La rappresentanza politica: genesi e crisi del concetto

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Giuseppe Duso
LA RAPPRESENTANZA
POLITICA
Genesi e crisi del concetto
FrancoAngeli
A Hasso Hofmann
Indice
Premessa
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1. La rappresentazione e l’arcano dell’idea: introduzione al problema
1. La rappresentanza politica: il presentarsi di un’aporia
2. Per una storia della moderna rappresentanza politica
3. Rappresentazione come presenza dell’assenza
4. La struttura della rappresentazione
5. Un itinerario attraverso Platone: l’icona, ovvero
la buona immagine
6. Rappresentazione e idea: il disegno della polis
7. Pratica della filosofia e problema dell’origine
2. Genesi e logica della rappresentanza politica moderna
1. Diritti dell’uomo e costituzione: la Rivoluzione francese
2. Dalla rappresentanza per ordini alla rappresentanza per testa:
un altro modo di intendere la politica
3. Il concetto di popolo e la dimensione rappresentativa
4. La nascita della scienza politica moderna
5. Naturalità della società e naturalità del governo in Althusius
6. La dimensione plurale del popolo e la concezione cetuale
della rappresentanza
7. Il moderno concetto di potere e la nuova dimensione del popolo
8. L’unità politica e l’invenzione della rappresentanza
9. Il popolo attraverso il rappresentante
10. Il popolo contro il rappresentante
11. Rappresentare l’idea
12. Il controllo dei rappresentanti e la rivoluzione
13. La rappresentanza politica tra unità e complessità
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3. Tipi del potere e forma politica moderna in Max Weber
1. «Herrschaft» nel significato moderno di «potere politico»
2. Distinzione ed opposizione tra potere razionale
e potere carismatico
3. Il carisma e la durata del potere
4. L’elemento eccedente nel potere di tipo razionale-legale
5. «Herrschaft» e «Repräsentation»
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4. Rappresentazione e unità politica nel dibattito degli anni Venti:
Schmitt e Leibholz
1. Rappresentazione e forma politica
2. Rappresentazione e realizzazione dell’identità
3. Legittimazione del potere e rappresentanza
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148
158
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5. La rappresentazione come radice della teologia politica
in Carl Schmitt
1. L’analogia e il problema di una concettualità radicale
2. L’emergere di una struttura teoretica
3. «Sichtbarmachung» e «Säkularisierung»
4. Rappresentazione e forma politica in «Cattolicesimo romano»
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6. Filosofia e crisi della scienza politica: Eric Voegelin
1. La filosofia pratica come spazio «disciplinare»
2. Voegelin e Schmitt: una radicalizzazione critica
3. La rappresentanza e il problema della verità
4. Platone, Aristotele e la «pratica» della filosofia
196
198
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216
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PREMESSA
Chi si accinge a leggere un libro dedicato al tema della rappresentanza
politica può essere sorpreso nel trovarsi di fronte ad una serie di affondi analitici che, con una sola eccezione, riguardano quella che potrebbe essere intesa
come la rappresentanza politica moderna. Per la ricostruzione di una storia del
concetto di rappresentanza potrebbe sembrare necessario un percorso più ampio, che comprendesse epoche storiche diverse, quali quella medievale e quella caratterizzata da una società cetuale. Se il presente lavoro riguarda quasi
esclusivamente la rappresentanza moderna, ciò non dipende dal fatto che si
attribuisca poca rilevanza al pensiero politico precedente; al contrario è solo
uno sguardo ampio che si emancipi dall’orizzonte esclusivo dei concetti moderni che può permettere di affrontare i problemi di un presente che non sembra più comprensibile mediante l’uso di quei concetti fondamentali con i quali
si è intesa la politica nell’epoca della statualità. Si tratta quindi di una scelta
precisa, basata sulla consapevolezza della novità del concetto moderno di rappresentanza, che non consiste in una semplice modificazione di quanto in un
contesto feudale o cetuale si intendeva mediante l’uso della stessa parola, ma
che comporta un modo radicalmente diverso di intendere l’uomo, la scienza e
la politica. Si può forse così evitare il pericolo insito in una diffusa pratica
contemporanea di fare storia dei concetti, nella quale si presentano le modificazioni che il concetto ha avuto nella storia in un quadro unitario che va
dall’antichità ai nostri giorni. In questo caso le modificazioni storiche implicano un nucleo costante di quel concetto di cui si hanno appunto modificazioni, ma in realtà tale unità è possibile solo grazie alla proiezione indebita di elementi costitutivi di quel concetto moderno che condiziona il nostro modo di
1
pensare.
Nel quadro della rottura operata dalla scienza politica moderna nei confronti di una tradizione che, per quanto riguarda la politica, riteneva
1
Per una riflessione teoretico-metodologica sulla storia concettuale rimando al mio La
logica del potere. Storia concettuale come filosofia politica, Laterza, Roma-Bari, 1999, sp.
cap. I.
9
l’esperienza essenziale al sapere e la virtù alla pratica, il concetto di rappresentanza si genera, prende un suo statuto definito e risulta indispensabile per
quella forma politica che è ritenuta come l’unico mezzo atto a garantire la pace e l’ordine. Nel contesto di questo nuovo modo di intendere la scienza, che,
in relazione alla società, si esprime attraverso la scienza nuova del diritto naturale, è la stessa natura del concetto in generale che viene a prendere un proprio statuto e una propria funzione: comporta definizione, determinazione razionale indipendente dall’esperienza, legame rigoroso e necessario con altri
concetti, in maniera da costituire un tutto coerente, incontraddittorio e dunque
per tutti valido, al di là delle diverse scelte di vita e delle diverse opinioni sulla giustizia che gli uomini possono avere. Tutto ciò ha rilevanza in relazione a
ciò che nel Moderno si intende per concetto.
All’interno di un tale «procedimento scientifico» il concetto di rappresentanza non appare una modalità tra le altre di esercizio del potere, magari una
modalità che qualcuno potrebbe, in modo approssimativo, considerare più
«democratica», ma appare come il mezzo indispensabile per dare forma al
soggetto collettivo, per attribuire ad esso voce, volontà, azione. Se tale funzione risultasse costitutiva del concetto di rappresentanza – e questo si cercherà di verificare nel presente lavoro – allora i dilemmi che compaiono in studi
noti, quali quello della Pitkin, tra l’indipendenza del rappresentante o la sua
dipendenza dal mandato appaiono configurare non tanto possibilità interpretative diverse del fenomeno in questione, quanto piuttosto il segno emblematico
di una difficoltà, che è logica e coinvolge nello stesso tempo le procedure costituzionali. Non solo infatti nelle opinioni socialmente diffuse, ma anche negli stessi principi costituzionali, la rappresentanza è intesa da una parte come
la funzione necessaria per dar forma alla volontà collettiva, che non può essere che unitaria, in quanto attribuita al soggetto collettivo (si pensi ad una delle
principali funzioni del corpo rappresentativo, quello di dare la legge, che è il
comando unitario a cui tutti sono sottoposti), ma dall’altra anche come la via
attraverso la quale i cittadini, nelle differenze e nelle particolarità che li caratterizzano, possono esprimere la loro volontà e partecipare alla formazione
della volontà comune.
Il concetto di rappresentanza si trova intrinsecamente legato a quello di sovranità, e cioè al moderno concetto di potere, nel senso del potere razionale e
legittimo, fondato sulla volontà di tutti; anzi ne è il segreto, in quanto costituisce l’elemento in grado di legittimare quel monopolio della forza che si sedimenterà nella figura dello Stato moderno; e ciò per quanto riguarda sia l’uso
del potere, che non può dipendere da una dimensione personale ed essere funzionale agli interessi di colui che lo esercita, sia il titolo di questo uso, che non
può che consistere in un processo costitutivo basato sulla volontà di tutti colo10
ro che saranno poi sottoposti al potere della collettività. A causa di questo
nesso con il potere, che è determinante per il significato assunto dal termine di
politica nell’epoca moderna, l’esame del concetto di rappresentanza diviene
particolarmente rilevante e significativo.
Una storia del concetto, quale quella che qui emerge, richiede, non solo in
chi si accinge a tale impresa, ma negli stessi autori che a questo scopo sono
attraversati, un atto di pensiero filosofico, non nel senso di un più alto stile di
pensiero che si collochi al di là della concettualità propria della scienza politica e della stessa concezione contemporanea della politica e della organizzazione costituzionale della vita in comune degli uomini, ma piuttosto in quello
di un’interrogazione radicale della costruzione teorica a cui si assiste
nell’epoca moderna, di una domanda cioè relativa alla validità dei suoi presupposti e ad eventuali contraddizioni che in essa si celino. È per questa via
che, nel momento in cui la rappresentanza moderna appare come problema
(cap. I), nel nostro percorso emerge il riferimento a Platone, non in quanto nel
suo pensiero sia presente la nozione di rappresentanza politica, ma in quanto
nei Dialoghi viene in luce una struttura originaria che risulta caratterizzare
anche la rappresentanza moderna, la quale, al di là dell’opinione diffusa che la
intende come un agire che rispecchia realtà esistenti e che dunque da esse dipende, comporta invece l’implicazione necessaria di ciò che non è empiricamente presente e che possiede una natura ideale. Il riferimento a Platone non
avviene all’interno di una presunta storia del concetto di rappresentanza che
parta dai Greci e giunga fino a noi, ma piuttosto nel tentativo del coglimento
di un problema originario che si annida nel cuore della moderna scienza politica e non è tuttavia da essa consaputo.
Alla luce di queste considerazioni si potrebbe ritenere come più pertinente
al presente lavoro un titolo che parlasse di «logica e aporie di un concetto». Si
è tuttavia preferito usare i termini di «genesi e crisi», non solo a causa della
loro maggiore evidenza per coloro che si pongono il problema in questione e
vogliono affrontare un percorso di ricerca su di esso, ma anche perché il concetto di rappresentanza ha pure una sua dimensione epocale. Non è universale,
ma ha una sua genesi specifica, temporalmente determinata, che tende ad azzerare un modo di pensare l’uomo, la politica e la società che ha una lunga
tradizione e che si ritrova nei contesti precedenti (e storicamente non solo precedenti: basti pensare alla lunga stagione dello stato per ceti, ad esempio in
Germania, o nella Francia dell’ancien régime) nel momento in cui si usa il
termine di rappresentanza (si veda ad esempio i §§ del II cap. dedicati ad Althusius). E, al di là di aporie che appaiono ad esso costitutive, un tale concetto, come ha una sua genesi, sembra anche vivere nella nostra epoca un momento di crisi, legato alla incapacità della concettualità nata nella scienza
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politica moderna e sedimentatasi nella figura dello Stato e della sua costituzione a farci comprendere la realtà attuale, che sembra avere ormai oltrepassato la storia segnata dall’esistenza degli stati nazionali, o quello che è stato indicato come l’orizzonte dello ius publicum europaeum. Non solo, ma la crisi
sembra anche coinvolgere la funzione di legittimazione che è stata connaturata
alla rappresentanza fin dal suo comparire.
Questo volume ripropone i materiali contenuti in La rappresentanza: un
problema di filosofia politica (1988), con l’aggiunta del cap. II, dedicato alla
genesi, alle modificazioni, alle aporie del concetto, mediante un itinerario che
attraversa quei classici del pensiero politico che più ci illuminano a questo riguardo. Attraverso questo itinerario si possono comprendere sia la forza della
logica della rappresentanza, sia le sue contraddizioni. Dal momento che l'unico
scopo di questo testo è quello di offrire uno strumento didattico rivolto
alla messa a fuoco del concetto di rappresentanza, dei presupposti che lo rendono possibile e dei concetti che ad esso sono legati, e, nello stesso tempo, utile
alla lettura dei classici, sia pure attraverso un tema specifico, è sembrato
opportuno, anche a costo di ripetere cose scritte in altri contesti, introdurre
questo capitolo, che risulta centrale per la storia del concetto e costituisce anche la base necessaria per ben intendere quelle riflessioni novecentesche a cui
era quasi interamente dedicata la prima versione del volume.
Per quanto riguarda queste ultime, è apparso fruttuoso attraversare quei
pensatori che, proprio in quello che appare il primo momento di crisi o di
compimento della immane costruzione della forma politica moderna, o dello
Stato, ne mettono a fuoco con particolare lucidità le categorie fondamentali,
tra cui appare appunto determinante quella di rappresentanza. Innanzitutto è
rilevante porre a tema lo snodo costituito dal pensiero weberiano. Di snodo
appunto si tratta, poiché Weber partecipa a un momento di trasformazione
della dimensione della teoria e del senso che viene ad assumere la razionalità
e dunque in un momento di travagliata trasformazione epistemologica, in cui
sembra modificarsi l’assetto stesso della disciplina scientifica, votata ad una
analisi «oggettiva» e «avalutativa», che rinunci a rintracciare criteri di comportamento dell’agire umano, i quali risultano piuttosto prodotti da scelte soggettive e non fondate scientificamente. Tipico di questo momento di trapasso
è anche il consolidarsi di una «analisi della società» che sembra destinata a
fagocitare qualsiasi sapere della politica che intenda avere carattere di scientificità.
Tuttavia in questo nuovo assetto epistemologico è significativo trovare quei
concetti di «potere» (Herrschaft) e di Stato che, pur nel significato diverso e
«descrittivo» che vengono ad assumere, sono impensabili se si prescinde da
quel lungo cammino della scienza politica moderna, che ha le sue origini nella
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filosofia del Seicento, così come forse appare impensabile questa nuova analisi
della società senza quel concetto di societas civilis che è costruito dalla teoria
giusnaturalistica e che si sviluppa poi nella distinzione e nella contrapposizione
tra la «società civile», come l’insieme dei rapporti tra gli uomini privo
dell’elemento del potere politico, e lo «Stato», con l’elemento
dell’obbligazione politica e la sua dimensione istituzionale e costituzionale. Se
è dunque vero che il pensiero weberiano si deve contestualizzare in
quell’ambito problematico che trova nel pensiero negativo e nella nietzscheana
distruzione dei valori un momento di passaggio necessario, e se è vero che in
quel contesto la scientificità viene a perdere quel carattere fondante che
rivestiva nella filosofia o scienza politica moderna del XVII e XVIII secolo, mi
pare tuttavia – seguendo una felice proposta di Norberto Bobbio – che non si
possa negare una feconda interazione tra il pensiero weberiano e i classici della
filosofia politica moderna.
