è posta in essere. Perciò, il test su cui si basa l’applicazione della disposizione in commento deve essere fondato sulle conseguenze che la pratica comporta per i consumatori (32). Il consumer welfare test, reclamato in dottrina da vari esponenti sia dell’ambito giuridico sia di quello economico (33), è stato recentemente avallato ed adottato esplicitamente dalla Commissione nel DG Competition Discussion Paper on the application of Art. 82 of the Treaty to exclusionary abuses, dove al par. 55 si dice che «Article 82 prohibits exclusionary conduct which produces actual or likely anticompetitive effects in the market and which can harm consumers in a direct or indirect way» (34). Conformemente, la valutazione degli effetti della condotta sul benessere dei consumatori, oltre a guardare alle conseguenze potenzialmente negative, logicamente include anche gli eventuali benefici che questa comporta per i consumatori. Appare, pertanto, appropriata la risposta al primo quesito fornita da entrambi gli AG Colomer e Jacobs (35), i quali hanno riconosciuto che una società farmaceutiNote: (27) Si veda Télémarketing, cit., par. 26. (28) Si veda CGCE, 11 aprile 1989, causa C-62/86, Ahmed Saeed Flugreisen and Silver Line Reiseburo GmbH v. Zentrale Bekampfung Unlauteren Wettbewerbs eV, par. 32, dove la Corte affermò che «no exemption may be given, in any manner whatsoever, in respect of abuse of a dominant position; such abuse is simply prohibited by the Treaty and it is for the competent national authorities or the Commission, as the case maggiobe, to act on that prohibition on that prohibition within the limits of their powers». Analogamente, l’AG Kirschner nella sua opinione sul caso T-51/89 Tetra Pack Rausing SA v. Commission, in risposta alle argomentazione della Tetrapak secondo la quale l’analisi ex art. 82 Trattato CE consta di due passaggi, ovvero (1) se la condotta sia prima facie abusiva e (2) se sia oggettivamente giustificata, affermo che «it is not possible to read into Article [82] a set of criteria for dispensation». Anche l’AG Jacobs nella sua opinione al par. 72 affermò che: «The two stage analysis suggested by the distinction between an abuse and its objective is to my mind somewhat artificial. Article 82 EC, by contrast with Article 81 EC, does not contain any explicit provision for the exemption of conduct otherwise falling within it. Indeed, the very fact that conduct is characterised as an “abuse” suggests that a negative conclusion has been already reached… It is more accurate to say that certain types of conduct on the part of a dominant undertaking do not fall within the category of abuse at all.». Tuttavia, si veda Loewenthal, The defence of “Objective Justification” in the Application of art. 82 EC, in World Competition, 2005, 28, n. 4, 463, che sostiene che la differenza tra le due disposizioni sia più nella lettera che nella loro applicazione pratica. (29) Si veda il par. 69 dell’opinione dell’AG Ruiz-Jarabo Colomer. Sul punto si veda meglio infra nella sezione successiva. (30) Il principio è stato stabilito in Consten and Grundig, cit., 343. Si veda anche negli Stati Uniti Verizon Communications Inc. v. Law Offices of Curtis V. Trinko LLP, dove il giudice Scalia della Corte Suprema ha affermato che attenzione particolare deve essere prestata alla struttura ed alle circostanze del contesto economico in esame. (31) Si veda in particolare Nazzini, The wood began to move: an essay on consumer welfare, evidence and burden of proof in Article 82 cases, in European Law Review, 2006, vol. 31, 522, il quale afferma che, nonostante una proibizione basata sugli effetti della condotta sul benessere dei consumatori sia coerente col principio di cui agli Artt. 2 e 3(g) Trattato CE, la prova piena di questi ultimi renderebbe difficile l’enforcement dell’art. 82 Trattato CE. (32) Si veda ex multis, BPB, cit., parr. 65 e 66, che ha ritenuto gli sconti promozionali ad un cliente in cambio di un’obbligazione di acquisto esclusiva fossero «a standard practice forming part of commercial cooperation between a supplier and its distributors» che «cannot, as a matter of principle, be prohibited», ma che vice versa dovessero essere valutati sulla base degli effetti sul mercato e delle circostanze specifiche. (33) Si veda Bishop, Price Discrimination under Article 86: Political Economy in the European Court, 44 MLR, 1981, 282; Lorentz-Lubbig-Russel, Price Discrimination: a Tender Story, 26 ECLR, 2005, 355; Sinclair, Abuse of Dominance at a Cross-roads: Potential Effect, Object and Appreciability under Article 82 EC, 25 ECLR, 2004, 491; Temple Lang-O’Donoughue, Defining Legitimate Competition: how to clarify abuses under Article 82 EC, 26 Fordham Int’l L J, 2002-2003, 83-84, 108-111, 158-162; Ahlborn-Padilla, From fairness to welfare, cit.; Eilmansberger, How to distinguish good from bad competition under Article 82 EC: in search of clearer and more coherent standards for anti-competition buses, in CMLR, 2005, n. 42, 129; Glynn, Article 82 and price discrimination in patented pharmaceuticals: the Economics, in ECLR, 2005, n. 3, 135; Ehlermann-Atanasiu, European Competition Law Annual 2003: What is an Abuse of Dominant Position? in GCLC Research Papers on Article 82 EC, 2005; O’Donoghue, Verbalizing a General Test for Exclusionary Conduct under Article 82 EC, in Ehlermann-Marquis, European Competition Law Annual 2007: A Reformed Approach to Article 82 EC, in corso di pubblicazione. (34) Il riferimento agli “effetti” delle condotte anticoncorrenziali pone una distanza con la definizione di abuso adottata in Michelin II, dove si affermo che l’oggetto anticoncorrenziale o gli effetti potenzialmente restrittivi sono sufficienti per provare l’abuso e non è necessario provare un effetto concreto. Si noti che il concetto di “tendency to foreclosure” è stata sostituito con il concetto di “likelihood of foreclusure”. Ciononostante alcuni commentatori hanno espresso scetticismo. Si veda ad esempio Nazzini, The wood began to move, cit., 520. Tuttavia si vedano le osservazioni di Loewenthal, The defence of “Objective Justification”, cit., 468, che afferma che il concetto di likelihood sia in linea con la teoria economia e con la giurisprudenza statunitense. (35) Si veda il par. 69 dell’opinione dell’AG Jacobs e il par. 76 dell’opinione dell’AG Ruiz-Jarabo Colomer. IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 339 OPINIONI•ANTITRUST ca non abusa necessariamente della propria posizione dominante nel rifiutare di soddisfare gli ordinativi dei grossisti, anche quando questo rifiuto ha un effetto lesivo della concorrenza, ovvero quando questo restringe il commercio parallelo. Ma si deve verificare che una condotta che appare prima facie anticoncorrenziale possa essere oggettivamente giustificata dall’esistenza di guadagni in efficienza a beneficio dei consumatori (36). A questo punto rimane da chiarire l’importante questione relativa a come le considerazioni efficientistiche entrino a far parte dell’esame di anticoncorrenzialità della condotta unilaterale. La giustificazione oggettiva di condotte abusive da parte di imprese dominanti Dall’analisi della giurisprudenza comunitaria in materia si desume che il concetto giuridico di “giustificazione oggettiva” a condotte abusive si riferisce principalmente a tre categorie (37): 1) il comportamento commerciale legittimo (legitimate business behaviour), che comprende entrambi i concetti di “concorrenza nel merito” (38) e la “difesa degli interessi commerciali” (39); 2) i fattori oggettivi fuori dal controllo dell’impresa dominante (40); 3) i guadagni in efficienza (41). La considerazione di fattori economici nell’analisi di condotte unilaterali potenzialmente abusive non è del tutto nuova nell’applicazione dell’art. 82 Trattato CE. Tuttavia, nonostante la loro importanza sia stata riconosciuta esplicitamente dalla giurisprudenza (42), di fatto tali fattori non hanno mai agito come giustificazioni a condotte abusive. I giudici comunitari, infatti, sono sempre stati riluttanti a tenerne pienamente conto o ne hanno ristretto il campo applicativo (43). Recentemente, tuttavia, le istanze di applicazione del diritto della concorrenza comunitario in linea con l’insegnamento della teoria economica hanno fatto sì che la nozione di “giustificazione oggettiva” basata sui guadagni di efficienza derivanti da condotte unilaterali anticompetitive potesse avere un potenziale applicativo di più ampio raggio (44). Insieme al caso Microsoft, dove la Commissione ha applicato un “incentive balance test” (45), il caso in oggetto rappresenta un interessante sviluppo in tal senso. Note: (36) Mentre la giurisprudenza precedente era reticente nell’ammettere considerazioni efficientistiche a giustificazione del comportamento di imprese dominanti - si veda Tetra Pack, cit. e General Motors, cit. - più recentemente le Corti hanno rilassato questo approccio. Ad esempio, come l’AG Ruiz-Jarabo Colomer ha ricordato, il Trib. I grado, Sez. II, composizione estesa, 25 giugno 1998, caso T-219/99, British Airways v Commission, ha ritenuto che il sistema di sconti connesso al raggiungimento di target di vendita da parte di agenzie di viaggio non siano per se abusive e fu concesso all’impresa di addurre giustificazioni economiche. (37) Recenti sistematizzazioni operate dalla Commissione Europea non sono, tuttavia, chiare riguardo a ciò che può costituire “giustificazione oggettiva”. Si veda il DG Competition Discussion Paper on the application of art. 82 of the Treaty to exclusionary abuses, dove si afferma che ci sono tre 340 IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 possibili giustificazioni: la necessità oggettiva, la “meeting competition defence” e la “efficiency defence”. Si veda Loewenthal, The defence of ‘Objective Justification’, cit., 464, che riferisce come il Direttore Generale della DG Competition alla 30th Annual Conference on International Antitrust Law and Policy al Fordham Corporate Law Institute abbia individuato tre tipi di “giustificazione oggettiva”: il legitimate business behaviour, l’obiettivo di protezione del pubblico interesse, e gli efficiency gains che compensino gli effetti anticoncorrenziali. Tuttavia, l’analisi della casistica giurisprudenziale dimostra come la protezione del pubblico interesse avanzata in due occasioni, in Hilti (CFI, Second Chamber, 4 aprile 1990, caso T30/89, Hilti Aktiengesellschaft v Commission of the European Communities) e in Tetrapack, cit., non sia stata accettata dal momento che non è compito delle imprese prendere misure necessarie per la protezione della sicurezza e la salute pubblica, ma solo del legislatore nazionale. (38) Hoffmann la Roche, cit., par. 90. (39) United Brands, cit., par. 189. (40) Si veda CGCE, 29 giugno 1978, causa C-77/77, Benzine en Petroleum Handelsmaatschappij BV and others v Commission of the European Communities, dove la Corte ha affermato che lo shock petrolifero fosse da considerare una force majeure che giustificava il rifiuto. (41) Si veda Irish Sugar, cit., par. 189, dove la Corte affermò che, affinché la protezione degli interessi di un’impresa dominante fornisca una giustificazione oggettiva all’abuso, essa deve essere basata «on criteria of economic efficiency that were consistent with the interest of consumers». (42) V. supra, nota 41. (43) Si veda Trib. I grado CE, 28 febbraio 2002, cause riunite T-191/98, T-212/98 e T-214/98, Atlantic Container Line, dove la Corte disse esplicitamente al par. 1112 che «(…) because art. [82] of the Treaty does not provide for any exemption, abusive practices are prohibited regardless of the advantages which may accrue to the perpetrator of such practices or third parties». Si veda la giurisprudenza relativa agli sconti fedeltà (CGCE, 16 dicembre 1975, cause riunite C-40 a 48, 50, 54 a 56, 111, 113 e 114-73, Coöperatieve Vereniging "Suiker Unie" UA and others v Commission of the European Communities; Hoffmann La Roche, cit.; CGCE, 9 novembre 1983, causa C-322/81, NV Nederlandsche Banden Industrie Michelin v Commission of the European Communities; and Michelin II, cit.), dove la Corte ha sempre identificato gli efficiency gains solo con la riduzione dei costi di produzione. Il risultato di questa attitudine restrittiva ha fatto sì che in nessun caso le Corti e la Commissione li abbiano considerati tali da giustificare condotte anticoncorrenziali. Al contrario, si veda la giurisprudenza statunitense, dove la “competition on the merits” viene intesa come un comportamento che aumentano l’efficienza dinamica indipendentemente dal fatto che un concorrente venga escluso dal mercato. Si veda Aspen Skiing, cit., dove la Corte Suprema ha ritenuto che una condotta è predatoria e non costituisce “competition in the merits” se esclude o tenta di escludere i concorrenti su basi diverse dall’efficienza. (44) Si veda l’opinione dell’AG Jacobs nella causa C-7/97 Bronner GmbH and Co. KG v. Mediaprint Zeitungs - und Zeitschriftenverlag GmbH & Co. KG Oscar Br. Tra i propositori della giustificazione oggettiva basata su guadagni di efficienza si vedano Sher, The Last of the Steam-Powered Trains: Modernizing art. 82, in ECLR, 2004, n. 5, 243; Temple Lang, Anticompetitive Abuses under art. 82 Involving Intellectual Property Rights, in Ehlermann e Atanasin, The European Competition Law Annual, 2003, cit., 589 e ss., e Gyselen, Rebates: Competition on the Merits or Exclusionary Practices?, cit. (45) Si veda la decisione della Commissione nella causa COMP/C337.792 Microsoft, 24 marzo 2004, come confermato dal Trib. I grado CE, 11 novembre, 2007, caso T-201/94, Microsoft Corp. v. Commission of the European Communities. La Commissione ritenne che Microsoft avesse abusato della propria posizione dominante rifiutando di fornire ai concorrenti informazioni relative all’interoperabilità tra server Windows pc e quelli non-Microsoft, in tal modo estendendola dal mercato di sistemi operativi al mercato di server e dei media player. Microsoft aveva opposto che il proprio rifiuto fosse oggettivamente giustificato dal bisogno di proteggere i propri diritti di proprietà intellettuale e l’incentivo ad innovare. Le argomentazioni della Microsoft non furono rigettate dalla Commissione ma contestate nel merito: la Commissione, e successivamente la Corte, bilanciò gli effetti negativi che l’obbligazione a contrarre potrebbe comportare sugli incentivi di Microsoft a innovare con l’effetto positivo sull’innovazione nel mercato in generale. OPINIONI•ANTITRUST Il primo motivo di giustificazione al rifiuto di fornire addotto da GSK consisteva nel fatto che tale condotta era determinata dalla peculiarità del contesto economico e giuridico che caratterizza il mercato farmaceutico, parallelamente ai quei casi in cui contingenze legate alle condizioni di mercato avevano costituito una necessità oggettiva che giustificava il comportamento dell’impresa (46). In secondo luogo, GSK argomentava che l’industria farmaceutica si basa su ingenti investimenti in innovazione (47), uno dei principali fattori che determinano la competitività di un’impresa in questo settore. Le dimensioni di tali investimenti impongono alle società di recuperare i costi di ricerca e sviluppo (R&S) attraverso un flusso consistente e costante di profitto, in modo tale da preservare il proprio incentivo ad investire in ricerca nel lungo periodo. Da ciò seguiva che il commercio parallelo, come ogni altra forma di concorrenza sul prezzo, avrebbe potuto ridurre le risorse disponibili per la R&S (48). Inoltre, la prospettiva dell’erosione dei profitti causata dal commercio parallelo avrebbe potuto diminuire l’incentivo ad innovare della società. Pertanto, GSK sosteneva che la propria condotta costituiva legitimate business behaviour finalizzato alla protezione dei propri interessi commerciali. Infatti, attraverso l’eliminazione delle perdite di profitto causate dal commercio parallelo, la società manifatturiera usufruiva della possibilità di sfruttare pienamente il valore del proprio brevetto, stimolando in questo modo la ricerca, e quindi l’efficienza dinamica, e promuovendo il benessere del consumatore (49). La difesa degli interessi commerciali: l’incentivo all’innovazione Questo tipo di approccio al concetto di “giustificazione oggettiva” solleva una questione di fondamentale importanza per l’applicazione del diritto comunitario della concorrenza. Dal punto di vista giuridico, esso potrebbe implicare che qualunque restrizione alla concorrenza che consente di dirottare delle risorse finanziare da “soggetti non innovativi”, come i consumatori, a “soggetti innovativi”, come un’impresa farmaceutica, viene automaticamente esentato dall’applicazione delle regole di concorrenza sulla base della presunzione che esso comporti un aumento in innovazione (50). Applicato al caso di specie, ciò implicherebbe che la presenza di efficienze ex ante derivanti dalla condotta giustificherebbe sempre il rifiuto a fornire da parte di un’impresa in posizione dominante. A tale scopo, infatti, il convenuto dovrebbe semplicemente dimostrare che il rifiuto a contrarre aumenta i propri profitti attesi, e poi dedurre che ciò necessariamente incrementa il proprio incentivo ad innovare. Ciò indicherebbe che un’impresa detentrice di un diritto di proprietà intellettuale non è mai soggetto ad un obbligo di fornire. Tutta- via, al pari del principio per cui un’impresa in posizione dominante è sempre soggetta ad un obbligo a contrarre, anche tale nozione è stata esclusa dalle Corti (51). Note: (46) Il primo motivo di giustificazione si basava sulla specificità del contesto economico e giuridico che caratterizza l’industria farmaceutica, identificata da GSK con il fatto che i prezzi dei farmaci sono soggetti a regolamentazione da parte dei governi in vari Stati membri. Tale interferenza, rispondente ad esigenze di protezione della salute pubblica e di contenimento della spesa sanitaria, avrebbe impedito che le normali condizioni di mercato prevalessero nella formazione dei prezzi, distinguendo il mercato farmaceutico da altri settori. L’intervento regolamentare sui prezzi, unito all’obbligazione di pubblico servizio, che vincola le società farmaceutiche a mantenere scorte adeguate in ogni Stato membro, intrappolerebbe GSK: essendo, infatti, costretta a rifornire il mercato di esportazione, dove il commercio parallelo trae origine, essa non avrebbe potuto difendere i propri profitti nei mercati di importazione dalla concorrenza scatenata dal differenziale di prezzo esistente tra i due Paesi a causa dalla diversità della regolamentazione. Il vincolo posto da una regolamentazione cosi pervasiva, impedendo l’adozione di strategie commerciali con le quali difendere i propri interessi dai concorrenti, avrebbe fornito una giustificazione al comportamento di GSK. Questo motivo di giustificazione non è oggetto del presente commento. Per un’analisi approfondita del ruolo della specificità del settore farmaceutico in seno all’analisi antitrust si veda Desogus, Il caso Glaxo, cit. (47) Si veda Dimasi, Hansen e Grabowski, The price of innovation: new estimates of drug development costs, in Journal of Health Economics, 2003, n. 22, 151, dove si stima che il costo dello sviluppo e della commercializzazione di farmaci si aggiri agli ottocento milioni di dollari nell’anno 2000. (48) Stime effettuate dall’industria suggeriscono che la perdite in termini di vendite in Europa nel 2002 sia pari a circa 3 miliardi di dollari all’anno. Si veda The Wall Street Journal, 11 aprile 2002. Nel rapporto annuale che riporta i dati principali relativi allo sviluppo del mercato farmaceutico europeo rilasciato da EPFIA (European Federation of Pharmaceutical Industry and Associations), si dice che nel 2005 l’industria abbia perso 1 milione di Euro. Si veda www.epfia.org. Riguardo agli effetti negativi del commercio parallelo sui profitti e sull’incentivo all’innovazione delle imprese farmaceutiche, si veda Danzon, The Economics of Parallel Trade, in Pharmacoeconomics, 1998, XIII, 3, 300; Rey-Venit, Parallel trade and pharmaceuticals: a policy in search for itself, in Eur. L.R., 2004, n. 29, 173; Kanavos, Costa-i-Font, Merkur, Gemmill, The Economic Impact of Pharmaceutical Parallel Trade - A Stakeholder Analysis, LSE, 2004. (49) Tuttavia, la letteratura teorica non è univoca riguardo agli effetti che il commercio parallelo avrebbe sui profitti delle società manifatturiere. La letteratura recente, infatti, ha individuato determinate condizioni, come la presenza del controllo sui prezzi, in cui questo effetto è addirittura positivo. Si veda Ahmadi-Yang, Parallel Imports: Challenges from Unauthorized Distribution Channels, in Marketing Science, vol. 19, n. 3, 279-294; Raff-Schmitt, Why Parallel Trade maggioraise Producers Profits, CESIFO Working paper n. 1503, 2005; Pecorino, Should the US allow prescription drug reimports from Canada?, University of Alabama economics working paper no. 01-01-04, 2002; Grossman-Lai, Parallel Imports and Price Controls, CEPR discussion parper no. 5774, 2006; Matteucci-Reverberi, Price Regulation and Public Service Obligations under International Arbitrage, in Journal of Regulatory Economics, 2005; Sauer, A Model of Parallel Imports of Pharmaceuticals with Endogenous Price Controls, University of Colorado at Boulder, working paper no. 05-09, 2005. (50) Si veda Junod, An End to Parallel Imports of Medicines? Comments on the Judgment of the Court of First Instance in GlaxoWellcome, in World Competition, 2007, XXX, 2, 296-298, che afferma che «(…) all businesses that are based on innovation rely on money (whether from profits or borrowed funds) to finance innovation. Obviously again, these businesses all wish for more money and more profits in order to finance more innovation. Undeniably, the consumer derives a benefit from the greater number of innovative products that thus come to the market. Nonetheless, this has never been enough to excuse anticompetitive conduct, otherwise one could justify price-fixing cartels, because they too lead to higher profits that can be (and sometimes are) reinvested in R&D». (51) V. Elhauge, Defining Better Monopolisation Standards, cit., 306. IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 341 OPINIONI•ANTITRUST Da ciò segue che, nonostante gli efficiency gains giochino un ruolo rilevante nell’analisi di condotte potenzialmente abusive, essi non possono essere considerati a priori una virtù immunizzatrice. Appare, quindi, essenziale che la formulazione della “giustificazione oggettiva” di condotte unilaterali anticompetitive sulla base di considerazioni efficientistiche sia fondata su premesse economiche robuste e verificate empiricamente. Al proposito, si può osservare che maggiori incentivi finanziari sotto forma di più forti diritti di esclusiva non necessariamente comportano un aumento in innovazione. Come da più parti è stato osservato, il ritorno economico derivante da un’innovazione attribuibile alla protezione brevettuale, il c.d. “patent premium”, e la curva di produzione innovativa «non sono infinitamente parallele, dal momento che da un certo punto in poi la curva dell’innovazione diverge» (52). In altre parole, l’appropriazione completa di tutti i possibili proventi derivanti da un’invenzione non necessariamente stimolano maggiormente la ricerca (53). L’effetto del commercio parallelo sulla R&S dipende anche dalla forma della curva di produzione innovativa ad un determinato livello dei costi di investimento in ricerca. Assumendo rendimenti marginali decrescenti derivanti dall’investimento in innovazione, ci sono livelli di costo per i quali la produttività marginale è alta e l’effetto di un minore investimento in R&S è sostanziale. Allo stesso modo, ci saranno anche livelli di costo dove la produttività marginale è inferiore e l’effetto sull’innovazione è moderato o addirittura trascurabile (54). Infine, sarebbe eccessivo conferire un’immunità a priori ai diritti di proprietà intellettuale sulla base del fatto che la durata e l’ampiezza dei tali diritti già riflettano il tradeoff tra l’eliminazione della concorrenza e la promozione dell’innovazione (55). In verità, nonostante la durata dei diritti di esclusiva siano identici a prescindere dall’innovazione che coprono, vi sono importanti differenze nel valore dell’investimento sottostante (56). In altre parole, l’impatto che l’obbligazione a fornire imposto sul soggetto innovatore ha sull’efficienza dinamica non è lo stesso in tutti i casi, e in talune situazioni la limitazione del diritto di esclusiva del potrebbe avere solo un effetto marginale sulle decisioni di investimento (57). È, quindi, corretto affermare che un’obbligazione a contrarre potrebbe ridurre gli incentivi all’innovazione, ma la dimensione di tale rischio varia da caso a caso. La prova degli efficiency gains Queste considerazioni gettano luce su uno degli aspetti del dibattito sulla modernizzazione dell’art. 82 Trattato CE, relativo alla questione se gli efficiency gains facciano parte del balancing exercise tra gli effetti di breve e di lungo periodo derivanti dalla condotta dell’impresa dominante, o se la mera constatazione della loro esistenza, senza alcuna quantificazione, sia sufficiente per la non applicazione dell’art. 82 Trattato CE. 342 IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 Secondo il primo criterio, l’impresa che rivendica l’esistenza di efficiency gains ha anche l’onere di provarli in concreto (58), in maniera analoga al “bilan economique” ex art. 81 comma 3 Trattato CE (59). Nonostante la lettera dell’art. 82 Trattato CE non supporti (60), l’applicazione parallela delle due disposizioNote: (52) Si veda Humpe-Ritter, Refusal to Deal, in GCLC Research Papers on Article 82 EC, 2005, 151. (53) Si veda Lemley, Property, Intellectual Property and Free Riding, 83 Texas Law Review, 2005, 1057, che sostiene che «Sufficient incentive (…) is something less than perfect control»; Lessig, Intellectual Property and Code, 11 Saint John’s Journal of Legal Commentary, 1996, 635; Brunell, Appropriability in Antitrust: How much is enough?, 69 Antitrust aw Journal, 2001, 1; e inoltre, Landes e Posner, An Economic Analysis of Copyright Law, 18 Journal of Legal Studies, 1989, 325. (54) V. Pedersen et al., The Economic Impact of Parallel Import on Pharmaceuticals, 2006, 16. (55) In CSU, LLC v. Xerox si veda l’amicus brief davanti alla Corte Suprema, il quale espresse «serious concerns about such a holding» e affermò che gli Stati Uniti «would not be prepared to endorse it». (56) La remunerazione derivante dal diritto di esclusiva può anche eccedere ciò che è necessario per stimolare l’attività inventiva necessaria. Bisogna, infatti, considerare che non tutti i nuovi farmaci introdotti nel mercato sono delle innovazioni drastiche, e che, al contrario, vi sono molto cosiddetti “me too drugs”, che hanno un valore sociale molto più basso e comportano investimenti in R&S inferiori. (57) L’importanza della diminuzione dell’impatto viene supportato da Ayres - Klemperer, Limiting Patentee’s Market Power Without Reducing Innovation Incentives: The Perverse Benefits of Uncertainty and Non-Injunctive Remedies, in 97 Mich Law Rev, 1999, 987-990, i quali affermano che «unconstrained monopoly pricing is not a cost-justified means of rewarding patentees because the last bit of monopoly pricing produces large amounts of deadweight loss for a relatively small amount of patentee profit. […] Restricting the patentee’s monopoly of a small amount is likely to increase social welfare because the benefit of reducing the deadweight loss of supra-competitive pricing is likely to outweigh the cost of a slightly lower incentive to innovate». (58) Si veda l’opinione dell’AG Ruiz-Jarabo Colomer ai parr. 70 e 118. (59) La strutturazione in due passaggi dell’analisi antitrust ex art. 82 Trattato CE risale all’insegnamento del Prof. Ulmer, il quale individuava due caratteristiche necessarie per considerare la condotta unilaterale un abuso: l’indebolimento della competitività dei concorrenti nel mercato, e l’assenza di una performance di una concorrenza sul merito. Si veda Loewenthal, The defence of “Objective Justification” cit., 458, che cita il lavoro del Prof. Ulmer. Questo è anche l’approccio del DG Competition Discussion Paper on the application of art. 82 of the Treaty to exclusionary abuses, dove al par. 84 si dice che affinché gli efficiency gains vengano ammessi come giustificazione alla condotta abusiva di imprese dominanti si deve dimostrare che le seguenti condizioni sono soddisfatte: i) che le efficienze siano realizzate o possano essere realizzate in seguito alla condotta in esame; ii) che la condotta sia indispensabile per realizzare tali efficienze; iii) che i consumatori ne beneficino; iv) che la concorrenza in una parte sostanziale del mercato interessato non venga eliminata. V. i criticismi al riguardo: Evans-Padilla, Designing Antitrust Rules for Assessing Unilateral Practices: A Neo-Chicago Approach,” in University of Chicago Law Review, 2005; Ahlborn, Denicolò-Geradin-Padilla, DG Comp’s Discussion Paper on Article 82: Implications of the Proposed Framework and Antitrust Rules for Dynamically Competitive Industries, 2006; Ahlborn-Padilla, From fairness to welfare, cit. (60) Si veda Loewenthal, The defence of ‘Objective Justification’, cit., 462; Nazzini, The wood began to move, cit., 518, il quale afferma che ciò è incoerente con la casistica giurisprudenziale e la lettera dell’art. 82 Trattato CE, dato che la disposizione non fornisce un approccio simile a quello dell’art. 81, c. 3, Trattato CE; si veda inoltre Albors-Llorens, The (segue) OPINIONI•ANTITRUST ni questa opzione manterrebbe la coerenza sistematica tra di esse (61), come anche con il processo di valutazione delle fusioni (62). In base al secondo metodo, invece, l’onere della prova rimane sull’autorità, che deve trovare possibili giustificazioni, incluse possibili efficienze, che impediscono alla condotta di essere considerata abusiva (63). L’impresa avrebbe semplicemente l’onere di addurre evidenza contraria alla conclusione dell’autorità ma non avrebbe l’onere di fornire la prova piena dell’esistenza degli efficiency gains (64). In dottrina è stato affermato che tale interpretazione della norma avrebbe il pregio di mantenere la coerenza con l’applicazione della Sezione 2 dello Sherman Act negli Stati Uniti, dove, se il convenuto afferma, senza essere contraddetto, che la propria condotta produce benefici nel lungo termine, allora l’attore deve dimostrare che questi non compensano gli effetti negativi causati nel breve termine (65). Tuttavia, questa interpretazione non tiene in considerazione la già descritta ratio dell’art. 82 Trattato CE, ovvero la protezione del benessere del consumatore. In linea con questo criterio, il test che sottintende l’applicazione della disposizione in commento deve guardare alle conseguenze della condotta per i consumatori (66). Da ciò segue che, tanto quanto la dimostrazione di una riduzione nel benessere dei consumatori materializzatasi in conseguenza della condotta eliminatoria, anche la prova degli efficiency gains derivanti dalla stessa sia necessaria. Inoltre, la mera presenza di efficienze in senso dinamico da sola ha un significato molto limitato dal punto di vista del benessere del consumatore. Nel considerare le implicazioni di un rifiuto a contrarre volto a restringere il commercio parallelo, appare importante considerare due dimensioni: il danno nel breve termine ai consumatori (o perdite in senso statico) e i benefici nel lungo periodo per gli stessi (o guadagni in senso dinamico) (67). Un tentativo da parte di un’impresa dominante di restringere il commercio parallelo ha sempre un duplice effetto: perdite in efficienza allocativa e guadagni in efficienza dinamica. Secondo la menzionata “rule of reason” l’efficienza allocativa ex post, che può essere massimizzata dall’imposizione di un’obbligazione a contrarre, dovrebbe essere confrontata con l’efficienza dinamica ex ante, che potrebbe essere preservata non imponendola. Da questo punto di vista, il rifiuto di fornire rientra nel raggio d’azione dell’art. 82 Trattato CE laddove l’inefficienza statica prevale sull’efficienza dinamica. A ciò segue che, l’analisi sotto il profilo antitrust di condotte unilaterali potenzialmente anticoncorrenziali presuppone che l’esistenza e la dimensione degli efficiency gains siano provate. In base allo stesso principio di efficienza, tale onere ricade sulla parte che meglio ed al minor costo si trova nella posizione di reperire l’informazione rilevante per addurre la prova. Chiaramente, mentre l’autorità antitrust si trova in una situa- Note: (segue nota 60) Role of Objective Justification and Efficiencies in the Application fo Article 82 EC, in CMLR, 2007, n. 44, 1747. Anche il Regolamento CE 1/2003 non supporta questa interpretazione, dal momento che l’art. 2 stabilisce che la divisione dell’onere della prova tra l’autorità e il convenuto solo in relazione all’art. 81 Trattato CE. In più, il considerando n. 5 dello stesso Regolamento solo in relazione all’art. 81 comma 3 Trattato CE stabilisce che la società che invoca una giustificazione al proprio comportamento deve dimostrare che le condizioni necessarie siano soddisfatte. (61) Si veda Continental Can, cit., par. 25. Inoltre, si veda Loewenthal, The defence of “Objective Justification”, cit., 463, il quale argenta che la differenza tra gli Artt. 81 e 82 Trattato CE risieda più nella lettera che non nella applicazione pratica. A dire il vero, il risultato del giudizio di anticoncorrenzialità non si differenzia eccessivamente se la “giustificazione oggettiva” sia una difesa vera e propria a condotte abusive o un fattore di cui si tiene in considerazione nella valutazione degli effetti. (62) Se la condotta/fusione comporta sia una restrizione alla concorrenza e efficiency gains, allora la società deve provare che questi benefici compensano l’effetto negativo. Si veda al riguardo Williamson, Economies as an Antitrust Defence: The welfare tradeoff, 58 American Economic Review, 1968, 18. (63) Si noti che è un principio giuridico consolidato il fatto che negativa non sunt probanda ed è pertanto ovvio che l’autorità non possa avere l’onere della prova l’assenza di efficienze. Dello stesso tenore l’AG RuizJarabo Colomer al par. 68. (64) Ciò che viene chiamato “evidential burden of proof” nel diritto comunitario consiste nel giudizio prima facie basato su indizi che, se lasciati non contraddetti e non spiegati, potrebbero essere accettati come prova. Per teorie che supportano questa interpretazione si veda Nazzini, The wood began to move, cit., 51. (65) Si veda U.S. v. Microsoft, 253 F.3d 34 (D.C. Cir. 2001), at parr. 95-97, dove la Corte Suprema ha stabilito che «First, to be condemned as exclusionary, a monopolist’s act must have an “anticompetitive effect”. That is, it must harm the competitive process and thereby harm consumers. In contrast, harm to one or more competitors will not suffice. Second, the plaintiff, on whom the burden of proof of course rests, must demonstrate that the monopolist’s conduct indeed has the requisite anticompetitive effect. Third, if a plaintiff successfully establishes a prima facie case … by demonstrating anticompetitive effect, then the monopolist maggioproffer a “pro-competitive justification” for its conduct. If the monopolist asserts a pro-competitive justification-a non-pretextual claim that its conduct is indeed a form of competition on the merits because it involves, for example, greater efficiency or enhanced consumer appeal-then the burden shifts back to the plaintiff to rebut that claim. Fourth, if the monopolist’s pro-competitive justification stands unrebutted, then the plaintiff must demonstrate that the anticompetitive harm of the conduct outweighs the pro-competitive benefit». (66) Si veda ad esempio, BPB, cit., parr. 65-66, dove la Corte ha sostenuto che gli sconti concessi dalla società dominante in cambio di un’obbligazione di acquisto esclusivo sono «a standard practice forming part of commercial cooperation between a supplier and its distributors» che «cannot, as a matter of principle, be prohibited», ma che devono essere valutati alla luce dei loro effetti e delle specifiche circostanze del mercato. Si veda anche Temple Lang e O’Donoghue, in The Concept of an Exclusionary Abuse under Article 82 EC, in GCLC Research Papers on Article 82 EC, 2005, che osserva che, dato che l’applicazione degli artt. 81 e 82 Trattato CE dovrebbe essere coerente tanto quanto l’art. 81 comma 3 Trattato CE incorpora un’analisi del benessere del consumatore, anche l’art. 82 Trattato CE dovrebbe includerla, anche in assenza di una clausola di esenzione. (67) Si veda Brunell, Appropriability in Antitrust, cit., 20, il quale ha affermato che «[a]cknowledging that the long-term welfare effects of dynamic efficiency gains are far more significant than short-term allocative efficiency gains does not mean that any possible diminution in incentives, no matter how remote, ought to trump significant and certain short-term gains». IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 343 OPINIONI•ANTITRUST zione di asimmetria informativa al riguardo, l’impresa ricopre una posizione più adatta. Nel caso di specie, il convenuto non è stato in grado di dimostrare né l’esistenza di un nesso di causalità tra il commercio parallelo e l’incentivo ridotto della GSK ad investire in R&S, né il minor valore dei brevetti farmaceutici della GSK causato dal commercio parallelo (68). Riguardo alla riduzione del valore del brevetto causata dal commercio parallelo, occorre sottolineare che gli ultimi dieci anni sono stati caratterizzati da un aumento impressionante del costo della ricerca. Le ragioni di tale incremento possono essere ricercate nell’avvento della biologia molecolare nella ricerca di base, che richiede l’utilizzo di tecnologia costosa, la maggiore complessità delle specialità medicinali, i maggiori costi imposti dalla regolamentazione ecc. Ciò supporta l’affermazione dell’AG Colomer, il quale ha correttamente sostenuto che la ridotta profittabilità dei brevetti lamentata da GSK è in primo luogo causata dalla struttura dei suoi costi più che dal commercio parallelo. Riguardo poi il livello di investimenti in R&C, l’affermazione di GSK appare contraddetta dall’evidenza che dimostra come le spese in R&S siano cresciute costantemente negli ultimi vent’anni, nonostante la maggiore penetrazione del commercio parallelo in alcuni mercato come il Regno Unito e la Danimarca (69). Come affermato dall’AG Colomer, la pretesa di GSK manifesta solo l’intento di recuperare profitti persi, senza dimostrare che tali entrate stimolino l’innovazione e promuovano l’efficienza a beneficio dei consumatori (70). La proporzionalità della condotta e gli strumenti per stimolare l’innovazione farmaceutica Il ragionamento adottato dalla GSK, e sposato dall’AG Jacobs, si basa sull’assunzione ampiamente investigata da un punto di vista teorico (71) che ci sia una correlazione positiva tra il profitto atteso derivante dallo sviluppo di un nuovo farmaco e il livello di investimento in attività innovativa. Ciononostante, tale nozione porta inevitabilmente a doversi confrontare con il difficile compito di identificare una relazione biunivoca e priva di interferenze tra il commercio parallelo e la minore produttività in termini di output di cui recentemente l’industria farmaceutica viene accusata (72). Il livello globale di innovazione nel settore farmaceutico è, tuttavia, il risultato dell’interazione tra regolamentazione, il costo della ricerca, il diritto dei brevetti, il grado di concorrenza cui sono soggette le società, la profittabilità attesa di un progetto di ricerca, il tasso di interesse, le fluttuazioni del tasso di cambio, l’incertezza della domanda, ecc. (73). Pertanto, i brevetti sembrano essere solo uno dei vari fattori cui le società farmaceutiche fanno ricorso per incassare il valore monetario derivante 344 IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 dalla commercializzazione di un’invenzione, e il patent premium è importante tanto quanto altri fattori di successo come il first-mover advantage, il marketing, il segreto commerciale, l’abilità di muoversi velocemente lungo la learning curve, un servizio superiore, o effetti di rete (74). Inoltre, dato il lungo periodo tipicamente necessario (10-15 anni) per sviluppare nuove molecole e portarle sul mercato, e il contesto regolatorio complesso nel quale le imprese farmaceutiche operano, le ragioni che possono aver portato ad un minore ammontare di risorse da destinare alla ricerca potrebbero essere molteplici. Ad esempio, l’“effetto domino” del sistema di prezzi di riferimento è capace di ridurre i profitti non solo nel mercato europeo ma addirittura a livello globale. Inoltre, la scadenza di un o più brevetti e il successivo arrivo dei generici sul mercato forza le società ad abbassare i prezzi in modo da sostenere la concorrenza, così riducendo i profitti. Da ciò segue che il commercio parallelo non può essere la variabile principale che determina le scelte di investimento di una società farmaceutica né il fattore principale nella scoperta di nuove molecole. Per contro, il commercio parallelo può solo avere un impatto incrementale sui profitti e solo eventualmente, sulla base della dimensione di tale impatto, anche sull’ammontare di risorse investite in R&S. Da ciò appare chiaro come l’analisi empirica, fondamentale nel determinare l’esito della valutazione di una condotta unilaterale sotto il profilo antitrust, sia di difficile applicazione. Le caratteristiche del mercato, il ruolo della regolamentazione e la notevole distanza intertemporale che separa la possibile ragione dell’erosione dei profitti e l’effetto sull’innovazione rende, infatti, ardua l’individuazione di un robusto nesso di causalità. Questo, da un lato, pone dei notevoli problemi pratici, Note: (68) Si veda l’AG Ruiz-Jarabo Colomer al par. 109. (69) Si veda Parexel’s Pharmaceutical R&D Statistical Sourcebook 2003/2004, 1, 289, 296 che indica la spesa in R&S nell’Europa a 15, escluso il Lussemburgo, più la Svizzera e la Norvegia. (70) Si veda l’AG Ruiz-Jarabo Colomer ai parr. 116-118. (71) Si veda Wiggins, The Pharmaceutical Research and Development Decision Process, in Drugs and Health: Issues and Policy Objectives, 1981, 5583; Grabowski-Vernon, The Determinants of Industrial R&D expenditures in the pharmaceutical industry, in Drugs and Health, 1981, vol. 10, 201215; Myers, The Inter-relationship between Pharmaceutical R&D and profit, in Journal of Research in Pharmaceutical Economics, 1992, n. 4, 79; Scherer, Pricing, Profits, and technological progress in the pharmaceutical industry, in Journal of Economic Perspectives, 1993, n. 7, vol. 3, 97; Scherer, The link between gross profitability and pharmaceutical R&D Spending, in Health Affairs, 2001, n. 20, 216. (72) Si veda www.nihcm.org/InnovationsPR.html. (73) Si veda NERA Consulting, Key Factors in Attracting Internationally Mobile Investments by the Research-Based Pharmaceutical Industry, il rapporto preparato per il UK Trade and Investment e la Association of the British Pharmaceutical Industry, 2007. (74) Si veda il par. 110 dell’opinione dell’AG Ruiz-Jarabo Colomer. OPINIONI•ANTITRUST dal momento che le Corti non possiedono competenze sufficienti per condurre tale tipo di analisi, e, dall’altro, crea incertezza nel mercato, dato che il risultato dell’investigazione degli effetti della pratica varia da caso a caso a seconda dell’esito dell’esame empirico (75). Pertanto, mentre appare corretto dal punto di vista teorico che considerazioni relative all’efficienza dinamica entrino a far parte dell’analisi antitrust delle condotte unilaterali potenzialmente abusive, tuttavia l’indeterminatezza inerente alla rule of reason costituisce un ostacolo alla sua applicazione. Alla luce di queste considerazioni appare più appropriato che le Corti affrontino la questione in maniera molto più circoscritta: nel caso di specie, l’approccio più corretto appare, infatti, quello di chiedersi se le restrizioni al commercio parallelo siano utili per raggiungere l’obiettivo di stimolare l’innovazione e far recuperare competitività al settore in Europa oppure no. Ciò equivale a chiedersi se il rifiuto della GSK di fornire i propri prodotti ai grossisti greci fosse proporzionato al fine che essa si era posta, ovvero se vi sono altri mezzi per raggiungere questo obiettivo. La casistica giurisprudenziale indica che la giustificazione oggettiva immunizza la condotta dall’applicazione dell’art. 82 Trattato CE solo quando venga rispettato il principio di proporzionalità (76). In particolare, la Commissione Europea ha generalmente sostenuto che un’impresa dominante non ha un diritto di ritorsione automatico e immediato contro un cliente che diventi concorrente. Al contrario la mera revisione delle relazioni commerciali potrebbe essere una risposta più appropriata (77). Al riguardo, si osserva come l’AG Jacobs nell’analizzare proporzionalità del rifiuto non abbia considerato se un comportamento meno drastico da parte di GSK avrebbe potuto ottenere il medesimo risultato, ovvero stimolare l’innovazione. Al contrario, l’AG Colomer ha evidenziato che il diritto comunitario fornisce diversi strumenti idonei a rivitalizzare la competitività dell’imprese operanti nel settore farmaceutico, come il tax credit, e l’esenzione per categoria dei technology transfer agreements e degli accordi orizzontali aventi per oggetto progetti di ricerca (78). Da ciò segue che il comportamento di GSK non fosse proporzionato all’entità della minaccia posta dal commercio parallelo, né tantomeno fosse adatto a raggiungere l’obiettivo che essa si era posta, ovvero la protezione della propria competitività. Conclusione Recenti sviluppi giurisprudenziali in tema di abuso di posizione dominante, ispirati della “modernizzazione” del diritto comunitario della concorrenza, hanno registrato una generale tendenza all’abbandono della concezione della norma come proibizione per se di condotte unilaterali abusive per l’utilizzo di una rule of reason. Questo indirizzo è stato sposato anche dall’AG Ruiz-Ja- rabo Colomer nella sua opinione su un caso di rifiuto da parte di una grande multinazionale farmaceutica in posizione dominante di fornire alcuni distributori greci impegnati in attività di export (o commercio parallelo). L’AG Colomer ha, infatti, ritenuto opportuno verificare se il recupero delle risorse finanziarie in seguito all’eliminazione della concorrenza derivante dal commercio parallelo fosse idoneo a stimolare l’innovazione farmaceutica, a beneficio dei consumatori, e fornisse pertanto una “giustificazione oggettiva” al rifiuto a fornire. Tuttavia, l’AG Colomer non ha ritenuto sufficientemente provata l’esistenza degli efficiency gains, per assenza di un supporto empirico alle argomentazioni del convenuto, necessario per il bilanciamento di tali effetti positivi nel lungo termine con gli effetti negativi nel breve termine. La considerazione di guadagni in efficienza derivanti da condotte unilaterali anticoncorrenziali appare molto importante nell’analisi antitrust. Ciononostante, speNote: (75) Si veda Elhauge, Defining Better Monopolisation Standards, cit., 307; Fletcher, The Reform of art. 82: Recommendations on Key Policy Objectives, nel suo discorso al Competition Law Forum a Bruxelles, dove egli ha affermato che il bilanciamento va oltre le competenze delle autorità antitrust e crea incertezza per le società. Si veda anche Pitofsky, Policy objectives of competition law and enforcement, in Ehlermann-Atanasiu, The European Competition Law Annual 2003, cit., 127, il quale afferma che vi sono dei limiti a ciò che i giudici possono affrontare in termini di complessità dei problemi economici; Melamed, Exclusionary Conduct Under the Antitrust Laws: Balancing, Sacrifice, and Refusals to Deal, in 20 Berkeley Technology Law Journal, 2005, 1249; O’Donoghue, Verbalizing a General Test for Exclusionary Conduct under Article 82 EC, cit., 15, il quale sostiene che «A firm embarking on a course of unilateral conduct ex ante maybe unsure as to where the balance between pro-competitive and anticompetitive aspects lies and when such effects will materialize. Much would depend on the effect of a practice on the dominant firm’s rivals, which the dominant firm cannot generally be expected to know. Moreover, what a firm expects ex ante may of course turn out to be different from what occurs ex post». (76) Si veda United Brands, parr. 189-190, dove la Corte di Giustizia affermo che l’applicazione del principio di proporzionalità all’art. 82 CE presuppone che la condotta della società dominante sia idonea e necessaria e non sia uno strumento eccessivo per la protezione dei suoi interessi commerciali. Si veda Craig-De Búrca, EU Law, 2003, 1030; e Tridimas, Proportionality in Community Law: Searching for the Appropriate Standard of Scrutiny, in Ellis, The Principle of Proportionality in the Laws of Europe, 1999. In questo contesto, la seguente analisi in quattro fasi è stata suggerita. La condotta: 1) dovrebbe essere caratterizzata da un’efficienza o da un altro obiettivo legittimo diverso dall’esclusione del concorrente; 2) dovrebbe essere idonea ad ottenere l’obiettivo; 3) dovrebbe essere necessaria, nel senso che non esiste alternativa che sia altrettanto efficace nell’ottenere l’obiettivo; 4) dovrebbe essere proporzionata, nel senso che l’obiettivo perseguito non deve pesare di più dell’effetto eliminatorio. Si veda Dolmans, Efficiency Defenses Under Article 82 EC Seeking Profits Or Proportionality? The EC 2004 Microsoft case in context of Trinko, Seminario del 24th Annual Antitrust and Trade Regulation, NERA, Santa Fe, New Mexico Luglio 8, 2004. (77) Si veda la decisione della Commissione in BBI/Boosey & Hawkes (Interim measures), par. 19. (78) Si veda il Regolamento CE 29 novembre 2000 n. 2659, relativo all’applicazione dell’art. 81, par. 3, Trattato a categorie di accordi in materia di ricerca e sviluppo. In particolare si veda il decimo considerando del Regolamento. IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 345 OPINIONI•ANTITRUST cialmente nel settore farmaceutico, dove l’analisi degli efficiency gains deve necessariamente essere proiettata nel lontano futuro, la valutazione delle condotte abusive dipende esclusivamente dall’esito, sempre diverso, dell’esame empirico degli stessi. L’incertezza legata alla rule of reason inevitabilmente fa 346 IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 lievitare a dismisura i costi amministrativi della gestione, gettando ombre sulle possibilità applicativa della stessa e suggerendo per il caso di specie che lo stimolo all’innovazione farmaceutica possa e debba essere lasciato ad altri strumenti di policy, già al servizio delle imprese nel quadro comunitario. DOCUMENTAZIONE•ANTITRUST Liberalizzazione del mercato Contro i cartelli per la tutela dei consumatori Nell’anno di riferimento la difficile situazione economica ha imposto all’Antitrust di modulare adeguatamente il proprio intervento, e l’ha stimolata ad attivare il confronto competitivo in tutti i settori in cui la tensione concorrenziale è apparsa assente o affievolita. La funzione di positivo orientamento delle condotte imprenditoriali ha avuto il precipuo scopo di indurre una “prima mossa concorrenziale” in mercati ingessati. È nella responsabilità istituzionale del Garante porre in essere azioni di ricerca della soluzione in concreto più vantaggiosa per l’equilibrio dei mercati, per lo sviluppo delle imprese e per il benessere dei cittadini. AUTORITÀ GARANTE DELLA CONCORRENZA E DEL MERCATO, Presentazione alla relazione annuale, 24 giugno 2008 L’Antitrust e le imprese Le procedure di accettazione degli impegni, correlate a specifiche violazioni, costituiscono, in un contesto di duraturo rallentamento economico, mezzi efficaci per attuare una politica della concorrenza che voglia effettivamente incidere. I vantaggi sono molteplici. L’amministrazione ottiene subito comportamenti virtuosi nel mercato. I procedimenti sono più celeri e meno costosi. Si evitano le incertezze dell’iter giurisdizionale che immancabilmente segue l’irrogazione di una sanzione. L’Istituto si avvicina al mondo delle imprese con spirito costruttivo. La via maestra per perseguire intese e abusi con caratteri di gravità resta l’ordinaria procedura coattiva di accertamento dell’illecito. La sanzione ha sempre effetti sul piano reputazionale delle imprese colpite ma, per ottenere deterrenza, deve incidere sensibilmente sul patrimonio aziendale di chi fa cartello o abusa della propria dominanza. Per questo chiediamo la modifica della legge che non ci consente di sanzionare le imprese quando l’intesa collusiva sia frutto di una delibera dell’associazione, soggetto spesso inconsistente dal punto di vista economico-patrimoniale. Quest’anno, per i casi in cui sono state accertate violazioni delle normative comunitaria e nazionale che vietano le intese restrittive, abbiamo comminato sanzioni per 62 milioni di euro. Solo per questa misura la Global Competition Review ci colloca al primo posto nella lotta ai cartelli tra tutte le Autorità nazionali dell’Unione europea. In aggiunta occorre considerare altri 24 milioni di euro in ammende per abusi di posizione dominante. Teniamo sotto osservazione il comportamento nei mercati dei nostri ex monopolisti: purtroppo essi talvolta cedono a tentazioni di ripristino delle originarie esclusive. Ai vecchi si aggiungono i nuovi monopoli locali, protetti da irragionevoli privilegi. Spesso sono le regolazioni decentrate che rendono agevoli gli abusi di imprese con eccessiva forza di mercato. Dal 2006 a oggi il numero dei provvedimenti decisi, con esclusione di quelli relativi a questioni solo amministrative, delle archiviazioni e delle segnalazioni, fa registrare un incremento del 39%. Gli interventi più importanti hanno riguardato i carburanti, il settore alimentare, i servizi pubblici locali, i farmaci senza obbligo di ricetta, l’attività di federazioni locali dei farmacisti, il settore postale, i materiali di costruzione, gli sport equestri, le comunicazioni telefoniche fisse e mobili, le gare per forniture alle ASL, le carte di credito prepagate per l’autostrada, la fornitura di energia elettrica, il settore bancario, la gestione aeroportuale, il soccorso stradale, lo smaltimento delle batterie esauste, i servizi di tesoreria di un ente previdenziale, i servizi portuali. Le concentrazioni esaminate sono state 864, ben 147 in più del 2006. La cifra costituisce il massimo storico dalla nascita dell’Istituzione. La lotta ai cartelli segreti I cartelli non sono peccati veniali; sono gravi mi- IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 347 DOCUMENTAZIONE•ANTITRUST sfatti contro la società perché corrompono la libera competizione delle forze economiche sul mercato: negli Stati Uniti sono considerati fatti criminosi puniti con la prigione. La lotta alle intese segrete può essere rafforzata con nuove metodologie. A questo scopo, si deve migliorare la disciplina dei programmi di clemenza: a favore della parte che collabora si potrebbe anche concedere un’attenuazione della responsabilità civile. In Italia la leniency inizia infatti a decollare e questo importante processo va sostenuto. Un’impresa denuncia l’esistenza di un cartello al quale ha aderito e ottiene l’immunità. Stiamo lavorando a 12 casi. La severità con la quale alcune recenti sentenze valutano la prova sulle intese non incoraggia il ricorso a un istituto che espone comunque a rischi l’imprenditore che confessa. Fino a qualche anno fa per la prova di un’intesa bastava l’evidenza di un comportamento collusivo. Oggi una più recente giurisprudenza richiede un chiaro accordo tra i vertici aziendali nazionali, probatio diabolica che rende più accettabile, per il colluso, il rischio del contenzioso con l’Antitrust. Per fortuna, l’orientamento non è consolidato e noi speriamo che la giurisprudenza torni in linea con i precedenti comunitari. Ce n’è bisogno. I cartelli sono particolarmente odiosi quando riguardano beni essenziali come il pane. Abbiamo dovuto aprire anche un’istruttoria per presunta intesa sul prezzo della pasta: a breve trarremo le nostre conclusioni. Ma le intese sono deprecabili in ogni caso perché denunciano l’incapacità di rispettare regole elementari di mercato. Dalla settimana scorsa, per esempio, stiamo indagando le principiali industrie cosmetiche. Ciò che maggiormente colpisce è che il presunto cartello si sia annidato in un mercato con tutti i fondamentali per sviluppare competizione. Non sempre è la regolazione a mortificare la concorrenza. In alcuni casi rilevano solo i comportamenti dolosi degli operatori. bella I risultati dell’azione antitrust Parlare dei successi del proprio Istituto non è mai appropriato. Ma per un’amministrazione pubblica occorre dimostrare, a fronte del costo e al di là delle statistiche, l’esistenza di tangibili effetti conseguiti. Tra qualche giorno i consumatori leggeranno sugli sportelli bancomat l’avvertenza CO.GE.BAN. di possibili costi dell’operazione prima di effettuarla. Questa forma di maggiore trasparenza è stata applicata su esplicita richiesta dell’Antitrust, che aveva già ottenuto da un importante gruppo bancario la gratuità del prelievo nei Comuni in cui il gruppo non è presente e, negli altri casi, una rilevante riduzione della commissione. Effetto della moral suasion è stata l’abolizione da par- 348 IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 te di Poste Italiane S.p.A. del costo di incasso del vaglia, originariamente praticato in 2,50 euro. Si deve al nostro intervento la soluzione di controversie nei settori dell’industria casearia sarda, della distribuzione cinematografica a Roma, della televisione satellitare per la comunicazione dei programmi agli abbonati. Sono stati accettati impegni di alcuni editori volti a creare concorrenza nella vendita dei libri scolastici. Il settore si connota per la diversità del soggetto che ordina la spesa e dei soggetti che devono sostenerla (le famiglie degli studenti). Questa peculiarità giustifica il recente provvedimento normativo che pone un tetto ai prezzi. Terremo il mercato sotto monitoraggio direttamente presso le librerie, per assicurarci che quel tetto non induca le imprese a comportamenti uniformi. Accettando gli impegni delle compagnie petrolifere, abbiamo posto le basi per l’apertura dei mercati della distribuzione dei carburanti. Sono stati vietati gli scambi informativi sui prezzi. Si è incentivata la diffusione della modalità di rifornimento self service. Sono stati favoriti l’ingresso e lo sviluppo degli operatori della grande distribuzione organizzata. È stata messa a disposizione di operatori non verticalmente integrati una quota delle strutture logistiche, a condizioni eque, non discriminatorie e determinate secondo criteri conoscibili in anticipo. Infine, il leader di mercato si è impegnato a contenere i prezzi entro un differenziale massimo e a praticare sconti per il self service, tali da eguagliare il listino alla media europea. Siamo ben consapevoli che si tratta di misure che non possono contrastare l’aumento del prezzo del barile. Esse consentono però l’avvio di un processo di riforma della distribuzione dei carburanti, che sarà incentivato dalle misure di liberalizzazione dei punti vendita adottate con il disegno governativo oggi in discussione in Parlamento. Vigileremo con rigore, per i prossimi 5 anni, sull’attuazione degli impegni, data la rilevanza strategica del settore per l’intera economia. La tensione di origine internazionale sui prezzi dei prodotti alimentari ripropone con forza l’inefficienza della nostra struttura distributiva. L’anno scorso abbiamo chiuso un’indagine conoscitiva dalla quale è risultato che nelle 267 filiere osservate il ricarico medio sul prezzo finale è pari al 200%, con punte del 300%, in ragione del maggior numero di intermediari. L’indagine può essere utile al Parlamento per una politica che finalmente favorisca maggiore concentrazione dell’offerta. Nella distribuzione dei farmaci abbiamo contrastato, anche con provvedimenti d’urgenza, l’atteggiamento di alcuni grossisti, legati alle farmacie, che ostacolavano i rifornimenti delle parafarmacie, vanificando i processi di liberalizzazione pure innescati dal legislatore. Nel settore bancario è proseguita l’attività di valutazione delle concentrazioni, che anche quest’anno han- DOCUMENTAZIONE•ANTITRUST no coinvolto operatori nazionali di primaria importanza. Conscia dell’opportunità di far raggiungere ai nostri istituti di credito una massa critica tale da competere a livello internazionale, l’Autorità ha autorizzato importanti aggregazioni; ha imposto rimedi con riferimento ai mercati bancari e assicurativi per evitare il rischio di costituzione o rafforzamento di posizioni dominanti; ma ha salvaguardato il risultato migliorativo dell’efficienza derivante dalle più vaste dimensioni d’impresa. Credo che nessuno oggi possa ragionevolmente sostenere che la concorrenza si sviluppa solo in mercati polverizzati. Il sistema bancario è all’inizio di un auspicato processo di trasformazione della cultura imprenditoriale. Valutiamo con favore la risposta positiva dell’ABI alle nostre richieste di evidenziare gli indici sintetici di costo dei servizi, tali da consentire il paragone tra le diverse offerte. È essenziale, comunque, che ogni istituto operi sul mercato in piena autonomia e valorizzi il rapporto con il cliente come fondamentale strumento di crescita. Troppe banche ancora oggi sono orientate, specie nei confronti della clientela retail, a seguire comportamenti uniformi e consolidati nella prassi. Le novità, pur chiaramente indicate dalla legge, vengono di rado colte come un’opportunità di differenziazione. In questa logica va affrontato il tema della commissione di massimo scoperto: la prassi iniqua e penalizzante per i risparmiatori e per le imprese deve essere abolita. Sui tempi e sulle modalità di cessazione si dovrà innescare concorrenza tra gli istituti, in piena libertà di mercato. Il peso dell’associazione di categoria è ancora forte e sarebbe aumentato, con la federazione ABI-ANIA, se non fossimo intervenuti con opportuni rimedi. C’è un dato recente e più preoccupante: le prime evidenze raccolte nell’indagine conoscitiva sulla governance delle imprese bancarie e assicurative danno conto di un’amplissima diffusione dei legami tra concorrenti, pur in assenza di situazioni di controllo. Con riferimento alle società quotate, il 45% di esse annovera tra i propri soci imprese concorrenti; l’80% conta all’interno dei propri organi di amministrazione persone presenti contemporaneamente nei board di competitori. C’è un caso di impresa con ben 13 persone e un altro con 10 che siedono anche in organi di governance di altre società del settore. In un contesto realmente concorrenziale le imprese dovrebbero seguire rigidi criteri per impedire il determinarsi di conflitti di ruolo per i loro amministratori. La dimensione patologica del fenomeno che si va delineando richiederà ulteriori approfondimenti da parte nostra; in ogni caso, costituisce motivo di fondata preoccupazione l’assenza di apprezzabili reazioni endogene che correggano una così macroscopica anomalia del sistema di governance. Dell’incongruenza è prova che il miglior modo per una banca o un’assicurazione di aumentare la propria clientela è l’acquisto di un’impresa concorrente. La crescita interna è pressoché irrilevante: secondo i dati della Commissione europea, meno dell’8% dei clienti residenti cambia banca ogni anno, contro il 12,5% in Spagna. Solo l’8% degli assicurati italiani cambia compagnia, a fronte del 21% in Germania e del 35% nel Regno Unito. Di grande importanza per valutare la correttezza dell’attività commerciale è conoscere lo stato dei rapporti con la clientela. Sarebbe utile la pubblicazione di tutti i reclami, di tutte le azioni collettive e individuali rivolte dagli utenti nei confronti degli istituti bancari e assicurativi. Ancora più importante è scindere il legame ferreo tra società prodotto e canali distributivi. Potrebbe essere applicato un sistema di brokeraggio analogo a quello anglosassone. I broker sceglierebbero per i clienti le migliori offerte. Le commissioni sarebbero ben evidenziate. Il venditore risulterebbe assolutamente imparziale, non avendo interessi occulti da proteggere. Non è detto che i mandati non esclusivi riducano i margini, che resterebbero comunque nella media dei Paesi OCSE; si allargherebbe il mercato, con particolare riferimento al ramo vita, ancora poco stimolante per i cittadini italiani, scoraggiati dal costo delle commissioni. Non assisteremmo alle anomalie tipiche del nostro sistema, quali ad esempio l’asimmetrico andamento delle tariffe bonus malus nell’assicurazione della RC Auto. La tutela dei consumatori Le nuove competenze in materia di pratiche commerciali scorrette hanno determinato un ampliamento delle forme di tutela per i consumatori. Nel 2007 questi ultimi hanno denunciato disservizi in misura doppia rispetto all’anno precedente: sono giunte circa 1600 richieste scritte di intervento. E ciò significa che l’Antitrust comincia finalmente a essere conosciuta dai contribuenti. In 334 casi sono state accertate violazioni del Codice del Consumo, e nell’8% di essi sono stati adottati provvedimenti d’urgenza. Nei primi mesi del 2008, l’Autorità ha disposto misure cautelari nei confronti di pratiche commerciali particolarmente invasive e dannose, attuate da operatori di telecomunicazioni tramite la fornitura di servizi a elevato valore aggiunto e molto costosi, all’insaputa degli utenti. Talvolta la natura e la gravità della condotta hanno richiesto l’adozione della misura d’urgenza inaudita altera parte. Le telecomunicazioni, l’energia, il credito costituiscono in questo momento i settori di intervento più importanti. Emittenti e giornali diffondono messaggi ingannevoli senza alcuna conseguenza prevista dalla legge. Sarebbe irragionevole invocare un potere di censura in IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 349 DOCUMENTAZIONE•ANTITRUST capo agli editori. Occorre tuttavia individuare gli strumenti giuridici che li inducano ad adottare la necessaria cautela al fine di non pubblicare messaggi manifestamente illeciti e non trasmettere telequiz chiaramente fraudolenti. Un fenomeno preoccupante è costituito dall’incremento delle procedure istruttorie avviate per accertare la riconoscibilità di messaggi pubblicitari occulti. Nel 2007 si sono triplicate. Visto l’intensificarsi delle recidive, sarebbe opportuno inasprire il trattamento sanzionatorio: il legislatore potrebbe parametrare le sanzioni pecuniarie al valore della campagna pubblicitaria se si tratta di ingannevolezza, ai fatturati delle imprese negli altri casi di scorrettezza. Da quest’anno disponiamo di due nuovi strumenti contro le pratiche scorrette: gli impegni, che un professionista può offrire, a eccezione dei casi di gravità, e la moral suasion. Impegni sono stati accettati in relazione a soli 3 casi di pubblicità relative a motoveicoli, strutture ricettive e prodotti editoriali. L’Autorità ha invitato molte imprese a rimuovere profili di illiceità, non particolarmente gravi, prima dell’avvio di un formale procedimento istruttorio. La moral suasion ha avuto successo in 41 casi. Nonostante la nostra tempestiva presa di posizione e nonostante un intervento della Banca d’Italia, molte banche si sono ostinatamente attardate in una prassi che noi riteniamo elusiva della legge che impone la portabilità dei mutui senza oneri per i risparmiatori, sì da costringerci ad aprire ben 23 procedure istruttorie. Il 12 novembre 2007 è stato istituito, presso di noi, un centro d’ascolto dotato di numero verde. La sperimentazione del call center costituisce un esempio di buona pratica amministrativa. Rispondono al telefono 8 giovani laureati in giurisprudenza in grado, senza l’intermediazione di telefonisti e segretarie, di tradurre la telefonata in segnalazione scritta, valutarla e inoltrarla, attraverso un protocollo informatico, alle direzioni competenti. I giovani, adeguatamente formati al dialogo con il pubblico, sono anche in grado di dare una prima indicazione al consumatore, che se vuole può mantenere l’anonimato. Ma la sperimentazione può ritenersi riuscita per un più rilevante e inatteso risultato: dall’esame delle 6.309 denunce, pervenute in 7 mesi, emerge uno spaccato della realtà italiana la cui rilevanza, quantitativa e qualitativa, è priva di precedenti presso altre pubbliche amministrazioni. I cittadini si rivolgono al nostro Istituto per raccontare prepotenze, insidie, piccoli soprusi del mercato e per chiedere giustizia, quella giustizia che i processi per lentezza, costo e alea non riescono a garantire. Talvolta la segnalazione riguarda materie estranee all’area di attribuzione dell’Istituto, ma ogni volta che è possibile denunciamo la disfunzione alle Autorità competenti. Un numero rilevante, circa il 25% delle segnala- 350 IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 zioni, confluisce in procedure sanzionatorie dell’Antitrust. In alcuni casi sentiamo la frustrazione di non poter intervenire a favore del cittadino per mancanza di attribuzione legislativa. Segnalo con rammarico che non abbiamo titolo per tutelare professionisti e imprenditori da molte scorrettezze di altri operatori economici. Eppure l’attività di tutela del contraente più debole è in rapporto di proficua complementarità con l’applicazione delle norme di concorrenza. L’Autorità si pone, per l’ormai acquisita conoscenza dei mercati e per l’organizzazione specifica, come l’ente più adatto a inibire su scala nazionale l’utilizzazione di clausole vessatorie nei contratti di massa. La nostra azione sarebbe utile anche in relazione al nuovo istituto della class action, data la continua e proficua collaborazione con le associazioni dei consumatori, cui va riconosciuto il merito di aver sostenuto da sole e per anni una giusta rivendicazione. Il rinvio dell’entrata in funzione del nuovo strumento rischia di disattendere le speranze di migliaia di persone che chiedono tutela in tempi brevi. Tuttavia il nuovo semestre che ci separa dall’entrata in vigore della class action può essere utile a individuare le soluzioni tecniche che meglio corrispondono agli obiettivi di celerità dei processi e di allargamento dell’intervento al settore pubblico. La difesa del consumatore è un fondamento della nostra democrazia; è, nei fatti, un’espressione di civiltà; è un’applicazione dei principi costituzionali. Le segnalazioni È la Costituzione a stabilire che la concorrenza è di interesse nazionale, riservandone la tutela allo Stato. In tempi di lenta crescita dell’economia, l’insicurezza nel futuro può indurre a un bisogno collettivo di protezione e alla ricerca di valori fondanti diversi dalla libertà di mercato. Anche a ciò si ascrive parte dell’insuccesso, in sede referendaria, dei processi d’integrazione europea. Sarebbe però un errore imperdonabile rinunciare a politiche di liberalizzazione e di apertura dei mercati. Soprattutto per l’Italia, che non gode di materie prime e di autonome risorse energetiche, una politica di chiusura sarebbe disastrosa. Il mercato, sviluppando progresso e ricchezza, è compatibile con altri valori: certamente con la meritocrazia, con la libertà dal bisogno, con la solidarietà. Competizione non significa indifferenza verso i più deboli. Anzi l’approfondimento del pensiero cristiano conduce al merito e all’impegno personale come passaggi necessari per l’applicazione del principio di sussidiarietà, complemento inscindibile della solidarietà. Anche nella visione laica della cultura d’occidente, il mercato è una forma di garanzia rispetto a ogni integralismo ed estremismo. La libertà di mercato non è invece compatibile con l’assistenzialismo nelle politiche pubbliche che, comun- DOCUMENTAZIONE•ANTITRUST que, non sarebbe utile a difenderci dalle minacce della globalizzazione. A questi principi sono ispirate molte delle nostre segnalazioni, anche esse in rilevante crescita: gli interventi sono passati da 47 nel 2006 a 63 lo scorso anno. Si ascrivono a richieste dell’Autorità molte riforme. Non tutti gli interventi hanno avuto gli effetti sperati, sia per la resistenza di molti tra i diretti interessati, sia per il sistema di regolazione regionale e locale che spesso risponde a superate logiche protezionistiche. Nei giorni scorsi abbiamo inviato al Parlamento e al Governo un’ampia segnalazione tendente a ribadire la necessità di liberalizzazioni per aumentare la produttività e far ripartire la crescita. Si tratta di uno studio che riguarda i più importanti settori dell’economia: infrastrutture, carburanti, gas, elettricità, ferrovie, comunicazioni, servizi pubblici lo- cali, farmacie, professioni, distribuzione commerciale, servizi finanziari, assicurazioni. Il Governo ha adottato rilevanti misure di nostro interesse in tema di servizi pubblici locali, libri scolastici, misurazione degli oneri amministrativi, riduzione dei controlli burocratici, agevolazioni procedurali per l’attività d’impresa, certezza dei tempi procedimentali, snellimento del processo civile, liberalizzazione della rete distributiva dei carburanti. Non faremo mancare, a seguito dei necessari approfondimenti sull’impatto proconcorrenziale delle misure adottate, il contributo tecnico dell’Autorità durante l’iter parlamentare. Sin d’ora possiamo esprimere un primo giudizio di segno positivo e l’auspicio di una veloce definitiva approvazione. Da parte nostra, contrasteremo, in ogni comparto e con tenacia, i tentativi di chi spera di rendersi impermeabile alle misure di apertura. Il Presidente Antonio Catricalà IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 351 GIURISPRUDENZA•CONCORRENZA SLEALE Imitazione servile Il marchio di fatto come oggetto di un giudizio di fatto CASSAZIONE CIVILE, sez. I, 22 febbraio 2008, n. 4531 - Pres. Plentenda - Rel. Nappi - C.T. c. R.G. s.r.l. I Marchio di fatto e concorrenza sleale per imitazione di segni distintivi - Accertamento dell’effetto confusorio - Valutazione di merito - Ammissibilità del ricorso - Esclusione (C.c. art. 2598, n. 1) Diversamente dall’azione per contraffazione di marchio d’impresa, che ha natura reale e non suppone accertamenti sulla confondibilità tra i prodotti e sulle concrete modalità di adozione del segno in conflitto, in caso di azione per concorrenza sleale tali accertamenti sono imprescindibili. Pertanto, la decisione relativa, risolvendosi in apprezzamento di fatto, è sottratta al sindacato di legittimità laddove sia esente da vizi di motivazione. II Marchio di fatto e prova dell’uso - Idoneità delle presunzioni - Esclusione - Ammissibilità del ricorso - Esclusione (C.c. 2697) La prova dell’uso anteriore del segno di fatto non può essere assunta per presunzioni prive di fondamento empirico e la valutazione relativa, appartenendo al merito della decisione, è sottratta al sindacato di legittimità. Svolgimento del processo Con la sentenza impugnata la Corte d’appello di Palermo ha confermato la condanna di T.C. al risarcimento dei danni in favore della R.G. s.a.s. (poi trasformata in R.G. Giovanni s.r.l.) per concorrenza sleale, con inibizione dell’uso del contrassegno “Produzione integrata SQ Selezione Qualità”, che ingenerava confusione circa la provenienza dei prodotti ortofrutticoli commercializzati da entrambe le parti. Hanno ritenuto i giudici del merito che l’uso da parte di T.C. del segno distintivo “Produzione integrata SQ Selezione Qualità”, seguito dall’espressione “Per la salute del consumatore”, già da tempo utilizzato dalla R.G. s.r.l. all’interno del suo marchio, fosse idonea a determinare confusione sulla provenienza dei prodotti così contrassegnati, benché i marchi delle due aziende fossero per il resto diversi. Infatti, hanno precisato i giudici d’appello, la verifica circa la confondibilità dei prodotti va condotta mediante un raffronto non analitico bensì unitario e sintetico tra i segni distintivi utilizzati per contrassegnarli; né ha rilievo che le frasi controverse appartengano al linguaggio comune, perché rileva l’ori- ginalità della sequenza delle parole anche di uso comune, ove idonea a caratterizzare il prodotto. Hanno escluso infine i giudici del merito che T.C. avesse fornito la prova del dedotto suo preuso del segno distintivo controverso, non potendo certo desumersi tale prova dalla diffida notificatagli dalla R.G. s.r.l. prima del giudizio. Contro questa decisione ricorre ora per cassazione T.C., che ha proposto due motivi d’impugnazione, illustrati anche da memoria, cui resiste con controricorso la R.G. s.r.l. Motivi della decisione 1. Con il primo motivo il ricorrente deduce violazione di legge e vizio di motivazione della decisione impugnata in ordine alla ritenuta confondibilità dei prodotti commercializzati dalle due imprese concorrenti. Ribadisce che, essendo diversi i marchi delle due aziende, “T. 18”, accompagnato da due foglioline, per la R.G. s.r.l., e “La Favorita”, accompagnato da un grappolo d’uva, per la sua azienda, l’identità delle frasi controverse, utilizzate come segni distintivi aggiuntivi, non IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 353 GIURISPRUDENZA•CONCORRENZA SLEALE era affatto idonea a ingenerare confusione sulla provenienza dei rispettivi prodotti. Infatti le dizioni “produzione biologica”, “selezione di qualità” e simili sono di uso comune nelle riviste di settore; e le diversità per disegni, colori, grafica, combinazione delle lettere, dei cartoncini utilizzati come contrassegno, l’uno quadrato e l’altro ovale, erano tali da escludere ogni possibilità di confusione, anche perché si trattava di cartoncini collocati all’interno delle confezioni e quindi visionabili solo da chi, avendo già acquistato, aveva compiuto la sua scelta sulla base dei marchi. Con il secondo motivo il ricorrente deduce ancora violazione di legge e vizio di motivazione della decisione impugnata in ordine al dedotto preuso da parte sua del contrassegno “Produzione integrata SQ Selezione Qualità”. Dagli atti di causa risulta infatti che tale segno distintivo, benché ideato per la R.G. s.r.l. nel 1990, fu registrato solo il 17 novembre 1993. Sicché può ragionevolmente ritenersi che egli già usava da tempo quel segno distintivo, allorché il 1° febbraio 1994 la R.G. s.r.l. lo diffidò dall’utilizzarlo ancora, essendo inattendibile la deposizione del dipendente della R.G. s.r.l. che afferma il contrario. 