A questo proposito sembra necessario mettere in luce non solo il legame
imprescindibile tra il concetto di potere politico (Herrschaft), così come viene
da Weber determinato, e quella tradizione moderna di pensiero sopra ricordata, ma anche la dialettica che si viene a presentare tra la razionalità formale,
con il tipo di potere che sembra maggiormente incarnarla, e quegli elementi di
soggettività e fede che sono connaturati al carisma. Il quadro teorico viene così a problematizzarsi impedendo qualsiasi normalizzazione del pensiero weberiano in chiave «sociologica» e aprendolo a una domanda radicale relativa al
politico e alla sua essenza.
A un pensiero «radicale» mira esplicitamente Carl Schmitt, il quale, proprio in quanto indaga da giurista la forma politica, riconosce l’impossibilità di
non porsi un interrogativo sui modi in cui la forma viene prodotta e su un
concetto di politico che renda pensabile il determinarsi dello Stato come forma e nello stesso tempo anche la relatività e storicità della sua costruzione, e
le ragioni intrinseche della sua crisi. La sfera giuspubblicistica è allora costretta ad aprirsi dal suo interno e il movimento che va nella direzione della filosofia è imposto dalla necessità di comprendere la stessa razionalità giuridica nel
suo concreto porsi. In questa riflessione, così come in quella coeva di Gerhard
Leibholz, appare al centro della forma politica moderna il principio rappresentativo, che non risulta come il portato di una contemporanea concezione dello
Stato, quale si presenta dalla Rivoluzione francese in poi, ma piuttosto come
l’elemento indispensabile e strutturante la stessa forma politica moderna, sin
dalla sua genesi. Ciò ha fecondi risultati per la storia del pensiero politico,
come mostra il fatto che in rapporto a Schmitt soprattutto, ma anche a Leibholz, non solo si sia aperto un dibattito teorico, ma anche siano nati, in tempi
più recenti, diversi studi sulla tematica rappresentativa e sulla sua portata nel
pensiero politico moderno.
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Ma ciò che preme soprattutto qui indicare, oltre alla potenzialità
ermeneutica e storiografica del concetto di rappresentazione, è la dimensione
epistemologica che esso apre. Infatti, nel momento in cui la rappresentanza
non viene semplicemente assunta nella sua funzione legittimante, ma viene
interrogata radicalmente, rivela una struttura teoretica che impedisce un pacifico e incontraddittorio costituirsi della scienza, aprendosi invece al problema
dell’origine. Nella innegabilità di questo problema emerge una pratica del
pensiero, il cui rigore non è quello «scientifico» della costruzione della forma
politica, ma piuttosto quello che compare nel coglimento delle sue aporie.
Se il gesto di radicalizzazione schmittiano, che non rimane all’interno di un
pensare giuridico, ma cerca di comprendere l’origine e il concreto operare della
forma, mostra alcune caratteristiche proprie di un pensiero filosofico, un
riemergere esplicito della filosofia nel pensiero della politica avviene attraverso pensatori quali Eric Voegelin e Leo Strauss, i quali, pur producendo in
tempi successivi alla seconda guerra mondiale le loro opere più importanti e
note, trovano nella riflessione sulla natura dello Stato avviata alla fine degli
anni Venti alcuni dei loro spunti più significativi. Anche il disegno voegeliniano di una «nuova scienza politica», che coincida con un pensiero filosofico
dell’origine e del fondamento, mostra di avere le sue radici a ridosso di quegli
anni e di risolversi non in una nuova «fondazione di valori», ma piuttosto in
una domanda sull’origine dell’ordine, che scaturisce dalle stesse categorie politiche moderne e si evidenzia nel momento della loro crisi.
La vicenda di pensiero che si svolge tra la concezione del politico di
Schmitt e la filosofia politica di Voegelin («nuova scienza» nei confronti della
scienza moderna, ma recupero di un’idea del sapere propria della filosofia
greca) – a prescindere dal giudizio complessivo che può investire l’opera dei
due autori – è emblematica in quanto appare indicare un rapporto tra filosofia
politica e scienza politica moderna che non consiste nel mantenimento, accanto al rigore attribuito alla scienza, di uno spazio per la filosofia caratterizzato
dalla forma «non scientifica» della Weltanschauung, o da quella di una astratta costruzione teorica di modelli, magari “postmoderni” o successivi alla forma Stato, ma piuttosto tende a evidenziare il radicamento della filosofia nello
stesso spazio della scienza politica, di cui coglie le aporie e le implicazioni.
Le categorie politiche moderne costituiscono in questo caso l’imprescindibile
ambito in cui si è situati a pensare, e pur tuttavia non determinano un presupposto indiscutibile e nemmeno la struttura epistemica in cui si è costretti a
permanere.
Come si è detto, il tema della rappresentanza non implica solo un esercizio
di pensiero che è filosofico, ma manifesta anche una sua dimensione epocale.
Se la rappresentanza è connaturata al quadro della forma politica moderna, in
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cui la società – poi lo Stato – è pensata come soggetto collettivo formato dalla
moltitudine degli individui, essa si impone con questa costruzione e va in crisi
con essa. Se è vero che oggi la figura dello stato nazionale e il suo cuore concettuale, costituito dalla sovranità, non riescono più a farci intendere una realtà che è attraversata da fenomeni e logiche che hanno una dimensione mondiale, e da processi apparentemente contraddittori, che sono da una parte di
regionalizzazione e frammentazione degli Stati, e dall’altra di aggregazione,
come nel caso dell’Unione europea, ciò implica una riflessione radicale su
quegli elementi che sono stati alla base della costruzione della sovranità moderna, e cioè la funzione fondante del concetto di individuo, il significato specifico acquisito dai concetti di uguaglianza e di libertà e, appunto, la struttura
della rappresentanza, intesa nel suo duplice carattere di processo di formazione della volontà unitaria del soggetto collettivo e di processo di costituzione
di quest’ultimo e del suo potere a partire dall’astrazione di individui pensati
all’infuori dei legami e dei rapporti in cui hanno la loro determinata realtà.
Il coglimento delle aporie della rappresentanza moderna e il ripresentarsi
con forza di problemi che solo apparentemente erano risolti attraverso di essa
non producono una nuova proposta «più vera», né risolvono la questione del
«che fare». Tuttavia, la responsabilità che abbiamo di pensare il nostro
presente e di trovare vie di orientamento nella prassi, assieme alle difficoltà e
al rischio di possibili proposte, non possono impedire di pensare radicalmente
i concetti moderni, così come non possono cancellare le contraddizioni che in
essi si manifestano. Da un lavoro critico sui concetti non può certo derivare un
modello di soluzione che si tratti di mettere in pratica, ma senza di esso non è
possibile orientamento e si presenta il pericolo di continuare a percorrere vie
infruttuose ed a usare concetti che non aiutano, ma piuttosto ci impediscono di
comprendere quanto emerge nella nostra esperienza.
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Avvertenza
Il presente volume riproduce,con pochi mutamenti, La rappresentanza: un problema di filosofia politica, Franco Angeli, Milano 1988, le cui fonti erano costituite innanzitutto da La
rappresentazione e l’arcano dell’idea, «Il Centauro», 1985, n. 15, pp. 35-70, ripreso, con
qualche modifica, nel I capitolo, che contiene le indicazioni che hanno dato luogo al
proseguimento della ricerca sviluppata negli altri capitoli. Di questi il III, il IV e il VI sono
apparsi contemporaneamente in testi collettanei: rispettivamente in M. Losito e P. Schiera (a
cura di), Max Weber e le scienze sociali del suo tempo, Il Mulino, Bologna, 1988, pp.
481-512, in G. Gozzi e P. Schiera (a cura di), Crisi istituzionale e teoria dello Stato in Germania dopo la prima guerra mondiale, Il Mulino, Bologna, 1987, pp. 283- 324, e in G. Duso
(a cura di), Filosofia politica e pratica del pensiero. Eric Voegelin, Leo Strauss e Hannah
Arendt, Franco Angeli, Milano 1988, pp. 159-191. Visto il carattere prevalente di
attraversamento dei testi degli autori, non si è ritenuto necessario un aggiornamento della
bibliografia, salvo alcune rare eccezioni; sono state invece incluse le indicazioni delle
traduzioni italiane delle opere di Leibholz, Smend e Heller nel frattempo apparse. Il II cap.
riprende, a volte in modo integrale, alcune pagine contenute nei volumi La logica del potere.
Storia concettuale come filo- sofia politica, Laterza, Roma-Bari 1999, Il potere. Per la storia
della filosofia politica, Carocci, Roma, 1999 e in alcuni saggi, dedicati ai classici in questione, che sono di volta in volta indicati. Questo volume è dedicato a Hasso Hofmann, maestro e
amico, che sulla rappresentanza ha scritto l’opera più importante.
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1. La rappresentazione e l'arcano dell'idea:
introduzione al problema
Eine jede Idee tritt als ein fremder Gast in die Erscheinung
(Goethes Werke, Hamburger Ausgabe, Bd. 12, p. 439)
1. La rappresentanza politica: il presentarsi di un’aporia
Ad un primo approccio il tema della rappresentanza politica può dare
l’impressione che ci si trovi di fronte a un campo di particolare chiarezza e
univocità concettuale. La famiglia di termini legata all’atto del rappresentare
sembra infatti riferirsi alla dipendenza di colui che esercita il potere nei confronti di coloro da cui ha ricevuto il mandato per il suo agire politico, inteso
come un agire che non ha il proprio fondamento nel rappresentante stesso, ma
in coloro che sono rappresentati. In questo quadro si può affermare che le istituzioni di un paese sono da considerarsi rappresentative quando i membri
dell’assemblea legislativa ottengono il mandato mediante elezione popolare.1
Insomma l’elemento rappresentativo sembra congiunto a quello democratico e
sembra caratterizzare, a livello concettuale e a livello storico, la lunga via di
uscita dall’assolutismo. L’azione politica, in quanto rappresentativa, è in tal
modo propria non di tutti, ma di attori politici particolari, e tuttavia sembra
sfuggire all’antica distinzione tra governanti e governati, non solo in quanto
tali attori sono sostituibili e a tutti, da un punto di vista formale, è data la possibilità di calcare la scena politica, ma anche perché l’azione politica sembra
non dipendere dall’arbitrio di chi la compie, ma piuttosto dalla volontà degli
elettori; questi scelgono i rappresentanti e indicano nello stesso tempo la direzione fondamentale della vita politica.
1
Questo aspetto è ricordato nella voce Rappresentanza politica del Dizionario di politica, Utet, Torino, 19832, dove il proprium della rappresentanza politica è identificato nella
«possibilità di controllare il potere politico attribuita a chi il potere non può esercitare di
persona» (p. 955).
17
Tale concetto di rappresentanza appare avere la sua più consona attuazione
quando la forbice numerica tra rappresentanti e rappresentati è minima e perciò consente un rapporto, una conoscenza, una consultazione e un controllo, i
quali sembrano garantire il fatto che la volontà espressa nella sfera politica
sia, con grande approssimazione, quella degli stessi rappresentati.2 Così il
senso del rappresentare è quello dello «stare al posto di», di «agire in vece altrui», di dipendere dalle condizioni da altri poste, di non muoversi cioè in uno
spazio proprio e autonomo.
È chiaro che, così espressa, tale concezione riguarda la sfera di opinione
comune diffusa in una cosiddetta società democratica, e cioè l’ordine di concetti che si estendono in una società per la sua «autointerpretazione», o, in altri termini, l’immagine che una società offre di sé, ma non serve a una comprensione critica del concetto di rappresentanza, in quanto non rende conto
della densità problematica ed aporetica che in esso si nasconde.3
Già una prima serie di problemi nasce all’interno di una simile concezione
non appena ci si chieda quali siano i modi in cui si forma e si esprime la volontà dell’elettore e quali siano le sue competenze e idee su tutto ciò che deve
essere deciso dall’assemblea rappresentativa di una nazione. Emergono allora
come caratteristiche di un sistema rappresentativo la differenza tra rappresentante e rappresentato e lo spazio di iniziativa che, per principio, spetta a chi
«rappresenta» la volontà del popolo. Ciò è peraltro insito nello stesso concetto
2
È interessante notare che tale concetto, come si vedrà, è più vicino a quello cetuale di
rappresentanza che a quello proprio della teoria dello Stato moderno. Ciò pone un problema
relativo al legame, o alla continuità di fatto, tra le strutture cetuali e il moderno parlamentarismo, inteso non tanto nel suo significato formale e istituzionale di organo che rappresenta la
sovranità della nazione, ma in quello della costituzione materiale, secondo cui è tramite e
luogo di compromesso di gruppi, partiti, interessi; un’altra questione si pone inoltre intorno
alla possibilità di una componibilità teorica tra questi due diversi concetti di rappresentanza.
Sull’incrocio tra i due diversi concetti di rappresentanza si veda l’importante «anticipazione»
di uno studio sulla rappresentanza politica di G. Miglio, Le trasformazioni del concetto di
rappresentanza, in La rappresentanza politica, Atti del convegno del 14-15 dicembre 1984,
Materiali del Dipartimento di politica, istituzioni. storia, Pitagora editrice, Bologna, 1985,
pp. 1-25 (ora in Regolarità della politica, Scritti scelti raccolti e pubblicati dagli allievi,
Giuffré, Milano 1988, vol. II, pp. 973-997). Per la centralità del concetto di rappresentanza
nel moderno in un’ottica assai vicina a quella assunta in questo testo, si veda C. Galli, Immagine e rappresentanza politica, «Filosofia politica», 1987, n. 1, pp. 9-30.
3
Tale distinzione tra i simboli linguistici che sono prodotti da un contesto sociale per la
propria autointerpretazione e i simboli linguistici attinenti a una comprensione critica e
scientifica (io direi «filosofica», proprio in considerazione della riflessione caratteristica
dell’autore in questione e del significato della «nuova scienza»), è felicemente espressa, proprio in relazione alla tematica della rappresentanza, da E. Voegelin, The New Science of Politics, Th. Univ. of Chicago Press, 1952, tr. it. La nuova scienza politica, di R. Pavetto, con
introduzione di A. Del Noce, Borla, Torino, 1968, sp. pp. 83 ss.
18
di mandato libero, che è caratteristico della moderna rappresentanza, quale è
sanzionata dalla rivoluzione francese in poi, e che differenzia l’accezione
«moderna» del termine da quella cetuale, in cui il rappresentante è legato ad
istruzioni determinate, vincolanti in modo unidirezionale la sua azione.