2. Il ricorso è inammissibile, perché propone censura attinenti al merito della decisione impugnata, congruamente giustificata con riferimento a una plausibile ricostruzione dei fatti. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, in realtà, «l’azione di contraffazione del marchio d’impresa ha natura reale, e tutela il diritto assoluto all’uso esclusivo del segno come bene autonomo, sulla base del riscontro della confondibilità dei marchi, mentre prescinde dall’accertamento della effettiva confondibilità tra prodotti e delle concrete modalità di uso del segno, accertamento riservato, invece, al giudizio di concorrenza sleale» (Cass., sez. I, 25 settembre 1998, n. 9617, n. 519177). Nel caso in esame, essendo stata proposta azione di concorrenza sleale, occorre accertare se l’uso dei segni distintivi controversi sia idoneo a ingenerare confusione circa la provenienza dei prodotti commercializzati dall’una o dall’altra delle imprese in concorrenza. Ed è indiscusso che tale accertamento debba essere effettuato in concreto, sulla base di una valutazione unitaria e sintetica sia dei segni distintivi utilizzati per contrassegnare i prodotti sia del contesto in cui essi vengono commercializzati. Sicché, trattandosi di un giudizio di fatto, la decisione di merito è censurabile in cassazione solo per i vizi della sua giustificazione (Cass., sez. I, 28 febbraio 2006, n. 4405, n. 589976). Mentre nel caso in esame la decisione impugnata risulta congruamente giustificata in ragione di una plausibile valutazione di idoneità connotativa del controverso segno distintivo “Produzione integrata SQ Selezione Qualità”, seguito dall’espressione “Per la salute del consumatore”, ripresa integralmente da T.C. Al merito della decisione impugnata attiene anche il 354 IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 secondo motivo del ricorso, con il quale il ricorrente pretende di desumere da un riferimento all’epoca della diffida, notificatagli a cura della R.G. s.r.l., la prova di una sua precedenza nell’uso del segno distintivo controverso. La tesi difensiva del ricorrente si basa infatti su una serie di presunzioni prive di qualsiasi fondamento empirico. Egli presume infatti che la R.G. s.r.l. non abbia fatto uso del segno distintivo, ideato per suo conto nel 1990, prima della sua registrazione avvenuta nel novembre del 1993. Presume che egli abbia fatto uso del medesimo segno prima che la R.G. s.r.l. lo registrasse. Presume che la diffida notificatagli nel febbraio del 1994 non si riferisse a utilizzazioni indebite successive alla registrazione. Del tutto ragionevolmente dunque i giudici del merito hanno ritenuto che egli non avesse fornito la prova del dedotto preuso. P.Q.M. La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso delle spese in favore del resistente, liquidandole in complessivi euro 3100,00, di cui euro 3000,00 per onorari, oltre spese generali e accessori come per legge. GIURISPRUDENZA•CONCORRENZA SLEALE IL COMMENTO di Iuri Maria Prado L’Autore, giocando anche sulle parole, sottolinea giustamente che il giudizio di fatto non è diverso a secondo che riguardi un marchio di fatto oppure un marchio registrato. Resta il fatto che la tutela del marchio di fatto postula un accertamento sull’uso di fatto e sulle connotazioni che deve presentare per legittimare la tutela. La prima questione che emerge dalla sentenza in commento è articolata intorno al principio, consolidato, secondo cui l’accertamento della confondibilità tra i prodotti, comportando un’indagine che si traduce in un apprezzamento di fatto, è sottratto al sindacato di legittimità (1) ove la decisione sia provvista di motivazione immune da vizi e adeguata a far individuare il percorso logico seguito dal giudice. Ma a questa semplice riaffermazione la Corte pare che giunga, probabilmente in modo incalcolato, in forza di una premessa potenzialmente fuorviante: e cioè che il sindacato di legittimità della decisione sull’uso del segno sia precluso in assoluto trattandosi di concorrenza sleale e marchio non registrato, piuttosto che per la ragione specifica che l’indagine è di fatto. La decisione in commento, si badi, non lo afferma apertamente, né certamente vorrebbe farlo. Ma è abbastanza chiaro che l’aver anteposto a quella conclusione di non sindacabilità il riferimento al diverso regime proprio del marchio registrato (per il quale si tratterebbe solo “del riscontro della confondibilità dei marchi”) induce a ritenere che qui si tratti dell’ennesimo frutto malato regalatoci dall’improvvida distinzione tra la pretesa natura reale ovvero obbligatoria delle azioni rispettivamente a tutela del marchio registrato, da un lato, e di fatto, dall’altro lato. È evidente infatti che quella distinzione, pur se fosse davvero rispondente e non rappresentasse, piuttosto, un residuo inattuale che tuttavia continua a ritrovarsi archeologicamente impiantato anche nella giurisprudenza più recente (2), è evidente, dicevo, che quella distinzione non avrebbe nessun rilievo nel quadro dell’argomento in rassegna, concernente la misura del sindacato di legittimità sulle questioni relative all’accertamento della sussistenza del diritto e/o della violazione. Che nel caso di marchio di fatto occorrano accertamenti appunto sul fatto costitutivo del diritto e che la delibazione della fattispecie implichi riscontri «sulla confondibilità tra i prodotti e sulle concrete modalità di adozione del segno in conflitto», non dice proprio nulla di distintivo rispetto al caso dell’azione cosiddetta di “natura reale” a tutela del marchio registrato. Anche in tal caso, invero, e cioè pure ove si tratti di marchio registrato, la decisione in punto di confon- dibilità tra i marchi ovvero di affinità tra i prodotti è sottratta a sindacato di legittimità ove sorretta da motivazione congrua, immune da vizi e logicamente coerente. Senza che nulla importi che al giudizio si pervenga con valutazione, come si dice, “in astratto”. Si noti che la sentenza in commento giunge verosimilmente a conclusioni corrette quando ritiene il ricorso inammissibile siccome rivolto a sindacare, in sede di legittimità, quel certo apprezzamento di fatto. Ma nell’impasto della motivazione l’equivoco è evidente: con l’insindacabilità che pare assunta a “naturale” di fattispecie nel caso di segno di fatto - si scusi il bisticcio - per il fatto che l’accertamento riguarda il fatto. Nel secondo punto della decisione, dedicato alla delibazione dell’ulteriore motivo di impugnazione articolato dal ricorrente, la Corte argomenta trattarsi ancora una volta di questione attinente al merito della decisione impugnata. Donde, la dichiarazione di inammissibilità del ricorso. Da quel che si capisce, il ricorrente avrebbe censurato la decisione d’appello avendo la Corte di merito ritenuto inappagante, ai fini della prova dell’uso anteriore del segno contestato, una certa somma di presunzioni. Senonché poi la Corte di cassazione argomenta: «Del tutto ragionevolmente dunque i giudici del merito hanno ritenuto che egli non avesse fornito la prova del dedotto preuso». Pare quindi che la Corte, in realtà, respinga il ricorso non già perché la questione attenga al merito, ma perché, in buona sostanza, condivide e fa proprio quel medesimo giudizio di merito, rappresentando tuttavia questa condivisione e appropriazione a guisa di valutazione sulla congruità della motivazione: che chiaramente è, o almeno dovrebbe essere, tutt’altra cosa. Note: (1) Fra le moltissime, Cass. 24 ottobre 1974, n. 3093, in Giur. ann. dir. ind., Rep. sist., 1972-1987, n. 475/2: «In tema di marchi, l’apprezzamento del giudice di merito sulla confondibilità costituisce un giudizio di fatto, non censurabile in sede di legittimità se sorretto da motivazione adeguata e immune da errori logico-giuridici»; Cass. 24 ottobre 1983, n. 6244, ivi, n. 1602/3: «L’indagine sulla confondibilità dei prodotti in rapporto con la loro omogeneità o affinità è compito del giudice di merito e non è deducibile in sede di legittimità se sorretta da motivazione giuridicamente corretta e logicamente congrua» e ancora in argomento, richiamata dalla sentenza che si commenta, Cass. 28 febbraio 2006, n. 4405: «L’accertamento in ordine al preuso del segno successivamente registrato come marchio comporta un’indagine che si traduce in un apprezzamento di fatto, come tale rimessa al giudice del merito e sottratta al sindacato di legittimità, se fondata su motivazione giuridicamente corretta e logicamente congrua». (2) Ricorderemo come quella distinzione fu assunta persino a motivo, o per meglio dire a pretesto, di decisioni di sezioni specializzate che declinavano la competenza in fattispecie di concorrenza sleale per imitazione servile di prodotto. IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 355 GIURISPRUDENZA•CONCORRENZA SLEALE Importazione parallela L’esaurimento internazionale del marchio CASSAZIONE CIVILE, Sez. I, 21 dicembre 2007, n. 27081 - Pres. Criscuolo - Est. Giuliani - P.M. Golia Aurelio - Intimoda in liquidazione s.r.l. c. PRL Fashions of Europe s.r.l. Concorrenza sleale - Atti di concorrenza - Correttezza professionale (uso di mezzi non conformi alla) - Concessione di vendita in esclusiva di prodotti contrassegnati da marchio - Invasione nella zona di pertinenza da parte di altro imprenditore - Responsabilità extracontrattuale a titolo di concorrenza sleale - Limiti - Condizioni (C.c. art. 2598) Premesso che il titolare del diritto sul marchio non può opporsi alla circolazione in Italia dei prodotti precedentemente messi in commercio da lui stesso, o da soggetti a tanto legittimati, in un qualunque paese dell’Unione Europea, realizzandosi in questo caso il presupposto dell’esaurimento e che, per contro, residua il potere del titolare del marchio, in quanto tale, di opporsi all’importazione di prodotti contrassegnati, anche legittimamente, con detto marchio, là dove essi provengano da un paese extracomunitario ed egli, o altri da lui legittimati, non abbiano consentito all’introduzione ulteriore di quei beni nel mercato europeo, tanto premesso deve ritenersi che l’illecita importazione non è di per sé sussumibile sotto la specie della contraffazione del marchio perché, a seguito delle modifiche apportate dal D.Lgs. n. 480/1992, si ha contraffazione vuoi quando esiste rischio di confusione vuoi quando esiste rischio di associazione, il primo rischio alludendo alle ipotesi in cui la presenza del marchio altrui sul prodotto di un terzo faccia credere al pubblico che i due prodotti provengano da una stessa impresa ed il secondo alludendo alle ipotesi in cui il pubblico medesimo sia indotto in errore circa la sussistenza di un particolare legame commerciale o di gruppo tra l’impresa terza ed il titolare del marchio, di guisa che il giudizio di contraffazione postula che si ripeta, in un segno concorrente, la tipica ed individualizzante capacità distintiva del marchio ed il suo caratteristico messaggio ovvero che si verifichi l’abusiva riproduzione del marchio stesso. L’illecita importazione, non potendo essere assunta di per sé nella figura della contraffazione ma costituendo senza dubbio una condotta obiettivamente contraria alla disciplina che regola la materia del marchio ovvero un’utilizzazione lesiva del diritto di esclusiva riconosciuto al titolare, integra l’ipotesi di concorrenza sleale prevista dall’art. 2598, n. 3. Svolgimento del processo Con ricorso ante causarvi ai sensi degli artt. 669 ter e 700 c.p.c., nonché del R.D. 21 giugno 1942, n. 929, art. 61, (c.d. “legge marchi”), depositato il 21 aprile 1995, la PRL Fashions of Europe s.r.l. (d’ora in avanti, per brevità, denominata semplicemente “PRL”) adiva il Tribunale di Arezzo, premettendo: a) che era distributrice, nonché licenziataria esclusiva per l’Italia, di numerosi prodotti contrassegnati con il marchio “Polo Ralph Lauren” e distinti, figurativamente, dalla rappresentazione di un giocatore di polo a cavallo; b) che aveva acquistato tali diritti in virtù di contratti sottoscritti con il titolare dei marchi anzidetti, identificabile, dapprima, nella European Sport Merchandising S.V. e, poi, nella The Polo Lauren Company; c) che la Intimoda s.r.l. aveva ricevuto undici cartoni contenenti 1.260 capi di abbigliamento (e, precisamen- 356 IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 te, magliette da rugby), i quali recavano i marchi in parola e che provenivano dall’impresa Productos Americanos, con sede nella Repubblica Dominicana; d) che la merce era stata, quindi, alienata dalla Intimoda a vari rivenditori italiani ed, in particolare, alla USA Import - Export s.a.s. di A.F., alla USA Import - Export s.r.l. di A.F., alla Gregory s.r.l. e alla RST Staff s.r.l. Tanto premesso, la ricorrente, lamentando non solo la lesione del diritto di distribuzione esclusiva, perpetrata attraverso una condotta posta in essere in violazione delle regole di correttezza commerciale, ma anche la lesione dei diritti di proprietà industriale acquisiti con il contratto di licenza dei marchi in oggetto per il territorio italiano, chiedeva un provvedimento di sequestro dei prodotti di abbigliamento i quali recavano i marchi sopraindicati e uno di inibitoria a che tali prodotti venissero ulteriormente commercializzati. Il Presidente del Tribunale adito, mediante decreto GIURISPRUDENZA•CONCORRENZA SLEALE inaudita altera parte emesso in data 2 maggio 1995, accoglieva il ricorso e, per l’effetto, inibiva l’uso dei marchi anzidetti alla Intimoda, ordinando il sequestro della merce con i marchi stessi anche presso terzi e sull’intero territorio nazionale, nonché fissando l’udienza per la comparizione delle parti. In quella sede, si costituivano la Intimoda e la RST Staff, chiedendo la revoca delle misure cautelari: la prima, in particolare, sosteneva che la ricorrente non fosse legittimata a domandare il sequestro e l’inibitoria, atteso che i capi sequestrati presso la propria sede erano esclusivamente articoli per bambino/ragazzo, laddove la medesima ricorrente era licenziataria per il territorio italiano dei marchi in questione quanto ai soli capi da donna e semplice distributrice esclusiva quanto agli articoli di abbigliamento da uomo. Il Giudice designato del Tribunale aretino, con ordinanza in data 30 giugno 1995, disponeva la revoca del decreto sopraindicato nella parte in cui quest’ultimo comprendeva, tra i generi di abbigliamento sottoposti alle misure cautelari, anche quelli per bambino/ragazzo, mentre, per il resto, confermava il primo provvedimento. Avverso tale ordinanza, proponevano reclamo la PRL, la Intimoda, la USA Import - Export s.a.s. e la USA Import - Export s.r.l.: in quella sede, si costituivano la RST Staffe la Gregory, là dove interveniva, quindi, ex art. 105 c.p.c., comma 1, la Poloco S.A., società di diritto francese la quale dichiarava di essere licenziataria per l’Italia dei prodotti per uomo e bambino con marchio Polo Ralph Lauren, sostenendo gli argomenti della PRL e chiedendo la conferma delle misure cautelari già adottate. Il Collegio, con ordinanza del 16 agosto 1995, confermava il provvedimento del 30 maggio 1995 limitatamente ai capi di abbigliamento da uomo di cui al contratto tra Poloco e PRL in data 6 ottobre 1992, accoglieva il reclamo proposto da quest’ultima estendendo il divieto di commercio e l’ordine di sequestro ai capi di abbigliamento da ragazzi come descritti nell’emendamento al contratto del 29 giugno 1993 tra Poloco e PRL, revocava, invece, la reclamata ordinanza limitatamente ai capi di abbigliamento da donna descritti nel contratto di licenza stipulato tra la Ritz International S.r.l. e The Polo Lauren Company. Frattanto, con atto di citazione notificato il 27 luglio 1995, la PRL e la Poloco convenivano davanti al Tribunale di Arezzo la Intimoda, la USA Import - Export s.r.l., la USA Import - Export s.a.s., la RST Staffe la Gregory, deducendo gli stessi argomenti già illustrati nella fase cautelare. In contumacia della Gregory, si costituivano in giudizio le altre quattro convenute, la prima (Intimoda) contrastando la domanda avversaria, l’ultima (RST Staff) affermando la propria estraneità alla condotta ritenuta illecita, le rimanenti due riportandosi alle difese della fase cautelare ed ulteriormente eccependo la simulazione relativa dei contratti di licenza di marchio, qualificabili, invece, come contratti di conferimento del diritto di esclusiva. Il Giudice adito, all’udienza del 2 marzo 1999, preso atto delle reciproche rinunce ed accettazioni scambiate tra le parti attrici e la RST Staff, dichiarava l’estinzione della causa tra di loro, quindi, con sentenza del 17 agosto 1999, riconosceva la Intimoda, la Gregory, la USA Import - Export s.r.l. e la USA Import - Export s.a.s. responsabili di concorrenza sleale per avere illegittimamente importato e commercializzato in Italia capi marcati “Polo Ralph Lauren” provenienti da Paesi extracomunitari senza consenso delle legittime aventi diritto PRL e Poloco, distributrici e licenziatane dei prodotti recanti tale marchio, inibendo di conseguenza l’ulteriore prosecuzione dell’illecita attività, ordinando la distruzione dei capi oggetto di sequestro, fissando una penale per il caso di inadempimento, ordinando la pubblicazione della sentenza, nonché condannando le anzidette responsabili al risarcimento dei danni, quantificati, per ciascuna società attrice, in lire 500.000.000, a carico della Intimoda, in lire 150.000.000, a carico solidale della USA Import - Export s.a.s. e della USA Import - Export s.r.l. ed in lire 50.000.000, a carico della Gregory. Avverso la decisione, proponevano appello la Intimoda, la Gregory, la USA Import - Export s.r.l. e la USA Import - Export s.a.s., deducendo otto motivi di impugnazione. Resistevano nel grado le appellate PRL e Poloco, contrastando il gravame avversario e spiegando, a loro volta, appello incidentale affidato a due motivi, il primo dei quali subordinato. La Corte territoriale di Firenze, con sentenza del 1° marzo - 6 maggio 2002, così provvedeva: a) correggeva il dispositivo della pronuncia di primo grado, da leggersi nel senso della condanna in solido della Intimoda, della USA Import - Export s.r.l. e della USA Import - Export s.a.s. al risarcimento dei danni in favore delle attrici quantificati in lire 500.000.000, per ciascuna di queste ultime; b) in parziale accoglimento dell’appello principale, rideterminava in lire 8.000.000, la liquidazione complessiva del danno dovuto in favore di ciascuna delle attrici dalla Gregory; c) depennava la proibizione, nei confronti delle appellanti principali, a compiere «l’importazione, la commercializzazione, la pubblicità, la vendita e l’offerta in vendita di prodotti contrassegnati dai marchi Polo Ralph Lauren o dal marchio raffigurante il giocatore di polo a cavallo o di prodotti recanti marchi con questi simili o confondibili», depennando inoltre il capo della sentenza impugnata relativo alla penale; d) rigettava l’appello incidentale proposto dalla PRL e dalla Poloco. Assumeva, in particolare, detto Giudice: a) che l’atto di intervento posto in essere dalla Poloco IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 357 GIURISPRUDENZA•CONCORRENZA SLEALE sulla base della relativa procura in contestazione riguardasse, in realtà, solo il procedimento cautelare, mentre le domande di merito erano state, poi, formulate dai difensori della stessa Poloco in virtù di successiva procura notarile debitamente depositata, in originale, il 3 maggio 1999; b) che, fermo il fatto che l’introduzione in Italia, senza il consenso del titolare di un marchio, di prodotti provenienti da un paese extracomunitario contrassegnati, anche legittimamente, con il suo marchio costituiva una condotta obiettivamente contraria alla disciplina relativa alla materia del marchio stesso, tale condotta dovesse essere riguardata come illecita, ai sensi dell’art. 2598 n. 3 c.c., siccome idonea a danneggiare l’altrui azienda con mezzi non conformi ai principi della correttezza professionale; c) che, in citazione e nella memoria ex art. 83, ultimo comma, c.p.c., le attrici avessero indicato il quantum dei danni in determinati importi, inferiori a quelli, poi, liquidati dal Tribunale, ma avevano, anche, fatta salva la possibilità di una diversa liquidazione, da compiersi in via equitativa, là dove era da condividere la relativa stima operata dal primo Giudice; d) che l’illecita importazione in Italia di prodotti quivi distribuiti, in via esclusiva, dalla PRL non costituisse, di per sé, una fattispecie di contraffazione; e) che fosse priva di giustificazioni giuridiche la proibizione generalizzata pronunciata nei confronti delle appellanti principali e dovesse, di conseguenza, essere anche depennata la connessa determinazione, in L. 1.000.000, della penale, in capo a ciascuna convenuta, per ogni inosservanza dei provvedimenti contenuti nella sentenza e per ogni giorno di ritardo nell’esecuzione degli stessi. Avverso tale sentenza, ricorre per cassazione la Intimoda in liquidazione s.r.l., deducendo tre motivi di gravame ai quali resistono con controricorso la PRL Fashion of Europe s.r.l. e la Poloco s.a.s. (già Poloco S.A.) che, a loro volta, spiegano ricorso incidentale affidato del pari a tre motivi (illustrando l’uno e l’altro con memoria) cui non resistono le parti intimate. Motivi della decisione Deve, innanzi tutto, essere ordinata, ai sensi del combinato disposto degli artt. 333 e 335 c.p.c., la riunione di entrambi i ricorsi, relativi ad altrettante impugnazioni separatamente proposte contro la stessa sentenza. Si osserva, quindi, in via preliminare, come la Corte territoriale, nell’impugnata sentenza, abbia: a) per un verso, dato atto, «correggendo l’errore materiale in cui incorse il primo Giudice”, che nel dispositivo della pronuncia del Tribunale debba, invece, leggersi (...)» condanna in solido le convenute Intimoda s.r.l., Usa Import Export S.r.l. e Usa Import Export s.a.s. di Angelo Foresto al risarcimento dei danni alle attrici derivanti e che si quantificano in lire 500 milioni, per ciascuna parte attrice (…)»; 358 IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 b) per altro verso, in parziale accoglimento dell’appello principale, proposto dalla Gregory s.r.l., dalla Intimoda s.r.l., dalla Usa Import Export s.r.l. e dalla Usa Import Export S.a.s. di Angelo Carmine Foresto ed in parziale riforma della sentenza impugnata, fermo il resto, «ridetermina(to), con riferimento alla data della pubblicazione della sentenza di primo grado, in lire 8.000.000, in favore di ciascuna delle attrici, ovvero in euro corrispondenti a quest’ultima somma, la liquidazione complessiva del danno dovuto alle attrici dalla Gregory s.r.l., liquidazione operata, invece, dal primo Giudice, in lire 50.000.000, in favore di ciascuna delle attrici». Consegue da quanto precede: a) che, nella specie, si versa indubitabilmente in un’ipotesi di cause scindibili, secondo quel che traspare vuoi dal rapporto di solidarietà riconosciuto esistente in capo alle «convenute Intimoda s.r.l., Usa Import Export S.r.l. e Usa Import Export s.a.s. di Angelo Foresto», il quale obbliga ciascuna debitrice a corrispondere l’intero senza che, del resto, le distinte posizioni di queste ultime presentino obiettiva interrelazione, alla stregua della loro strutturale subordinazione anche sul piano del diritto sostanziale, in guisa tale che la responsabilità dell’una possa presupporre la responsabilità dell’altra, vuoi dal fatto che la decisione della controversia relativa alla Gregory s.r.l. non si estende necessariamente alle altre, costituendone il presupposto logico e giuridico imprescindibile per il carattere di pregiudizialità o di alternativa che le questioni oggetto della prima hanno rispetto alle questioni trattate nelle seconde (Cass. 1° aprile 1999, n. 3114; Cass. 6 luglio 2001, n. 9210; Cass. 6 luglio 2006, n. 15358); b) che, non rientrandosi in una delle ipotesi previste dall’art. 331 c.p.c., il giudizio può legittimamente proseguire senza estendere necessariamente il contraddittorio nei riguardi della Gregory s.r.l., della Usa Import Export s.r.l. e della Usa Import Export s.a.s. di Carmine Angelo Foresto, alle quali non è stato notificato il ricorso principale, proposto dalla Intimoda in liquidazione s.r.l. nei soli confronti delle odierne controricorrenti e ricorrenti incidentali; c) che, per contro, va dichiarata l’inammissibilità del ricorso incidentale spiegato da queste (due) ultime nei riguardi delle (tre) suindicate società, diverse dalla stessa Intimoda, dovendo trovare applicazione il principio secondo cui la notificazione dell’impugnazione principale non solo non fa decorrere, nei confronti della parte intimata, il termine breve per impugnare previsto dall’art. 325 c.p.c., non essendo un simile effetto previsto da alcuna norma di legge, ma rende, anzi, possibile alla suddetta parte, nei modi e nei termini di cui agli artt. 343 e 371 c.p.c., la proposizione della impugnazione (incidentale tardiva, ai sensi dell’art. 334 c.p.c.) ancorché il relativo termine (sia esso quello breve, ovvero quello annuale, ex art. 327 c.p.c., che, nel caso in questione, facendo difetto la notificazione della sentenza impugnata, ha iniziato a decorrere dalla data - 6 maggio 2002 - del- GIURISPRUDENZA•CONCORRENZA SLEALE la sua pubblicazione) risulti già scaduto, laddove, però, in presenza di cause scindibili (come appunto nella specie), è inammissibile l’impugnazione incidentale tardiva proposta dalla parte, contro la quale risulta formulato il ricorso principale, nei riguardi di parte diversa dall’impugnante principale (Cass. 20 giugno 1996, n. 5711; Cass. 24 aprile 2003, n. 6521; Cass. 6 aprile 2006, n. 8105, Cass. 29 aprile 2006, n. 10042), tale essendo il caso del ricorso incidentale notificato dalla PRL e dalla Poloco, in data 29 luglio 2003 (e, quindi, oltre il termine annuale anzidetto), nei confronti delle tre società diverse dalla Intimoda. Con il primo motivo di impugnazione, lamenta la ricorrente principale violazione e falsa applicazione degli artt. 82, 83 e 159 c.p.c., nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, assumendo: a) che Intimoda, sin dalla comparsa di costituzione e risposta di primo grado, aveva eccepito il difetto di ius postulandi in capo agli Avv.ti Vietti e Gallai, i quali avevano dichiarato di agire e sottoscritto l’atto di citazione per la Poloco in forza della procura notarile in calce (rectius, allegata) all’atto di intervento (ex art. 105 c.p.c., comma 1) in data 20 luglio 1995, depositato nella fase di reclamo cautelare e dichiarato inammissibile dal Tribunale; b) che Intimoda ha espressamente impugnato, attraverso il primo motivo di appello, la sentenza del medesimo Tribunale, rilevando che la Poloco fosse priva di ius postulandi per la mancanza di valida procura nel momento in cui ha promosso il giudizio di primo grado, con conseguente nullità della citazione quanto al rapporto processuale concernente la Poloco e, quindi, nullità della sentenza di primo grado nella parte in cui ha accolto le domande proposte dalla stessa Poloco; c) che la Corte territoriale ha affermato che «le domande di merito sono state poi formulate dai difensori della Poloco in virtù di successiva procura notarile debitamente depositata dagli stessi il 3 maggio 99»; d) che detta Corte non si è avveduta, tuttavia, che la mancanza di procura, nel momento in cui dagli Avv.ti Vietti e Gallai sono state proposte le domande per la Poloco (con atto di citazione notificato il 27 luglio 1995), ha determinato la nullità - inesistenza del rapporto processuale in favore della medesima Poloco, senza che fosse possibile alcuna sanatoria per effetto della procura depositata il 3 maggio 1999 (dopo la precisazione delle conclusioni avvenuta in data 2 marzo 1999). Il motivo non è fondato. Premesso come non venga in rilievo, in questa sede, il profilo che attiene al difetto di procura, e quindi di ius postulandi, per il giudizio di merito, in capo ai difensori della Prl Fashions of Europ s.r.l. non avendo l’odierna ricorrente principale ribadito la relativa doglianza dedotta in grado di appello e, poi, disattesa dalla Corte territoriale, si osserva che, secondo l’incensurato (di per sé) apprezzamento di fatto di tale Giudice, le parti appellanti (tra le quali l’odierna ricorrente principale) hanno altresì lamentato davanti a detta Corte che “i difensori della Poloco Sa...avevano agito sulla base della procura speciale del 20 luglio 1995, rogito notaio Cristiane Letulle - Joly, di Parigi, in calce all’atto di intervento...20.7.1995 (nel senso che) «tale procura non - era - stata prodotta in originale né in copia autentica, nonostante l’espressa contestazione della Intimoda s.r.l. (udienza 30 marzo 1996) e non - risultava - legalizzata..., per cui anche i difensori della Poloco erano privi di valida procura e quindi dello ius postulandi; ne consegue l’inefficacia dell’atto di citazione 25 luglio 1995 e la nullità di tutti gli atti successivi, compresa l Impugnata sentenza». Al riguardo, la stessa Corte ha respinto il motivo di appello in questione sulla base dei rilievi secondo i quali: a) «la procura notarile cui fanno riferimento le appellanti è, in effetti, presente solo in copia non autentica, tra gli atti del fase, di parte di 1 grado dell’Avv. Gallai, costituendo, essa, un allegato al doc. 45 (atto di intervento ex art. 105 c.p.c.)»; b) «le procure notarili rilasciate in paesi aderenti, come la Francia, alla convenzione dell’Aja del 5 ottobre 1961(…), resa esecutiva in Italia con L. 20 dicembre 1966, n. 1253, non necessitano di alcuna legalizzazione»; c) «l’atto d’intervento posto in essere sulla base della procura in contestazione riguardava, in realtà, solo il procedimento cautelare mentre le domande di merito sono state, poi, formulate, dai difensori della Poloco, in virtù di successiva procura notarile debitamente depositata, dagli stessi (il 3 maggio 1999), in originale». Posto, dunque, che non ha formato oggetto di censura in questa sede l’assunto del Giudice di merito (di cui alla lettera “b” che precede) circa la mancata necessità di “alcuna legalizzazione” relativamente alle procure del genere di quelle anzidette, giova notare come la doglianza nella quale si sostanzia il motivo in esame, dedotto dall’odierna ricorrente principale in riferimento all’assunto della Corte territoriale meglio riportato sotto la lettera “e” che pure precede, non appaia decisiva. Dall’esame degli atti, consentito a questa Corte venendo in discussione un error in procedendo, risulta invero: 1) che la Poloco S.A., mediante la citazione notificata il 27 luglio 1995, ebbe ad agire davanti al Tribunale di Arezzo rappresentata e difesa dagli Avvocati Vietti Michele del foro di Torino e Gallai Gianfranco del foro di Arezzo «per procura speciale del 20 luglio 1995, rogito Notaio Christiane Letulle - Joly di Parigi in calce all’atto di intervento ex art. 105 c.p.c., comma 1, 20 luglio 1995»; 2) che al n. 45 degli atti e documenti allegati alla citazione anzidetta figura espressamente la «copia atto di intervento ex art. 105 c.p.c., comma 1 della Poloco S.A. e relativi documenti e procura». Se, quindi, per un verso, appare indubitabile, confor- IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 359 GIURISPRUDENZA•CONCORRENZA SLEALE memente all’assunto della Corte territoriale, che la procura notarile sopra richiamata sia stata, in effetti, prodotta dalla Poloco “solo in copia non autentica”, è, per altro verso, da rilevare come, secondo l’incensurato (di per sé) apprezzamento di fatto della Corte stessa, l’odierna ricorrente principale, nel giudizio di appello, si sia limitata a dedurre che “tale procura non (era) stata prodotta in originale né in copia autentica” e non abbia, perciò, prospettato di avere espressamente (e specificatamente) contestato la corrispondenza all’originale della copia (non autentica) della procura anzidetta depositata dalla medesima Poloco all’atto della costituzione nel giudizio di primo grado. Devono, quindi, trovare applicazione i principi secondo i quali: 1) in tema di prova documentale, l’art. 2719 c.c., là dove esige l’espresso disconoscimento della conformità all’originale delle copie fotografiche non autenticate di scritture, si applica anche alle copie fotostatiche ed il suddetto disconoscimento, la cui mancanza attribuisce alla copia fotografica o fotostatica la stessa efficacia probatoria dell’originale, è soggetto, nel silenzio della norma ed in assenza della previsione di un distinto regime processuale, alle modalità e ai termini fissati dagli artt. 214 e 215 c.p.c., per il disconoscimento dell’autenticità della scrittura o della sottoscrizione, dovendo, pertanto, essere effettuato, in modo formale (ovvero mediante una dichiarazione di chiaro e specifico contenuto, pur non implicando necessariamente l’uso di formule sacramentali), nella prima udienza o nella prima risposta successiva alla produzione, con la conseguenza che, in difetto, la copia fotografica o fotostatica non autenticata si deve avere per riconosciuta quanto alla sua conformità all’originale e, quindi, provvista della medesima efficacia probatoria di quest’ultimo (Cass. 28 gennaio 2004, n. 1525; Cass. 11 gennaio 2006, n. 212; Cass. 14 marzo 2006, n. 5461; Cass. 27 ottobre 2006, n. 23174); 2) la suindicata regola posta dall’art. 2719 c.c., secondo cui le copie fotografiche o foto statiche di scritture hanno la stessa efficacia di quelle autentiche non solo se la loro conformità all’originale è attestata dal pubblico ufficiale competente ma anche qualora detta conformità non sia espressamente disconosciuta dalla controparte, con divieto per il Giudice di sostituirsi alla parte interessata (pure se contumace) nell’attività di disconoscimento, trova applicazione anche relativamente alle scritture raccolte da notaio ed, in particolare, alle procure, onde la copia fotostatica della procura notarile alle liti rilasciata al difensore di una delle parti (come appunto quella in contestazione) si ha per riconosciuta se la controparte (come nella specie) non la disconosca, in modo formale, ai sensi degli artt. 214 e 215 c.p.c., nella prima udienza o risposta successiva alla sua produzione (Cass. 8 maggio 2006, n. 10501; Cass. 16 febbraio 2007, n. 3695). Pertanto, anche indipendentemente dal rilievo della Corte territoriale meglio sopra riportato alla lettera “e” 360 IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 e dalla «successiva procura notarile debitamente depositata, (…) dai difensori della Poloco (il 3 maggio 1999), in originale» (onde l’ininfluenza della relativa censura dedotta dalla ricorrente principale attraverso il motivo in esame), appare evidente come tali difensori dovessero considerarsi provvisti di valida procura, e quindi del corrispondente ius postulandi, già solo sulla base della produzione documentale allegata alla citazione notificata il 27 luglio 1995. Vanno, quindi, congiuntamente esaminati il secondo motivo del ricorso principale ed il secondo motivo del ricorso incidentale, i quali involgono, sotto contrapposti profili, la trattazione di questioni strettamente connesse. Con il secondo motivo di impugnazione, dunque, lamenta la ricorrente principale violazione e falsa applicazione dell’art. 2598 c.c., n. 1, e dell’art. 112 c.p.c., nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, deducendo: a) che la Corte territoriale ha respinto lo specifico motivo di appello della Intimoda, affermando che la condotta illecita, tenuta in danno delle appellate, sarebbe consistita nella vendita in Italia di capi di abbigliamento quivi importati con modalità illecite, condotta astrattamente rientrante nello schema di cui all’art. 2598 c.c., n. 3; b) che detto Giudice non si è limitato a citare una disposizione dell’art. 2598 c.c., diversa rispetto a quella (art. 2598 c.c., n. 1) sulla quale il Tribunale aveva fondato la sua decisione, senza che le appellate l’avessero in tal senso sollecitato, ma ha del tutto omesso di precisare in cosa consistessero le modalità illecite; c) che, se queste risultassero costituite dalla “importazione parallela”, si dovrebbe nuovamente osservare che l’originalità dei capi escludeva in radice la possibilità di confusione e che, nei confronti della PRL, mero distributore in esclusiva, non commette alcun illecito concorrenziale chi, come la Intimoda, ha semplicemente svolto la propria attività commerciale, non potendo il distributore titolare di un’esclusiva di vendita lamentare l’esercizio dell’altrui attività commerciale; d) che le stesse attrici avevano fondato le loro pretese sulla particolare tutela derivante dalle loro qualità di licenziataria e di distributrice in esclusiva, senza mai dedurre elementi di fatto tali da costituire autonoma fattispecie di illecito concorrenziale rispetto all’abuso di segno distintivo. Con il secondo motivo di gravame, lamentano le ricorrenti incidentali violazione e falsa applicazione dell’art. 2598 n. 1, c.c. e dell’art. 12 c.p.c., nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 nn. 3 e 5, c.p.c. deducendo: a) che la Corte territoriale ha erroneamente ritenuto che la condotta delle controparti dovesse essere sussunta nell’ambito dell’illecito concorrenziale solo sotto il GIURISPRUDENZA•CONCORRENZA SLEALE caso di cui all’art. 2598 n. 3, c.c. negando la sussistenza delle ipotesi di illecita concorrenza per confusione di segni distintivi e dell’appropriazione di pregi dell’impresa o dei prodotti del concorrente; b) che il caso di specie costituisce anche illecito ex art. 2598 n. 1, c.c., probabilmente, ex art. 2598 n. 2, c.c., laddove l’avere limitato la responsabilità alla sola fattispecie residuale di cui al n. 3 del medesimo art. 2598 c.c., costituisce un errore in indicando; c) che la motivazione è senz’altro insufficiente, anzi omessa, non avendo la Corte territoriale specificato perché non ricorrerebbe l’ipotesi della concorrenza confusoria. I due motivi non sono fondati. Giova, al riguardo, premettere che, attraverso l’esame degli atti, consentito a questa Corte venendo in considerazione la denuncia del vizio di ultrapetizione ex art. 112 c.p.c., risulta come le odierne controricorrenti e ricorrenti incidentali, nella citazione davanti al Tribunale di Arezzo notificata il 27 luglio 1995, ebbero espressamente (e semplicemente) a concludere nel senso di «dichiarare le convenute responsabili (...) di concorrenza sleale in danno delle attrici». Detto Giudice, nella sentenza del 17 agosto 1999, ha, quindi, secondo quanto trovasi riportato nella stessa pronuncia della Corte territoriale impugnata in questa sede, dichiarato “le convenute responsabili di concorrenza sleale in danno delle parti attrici” assumendo in definitiva che il comportamento della Intimoda S.r.l. ha integrato la fattispecie di concorrenza sleale concretamente mettendo in atto, con violazione del diritto di marchio della licenziataria Poloco Sa, consumata con importazione illecita dei prodotti contrassegnati, una condotta diretta a ingenerare confusione con i prodotti distribuiti, in via esclusiva dalla Prl Fahions of Europ, sua diretta concorrente, mediante uso di segni distintivi, legittimamente usati da altri (come recita l’art. 2598 n. 1 c.c.) e precisamente proprio dalla Poloco Sa, quale concessionaria della licenza di marchio, e dalla Prl Fashions of Europ, quale distributrice esclusiva, commerciando i prodotti contrassegnati nel territorio riservato dal licenziatario al distributore esclusivo”. La Corte territoriale, poi, investita dell’esame dei motivi dell’appello principale rispettivamente relativi, per un verso, al “difetto di legittimazione, alla presente azione, della Prl Fashions of Europ S.r.l., licenziataria dei soli articoli per donna, non oggetto della presente causa, e semplice distributrice degli articoli per uomo e ragazzo di cui è causa, e della Poloco Sa, che non aveva dimostrato di aver ricevuto l’investitura di licenziataria da parte del titolare del diritto di marchio”, nonché, per altro verso, al “difetto dei presupposti previsti dall’art. 2598 c.c., per la configurazione della concorrenza sleale”, li ha, quindi, disattesi entrambi, affermando: a) che la “Prl Fashions of Europ S.r.l. è distributrice in Italia, in esclusiva, dei capi d’abbigliamento per uomo e bambino marcati Polo Ralph Lauren ed è, altresì, licen- ziataria dei marchi Polo Ralph Lauren sia per i capi d’abbigliamento da donna, sia per gli accessori”; b) che la “Poloco Sa è, invece, licenziataria per l’Europa dei predetti marchi per l’abbigliamento da uomo e ragazzo”; c) che le “attuali appellanti hanno commerciato in Italia, senza il consenso del titolare del marchio o di altro soggetto legittimato, prodotti con il marchio Polo Ralph Lauren”; d) che tale “condotta è, obiettivamente, contraria alla disciplina che regola la materia del marchio”; e) che dunque «viene prospettata, dalle attuali convenute in appello, una condotta illecita delle controparti, tenuta in danno delle medesime e consistente nella vendita, in Italia, di capi di abbigliamento quivi importati con modalità illecite, condotta astrattamente rientrante, a parere della Corte, nello schema di cui all’art. 2598 n. 3 c.c.»; f) che, «fermo il fatto che l’introduzione in Italia, senza il consenso del titolare di un marchio, di prodotti provenienti da un paese extracomunitario contrassegnati, anche legittimamente, con il suo marchio, costituisc(e) una condotta obiettivamente contraria alla disciplina che regola la materia del marchio (…), tale condotta (deve), al contempo, essere riguardata, come già si è anticipato (…), come illecita, ex art. 2598 n. 3, c.c. perché idonea a danneggiare l’altrui azienda (…) con mezzi non conformi ai principi della correttezza professionale». Tanto premesso, vanno, innanzi tutto, disattese le censure rispettivamente dedotte dalla ricorrente principale, là dove si lamenta che la Corte territoriale ha citato “una diversa disposizione dell’art. 2598 c.c., (il n. 3) rispetto a quella (art. 2598, n. 1) sulla quale il Tribunale aveva fondato la sua decisione, senza che le appellate l’avessero in tal senso sollecitata, nonché dalle ricorrenti incidentali, là dove si lamenta error in indicando e vizio di motivazione con riferimento al fatto che detta Corte ha negato la sussistenza delle ipotesi di illecita concorrenza per confusione di segni distintivi e dell’appropriazione di pregi dell’impresa o di prodotti del concorrente, limitando la responsabilità alla sola fattispecie residuale di cui all’art. 2598 n. 3, c.c. Al riguardo, invero, deve trovare applicazione il principio secondo cui, in tema di concorrenza sleale, quante volte il Giudice di appello lasci immutati i fatti materiali in base ai quali sia stata chiesta dall’attore la condanna del convenuto per concorrenza sleale appunto non altrimenti inquadrata in una delle figure (tipiche ovvero atipiche) normativamente previste (come nella specie), ben può tale giudice, senza con ciò andare oltre i limiti della domanda proposta (sulla quale si sia validamente instaurato il contraddittorio) e senza, in particolare, sostituire alla causa petendi della domanda medesima una causa petendi diversa, procedere all’esatta qualificazione giuridica dei fatti anzidetti, dedotti a fondamento costitutivo della domanda sopraindicata, inqua- IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 361 GIURISPRUDENZA•CONCORRENZA SLEALE drando l’azione proposta nella tipizzazione legislativa che le è propria e ponendo i fatti a base dell’accertamento della concorrenza sleale sotto uno, piuttosto che sotto un altro, dei profili normativi di cui all’art. 2598 c.c. (Cass. 1° ottobre 1976, n. 3195; Cass. 18 aprile 2003, n. 6310; Cass. 20 luglio 2004, n. 13423). Circa, poi, le residue censure dedotte dalla ricorrente principale, si osserva: a) che la Corte territoriale ha dato espressamente (ed esaurientemente) conto della “condotta illecita” delle appellanti, tenuta in danno delle convenute in appello e “consistente nella vendita, in Italia, di capi di abbigliamento quivi importati con modalità illecite”, precisando, poi, che simili modalità si sostanziano nel fatto che «l’introduzione in Italia, senza il consenso del titolare di un marchio, di prodotti provenienti da un paese extracomunitario contrassegnati, anche legittimamente, con il suo marchio, costituisci) una condotta obiettivamente contraria alla disciplina che regola la materia del marchio», senza che, del resto, risulti altrimenti censurata dalla stessa ricorrente principale la conclusione di detta Corte in forza della quale «tale condotta (deve)...essere riguardata...come illecita, ex art. 2598 n. 3, c.c. perché idonea a danneggiare l’altrui azienda...con mezzi non conformi ai principi della correttezza professionale», ovvero l’implicita enunciazione, da parte del medesimo Giudice, del principio secondo cui, al di fuori dell’accertamento della sussistenza del pericolo di confusione o degli estremi della appropriazione di pregi dei prodotti o dell’impresa altrui, è da ricondurre sotto l’ipotesi della concorrenza sleale prevista dal cit. art. 2598 n. 3, c.c. l’uso del marchio altrui (al fine diretto di contraddistinguere i prodotti e, cioè, in funzione di marchio, non già solo in funzione descrittiva) posto in essere da terzi con le modalità (illecite, siccome «contrarie alla disciplina che regola la materia del marchio” stesso) meglio sopra indicate (in tal senso, del resto, Cass. 18 novembre 1998, n. 11603, là dove trovasi riconosciuta la “coesistenza», con la fattispecie di cui al n. 3 dell’art. 2598 c.c., vuoi di quella confusoria vuoi di quella consistente nell’appropriazione dei pregi altrui, in presenza tuttavia di «una offerta che si presenta identica senza esserlo - attesa la diversa qualità dei prodotti provenienti dal paese extracomunitario rispetto a quelli offerti dal titolare del marchio - e palesemente si avvantaggia dell’investimento del concorrente, anche risparmiando sulle spese - di riconfezionamento e, quindi, di commercializzazione - previste dalla legge»); b) che l’ipotesi di concorrenza sleale contemplata dal già richiamato art. 2598 n. 3, c.c. per l’uso di mezzi non conformi alla correttezza professionale, prescinde dall’eventuale “confondibilità” (oggettiva o soggettiva) dell’uno e dell’altro prodotto, richiesta, invece, nelle ipotesi tipiche previste dal n. 1 della medesima disposizione (Cass. 4 luglio 1985, n. 4029); c) che la Corte territoriale ha, con incensurato (di per 362 IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 sé) apprezzamento di fatto, dato conto che la «Prl Fashions of Europ s.r.l. è distributrice in Italia, in esclusiva, dei capi d’abbigliamento per uomo e bambino marcati Polo Ralph Lauren» (oggetto della presente causa), là dove è noto come operare sul mercato in concorrenza con l’imprenditore il quale ha ottenuto una (cosiddetta) concessione di vendita in esclusiva di prodotti contrassegnati da un determinato marchio e, segnatamente, non rispettare l’esclusiva medesima compiendo l’invasione della relativa zona, non costituisce di per sé fonte di responsabilità a titolo di illecito extracontrattuale ed, in particolare, a titolo di concorrenza sleale, salvo, però, che il terzo estraneo al rapporto di esclusiva, intercorso tra le parti contraenti, si avvalga (come nella specie) di mezzi non conformi alla correttezza professionale, idonei a danneggiare l’altrui azienda, ricorrendo esattamente l’ipotesi della concorrenza sleale qualora il commerciante si procuri con mezzi illeciti (come, appunto, in violazione della “disciplina che regola la materia del marchio”) la merce da rivendere in una zona di esclusiva, così da influenzare ed alterare la normale situazione concorrenziale, in pregiudizio degli altri imprenditori concorrenti (Cass. 11 ottobre 1960, n. 2644; Cass. 4 aprile 1970, n. 914). Occorre, quindi, procedere, secondo un corretto ordine logico, all’esame (separato) del primo e del terzo motivo del ricorso incidentale. Con il primo motivo, dunque, lamentano la PRL e la Poloco violazione e falsa applicazione del R.D. n. 929/1942, artt. 1, e 1 bis, art. 55 ss., e dell’art. 112 c.p.c., nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, deducendo: a) che la Corte territoriale ha errato nel non ritenere applicabile, nel caso di specie, il disposto di cui R.D. n. 929/1942, artt. 1 e 1 bis; b) che detto Giudice, invero, ha affermato (alla pag. 45 dell’impugnata sentenza) che l’illecita importazione non costituisce, di per sé, una fattispecie di contraffazione; c) che tale valutazione costituisce senz’altro un error in indicando; d) che, avendo il titolare o il licenziatario del marchio altresì il potere di vietare l’importazione da Paesi non aderenti all’Unione Europea di beni recanti i propri marchi senza il suo consenso, la condotta in violazione di simili divieti integra gli estremi della contraffazione, della Legge Marchi, ex art. 56; e) che la giurisprudenza è ormai unitaria nel ritenere che configura una violazione dei diritti di esclusiva attribuiti al titolare del marchio o al suo licenziatario non solo la vendita di prodotti illegittimamente marcati ab origine, ma anche l’importazione nel territorio italiano di prodotti legittimamente contraddistinti dal segno in un Paese extracomunitario ed introdotti nel territorio italiano senza il consenso del titolare, costituendo una simile condotta atto illecito di contraffazione del mar- GIURISPRUDENZA•CONCORRENZA SLEALE chio, intesa come violazione appunto dei diritti riconosciuti esclusivamente al titolare o al licenziatario di questo; f) che non può di certo essere considerata una sufficiente motivazione, la quale risulta sostanzialmente omessa, la succinta enunciazione della Corte territoriale secondo cui l’illecita importazione non costituisce di per sé una fattispecie di contraffazione, non essendosi la medesima Corte peritata di spiegare minimamente perché, nonostante il disposto della Legge Marchi, degli artt. 1 e 1 bis, fatto oggetto di lunga ed attenta elaborazione giurisprudenziale, non ricorrerebbe la contraffazione; g) che la motivazione è altresì contraddittoria, non comprendendosi come detta Corte, dopo l’affermazione secondo la quale l’importazione parallela non autorizzata dal legittimo avente diritto costituisce una condotta obiettivamente contraria alla disciplina che regola la materia del marchio, abbia potuto ritenere che una simile condotta non costituisce contraffazione. Il motivo non è fondato. La Corte territoriale, prendendo in esame il secondo motivo del gravame incidentale, attraverso il quale le convenute in appello hanno lamentato che il Tribunale non avesse dichiarato le appellanti principali “responsabili anche di contraffazione” per avere, le stesse, importato illecitamente in Italia prodotti quivi distribuiti, in via esclusiva, dalla PRL, è addivenuta alla declaratoria di infondatezza del motivo anzidetto, «non costituendo, di per sé, l’illecita importazione, una fattispecie di contraffazione». Tale assunto merita di essere condiviso. Giova, al riguardo, premettere: a) che il principio del cosiddetto “esaurimento del marchio”, secondo quanto trovasi affermato anche in dottrina, esprime la regola per la quale il titolare di un marchio, dopo avere contrassegnato il suo prodotto ed averlo immesso sul mercato, ovvero dopo avere consentito (attraverso, ad esempio, un contratto di licenza) che altri apponesse il segno e commercializzasse il prodotto, non può impedire che quest’ultimo, così marcato, circoli “ulteriormente” in quello stesso mercato, né può, invocando il proprio diritto esclusivo sul segno, impedire che il cessionario del prodotto medesimo ne usi secondo le proprie scelte; b) che il R.D. 21 giugno 1942, n. 929, art. 1 bis, comma 2, (recante il Testo delle disposizioni legislative in materia di marchi registrati), aggiunto dal D.Lgs. 4 dicembre 1992, n. 480, art. 2, in armonia con l’art. 7, comma 1, Direttiva CE n. 89/104 in data 21 dicembre 1988 e con l’art. 13, comma 1, del (successivo) Regolamento CE n. 40/94 in data 20 dicembre 1993, ha, quindi, introdotto esplicitamente nel nostro ordinamento, così “codificandolo” e, anzi, rappresentandone (si rileva ancora in dottrina) la “generale affermazione”, il principio anzidetto, il quale, peraltro, era già stato riconosciuto dalla giurisprudenza della Corte CE (sentenze 13 luglio 1966, cause riunite Grundig/Costen; 18 febbraio 1971, causa Sirena; 31 ottobre 1974, causa Centrafarm/Winthrop), in applicazione degli artt. 30, 36 e 85 del Trattato di Roma; c) che, in virtù di tale principio, dunque, si deve oggi (come, del resto, per via di interpretazione, già prima della riferita innovazione legislativa) ritenere che il titolare del diritto sul marchio non può opporsi alla circolazione in Italia dei prodotti precedentemente messi in commercio da lui stesso, o da soggetti a tanto legittimati, in un qualunque Paese dell’Unione Europea, realizzandosi appunto, in questo caso, il presupposto dell’esaurimento del marchio; d) che, per contro, secondo l’orientamento accolto dalla giurisprudenza vuoi della Corte CE (sentenze 3 luglio 1974, causa Hag 1; 22 giugno 1976, causa Terrapin/Terranova; 17 ottobre 1990, causa Hag 2; 16 luglio 1998, causa Silhouette), vuoi di questa stessa Corte (Cass. n. 1 1603/1998, cit.), residua il potere del titolare del marchio, in quanto tale, di opporsi all’importazione di prodotti contrassegnati, anche legittimamente, con detto marchio, là dove essi provengano da un paese extracomunitario ed egli, o altri da lui legittimati, non abbiano consentito all’introduzione ulteriore di quei beni nel mercato europeo, senza che assuma alcun rilievo la circostanza di un eventuale, regolare sdoganamento dei prodotti medesimi in un paese dell’Unione Europea, risultando ciò del tutto ininfluente sul piano del diritto ad introdurre il prodotto in quel mercato nazionale. Tanto premesso, richiamate le surriferite conclusioni della Corte territoriale là dove queste ha ritenuto l’illiceità della condotta «consistente nella vendita, in Italia, di capi di abbigliamento quivi importati con modalità illecite» e, segnatamente, la contrarietà «alla disciplina che regola la materia del marchio...(del) l’introduzione in Italia, senza il consenso del titolare (…), di prodotti provenienti da un paese extracomunitario contrassegnati, anche legittimamente, con il suo marchio», si osserva, quindi, secondo quanto correttamente affermato dalla Corte territoriale, che “l’illecita importazione” non appare, in effetti, “di per sé” sussumibile sotto le specie della contraffazione del marchio. A seguito, infatti, delle modifiche apportate dal già cit. D.Lgs. n. 480/1992, è stato precisato (R.D. n. 929/1942, art. 1, comma 1, lett. “a”, come sostituito dal medesimo D.Lgs. n. 480/1992, art. 1) che si ha contraffazione vuoi quando esiste “rischio di confusione”, vuoi quando esiste “rischio di associazione” tra i due segni, là dove il primo, determinato dall’identità o dalla somiglianza dei segni utilizzati per contrassegnare prodotti identici o affini, allude alle ipotesi in cui la presenza del marchio altrui sul prodotto di un terzo fa credere al pubblico che i due prodotti provengano da una stessa impresa, mentre il secondo allude alle ipotesi in cui il pubblico medesimo è indotto in errore circa la sussistenza di un particolare legame commerciale o di gruppo tra l’impresa terza e il titolare del marchio, ovvero è indotto a credere che i due prodotti provengano da due imprese distinte, tra IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 363 GIURISPRUDENZA•CONCORRENZA SLEALE le quali, però, intercorrano rapporti di licenza o, comunque, di autorizzazione all’uso del marchio anzidetto (Cass. 16 luglio 2005, n. 15096). Poiché, dunque, l’azione di contraffazione mira a tutelare la distinti vita (intesa come idoneità ad individuare un prodotto rispetto ad un altro) insita nel collegamento che si crea tra segno e prodotto stesso (Cass. 25 giugno 2007, n. 14684), il relativo giudizio postula che si “ripeta”, in un segno concorrente, la tipica ed individualizzante capacità distintiva del marchio ed il suo caratteristico messaggio (Cass. 26 giugno 1996, n. 5924), ovvero che si verifichi l’abusiva “riproduzione” (Cass. 18 agosto 1997, n. 7660) del marchio stesso (la quale ne investa gli elementi caratteristici che adempiono alla specifica funzione di identificazione del prodotto: Cass. 27 gennaio 1967, n. 229) sulla base del riscontro dell’identità o della confondibilità dei marchi in questione (Cass. 25 settembre 1998, n. 9617) mediante l’uso di segni distintivi identici o simili a quelli legittimamente usati dall’imprenditorie concorrente (Cass. 3 luglio 1992, n. 8157), onde risulta palese come non possa essere sussunta, “di per sé”, nella figura della contraffazione “l’illecita importazione” oggetto di causa, la quale, pur costituendo senza dubbio “una condotta obiettivamente contraria alla disciplina che regola la materia del marchio” (secondo l’incensurato apprezzamento della Corte territoriale), ovvero un’utilizzazione lesiva del diritto di esclusiva dalla legge riconosciuto al titolare, integrando (come si è accennato) l’ipotesi di concorrenza sleale prevista dall’art. 2598 n. 3, c.c. non appare, tuttavia, tale, in ragione della stesso mancato accertamento, in sede di merito, di alcuna “diversità” dei prodotti importati dal Paese extracomunitario (Repubblica Dominicana) rispetto a quelli offerti dalle aventi diritto, da poter determinare il rischio di “confusione” o di “associazione” il cui apprezzamento (secondo quanto pure accennato) è sotteso al riconoscimento della sussistenza dell’anzidetta contraffazione. Con il terzo motivo di impugnazione, lamentano le ricorrenti incidentali violazione e falsa applicazione del R.D. n. 929/1942, art. 63, n. 2, e art. 66, comma 2, e art. 2599 c.c., e dell’art. 112 c.p.c., nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 nn. 3 e 5, c.p.c., deducendo: a) che la Corte territoriale, accogliendo parzialmente il relativo motivo di appello proposto dalle controparti, ha ingiustamente depennato tout court dalla sentenza la proibizione a ulteriormente importare, commercializzare, pubblicizzare, vendere, offrire in vendita prodotti recanti il marchio “Polo Ralph Lauren” o il marchio raffigurante il giocatore di polo a cavallo, perché considerata “generalizzata”; b) che la stessa Corte, traducendo correttamente la volontà del Giudice di prime cure, evidentemente non specificata per mero errore materiale di omissione, poteva precisare che l’inibitoria era pronunciata con rife- 364 IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 rimento ai prodotti provenienti a importazioni parallele extracomunitarie non autorizzate; c) che la pronuncia di inibitoria consegue automaticamente all’accertamento degli atti di concorrenza, sleale, senza che il soggetto passivo degli stessi sia tenuto a fornire prova del pericolo di ripetizione di quegli atti, laddove la cessazione dell’attività contraria alla correttezza professionale non fa venir meno l’interesse ad una pronuncia del genere; d) che, di conseguenza, la Corte territoriale ha errato in indicando nel revocare tout court la previsione della penale di cui alla pronuncia di primo grado, originariamente fissata in L. un milione, in capo a ciascuna convenuta, per ogni inosservanza dei provvedimenti contenuti nella sentenza e per ogni giorno di ritardo nell’esecuzione degli stessi. Il motivo, nei termini e nei limiti appresso indicati, è fondato. Ai sensi dell’art. 2599 c.c., «la sentenza che accerta atti di concorrenza sleale ne inibisce la continuazione e da gli opportuni provvedimenti affinché ne vengano eliminati gli effetti», dovendosi, al riguardo, precisare che la funzione essenziale e tipica dell’azione inibitoria di cui al citato art. 2599 c.c., è quella di apprestare una tutela giurisdizionale preventiva, la quale si attua nella pronuncia contenente l’ordine rivolto ad una parte del processo di astenersi in futuro dal ripetere determinati atti commessi in violazione degli obblighi di non fare previsti dall’art. 2598 c.c. (Cass. 25 luglio 1995, n. 8080). Nella specie, la Corte territoriale, accogliendo parzialmente l’ottavo motivo dell’appello principale, là dove si era fatto esplicito riferimento all’accoglimento delle domande attrici “solo in punto di concorrenza sleale”, ha quindi: a) «depennat(o), perché priva di giustificazioni giuridiche, la proibizione generalizzata, pronunciata nei confronti delle attuali appellanti principali, a compiere l’importazione, la commercializzazione, la pubblicità, la vendita e l’offerta in vendita di prodotti contrassegnati dai marchi Polo Ralph Lauren o dal marchio raffigurante il giocatore dipolo a cavallo o di prodotti recanti marchi con questi simili o confondibili»; b) «di conseguenza...anche depennat(o) la connessa determinazione, in lire 1.000.000, della penale, in capo a ciascuna convenuta, per ogni inosservanza dei provvedimenti contenuti nella sentenza e per ogni giorno di ritardo nell’esecuzione degli stessi». Orbene, per quanto riguarda la statuizione di cui alla lettera “a” che precede, appare palese come detto Giudice abbia trascurato di considerare che, “stante l’accoglimento delle domande attrici...in punto di concorrenza sleale”, la pronuncia di inibitoria trova fondamento nel disposto del richiamato art. 2599 c.c., senza che, del resto, possa costituire ragione sufficiente per addivenire al relativo diniego il mero apprezzamento del carattere “generalizzato” della proibizione emanata nel grado pre- GIURISPRUDENZA•CONCORRENZA SLEALE cedente, spettando al Giudice di merito, in riferimento agli specifici connotati dell’illecito concorrenziale di cui trattasi, determinare la esatta portata da attribuire all’inibitoria medesima, individuandone (e, semmai, circoscrivendone) il contenuto corrispondente. Resta, pertanto, assorbita l’ulteriore censura dedotta dalle odierne ricorrenti incidentali avverso la revoca della penale prevista nella decisione di primo grado, la quale è stata disposta dalla Corte territoriale in via semplicemente “consequenziale”, ritenendo, cioè, detta penale “connessa” alla proibizione (“generalizzata”) come sopra (a torto) “depennata”. Con il terzo motivo di impugnazione, infine, lamenta la ricorrente principale violazione e falsa applicazione degli artt. 2056 e 1226 c.c., e art. 112 c.p.c., nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, deducendo: a) che la Corte territoriale ha avallato l’abnorme e illegittima determinazione del danno a carico della Intimoda in lire 500.000.000, in favore di ciascuna delle attrici, nonostante che queste avessero persino all’udienza di conclusioni indicato somme di oltre cinque volte inferiori, solo perché in citazione e nella memoria ex art. 183 c.p.c., le medesime attrici avevano indicato il quantum dei danni in determinati importi inferiori a quelli poi liquidati dal Tribunale, ma avevano anche fatto salva la possibilità di una diversa liquidazione da compiersi in via equitativa; b) che detta Corte non ha dato conto del fatto che l’espressione usata dalle attrici (“o nella diversa somma che il Tribunale vorrà liquidare occorrendo anche in via equitativa”), dopo che queste ultime avevano precisato ogni singola voce di danno per danno emergente e lucro cessante, senza invocare alcun ulteriore elemento risarcitorio, potesse significare che le attrici intendevano ottenere un risarcimento ulteriore e non piuttosto volessero affidare allo stesso Tribunale la determinazione di un danno inferiore, atteso che la loro determinazione analitica era, ovviamente, quella ad esse più favorevole; c) che la medesima Corte, nonostante Intimoda avesse criticato l’ammontare del danno illegittimamente determinato in misura enormemente superiore rispetto a quanto dedotto e richiesto dalle attrici, osservando che né queste ultime né il Giudice di primo grado avevano saputo indicare quale danno impossibile o molto difficile da dimostrare fosse necessario liquidare equitativamente, non ha speso una parola di motivazione al riguardo. Il motivo in parte non è fondato ed in parte non è ammissibile. Giova, al riguardo, premettere come, sulla base dell’incensurato (di per sé) apprezzamento di fatto della Corte territoriale, sia rimasto accertato che le censure dedotte, in sede di appello, dall’odierna ricorrente principale erano state articolate nel senso: a) che le «conclusioni della Prl Fashions of Europ s.r.l., e della Poloco, prese in data 2 marzo 1999, all’udienza di precisazione delle conclusioni, e trascritte in sentenza, in quanto nuove, avrebbero dovuto ritenersi inammissibili»; b) che «le stesse attrici (pur essendo inammissibili le loro conclusioni) avevano quantificato (…) i danni addebitabili ad Intimoda a lire 43.200.000 + 28.800.000, mentre quelli addebitabili a Usa Import Export a lire 685.260.000 + 456.840.000, che sono state invece condannate al pagamento di lire 150.000.000, per ciascuna delle attrici, senza alcuna motivazione». A fronte di quanto precede, detto Giudice, nell’impugnata sentenza, ha ritenuto l’infondatezza del relativo motivo di gravame (quinto dell’appello principale), affermando che «in citazione e nella memoria ex art. 183, ultimo comma, c.p.c., le attrici (…) avevano indicato il quantum dei danni in determinati importi, inferiori a quelli, poi, liquidati dal Tribunale, ma avevano, anche, fatto salva la possibilità di una diversa liquidazione, da compiersi in via equitativa». Posto, dunque, che, nella specie, non è stata dalla ricorrente principale ribadita la doglianza meglio sopra riportata alla lettera “a” né censurato l’apprezzamento di fatto della Corte territoriale, riferito da ultimo, relativo al tenore della citazione e della memoria ex art. 183, ultimo comma, c.p.c. si osserva: a) per un verso, che l’assunto della Corte territoriale, incentrato sulla possibilità, per il Giudice il quale ne sia stato espressamente richiesto, di liquidare il danno, in via equitativa, in una misura “diversa” (e, quindi, senza esclusione dell’eventualità di liquidarlo in una misura anche “superiore”) rispetto a quella (“inferiore”) specificatamente indicata, merita di essere condiviso, atteso che, là dove una domanda di risarcimento dei danni venga proposta attraverso la richiesta della condanna della controparte al pagamento di un determinato importo, ovvero della “diversa” somma (maggiore o minore) che risulti dovuta, in via equitativa, all’esito del giudizio, la formulazione di questa seconda richiesta alternativa non può essere considerata come meramente di stile, in quanto essa, lungi dall’avere un contenuto semplicemente formale, manifesta la ragionevole incertezza della parte sull’ammontare del danno effettivamente da liquidarsi e ha lo scopo di consentire al Giudice di provvedere sulla giusta liquidazione del danno senza essere vincolato all’ammontare della somma determinata che risulti indicata nelle conclusioni specifiche (Cass. 24 gennaio 2006, n. 1313; Cass. 11 luglio 2006, n. 15698); b) per altro verso, che la censura relativa alla mancanza anche di una sola parola di motivazione, nella sentenza impugnata, quanto alla dedotta possibilità per il Giudice di «liquidare equitativamente soltanto i danni, indicati dall’attore, il cui ammontare l’attore non potesse, se non con estrema difficoltà, dimostrare», si palesa inammissibile, atteso che, nel silenzio della Corte territoriale sul IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 365 GIURISPRUDENZA•CONCORRENZA SLEALE punto, l’odierna ricorrente principale non ha minimamente specificato le concrete modalità di tempo e di luogo della pretesa “osservazione” circa il fatto che «né le attrici né il Giudice di primo grado avevano saputo indicare quale danno impossibile o molto difficile da dimostrare fosse necessario liquidare equitativamente», mentre la parte che impugni una sentenza con ricorso per cassazione per omessa pronuncia su una domanda o eccezione ha l’onere, per il principio di autosufficienza del ricorso, di specificare, a pena di inammissibilità, l’atto difensivo o il verbale d’udienza (non potendo, nella specie, ritenersi sufficiente il mero riferimento della ricorrente principale all’udienza di precisazione delle conclusioni del 2 marzo 1999, là dove, per sua stessa ammissione, figura espressamente la sola dichiarazione “di non accettare il contraddittorio” sulle domande nuove mediante le quali le attrici avevano “ampliato le loro originarie conclusioni in punto di risarcimento danni”) in cui l’ha formulata, per consentire al Giudice di verificarne la ritualità e la tempestività, così da apprezzare la decisività della questione, atteso che, pur configurando la violazione dell’art. 112 c.p.c., un error in procedendo, per il quale la Corte di Cassazione è Giudice anche del “fatto processuale”, il potere - dovere della stessa Corte di esaminare direttamente gli atti processuali non signi- fica che quest’ultima, in relazione alla mancata possibilità di rilevare d’ufficio tale vizio, debba ricercarli autonomamente, spettando, invece, alle parti di indicarli (Cass. 17 gennaio 2007, n. 978). Pertanto, il ricorso principale deve essere rigettato e, quanto al ricorso incidentale, ne va dichiarata l’inammissibilità nei confronti dei soggetti diversi dalla ricorrente principale, laddove, nei confronti di quest’ultima, vanno rigettati i primi due motivi meritando accoglimento il terzo nei sensi di cui in motivazione, onde la sentenza impugnata deve essere cassata in relazione alla censura accolta, con rinvio, anche ai fini delle spese del giudizio di cassazione, alla Corte di Appello di Firenze in diversa composizione. P.Q.M. La Corte, riuniti i ricorsi, rigetta il ricorso principale, dichiara l’inammissibilità del ricorso incidentale nei confronti dei soggetti diversi dalla ricorrente principale, rigetta i primi due motivi del ricorso incidentale nei confronti della ricorrente principale, accoglie nei sensi di cui in motivazione il terzo, cassa la sentenza impugnata in relazione alla censura accolta e rinvia, anche ai fini delle spese del giudizio di cassazione, alla Corte di Appello di Firenze in diversa composizione. IL COMMENTO di Cesare Galli Note: Con la sentenza in esame la Corte di Cassazione ha confermato (salvo che in un punto) una decisione della Corte d’Appello di Firenze, secondo cui l’importazione parallela di merci originali, ma di provenienza extracomunitaria, è sì illecita, ma non in base alla legge marchi, bensì semplicemente come atto contrario ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda, sussumendolo quindi nella fattispecie “innominata” di cui all’art. 2598, n. 3 c.c. I Giudici di legittimità sembrano delineare una sorta di «terza via» rispetto alla fattispecie del cosiddetto esaurimento internazionale del marchio, tra la posizione della giurisprudenza assolutamente prevalente, che ritiene senz’altro contraffattoria l’importazione parallela di merci sulle quali il marchio è stato apposto legittimamente, ma che non sono state messe legittimamente in commercio dal titolare o con il suo consenso nell’ambito dell’Unione Europea ovvero dello Spazio Economico Europeo (1), e l’orientamento largamente minoritario, secondo cui invece tale condotta sarebbe lecita, appunto in quanto si tratterebbe pur sempre di prodotti originali (2). 