Questo tipo di problemi trova chiara espressione in Hanna Pitkin. Le due
direzioni interpretative possibili sulla libertà d’azione del rappresentante sono
evidenti non appena ci si chieda se il rappresentante debba agire come
l’elettore «vorrebbe» che egli si esprimesse, o a seconda di ciò che consideri
più opportuno per il suo interesse. Si tratta cioè di decidere se il rappresentante sia legato alla volontà determinata degli elettori, o se la sua stessa natura
di rappresentante, e cioè di membro di un parlamento, che solo esprime la volontà della nazione, non comporti uno svincolamento dalle volontà determinate e
particolari dei singoli e dei gruppi interni allo Stato.4 La domanda se e come sia
possibile far emergere la volontà degli elettori in uno Stato moderno appa- re
dissonante nei confronti di una lunga storia teorica, secondo la quale, di diritto, quella che deve essere espressa attraverso il rappresentante nel parlamento è la volontà di «tutta la nazione», e non quella di singoli o di gruppi
particolari di cittadini. Tale connotazione di totalità appare connaturata al modo in cui si è formato il moderno concetto di rappresentanza. È significativo
che a volte la Pitkin si riferisca, per evidenziare le posizioni di coloro che sottolineano l’indipendenza dei rappresentanti, al punto di vista dei «teorici tedeschi» o degli «autori continentali»,5 senza nel contesto ricordare che tali posizioni riflettono quella che è stata la teoria – forse certo prevalentemente
prodottasi nel «continente» – dello Stato moderno.
Ci si può allora già qui chiedere quale significato definito abbia il concetto
di mandato libero, e se esso non sia piuttosto una finzione, in quanto la figura
giuridica del mandato ha un senso determinato nella forma del mandato imperativo, che si trova appaesato, per quanto riguarda il livello politico, in una società di tipo cetuale, come si vedrà più avanti.6 E ancora si può riflettere sulla
costruzione teorica, che prende la figura del monstrum, secondo cui il popolo
è sovrano, ma la volontà del popolo è quella che emerge nel parlamento, a sua
4
Cfr. H.F. Pitkin, The Concept of Representation, University of California Press, Berkeley, 1967, tr. it. di alcune parti si ha in D. Fisichella (a cura di), La rappresentanza politica,
Giuffrè, Milano, 1983, sp. «La controversia mandato-indipendenza», pp. 177 ss.
5
Cfr. ad es. H.F. Pitkin, La controversia, cit., pp. 182-183 dove il riferimento specifico
è a Gerard Leibholz, Hans Kelsen e Hans Wolff. Ciononostante più complessa è la posizione
della Pitkin, come mostra la stessa apertura del problema della rappresentazione a partire da
Hobbes (cfr. The Concept, pp. 14-37).
6
Cfr. su ciò H. Triepel, Delegation und Mandat im öffentlichen Recht, Kohlhammer, Stuttgart und Berlin 1942; sul tema anche H. Müller, Das imperative und freie Mandat. Ueberlegung zur Lehre von der Repräsentation des Volkes, Sijthoff, Leiden, 1966.
19
volta organo «sovrano»:7 è infatti il parlamento, e dunque l’assemblea dei
rappresentanti, ad esprimere la volontà popolare, che non è precedentemente
né formata né determinata, ma è quella che si viene formando nella rappresentazione stessa, la quale sarebbe inutile e contraddittoria se la volontà comune
fosse già espressa e determinata, avesse cioè una forma.
A questo livello della riflessione sembra di trovarsi invischiati nel dilemma
– espresso da una risoluta critica della rappresentanza moderna quale è Hannah Arendt –, secondo cui l’azione del rappresentante o è un semplice surrogato dell’azione diretta dei cittadini (concezione questa peraltro considerata
assai lontana dalla verità), ma allora lo spazio pubblico viene a perdere la pregnanza e la dignità di libero agire anche per lo stesso personale politico, riducendosi a semplice amministrazione; oppure consiste in un agire totalmente
autonomo, ma in tal modo si riproduce, nella situazione contemporanea e di
pretesa «democrazia», la semplice ed antica divisione tra chi governa e chi è
governato, a causa della quale per la maggior parte gli uomini sono ridotti al
ruolo di sudditi ed espropriati della loro volontà politica.8
Tuttavia ci si avvicina a cogliere con maggiore radicalità il problema della
rappresentanza politica moderna quando si cerchi di ricostruirne la genesi e la
storia, i punti di scansione e di scarto nei confronti dell’uso precedente del
termine. Infatti, con una certa meraviglia se si tiene presente l’accezione corrente del termine, e tuttavia con molta evidenza, ci si può rendere conto che il
concetto di rappresentanza è al centro della costruzione del corpo politico
propria di un teorico della sovranità assoluta quale è Hobbes. Questi non deve
essere tanto considerato l’ideologo dello Stato assoluto seicentesco, quanto
piuttosto l’ideatore di un modello teorico che vuole avere nel rigore razionale
il suo fondamento. Se la sovranità appare in tale modello assoluta e priva di
una possibile istanza superiore di controllo o di previste forme di resistenza da
parte dei sudditi, ciò avviene in quanto, non essendo essa connaturata a un
particolare individuo a causa della nascita o di una diretta investitura divina,
la sua natura è di essere rappresentativa.
Il sovrano agisce infatti senza controllo e senza resistenza proprio perché
le sue azioni sono le azioni del corpo politico, e cioè le azioni di quella persona civile che ha preso forma mediante il patto tra gli individui. Con il processo di autorizzazione, quello cioè in cui si costituisce l’autorità, ognuno si riconosce, dal patto in poi, autore delle azioni della persona pubblica, e, in
7
Cfr. C. Schmitt, Römischer Katholizismus und politische Form, Theatiner Verlag,
München, 19252 (I ed. 1923), p. 36, tr. it. Cattolicesimo romano e forma politica, a cura di
C. Galli, Giuffrè, Milano, 1986, p. 55.
8
H. Arendt, On Revolution, Wiking Press, 1963, tr. it. Sulla rivoluzione, Comunità, Milano, 1983, pp. 273-274.
20
modo più determinato, di colui che tiene la parte di tale persona, il sovrano
appunto. Il sovrano è allora maschera, è attore, unico attore della scena politica, e le azioni che egli compie nella sua rappresentazione scenica hanno come
autori gli individui che lo hanno autorizzato, i quali, nella forma che viene a
prendere il corpo politico, sono sottoposti e sudditi.9 L’essere rappresentante
non è dunque per il sovrano un elemento accessorio, ma essenziale, costituendo la sua stessa natura: egli dà gesto e voce al corpo politico e ha al suo fondamento l’atto di autorizzazione di tutti coloro che entrano nel Commonwealth. Nello stesso tempo non si dà corpo politico se non mediante l’azione
rappresentativa. Infatti la volontà e l’azione di quell’unica persona, a cui il
patto dà luogo, non può essere l’insieme delle molte volontà e azioni dei singoli: la personalità dello Stato, non essendo qualità fisica, ha bisogno di
un’azione rappresentativa che le dia forma, che esprima cioè l’unità politica.
Ma allora l’elemento rappresentativo appare proprio non solo delle concezioni che descrivono le moderne democrazie, le quali non si presentano certo
nella forma della democrazia diretta, ma anche della teoria – generalmente ritenuta a quelle opposta – che fonda l’assolutezza della sovranità e del nesso
comando-obbedienza. L’aporia che in tal modo compare impone allora di
considerare l’elemento rappresentativo come svincolato dalle cosiddette garanzie democratiche e dal meccanismo dell’elezione 10 e di prendere in considerazione definizioni più comprensive del fenomeno, qual è ad esempio quella di Eric Voegelin, che vede connaturata la rappresentanza alla stessa
possibilità di darsi della realtà politica, per cui la rappresentanza appare come
«forma attraverso cui una unità politica perviene all’esistenza e agisce nella
storia».11 L’indicazione della centralità della rappresentanza per la forma politica ci segnala l’originarietà del problema e ci spinge a una più radicale interrogazione intorno al senso e alla struttura del rappresentare.
9
Cfr. il cap. XVI del Leviatano (tr. it. di G. Micheli, La Nuova Italia, Firenze, 1976, pp.
155 ss.), per la costruzione di questa vicenda teorica della rappresentanza moderna riprendo
qui in sintesi alcune considerazioni svolte nell’Introduzione a G. Duso (a cura di). Il contratto sociale nella filosofia politica moderna, Il Mulino, Bologna, 1987 (si veda in particolare il
saggio ivi contenuto di A. Biral su Hobbes). Questo testo è da tener presente per una giustificazione analitica di quanto si dirà nel prossimo paragrafo dedicato al moderno concetto di
rappresentanza e nello sviluppo che si avrà nel II capitolo.
10
Cfr. H. Rausch, Repräsentation. Wort, Begriff, Kategorie, Prozess, Theorie, in Der
moderne Parlamentarismus und seine Grundlage in der ständischen Repräsentation, hrsg. K.
Bosl, Duncker & Humblot, Berlin, 1977, pp. 69-98. Cfr. per una più comprensiva definizione
della rappresentanza E. Fraenkel, Die repräsentative und die plebiszitäre Komponente im
demokratischen Verfassungsstaat, in Zur Theorie und Geschichte der Repräsentation und
Repräsentativverfassung, hrsg. H. Rausch, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt,
1968, p. 330.
11
Cfr. E. Voegelin, La nuova scienza politica, cit., p. 47.
21
2. Per una storia della moderna rappresentanza politica
La posizione hobbesiana ci è utile non solo per complicare il quadro determinato dall’uso corrente del concetto in questione, ma anche per mostrare il
punto di inizio di un tratto fondamentale della scansione storica del concetto,
quello in cui prende corpo la moderna scienza politica e la stessa forma Stato,
così come si viene delineando fino allo Stato di diritto kantiano. L’eredità pesante ed ingombrante della riflessione teorica che caratterizza quest’epoca,
vincola lo stesso dibattito contemporaneo, che prende il suo avvio dalla crisi
della teoria dello Stato e da quei tentativi di ridefinizione che si hanno negli
anni Venti soprattutto, ma non solo, in terra tedesca.
È significativo ricordare che un concetto di azione rappresentativa tale da
comportare il rispecchiamento della volontà di coloro che esprimono il mandato e quindi istruiscono e controllano continuamente il rappresentante, non
appare per niente consono alla teoria dello Stato che si delinea da Hobbes in
poi, ma piuttosto al modo in cui la rappresentanza è concepita nel contesto
della società per ceti. In questo infatti – come si è sopra detto – è appaesato il
mandato imperativo, e dunque il rappresentante va nell’assemblea con istruzioni precise sul suo modo di agire, del quale deve rendere puntualmente conto.12 Ciò presuppone l’esistenza di soggetti politici che hanno una loro autonomia e volontà e partecipano alle decisioni di una istanza di potere
gerarchicamente superiore.
Nella teoria hobbesiana invece non c’è niente di precostituito al corpo comune, se non gli individui e i loro movimenti. Non c’è un potere politico già
esistente e da trasmettere: il tentativo è piuttosto quello di fondare il potere
stesso e di mostrarne la genesi. Il popolo, inteso come unità, non può essere
precedente al patto, ma è quel corpo politico a cui, con artificio, gli individui
danno luogo. Fuori di tale unità c’è solo moltitudine disgregata e non una persona, qual è la persona civile. Ma allora non c’è nessuno che possa far presente l’agire e il volere di questa persona se non colui che esprime in modo rappresentativo, tale cioè da valere per l’unità politica, un’unica volontà e un
unico agire. In questo agire del rappresentante solamente si manifesta la volontà del popolo: con ancor maggiore radicalità si può dire che solo in tale agire il popolo è, ha esistenza concreta e determinata; al di là di esso c’è solo
l’agire dei singoli sudditi. Perciò Hobbes, paradossalmente, afferma che in un
12
Ciò è emblematicamente espresso dall’Althusius nella sua Politica, quando schizzando l’immagine dei rappresentanti delle diverse consociazioni nell’assemblea provinciale, dice che essi devono rendere conto di quello che hanno fatto «non appena ritornano a casa» (J.
Althusius, Politica methodice digesta atque exemplis sacris et profanis illustrata, Herborn,
16143 (ristampa anast. Scientia Verlag, Aalen, 1981, VIII, 66).
22
regime monarchico «il re è il popolo», in quanto attraverso l’unica volontà del
re si manifesta il popolo come unità.13 Tale affermazione mostra tutta la distanza che si pone tra questo concetto di rappresentanza e quello precedente,
medievale e feudale, il quale comporta un porsi del popolo, nella sua realtà
cetuale, di contro e nei confronti dell’elemento signorile. Ora, paradossalmente, il popolo non può fare resistenza né opporsi ad alcuno perché non c’è niente fuori di esso: quello del sovrano non è un potere ad esso estraneo o contrapposto, ma è un’istanza in esso stesso fondata, anzi è il suo stesso modo di
agire.
Così vengono in luce due elementi fondamentali, il primo dei quali consiste nell’aspetto formativo che è proprio del rappresentare. Non si tratta cioè di
trasmettere nell’ambito politico una volontà già formata, ma si tratta di dar
forma a ciò che è rappresentato, di determinare cioè una volontà del popolo,
che solo in questa determinazione è quella che è. In tal modo è il carattere attivo e creativo del rappresentare che viene ad evidenziarsi.
Il secondo elemento è a questo primo congiunto: l’azione rappresentativa
non consiste nel semplice gioco della figurazione, della creazione di immagini
in sé finite, ma rimanda ad un termine ulteriore, che non è fisicamente presente come un dato e purtuttavia dà senso specifico all’agire del rappresentante,
che non è semplicemente quello di un individuo tra gli altri. Se la realtà del
corpo politico, dell’unità del popolo, non è già data, ma prende forma nel
momento in cui emerge nella rappresentazione che di essa si dà, tuttavia il
corpo politico non coincide immediatamente con la volontà e l’agire del rappresentante, il quale appunto lo rappresenta: è presente solo nel suo agire e
tuttavia in quanto è «rappresentato» è altro dalla persona e dall’agire del rappresentante.
La logica della rappresentanza, consistente nel fatto che quello rappresentativo è l’unico modo di agire del popolo come corpo politico, e dunque non
può trovare resistenza, è a tal punto intrinseca alla teoria moderna dello Stato,
che la ritroviamo in un autore solitamente considerato assai lontano da Hobbes quale è Kant. Anche per lui infatti non è possibile resistenza all’organo
sovrano, perché non c’è popolo fuori della sua espressione mediante la rappresentanza, ma esistono solo singoli sudditi.14 Dalla stretta morsa della rappresentanza sembra dunque che non si possa uscire: essa appare nella teoria
13
Th. Hobbes, De cive. Elementi filosofici sul cittadino, a cura di T. Magri, Editori Riuniti, Roma, 19812, p. 188.
14
Cfr. La «Nota generale sugli effetti giuridici derivanti dalla natura della società civile», in I. Kant, Methaphysische Anfangsgründe der Rechtslehre, Werke, hrsg. von der Königlichen Preussischen Akademie der Wissenschaften, Berlin u. Leipzig (Ak. Aus.), VI, p. 318,
tr. it, La Metafisica dei costumi, a cura G. Vidari, rev. N. Merker, Laterza, Bari, 1983, p. 148.