366 IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 (1) In tal senso, già prima della riforma del 1992 della legge marchi che ha espressamente codificato l’esaurimento (solo) comunitario del diritto di marchio (all’art. 1-bis, ora incorporato nell’art. 5 C.p.i.), si vedano Cass. 4 giugno 1983, n. 3807, in Giur. ann. dir. ind., 1983, 125 ss. e in Giur. it., 1984, I, 1, 1170 ss.; Pret. Bologna, 6 maggio 1986 (ord.), ivi, 1988, I, 2, 363 ss. (con nota di Musso, Tre recenti provvedimenti giurisprudenziali in tema di importazioni parallele, in Giur. it., 1988, I, 2, 363 ss.); Pret. Vigevano 7 giugno 1986 (ord.), ivi; Pret. Busto Arsizio 19 giugno 1986 (ord.), ivi; Pret. Milano 13 giugno 1988 (ord.), in Giur. ann. dir. ind., 1988, 640 ss.; Pret. Catania, 17 ottobre 1988 (ord.), ibidem, 792 ss.; Pret. Milano 8 agosto 1991 (ord.), in Giur. it., 1994, I, 2, 157 ss.; Trib. Milano 17 febbraio 1992, ivi, 1992, 468 ss.; Trib. Como 8 ottobre 1992 (ord.), in Giur. it., 1994, I, 2, 157 ss. (con nota di Roverati, Importazioni parallele da Paesi extracomunitari, «esaurimento» del diritto di marchio e principio di «territorialità» alla luce della più recente giurisprudenza e della riforma della legge marchi, in Giur. it., 1994, I, 2, 157 ss.). Nello stesso senso, nella giurisprudenza più recente, si vedano ad esempio App. Milano 22 luglio 1994, in Giur. ann. dir. ind., 1995, 537 ss.; Trib. Bologna 21 agosto 1995 (ord.), ibidem,1212 ss.; Trib. Milano 20 novembre 1995, ivi, 1996, 501 ss.; Trib. Treviso 20 marzo 1996, ivi, 722; App. Milano 11 ottobre 1996, ivi, 1997, 395 ss.; ecc. (2) Così in particolare Trib. Prato 23 settembre 1985, in Giur. ann. dir. ind., 1985, 768 ss. (e in Giur. it., 1987, I, 2, 44 ss., con nota di P. Ferrari, Importazioni parallele: modi e casi nella giurisprudenza comunitaria e nazionale), sulla base del rilievo che il diritto di marchio non attribuirebbe al titolare «la possibilità di limitare, regolamentare o controllare la circolazione del bene e tantomeno l’utilizzazione dei prodotti marchiati una volta che questi sono usciti dalla sfera della sua disponibilità a seguito di alienazione», ovunque questa alienazione sia avvenuta. Nella dottrina italiana anteriore alla riforma della legge marchi del 1992 a favore del(segue) GIURISPRUDENZA•CONCORRENZA SLEALE È però sin troppo evidente che questa pronuncia è fondata su un equivoco. Come è noto - e come anche la pronuncia in esame spiega diffusamente - l’esaurimento del marchio è un istituto, elaborato dalla giurisprudenza comunitaria, che impedisce al titolare di opporsi all’ulteriore circolazione di prodotti immessi in commercio nella Comunità da lui stesso o con il suo consenso, anche invocando le norme nazionali di Paesi diversi da quello in cui è avvenuta la prima immissione in commercio (art. 5 C.p.i. e art. 13 Regolamento n. 94/40/CE sul marchio comunitario). L’esaurimento tuttavia non si spiega se non a partire dal principio che sta a monte di esso, e cioè quello della limitazione territoriale che caratterizza tutti i diritti di proprietà industriale e quindi anche il diritto di marchio, principio in forza del quale l’esclusiva che ciascuno di essi attribuisce al proprio titolare è limitata territorialmente al Paese (o, in alcuni casi eccezionali, come il marchio Benelux o il marchio comunitario, al gruppo di Paesi) per il quale essa è concessa, cosicché anche quando uno stesso marchio o una stessa invenzione sono protetti in più Paesi, vi sono comunque tanti autonomi diritti quanti sono i Paesi nei quali viene riconosciuta protezione ad un determinato oggetto di privativa. Anche diritti apparentemente sovrannazionali, come il marchio internazionale, previsto dall’Arrangement di Madrid del 1891, che viene registrato presso l’ufficio di Ginevra della Organizzazione Mondiale della Proprietà Intellettuale (OMPI/WIPO), o il brevetto europeo, disciplinato da una convenzione internazionale di origine non comunitaria (la Convenzione sul Brevetto Europeo del 1973) e concesso dall’Ufficio Europeo dei Brevetti avente sede a Monaco di Baviera, si configurano infatti come fasci, rispettivamente, di marchi e di brevetti nazionali relativi ai Paesi designati, in ciascuno dei quali essi sono trattati alla stregua della disciplina interna ivi vigente. Il principio di territorialità pone dunque questi diritti in rotta di collisione con uno dei principî fondamentali del diritto comunitario, e cioè quello della libera circolazione delle merci all’interno della Comunità: è infatti evidente che in base al richiamato principio di territorialità, che governa la materia della proprietà industriale, anche all’interno dell’ambito comunitario ad ogni passaggio di frontiera le merci rischiano di imbattersi in un diritto di proprietà industriale diverso ed autonomo da quello in vigore nel Paese da dove provengono, diritto che, come tale, potrebbe essere invocato per impedirne l’ulteriore circolazione, e quindi diventare strumento per la compartimentazione dei mercati. Questo conflitto è stato affrontato, e risolto, dalla giurisprudenza comunitaria appunto enunciando il principio dell’esaurimento comunitario dei diritti di proprietà industriale (3), la cui base normativa è stata desunta dai Giudici comunitari dall’art. 30 Trattato di Roma (ora art. 28 Trattato CE), a mente del quale «So- no vietate tra gli Stati membri le restrizioni quantitative all’importazione, nonché qualsiasi misura di effetto equivalente». Nella sua lettura più estrema, questo principio doveva operare persino nell’ipotesi in cui il diritto di proprietà industriale parallelo invocato nel Paese d’importazione appartenesse a soggetti distinti e non collegati al titolare del diritto corrispondente in ragione del quale l’esaurimento era invocato: nel noto caso «Hag», la Corte di Giustizia CE si spinse sino al punto di ritenere irrilevante che in vari Paesi europei questo marchio appartenesse a soggetti diversi e indipendenti dall’originario titolare (una società tedesca, le cui aziende in alcuni altri Stati erano state espropriate in seguito alle vicende belliche e cedute forzosamente a terzi), e quindi di negare il diritto del titolare del marchio in uno di questi Paesi di opporsi all’importazione in quel Paese di caffè decaffeinato recante il marchio Hag prodotto in un altro Paese dal titolare locale del medesimo marchio (4). Al fondo di questa soluzione vi era peraltro un fraintendimento: nel momento in cui uno stesso segno appartiene a soggetti diversi in Paesi diversi, infatti, non abbiamo più un unico marchio, ma una pluralità di marchi diversi, ciascuno dei quali informa il pubblico della titolarità dell’esclusiva in quello Stato in capo a un soggetto diverso: cosicché fa difetto lo stesso presupposto perché possa operare il principio dell’esaurimento. E infatti la stessa Corte di Giustizia, con un clamoroso revirement, reso ancora più evidente dal fatto che anche la nuova decisione riguardava il marchio Hag, riconobbe l’inapplicabilità dell’esaurimento a situazioni di questo genere (5), precisando anzi che a tal fine era irrilevante che la cessione del diritto di proprietà industriale «per Stati» fosse avvenuta forzosamente (come appunto era successo nel caso Hag) ovvero che ad essa l’originario titolare si fosse determinato liberamente (6): tutto ciò col solo limite che il diritto non venisse invocato proprio con la finalità di compartimentare i mercati (7). Note: (segue nota 2) l’estensione dell’esaurimento alle merci extracomunitarie si era espresso con particolare convinzione Auteri, Territorialità del diritto di marchio e circolazione di prodotti «originali», Milano, 1973, 69 ss., e più di recente Musso, Tre recenti provvedimenti giurisprudenziali, cit. (3) Si veda, con particolare chiarezza, la sentenza resa dalla Corte di Giustizia CE nel caso Centrafarm/Winthrop: Corte di Giustizia CE 31 ottobre 1974, in Giur. ann. dir. ind., 1974, 1480 ss. e in Racc., 1974, 1183 ss. (4)Corte di Giustizia CE 3 luglio 1974, in Giur. ann. dir. ind., 1974, 1457 ss. e in Racc., 1974, 1457 ss. (5) Corte di Giustizia CE 17 ottobre 1990, causa C-10/89 («Hag 2»), in Giur. ann. dir. ind., 1991, 844 ss. (6) Corte di Giustizia CE 22 giugno 1994, causa C-9/93 («Ideal Standard»), in Giur. ann. dir. ind., 1994, 1127 ss. (7) Emblematico di quest’uso strumentale dei diritti della proprietà industriale è la fattispecie che ha dato origine alla celebre pronuncia di Corte di Giustizia CE 11 luglio 1966, cause riunite C-56/64 e C-58/64. («Grundig/Consten»). IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 367 GIURISPRUDENZA•CONCORRENZA SLEALE Come criterio per stabilire quando possano ritenersi giustificati divieti e restrizioni all’importazione derivanti da diritti di proprietà industriale e commerciale (8), la giurisprudenza della Corte di Giustizia CE ha fatto riferimento alla nozione di «oggetto specifico» del diritto, considerando giustificati questi divieti e restrizioni appunto in quanto fossero conformi a tale oggetto specifico, e non giustificati quelli che, viceversa, andassero oltre tale oggetto. Anche in questo caso la base normativa per questa interpretazione era rinvenuta nel Trattato di Roma, e precisamente nel suo art. 36 (ora art. 30 Trattato CE), in base al quale i divieti di restrizioni all’importazione previsti dalle norme precedenti lasciavano comunque impregiudicati i divieti giustificati, tra l’altro, da motivi di «tutela della proprietà industriale e commerciale». In base al criterio dell’oggetto specifico della tutela, la giurisprudenza della Corte di Giustizia comunitaria ha invece riconosciuto, in particolare proprio in materia di marchi, che il titolare può impedire le importazioni parallele di prodotti originali all’interno della Comunità (e dello Spazio Economico Europeo), in presenza di «motivi legittimi», tra cui il più importante è l’alterazione dello stato dei prodotti (9), ovviamente quando tale alterazione sia stata apportata da terzi senza un consenso del titolare del diritto. Proprio in base al criterio sopra indicato, la Corte di Giustizia ha ritenuto che si debba trattare di modifiche o alterazioni rilevanti nella prospettiva del pubblico, escludendo che siano tali quelle invece che concernono la sola confezione, senza ripercussioni sul prodotto stesso, a condizione, tuttavia, che il pubblico sia espressamente avvertito del fatto che la modifica della confezione è opera dell’importatore (10). Che lo scopo, ma anche la giustificazione, dell’intervento del diritto comunitario in questa materia fosse quello della costruzione del mercato unico è però reso evidente, proprio in relazione all’esaurimento, dal rifiuto di ammettere la liceità delle importazioni parallele di prodotti originali da Paesi extracomunitari, e cioè di riconoscere il cosiddetto esaurimento «internazionale» (11); espressamente in tal senso si è espressa anche la Corte di Giustizia CE, che in materia di marchi ha anzi ritenuto illegittime, per contrasto con l’art. 7 Direttiva n. 89/104/CE le eventuali norme nazionali che prevedano questo esaurimento «internazionale» (12). In particolare, la Corte ha chiarito che il principio dell’esaurimento non trova applicazione nel caso in cui la prima messa in commercio dei prodotti recanti il marNote: (8) Sul punto si veda sempre Corte di Giustizia CE 17 ottobre 1990, causa C-10/89 («Hag 2»), cit. (9) In tal senso si vedano in particolare Corte di Giustizia CE 23 maggio 1978, in Giur. ann. dir. ind., 1978, 814 e Corte di Giustizia CE 3 dicembre 1981, ivi, 1982, 703 ss. Particolare interesse riveste in questa prospettiva l’uso pubblicitario del marchio: sempre la Corte di Giustizia CE, infatti, ha affermato in termini generali che «qualora vengano immessi sul mercato comunitario prodotti contrassegnati con un marchio 368 IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 dal titolare stesso del marchio o con il suo consenso, il rivenditore ha, oltre alla facoltà di mettere in vendita tali prodotti, anche quella di usare il marchio per promuovere l’ulteriore commercializzazione dei prodotti stessi» (Corte di Giustizia CE 4 novembre 1997, causa C-337/95, Dior/Evora), cioè gli è consentito di utilizzare il marchio nella pubblicità di questi prodotti; la stessa sentenza richiamata da ultimo ha tuttavia rilevato che la facoltà di uso pubblicitario del marchio riconosciuta al rivenditore che abbia acquistato prodotti originali immessi in commercio dal titolare o con il suo consenso in ambito comunitario non è senza limiti: i Giudici comunitari, infatti, dopo avere richiamato con approvazione l’insegnamento generale per cui «il pregiudizio arrecato alla reputazione del marchio può costituire, in via di principio, un motivo legittimo, ai sensi dell’art. 7, n. 2, Direttiva, perché il titolare si opponga all’ulteriore commercializzazione dei prodotti messi in commercio nella Comunità dal titolare stesso o con il suo consenso», hanno affermato che «nel caso in cui un rivenditore utilizzi un marchio per promuovere l’ulteriore commercializzazione di prodotti contrassegnati col marchio stesso, deve essere contemperato l’interesse legittimo del titolare del marchio, ad essere tutelato contro i dettaglianti che facciano uso del suo marchio a fini pubblicitari avvalendosi di modalità che potrebbero nuocere alla reputazione del marchio stesso, con l’interesse del dettagliante a poter mettere in vendita i prodotti in questione avvalendosi delle modalità pubblicitario correnti nel suo settore di attività», cosicché in particolare, in caso di prodotti di lusso (nel caso di specie si trattava di prodotti a marchio Dior), il dettagliante deve «adoperarsi per evitare che la sua pubblicità comprometta il valore del marchio, danneggiando lo stile e l’immagine di prestigio dei prodotti in oggetto nonché l’aura di lusso che li circonda»: pur aggiungendo che di per sé «il fatto che un rivenditore, il quale commercia abitualmente con articoli della medesima natura ma non necessariamente della medesima qualità, utilizzi per prodotti contrassegnati con il marchio modalità pubblicitarie che sono correnti nel suo settore di attività pur non corrispondendo a quelle utilizzate dal titolare stesso e dai suoi distributori autorizzati non costituisce un motivo legittimo, ai sensi dell’art. 7, n. 2, Direttiva, che consenta al titolare di opporsi a tale pubblicità, a meno che non venga dimostrato, alla luce delle circostanze di ciascun caso di specie, che l’uso del marchio fatto dal rivenditore a fini pubblicitari nuoce gravemente alla reputazione del marchio stesso»; ipotesi quest’ultima che la Corte di giustizia esemplificava scrivendo che «Un grave pregiudizio del genere potrebbe intervenire qualora il rivenditore non avesse avuto cura, nell’opuscolo pubblicitario da lui diffuso, di evitare di collocare il marchio in un contesto che rischierebbe di svilire fortemente l’immagine che il titolare è riuscito a creare attorno al suo marchio» (Corte di Giustizia CE 4 novembre 1997, cit., punti 43-47 della decisione). (10) Si veda al riguardo in particolare Corte di Giustizia CE 11 luglio 1996, in Giur. ann. dir. ind., 1996, 1255 ss., che disciplina minutamente le ipotesi di legittimità del riconfezionamento; in senso analogo cfr. anche Corte di Giustizia CE 11 novembre 1997, ivi, 1998, 1205 ss. Agli insegnamenti della Corte di Giustizia si dovrà egualmente far capo per determinare il significato del «consenso» del titolare del marchio contemplato in questa norma, che verosimilmente potrà anche essere tacito: così espressamente Minervini, Esaurimento del marchio, comunitario e no (note in margine al nuovo testo della legge marchi), cit., 4-5, dove richiama in tal senso Vanzetti, Sulla sentenza HAG 2, in Giur. comm., 1991, II, 536 ss. (a 541) e ricorda uno spunto testuale contenuto appunto nella sentenza Hag 2 (Corte di Giustizia CE 17 ottobre 1990, ivi, 1990, 531ss. e in Giur. ann. dir. ind., 1991, 833 ss.). (11) In argomento, oltre agli autori già citati, si veda ampiamente Sani, Le importazioni parallele extracomunitarie e il valore del marchio, in AA.VV., Il futuro dei marchi e le sfide della globalizzazione, a cura di Galli, Padova, 2002, 79 ss., dove vengono attentamente analizzate anche le implicazioni economiche della scelta pro o contro l’esaurimento internazionale del marchio. (12) Corte di Giustizia CE 16 luglio 1998, in Giur. ann. dir. ind., 1998, 1228 ss. Nella giurisprudenza successiva alla riforma del 1992 hanno escluso espressamente la rilevanza dell’esaurimento extracomunitario App. Milano 22 luglio 1994, ivi, 1995, 537 ss.; Trib. Bologna 21 agosto 1995 (ord.), ivi, 1212 ss.; Trib. Milano 20 novembre 1995, ivi, 1996, 501 ss.; Trib. Treviso 20 marzo 1996, ivi, 722; App. Milano 11 ottobre 1996, ivi, 1997, 395 ss. GIURISPRUDENZA•CONCORRENZA SLEALE chio dal titolare o con il suo consenso sia avvenuta fuori dell’Unione Europea o dello Spazio Economico Europeo, a meno che la volontà del titolare del marchio di consentire l’ulteriore circolazione dei prodotti nel territorio della UE o del SEE sia espressa, oppure sia «desumibile da elementi o circostanze anteriori, concomitanti o posteriori all’immissione in commercio al di fuori dello Spazio economico europeo, le quali, valutate dal giudice nazionale, esprimano con certezza una rinuncia del titolare al proprio diritto di opporsi a un’immissione in commercio all’interno dello Spazio economico europeo» (13). In modo eguale e contrario, più di recente sempre la Corte di Giustizia comunitaria ha da un lato escluso che la semplice offerta in vendita non seguita dalla vendita effettiva nel territorio dello Spazio Economico Europeo comporti l’esaurimento del diritto di marchio, in quanto tale condotta non consente al titolare del diritto di «realizzare il valore economico del marchio», cosicché «anche successivamente a tali atti, il titolare conserva il proprio interesse al mantenimento di un controllo completo dei prodotti contrassegnati dal marchio al fine, in particolare, di garantirne la qualità» (punti 36-44 della decisione); e dall’altro lato ha rilevato che l’esaurimento opera ipso facto per effetto della vendita, cosicché «l’eventuale stipulazione, nell’atto di vendita che realizza la prima immissione in commercio nel SEE, di restrizioni territoriali al diritto di rivendita dei prodotti concerne solamente i rapporti tra le parti contraenti» e «non può ostare all’esaurimento previsto dalla direttiva» (punti 50-55 della decisione) (14). In un’altra sentenza la Corte ha considerato l’ipotesi di merci recanti il marchio originale apposto in Paesi extracomunitari che vengano immesse nel territorio doganale comunitario in regime di transito esterno o di deposito doganale ed ha escluso che ciò sia equiparabile alla «prima immissione sul mercato nella Comunità dei prodotti contrassegnati dal marchio», che il titolare del marchio ha diritto di vietare, affermando che «La “importazione” ai sensi degli artt. 5, n. 3, lett. c), della Direttiva e 9, n. 2, lett. c), del regolamento, alla quale il titolare del marchio può opporsi laddove essa implichi “uso [del marchio] nel commercio” ai sensi del n. 1 di ciascuno dei detti articoli, presuppone (…) l’introduzione dei prodotti nella Comunità al fine di essere ivi immessi in commercio» (punti 33 e 34 della decisione) (15). L’elemento determinante per stabilire se un prodotto può beneficiare o meno dell’esaurimento è dunque il consenso del titolare alla sua immissione in commercio nell’ambito del territorio comunitario. E così come la presenza di questo consenso determina ipso facto l’operare dell’esaurimento, a prescindere dagli eventuali accordi contrattuali esistenti tra le parti, allo stesso modo la sua assenza fa sì che non ci troviamo di fronte a prodotti originali: ciò discende de plano proprio dal principio di territorialità da cui abbiamo preso le mosse (ed al quale l’esaurimento, come pure abbiamo visto, costituisce una deroga), per effetto del quale il prodotto originale di provenienza extracomunitaria reca bensì un marchio identico a quello del soggetto che è titolare del marchio nel Paese comunitario di destinazione, ed un marchio che, in ipotesi, appartiene al medesimo titolare, ma che è tuttavia diverso da quello in un suo elemento fondamentale, qual è appunto l’ambito territoriale entro il quale esso è destinato a produrre i suoi effetti; e diverso essendo sotto questo profilo il diritto di marchio che compete al titolare (in ipotesi il medesimo) in questi due diversi ambiti territoriali, non si può dire che esso sia «esaurito» nel Paese di destinazione delle merci per il fatto che lo è nel Paese (extracomunitario) di prima commercializzazione. Sotto questo profilo ci troviamo cioè di fronte ad una situazione che è del tutto identica a quella che ricorre nelle fattispecie di cosiddetta overproduction, ossia quando un terzista realizza i prodotti a marchio in un quantitativo superiore a quello autorizzato dal titolare di esso, immettendo quindi in circolazione dei prodotti assolutamente identici a quelli originali e indistinguibili da essi, che però non sono originali, appunto in quanto manca il consenso del titolare: ed anche in quest’ipotesi non si dubita del carattere contraffattorio di questi prodotti. Principio cardine del diritto dei marchi, costantemente ribadito dalla giurisprudenza comunitaria oltre che da quella nazionale, è infatti quello secondo cui sono da considerarsi prodotti non contraffattorî esclusivamente quelli posti in commercio con il consenso del titolare, consenso che nell’ipotesi qui considerata manca per i quantitativi realizzati oltre il limite prescritto, seppur da un soggetto che produce per conto del titolare; appunto su questa base si è risolto il problema, del tutto analogo a quello qui considerato, che si pone «quando il prodotto recante il marchio è stato messo in commercio senza il consenso del titolare, per esempio nel caso di prodotti originali rubati o posti in commercio da un ex licenziatario, contro la volontà del titolare», giungendo all’esatta conclusione che anche «in questa ipotesi (…) il terzo acquirente dovrebbe essere qualificato come contraffattore, così come l’ex licenziatario» (16), per il quale del resto opera anche un’altra norma espressa che ha il suo fondamento nel principio generale sopra richiamato, e cioè l’art. 23, comma 3, C.p.i., che prevede che «il titolare del marchio d’impresa può far valere il diritto all’uso esclusivo del marchio stesso contro il licenziatario che violi le disposizioni del contratto di licenza». Note: (13) Corte di Giustizia CE 20 novembre 2001, cause riunite C-414/99, C-415/99 e C-416/99, Zino Davidoff, in Foro it., 2002, IV, 7 ss., con nota di Bastianon. (14) Corte di Giustizia CE 30 novembre 2004, causa C-16/03. (15) Corte di Giustizia CE 18 ottobre 2005, causa C-405/03. (16) Così espressamente Sena, Il diritto dei marchi. Marchio nazionale e marchio comunitario, Milano, 2007, 142. IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 369 GIURISPRUDENZA•CONCORRENZA SLEALE A rigore, non è dunque nemmeno esatto quanto scrive la sentenza qui in esame, là dove nega l’applicabilità del diritto dei marchi alla fattispecie da essa considerata, perché non vi sarebbe qui alcun pericolo di confusione, appunto in quanto i prodotti di origine extracomunitaria immessi sul mercato dall’importatore parallelo sarebbero originali: tutto all’apposto, essi sono indistinguibili dagli originali, ma originali non sono, e quindi chi li acquista, persuaso di acquistare un prodotto immesso sul mercato col consenso del titolare, è certamente indotto in confusione ed ingannato relativamente ad una caratteristica essenziale del prodotto. Anzi, l’importazione parallela extracomunitaria è - esattamente come l’overproduction - una forma di contraffazione particolarmente insidiosa, forse la più insidiosa di tutte, proprio in quanto i prodotti realizzati sono perfettamente corrispondenti agli originali, essendo provenienti dalla stessa fonte e realizzati secondo il medesimo know-how. Non senza dire che, proprio in quanto nel caso delle importazioni parallele si tratta di un marchio identico a quello originale utilizzato per prodotti identici a quelli per i quali esso è stato registrato, oggi non vi sarebbe neppure bisogno di configurare l’esistenza di un pericolo di confusione di cui all’art. 20, comma 1, lett. b) C.p.i. e all’art. 9.1.b Regolamento n. 94/40/CE sul marchio comunitario (o, nel caso di marchio che gode di rinomanza, dell’ipotesi alternativa di indebito vantaggio-pregiudizio della lett. c) perché sussista la contraffazione, potendo essere invocata la disposizione della lettera a delle medesime norme: disposizione che nel caso di specie non veniva in considerazione solo perché la fattispecie che ha dato origine alla decisione della Corte di legittimità risaliva al 1995 e quindi era anteriore all’introduzione di tale norma nel nostro ordinamento, avvenuta solo in occasione dell’attuazione del TRIPs Agreement, con il D.Lgs. 19 marzo 1996, n. 198. Nella giurisprudenza comunitaria uno spunto in tal senso si può rinvenire già nella sentenza della Corte di Giustizia del 1998 resa nel caso «Silhouette» e relativa all’interpretazione pregiudiziale dell’art. 7.1 Direttiva n. 89/104/CE, che ha riconosciuto che «è innegabile che la direttiva obbliga gli Stati membri ad emanare disposizioni in base alle quali il titolare di un marchio, in caso di violazione dei propri diritti, abbia la facoltà di ottenere che venga inibito ai terzi l’uso del marchio», precisando che «detto obbligo discende dall’art. 5 della direttiva», cioè dalla norma che disciplina l’ambito di protezione del marchio, ed osservando che nel caso di specie (una rimessione operata dall’Oberster Gerichtshof austriaco) il problema si poneva in quanto «il Markenschutzgesetz (la legge austriaca in materia di protezione dei marchi: n.d.r.) non disciplina alcuna azione inibitoria e non contiene neppure disposizioni corrispondenti all’art. 5, n. 1, lett. a) della direttiva», cosicché in tale ordinamento la protezione inibitoria poteva essere ottenuta solo sulla base delle norme austriache in materia di concorrenza sleale «la cui applicazione presuppone 370 IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 in rischio di confusione, rischio che non esiste qualora si tratti di prodotti originali del titolare del marchio» (17). Si potrebbe pensare che nel nostro ordinamento la questione dell’inquadramento delle importazioni parallele extracomunitarie nell’ambito della contraffazione di marchio, ovvero in quello della concorrenza sleale assuma un rilievo sostanzialmente accademico, posto che in entrambi i casi verrebbe riconosciuta l’illiceità della fattispecie e che dal principio iura novit curia - oggetto proprio della prima massima della sentenza annotata - deriva che la scelta della qualificazione giuridica della fattispecie è comunque rimessa al giudice. In realtà ciò è vero solo in parte. Anzitutto l’applicazione delle norme in materia di concorrenza sleale presuppone, secondo la nostra giurisprudenza e la dottrina prevalente, un rapporto di concorrenza, che non è così scontato almeno in tutti i casi in cui il titolare del marchio non è imprenditore (e dal 1992 ben sappiamo che ciò può avvenire), cosicché in questi casi potrebbe essere opportuno far agire il licenziatario, e la stessa competenza a conoscere dell’illecito potrebbe essere sindacata, anche se in questo caso ritengo che, se pur si volesse seguire l’impostazione della sentenza qui in esame, ci si trovi senz’altro di fronte a un caso di concorrenza sleale «interferente». In ogni caso, poi, l’apparato sanzionatorio previsto in materia di concorrenza sleale è molto più scarno di quello apprestato dal Codice, cosicché per il titolare del marchio la posizione sarebbe considerevolmente ed ingiustificatamente deteriore. E dunque la soluzione adottata dalla Corte di legittimità sul punto merita senz’altro di essere ripensata. Sostanzialmente corrette appaiono invece quasi tutte le altre affermazioni di diritto oggetto delle residue massime della sentenza qui annotata. Del tema della qualificazione giuridica della fattispecie, che spetta al Giudice, senza che possa ritenersi vincolante la qualificazione effettuata dalla parte (massima 1) si è già detto. Intuitivamente esatta è anche l’affermazione (massima 3) secondo cui spetta al Giudice delimitare l’ambito dell’inibitoria pronunciata (in questo caso in base all’art. 2599 c.c., ma non diversamente in applicazione Nota: (17) Corte di Giustizia CE 16 luglio 1998, cit., punti 35 e 33 della motivazione. Va peraltro osservato che in alcune recenti sentenze la Corte di Giustizia comunitaria sembra richiedere che anche in questa ipotesi l’uso del terzo interferisca concretamente con le funzioni giuridicamente tutelate del marchio anche nell’ipotesi contemplata dall’art. 5, comma 1, Direttiva n. 89/104/CE, affermando (discutibilmente, data la formulazione della norma) che l’uso di un segno identico al marchio per prodotti o servizi identici è vietato «solo se pregiudica o è idoneo a pregiudicare le funzioni del detto marchio e in particolare la sua funzione essenziale, che è di garantire ai consumatori l’origine dei prodotti o dei servizi»: così in particolare Corte di Giustizia CE 11 settembre 2007, causa C-17/06 Céline, punto 26 della decisione. Per l’analisi più dettagliata delle linee di tendenza della giurisprudenza comunitaria in materia di protezione del marchio rimando a Galli, I marchi nella prospettiva del diritto comunitario: dal diritto dei segni distintivi al diritto della comunicazione d’impresa, in AIDA, 2007. GIURISPRUDENZA•CONCORRENZA SLEALE dell’art. 124 C.p.i.); è anzi significativo che in relazione a questo punto (l’unico sul quale il ricorso sia stato accolto, con rinvio ad altra Sezione della Corte remittente) i Giudici abbiano ritenuto assorbita l’ulteriore censura inerente la mancata previsione di una penale, implicitamente ritenendone possibile la pronuncia anche in materia di concorrenza sleale. All’interpretazione della volontà della parte, nell’ambito del principio dispositivo che informa il processo civile, è dedicata la quarta massima, che sottolinea come la richiesta di liquidazione equitativa dei danni produca l’effetto di non vincolare il Giudice ad un importo preciso indicato nelle conclusioni. Infine, la quinta massima ribadisce l’insegnamento costante della Corte regolatrice sulla rigorosa interpretazione del principio dell’autosufficienza del ricorso per cassazione, anche in relazione alla denuncia di un error in procedendo, come l’omessa pronuncia su di una domanda o eccezione (18). Note: (18) Nello stesso senso, oltre alle pronunce richiamate in motivazione, si possono ricordare ad esempio Cass. 16 aprile 2003, n. 6055, in Giust. civ. Mass., 2003; e Cass. 11 gennaio 2002, n. 317, ivi, 2002. IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 371 NORMATIVA•PROPRIETA’ INTELLETTUALE Lotta alla contraffazione Le nuove disposizioni in materia di tutela penale dei diritti di proprietà industriale Gli artt. 10 - 13 del Disegno di legge 2 luglio 2008, n. C-1441 propongono la realizzazione di urgenti e mirati interventi di modifica al Codice penale e al Codice della proprietà industriale, nonché l’introduzione di disposizioni a tutela della proprietà industriale. ll disegno di legge è preordinato altresì a fornire una risposta esauriente in materia di contraffazione e di distruzione di beni contraffatti, in particolare, attraverso l’introduzione di nuove misure per le indagini sulla contraffazione e di variazioni alla disciplina sanzionatoria del consumatore consapevole. DISEGNO DI LEGGE 2 luglio 2008, n. C-1441 Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria Titolo I Sviluppo economico, semplificazione e competitività Capo I Impresa (Omissis) Art. 10 (Tutela dei diritti di proprietà industriale) 1. Al codice penale sono apportate le seguenti modifiche: a) l’articolo 473 è sostituito dal seguente: «Articolo 473 (Contraffazione, alterazione o uso di marchi, segni distintivi. Usurpazione di brevetti, modelli e disegni). Chiunque contraffà o altera marchi o segni distintivi, nazionali o esteri, di prodotti industriali, ovvero, senza essere concorso nella contraffazione o alterazione, fa uso di tali marchi o segni contraffatti o alterati è punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da euro 1.000 ad euro 6.000. Alla stessa pena soggiace chi riproduce prodotti industriali usurpando i diritti di proprietà industriale protetti da brevetti, disegni o modelli, ovvero, senza essere concorso nella usurpazione, ne fa altrimenti uso. Le disposizioni precedenti si applicano sin dal momento del deposito delle relative domande di registrazione o di brevettazione, sempre che siano state osservate le norme delle leggi interne, dei regolamenti comunitari e delle convenzioni internazionali rispettivamente applicabili. b) l’articolo 474 è sostituito dal seguente: «Articolo 474 (Introduzione nello Stato e commercio di prodotti con segni falsi o usurpativi). Chiunque, fuori dei casi di concorso nei delitti previsti dall’articolo precedente, introduce nel territorio dello Stato, al fine di trarne profitto, prodotti industriali con marchi od altri segni distintivi, nazionali o esteri, contraffatti o alterati ovvero prodotti industriali realizzati usurpando i diritti di proprietà industriale protetti da brevetti, disegni o modelli industriali, è punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da euro 1.000 ad euro 6.000. Fuori dai casi di concorso nella contraffazione, alterazione, usurpazione o introduzione nel territorio dello Stato, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa fino a euro 3.000, chiunque detiene per la vendita, pone in vendita o mette altrimenti in circolazione la merce di cui al comma precedente. Si applica la disposizione del terzo comma dell’articolo 473 del codice penale.». c) dopo l’articolo 474 del codice penale è inserito il seguente articolo: «474-bis (Aggravante specifica). La pena è della reclusione da due a otto anni, e della multa da euro 3.000 a euro 15.000, se i fatti previsti dagli articoli 473, primo e secondo comma, e dell’articolo 474, primo comma, del codice penale sono commessi su ingenti quantità di merci, ovvero, fuori dai casi di cui all’articolo 416, attraverso l’allestimento di mezzi nonché di attività continuative ed organizzate»; d) Dopo l’articolo 474-bis del codice penale è inserito il seguente articolo: «474-ter (Confisca). IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 373 NORMATIVA•PROPRIETA’ INTELLETTUALE Nei casi di cui agli articoli 473, primo e secondo comma, e 474, primo comma, del codice penale, è sempre ordinata la confisca delle cose che sono servite e sono state destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono l’oggetto, il prodotto o il profitto, a chiunque appartenenti. Quando non è possibile eseguire il provvedimento di cui al primo comma, il giudice ordina la confisca di beni di cui il reo ha la disponibilità per un valore corrispondente al profitto. Si applicano le disposizioni dell’articolo 240 del codice penale se si tratta di cose che sono servite o sono state destinate a commettere il reato appartenenti a persona estranea, qualora questa dimostri di non averne potuto prevedere l’illecito impiego, anche occasionale, e di non essere incorsa in un difetto di vigilanza. Le disposizioni del presente articolo si osservano anche nel caso di applicazione della pena su richiesta delle parti a norma del titolo II del libro VI del codice di procedura penale. e) All’articolo 517, le parole: «fino a un anno o» sono sostituite dalle seguenti: «fino a due anni e»; f) Dopo l’art. 517-bis del codice penale è inserito il seguente articolo: «Art. 517-ter (Contraffazione di indicazioni dei prodotti agroalimentari) Chiunque contraffà indicazioni geografiche o denominazioni di origine di prodotti agroalimentari tutelate ai sensi di leggi speciali, regolamenti comunitari e convenzioni internazionali è punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da euro 1.000 a euro 6.000. Alla stessa pena soggiace chi, al fine di trarne profitto, introduce i medesimi prodotti con le indicazioni o denominazioni contraffatte nel territorio fine di trarne profitto dello Stato. Si applicano le disposizioni di cui al secondo comma dell’art. 517 bis del codice penale. 2. All’articolo 12-sexies, comma 1, del decreto legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, dopo le parole: «416bis», sono aggiunte le seguenti: «473 e 474 del codice penale, aggravate ai sensi dell’articolo 474 - bis del medesimo codice». 3. All’articolo 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale, dopo le parole: «decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43», aggiungere le seguenti: «nonché per i delitti di cui agli articoli 473 e 474 del codice penale, aggravati dall’articolo 474 - bis del medesimo codice». Art. 11 (Beni contraffatti) 1. All’articolo 392 del codice di procedura penale, dopo il comma 2 è aggiunto il seguente: «3. Fuori dai casi previsti dal comma che precede, il pubblico ministero, la persona sottoposta alle indagini e la persona offesa 374 IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 possono chiedere una perizia sui corpi di reato e sulle cose pertinenti al reato sottoposte a sequestro nei procedimenti per i reati previsti dagli artt. 473 e 474, qualora l’entità o la natura dei prodotti sequestrati comportino costi rilevanti per la loro custodia». 2. All’articolo l del decreto-legge 14 marzo 2005 n. 35, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, dopo il comma 8 è inserito il seguente: «8bis. Il pubblico ministero, quando sia stato eseguito l’incidente probatorio ai sensi dell’articolo 392, terzo comma, del codice di procedura penale, provvede immediatamente alla distruzione della merce contraffatta sottoposta a sequestro, ferma restando la conservazione dei campioni sottoposti a perizia. Se la conservazione dei beni in sequestro sia assolutamente necessaria per il prosieguo delle indagini, dispone in tal senso con provvedimento motivato». Art. 12 (Contrasto alla contraffazione) 1. All’articolo 9, comma 1, lettera a), della legge 16 marzo 2006, n. 146, dopo le parole: «in ordine ai delitti previsti dagli articoli», sono inserite le seguenti: «473 e 474, aggravati ai sensi dell’art. 474-bis,». 2. All’articolo 1 del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, convertito con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, dopo il comma 8 aggiungere il seguente: «8-bis. Nelle indagini per i reati di cui all’articolo 473, 474 e 517-ter del codice penale, l’autorità giudiziaria può, con decreto motivato, ritardare l’emissione o disporre che sia ritardata l’esecuzione di misure cautelari, personali e reali quando sia necessario per acquisire maggiori elementi probatori ovvero per l’individuazione dei responsabili. L’autorità giudiziaria impartisce agli organi di polizia le disposizioni per il controllo degli sviluppi dell’attività criminosa. Nei casi di urgenza, le disposizioni possono essere richieste od impartite anche oralmente, ma il relativo provvedimento dovrà essere emesso entro le successive ventiquattro ore». 3. All’articolo l, comma 7, del decreto legge 14 marzo 2005 n. 35, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80 sono apportate le seguenti modificazioni: a) nel primo periodo: 1. le parole «Salvo che il fatto costituisca reato” sono soppresse; 2. le parole “da 500 euro fino a 10.000 euro l’acquisto o l’accettazione, senza averne prima accertata la legittima provenienza,” sono sostituite dalle seguenti: “da 100 euro fino a 7.000 euro l’acquirente finale che acquista’; 3. dopo le parole “diritti di proprietà», la parola “intellettuale” è sostituita dalla seguente: “industriale”; b) nel secondo periodo le parole da “La sanzione di cui al presente comma” sino a “legittima provenienza.” sono soppresse. NORMATIVA•PROPRIETA’ INTELLETTUALE c) nel quinto periodo, prima delle parole «Qualora l’acquisto sia effettuato da un operatore commerciale» sono inserite le seguenti parole: «Salvo che il fatto costituisca reato». Art. 13 (Proprietà industriale) 1. All’articolo 47 del decreto legislativo n. 30/2005 (Codice della proprietà industriale) è aggiunto il seguente comma 4: «4. Per i brevetti di invenzione e modelli di utilità il deposito nazionale in Italia dà luogo al diritto di priorità anche rispetto ad una successiva domanda nazionale depositata in Italia, in relazione ad elementi già contenuti nella domanda di cui si rivendica la priorità.». 2. L’articolo 120, comma 1 del decreto legislativo n. 30/2005 (Codice della proprietà industriale) è modificato nel modo seguente: «1. Le azioni in materia di proprietà industriale i cui titoli sono concessi o in corso di concessione si propongono avanti l’Autorità giudiziaria dello Stato, qualunque sia la cittadinanza, il domicilio e la residenza delle parti. Se l’azione di nullità o quella di contraffazione sono proposte quando il titolo non è stato ancora concesso, la sentenza può essere pronunciata solo dopo che l’Ufficio italiano brevetti e marchi ha provveduto sulla domanda di concessione, esaminandola con precedenza rispetto a domande presentate in data anteriore. Il Giudice, tenuto conto delle circostanze, dispone la sospensione del processo, per una o più volte, fissando con il medesimo provvedimento l’udienza in cui il processo deve proseguire.». 