23
moderna come l’unico modo di agire della persona civile e dunque l’unica
forma di azione politica. Si può allora comprendere come, in questo contesto,
non sia maggiore la rappresentatività quanto minore è il divario numerico tra
rappresentanti e rappresentati, ma viceversa essa tanto più aumenti quanto più
aumenta questo divario: perciò Kant può paradossalmente dire che l’elemento
repubblicano, cioè il sentimento dello Stato come res-publica è tanto più forte
quanto più forte è la rappresentatività, con il correlato senso di responsabilità,
cosicché si può maggiormente avvicinare alla vera res-publica, un regime
monarchico piuttosto che un regime in cui più ampio è il numero dei rappresentanti; per non parlare della democrazia, che nel senso letterale del termine
– come esercizio del potere da parte di tutti – non solo non si può avvicinare
al governo repubblicano, ma si identifica con il suo opposto, cioè con il governo dispotico.15
L’elemento rappresentativo non solo non risulta in Kant coincidente, ma
anzi radicalmente opposto a quello democratico, nel senso più determinato e
ristretto del termine, quello cioè del governo di tutto il popolo. Qui non c’è
infatti rappresentatività, ma nemmeno responsabilità né forma: l’assemblea
sovrana del popolo è propriamente informe, in quanto non ha limiti, non ha
alcun peras che le dia forma, né alcun punto di riferimento per la sua azione.
Questa logica della rappresentanza, tipica della teoria moderna, comporta
una ben strana struttura della soggettività politica.16 Infatti la stessa costituzione
della forma politica, intesa in modo tale da non presupporre la naturalità del
comando e delle differenze tra gli uomini, ma da avere alla sua base la volontà
razionale di tutti gli individui, implica un coinvolgimento della totalità degli individui come fondamento del potere solo a patto dell’espropriazione del loro
agire politico. Tutti diventano autori e dunque soggetti di azioni, solo mediante
il compimento di queste azioni nella scena pubblica da parte di quell’unico attore che è il sovrano, o il rappresentante della sovranità del popolo, solo cioè in
quanto rinunciano ad agire essi stessi – nel senso pubblico del termine. Anche il
rappresentante, tuttavia, difficilmente può essere inteso come soggetto di azione
15
Cfr. I. Kant, Zum ewigen Frieden, Ak. Aus., VIII, p. 353, Per la pace perpetua, in I.
Kant, I. Kant, Scritti di storia, politica e diritto, tr. it. a cura di F. Gonnelli, Laterza, Bari,
1995, p. 172. Sulla problematizzazione filosofica kantiana del concetto moderno di rappresentanza si veda tuttavia il § 12 del II capitolo.
16
Non si vogliono naturalmente qui disconoscere le differenze spesso notevoli e i contesti diversi dei pensatori ricordati ma mettere in luce alcuni elementi della logica della rappresentazione, che si ritrovano, a volte con sorpresa, se si tiene conto della letteratura critica, in
quegli autori che riflettono sulla forma politica e che sono normalmente collegati alle tematiche giusnaturalistiche. Per una giustificazione critica di questo atteggiamento, per quanto
riguarda l’interpretazione dei singoli filosofi rimando ancora ai saggi contenuti nel testo già
citato, Il contratto sociale nella filosofia politica moderna.
24
in senso pieno, se si pensa alla sua natura di rappresentante, consistente nel fatto
che la sua persona è in senso etimologico maschera prestata alle azioni di cui
tutti si sono fatti autori. Già nel momento della sua nascita nel moderno la soggettività è irrimediabilmente scissa, è una soggettività impossibile, che si dà solo in un rimando di specchi. È singolare notare che il termine di persona, al di là
dell’elemento dell’interiorità soggettiva che sembra connotarlo, contiene nel
suo stesso etimo l’elemento scenico: essere persona e rappresentare nella scena
sono la stessa cosa; la natura della persona è di essere rappresentativa e di essere pertanto connotata dalla scissione e dalla doppiezza.
L’impossibilità di una piena soggettività si manifesta anche in quelle posizioni che sembrano rifiutare l’assolutezza della sovranità hobbesiana. Nello
stesso Kant, che riferisce la rappresentanza non tanto alle volontà espresse dai
singoli o ad un presunto popolo inteso come soggetto attivo esistente prima e
fuori della rappresentanza, ma piuttosto a quella ragione comune e a quello
spazio di pubblicità che si esprimono nel rapporto tra l’autore, cioè il filosofo,
e il suo pubblico, la rappresentanza mantiene per sé un esercizio intoccabile
del potere e si determina uno scarto tra tale esercizio e quello spazio del giudizio politico che non può peraltro risolversi esso stesso in azione.17
La scissione della soggettività appare dunque legata alla rappresentanza intesa come forma, cioè alla rappresentanza legale, che è posta secondo il diritto
e che esprime la volontà dello Stato mediante la distinzione costituzionale tra
chi governa e chi è governato, tra chi esprime la legge e il comando e chi è a
questo sottoposto, e ciò al di là del fatto che colui che esprime la legge sia
stabilmente una persona o sia l’insieme dei deputati, che possono essere di
volta in volta sostituiti. Naturalmente quest’ultima non è una differenza da
poco, ma non toglie il fatto che l’agire politico sia da attribuire solo a chi si
trova nella posizione di rappresentante.
Tuttavia la problematica insita nella rappresentanza sembra avere una portata più ampia di quella indicata dall’aspetto formale che appare prevalente
nelle teorie del XVII e XVIII secolo. Uno spiraglio per intendere tale più ampia portata è costituito dal pensiero di quel Rousseau che è pur sempre caratterizzato proprio dalla negazione della funzione del rappresentante e dalla paro17
Si ricordi la positiva considerazione di Kant nei confronti della rivoluzione francese,
non certo come fatto storico che modifica una forma politica, ma come evento letto dal pubblico: la considerazione riguarda dunque la sfera del giudizio pubblico e non la legittimità,
radicalmente esclusa, del fatto rivoluzionario. Una particolare ripresa in campo politico della
sfera del giudizio kantiana che ha suscitato dibattito e seguito è recentemente quella di Hannah Arendt (si veda H. Arendt, Lectures on Kant’s Political Philosophy, a cura di R. Beiner,
Chicago, 1982, e l’appendice a The Life of the Mind, New York-London, 1978, tr. it. La vita
della mente, a cura di A. Dal Lago, Il Mulino, Bologna, 1987).
25
la d’ordine della fine di una fiducia, che si mostra razionalmente impossibile,
in un momento o in un corpo, e della riconquista invece da parte del popolo,
della scena politica. Ciò che è da eliminare è proprio la funzione dell’attore,
che per sua natura è creatore di inganno e apparenza, e implica differenza tra
sé stesso e gli spettatori, i quali sono espropriati dell’azione e della relativa
libertà e felicità che essa comporta, e sono ridotti al ruolo di semplici
osservatori. Di contro «offrite gli spettatori come spettacolo, fateli attori essi
stessi, fate che ciascuno si veda e si ami negli altri, affinché tutti siano più
uniti».18 Non più teatro, dunque, ma festa, non più azione dei rappresentanti,
ma agire politico del popolo: non più rappresentanza della sovranità, ma
attualità della volontà comune.
E tuttavia nello stesso Rousseau la differenza esprimentesi nella rappresentanza non è semplicemente sconfitta, ma è solo interiorizzata. Ognuno è suddito e, in quanto cittadino, è anche sovrano: ciò non compone tuttavia una
soggettività spontanea e felice, ma porta all’interno dell’individuo una situazione di scissione profonda. Ognuno sente parlare il proprio io particolare in
modo ben diverso da come parla la volontà comune e purtuttavia quella
volontà comune è la sua volontà, anche se si scontra con il suo io particolare e
il suo interesse.19 Tale internità della volontà comune ai singoli individui comporta un assoggettamento ancor più pieno e perfetto di quello che si ha nei
confronti del sovrano di Hobbes, ma implica anche una interna scissione e lotta.
La differenza viene poi alla luce se ci si chiede come emerga la volontà
generale: si scopre allora nella figura divina del grande Legislatore colui che,
fuori dalla forma e da una propria veste costituzionale, ha il compito «sovrumano» di dar forma a quella volontà producendo le leggi per gli uomini. In tal
modo, al di là della rappresentanza legale, emerge una azione rappresentativa
nel senso proprio della formazione della volontà comune, del suo prender
corpo: questa, ancora una volta, appare connaturata allo stesso concetto di unità del corpo politico, della persona pubblica, del popolo inteso non come
mero aggregato ma come soggetto politico.
Tale breve excursus su alcuni punti alti della formazione della moderna teoria dello Stato e, con ciò, della moderna teoria della rappresentanza, induce
ad aprire una serie di problemi all’interno di una considerazione storicoconcettuale.
Ci si può chiedere se non sia, alla radice, proprio il concetto hobbesiano
della rappresentanza quello che si impone nella forma moderna dello Stato
18
J.J. Rousseau, Lettere a D’Alembert sugli spettacoli, in Scritti politici a cura di P. Alatri, Utet, Torino, 1970, p. 614.
19
J.J. Rousseau, Il contratto sociale, I, cap. VII, in Scritti politici, cit., p. 734.
26
quale si manifesta dalla rivoluzione francese in poi,20 e inoltre come convivano l’idea democratica della sovranità popolare con il principio rappresentativo, che appare alla sua radice sempre necessariamente elitario e aristocratico;
e, in modo ancor più radicale, se la rappresentanza moderna non si dia
sempre, per necessità intrinseca, come una forma di espropriazione non solo di soggettività politica, cioè dell’agire politico degli individui, ma anche
dello stesso problema politico, come sembra sostenere ad esempio Hannah
Arendt.21
Inoltre si tratta di vedere come, da una parte, l’arco teorico sopra delineato
elimini la possibilità di legare il concetto di rappresentanza a quello dei gruppi
e degli interessi particolari, in quanto ciò che è rappresentato è l’unità e la totalità del corpo politico,22 e, d’altra parte, si insinui tuttavia lentamente
l’opinione comune che la rappresentanza tuteli e riporti in sede politica gli interessi dei gruppi e dei singoli. Quanto più si viene a modificare la forma Stato e il concetto di rappresentanza, come rappresentanza del generale (popolo,
nazione, bene comune), perde capacità di descrivere una complessa costituzione materiale – e ciononostante non viene abbandonato –, tanto più si sente
il bisogno di integrare il concetto di rappresentanza politica con elementi di
partecipazione da parte, più che dei singoli, della realtà di gruppi e di interessi
organizzati.23 Ma come si possono integrare concetti che sembrano escludersi
a vicenda? Nel concetto moderno di rappresentanza infatti se non è escluso
l’interesse, ammesso sia nella forma dell’interesse generale sia in quella del
suo corrispettivo, l’interesse individuale, inteso come spazio vuoto per
l’attività del singolo tutelata dal potere pubblico, ciò che è alla radice escluso
20
Cfr. l’interessante proposta, fatta in un’ottica alla nostra affine, da P. Pasquino, La rappresentanza politica. Progetto per una ricerca, «Quaderni piacentini», 12 (1984), pp. 69-86.
21
Cfr. H. Arendt, Sulla rivoluzione, cit., sp. gli ultimi 2 capitoli, pp. 205 ss. e il saggio Che
cos’è l’autorità, in H. Arendt, Tra passato e futuro, Vallecchi, Firenze, 1970, pp. 101-155.
22
Nel contesto cetuale la rappresentanza ha un significato diverso, in quanto è diretta a
un terzo, ad un potere altro, qual è quello unitario del governo, o del principe, di fronte a cui
il popolo, nella sua organizzazione cetuale, è rappresentato. Sulla differenza tra tale concetto
di rappresentanza, che si riferisce a una volontà già determinata, e quello secondo cui la rappresentanza è legata alla totalità del corpo comune e dà forma alla volontà di questo mediante la finzione, cfr. G. Miglio, Le trasformazioni del concetto di rappresentanza, cit., sp. pp.
15-16. Ci si può chiedere se non si riveli utile denominare questa forma di rappresentanza
cetuale con il termine di partecipazione che, distinguendola dalla rappresentazione moderna,
tiene conto del pluralismo delle istanze e indica la natura del rapporto tra le organizzazioni
particolari con i loro diritti non derivati e l’elemento del governo centrale, che non dà, in
questo caso, esso stesso forma alle realtà cetuali, ma le riconosce in quanto tali.
23
Emblematico a questo proposito J.H. Kaiser, Die Repräsentation organisierten Interessen, Dunken & Humblot, Berlin, 1978 (I ed. 1956) (tr. it. La rappresentanza degli interessi organizzati, a cura di S. Mangiameli, Giuffrè, Milano, 1993); su ciò si veda A. Scalone,
Rappresentanza politica e rappresentanza degli interessi, Franco Angeli, Milano, 1966.
27
è che ci sia rappresentazione degli interessi dei corpi particolari: ciò non solo
per Hobbes e per Rousseau, ma anche per Sieyes, distrugge l’unità e la natura
dello Stato.24
Tali problemi, che si presentano ad una ricerca sul concetto di rappresentanza politica sono qui solo indicati, perché non è nella direzione dello sviluppo di questa problematica che si intende svolgere in questa fase introduttiva
del ragionamento, ma piuttosto in quella di una riflessione sulla struttura stessa del rappresentare e dei problemi filosofici che appaiono annidarsi in questa
tematica politica.
3. Rappresentazione come presenza dell’assenza
La rappresentanza appare a tal punto incardinata nella forma Stato che, significativamente, quando questa forma sembra andare in crisi, è proprio sul
concetto di rappresentanza che si concentra la riflessione teorica. È quanto
avviene all’interno della problematica vicenda di Weimar, in cui lo Stato non
appare più istituzione sopra le parti, tale da permettere il loro libero gioco, ma
diventa esso stesso risultato di contrattazione permanente tra gruppi e forze.25
Da quanto si è detto si comprende che è proprio la rappresentanza ad essere in
tal modo messa in gioco, perché si reintroduce un concetto di semplice mediazione della volontà dei gruppi e delle parti sociali, all’interno di un concetto legato invece all’unità politica, che permane ancora come fondamentale
nella costituzione formale. L’articolo 21 della Costituzione di Weimar recita
infatti, in consonanza con le precedenti e successive costituzioni moderne: «i
deputati sono i rappresentanti di tutto il popolo», e non dunque di particolari
gruppi o partiti, o di quei singoli elettori che esprimono il voto in loro favore.