3. All’articolo 239 del decreto legislativo n. 30/2005 (Codice della proprietà industriale), il comma 1 è sostituito dal seguente: «1. La protezione accordata ai disegni e modelli ai sensi dell’articolo 2, comma 1, numero 10, della legge 22 aprile 1941, n. 633, non opera nei soli confronti di coloro che, anteriormente alla data del 19 aprile 2001, hanno intrapreso la fabbricazione, l’offerta o la commercializzazione di prodotti realizzati in conformità con disegni o modelli, che erano oppure erano divenuti di pubblico dominio. L’attività in tal caso può proseguire nei limiti del preuso. I diritti di fabbricazione, di offerta e di commercializzazione non possono essere trasferiti separatamente dall’azienda.». 4. L’art. 3 del decreto del Ministro dello Sviluppo economico 3 ottobre 2007, pubblicato sulla G.U. 26 ottobre 2007, n. 250 è soppresso. 5. Dall’attuazione delle disposizioni del presente articolo non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica. Gli adempimenti previsti dalla presente disposizione sono svolte nell’ambito delle risorse umani, strumentali e finanziarie disponibili a disposizione vigente. 6. Il Governo è delegato ad adottare, entro il 30 di- cembre 2008, secondo le modalità, i criteri ed i principi di cui all’articolo 20 della legge 15 marzo 1997, n. 59, e previo parere delle competenti commissioni parlamentari, disposizioni correttive o integrative del decreto legislativo 10 febbraio 2005 n. 30 recante Codice della proprietà industriale, attenendosi, altresì, ai seguenti criteri: 1) correggere gli errori materiali e i difetti di coordinamento presenti nel Codice; 2) armonizzare la normativa alla disciplina comunitaria ed internazionale in materia di protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche; 3) introdurre strumenti di semplificazione e riduzione degli adempimenti amministrativi; 4) prevedere che in caso di invenzioni realizzate da ricercatori universitari o di altre strutture pubbliche di ricerca l’università o l’amministrazione attui la procedura di brevettazione, acquisendo il relativo diritto sulla invenzione. 7. Dall’attuazione del presente articolo non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica. Gli adempimenti previsti dalla presente disposizione sono svolti nell’ambito delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente. (Omissis) (*) (*) N.d.R.: al momento di andare in stampa il presente provvedimento risulta assegnato alle Commissioni riunite I Affari Costituzionali e V Bilancio dal 9 luglio 2008. IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 375 NORMATIVA•PROPRIETA’ INTELLETTUALE IL COMMENTO di Riccardo Castiglioni Il Disegno di legge n. C-1441 presentato in data 2 luglio 2008, oggetto del commento, è frutto della necessità di avviare un esame delle norme penali in vigore e di proporne una revisione sostanziale e terminologica sulla base di norme proposte dall’Alto Commissario per la Lotta alla Contraffazione. In attesa che il provvedimento concluda il suo iter parlamentare, è comunque possibile avviare alcune riflessioni sulle nuove fattispecie penali e in particolare sulle linee guida che le hanno ispirate, nonché sulle modifiche sostanziali introdotte. Introduzione Il ricorso alle norme penali per la tutela dei diritti di proprietà industriale ha subito un incremento notevole, e in certa misura inaspettato, negli ultimi dieci anni. Le ragioni che hanno dato origine a questo incremento sono molteplici. Anzitutto il crescente coinvolgimento delle organizzazioni criminali, peraltro non necessariamente di stampo mafioso, ha costretto i titolari di diritti di proprietà industriale ad attivare gli strumenti di protezione penale per contrastare in modo efficace il fenomeno. In secondo luogo l’entrata in vigore del Regolamento (CE) n. 3295/94 (1) prima e del Regolamento (CE) n. 1383/03 (2) poi, entrambi in materia di tutela doganale dei diritti di proprietà industriale, hanno incrementato notevolmente il numero di procedimenti penali instaurati avanti le procure della Repubblica. Infine il diretto coinvolgimento delle parent company di società multinazionali nell’attività di tutela dei diritti di proprietà industriali - in precedenza delegati alle branch nazionali -, ha portato nel settore un approccio al problema che necessariamente include il ricorso alla tutela penale dei diritti di proprietà industriale, affiancandola alla tutela accordata ai medesimi diritti in sede civile, che era ed è imprescindibile. Detto questo occorre considerare che, nel nostro Paese, le norme penali applicabili sono estremamente risalenti nel tempo, atteso che il nucleo principale delle fattispecie applicabili risale all’entrata in vigore del codice penale ovvero al 1930. Le norme in oggetto, gli artt. 473, 474, 475 e 517 c.p. non sono mai state oggetto di modifiche o adeguamenti legislativi sostanziali (3). In effetti l’unica fattispecie penale afferente la tutela penale dei diritti di PI di recente introduzione è l’art. 127 D.Lgs. 10 febbraio 2005, naturale evoluzione dell’art. 88 R.D. 29 giugno 1939 n. 1127, che la Commissione di Riforma del Codice della Proprietà Industriale ha riformulato armonizzandone il testo a canoni decisamente più moderni. A queste considerazioni occorre aggiungere che, per converso, il diritto industriale è oggetto da diversi 376 IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 anni di un’incessante e fondamentale opera di armonizzazione in sede comunitario e internazionale e che ciò ha fortemente aumentato il divario terminologico e sostanziale tra i diritti di proprietà industriale e le fattispecie previste e punite dalle norme penali che tali diritti dovrebbero proteggere. Le linee guida della riforma Le norme proposte rispondono sostanzialmente a quattro linee di intervento identificate dall’Alto Commissario, anche di concerto con i due tavoli istituzionali permanenti insediati presso lo stesso Alto Commissario: il tavolo delle istituzioni private (di cui fanno parte, sostanzialmente, associazioni di categoria del mondo industriale e del commercio, sindacati e associazioni a tutela dei consumatori) e quello delle istituzioni pubbliche, che raccoglie gli esponenti di tutti gli Uffici che si occupano, direttamente od indirettamente, dei reati di contraffazione e, più in generale, della tutela della proprietà industriale, dall’Agenzia delle Dogane alla Guardia di Finanza, dalla Direzione Nazionale Antimafia all’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi (4). In particolare l’intervento normativo risponde all’esigenza di: a) Introdurre nuove fattispecie penali, maggiormente coordinate con la terminologia e gli istituti civilistici; b) Rafforzare gli strumenti di indagine da impiegare per contrastare i reati di contraffazione; c) Modificare la norma che sanziona in via amministrativa l’acquirente finale; d) Consentire la distruzione delle merci contraffatte già sottoposte a sequestro penale, anche prima del passaggio in giudicato della sentenza, predisponendo adeguate garanzie per la prosecuzione del processo. Note: (1) Regolamento (CE), del Consiglio del 22 dicembre 1994, n. 3295/94 così come modificato dal Regolamento (CE) n. 241/99, che fissa misure riguardanti l’introduzione nella Comunità, l’esportazione e la riesportazione dalla Comunità di merci che violano taluni diritti di proprietà intellettuale». (2) Regolamento (CE) del Consiglio 22 luglio 2003, n. 1383/2003 relativo all’intervento dell’autorità doganale nei confronti di merci sospettate di violare taluni diritti di proprietà intellettuale e alle misure da adottare nei confronti di merci che violano tali diritti. (3) Se si eccettua un aumento della pena pecuniaria dell’art. 517, da 512 a 20.000 euro introdotto con il Decreto Competitività del novembre 2005, funzionale più all’uso di questa fattispecie in materia di tutela penale del “Made in Italy”, piuttosto che nell’ambito dei diritti di PI. (4) L’elenco delle istituzioni pubbliche e private che partecipano ai tavoli permanenti creati dall’Alto Commissario per la Lotta alla Contraffazione è presente sul sito istituzionale al link: www.aclc.gov.it/page/000069/tavoli-permanenti.aspx. NORMATIVA•PROPRIETA’ INTELLETTUALE Le norme nel dettaglio. Gli artt. 473 e 474 c.p. Come è intuibile le modifiche più sostanziali hanno riguardato il comma 2 dell’art. 473 e l’art. 474 c.p. Le nuove fattispecie si muovono nel solco delle condotte già previste in precedenza, al fine di evitare vuoti normativi e assicurare continuità tra le condotte penalmente rilevanti. Sostanzialmente per questa ragione la norma “conserva” una fattispecie che, a memoria d’uomo, non ha mai trovato applicazione, ovvero l’uso dei marchi o segni distintivi. Tuttavia nel riformulare le condotte si è tenuto conto della sostanziale differenza che intercorre tra la violazione dei marchi e degli altri segni distintivi e la violazione dei brevetti e dei disegni modelli. Da tempo oramai era chiaramente emersa la difficoltà per gli operatori del settore di configurare la “contraffazione o alterazione” di brevetti e modelli, previste dal comma 2 dell’art. 473 c.p. mentre le medesime condotte sono applicabili in modo intuibile ai marchi e segni distintivi. Vi era quindi la necessità di adeguare la terminologia delle norme penali alle definizioni previste dai TRIPS e, più in particolare, dal Regolamento n. 1383/2003 (5), ove è chiarissima la distinzione tra le condotte di contraffazione (di marchi) l’usurpazione (di disegni e modelli) e la violazione (di brevetti). Ad onor del vero il comma 2 dell’art. 473 riferisce la condotta di usurpazione sia ai disegni modelli, sia ai brevetti, non rispettando esattamente la distinzione introdotta dal Regolamento (CE) n. 1383/2003 e tuttavia l’enorme passo in avanti in termini di chiarezza della norma e risoluzione delle difficoltà interpretative è evidente. È ben noto infatti che al comma 2 dell’art. 473 vigente, la dottrina ha sempre attribuito un’interpretazione che ne ha sostanzialmente limitato la piena applicazione. Ci si riferisce all’opinione secondo la quale la norma punirebbe il solo falso documentale del brevetto - inteso come riproduzione cartacea del titolo - e non l’usurpazione del principio innovativo in quanto tale. Questa interpretazione, risalente nel tempo per quanto riguarda la dottrina, è stata di recente ripresa e avallata dalla Corte di Cassazione. Non è questa la sede per approfondire se tale orientamento sia condivisibile o meno. Basti evidenziare che il nuovo disposto normativo riconduce l’applicabilità della sanzione penale all’usurpazione del diritto di proprietà industriale, eliminando ogni possibilità di equivoco. Anche nel testo dell’art. 474 sono state introdotte delle modifiche sostanziali, intese ad adeguare tanto la terminologia, quanto le condotte previste. La norma in oggetto, nel testo vigente, è certamente un capolavoro di tecnica legislativa, anche per la lungimiranza con cui il legislatore del 1930 ha strutturato la fattispecie. La norma vigente sostanzialmente prevede e punisce tutte le condotte successive alla produzione di marchi contraffatti: l’introduzione nello Stato per farne commercio è l’ipotesi principale, ma anche qualora manchi il fine di commercio è sanzionato ogni passaggio precedente o propedeutico a tale fine: la detenzione per vendere, la messa in vendita, la messa in circolazione (quindi senza fine di commercio) dei beni contraddistinti da marchi o segni distintivi contraffatti o alterati. Tuttavia il vero limite, letterale e quindi insuperabile, consiste nell’applicabilità della norma ai soli marchi, sicché le medesime condotte poste in essere in violazione di modelli sono perseguibili solo con l’art. 127 D.Lgs. 10 febbraio 2005, n. 30, ovvero includendole nella condotta di “uso” prevista dal comma 2 dell’art. 473, con buona pace del principio del divieto di applicazione analogica e comunque ampliando pericolosamente l’ambito della norma. In realtà la trasformazione dell’art. 474 opera su più livelli. Da un lato la norma amplia la sua portata, sanzionando non solo le condotte descritte, riferite ai marchi e segni distintivi, ma altresì ai brevetti, disegni e modelli. Sotto un diverso profilo il nuovo testo scinde le condotte di introduzione nello Stato al fine di trarne profitto dalla detenzione per la vendita, la messa in vendita e la messa in circolazione, punendo la prima conNota: (5) Regolamento del Consiglio Ce 22 luglio 2003, n. 1383/2003 relativo all’intervento dell’autorità doganale nei confronti di merci sospettate di violare taluni diritti di proprietà intellettuale e alle misure da adottare nei confronti di merci che violano tali diritti: Articolo 2 - 1. Ai fini del presente Regolamento, per «merci che violano un diritto di proprietà intellettuale», si intendono: a) le «merci contraffatte», vale a dire: i) le merci, compreso il loro imballaggio, su cui sia stato apposto senza autorizzazione un marchio di fabbrica o di commercio identico a quello validamente registrato per gli stessi tipi di merci, o che non possa essere distinto nei suoi aspetti essenziali da tale marchio di fabbrica o di commercio e che pertanto violi i diritti del titolare del marchio in questione ai sensi della normativa comunitaria, quali previsti dal Regolamento (CE) n. 40/94 del Consiglio, del 20 dicembre 1993, sul marchio comunitario o ai sensi della legislazione dello Stato membro in cui è presentata la domanda per l’intervento delle autorità doganali; ii) qualsiasi segno distintivo (compresi logo, etichetta, autoadesivo, opuscolo, foglietto illustrativo o documento di garanzia in cui figuri tale segno), anche presentato separatamente, che si trovi nella stessa situazione delle merci di cui al punto i); iii) gli imballaggi recanti marchi delle merci contraffatte presentati separatamente, che si trovino nella stessa situazione delle merci di cui al punto i); b) le «merci usurpative», vale a dire le merci che costituiscono o che contengono copie fabbricate senza il consenso del titolare del diritto d’autore o dei diritti connessi o del titolare dei diritti relativi al disegno o modello, registrato o meno a norma del diritto nazionale, o di una persona da questi autorizzata nel paese di produzione, quando la produzione di tali copie costituisce una violazione del diritto in questione ai sensi del Regolamento (CE) n. 6/2002 del Consiglio, del 12 dicembre 2001, su disegni e modelli comunitari o ai sensi della legislazione dello Stato membro in cui è presentata la domanda per l’intervento delle autorità doganali; c) le merci che, nello Stato membro in cui è presentata la domanda per l’intervento delle autorità doganali, ledono i diritti relativi: i) ad un brevetto a norma della legislazione di tale Stato membro; ii) ad un certificato protettivo complementare, quale previsto nel Regolamento (CEE) n. 1768/92 del Consiglio o nel Regolamento (CE) n. 1610/96 del Parlamento europeo e del Consiglio; iii) alla privativa nazionale per ritrovati vegetali, a norma della legislazione di tale Stato membro o alla privativa comunitaria per ritrovati vegetali quale prevista dal Regolamento (CE) n. 2100/94 del Consiglio; iv) alle denominazioni d’origine o alle indicazioni geografiche, a norma della legislazione di tale Stato membro o dei regolamenti (CEE) n. 2081/92 e (CE) n. 1493/ 1999 del Consiglio; v) alle denominazioni geografiche, ai sensi del Regolamento (CEE) n. 1576/89 del Consiglio. IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 377 NORMATIVA•PROPRIETA’ INTELLETTUALE dotta con pena identica a quella comminata al produttore di beni contraffatti di cui all’art. 473, commi 1 e 2, e le condotte successive, ritenute meno gravi, con una pena decisamente più lieve. Questa modifica trae origine dalla considerazione che nell’attuale sistema logisticoorganizzativo della contraffazione il ruolo del c.d. trader, assume un disvalore equiparabile a chi materialmente produce beni contraffatti. Questi soggetti sono normalmente persone giuridiche con una minima organizzazione per nulla stabile (non a caso sono definiti con un termine anglosassone inequivocabile fly-by-night-operators, con un chiaro riferimento alla loro capacità di eclissarsi rapidamente, rendendo vana ogni iniziativa giudiziaria diversa dall’azione penale diretta alla persona fisica che le gestisce). Prima di esaminare le altre disposizioni presenti nel disegno di legge del 18 giugno 2008, è utile evidenziare altre due modifiche comuni ad entrambe le norme esaminate. La pena prevista dagli articoli ora vigenti viene aggravata rispetto a quelle attualmente vigenti. Il trattamento sanzionatorio delle ipotesi più gravi - produzione e importazione per fine di profitto - attualmente punite, rispettivamente con la reclusione sino a tre e due anni, viene aggravato con la applicazione della reclusione da uno a sei anni. L’ipotesi “lieve” prevista dal nuovo testo dell’art. 474 è invece sanzionata con la reclusione da sei mesi a tre anni. Oggi la pena edittale è fino a due anni, senza minimo. L’aumento delle pene edittali per le ipotesi più gravi, tra l’altro, renderebbe utilizzabili le intercettazioni, a prescindere dalla contestazione del reato di ricettazione (6), risolvendo il paradosso della normativa attuale, che consente l’utilizzo delle intercettazioni per il reato di cui all’art. 474 in concorso il reato di ricettazione, e non per quello - più grave - previsto dall’art. 473 c.p. La seconda modifica sulla quale vale la pena soffermarsi riguarda la modifica del comma 3 dell’art. 473, richiamato dal comma 3 dell’art. 474. Sostanzialmente la disposizione in oggetto afferma che la tutela penale si applica sin dal momento del deposito delle relative domande. Anche in questo caso la modifica recepisce un orientamento già espresso in tal senso dalla Suprema Corte in materia di disegni e modelli. Una volta affermato il principio per i disegni e i modelli, non vi è ragione per non applicarlo anche ai marchi e ai brevetti. Gli artt. 474 bis e 474 ter c.p. e le altre norme in materia di contraffazione Si tratta di due previsioni nuove, come evidenziato dalla numerazione “bis” e “ter”. Per comprendere le ragioni per cui è stata introdotta la prima è utile precisare che sino ad oggi la contraffazione in forma organizzata trova una sanzione penale nell’art. 416 c.p. Tuttavia la struttura del reato, salvo i fenomeni di criminalità organizzata veri e propri, ancorché non di stampo mafioso, non consente quasi mai di giungere ad una condanna. Trattandosi di un reato di criminalità economica l’organizzazione criminale è spesso snella, i vincoli tra gli asso- 378 IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 ciati spesso occasionali e, in ogni caso, è frequente che grossi traffici sono organizzati da un numero ristretto di persone, laddove per contestare l’art. 416 occorrono almeno tre consociati. Era quindi forte l’esigenza di una fattispecie penale “intermedia” tra i reati “base” e l’associazione per delinquere. La scelta dell’Alto Commissario è stata quella di prevedere un’aggravante specifica per i reati “base”. La struttura della norma consentirà senza dubbio di colpire tutte quelle condotte strutturate, ripetute nel tempo e organizzate che non rientrino già nella previsione dell’art. 416 c.p. L’art. 474 ter è invece una norma che si ripropone di rafforzare i provvedimenti di confisca sia dei beni che sono serviti a commettere il reato, sia delle cose che ne sono il prodotto o il profitto, senza riguardo all’appartenenza delle medesime. Quest’ultima previsione è stata tuttavia temperata, per evitare ovvie censure di incostituzionalità che hanno già colpito norme simili. In sostanza se il provvedimento di confisca riguarda la prima tipologia descritta - cose che sono servite o sono destinate a commettere il reati - e il proprietario è estraneo al reato, la confisca non è obbligatoria - atteso il richiamo all’art. 240 c.p. - se questi dimostri sostanzialmente la sua buona fede, anche in termini di mancanza di negligenza e di difetto di vigilanza. L’art. 474 ter, è applicabile ai soli reati previsti dagli artt. 473, commi 1 e 2, e 474, comma 1, ovvero alle ipotesi per le quali è stato previsto un aumento consistente di pena edittale. Alla fattispecie lieve restano applicabili la confisca disciplinata dall’art. 240 c.p. Il sistema è completato infine dall’estensione alle fattispecie aggravate dall’art. 474 bis delle ipotesi particolari di confisca previste dall’art. 12-sexies, comma 1, D.L. 8 giugno 1992, n. 306, come convertito dalla L. 7 agosto 1992, n. 356 (7). Note: (6) Come ha stabilito la Cass., sez. un., 7 giugno 2001, n. 12 (Pres. Vessia - Rel. Ferrua - P.M. Leo (concl. conf.) - P.M. in proc. Ndiaye Papa), in Cass. pen., 2001, n. 1435, 3019-3026, con nota di Svariati. (7) D.L. 8 giugno 1992, n. 306 (convertito in legge, con modificazioni, dalla L. 7 agosto 1992, n. 356) (Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa). Art. 12sexies - Nei casi di condanna o di applicazione della pena su richiesta a norma dell’art. 444 del codice di procedura penale, per taluno dei delitti previsti dagli articoli 416, sesto comma, 416-bis, 600, 601, 602, 629, 630, 644, 644-bis, 648, esclusa la fattispecie di cui al secondo comma, 648-bis, 648-ter c.p., nonché dall’art. 12-quinquies, comma 1, D.L. 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, dalla L. 7 agosto 1992, n. 356, ovvero per taluno dei delitti previsti dagli articoli 73, esclusa la fattispecie di cui al comma 5, e 74 del testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, approvato con D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, è sempre disposta la confisca del denaro, dei beni o delle altre utilità di cui il condannato non può giustificare la provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulta essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica. Le disposizioni indicate nel periodo precedente si applicano anche in caso di condanna e di applicazione della pena su richie(segue) NORMATIVA•PROPRIETA’ INTELLETTUALE La modifica delle fattispecie penali non è di per sé sufficiente per rafforzare la lotta alla contraffazione. Come si è visto le linee di intervento espresse dall’Alto Commissario prevedevano anche il rafforzamento degli strumenti di indagine da impiegare per contrastare i reati di contraffazione. Il disegno di legge include quindi l’attribuzione alle Direzioni Distrettuali Antimafia della competenza per le fattispecie previste dagli artt. 473, commi 1 e 2, e 474, comma 1 se aggravate dall’art. 474. Ai medesimi reati vengono estese le disposizioni previste dalla legge 16 marzo 2006, n. 146 in materia di operazioni sotto copertura. Poiché questo strumento investigativo è particolarmente complesso e invasivo (8) per le ipotesi non aggravate il disegno di legge consente all’autorità giudiziaria di ritardare provvedimenti cautelari che, secondo la normativa vigente, non sono procrastinabili. La norma sarà particolarmente utile nei casi di fermi doganali di merce destinata a società fittizie, non altrimenti identificabili se non “rilasciando” le merci sotto il controllo della polizia giudiziaria affinché giungano a destino. L’ultimo intervento del legislatore, ma non per questo meno importante, in materia di lotta alla contraffazione - in senso lato, in questo caso - riguarda le modifiche alla norma che sanziona in via amministrativa il consumatore che acquisti consapevolmente prodotti contraffatti. È noto che la norma oggi vigente è sostanzialmente disapplicata, trattandosi di una previsione normativa confusa, frutto di una stratificazione di interventi successivi, non coordinati e contraddittori. Ai fini del presente scritto è sufficiente evidenziare come le modifiche previste dal disegno di legge consentirebbero di rimodellare la norma in modo coerente anche con la normativa penale vigente (9). La distruzione delle merci contraffate e la contraffazione di indicazioni di prodotti agroalimentari Avviandosi a concludere la disamina del disegno di legge in oggetto, occorrono due brevi cenni alle disposizioni in materia di distruzione di merci contraffatte. La necessità di affrontare in modo legislativo questo problema è sorta a causa dell’enorme numero di risorse economiche impiegate dalle Procure della Repubblica per la custodia di beni sequestrati e, di conseguenza, di nessun valore economico e, sovente, neppure “riciclabili” per iniziative umanitarie. Questa problematica deve tuttavia essere affrontata senza trascurare l’esigenza - primaria, oserei dire - della costituzione della prova nel dibattimento penale, principio cardine del nostro codice di rito penale. La soluzione adottata è comunque già parte del nostro sistema penale. L’incidente probatorio è l’unico istituto previsto dalla procedura penale che consente in un rito accusatorio di formare una prova al di fuori dal dibattimento. Senonché, il sistema vigente non disciplina alcuna ipotesi che consenta di disporre una perizia sui beni sequestrati, salvo la medesima incombenza non richieda oltre sessanta giorni. Introdurre la possibilità anche per la parte offesa di chiedere che venga disposto l’incidente probatorio dovrebbe consentire di periziare e distruggere agevolmente i grossi quantitativi di merce, salvaguardando attraverso il contraddittorio tipico dell’incidente probatorio il diritto dell’indagato di far valere le sue ragioni. Oltre a ciò è auspicabile che raggiunta la prova della sussistenza della contraffazione, il processo possa procedere più speditamente, con intuibili vantaggi per l’Amministrazione della giustizia. Infine la norma che sanziona penalmente la contraffazione di indicazioni dei prodotti agroalimentari completa le fattispecie già previste dagli artt. 517 e 517 bis, che sanzionano l’uso di indicazioni mendaci su altre tipologie di prodotti. Conclusioni Le disposizioni previste dal disegno di legge in Note: (segue nota 7) sta, a norma dell’art. 444 del codice di procedura penale, per taluno dei delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine costituzionale. (8) L. 16 marzo 2006, n. 146 (Ratifica ed esecuzione della convenzione e dei protocolli delle nazioni unite contro il crimine organizzato transnazionale, adottati dall’assemblea generale il 15 novembre 2000 ed il 31 maggio 2001). Art. 9 (Operazioni sotto copertura) - Fermo quanto disposto dall’articolo 51 del codice penale, non sono punibili: gli ufficiali di polizia giudiziaria della Polizia di Stato, dell’Arma dei carabinieri e del Corpo della guardia di finanza, appartenenti alle strutture specializzate o alla Direzione investigativa antimafia, nei limiti delle proprie competenze, i quali, nel corso di specifiche operazioni di polizia e, comunque, al solo fine di acquisire elementi di prova in ordine ai delitti previsti dagli artt. 648-bis e 648-ter nonché nel libro II, titolo XII, capo III, sezione I, del codice penale, ai delitti concernenti armi, munizioni, esplosivi, ai delitti previsti dall’art. 12, commi 3, 3-bis e 3-ter, del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, nonché dall’art. 3 L. 20 febbraio 1958, n. 75, anche per interposta persona, danno rifugio o comunque prestano assistenza agli associati, acquistano, ricevono, sostituiscono od occultano denaro, armi, documenti, stupefacenti, beni ovvero cose che sono oggetto, prodotto, profitto o mezzo per commettere il reato o altrimenti ostacolano l’individuazione della loro provenienza o ne consentono l’impiego. (9) Il risultato delle modifiche previste dal disegno di legge dovrebbe essere il seguente: «È punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da 100 euro fino a 7.000 euro l’acquirente finale che acquista a qualsiasi titolo cose che, per la loro qualità o per la condizione di chi le offre o per l’entità del prezzo, inducano a ritenere che siano state violate le norme in materia di diritti di proprietà industriale. In ogni caso si procede alla confisca amministrativa delle cose di cui al presente comma. Restano ferme le norme di cui al decreto legislativo 9 aprile 2003, n. 70». Salvo che il fatto costituisca reato, qualora l’acquisto sia effettuato da un operatore commerciale o importatore o da qualunque altro soggetto diverso dall’acquirente finale, la sanzione amministrativa pecuniaria è stabilita da un minimo di 20.000 euro fino a un milione di euro. Le sanzioni sono applicate ai sensi della L. 24 novembre 1981, n. 689. Fermo restando quanto previsto in ordine ai poteri di accertamento degli ufficiali e degli agenti di polizia giudiziaria dall’art. 13 della L. 24 novembre 1981, n. 689, all’accertamento delle violazioni provvedono, d’ufficio o su denunzia, gli organi di polizia amministrativa. IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 379 NORMATIVA•PROPRIETA’ INTELLETTUALE commento costituiscono una svolta epocale nella tutela penale dei diritti di proprietà industriale, poiché per la prima volta viene affrontata la materia in modo organico e coordinato anche con le disposizioni civilistiche, la cui importanza è indubbia, essendo le norme di riferimento cui rivolgersi per risolvere qualsiasi criticità in 380 IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 questa materia. L’auspicio è che il rafforzamento della lotta alla contraffazione attraverso l’introduzione anche dei nuovi strumenti investigativi porti con sé anche una maggiore consapevolezza nella magistratura requirente della necessità di affrontare il fenomeno con maggior organicità. OPINIONI•PUBBLICITA’ Autodisciplina Autodisciplina e funzione arbitrale di Giorgio Floridia Il fenomeno dell’autodisciplina italiano è del tutto estraneo a qualsiasi forma di risoluzione arbitrale delle controversie pubblicitarie e meno che mai è configurabile come un sistema contenzioso inserito nell’ordinamento dello Stato. L’unica configurazione possibile dell’autodisciplina pubblicitaria è quella di un ordinamento sostanziale e procedimentale completamente autonomo e indipendente, il cui unico collegamento rispetto all’ordinamento dello Stato è quello di essere emanazione del potere di autonomia negoziale. L’autodisciplina nel Codice di consumo e nel d.lgs. 2 agosto 2007, n. 145 Le norme degli artt. 27-ter cod. cons. e 9 d.lgs. n. 145 del 2007 sono dedicate ai rapporti fra la nuova disciplina statuale contro la pubblicità ingannevole e comparativa illecita e sulle pratiche sleali e l’autodisciplina. Le norme a mio modo di vedere, hanno pienamente colto l’essenza del fenomeno autodisciplinare e hanno conseguentemente dettato le uniche disposizioni di raccordo compatibili con l’essenza di quel fenomeno. Il fenomeno dell’autodisciplina italiano è del tutto estraneo a qualsiasi forma di risoluzione arbitrale delle controversie pubblicitarie e meno che mai è configurabile come un sistema contenzioso inserito nell’ordinamento dello Stato. L’unica configurazione possibile dell’autodisciplina pubblicitaria, così come è attualmente strutturata, è quella di un ordinamento sostanziale e procedimentale completamente autonomo e indipendente, il cui unico collegamento rispetto all’ordinamento dello Stato è quello di essere emanazione del potere di autonomia negoziale. I riferimenti testuali della Direttiva n. 29/95 alle diverse forme nazionali di autodisciplina, forse a causa della necessità di tenere conto della diversità di ciascun sistema nazionale, sono tali da non pregiudicare neppure in piccola parte la perfetta autonomia che caratterizza l’autodisciplina italiana (1). La norma dell’art. 9 d.lgs. n. 145 del 2007 esordisce affermando che le parti interessate possono richiedere che sia inibita la continuazione degli atti di pubblicità ingannevole ricorrendo ad organismi volontari e autonomi di autodisciplina. Questa statuizione altro significato non ha se non quello di escludere che la disciplina statuale contro la pubblicità ingannevole sia così “inderogabile” da non ammettere la possibilità del contratto di autodisciplina: e cioè di una regolamentazione negoziale avente ad oggetto le manifestazioni della pubblicità ingannevole. Una volta posta questa premessa ne viene di conseguenza che la possibilità di ricorso all’autodisciplina è libera solo in quanto è libera l’adesione a tale sistema, ma ciò non toglie di certo che i soggetti che abbiano assunto l’obbligo negoziale di osservare le regole dell’autodisciplina vengano a trovarsi rispetto a queste regole in una posizione di soggezione diversa ma non inferiore rispetto a quella che promana dalla disciplina statuale. Quando ci si pone il problema della possibilità di ricorso alternativo al sistema di autodisciplina, oppure al garante del mercato non si deve mai trascurare di considerare che diverse sono le norme delle quali si chiede l’applicazione e che questa diversità non viene meno per il fatto che esse possono coincidere quanto al risultato materiale della loro applicazione nel caso di specie. Perciò, quando il comma 1 dell’art. 9 d.lgs. in esame dispone che l’inibizione della pubblicità ingannevole può essere chiesta al Giurì dell’autodisciplina, procede ad un’affermazione ellittica resa possibile unicamente del fatto che ha considerato il risultato materiale del ricorso. In realtà chi chiede l’intervento del Giurì dell’autodisciplina non richiede l’applicazione delle norme dello Stato ma richiede l’applicazione delle norme dell’autoNota: (1) Per un approfondimento nel merito cfr. V. Di Cataldo, Natura giuridica dell’autodisciplina pubblicitaria e ambito soggettivo della applicazione del codice di autodisciplina, in Contr. e impr., 1991, 111 ss.; G. Floridia, La repressione della pubblicità ingannevole, in Quadrimestre, 1986, n. 1, 69; Id., Legge e autodisciplina in Italia, in Riv. dir. ind., 1987, I, 122; Id., Per una corretta attuazione della direttiva CEE n. 84/450 sulla repressione della pubblicità ingannevole, in Panorami, 1990; Id., Il contratto di autodisciplina, in Dir. inform., 1991, 2; Id., Autodisciplina e funzione arbitrale, in Riv. dir. ind., 1991, I, 5; V. Guggino, Considerazioni intorno alla natura giuridica dell’autodisciplina pubblicitaria, in Rassegna di diritto civile, 1989, 331 ss.; M.S. Spolidoro, Le sanzioni del codice di autodisciplina, in Riv. dir. ind., 1989, I, 58 ss.; Trib. Milano, 22 gennaio 1976, ivi, 1977, II, 91 ss. IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 381 OPINIONI•PUBBLICITA’ disciplina che sono diverse anche quando diano luogo allo stesso risultato. Il comma 2 dell’art. 9 d.lgs. n. 145 del 2007 e il comma 2 dell’art. 27-ter cod. cons. contengono una norma di cui è difficile percepire il significato se non si muove dalla premessa che l’accordo autodisciplinare non costituisce deroga alla giurisdizione del garante del mercato. Una deroga alla competenza e/o alla giurisdizione dell’autorità statuale postula che le norme sostanziali da applicare alla fattispecie siano quelle dell’ordinamento dello Stato, perché in tal caso si verifica che, in deroga alla regola comune, quelle norme siano rese cogenti mediante l’intervento di un’autorità diversa da quella che altrimenti ne dovrebbe garantire l’osservanza. Quando invece le norme sostanziali da applicare sono diverse da quelle statuali, trattandosi di norme poste in modo completamente autonomo e indipendente sulla base del potere di autonomia negoziale, è ovvio che l’impegno assunto di rispettarle non significa affatto e non equivale alla rinuncia a far valere le norme statuali facendo ricorso all’autorità che nell’ordinamento dello Stato ha il compito di garantire l’osservanza. È proprio a questo riguardo che si coglie la diversità del fenomeno autodisciplinare rispetto al fenomeno arbitrale. Colui che si vincola ad una clausola compromissoria promette di non ricorrere all’autorità dello Stato e perciò si auto-esclude dal ricorso a tale autorità. Per contro colui che aderisce al sistema di autodisciplina si obbliga ad osservare le regole di questo sistema ma non per questo si impegna a non pretendere l’osservanza delle norme dello Stato e a non ricorrere all’autorità che ha l’obbligo di garantire l’osservanza di tali norme. Tenuto conto di ciò si può cogliere il significato del comma 2 dell’art. 9 e del comma 3 dell’art. 27-ter cod. cons., i quali dispongono che «iniziata la procedura davanti ad un organismo di autodisciplina, le parti possono convenire di astenersi dall’adire l’autorità garante sino alla pronuncia definitiva». Se il fenomeno autodisciplinare fosse assimilabile a quello arbitrale una disposizione siffatta non avrebbe alcuna ragione di essere. Per contro, tenuto conto delle osservazioni che precedono, questa disposizione significa che l’ordinamento dello Stato considera valido e lecito l’accordo con il quale le parti del contratto autodisciplinare si impegnano reciprocamente ad astenersi dal ricorrere al garante del mercato ai fini della osservanza delle norme statuali contro la pubblicità ingannevole (pactum de non petendo). Stante l’inderogabilità delle norme sulle pratiche sleali è perfettamente naturale che il legislatore dello Stato abbia considerato l’efficacia dell’accordo diretto ad escludere l’applicazione di quelle norme come eccezionali e abbia subordinato tale efficacia alla duplice circostanza: che sia in corso il giudizio autodisciplinare e che questo non si sia concluso con la pronuncia definitiva. Vi è infine da considerare l’ultimo comma dell’art. 9 e 382 IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 dell’art. 27-ter cod. cons. i quali dettano una disposizione valevole per il caso in cui vi sia la contemporanea pendenza del giudizio avanti il garante del mercato e di quello avanti il Giurì dell’autodisciplina pubblicitaria. I due giudizi sono perfettamente autonomi e indipendenti perché hanno per oggetto l’applicazione di norme diverse, sicché se un’interferenza è configurabile questa attiene semmai unicamente al risultato materiale. Orbene, nel caso della contemporanea pendenza dei due giudizi, è data la possibilità al garante di sospendere quello avanti a sé per un periodo non superiore a trenta giorni. Questa facoltà di autosospensione è stata prevista proprio in considerazione di quella interferenza che si è visto configurabile unicamente nei riguardi del risultato materiale dei due giudizi. Se il Giurì inibisce la pubblicità denunciata nel termine dei trenta giorni nei quali perdura la sospensione del giudizio in corso avanti il garante, questi può astenersi dal provvedere dato che viene meno la ragione pratica del suo intervento: e anzi è opportuno che si astenga, considerando che la direttiva esplicitamente suggerisce di utilizzare il sistema di autodisciplina come mezzo idoneo ad evitare il ricorso all’autorità dello Stato. Si potrebbe tuttavia immaginare che il garante provveda ugualmente nonostante la pronuncia interdittiva del Giurì, e che assolva la pubblicità avanti a lui denunciata. Non c’è dubbio che in questo caso i mezzi sarebbero ugualmente tenuti ad astenersi dal pubblicare la comunicazione censurata dal Giurì. Di fatto in questa ipotesi la pronuncia del Giurì sarebbe destinata a prelevare posto che in nessun caso la pronuncia del garante può essere considerata come riconoscimento di un diritto alla diffusione del messaggio. Se per contro il Giurì assolve la pratica denunciata il garante, cessata la causa di sospensione, può decidere se archiviare il ricorso ritenendo di avere acquisito, per effetto della pronuncia del Giurì, elementi sufficienti per giudicarlo infondato, oppure se riattivare il corso del giudizio avanti a lui. In tal caso la pronuncia assolutoria del Giurì costituirà un precedente specifico del quale il garante ha l’obbligo di tenere conto nella formazione del suo convincimento, ma non potrà giammai avere un effetto vincolante. Ben può accadere dunque che la pubblicità assolta dal Giurì sia interdetta dal garante, e questa possibilità, anziché essere qualcosa di negativo è semplicemente il segno dell’autonomia e dell’indipendenza del sistema di autodisciplina. Le norme degli articoli in questione in conclusione costituiscono un esplicito riconoscimento del contratto autodisciplinare e pongono una regola di raccordo diretta a garantire la reciproca autonomia e indipendenza del sistema di controllo organizzato dallo Stato nel suo ordinamento e di quello organizzato dai privati nell’ordinamento autodisciplinare. Le considerazioni che seguono hanno lo scopo di illustrare le ragioni che sorreggono l’interpretazione appe- OPINIONI•PUBBLICITA’ na proposta e al contempo di fornire dell’autodisciplina una configurazione adeguata dalla sua funzione. Autodisciplina e arbitrato: diversa collocazione fenomenologica È autodisciplina il fenomeno per cui una categoria omogenea di soggetti, o più categorie mosse da comuni interessi, si assoggettano volontariamente all’osservanza di un corpo più o meno complesso di norme dettate in funzione di scopi determinati. L’elemento unificante di siffatta fenomenologia, che nelle singole concrete manifestazioni si diversifica nella misura in cui diversi sono gli scopi e i mezzi adottati per perseguirli, è dato dal fatto che i rapporti intercorrenti nell’ambito autodisciplinare vengono sottratti nel modo più completo possibile ad una normazione “esterna” e in particolare a quella statuale, sia che assuma forme legislative, oppure regolamentari. Si tratta quindi di un fenomeno che trae origine dalla dialettica fra pubblico e privato rispetto al potere di normazione. La sua diffusione è segno di una sempre maggiore tendenza verso l’autogestione di rapporti che abbiano un ruolo caratterizzante in specifici ambiti sociali e professionali. Tendenzialmente - com’è ovvio - il fenomeno determina la sottrazione della disciplina di questi rapporti alla eterogestione dei poteri costituzionali, e cioè alla gestione del potere normativo fondato sulla rappresentanza politica al quale si contrappone un potere regolamentare privato fondato sulla rappresentanza volontaria degli aderenti al sistema di autodisciplina. Questo importante fenomeno, che si ripete essere espressione di autonomia (nel senso fisiologico del termine), si proietta necessariamente anche sul terreno conseguenziale della risoluzione dei conflitti che insorgono all’interno del sistema di autodisciplina in ordine all’osservanza delle norme che ne costituiscono il contenuto. Ed è precisamente da questo angolo visuale che è istintivo porre una relazione concettuale fra autodisciplina e arbitrato, dato che anche quest’ultimo è comunemente considerato come alternativo alla giustizia ordinaria e promanante da una volontà privata di autoregolamentazione. Sennonché una siffatta relazione sembra di più frutto di suggestione concettuale che di verificati elementi di coincidenza nella individuazione delle rispettive fattispecie. Fatto il confronto con l’arbitrato rituale è agevole accorgersi, ad un’analisi approfondita, che con esso le parti si limitano a sostituire un giudice privato a quello che, nell’ordinamento statuale, sarebbe competente a risolvere il conflitto, ma - a differenza che nell’autodisciplina - questa sostituzione avviene secondo le norme dettate nello stesso ordinamento dello Stato, e precisamente secondo le norme degli artt. 806 ss. c.p.c. Secondo tali norme l’arbitro o gli arbitri si collocano accanto ai giudici ordinari come destinatari di un potere giurisdizionale che si distingue solo per ragioni di competenza da quello che è proprio di questi ultimi. Nell’autodisciplina, per contro, appartiene alla causa nel negozio istitutivo - come meglio si vedrà - lo scopo di attuare uno sganciamento completo del sistema istitutivo rispetto a quello anche solo indirettamente riconducibile alle norme processuali dell’ordinamento dello Stato. Sembrerebbe allora se la relazione concettuale si possa instaurare, anziché con l’arbitrato rituale, con quello irrituale nel quale - com’è noto - l’arbitro o gli arbitri si collocano al di fuori del potere giurisdizionale e anzi, in quanto validamente investiti della controversia, determinato il difetto assoluto di giurisdizione dello stesso giudice ordinario rispetto alla controversia oggetto del compromesso. Ora questo parallelo concettuale con l’arbitrato irrituale - così come del resto con l’arbitraggio - è sicuramente pertinente e appropriato nei limiti in cui è dato constatare che tutta questa fenomenologia nasce e si esaurisce nell’ambito strettamente negoziale, sicché natura negoziale hanno - come il lodo irrituale e la determinazione dell’oggetto del contratto - anche le pronunce dell’organo al quale nel sistema di autodisciplina è affidato il compito di giudice nell’applicazione delle norme che ne costituiscono il contenuto. Sennonché questo generale inquadramento comune è troppo poco per far rifluire il fenomeno autodisciplinare dell’alveo puro e semplice dell’arbitrato irrituale. In particolare quest’ultimo si configura tipicamente come proiezione contenziosa di un rapporto contrattuale specifico nel quale rilevano unicamente gli interessi individuali delle parti che hanno dato via al regolamento del singolo affare o dei singoli affari che formano oggetto del contratto fra di loro intercorso. Per contro l’autodisciplina si configura tipicamente come un sistema nel quale rileva, accanto agli interessi individuali dei singoli aderenti, un loro interesse collettivo all’osservanza delle regole poste, e nel quale questo interesse collettivo è stato istituzionalizzato, sia pure sempre e soltanto in forme privatistiche, sicché la proiezione contenziosa dell’osservanza delle regole suddette assume una connotazione diversa rispetto a quella propria dell’arbitrato irrituale. Non solo infatti nell’autodisciplina il contenzioso si svolge davanti ad un organo inserito stabilmente nella struttura organizzativa del sistema (e non davanti ad un arbitro o ad un collegio arbitrale nominato dalle parti per la specifica occasione), ma questo organo assume il compito principale di garantire l’effettività del sistema creato per il soddisfacimento dell’interesse collettivo degli aderenti all’osservanza delle regole poste e solo di riflesso quello di garantire l’interesse individuale del singolo aderente all’osservanza di tali regole. Questa è una diversità densa di implicazioni, e riconduce alla diversa origine dei due fenomeni. Il potere di autonomia privata infatti si esercita diversamente secondo che è diretto a regolare i rapporti intercorrenti fra soggetti determinati in relazione a singoli affari, oppure a regolare in modo generale e costante IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 383 OPINIONI•PUBBLICITA’ una serie indefinita di rapporti intercorrenti nell’ambito di categorie professionali in base a regole che promanano dalle stesse categorie interessate. Nel primo caso il regolamento negoziale non aspira ad una funzione alternativa rispetto alla disciplina statuale, ma costituisce applicazione della disciplina statuale del negozio preordinata allo scopo di consentire alle parti di dare volontariamente un assetto determinato ad un loro specifico rapporto. Nel secondo caso, invece, il potere di autonomia si pone all’origine di una regolamentazione che crea vincoli di soggezione di natura diversa: un fenomeno para-normativo del quale è stato detto giustamente che postula l’abbandono dell’idea secondo la quale nello Stato è collocata la fonte esclusiva delle norme giuridiche. Autodisciplina e pluralità degli ordinamenti Non c’è dubbio che le autodiscipline realizzino il dogma della pluralità degli ordinamenti la cui elaborazione è dovuta alla classica opera del Santi-Romano. La legittimità dell’ordinamento autodisciplinare è una conseguenza della sua derivazione da quello statuale con il quale si coordina sempre e soltanto in funzione del riconoscimento dell’autonomia privata della quale è espressione. Questo generale inquadramento del fenomeno autodisciplinare è comunemente condiviso dalla giurisprudenza. Il Tribunale di Milano 22 gennaio 1976 (2) ha fatto applicazione della teoria della pluralità degli ordinamenti nel caso dell’autodisciplina. Si dice, infatti, in questa sentenza che «La nascita e la vita di un ordinamento derivato sono regolate dalle norme dell’ordinamento superiore (...) e in nessun caso potrà dirsi che un’istituzione derivata e il suo ordinamento sono completamente estranei all’ordinamento statuale». Ciò rileva - prosegue la sentenza - specie quando il giudice ordinario è chiamato a giudicare sugli effetti di una misura autodisciplinare che ha leso gli interessi di un soggetto il quale perciò se ne duole chiedendo il risarcimento. In tal caso è ineludibile la necessità di riconoscere legittimi quegli elementi dell’applicazione delle norme autodisciplinari solo in quanto possono essere anche gli effetti dell’applicazione di un negozio privato, per lo più di un contratto. Di recente - tuttavia - è stato obiettato che questo sviluppo della premessa fondata sulla teoria della pluralità degli ordinamenti va in direzione diversa rispetto a quella segnata da Santi-Romano, dagli istituzionalisti e dai teorici dei poteri di autonormazione: i quali infatti avrebbero messo in luce l’irriducibilità del fenomeno degli ordinamenti dei privati rispetto a quello dei contratti (3). Secondo questa stessa dottrina per l’autodisciplina (l’autore si riferisce a quella pubblicitaria) le consuete categorie del diritto dei contratti rappresentano un vero e proprio letto di Procuste: ciò che dovrebbe indurre a non evocare la teoria della pluralità degli ordinamenti 384 IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 che configura gli “altri sistemi di diritto obiettivo” come paralleli a quello dello Stato e la loro creazione come un fenomeno qualitativo diverso dal contratto. Per un’esplicita presa di posizione in tal senso viene citato Cesarini Sforza (4) secondo il quale “il diritto dei privati” è una formazione giuridica non sottoposta ma parallela al diritto dello Stato e inoltre «non sono (...) contrattuali né l’atto costitutivo dell’associazione, né lo statuto, né l’adesione del nuovo socio. Si ha la formazione di una volontà uniforme che nel contratto non si verifica mai; lo statuto non è altro che il logico svolgimento dell’atto costitutivo e il nuovo socio non l’accetta come complesso di clausole contrattuali, perché contrattuale non è il rapporto che si stringe fra il nuovo socio e l’associazione» (5). La citazione è puntuale, ma certamente insufficiente a dimostrare l’erroneità dell’insostituibile riferimento all’autonomia negoziale non solo come matrice dell’ordinamento autodisciplinare (il che non è contestato neppure dagli “istituzionalisti”) ma ben anche come momento di inserzione di tale ordinamento nel superiore ordinamento dello Stato e quindi come disciplina della rilevanza del primo nel secondo. Il prosieguo del discorso su questo terreno della teoria generale del fenomeno normativo è tuttavia utile perché contribuisce a chiarire semmai un equivoco: e cioè che il contratto di autodisciplina - che tale è e rimane nell’ordinamento dello Stato - è cosa ben diversa da qualsiasi altro, tipico o atipico, che dà origine ad uno specifico rapporto patrimoniale, perché è diretto a porre regole generali di comportamento la cui fonte è estranea all’ordinamento dello Stato, e la cui osservanza costituisce ragione essenziale di soddisfacimento dell’interesse collettivo degli aderenti al sistema istituito con tale contratto. Se queste connotazioni sono state indicate come proprie del fenomeno autodisciplinare, il problema che residua è duplice: – se un tal fenomeno è ammissibile come effetto del potere di autonomia negoziale nell’ambito dell’ordinamento dello Stato, e – come, una volta riconosciuta la suddetta ammissibilità, sia realmente operante l’autonomia dell’ordinamento privato. A questa stessa conclusione del resto perviene proprio la teoria che nega la “contrattualità” del fenomeno autodisciplinare, se è vero che questa relega la sua contestazione ad una dimensione puramente nominalistica affermando che «ci si troverebbe di fronte ad un contratto molto diverso dagli altri, cioè di fronte ad un conNote: (2) In Riv. dir. ind., II, 91 ss. (3) Vedi M.S. Spolidoro, Le sanzioni del codice di autodisciplina pubblicitaria, in Riv. dir. ind., 1989, I, 63 ss. (4) Cfr. W. Cesarini Sforza, Il diritto dei privati, Milano, 1963, 27. (5) W. Cesarini Sforza, op. cit., 52-53. OPINIONI•PUBBLICITA’ tratto atipico in senso forte che, per la sua particolarità non potrebbe essere assoggettato a tutte le disposizioni dettate dal diritto generale dei contratti se non con particolare cautela e adattamenti» (6). Affermazione quest’ultima con la quale non si può non convenire, e che anzi costituisce, come si è detto e come si dirà più avanti, l’elemento centrale e qualificante della ricostruzione del contratto di autodisciplina. La validità del negozio istitutivo dell’autodisciplina: causa atipica e meritevolezza degli interessi perseguiti A proposito della validità dell’atto negoziale che è all’origine della legittima coercibilità degli obblighi posti dal sistema di autodisciplina, valgono le considerazioni seguenti. In primo luogo si deve trattare di negozio avente causa lecita (art. 1343 c.c. in relazione all’art. 1418 c.c.) e, in quanto si tratti di causa atipica, occorre inoltre che sia proteso a realizzare interessi meritevoli di tutela. La verifica della validità del negozio autodisciplinare prescinde dalla considerazione delle singole regole di comportamento che compongono l’ordinamento derivato e si configura secondo una prospettiva globale, dato che si tratta di stabilire se l’istituzione di quell’ordinamento privato e la soggezione ad esso dei singoli aderenti abbia o no finalità meritevoli di tutela alla stregua dei principi inderogabili e di ordine pubblico che informano l’ordinamento superiore. Il problema è delicato quando l’autodisciplina promana da associazioni professionali di imprese ed è destinata ad incidere sulla libertà di svolgimento di determinati atti di gestione. Qui invero non può essere trascurato che in linea di principio l’opposizione di limiti convenzionali all’esercizio della libertà d’impresa, e tanto più quando l’osservanza di questi limiti è garantita da decisioni di associazioni di imprese, è sospettabile di voler perseguire scopi contrastanti con il principio di libera concorrenza e in pregiudizio degli interessi che l’effettività di questo principio intende salvaguardare. È plausibile in altri termini che non sia considerato valido un negozio autodisciplinare nel quale assuma rilievo una causa di scambio della propria libertà d’impresa. Non qualsiasi autolimitazione della concorrenza è caratterizzata da una causa di scambio anti-concorrenziale. Può darsi invece che si tratti di uno scopo diverso come quello insito nella tipizzazione convenzionale delle forme più frequenti di illecito concorrenziale onde ottenere l’impegno di tutti gli aderenti a non farvi ricorso. Con l’emanazione della Direttiva n. 29/05 e con l’attuazione di questa direttiva non solo non può dubitarsi della liceità della causa dell’accordo di autodisciplina pubblicitaria, ma al sistema che ne scaturisce viene addirittura attribuito, nello ordinamento superiore, un compito utile in quanto capace di alleggerire il peso del controllo che comunque deve essere esercitato dallo Stato per impedire le pratiche sleali lesive degli interessi dei consumatori e dei concorrenti. (Segue) Liceità dell’oggetto del negozio istitutivo in regolazione alle singole disposizioni autodisciplinari Oltre alla verifica globale della liceità della causa, è configurabile una verifica sulla compatibilità di ogni singola disposizione autodisciplinare con le norme imperative, con l’ordine pubblico oppure con il buon costume, e cioè con tutti i limiti inderogabili posti dall’ordinamento statuale all’applicazione dell’autonomia privata. Sia le disposizioni sostanziali come quelle strumentali dell’autodisciplina possono risultare illecite, ma questa illiceità, a differenza di quello che avviene a proposito della causa, non travolge l’intero negozio istitutivo dell’autodisciplina fin tanto che, ai sensi dell’art. 1419, comma 1, c.c., non si possa ritenere che, senza l’osservanza di quella disposizione autodisciplinare in ipotesi incompatibile con i limiti inderogabili dell’ordinamento superiore, le parti non avrebbero posto in essere il negozio di autodisciplina nella sua interezza. Contro questa concezione, che colloca su due livelli il giudizio di compatibilità del sistema di autodisciplina rispetto al superiore ordinamento dello Stato (il livello della liceità della causa sotto il profilo dell’oggetto o del contenuto del sistema di autodisciplina) si è eretta una dottrina recente che imputa alla suddetta concezione di avere appiattito - come si è detto - la ricchezza del fenomeno autodisciplinare portando alle estreme conseguenze quella che è stata definita la più coerente e dogmaticamente rigorosa applicazione della tesi cosiddetta contrattualistica (7). Secondo questa dottrina non c’è spazio per un controllo di liceità delle singole disposizioni di un sistema di autodisciplina in funzione della loro eventuale incompatibilità con le norme imperative dell’ordinamento statuale e non c’è neppure per un controllo di liceità ulteriore rispetto a quello riferibile alla causa globalmente considerata del negozio autodisciplinare. Sennonché questa contrapposizione sembra essere più frutto di equivoci che di una reale diversità di vedute; vi è anzi da dire che il doppio livello di verifica della compatibilità garantisce una maggiore flessibilità del risultato e di conseguenza un rafforzamento della “resistenza” dell’ordinamento privato. Un primo equivoco consiste nell’avere confuso il problema della compatibilità delle singole norme autodisciplinari con il diverso problema, di cui si dirà, della loro corretta applicazione. Un secondo e più grave equivoco consiste nell’avere fatto coincidere la loro compatibilità con la pura e semplice diversità rispetto alla parallela norma statuale. Questo secondo equivoco è rivelato chiaramente là doNote: (6) Vedi M.S. Spolidoro, op. cit., 70-71. (7) Vedi M.S. Spolidoro, op. cit., 73. IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 385 OPINIONI•PUBBLICITA’ ve la dottrina in esame si dice convinta che «non basta che l’ordinamento privato contenga norme incompatibili o in conflitto con le leggi imperative dello Stato perché le prime, se non sono contrarie all’ordine pubblico o al buon costume, siano private di valore» (8). È agevole rilevare che norme imperative, di ordine pubblico e buon costume nell’ordinamento statuale sono concetti omogenei, e la compatibilità rispetto ad essi delle norme autodisciplinari si ha solo quando il contenuto di esse sia tale da pregiudicare obiettivi considerati irrinunciabili nell’ordinamento dello Stato. Altrimenti l’incompatibilità non sussiste. Anche la dottrina in esame conviene che un sistema autodisciplinare non può contenere norme strumentali che violino il principio del contraddittorio o il diritto di difesa: ma, avendo tale dottrina soppresso il secondo livello di verifica della compatibilità, essa è costretta a fare reagire tali elementi di incompatibilità sulla validità dell’intero negozio istitutivo dell’autodisciplina; per contro, se questi elementi di incompatibilità riguardano unicamente l’oggetto o il contenuto dell’accordo autodisciplinare, essi non pregiudicano la validità dell’intero negozio, che rimane pertanto impregiudicata nella sua globalità. Per concludere su questo punto sembra dunque potersi dire che la strutturazione del controllo di compatibilità sui due livelli della liceità della causa e della liceità dell’oggetto non pregiudica affatto, e anzi favorisce, la collocazione dei due ordinamenti - quello dello Stato e quello privato - su due piani reciprocamente non comunicanti, in ciascuno dei quali possono esistere norme diverse le quali, solo eccezionalmente, possono essere considerate incompatibili. Il problema dell’autonomia e dell’indipendenza dell’ordinamento privato e reciprocamente di quello statuale L’impostazione finora illustrata dell’inquadramento dogmatico del fenomeno autodisciplinare ha i suoi punti di forza in ciò: – che lo riconduce al potere di normazione dei privati e quindi alla loro libertà di organizzare aspetti rilevanti della vita, della professione e dell’attività economica; – che restituisce tuttavia allo Stato, e quindi alla rappresentanza politica della comunità nazionale, la necessaria supremazia ponendo un vincolo di subordinazione la cui attuazione è garantita dal controllo giudiziale sulla validità della causa del negozio istitutivo, e cioè dal controllo sulla meritevolezza degli interessi che l’autodisciplina intende realizzare, e sulla compatibilità con i principi inderogabili dell’ordinamento superiore di singole disposizioni autodisciplinari. Su tutto ciò vi è un sostanziale consenso. Diverso problema è quello dell’assoluta indipendenza e autonomia dell’ordinamento privato e di quello statuale per quanto concerne il rapporto fra le norme e gli organi di ciascuno dei due ordinamenti. 386 IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 Non c’è dubbio che, essendo il proprium di un sistema di autodisciplina, e quindi del suo contratto istitutivo, quello di dare vita ad una regolamentazione autosufficiente valevole unicamente per i suoi aderenti e per coloro che volontariamente vi si assoggettano, non è pensabile: a) né che le regole autodisciplinari siano fatte valere davanti ai giudici dello Stato; b) né che le pronunce dell’organo autodisciplinare siano rilevanti come tali nell’ordinamento dello Stato, al fine di trovare quivi riconoscimento oppure al fine di essere considerate quivi come oggetto di impugnazione. Sotto entrambi i profili è in gioco la tipizzazione del contratto di autodisciplina come strumento fondativo di un vero e proprio ordinamento autonomo e indipendente. Adempimento e inadempimento del contratto di autodisciplina Non c’è dubbio, per quanto è stato detto fin qui, che anche il contratto di autodisciplina, come qualsiasi altro contratto, è soggetto alle norme del Titolo II del Libro IV del codice civile (art. 1323 c.c.) e quindi anche alle norme che ne disciplinano l’adempimento o gli effetti dell’inadempimento. È tuttavia un contratto la cui causa tipizzata consiste come si è visto - nella sostituzione del potere privato di autonomia al potere statuale di eteronoma regolamentazione della materia che ne forma il contenuto: questa sostituzione, essendo determinante sotto il profilo causale, non può che incidere in pari misura sia sul momento strettamente normativo, sia su quello applicativo delle norme poste in essere. E invero è proprio questa irrinunciabile correlazione fra le norme “sostanziali” e quelle “procedimentali” che provoca la nascita di un ordinamento il quale è bensì derivato, ma non per questo meno “autonomo” e “completo” rispetto a quello superiore nel quale deve essere collocato ai soli fini della sua compatibilità. In altri termini l’autodisciplina è una conventio ad excludendum nei riguardi dell’ordinamento dello Stato, e perciò essenziale alla sua stessa esistenza, o meglio, alla conversazione della sua essenza, che la sua dinamica interna sia del tutto autonoma e parallela rispetto a quella che nella stessa materia trova esplicazione nell’ordinamento dello Stato. In un sistema di autodisciplina che attui coerentemente le premesse causali da cui trae origine, è impensabile che il Giudice ordinario sia considerato come alternativo all’organo di autodisciplina ai fini della attuazione delle norme del sistema. Più che di obbligatorietà del ricorso a tale organo si tratta della natura delle disposizioni autodisciplinari le quali non sono vincolanti indiNota: (8) Vedi M.S. Spolidoro, op. cit., 72. OPINIONI•PUBBLICITA’ pendentemente dai mezzi predisposti per renderle coercibili all’interno dell’ordinamento derivato. Nell’ambito dell’ordinamento derivato la giustizia autodisciplinare, per essere coerente con le premesse da cui trae origine, è non solo obbligatoria, ma anche necessariamente esclusiva. Perciò, così come non ha modo di porsi il problema della esecutività della pronuncia autodisciplinare, del pari non ha modo di porsi neppure il problema della impugnazione di tale pronuncia davanti al Giudice ordinario. In qualsiasi ordinamento di autodisciplina che si caratterizzi per tale in funzione della causa tipizzata della sua istituzione è dunque necessaria la clausola di incontestabilità delle pronunce dell’organo a cui è stato affidato il compito di presidiare l’applicazione delle sue norme. Ma il problema, allora, è precisamente quello della efficacia vincolante della clausola d’incontestabilità delle pronunce autodisciplinari, diretta a realizzare l’autonomia del sistema autodisciplinare da ogni interferenza esogenea. Tale incontestabilità delle pronunce autodisciplinari è la conseguenza del fatto che i soggetti aderenti all’autodisciplina si obbligano bensì all’osservanza delle disposizioni che ne formano il contenuto, ma lo fanno unicamente nei limiti delle sanzioni e delle misure repressive che sono espressamente contemplate nell’ordinamento derivato per il caso della violazione. Il risultato di questo ragionamento peraltro non può scandalizzare più di tanto ove si consideri che questa incontestabilità si configura come un riflesso dell’autonomia dell’ordinamento derivato e della totale irrilevanza delle sue disposizioni nell’ordinamento statuale almeno fin tanto che la loro applicazione non dia luogo a danno ingiusto e come tale risarcibile secondo le norme della responsabilità aquiliana. Autodisciplina e responsabilità aquiliana Dalle considerazioni che precedono si deduce un corollario la cui importanza è superfluo sottolineare: ed è che le pronunce autodisciplinari, nell’ordinamento dello Stato, assumono la rilevanza di mero fatto. Come tali esse possono dare luogo unicamente ad una responsabilità extra-contrattuale sulla base egli inderogabili presupposti della disciplina codicistica che regolano tale forma di responsabilità, e cioè in base a norme dello Stato la cui applicazione per definizione non è subordinata al volere delle parti. L’ingiustizia del danno risarcibile si ha - come è noto - sia quando il danno deriva da un comportamento lesivo di un diritto soggettivo altrui, sia quando deriva da un comportamento non autorizzato, e sotto questo secondo profilo può ammettersi agevolmente che non sia ingiusto neppure quel danno che sia stato arrecato da un comportamento negozialmente autorizzato dallo stesso soggetto leso. Non costituisce causa di giustificazione un negozio nullo, sia che la nullità attenga alla mancanza o alla illiceità della causa, sia che attenga alla nullità dell’ogget- to o, meglio, del contenuto del negozio tratto per relationem dalle singole disposizioni autodisciplinari. Pertanto, se rispetto all’azione aquiliana di responsabilità nessun limite al sindacato dal Giudice è ipotizzabile con riguardo alla ingiustizia del danno, nessun limite è per ciò stesso ipotizzabile al sindacato sulla validità dell’autorizzazione negoziale a porre in essere il comportamento dannoso. Questo risultato non può essere disatteso argomentando della incontestabilità delle pronunce dell’organo autodisciplinare perché tale incontestabilità è del tutto inconferente rispetto ad un’azione che, per definizione, non trae origine dal contratto e dalle regole della sua attuazione, ma, al contrario, si fonda sulla insussistenza del contratto stesso e comunque sulla sua idoneità a porsi come causa di giustificazione del danno sofferto. Quand’anche in ipotesi nell’ordinamento derivato fosse contenuta una norma di esonero da responsabilità per tutte le conseguenze dannose che potessero derivare dagli atti dell’organo autodisciplinare, questa norma sarebbe nulla nella misura in cui costituisce violazione di obblighi derivanti da norme statuali di ordine pubblico, ai sensi del comma 2 dell’art. 1229 c.c.: e siccome non può dubitarsi che siano norme di ordine pubblico quelle poste a disciplina dell’illecito aquiliano, è evidente che neppure un esonero espressamente previsto potrebbe impedire al Giudice ordinario di estendere il suo sindacato alla validità negoziale dell’autorizzazione conferita all’organo autodisciplinare di incidere negativamente sulla integrità della altrui sfera patrimoniale. (Segue): Danno derivante da applicazione scorretta del negozio autodisciplinare Diverso il problema dei rapporti fra l’azione aquiliana di responsabilità e la rilevanza conferita all’organo di autodisciplina quando non si faccia questione di validità del negozio relativo, ma si faccia questione di corretta attuazione dello stesso. Qui, invece, occorre necessariamente distinguere due situazioni, una delle quali è perfettamente assimilabile alla nullità del negozio e si verifica quando l’organo autodisciplinare applichi la misura repressiva ad un comportamento che non è affatto contemplato come illecito nell’ordinamento derivato, oppure - peggio ancora applichi la misura nei confronti di un soggetto che non abbia aderito né direttamente, né indirettamente a tale ordinamento. Verificandosi tali circostanze è ovvio che l’atto dell’organo autodisciplinare rileva unicamente come fatto produttivo di danno risarcibile e, come tale, è deducibile davanti al Giudice ordinario agli effetti dell’azione di responsabilità aquiliana. Le difficoltà di applicazione di un siffatto principio non sono di ordine concettuale, ma pratico, dato che spesso è complessa la verifica dell’efficacia degli atti di adesione all’ordinamento derivato, e dato, soprattutto, che è sempre assai complessa la valutazione della riconducibi- IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 387 OPINIONI•PUBBLICITA’ lità dello specifico comportamento sanzionato dall’organo di autodisciplina nel novero degli illeciti contemplati nell’ordinamento derivato. Vi è però un’importante avvertenza da fare a quest’ultimo proposito: ed è che, agli effetti della responsabilità aquiliana, il sindacato del Giudice ordinario non si sovrappone concettualmente a quello dell’organo di autodisciplina. Mentre, infatti, questo esercita un potere che gli è stato conferito negozialmente secondo l’estensione normalmente assai ampia e articolata che risulta dal contenuto dell’ordinamento derivato, il Giudice ordinario, se non vuole - come non deve - sostituirsi all’organo incaricato dell’attuazione del negozio autodisciplinare, deve limitarsi a verificare che tale organo non esorbiti dal potere conferitogli. Descrittivamente, per delineare i limiti della fattispecie in esame, si può riprodurre la stessa distinzione che vale nei rapporti fra Pubblica amministrazione e autorità giudiziaria ordinaria: nel senso che è risarcibile il danno che sia derivato da un atto compiuto in carenza assoluta di potere negoziale, mentre non è ingiusto il danno derivante da un atto che sia riconducibile nell’ambito del potere negozialmente ricevuto e che sia qualificabile come esercizio di questo potere. Oltre il sindacato del Giudice attivato con l’azione aquiliana di responsabilità non si può andare, perché, andando oltre, questo sindacato, anziché postulare l’assenza del vincolo negoziale, ne postulerebbe l’attuazione e per ciò stesso sarebbe destinato a svolgersi nella diversa ottica dell’azione negoziale di adempimento o di inadempimento. Detto ciò non va però dimenticato che il limite più pregnante del sindacato del Giudice ordinario nell’azione di responsabilità aquiliana nasce dalla necessaria sussistenza di un danno risarcibile, senza il quale l’azione non è neppure configurabile. E allora è chiaro che non basta non condividere l’operato dell’organo autodisciplinare per promuovere l’azione giudiziaria, ma occorre una lesione patrimoniale il cui verificarsi sia casualmente riconducibile all’operato di tale organo. Tutto dipende, allora, dalle sanzioni autodisciplinari applicabili e per di più da chi e da come tali sanzioni siano state concretamente applicate e con quali effetti. La conclusione delle considerazioni fin qui svolte è di escludere che il Giudice ordinario possa “rifare” il giudizio autodisciplinare esercitando così lo stesso potere che all’organo dell’autodisciplina fu conferito negozialmente. Il sindacato del Giudice ordinario verte sicuramente sulla validità della causa del negozio autodisciplinare e sulla liceità del suo oggetto (o del suo contenuto). Ma una volta che questa verifica abbia dato esito positivo, la soluzione interpretativa accolta dall’organo autodisciplinare non può in nessun modo essere posta a fondamento di una pretesa di risarcimento per responsabilità aquiliana. I margini della discrezionalità interpretativa, rientrano infatti per definizione nell’ambito del potere conferito all’organo autodisciplinare di incidere 388 IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 negativamente sulle situazioni soggettive degli aderenti: sicché questi non possono né qualificare come “ingiusto” il danno che sia loro derivato, né - tanto meno - pretendere di sostituire alla discrezionalità interpretativa dell’organo autodisciplinare l’equivalente discrezionalità del giudice ordinario, se è vero che questi è per definizione carente del giurisdizione rispetto all’interpretazione delle disposizioni autodisciplinari. Precisati i termini della “sindacabilità” delle pronunce autodisciplinari, resta da dire che nel giudizio di responsabilità extra-contrattuale il problema della legittimazione passiva deve essere risolto individuando il soggetto responsabile sulla base della struttura dell’istituzione autodisciplinare, fermo restando che l’azione è diretta contro il soggetto al quale risale - nei rapporti esterni l’imputabilità dell’operato che si assume produttivo del danno risarcibile. GIURISPRUDENZA•SINTESI Rassegna del Giurì di Autodisciplina Pubblicitaria a cura di Vincenzo Guggino Abbigliamento Giurì dell’Autodisciplina Pubblicitaria - Pronuncia 26 febbraio 2008, n. 17 - Pres. Gambaro - Rel. Ferrari Branded Apparel Italia s.r.l. e DBA Lux1 SARL c. Calzedonia s.p.a.; Twins s.r.l.; P.F.H. KFT Ungheria; Ag. Leo Burnett Co. s.p.a. Ingiustificato profitto - Accertamento presuntivo - Sussiste Il secondo elemento costitutivo della fattispecie di cui all’art. 13, comma 2, CA, ovvero che lo sfruttamento del nome, del marchio, della notorietà e dell’immagine aziendale assume rilevanza solo “se inteso a trarre per sé un ingiustificato profitto”, deve ritenersi sussistente in re ipsa allorché la norma trovi applicazione in una controversia riguardante le due aziende principali che operano nello stesso mercato offrendo lo stesso specifico prodotto. Uso di icone - Identità dei prodotti - Rileva L’uso protratto da parte di un inserzionista di una particolare icona nelle proprie campagne pubblicitarie relative ad un determinato prodotto è idoneo a ricevere tutela autodisciplinare ai sensi dell’art. 13, comma 2, CA, allorché tale icona venga ripresa da un concorrente e associata ad un prodotto similare, in quanto il pubblico dei consumatori ha certamente colto e memorizzato il collegamento originario. Uso di icone - Tutela non trasferibile su altri segni - Non ammissibile Ancorché sia proteggibile in sede autodisciplinare una particolare icona da lungo tempo associata alla comunicazione di uno determinato prodotto, tale tutela decade allorché la si intenda estendere anche all’idea, al comune significato simbolico, e persino alla stessa parola comunemente utilizzati per descrivere o evocare quell’icona, in quanto si tratta di elementi che appartengono al patrimonio linguistico e culturale più comune e non possono essere oggetto di monopolio comunicazionale di alcuno. Uscita campagna - Caduta del ricordo - Non sussiste Un arco temporale di sette anni fra l’uscita di due telecomunicati riferibili a due distinti inserzionisti è elemento presuntivo di non sussistenza dell’elemento della “confondibilità” di cui all’art. 13, comma 1, CA. Alimenti Giurì dell’Autodisciplina Pubblicitaria - Pronuncia 17 aprile 2008, n. 26 - Pres. Gambaro - Rel. Di Cataldo Unilever Italia s.r.l. c. Kraft Foods Italia s.p.a. e riconvenzionale Kraft Foods Italia s.p.a. c. Unilever Italia s.r.l. Denominazione merceologica - Rilevanza opinione comune Alterazione composizione - Rileva Ancorché non esista una definizione normativa o regolamentare di uno specifico prodotto alimentare, il fatto che nella lingua italiana venga comunemente denominato in un certo modo e che a tale denominazione vi si ricolleghi un insieme di ingredienti di cui uno sempre presente e caratterizzante, fa sì che qualora tale denominazione venga adoperata per pubblicizzare un prodotto privo di tale ingrediente essenziale la comunicazione relativa risulti ingannevole e quindi in contrasto con l’art. 2 CA. Accostamento merceologico - Condizione di ammissibilità È lecito accostare un prodotto alimentare ad un altro ben noto e caratterizzato da precisi ingredienti attraverso la qualificazione del primo in termini di “tipo xxx”, a condizione che si chiarisca la non equivalenza tra i due prodotti e che venga evidenziato l’elemento di cui è privo il prodotto innovativo. Accostamento merceologico - Onere informativo - Ammissibile È lecito utilizzare una denominazione cui comunemente si ricorre per descrivere genericamente un prodotto alimentare allorché venga utilizzata per descrivere lo stesso alimento alla cui composizione tradizionale è stato aggiunto un ulteriore ingrediente, a condizione che tale aggiunta venga correttamente segnalata. Bevande alcoliche Giurì dell’Autodisciplina Pubblicitaria - Pronuncia 26 maggio 2008, n. 54 - Pres. Deodato - Rel. Termine - Comitato di Controllo c. Birra Peroni s.p.a. Ratio art. 22 - Esemplificazioni fattispecie - Sussistono Una comunicazione commerciale che accrediti l’uso dell’alcol come mezzo per il soddisfacimento di bisogni e pulsioni irrazionali, o come sostanza euforizzante che porta ad uno stato di benessere, o come canale per una facile accet- IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 389 GIURISPRUDENZA•SINTESI tazione nel “gruppo”, si pone in contrasto con l’art. 22 CA - Bevande alcoliche - . Ratio art. 22 - Funzione direttamente pedagogica - Non richiesta L’art. 22 CA non ha la funzione di attribuire alla creatività pubblicitaria un indirizzo, un percorso e una soluzione direttamente “pedagogici” e perciò tali da obbligare a dare espressione al messaggio solamente attraverso la forma della persuasione “a non fare”, “ad evitare”. Decodifica del messaggio - Valutazione d’insieme - Profilo rilevante Dal momento che nel messaggio pubblicitario i significati emergono dalla relazione e dall’articolazione degli elementi che lo compongono, è nella totalità della rappresentazione che va ricercato il punto di vista etico e sociale di cui il messaggio si fa portatore e sul quale si esprime il sindacato autodisciplinare di conformità al Codice. Cosmetici Giurì dell’Autodisciplina Pubblicitaria - Pronuncia 6 maggio 2008, n. 46-47 - Pres. Deodato - Rel. Ferrari Pierre Fabre Italia s.p.a. e L’Oréal Italia s.p.a. c. Johnson & Johnson s.p.a. Valenza comunicazionale - Rilevanza del contesto - Non ammissibile Ancorché un determinato claim possa considerarsi lecito all’interno di un messaggio volto a magnificare un prodotto singolarmente considerato, tale correttezza può venir meno allorché lo stesso claim venga utilizzato nell’ambito di una pubblicità comparativa diretta al fine di vantare la superiorità del proprio prodotto rispetto ad altri esplicitamente individuati. Comparazione - Riconoscibilità dei prodotti - Alterazione del confronto Nell’ambito di una pubblicità comparativa diretta assume rilevanza la circostanza che il messaggio non consenta di identificare con chiarezza il nome dei prodotti comparati ma lasci solo riconoscere i rispettivi marchi aziendali, perché questo modo di operare fa sì che il vanto di superiorità che emerge dalla comunicazione finisca per essere genericamente attribuito all’intera gamma dei prodotti dell’azienda inserzionista. Comparazione - Requisiti - Interpretazione In relazione al requisito dell’omogeneità fissato dall’art. 15 - Comparazione - che impone di comparare prodotti che soddisfino gli stessi bisogni o si propongano gli stessi obiettivi, va tenuto presente il “messaggio prevalente” che ogni prodotto è finalizzato a veicolare, ovvero la finalità principale di azione che l’inserzionista intende riconnettere all’utilizzo dell’uno o dell’altro prodotto. 