È su tale forma della rappresentanza come espressione dell’unità politica
che si impegna la riflessione schmittiana nella Verfassungslehre, pur nella
consapevolezza che tale ruolo della rappresentanza, anche se conservato nella
teoria dello Stato e nella costituzione formale, sempre meno corrisponde alla
realtà effettuale dell’esperienza che in Germania si sta vivendo. La riflessione
schmittiana sulla rappresentazione, che in verità è anteriore alla Verfassungslehre, del ’28, in quanto costituisce il nodo chiave del Römischer Katholizismus del 1923, dà il la a un’orchestra di voci che riconoscono la centralità
24
Cfr. E. Sieyes, Qu’est-ce que le Tiers Etat, ed. critica a cura di R. Zapperi, Droz,
Genève, 1970, pp. 206-207.
25
Si veda su ciò la proposta di «democrazia contrattata», per descrivere tale esperienza
politica, in G.E. Rusconi, La crisi di Weimar. Crisi di sistema e sconfitta operaia, Einaudi,
Torino, 1977.
28
della rappresentazione per l’essenza della forma politica. Quasi contemporaneo all’opera schmittiana del ’28 è l’importante testo di Gerard Leibholz, Das
Wesen der Repräsentation,26 e ancora del ’29 sono gli scritti sulla rappresentazione di Friedrich Glum27 e di Emil Gerber.28 Ma sullo stesso tema si incrociano le riflessioni che si hanno nelle note opere di Rudolf Smend sulla costituzione29 e di Hermann Heller sulla sovranità.30
In tale crogiuolo di pensieri ciò che viene messo in crisi è la diffusa opinione che collega la tematica rappresentativa a ciò che in lingua tedesca è denominato come Vertretung o Stellvertretung, e cioè la rappresentanza intesa
come semplice «stare al posto di», come semplice agire mediante delega, concetto ricavato con una estensione al diritto pubblico di quel rapporto che si ha
tra persone nell’ambito del diritto privato. Tale riduzione del concetto è resa
impossibile dalla constatazione che il fenomeno rappresentativo è, nella sfera
politica, legato al concetto di unità, la quale non può emergere se non attraverso quell’attività del Formieren, in cui consiste la rappresentazione. Se allora è implicato il concetto di unità politica, e con ciò quello di identità, tuttavia
da esso si distingue quello di rappresentazione, che comporta dualità e
differenza.31 I due concetti sono contrapposti e tuttavia si implicano a vicenda.
Ciò è vero, a mio avviso, per Schmitt, secondo il quale, pur essendo questi dei
punti contrapposti di orientamento, che prevalgono ora l’uno ora l’altro nelle
vicende storiche degli Stati, tuttavia non si possono dare di per sé nella loro
purezza: non c’è identità se non attraverso la rappresentazione, e così la rappresentazione rende presente e tangibile, dà forma all’identità di un corpo po-
26
G. Leibholz, Das Wesen der Repräsentation unter besonderer Berücksichtigung des
Repräsentativsystems, Berlin u. Leipzig, 1929, ora la III ed. ampliata Das Wesen der Repräsentation und der Gestaltwandel der Demokratie im 20. Iahrhundert, Duncker & Humblot,
Berlin, 1966 (La rappresentazione nella democrazia, tr. it. a cura di S. Forti, con Introduzione di P. Rescigno, Giuffrè, Milano, 1989).
27
F. Glum, Der deutsche und französische Reichwirtschaftsrat. Ein Beitrag zu dem Problem der Repräsentation der Wirtschaft im Staat, W. De Gruyter, Berlin u. Leipzig, 1929.
28
E. Gerber, Der Staatstheoretische Begriff der Repräsentation in Deutschland zwischen
Wiener Kongress und Märzrevolution, Neunkirchen, 1929 (la dissertazione è però già del
1926).
29
R. Smend, Verfassung und Verfassungsrecht, Duncker & Humblot, München u. Leipzig, 1928 (Costituzione e diritto costituzionale, tr. it. a cura di F. Fiore e J. Luther, con Introduzione di G. Zagrebelsky, Giuffrè, Milano, 1988).
30
H. Heller, Die Souveränität, Ein Beitrag zur Theorie des Staats und Volkerrechts, W.
de Gruyter, Berlin u. Leipzig, 1927 (tr. it. in La sovranità dello Stato ed Altri scritti sulla
dottrina del diritto e dello Stato, a cura di P. Pasquino Giuffrè, Milano, 1987).
31
Cfr. C. Schmitt, Verfassungslehre, Duncker & Humblot, Berlin, 1928, tr. it. Dottrina
della costituzione, a cura di A. Caracciolo, Giuffrè, Milano, 1984, p. 271, e sulla Duplizität
G. Leibholz, Das Wesen der Repräsentation, cit., pp. 28 e 37(tr. it., pp. 71 e 79).
29
litico, di un popolo.32 Schmitt ricorda con Kant che, quando si dà il popolo
nella sua presenza immediata, non c’è rappresentanza: «il popolo riunito non
rappresenta semplicemente il sovrano, ma è lui stesso il sovrano».33 Purtuttavia è proprio tale presenza immediata del popolo che non si dà nella realtà e lo
stesso Kant infatti pone al centro della teoria politica il principio formativo
della rappresentazione.
La riflessione teorica cerca allora di andare all’origine dell’attività rappresentativa, che, in quanto dà forma e produce un’immagine presente e concreta,
non è mera mediazione di un già dato. La rappresentazione appare essere
strutturalmente quanto la sua stessa radice etimologica esprime, cioè un rendere presente e concretamente tangibile ciò che è assente, un far vivere nel
tempo presente (gegenwärtig machen, vergegenwärtigen) ciò che di per sé
non è di questo tempo presente.34 La rappresentazione è legata alla necessità
di rendere tangibile, coglibile (greifbar), evidente, ciò che per sua natura non
lo è.35 Schmitt, con decisione, esprime la dialettica del concetto consistente
nel fatto che «l’invisibile è presupposto come assente ed è allo stesso tempo
reso presente».36 È sempre una realtà invisibile e non presente a mostrarsi nella rappresentazione e a rendere quest’ultima possibile e insieme necessaria
perché di essa, in quanto realtà invisibile, si possa parlare. Si comprende
quanto lontani si sia dall’opinione, diffusa nel contesto delle moderne demo32
Rimando su ciò al mio Tra costituzione e decisione: la soggettività in Carl Schmitt, in
G. Duso (a cura di), La politica oltre lo Stato: Carl Schmitt, Arsenale, Venezia, 1981, sp. pp.
58-60; ma una analisi di questo rapporto nella direzione dell’identificazione nella proposta
schmittiana, della rappresentazione come unica struttura e modo di formazione insieme della
forma politica, si ha nel cap. IV del presente volume.
33
Cfr. il par. 52 della Metafisica dei costumi.
34
Cfr. G. Leibholz, Das Wesen der Repräsentation, cit., p. 26 (tr. it., p. 70). Rimando al
IV capitolo per una analisi del dibattito e delle differenze tra le diverse posizioni, limitandomi ora a sottolineare la rilevanza di una struttura teoretica, che appare aporetica e ci conduce
al campo filosofico e teologico. Una riflessione sul concetto di rappresentazione particolarmente attenta al dibattito tedesco degli anni ’20 si ha nel saggio assai utile di C. Galli, Immagine e rappresentanza politica. Ipotesi introduttiva, in La rappresentanza politica cit., pp.
27-52. Si ricorda che con il termine di rappresentazione si vuole mettere in luce
quell’elemento attivo e formativo e quel più ampio spettro concettuale che normalmente non
sono presenti nell’uso italiano del termine di rappresentanza. È significativo come anche
nella lingua tedesca venga sentito inadeguato e deviante il termine di Vertretung e si ricorra
perciò a quello di origine latina di Repräsentation che, nel dibattito a cui ci riferiamo, è spesso a quello di Vertretung contrapposto.
35
Cfr. G. Leibholz, Das Wesen der Repräsentation, cit., p. 57 (tr. it., p. 100), e anche H.
Heller, Die Souveränität, cit., p. 76 (tr. it., p. 142), che, a proposito della democrazia, parla
di una sovranità del popolo come unità sul popolo inteso come moltitudine: anche qui il problema è quello del dare forma all’unità politica non derivabile dalla molteplicità reale degli
individui.
36
C. Schmitt, Dottrina della costituzione, cit., p. 277.
30
crazie, della dipendenza del rappresentante dalle volontà di coloro che lo eleggono. Ciò è peraltro evidente se si ricorda che dalla rivoluzione francese in
poi nell’assemblea rappresentativa ciò che è rappresentato è la nazione nella
sua interezza.
Si possono a questo punto fare alcune considerazioni sul piano politicocostituzionale. Si lascia innanzitutto intendere perché, nel contesto del problema dell’unità politica che, come abbiamo visto, caratterizza lo stesso formarsi della teoria dello Stato, il rappresentante non possa che essere indipendente.37 La figura del cosiddetto «mandato libero» è infatti legata all’idea di
dover esprimere la volontà del corpo comune la quale, non coincidendo con
quella dei singoli che sarebbero alla base di tale mandato, non esiste se non
prende forma mediante la rappresentazione. In tal senso si può dire che sempre la rappresentazione viene von oben e mai è semplice rispecchiamento di
volontà già esistenti, mai può dipendere da un’altra volontà o da una delega.38
La rappresentazione non è allora propria soltanto delle cosiddette istituzioni
rappresentative, che prevedono elezione da parte dei cittadini dei loro deputati, poiché anche quella del sovrano hobbesiano è rappresentazione in quanto
dà forma concreta all’unità politica.
Per lo stesso motivo per cui il rappresentante è indipendente, il punto di riferimento della sua azione, per quanto determinata e particolare, non può che
essere la totalità. È questa infatti che deve essere rappresentata e che si presuppone venga rappresentata: le parti sono semplicemente quello che sono, e
degli interessi particolari si può avere solo Vertretung.39 Perciò si dice che il
rappresentante rappresenta tutta la nazione, tutto il popolo. Se si rappresentasse il particolare non ci sarebbe corpo politico, ma luogo di lotta tra parti diverse e tra corpi diversi: non si darebbe unità politica.
Inoltre altro elemento connaturato alla rappresentazione è quello della personalità. Se quell’invisibile che deve essere reso tangibile è segnato dalla trascendenza, esso deve peraltro passare attraverso l’azione personale, un’azione
cioè compiuta e attribuibile ad una persona.40 Si svela così il carattere, già ricordato da Hobbes, del rappresentante, ossia quello di essere nel senso etimologico persona, cioè maschera, attore che non compie azioni proprie ma dà
37
C. Schmitt, Dottrina della costituzione, cit., p. 281.
Cfr. C. Schmitt, Römischer Katholizismus, cit., p. 37 (tr. it. p. 56). Proprio in quanto la
rappresentazione non presuppone una volontà già costituita, Leibholz afferma che non si può
distinguere tra rappresentazione mediata e rappresentazione immediata: essa è sempre immediata, in quanto non può dipendere da una delega, non è Vertretung (Das Wesen der Repräsentation, cit., p. 38, tr. it., p. 79).
39
G. Leibholz, Das Wesen der Repräsentation, cit., p. 54 (tr. it., p. 100).
40
La rappresentazione è legata al pensiero di un’autorità personale e richiede la dignità
della persona per C. Schmitt, Römischer Katholizismus, cit., p. 29 (tr. it., p. 50).
38
31
corpo a una realtà altra, interpreta nella scena ciò di cui altri sono autori.41 Ciò
comporta che al concetto di rappresentazione appaia connaturata la dimensione della pubblicità, innanzitutto nel senso che essa si dà nell’ambito del diritto
pubblico e non in quello del diritto privato.42 Ma la prerogativa della pubblicità appare intrinseca alla stessa dimensione scenica del rappresentare, al fatto
cioè che la rappresentazione consiste nel render presente qualcosa a qualcuno.
Appare in tal modo totalmente incapace di comprendere la dialettica della
rappresentazione l’opinione che la riduce a un rapporto semplice tra rappresentante e rappresentato, laddove quest’ultimo è colui che esprimerebbe la delega, mediante il voto, ad essere rappresentato. In realtà la dialettica che si
manifesta è assai più complessa in quanto implica il rappresentante, l’unità
politica, ideale, che deve essere rappresentata, il rappresentato nel senso del
prodotto della rappresentazione, del modo concreto in cui l’idea è interpretata,
resa tangibile e presente, e infine coloro per i quali la rappresentazione è posta in atto, coloro che si riconoscono in essa, e si sentono perciò rappresentati.
A risultare particolarmente aporetica e tale da richiedere la concentrazione
su di essa della riflessione è tuttavia questa natura della rappresentazione secondo cui viene alla presenza l’assente, viene ad essere reso in qualche modo
visibile ciò che è di per sé invisibile. Qui si appunta una critica assai significativa rivolta a Schmitt: affermare che ciò che è presupposto come assente è nello stesso tempo (gleichzeitig) reso presente è una contraddizione (ein Widerspruch); infatti se l’invisibile è reso presente non è allora più assente, ma è
semplicemente presente.43 Ancor più significativa è l’indicazione della radice
tutta teologica di tale contraddizione: è infatti nell’ambito teologico che si
parla di Dio come ciò che può essere pensato contemporaneamente come presente e come assente. Tale critica è utile in quanto ci introduce ad un ulteriore
41
Cfr. il cap. XVI del Leviatano. Sul significato di maschera proprio dell’etimo di
«persona» e sull’uso del concetto di persona nella dottrina trinitaria a partire da Tertulliano,
cfr. S. Schlossmann, Persona und Prósopon im Recht und im christlichen Dogma, Kiel,
1906; cfr. anche la voce Persona, in Pauly-Wissowa, Real-Encyclopädie der classischen
Altertumswissenschaft, XIX/1, 37 Halbbd., Stuttgart, 1937, pp. 1036-1040, per quanto
riguarda la molteplicità delle ipotesi etimologiche.
42
Cfr. G. Leibholz, Das Wesen der Repräsentation, cit., p. 33 (tr. it., p. 75), e anche H.J.
Wolff, Organschaft und Juristische Person, Bd. 2, Theorie der Vertretung - Stellvertretung,
Organschaft und Repräsentation als soziale und juristische Vertretungsformen, Carl Heymanns Verlag, Berlin, 1934: le pp. 16-91 si trovano sotto il titolo Die Repräsentation anche
in H. Rausch (hrsg.), Zur Theorie und Geschichte, cit., pp. 116-221, qui p. 199.
43
Cfr. F. Glum, Der deutsche und französische Reichwirtschaftsrat, cit.: per questa critica si veda la parte del testo riprodotta con il titolo Begriff und Wesen der Repräsentation, in
H. Rausch (hrsg.), Zur Theorie und Geschichte, cit., sp. pp. 106-107; cfr. anche H.J. Wolff,
Die Repräsentation, cit., pp. 125-126.
32
approfondimento della tematica della rappresentazione, quello riguardante la
sua matrice teologica e l’aspetto simbolico che sembra connotarla.
Con forza il simbolo è stato collegato all’elemento divino rivelandosi come l’unico modo di attingerlo e di procedere conoscitivamente nei suoi confronti, a causa della incommensurabilità tra l’essere sovrasensibile di Dio e il
nostro spirito legato alla sensibilità.44 Il problema del legame fra sensibile e
sovrasensibile, visibile e invisibile, che è stato indicato come proprio della
rappresentazione, appare allo stesso modo connotare anche la natura del simbolo, soprattutto quando esso riguarda il rapporto con quanto è divino, dal
momento che la forma religiosa del simbolo sembra corrispondere alla sua originaria natura, che è di essere connessione tra finito e infinito.45
Ma l’elemento religioso è incardinato nella stessa storia della famiglia di
termini aventi la radice della repraesentatio. Si ricordi non solo la tradizione
linguistica propria della rappresentazione eucaristica,46 ma anche il fatto che è
emblematico l’uso per la prima volta del termine Repraesentator da parte di
Tertulliano per il Cristo.47 Qui è infatti insieme evidente sia l’elemento della
trascendenza, sia anche l’elemento personale e umano implicito nella funzione
rappresentativa; infatti non è a Dio Padre che si può ascrivere l’attività rappresentativa in quanto egli è al di là di ogni possibile figura e visibilità; la rappresentatività di Cristo sta proprio nel suo essere insieme Dio ma anche uomo,
nel suo poter produrre immagini ed essere esso stesso immagine. Nell’attività
rappresentativa riferita al divino si dà cioè insieme la trascendenza, la radicale
alterità di Dio, e il suo rendersi presente mediante la rappresentazione della
persona, mediante la produzione di immagini propria dell’umano.
Vicinanza tra simbolo e rappresentazione troviamo in Smend;48 e nello
stesso Leibholz la distinzione tra i due concetti è all’interno della comune
44
Cfr. H.G. Gadamer, Wahrheit und Methode, Mohr, Tübingen, 19652, tr. it. Verità e
metodo, a cura di G. Vattimo, Fratelli Fabbri Editori, Torino, 1972, p. 101, a proposito dello
Pseudo Dionigi.
45
Cfr. H.G. Gadamer, Verità e metodo, cit., p. 106: «La natura religiosa del simbolo
corrisponde quindi esattamente all’originaria natura di esso che consiste nell’essere scissione
dell’uno e ricostituzione di esso dalla dualità».
46
Cfr. il testo, fondamentale per la ricostruzione di una storia del concetto di rappresentazione nei vari contesti in cui ha avuto un uso significativo, di H. Hofmann, Repräsentation.
Studien zur Wort und Begriffsgeschichte von der Antike bis ins 19. Jahrhundert, Duncker &
Humblot. Berlin, 1974, qui sp. il cap. II.
47
Adversus Praxeam, 24, 7, cfr. H. Hofmann, Repräsentation, cit. p. 48. Su ciò si veda il
saggio di M. Tasinato, La «Repraesentatio» in Tertulliano: l’immagine e il teatro, in «Il
Centauro», 1985, n. 15, pp. 119-131.
48
Cfr. R. Smend, Verfassung, cit., pp. 28 e 48 (tr. it., pp. 84 e 102-103).
33
funzione di legare ciò che è spirituale e invisibile al mondo sensibile.49 Ma è
soprattutto in Schmitt che viene chiaramente in luce l’aspetto di trascendenza
insito nella rappresentazione. La critica di teologismo, a suo modo e al di là
dell’intenzione che l’ha prodotta, è felice, in quanto indica quella che è la vera
radice della teologia politica schmittiana.
Già nel Römischer Katholizismus traspare l’elemento teologico della forma
politica. L’incredibile forza della forma politica della Chiesa è legata proprio
all’elemento rappresentativo, che essa incarna nel modo più eminente. Infatti
se è vero che anche nella teoria moderna della rappresentanza l’unità politica
non può sorgere dalla molteplicità degli interessi e dallo scontro delle parti,
ma deve essere rappresentata – e perciò la rappresentazione viene dall’alto e si
riferisce a un’idea quale è l’unità del popolo –, è a maggior ragione vero che
tale elemento trascendente, nel senso più proprio, è ciò che dà forza
all’autorità della Chiesa, la quale rappresenta non solo la civitas umana, ma
nello stesso tempo anche il Cristo. La trascendenza appare incardinata nella
forma politica proprio mediante la rappresentazione e ciò non riesce ad essere
cancellato nemmeno nella moderna rappresentanza, che si trova alla fine di un
lungo cammino di secolarizzazione.50
Trascendenza e sua presentificazione nella scena pubblica, mediante
l’immagine, il rito, la lingua, la liturgia, caratterizzano emblematicamente la
rappresentazione della Chiesa, ma caratterizzano anche ogni forma di rappresentazione. Non è infatti possibile rappresentare le cose sensibili, materiali,
ciò che si colloca nella sfera economica e tecnica: queste cose sono, nella loro
datità, semplicemente presenti. Non dunque interessi e bisogni, ma concetti
quali Dio, il popolo, la giustizia, possono essere oggetti di rappresentazione,
oggetti dunque non fisici, non dati, ma ideali.51 Ciò permane vero anche nella
moderna teoria politica, se si pensa che il parlamento rende presente il popolo,
e il popolo come totalità e unità non è qualcosa di dato, ma appunto un’idea.52
Se si identifica nella rappresentazione la radice della teologia politica di
Schmitt si può uscire dai fraintendimenti spesso propri delle interpretazioni
49
Tale differenza è dovuta al fatto che il simbolo è dinghaft gebunden (G. Leibholz, Das
Wesen der Repräsentation, p. 36, tr. it., p. 77) e che, pur riferendosi, come la rappresentazione, ad un essere esterno, inteso come valore non ha il compito di rendere ancora una volta
tale essere concretamente presente. La differenza tra rappresentanza e simbolo è affermata da
H.J. Wolff, Die Repräsentation, cit., p. 121.
50
Per quanto riguarda il rapporto trascendenza-teologia politica e la proposta della rappresentazione come radice della teologia politica di Schmitt cfr. il cap. IV del presente lavoro.
51
Cfr. C. Schmitt, Römischer Katholizismus, cit., pp. 28-29 (tr. it., pp. 49-50) e Verfassungslehre, cit., p. 210 (tr. it., p. 277).
52
Cfr. C. Schmitt, Römischer Katholizismus, cit., p. 36 (tr. it., p. 56).
34
del suo cosiddetto «decisionismo». Se si tiene presente che la decisione non è
arbitrio, o semplice risultato della volontà, ma è decisione che si attua, capacità effettiva di mettere in forma una realtà politica,53 allora si può comprendere
come tale decisione si manifesti nella sua reale dimensione qualora se ne individui l’elemento rappresentativo: è infatti questo che implica nello stesso
tempo decisione, capacità di unificare il molteplice e il diverso, capacità di
azione che crea coagulo, consenso e convinzione, in quanto si riferisce ad un
ordine di idee senza di cui la politica non è per Schmitt concepibile se non
come mera tecnica; ma la tecnica di per sé non appare efficace, non produce
decisione che abbia effetto e durata.54
Al cuore di questa riflessione sulla rappresentazione appare l’elemento della trascendenza, sia questa della stessa persona di Cristo come è per la Chiesa,
o dell’idea, che è ancora in ogni caso altra da ogni fisica presenza e irriducibile alla stessa rappresentazione che la rende in qualche modo presente.55 Ma il
modo di essere presente di ciò che eccede la figura della rappresentazione, è
quello aporetico della presenza dell’assenza (Widerspruch diceva Glum). Tale
aporetica dialettica sembra peraltro far trasparire un problema che non è confinabile nella sfera politica né in essa risolvibile, ma che sta alla radice stessa
del costituirsi dell’ambito politico e che ci riporta alla questione della sua origine.56
4. La struttura della rappresentazione
Compiere un’analisi su quanto la stessa parola repraesentare ci svela nel
suo etimo e nel suo uso appare un’impresa pericolosa, che non può non comportare alcuni elementi se non di arbitrarietà per lo meno di scelta, dal mo53
Cfr. su ciò i saggi contenuti in G. Duso (a cura di), La politica oltre lo Stato, cit., ma
ora si veda su Schmitt la completa monografia di C. Galli, Genealogia della politica. Carl
Schmitt e la crisi del pensiero politico moderno, Il Mulino, Bologna, 1996.
54
Cfr. C. Schmitt, Römischer Katholizismus, cit., pp. 22-23 (tr. it., p. 45).
55
Si veda più oltre una possibile riflessione sul nesso divino-idea. Anche secondo G.
Leibholz, Das Wesen der Repräsentation, cit., p. 32 ss. (tr. it., pp. 74 ss), la rappresentazione
si radica in un mondo di valori ideali e perciò non si può rappresentare l’elemento economico. La centralità dell’elemento trascendente per la tematica rappresentativa, indicata con forza nel Römischer Katholizismus, è già a suo modo anticipata negli scritti del decennio precedente: cfr. su ciò ancora il cap. IV e M. Nicoletti, Alle radici della «teologia politica» di
Carl Schmitt. Gli scritti giovanili (1910-1917), «Annali dell’Istituto storico italo-germanico
di Trento», X (1984), Il Mulino, Bologna, pp. 255-316; dello stesso autore si veda ora
l’ampia monografia Trascendenza e potere. La teologia politica di Carl Schmitt, Morcelliana, Brescia, 1990.
56
Vista in quest’ottica la teologia politica riapre il problema della filosofia politica.
35
mento che molti sono gli spezzoni di tradizione linguistica che bisogna attraversare e che a volte opposti si manifestano empiricamente gli usi del termine.57 E purtuttavia ci sono elementi che sembrano dare al termine la loro impronta e tradizioni linguistiche che si mostrano in esso sedimentate al punto
da svolgere una loro funzione nascosta anche in campi diversi, in cui l’uso del
termine «sembra» del tutto trasparente e univoco. Mi riferisco soprattutto
all’importanza della tradizione linguistica che usa il termine di «repraesentatio» a proposito della tematica eucaristica e delle dispute a questa relative, e al
fatto che essa sembra agire, nella storia del termine, ben oltre lo specifico
campo teologico, se è vero che per definire la rappresentanza politica, in un
luogo cruciale della riflessione teorica giuridico-politica, si usa la formula della «presenza di ciò che è assente» e della «visibilità dell’invisibile».
L’uso della famiglia di termini legati al repraesentare è presso i classici latini non univoco, e a volte l’elemento ricorrente dell’evidenza e dell’efficacia
visiva, con cui il termine è connotato,58 sembra risolversi nella forma della
immediatezza e della semplice presenzialità di ciò che si esibisce: così accade
per la ripetuta espressione ciceroniana «pecuniam repraesentare», che ha il
senso di «esibire subito il denaro, pagare all’istante».59 Ciononostante spesso
l’uso del termine va nella direzione del rinnovarsi di un atto, del rendere presente, e del rendere di nuovo presente, ciò che non è immediatamente sotto gli
occhi o non lo è in questo tempo.60 L’elemento rafforzativo, implicito in alcuni casi, del prefisso re non toglie la possibilità del senso iterativo che lo stesso
prefisso spesso assume, e del rimando ad altro, a ciò che è d’altra natura o è in
altro luogo e in altro tempo, o fuori di ogni luogo e di ogni tempo. Tale forma
del rimando non elimina a sua volta l’elemento dell’evidenza, il quale resta
connaturato al termine, in quanto nel rappresentare c’è l’aspetto corporeo della costruzione della figura visibile, di ciò che cade sotto gli occhi, che è evidente.
Lo stesso Cicerone mostra questo intreccio di evidenza e visibilità del gesto e della sua simbolicità, come rimando a un valore che eccede lo stesso gesto fisico, quando intende la sua morte come rappresentazione della libertà civile,61 di un valore cioè di per sé non visibile né presente al modo delle cose
57
Cfr. H. Rausch, Repräsentation, cit., p. 69 ss; ma esemplare, per la capacità di attraversare diversi ambiti culturali e discipline ai fini della ricostruzione del concetto, è il lavoro,
qui spesso citato, di Hasso Hofmann, Repräsentation.
58
Cfr. ad es. Quintiliano: «plus est evidentia, ut vel alii dicunt repraesentatio, quam perspicuitas», in H. Hofmann, Repräsentation, cit., p. 39.
59
Cfr. H. Rausch, Repräsentation, cit., p. 77.
60
Cfr. H. Hofmann, Repräsentation, cit., p. 39.
61
«Quin etiam corpus libenter obtulerim, si rapraesentari morte mea libertas civitatis potest», cit., in H. Hofmann, Repräsentation, cit., p. 42.
36
fisiche. Anche qui il rimando ad altro, a ciò che per sua natura eccede il gesto
della morte, non si oppone al senso intensivo che il prefisso viene a prendere,
indicando il fatto della presenzialità: qui ed ora si rende presente e non quando che sia o più tardi.