390 IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 Test comparativi - Valutazioni tecniche oggettive - Rileva Allorché si svolgano o si commissionino test comparativi al fine di sostanziare claim prestazionali, in mancanza di criteri convalidati e codificati, è opportuno affiancare allo svolgimento di indagini basate su percezioni soggettive, anche altre indagini che possano fornire valutazioni più oggettive sul piano tecnico, così come previsto dall’art. 15 CA. Integratori alimentari Giurì dell’Autodisciplina Pubblicitaria - Pronuncia 10 giugno 2008, n. 53 - Pres. Deodato - Rel. Ubertazzi - Comitato di Controllo c. Sofar s.p.a.; R.T.I.; Mediaset Condotta processuale - Accettazione - Rileva La presentazione di difese di rito e di merito mostra la volontà delle parti di sottoporsi al giudizio del Giurì e quindi consente a quest’ultimo di avere giurisdizione e competenza nei confronti di tutte le parti del procedimento. Trasparenza - Comportamenti soggettivi - Rapporto di committenza L’art. 7 CA - Identificazione della comunicazione commerciale - vieta ogni messaggio che abbia le caratteristiche oggettive e gli effetti propri di un messaggio pubblicitario, anche quando le intenzioni soggettive dei protagonisti non siano per avventura tali, e anche quando non vi sia un rapporto di committenza tra l’inserzionista e il mezzo. Autodisciplina e concorrenza - Rilevanza elementi oggettivi Dal momento che il Codice di autodisciplina è regola della concorrenza, e che tutte le norme relative all’accertamento e all’inibitoria degli illeciti concorrenziali hanno riguardo agli effetti che un’attività ha oggettivamente sul mercato a prescindere dalle caratteristiche soggettive della medesima, ne deriva che le fattispecie rilevanti come illecito autodisciplinare sono costituite esclusivamente da elementi oggettivi, e non anche da elementi soggettivi. Pubblicità nascosta - Caratteristiche oggettive Per il fatto di avere oggettivamente le caratteristiche e gli effetti propri degli annunci pubblicitari un messaggio che dissimuli la propria natura pubblicitaria è sanzionato ai sensi dell’art. 7 CA senza necessità di transitare attraverso un procedimento argomentativo ridondante qual è quello che prende atto dell’esistenza delle caratteristiche e degli effetti pubblicitari propri di un messaggio, ne trae la presunzione dell’esistenza di un rapporto di committenza e afferma perciò la violazione dell’art. 7 CA. Pubblicità nascosta - Vigilanza emittente - Rileva Ancorché sia vero che un’emittente non ha la possibilità di impedire in una trasmissione in diretta che un ospite renda informazioni oggettivamente pubblicitarie, essendo l’emittente soggetta al rispetto del Codice di autodisciplina è obbligata a vincolare gli ospiti delle proprie trasmis- GIURISPRUDENZA•SINTESI sioni a non utilizzarle come veicolo di esternazioni pubblicitarie. Pubblicità nascosta - Trasmissione televisiva - Pubblicazione estratto L’inserimento di una pubblicità nascosta all’interno di una trasmissione televisiva destinata probabilmente a non essere ripetuta, rendendo modesto il rilievo delle sanzioni dell’accertamento dell’illecito autodisciplinare e della sua inibitoria, suggerisce la particolare opportunità della pubblicazione della decisione per estratto ai sensi dell’art. 40 CA, comma 2. Prodotti per l’infanzia Giurì dell’Autodisciplina Pubblicitaria - Pronuncia 3 giugno 2008, n. 58 - Pres. Spada - Rel. Castronovo - Artsana s.p.a. c. Medel s.p.a. Vincolo autodisciplinare - Mezzi non aderenti - Ammissibile La comunicazione veicolata attraverso dei mezzi relativamente ai quali la parte convenuta ha eccepito il difetto di giurisdizione non è sottratta alla cognizione del Giurì quando abbia contenuto identico a quello della comunicazione che sia oggetto non contestato dell’esame autodisciplinare. Ingannevolezza e ambiguità - Rapporto tra norme - Sussiste Il divieto posto dall’art. 24 CA - Trattamenti fisici ed estetici - alla luce del quale la pubblicità di questo specifico settore «non deve indurre a ritenere che tali trattamenti abbiano funzioni terapeutiche o restitutive ovvero abbiano la capacità di produrre risultati radicali», è una specifica variante dell’esemplificazione di cui all’art. 2 CA - Comunicazione commerciale ingannevole - di un fattore della potenzialità ingannevole di un messaggio, ovvero la “ambiguità”. Area salutistica ed estetica - Contaminazioni - Non ammissibile In un settore merceologico caratterizzato da consumatori appartenenti ad un target psicologicamente debole com’è quello formato da chi è alla ricerca di una, spesso impossibile, promozione estetica, la contiguità comunicazionale tra la chirurgia estetica e un trattamento non chirurgico, è idonea ad accreditare il secondo della medesima efficacia della prima, creando così un’ambiguità lesiva tanto dell’art. 2 CA che dell’art. 24 CA, vietando quest’ultimo specificamente assimilazioni di sorta tra trattamenti terapeutici e trattamenti estetici. Accettazione - Pluralità di mezzi - Posizione del convenuto Rileva La parte che, dopo aver manifestato accettazione della giurisdizione del Giurì in relazione alla propria comunicazione commerciale veicolata attraverso determinati mezzi, se ne intendesse sottrarre in relazione a messaggi funzionalmente e strutturalmente identici diffusi attraverso altri e diversi mezzi, si renderebbe autrice di un evidente venire contra factum proprium, cioè pretenderebbe di trarre beneficio da una condotta contrastante con quella precedentemente manifestata e in forza della quale ha assunto degli obblighi e ingenerato degli affidamenti. Claim di sicurezza - Onere probatorio - Non ammissibile Dal momento che non risulta provata la pericolosità e la non sicurezza per l’uomo di una determinata molecola chimica, risultano ingannevoli ai sensi dell’art. 2 CA sia quei claim che enfatizzano l’innocuità di un determinato prodotto in ragione dell’assenza di quel componente, sia quelli che asseverano un rischio per la salute allorché si utilizzi un prodotto che risulti invece contenere quello specifico componente. Trattamenti estetici Giurì dell’Autodisciplina Pubblicitaria - Pronuncia 8 aprile 2008, n. 19 - Pres. e Rel. Spada - Comitato di Controllo c. Beauty Center s.r.l. IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 391 GIURISPRUDENZA•DIRITTO D’AUTORE Privilegio dei crediti L’iscrizione al passivo fallimentare del credito dell’autore TRIBUNALE DI FIRENZE, 16 gennaio 2008 - Pres. D’Amora - Rel. Settembre Diritto di autore - SIAE - Privilegio - Art. 2751 bis n. 2 c.c. - Non spetta (C.c. art. 2751 bis, n. 2) Al credito per diritti di autore non spetta il privilegio ex art. 2751 bis n. 2 c.c. in quanto non si tratta di credito di lavoro ma di utilizzazione di un patrimonio. Svolgimento del processo Con ricorso depositato in data 18 ottobre 2006 la S.I.A.E. chiedeva di essere ammessa al passivo del fallimento Harmony Music s.r.l. per il credito di euro 28510,09 con il privilegio di cui all’art. 2751 bis, n. 2, c.c. (quali diritti d’autore); per il credito di euro 5702,02 col privilegio generale (IVA sui diritti d’autore); per euro 1538,86 in chirografo (interessi moratori). Il Giudice fissava l’udienza di comparizione delle parti dinanzi a sé per la data del 30 novembre 2006, assegnando al ricorrente termine per la notifica del ricorso e del decreto al curatore. Il ricorso veniva notificato, nel termine assegnato, al curatore, il quale, comparso all’udienza del 30 novembre 2006 e in quelle successive (disposte su richiesta di parte), si opponeva all’ammissione del credito per come richiesto, ritenendo inapplicabile alla fattispecie l’art. 2751 bis c.c. Il Giudice Delegato, pertanto, rinviava il procedimento all’udienza del 10 luglio 2007 per la costituzione della curatela. All’udienza fissata si costituiva la curatela col ministero dell’avv. R.S., che chiedeva il rigetto del ricorso (nei termini proposti). Faceva rilevare che l’art. 2751 bis, n. 2 c.c., riserva il privilegio generale ai compensi dovuti in adempimento di un’obbligazione nascente da contratto d’opera intellettuale intercorrente tra committente e prestatore d’opera, mentre il diritto patrimoniale d’autore trova la sua causa nello sfruttamento delle capacità economiche inerenti la titolarità del diritto patrimoniale suddetto, assimilabile al diritto di proprietà quanto alla sua assolutezza, elasticità e realità e sottratto, in quanto tale, alla disciplina dell’art. 2751 bis c.c. In subordine, la curatela rilevava che le somme richieste dalla SIAE comprendevano sia il diritto d’autore vero e proprio (vale dire, il compenso riservato all’autore dell’opera), sia le provvigioni maturate che le spese di riscossione sostenute dalla SIAE. Nel ricorso, però, non era dato distinguere tra queste due voci, per cui la domanda andava comunque respinta, se anche si fosse riconosciuto il privilegio al “diritto d’autore”. Infine, la curatela contestava il privilegio al credito di rivalsa IVA, per mancanza dei beni di riferimento. Non si opponeva all’ammissione in chirografo della somma richiesta per interessi. Nel corso dell’istruttoria le parti non hanno modificato le proprie posizioni. La causa, istruita esclusivamente con prova documentale, è stata trattenuta in decisione all’udienza del 2 ottobre 2007. Motivi della decisione La richiesta di collocazione in privilegio dei crediti per “diritto d’autore”, formulata dalla S.I.A.E., va respinta. La ratio del privilegio contemplato dall’art. 2751 bis c.c., è data, come viene spesso detto e ripetuto, dalla tutela del “lavoro”, nelle sue varie forme (manuale o intellettuale), in quanto il lavoro, oltre a fondare il progresso economico e spirituale di una collettività, rappresenta anche un mezzo di sostentamento per il soggetto che lo presta. L’esegesi dell’art. 2751 bis c.c. evidenzia che questa norma attribuisce il privilegio generale a varie categorie di crediti derivanti da attività lavorativa (crediti di lavoro subordinato, autonomo, provvigioni derivanti da rapporto di agenzia, corrispettivi dovuti al coltivatore diretto, all’artigiano, alle società cooperative agricole), tutte accomunate dalla circostanza che il credito rappresenta la “remunerazione” del lavoro. Ciò è di immediata evidenza per i lavoratori subordinati e quelli autonomi, per i quali il credito rappresenta la “retribuzione” di un’attività (il concetto di “retribuzione”, infatti, sottintende il rapporto di stretta derivazione tra la prestazione dell’attività e la sua remunerazione), ma non lo da meno per il coltivatori diretti, gli artigiani e le società cooperative agricole, per i quali il credito rappresenta il corrispettivo della vendita dei IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 393 GIURISPRUDENZA•DIRITTO D’AUTORE “prodotti”, dei “servizi” dei “manufatti”; vale a dire, la remunerazione del lavoro prestato per produrre i suddetti beni. Nell’art. 2751 bis c.c. ha avuto quindi attuazione il principio costituzionale sulla tutela del lavoro, in qualunque modo svolto, in quanto fonte prevalente di sostentamento del lavoratore e della sua famiglia. Ciò si desume, oltre che dalla lettera della legge, anche dall’esame delle relazioni ai quattro disegni legge da cui è derivata la L. n. 426/1975 (introduttiva dell’art. 2751 bis c.c.) e dal dibattito in seno alla IV Commissione della Camera e alla II Commissione del Senato,da cui si evince che lo scopo della novella fu, essenzialmente, quello di estendere ai lavoratori autonomi e a tutti i lavoratori produttori diretti di beni o servizi il trattamento di favore già riservato dalla L. 30 aprile 1969, n. 153, ai lavoratori dipendenti. Se questo è lo scopo della norma è evidente che nella stessa (in particolare, sotto la previsione del n. 2) non possono farsi rientrare in alcun modo i diritti d’autore previsti dagli artt. 2575 ss. c.c., il cui contenuto è fissato dall’art. 2577 c.c. (diritto di pubblicare l’opera, di utilizzarla economicamente, di rivendicarne la paternità, di opporsi a qualsiasi modificazione o mutilazione). La ratio dell’art. 2751/bis, invero, è quella di costituire un titolo di preferenza per la “retribuzione”; non già di apprestare tutela preferenziale a tutti i crediti maturati in capo al prestatore d’opera e per qualunque titolo. Se così non fosse andrebbe accordato il privilegio dell’art. 2751bis anche al credito risarcitorio maturato per effetto della contraffazione, o della modificazione, o della mutilazione o della contestazione dell’opera dell’ingegno; il che è chiaramente improponibile. Per gli stessi motivi non può essere riconosciuto il privilegio ai crediti maturati per effetto della fruizione dell’opera da parte dei terzi (credito derivante, pacificamente, dalla riserva, esistente a favore dell’autore, del diritto di utilizzazione economica dell’opera). Questo perché diritto alla retribuzione e diritto di utilizzazione economica sono posizioni diverse, che sono trattate diversamente dall’ordinamento. La retribuzione è il compenso dovuto all’autore per la creazione dell’opera o per la sua rappresentazione (vale a dire, per la prestazione lavorativa finalizzata alla creazione o rappresentazione dell’opera). Quest’obbligo grava su colui che abbia richiesto l’opera (committente di un quadro o di una statua, organizzatore di un concerto musicale che contempli la partecipazione del cantante o del musicista, compagnia teatrale che si avvalga dell’opera personale di un artista, ecc.). Nessun dubbio che il credito corrispondente dell’autore abbia natura privilegiata, ai sensi dell’art. 2751 bis, n. 2 c.c., giacché si tratta di un credito che nasce dalla prestazione lavorativa e ne costituisce la remunerazione. Il diritto allo sfruttamento economico dell’opera non ha nulla a che vedere con la “retribuzione”, giacché costituisce una delle facoltà dell’autore (è un contenuto del diritto d’autore, come si è detto) e non è collegato 394 IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 all’esecuzione di alcuna prestazione lavorativa. Infatti, diversi sono i tempi di insorgenza dei due diritti e diversa è la loro natura. Mentre il diritto alla retribuzione nasce durante e per effetto dello svolgimento della prestazione lavorativa, il diritto d’autore (nella specie che ci riguarda: diritto alla sfruttamento economico) nasce ad opera compiuta; il diritto alla retribuzione è relativo (esiste nei confronti del committente), mentre il diritto di sfruttamento economico è assoluto (può essere fatto valere erga omnes); il diritto alla retribuzione, in sé e per sé, è personale e incommerciabile (salva la facoltà di cedere il diritto di credito sorto per effetto della prestazione lavorativa), mentre il diritto (patrimoniale) d’autore può essere ceduto a terzi (art. 2581 c.c.). In concreto, poi, i “diritti d’autore” (vale a dire, i diritti di credito, anch’essi di natura relativa, sorti per effetto dell’utilizzazione dell’opera e riscossi dalla S.IA.E.) conseguono alla fruizione dell’opera; non alla sua creazione. Quindi, non sono collegati ad una prestazione lavorativa dell’autore, ma al godimento dei terzi, che avviene senza l’intervento o la partecipazione dell’autore (anzi, il più delle volte a sua insaputa). Tali “diritti”, se rappresentano comunque un compenso (o un beneficio) per l’autore, non ricadono nella previsione dell’art. 2751 bis c.c., giacché all’origine del privilegio previsto dall’articolo suddetto non vi è la “fruizione” dell’opera, ma la prestazione diretta a produrla (sono oggetto di privilegio, dice l’art. 2751 bis, “le retribuzioni (…) dovute per gli ultimi due anni di prestazione”). Se può essere condivisa, quindi, l’impostazione della ricorrente, secondo cui il diritto d’autore, contemplando una fruizione ripetuta dell’opera e il suo godimento da parte di un numero indeterminato di persone, si “attua” nel momento della fruizione stessa, non per questo ne discende la natura privilegiata di tutti i crediti maturati in capo all’autore, giacché nel fuoco dell’art. 2751 bis c.c. ricadono solo i crediti collegati alla prestazione personale e diretta del lavoratore (e non anche i crediti derivanti dallo sfruttamento economico dell’opera prodotta). Un esempio può fare chiarezza dell’improponibilità della tesi contraria: un lavoratore autonomo realizza un fabbricato, di cui diviene proprietario, e lo cede in locazione: i crediti della locazione godono del privilegio di cui all’art. 2751 bis c.c.? La risposta negativa, che qui si impone con evidenza, vale anche per il prodotto immateriale dell’artista (anche se il contratto di cessione non ha il nomen iuris della locazione). Ugualmente assurda appare, se si accede alla tesi della ricorrente, la situazione creata dal trasferimento del diritto patrimoniale d’autore (sempre possibile): gli eredi o gli acquirenti godrebbero del privilegio dell’art. 2751 bis c.c. (per settanta anni!) per il solo fatto di succedere nella posizione dell’autore, anche se i loro crediti sono lontani mille miglia dalla “prestazione lavorativa” contemplata dalla norma suddetta. GIURISPRUDENZA•DIRITTO D’AUTORE La domanda va perciò disattesa. Quanto al credito di rivalsa IVA, per cui viene pure invocato il privilegio, la domanda deve essere rigettata, per l’inesistenza dei beni di riferimento. La ricorrente può essere ammessa al passivo per gli interessi moratori, su cui non vi è contestazione. Il contrasto giurisprudenziale, esistente sul punto principale della domanda, consiglia di compensare le spese del giudizio. P.Q.M. Definitivamente pronunziando sulla domanda proposta dalla Società Italiana degli Autori ed Editori S.I.A.E. con ricorso del 18 ottobre 2006 così provvede: – ammette la ricorrente al passivo del fallimento Harmony Music s.r.l. per l’importo di euro 1538,86, in via chirografaria; rigetta nel resto la domanda. Compensa tra le parti le spese del giudizio. IL COMMENTO di Paola Cavallaro La sentenza affronta il problema dibattuto in dottrina e giurisprudenza della natura privilegiata o chirografaria del credito derivante dallo sfruttamento dell’opera dell’ingegno. Premessa La sentenza in rassegna, affronta il problema della natura del compenso per diritto di autore ai fini della insinuazione al passivo fallimentare. Nel caso di specie la SIAE aveva chiesto di essere ammessa al passivo fallimentare della S.r.l. Harmony Music con il privilegio ex art. 2751 bis n. 2 c.c. Il Tribunale ha respinto la richiesta della SIAE in quanto ha ritenuto che la ratio del privilegio contemplato dall’art. 2751 bis c.c. è data dalla tutela del “lavoro”, nelle sue varie forme (manuale o intellettuale), in quanto il lavoro, oltre a fondare il progresso economico e spirituale di una collettività, rappresenta anche un mezzo di sostentamento per il soggetto che lo presta. Invero la ratio dell’art. 2751 bis, sempre secondo il Tribunale, è quella di costituire un titolo di preferenza per la “retribuzione” e non già di apprestare tutela preferenziale a tutti i crediti maturati in capo al prestatore d’opera e per qualunque titolo. Se così non fosse andrebbe accordato il privilegio dell’art. 2751 bis anche al credito risarcitorio maturato per effetto della contraffazione, o della modificazione, o della mutilazione o della contestazione dell’opera dell’ingegno: il che è chiaramente improponibile. Secondo il Tribunale la retribuzione è il compenso dovuto all’autore per la creazione dell’opera o per la sua rappresentazione (vale a dire, per la prestazione lavorativa finalizzata alla creazione o rappresentazione dell’opera). Quest’obbligo grava su colui che abbia richiesto l’opera (committente di un quadro o di una statua, organizzatore di un concerto musicale che contempli la partecipazione del cantante o del musicista, compagnia teatrale che si avvalga dell’opera personale di un artista, ecc.). Nessun dubbio che il credito corrispondente dell’autore abbia natura privilegiata, ai sensi dell’art. 2751 bis, n. 2 c.c., giacché si tratta di un credito che nasce dalla prestazione lavorativa e ne costituisce la remunerazione. Il diritto allo sfruttamento economico dell’opera non ha nulla a che vedere con la “retribuzione”, giacché costituisce una delle facoltà dell’autore (è un contenuto del diritto d’autore, come si è detto) e non è collegato all’esecuzione di alcuna prestazione lavorativa. Infatti, diversi sono i tempi di insorgenza dei due diritti e diversa è la loro natura. Mentre il diritto alla retribuzione nasce durante e per effetto dello svolgimento della prestazione lavorativa, il diritto d’autore (nella specie che ci riguarda: diritto allo sfruttamento economico) nasce ad opera compiuta; il diritto alla retribuzione è relativo (esiste nei confronti del committente), mentre il diritto di sfruttamento economico è assoluto (può essere fatto valere erga omnes); il diritto alla retribuzione, in sé e per sé, è personale e incommerciabile (salva la facoltà di cedere il diritto di credito sorto per effetto della prestazione lavorativa), mentre il diritto (patrimoniale) d’autore può essere ceduto a terzi (art. 2581 c.c.). Conclude il Tribunale che, in concreto, i “diritti d’autore” (vale a dire, i diritti di credito, anch’essi di natura relativa, sorti per effetto dell’utilizzazione dell’opera e riscossi dalla S.IA.E.) conseguono alla fruizione dell’opera ma non alla sua creazione. Quindi, non sono collegati ad una prestazione lavorativa dell’autore, ma al godimento dei terzi, che avviene senza l’intervento o la partecipazione dell’autore (anzi, il più delle volte a sua insaputa). Tali “diritti”, se rappresentano comunque un compenso (o un beneficio) per l’autore, non ricadono nella previsione dell’art. 2751 bis c.c., giacché all’origine del privilegio previsto dall’articolo suddetto non vi è la “fruizione” dell’opera, ma la prestazione diretta a produrla (sono oggetto di privilegio, dice l’art. 2751 bis, “le retribuzioni (…) dovute per gli ultimi due anni di prestazione”). Il Tribunale pur condividendo l’argomento della SIAE, secondo il quale il diritto d’autore contemplando una fruizione ripetuta dell’opera e il suo godimento da parte di un numero indeterminato di persone si “attua” nel momento della fruizione stessa, non riconosce la natura privilegiata di tutti i crediti maturati in capo all’autore, giacché nel fuoco dell’art. 2751 bis c.c. ricadono so- IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 395 GIURISPRUDENZA•DIRITTO D’AUTORE lo i crediti collegati alla prestazione personale e diretta del lavoratore (e non anche i crediti derivanti dallo sfruttamento economico dell’opera prodotta). Ulteriori interventi giurisprudenziali Nello stesso senso della sentenza in rassegna si è espresso il Tribunale di Genova in due occasioni. Nella prima ha ritenuto che il titolo del corrispettivo dovuto all’autore, e per esso alla SIAE, per l’utilizzazione dell’opera non è costituito da un contratto di prestazione di opera intellettuale, ma dalla concessione in godimento temporaneo del diritto assoluto sull’opera dell’ingegno: tale corrispettivo non ha natura di retribuzione, ma attiene allo sfruttamento delle capacità economiche inerenti la titolarità del diritto patrimoniale d’autore e pertanto non può ad esso riconoscersi quella particolare tutela costituita dal privilegio previsto dall’art. 2751 bis, n. 2 c.c. (1). Nella seconda il Tribunale ha ritenuto che i diritti d’autore costituiscono diritti di credito spettanti all’autore in corrispettivo del godimento che altri abbiano avuto dell’opera dell’ingegno sulla quale l’autore, per effetto della creazione, ha acquisito un diritto originario, esclusivo ed assoluto erga omnes; con il pagamento dei diritti d’autore non il lavoro viene retribuito, ma il godimento dell’opera dell’ingegno da parte di un soggetto diverso dall’autore, integrando quei diritti un’ipotesi di frutti civili o fattispecie a questi assimilabile, ne consegue quindi l’insussistenza del privilegio in ordine a detti diritti (2). Più di recente, sempre nello stesso senso, si è espresso il Tribunale di Bologna in un caso di cessione del diritto di sfruttamento economico di un’opera di traduzione. Con il pagamento del corrispettivo dovuto, non il lavoro viene retribuito, ma il godimento dell’opera da parte di un soggetto diverso dall’autore, integrando questi diritti un’ipotesi di frutti civili o fattispecie a queste assimilabili, a cui non può riconoscersi il privilegio generale sui mobili ex art. 2751 bis, n. 2 c.c. (3). In senso contrario alla massima in rassegna si è espressa la giurisprudenza prevalente sia passata che recente. Quanto al passato per una rassegna completa della giurisprudenza più risalente vedi la nota 2 di Pinna (4). Più di recente il Tribunale di Treviso 8 marzo 1997 (5) ha affermato che il diritto derivante dall’utilizzazione economica dell’opera, riconducibile all’autore, è sicuramente assistito dal privilegio generale ex art. 2751 n. 2 c.c., perché ha natura di compenso per la prestazione di un’opera dell’ingegno. Il privilegio può riconoscersi anche quando il diritto patrimoniale dell’autore venga fatto valere dalla SIAE. Ancora in tale senso contrario Trib. Savona 28 maggio 1991 (6) e più di recente App. Bologna 24 aprile 2001 (7). so Pinna secondo il quale in concetto di “retribuzione” di cui all’art. 2751 bis n. 2 c.c. applicato al caso del diritto di autore, da ritenersi senza dubbio prestatore di opera intellettuale, deve essere elaborato in senso lato e in riferimento ai diversi tipi di utilizzazione dell’opera prodotta. È evidente infatti che, al di fuori dei casi particolari in cui si realizza una utilizzazione unica e puntuale dell’opera creata, per la quale si ottiene una retribuzione-corrispettivo che soddisfa in unica soluzione il diritto patrimoniale dell’autore, esistono altri casi (ad esempio diffusione dell’opera musicale a mezzo radio o televisione, utilizzazione nel corso di esecuzioni in manifestazioni musicali, trattenimenti danzanti in pubblici esercizi ecc.), in cui i crediti dell’autore maturano di pari passo con le varie e successive utilizzazioni dell’opera. Ipotizzare la riconoscibilità del richiamato privilegio solo per i casi del primo tipo e non anche per gli altri, per il semplice fatto che per questi ultimi il credito matura a più riprese, in concomitanza con le successive utilizzazioni, sembra del tutto aberrante, in quanto non può certo esistere un diritto di autore privilegiato e un altro, per così dire, di seconda serie, declassificato a chirografario. L’Autore sottolinea infine che ogni errore interpretativo circa il problema in questione può essere superato laddove si consideri che la causa del credito, in considerazione della quale la legge accorda il privilegio (art. 2745 c.c.), è costituita da qualsiasi prestazione intellettuale e, conseguentemente, deve essere vista in stretto collegamento con le varie forme di attuazione e di utilizzazione della stessa. Ancora di recente Musso (8) secondo il quale i crediti da diritto di autore godono del privilegio ex art. 2751 bis n. 2 c.c. per gli ultimi due anni della prestazione intellettuale di natura continuativa. Note: (1) Trib. Genova 9 ottobre 1990, in Giur. comm, 1992, 673 ss. (2) Trib. Genova 9 ottobre 1990, cit. (3) Trib. Bologna 12 maggio 1998, in Dir. fall., 2004, 273. In dottrina in senso conforme alla massima G. Ruisi, A. Jorio, A. Maffei Alberti, G.U. Tedeschi, Il Fallimento, in Giur. sist. civ. e comm., diretta da W. Bigiavi, II, Torino, 1988, 685 ss. e di recente G. Mari, La natura privilegiata dei crediti per diritto di autore, in Dir. aut., 2007, 589 ss. (4) G.M. Pinna, Natura privilegiata dei crediti per diritto di autore e procedure concorsuali, in Dir. aut., 1989, 157. (5) In Dir. aut., 1997, 386. (6) In Dir. aut., 1996, 246. (7) In Dir. fall., 2004, II, 273, con nota di Cannone. La dottrina sull’argomento Quanto alla dottrina in senso contrario si è espres- 396 IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 (8) A. Musso, Diritto di autore sulle opere dell’ingegno letterarie ed artistiche, in Commentario Scialoja - Branca, vol. V, artt. 2575 - 2583, 2008, 283 ss. INDICI INDICE DEGLI AUTORI Cristiano Bacchini L’efficacia “cross border” in ambito comunitario dei provvedimenti di descrizione......................................... Giuseppe Bianchetti Certificati di protezione complementari e preparativi di un dossier di registrazione .......................................... Riccardo Castiglioni Le nuove disposizioni in materia di tutela penale dei diritti di proprietà industriale ........................................ Paola Cavallaro L’iscrizione al passivo fallimentare del credito dell’autore................................................................................... Claudia Desogus Il commercio parallelo disincentiva la ricerca farmaceutica? ........................................................................... Giorgio Floridia Autodisciplina e funzione arbitrale............................... Cesare Galli L’esaurimento internazionale del marchio.................... Vincenzo Guggino Rassegna del Giurì di Autodisciplina Pubblicitaria..... Marco Lamandini Il difficile equilibrio tra “valore sostanziale” e carattere distintivo della forma ................................................. Massimiliano Pappalardo Il difficile equilibrio tra “valore sostanziale” e carattere distintivo della forma ................................................. Iuri Maria Prado Il marchio di fatto come oggetto di un giudizio di fatto...................................................................................... 311 373 347 305 INDICE ANALITICO 373 393 335 381 356 389 325 325 353 INDICE CRONOLOGICO DEI PROVVEDIMENTI Giurisprudenza Corte di Giustizia Corte di Giustizia CE Ordinanza 27 settembre 2007, causa C-175/06 ............................................................... Corte di Cassazione Cass., Sez. I, 21 dicembre 2007, n. 27081 .................... Cass. 22 febbraio 2008, n. 4531..................................... Tribunale Trib. Firenze 16 gennaio 2008 ....................................... Trib. Venezia 24 gennaio 2008...................................... Giurì dell’Autodisciplina pubblicitaria Giurì 26 febbraio 2008, n. 17 ........................................ Giurì 8 aprile 2008, n. 19............................................... Giurì 17 aprile 2008, n. 26............................................. Giurì 6 maggio 2008, n. 46-47 ...................................... Giurì 26 maggio 2008, n. 54.......................................... Giurì 3 giugno 2008, n. 58............................................. Giurì 10 giugno 2008, n. 53........................................... Documenti D.M. Sviluppo economico 27 giugno 2008 - Ricerca di anteriorità relativamente alle domande di brevetto per invenzione industriale.............................................. Disegno di legge 2 luglio 2008, n. C-1441 - Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria............................................ Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, Presentazione alla relazione annuale, 24 giugno 2008. 311 356 353 393 325 389 391 389 390 389 391 390 320 Antitrust Liberalizzaione del mercato - Contro i cartelli e per la tutela dei consumatori ...... Settore farmaceutico - Il commercio parallelo disincentiva la ricerca farmaceutica?, di Claudia Desogus .................................. Brevetti Brevetti farmaceutici - Certificati di protezione complementari e preparativi di un dossier di registrazione, di Giuseppe Bianchetti ............................................................................. Brevetto europeo - Ricerca di anteriorità relativamente alle domande di brevetto per invenzione industriale (D.M. Sviluppo economico 27 giugno 2008) ................................ Privative industriali - L’efficacia “cross border” in ambito comunitario dei provvedimenti di descrizione (11Corte di Giustizia CE Ordinanza del 27 settembre 2007, causa C175/06), commento di Cristiano Bacchini.................. Concorrenza sleale Imitazione servile - Il marchio di fatto come oggetto di un giudizio di fatto (Cassazione Civile 22 febbraio 2008, n. 4531) Il commento di Iuri Maria Prado................................ Importazione parallela - L’esaurimento internazionale del marchio (Cassazione Civile, Sez. I, 21 dicembre 2007, n. 27081), commento di Cesare Galli .......................................... 347 335 305 320 311 353 356 Diritto d’autore Privilegio dei crediti - L’iscrizione al passivo fallimentare del credito dell’autore (Tribunale di Firenze 16 gennaio 2008) Il commento di Paola Cavallaro..................................... 393 Marchi Marchio di forma - Il difficile equilibrio tra “valore sostanziale” e carattere distintivo della forma (Tribunale di Venezia 24 gennaio 2008), commento di Marco Lamandini e Massimiliano Pappalardo .............................................. 325 Proprietà intellettuale Lotta alla contraffazione - Le nuove disposizioni in materia di tutela penale dei diritti di proprietà industriale (Disegno di legge 18 giugno 2008), commento di Riccardo Castiglioni........ 373 Pubblicità Abbigliamento - Giurì 26 febbraio 2008, n. 17..................................... 389 IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 397 INDICI Alimenti - Giurì 17 aprile 2008, n. 26......................................... Bevande alcoliche - Giurì 26 maggio 2008, n. 54...................................... Controversie - Autodisciplina e funzione arbitrale, di Giorgio Floridia................................................................................. Cosmetici - Giurì 6 maggio 2008, n. 46-47................................... 398 IL DIRITTO INDUSTRIALE N. 4/2008 389 389 381 390 Integratori alimentari - Giurì 10 giugno 2008, n. 53....................................... Prodotti per l’infanzia - Giurì 3 giugno 2008, n. 58......................................... Trattamenti estetici - Giurì 8 aprile 2008, n. 19........................................... 390 391 391