Così il discusso passo di Tertulliano – autore assai importante, anche se di
difficile interpretazione, per la storia della «repraesentatio» –, secondo cui nei
concilii che si tengono in alcuni luoghi della Grecia si celebra la «repraesentatio ipsa totius nominis christiani», mostra di collegare l’evidenza della presenza delle persone riunite nel concilio con l’idea di tutta la cristianità che in
tal modo si fa concreta e vivente.62
Il rimando a ciò che è di altra natura, e che tuttavia viene reso concretamente presente, è ancora più pregnante quando il termine «rappresentazione»
viene ad indicare la presenza del corpo di Cristo nel sacramento della eucarestia.63 L’uso del termine ha nel dibattito attorno all’eucarestia una oscillazione
legata alle diverse posizioni teologiche, giudicate più o meno ortodosse: la
«rappresentazione» prende così di volta in volta il senso di segno, e di un ricordo «tamquam in tragoedia» del corpo di Cristo, come avviene ad esempio
con Melantone, oppure di una reale presenza del corpo di Cristo nella rappresentazione sacramentale.64 Ciò che qui importa notare è tuttavia che in ogni
caso l’uso del termine comporta il richiamo a un sacrificio reale avvenuto una
volta (semel) realmente nel tempo storico, e che tuttavia viene rinnovato, viene reso nuovamente presente mediante l’accadimento della rappresentazione,
che coinvolge attivamente i partecipanti: la passione viene rivissuta ed ha efficacia per coloro che partecipano al sacramento. Se in questo modo nella repraesentatio si ha figura, immagine (repraesentatio imaginis), ciò non ha il
senso di mero segno, che «significa» appunto una realtà trascendente, ma
piuttosto quello di una immagine che ha in sé la forza del modello, l’efficacia
62
Così l’interpretazione del celebre e discusso passo del De ieiunio adversos psychicos,
13,6, quale si ha nella traduzione che ne dà J. Lebreton, Le developpement des istitutions
ecclésiastiques à la fin du second siècle et au debut du troisième, «Recherches de Science
Religieuse», 24 (1934), p. 161; cfr. per il dibattito sull’interpretazione di tale passo H. Hofmann, Repräsentation, cit., p. 47 ss. Tralascio qui, a causa dell’intento del presente capitolo,
che è solamente quello di tentare di individuare il nucleo filosofico che si cela nel concetto di
rappresentazione, il grosso problema di storia del concetto politico sollevato dall’indicazione
di Otto Hintze, che ravvisa, nella sua tesi «continuistica», una fondamentale importanza dei
concili per la stessa formazione di corpi rappresentativi (cfr. O. Hintze, Weltgeschichtliche
Bedingungen der Repräsentativverfassung (1931), in Staat und Verfassung, a cura di G. Oestreich, Vandenhoeck & Ruprecht, 19622, pp. 140-185, tr. it. O. Hintze, Stato e società, a
cura di P. Schiera, Zanichelli, Bologna, 1980, qui pp. 105-106.
63
Già in Tertulliano: «… Nec panem, quo ipsum corpus suum repraesentat…» (Adversus Marcionem, 1, 14,3).
64
Cfr. su ciò H. Hofmann, Repräsentation, cit., p. 65 ss.
37
di questo; perciò nella celebrazione del mistero, si ha «repraesentatio dominicae passionis et partecipatio fructus ejus».65
Nella tradizione linguistica legata al mistero eucaristico si manifesta allora
un’altra dimensione propria della rappresentazione: quella secondo cui essa è
sempre per qualcuno, e non solo nel senso che è rivolta a qualcuno, ma anche
in quello secondo cui colui a cui la rappresentazione è destinata si riconosce
in essa, vi partecipa, vi è coinvolto, vi svolge una parte attiva: è esso stesso
elemento della rappresentazione.
Attraverso tale tradizione linguistica vengono alla luce gli elementi fondamentali che la stessa riflessione teoretica sul termine ci può fornire. Innanzitutto l’eccedenza e l’alterità di ciò a cui si rimanda: si rappresenta ciò che
non è di per sé nella datità del presente, non offrendosi alla vista e alla percezione; altrimenti non ci sarebbe alcun bisogno né possibilità di rappresentarlo.
Dunque si rappresenta ciò che è fuori da questo tempo e che non ha la natura
del dato. E tuttavia ciò a cui si rimanda non è in «altro luogo»: di esso si può
parlare solo attraverso la rappresentazione, l’immagine, l’atto che lo rende
presente, ma che tuttavia non riduce né toglie la sua radicale alterità, non lo
esaurisce e non lo rende mai suo oggetto. Se il prefisso re indica allora questa
eccedenza e il rinnovarsi di un accadimento in cui quell’originario torna a mostrarsi, il presentare sembra indicare il dato temporale del render presente qui
ed ora ciò che è rappresentato (vergegenwärtigen), e nello stesso tempo
l’azione che dà ad esso una forma (formieren, bilden), una figura che lo renda
concretamente visibile e tangibile. In questo processo la forma, o figura, viene
proprio dalla rappresentazione, non è ad essa precedente, in quanto il modello
non si dà di per sé alla vista, come ciò di cui sia possibile una semplice copia,
una semplice duplicazione, in cui l’identità si fermi solo di fronte alla separazione fisica e alla duplicazione numerica.
Inoltre nella rappresentazione l’accadimento è per qualcuno, come rende
evidente il prefisso ad che è contenuto nell’italiano rappresentare (come riad-presentare).66 L’immagine è per essere vista da colui che la vede e che la
vive come accadimento. Se ciò può essere vero per la rappresentazione scenica, così come per la rappresentazione figurativa, il quadro, si può tuttavia dire
che tale struttura viene percepita in tutta la sua pregnanza soprattutto nella sua
dimensione religiosa,67 dove, attraverso la finitezza dell’immagine, prende figura e si manifesta ciò che eccede qualsiasi immagine. L’immagine nella sua
65
Cfr. Tommaso D’Aquino, Summa theologica, III, q. 3, a. 2 corp., e H. Hofmann, Repräsentation, cit., p. 73.
66
Cfr. l’analisi teoretica di V. Melchiorre, Sul concetto di rappresentazione, ora in Essere e parola, Vita e pensiero, Milano, 1981, p. 111 ss.
67
Cfr. H.G. Gadamer, Verità e metodo, cit., p. 106 (vedi nota 45).
38
forma religiosa evidenzia in modo eminente la sua struttura: sia l’elemento di
trascendenza, sia la dimensione dell’accadimento e della partecipazione da
parte di colui che nella rappresentazione si riconosce.68
La riflessione sulla rappresentazione impone allora il tema dell’immagine;
infatti è proprio il concetto di repraesentatio che viene impiegato per definire
lo stato ontologico dell’immagine e per mostrarne la specificità e la natura in
rapporto alla semplice copia. Il tema dell’immagine è felicemente connesso da
Gadamer alla rappresentanza nella sua forma politica, poiché in questa connessione si svela la complessità della struttura del rappresentare.69 Il sovrano è
tale proprio in quanto si rappresenta ai suoi sudditi, appare in immagine: la
dimensione dell’evento pubblico è connaturata alla rappresentanza. È nel fatto
che egli deve rappresentare che l’immagine acquista la sua realtà autentica.
Ma avviene così che, in qualche modo, egli, la cui natura consiste nel mostrarsi, nel rappresentare, non appartiene più a sé stesso in quanto deve essere tale
come si vuole che la sua immagine sia.70
In altri termini si può dire da una parte che la rappresentazione, in quanto
immagine. implica un originale, ciò che deve mostrarsi attraverso l’immagine,
ma dall’altra che gli stessi destinatari della rappresentazione incidono su di
essa, la quale reagisce a sua volta sull’originale. In tale dialettica politica,
un’altra volta, è persa la struttura di una piena soggettività in questa serie di
rimandi tra l’immagine, ciò che è rappresentato e l’incidenza dello spettatore
sull’immagine stessa. Se è allora vero che la rappresentazione viene dall’alto,
nel senso che ciò che si rappresenta prende forma solo nella rappresentazione,
è anche vero che questa non è semplice gioco di costruzione arbitraria di figure, perché colui che rappresenta è inserito in una complessa dialettica, che lo
lega da una parte al modello della rappresentazione e dall’altra agli «spettatori» (che, come si è visto, non sono semplicemente tali). Se la rappresentazione
politica non è semplice Vertretung di realtà già formate, ma dà forma a ciò
che rappresenta, tale attività sovrana non consiste tuttavia nella decisione arbitraria di un soggetto autonomo.
Il tema della rappresentazione come immagine ci pone allora di fronte a
una domanda fondamentale riguardante il nesso che essa ha con il suo modello, con l’archetipo, e, se questo è individuabile nell’idea, a una domanda sul
rapporto tra la rappresentazione e l’idea. Si comprende bene che qui, se ancora ci si trova di fronte al problema posto dalla rappresentanza politica (rappre68
Cfr. H.G. Gadamer, Verità e metodo, cit., p. 177.
Non intendo dare ragione della struttura ontologica dell’immagine quale appare in Verità e metodo, ma solo utilizzare alcuni spunti che prendono il loro senso nel contesto di questo ragionamento.
70
Cfr. ancora H.G. Gadamer, Verità e metodo, cit., pp. 176-177.
69
39
sentanza dell’elemento ideale dell’unità politica in tutte le forme in cui si è
data: popolo, nazione, volontà generale, interesse comune, ecc.), tuttavia tale
problema rischia di presentarsi come lo stesso problema che sta alla radice
della filosofia, se si può concordare con quanto è stato felicemente detto da
Benjamin: «è proprio della letteratura filosofica ritrovarsi da capo ad ogni sua
svolta di fronte alla questione della rappresentazione».71 E una prima svolta
essenziale e decisiva per lo sviluppo della filosofia successiva e punto nodale
a sua volta per la riflessione sul rapporto rappresentazione-idea appare il pensiero platonico, anche se non è una storia del termine «rappresentazione» in
quanto tale, di origine latina, che può in esso trovare il suo avvio.
5. Un itinerario attraverso Platone: l’icona, ovvero la buona immagine
Secondo un topos diffuso della storiografia filosofica vecchia e nuova, Platone è il filosofo che, per aver posto la verità nell’immutabilità dell’essere e
sul piano delle idee, che rivestono quel carattere oggettivo costituente la base
stessa della scientificità della filosofia, avrebbe perciò svalutato il mondo della doxa, legato all’apparenza e all’immagine. Platone appare così un punto di
svolta nei confronti di una tradizione (VI e V secolo) in cui termini come eikázei, eikasía, dokeîn, dóxa, phaínein, phainómenon, non hanno significato di
per sé negativo, ma al contrario descrivono lo spazio di ricerca e i tentativi di
avvicinamento al vero quando si tratti di quella realtà che non sta davanti agli
occhi, che non è dunque sensibile ed evidente.72
Tale netta separazione tra ciò che veramente è e ciò che è mutevole, e tra i
tipi di conoscenza che a tali oggetti sarebbero riferiti, cioè epistéme e dóxa, ha
poi rilevanza per il modo in cui è intesa la concezione politica di Platone, che
appare escludere il mondo della dóxa per basarsi su un vero e immutabile sapere. In questa chiave da una parte la polis disegnata nella Repubblica appare
la polis perfetta, in quanto filosoficamente pensata, dall’altra lo stesso agire
politico del filosofo, che è reggitore della polis, si mostra fondato, in quanto è
al mondo delle idee, e all’idea del bene in particolare, che egli guarda per guidare la vita politica.73
71
Così Benjamin nell’attacco della nota Premessa gnoseologica dell’Ursprung des deutschen Trauerspiels, W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, tr. it. E. Filippini, Einaudi,
Torino, 19702, p. 7.
72
Cfr. J.P. Vernant, Nascita di immagini, «Aut-aut», 184-185, 1981, pp. 7-23.
73
Su questa via si è giunti a ravvisare in Platone un fondatore della scienza politica in
senso moderno (e dei suoi guai) e a farne, correndo forse il pericolo di ridurre il concetto di
epistéme a quello di téchne, persino un anticipatore di Hobbes (si veda ad es. di K. Held il
testo, per altri versi interessante, Stato, interessi e mondi vitali, tr. it. A. Ponsetto, Morcellia-
40
Naturalmente ci sono una serie di luoghi platonici che sembrano andare in
questa direzione: basti pensare al gradino che nella scala del sapere occupa
l’eikasía nella descrizione delle forme di conoscenza (la famosa teoria della
linea) e alla stessa critica che nei Dialoghi è rivolta alla mímesis, sia nel caso
che essa consista in quella creazione di apparenze che si ha nell’opera dei
poeti, sia che essa si manifesti nel gioco fantasmagorico di illusioni proprio
dell’operare non scientifico dei Sofisti.
Questi due obiettivi della critica sono intrecciati se si pensa che la mímesis
dei pittori e dei poeti si presenta, all’inizio del X libro della Repubblica, come
l’arte di imitare tutto, al di là della competenza in una specifica tecnica: definizione questa che caratterizza l’operare proprio del sofista.74 In questo contesto l’imitazione come produzione di figure, di éídola,75 è criticata in quanto
appare deviante nei confronti del problema della verità. Infatti le varie forme
create si presentano come illusorie apparenze miranti ad ingannare e ad essere
scambiate per la verità.76 Questo aspetto dell’oggetto dell’imitazione è reso
spesso da Platone con i termini che hanno la medesima radice phan. Essi sono
infatti ouk onta, ma phantásmata,77 cioè mere apparenze di contro all’essere;
sono phainómena che in quanto tali si contrappongono agli esseri che sono
secondo verità (onta ghé pou te aletheía).78
La critica all’arte mimetica è dunque diretta all’aspetto non veritiero che le
è proprio, in quanto non solo produce oggetti apparenti, ma con essi determina
inganno nei confronti di ciò che è imitato. È il problema del vero che sta al
cuore della critica alla mímesis. Non si tratta tanto di un giudizio sulla poesia
e sull’arte pittorica in quanto tali, ma in quanto considerate in relazione a un
duplice problema che connota tutta la Repubblica, il problema della verità, e
con esso quello della struttura del filosofare, e quello politico. È infatti proprio
a proposito delle figure prodotte dai poeti sul divino che si ha un momento
cruciale e significativo della critica di Platone, in quanto il divino è raffigurato
non in conformità alla sua natura perfetta e immutabile, ma, a causa
dell’aspetto cangiante dell’anima umana, come segnato dalla molteplicità e
dalla mutevolezza delle passioni.79 In tal modo la ridda delle immagini divine
na, Brescia, 1981, sp. p. 48 ss., e soprattutto, in quanto più esplicito in questa indicazione, il
suo saggio Per la riabilitazione della doxa, in Aa. Vv., Tradizione e attualità della filosofia
pratica, a cura di E. Berti, Marietti, Genova, 1988.
74
Resp., X, 595 a ss. Per quanto riguarda la traduzione italiana mi riferisco (con alcuni
mutamenti) a Platone, Opere complete, Laterza, Bari, 1971.
75
Eídolon è l’oggetto prodotto dall’imitatore: Resp., X, 599 a 7, 599 d 3, 598 b 8.
76
Resp., X, 598 c.
77
Resp., X, 599 a 1.
78
Resp., X, 596 e 4.
79
Resp., II, 380a ss.
41
che si presentano nei poemi, non solo nasconde quell’elemento divino che
vuole significare, ma lo distrugge in quanto presenta una realtà di esso modellata sulle fantasie prodotte dalle passioni umane.
Ma la tematica della verità è nella Repubblica legata strettamente a quella
politica, e perciò si ha l’interrogazione sull’esito politico della poesia di Omero, su quale polis abbia avuto cioè per suo merito un governo migliore. Lo
stretto legame tra problema della verità e problema politico, è evidenziato non
solo dalla necessità di dar luogo a una immagine di polis secondo verità (alétheia), ma anche dall’elemento formativo della paideía, proprio sia della pratica di avvicinamento all’idea intesa come pratica filosofica, sia della educazione alla vita politica e all’attività di governo. Solo tenendo presente questi
due intrecciati nuclei del dialogo platonico, e il ruolo che in relazione ad essi
riveste la riflessione filosofica, si può intendere il significato della critica alla
creazione di immagini propria della mímesis artistica.
E pur tuttavia la cruda critica alla mímesis non si risolve nella sua semplice
negazione, in forza di un contrapposto logos, che abbia come suo oggetto la
realtà delle cose che sono, cioè il mondo delle idee. Si può anzi riscontrare la
presenza insopprimibile dell’immagine nei punti alti del filosofare platonico,
là dove il rigoroso argomentare confutatorio lascia lo spazio alla possibilità o
alla necessità di dire, di esprimere positivamente il mondo delle cose che sono, o ciò che in sé è il divino. A questo livello alto ritroviamo l’immagine,
che, nella veste del mito, narra, in forma rappresentativa, una realtà che eccede la possibilità del logos e che per sua natura è irriducibile alla parola
dell’uomo.
Un esempio significativo di questo atteggiamento ricorrente in Platone lo
riscontriamo nel Fedro, dove, in apertura del mito della biga alata, si enuncia
la necessità del nostro procedere mitico in relazione alla natura delle cose che
sono. Esprimere l’eidos dell’anima è infatti impresa propria solo di un dio;
all’uomo è invece consono il tentativo di parlarne attraverso immagini (hô de
éoiken).80 Troviamo qui un termine con la radice eik, che spesso caratterizza
questo uso positivo dell’immagine (eikôn).81 Il procedere per immagini appare
qui non solo possibile e utile, ma necessario per quella realtà che insieme lega
l’idea e il divino. Nei confronti del divino infatti non c’è possibilità umana di
visione né di comprensione adeguata (oute idóntes oute hikanôs noésantes):
80
Phaedr., 246 a 3-4; è interessante notare che la trattazione divina è dichiarata lunga
(makrá), così come nella Repubblica apparirà più lunga la via che sarebbe necessario percorrere per avere conoscenza delle idee, via dunque che non è quella che Socrate, almeno in
quel contesto, sta percorrendo.
81
Sulla distinzione tra eikón e phántasma cfr. G. Turrini, Contributo all’analisi del termine
eikos. II. Linguaggio, verosimiglianza e immagine in Platone, «Acme», 32 (1979), pp. 299-323.
42
esso non è oggetto del pensiero, ma abbiamo nei suoi confronti solo una possibilità immaginativa, e attraverso questa lo figuriamo, gli diamo forma (pláttomen) come essere immortale, composto di anima e di corpo, eternamente
congiunti in un’unica natura.82 Tale immagine non è logica esposizione del
vero, ma appunto rappresentazione che ci indica ciò che eccede la visione e il
pensiero, e che tuttavia è in qualche modo reso presente nell’immagine.
Ma questo procedimento appare coinvolgere anche il mondo ideale, non
solo perché dell’idea dell’anima Platone parla per immagini, appunto attraverso il mito della biga alata, ma anche perché, nello stesso mito, emerge la struttura della conoscenza come anámnesis. Ciò significa che, se l’anima passa dal
molteplice delle sensazioni all’unità organizzata nel ragionamento (hen loghismô), ciò non ha il senso dell’astrazione o della costruzione, ma piuttosto
quello del ricordo, del rifarsi presente di ciò che essa una volta ha visto.83 In
altri termini l’idea non si offre alla vista e non può essere contemplata – la
contemplazione delle idee è propria solo del dio –, ma può essere in qualche
modo resa presente solo attraverso l’immagine; non è oggetto della nostra vista né del nostro conoscere. Non è proprio della phrónesis offrire eídola, in
quanto non è del pensiero la prerogativa e l’evidenza propria della vista; perciò l’unica possibilità di cogliere le cose che sono è per l’anima quella di ricordare la visione che in altro tempo e in altro luogo ha goduto, e tale reminiscenza è possibile attraverso l’immagine. L’idea del bello è ricordata
attraverso le cose belle, le quali non hanno il semplice significato della loro
presenza, non sono semplici oggetti del piacere e della fruizione, ma rimandano a quel bello in sé che solo l’anima iniziata, che non si ferma alle apparenze, può cogliere.
L’immagine sembra in questo modo rivestire un ruolo chiave proprio in relazione alla realtà, inattingibile alla vista, dell’idea. C’è dunque una buona e
una cattiva mímesis, una immagine falsa e ingannatrice ed una rimemoratrice
del vero?
È nel Sofista che Platone sembra dare una risposta a questa domanda, ed è
significativo che in questo Dialogo, se da una parte è proprio in contrapposizione all’arte sofistica che il procedimento filosofico prende i suoi connotati,
dall’altra dialettica e sofistica appaiono così vicine che la distinzione sembra
operarsi sul filo di un rasoio e il tentativo di definire il sofista sembra invece
portare alla definizione del filosofo. Ciò non significa che la distinzione non
sia netta e radicale, ma lo è su di un piano comune, connotato, ancor una vol-
82
83
Phaedr., 246 c 6-d 2.
Phaedr., 249 b 7-c 2.
43
ta, dal problema della paideia e da quello della verità in rapporto all’uso e al
significato dell’immagine.
A proposito della paideia il tentativo di definizione dell’arte sofistica porta
a determinare, in contrapposizione alla via dei padri, consistente nella esortazione e nel richiamo alla ragione, il procedimento elenchico, consistente nello
scuotere la pretesa di sapere dell’interlocutore ponendolo in contraddizione
con sé stesso e introducendolo, mediante il riconoscimento del suo non sapere, alla disposizione filosofica della ricerca.84 Troppo onore sembra esser attribuito all’arte sofistica in tale definizione e infatti questa «nobile arte sofistica» appare troppo simile a quella posta in atto da Socrate nei dialoghi
platonici. Ciò non è strano se si pensa che proprio in relazione alla contraddizione si differenziano dialettica ed arte sofistica, in quanto la prima consiste
nel tener ferma la contraddizione come tale, mentre la seconda nel passare indifferentemente da un polo dell’opposizione a quello opposto, perdendo in tal
modo proprio la consapevolezza della contraddizione.85
Ma è soprattutto la distinzione riguardante l’arte mimetica che qui particolarmente interessa. Ancora una volta l’atteggiamento positivo e quello negativo si incrociano e la differenziazione ha luogo sul piano comune determinato
dall’arte di creare immagini, arte propriamente umana. Non necessariamente
la mímesis è considerata negativamente e criticata: se c’è infatti una specie
dell’arte mimetica consistente nel produrre semplici phantásmata, illusioni,
apparenze destinate ad ingannare e ad allontanare dal vero, esiste tuttavia anche una specie buona di imitazione, che produce eikónes, rappresentazioni che
non tendono a ingannare ma che si rapportano al modello (parádeigma) «in
modo da mantenerne le interne proporzioni in lunghezza, larghezza e profondità».86 L’eikastiké téchne si contrappone alla phantastiké téchne come
l’imitazione che è attenta a rendere fedelmente il modello nei confronti della
costruzione di un’apparenza che perde il rapporto con il modello e lo falsifica
a proprio arbitrio.
Non si può a questo punto accettare la tesi della semplice svalutazione
dell’immagine, perché se è vero che la produzione di eikónes è legata al procedimento filosofico e alla consapevolezza critica della necessaria implicazione dell’idea e insieme della sua irriducibilità a qualsiasi particolare contenuto
e definizione, è anche vero che non coincide con esso e bisogna pur sempre
ricordare che nel suo procedere dicotomico Platone distingue la eikastiké té84
Soph., 229 d ss.
Rimando su ciò ai miei L’interpretazione hegeliana della contraddizione nel «Parmenide», «Sofista» e «Filebo», «Il Pensiero» XII (1967), pp 206-220 e Confutazione e contraddizione in Platone, «Il Pensiero», XX (19759, pp. 69-88.
86
Soph., 235 d 7-8.
85
44
chne dalla phantastiké proprio all’interno di un genere comune che è
l’eidolopoiiké téchne.87 Dunque la somiglianza al modello che si ha nell’eikôn
non risiede in un processo meramente logico, ma è sempre legata alla forma
dell’immagine.
La differenza tra le due specie di immagine è ravvisabile nel fatto che
l’eikôn è l’immagine fedele alla sua natura di immagine, che consiste nel rimandare a ciò di cui è immagine, a ciò che non è esso stesso presente in quanto tale, mentre il phántasma è l’immagine che tradisce la sua rappresentatività
nascondendo il rapporto con ciò di cui è immagine e dunque ponendosi come
autosufficiente, come ciò che è, come verità. Con un capovolgimento di prospettiva appare in tal modo rivalutata proprio l’immagine nel suo aspetto rappresentativo, mentre è criticata quell’immagine che tradisce la sua stessa natura, non dunque l’immagine in quanto tale.
Il tentativo di dare di tutto ciò una versione «realistica» viene impedito da
quanto si è detto a proposito del Fedro. Il modello infatti non può essere inteso come ciò che a sua volta si presenta, come ciò che ha una figura e dunque
può essere direttamente copiato.88 Se così fosse la forma del modello e quella
dell’immagine sarebbero speculari: quest’ultima sarebbe una copia perfettamente conforme, ma anche una copia inutile se il modello si mostra esso stesso allo sguardo e può essere goduto in quanto tale. Ma altra è la natura
dell’idea: non è essa stessa visibile e può essere attinta solo nella profondità
dell’anamnesis, solo cioè distanziando la sua visibilità dal presente e risalendo
mediante tracce ad essa, che non si dà nell’evidenza della figura. Se fosse
possibile un piano in cui l’idea «si vede», questo sarebbe praticato dalla filosofia, che si porrebbe allora semplicemente come sophía; ma, come si è visto,
solo del dio è la contemplazione delle idee. Né è possibile dire che l’idea si
svela non nella forma visiva, ma in quella intellettuale, logica. Se così fosse
essa sarebbe oggetto del logos e in quanto tale sarebbe dicibile, definibile, determinabile in modo univoco, e non solo non ci sarebbe più spazio per la rappresentazione in rapporto all’idea, ma essa sarebbe di per sé necessariamente
sempre falsa, intrinsecamente negatrice della verità. Ma in armonia con quanto è indicato nel Fedro, secondo cui solo mediante icone possiamo parlare di
ciò che è divino, non abbiamo nei Dialoghi definizione delle idee, loro esposizione e riduzione a contenuti del logos. In tal modo viene esclusa insieme la
possibilità del darsi della sophia, come possesso della verità, e la possibilità
87
Soph., 235 b 8 ss.
Anche il rapporto immagine-modello, che appare come topos ricorrente in Platone e
schema di riferimento, non è, a causa della mancanza di forma visibile da parte del modello,
esso stesso indicazione conoscitivamente adeguata, dal punto di vista logico, della nostra relazione all’idea, ma è un tentativo di esprimere tale relazione in modo immaginifico.
88
45
che l’immagine buona sia semplice copia che riproduce le proporzioni del
modello offrentesi alla vista come un dato. La fedeltà al modello non sta dunque nell’esattezza della copia, nella riproduzione delle misure della figura del
modello, ma piuttosto nel fatto che l’immagine, fedele alla sua natura di immagine, non si presenta essa stessa come il vero, ma indica la sua insufficienza e il suo essere rivolta all’archetipo, a quel vero cui essa è somigliante, che
cerca di far trasparire, ma che non possiede né esaurisce in sé.
Nell’immagine si rende percepibile ciò che eccede ogni possibilità di vedere e senza di cui le stesse cose viste non sono quello che sono. Perciò le cose
belle, sensibilmente viste, rimandano ad un’idea del bello, che è altra e pure
intensamente vissuta proprio attraverso le cose belle, le quali sono allora considerate strutturalmente come immagini, al modo che si mostra nelle pagine
eroticamente intense dedicate da Platone al mito del Fedro sopra ricordato. Le
cose stesse allora appaiono simboli nel doppio senso del significare ciò di cui
sono simboli e del creare con esso un contatto, una forma di partecipazione,
che tuttavia non può mai ridurre ciò che si rivela nel simbolo al simbolo stesso. La presenza dell’idea nell’immagine è dunque sempre una presenza nella
forma dell’assenza.
Appare necessario verificare tale modo di darsi dell’idea proprio in quel
Dialogo che significativamente affronta insieme il problema della verità e della cosiddetta «teoria delle idee» e il problema della politica. Si tratta cioè di
vedere se anche in questo punto cruciale della riflessione platonica il parádeigma abbia il senso qui indicato e non quello di un modello che serva, una
volta visto, a costruire una polis perfetta, in quanto appunto copia conforme di
questo modello ideale.
6. Rappresentazione e idea: il disegno della polis
Solo alcuni cenni è qui possibile dare in direzione di un tentativo di interpretazione del nesso verità-politica che si discosti dalle interpretazioni che
ravvisano in Platone un fondatore della politica come scienza e che faccia intravedere il ruolo della rappresentazione in relazione sia alla verità dell’idea
sia alla costruzione della polis.89 Si può tentare di individuare alcune tracce in
questa direzione.
89
Le indicazioni qui contenute sul modo di intendere il parádeigma, anche in rapporto
alle tematiche della Repubblica, vanno nella direzione già indicata da A. Cavarero, Tecnica e
mito secondo Platone, «Il Centauro», 1982, n. 6, pp. 3-17. Per una più ampia interpretazione
dell’idea in un’ottica affine, cfr. F. Chiereghin, Storicità e originarietà dell’idea platonica,
Cedam, Padova, 1976.
46
In consonanza con i Dialoghi «socratici» si manifesta anche nella Repubblica l’atteggiamento critico mediante cui viene ridotta alla contraddizione la
pretesa della doxa di farsi teoria, come avviene nel caso della definizione della giustizia da parte di Trasimaco. Ma tale atteggiamento non appare più sufficiente: la possibilità di identificare l’agire politico con l’impegno socratico
nella polis, consistente nel suo andar interrogando e confutando, sembra caduta: il filosofo infatti in quella polis viene ucciso ed eliminato, e con ciò quel
suo far politica viene reso impossibile. Il compito è allora quello di esprimersi
positivamente sull’idea di giustizia e di dare una forma della polis nelle sue
parti e nelle funzioni da essa richieste, in modo da servire come indicazione
per la vita politica.
E tuttavia tale positivo dire nei confronti dell’idea non si presenta con i caratteri incontrovertibili della scienza, ma con quelli segnati dalla inadeguatezza e dal rischio propri dell’immagine. L’uso dell’immagine si ritrova infatti,
ancora una volta, nei punti cruciali del Dialogo. Rappresentazione è infatti il
mito della caverna, destinato ad indicare l’ascesa dell’anima alla verità ed insieme il difficile compito politico che al coglimento della verità viene collegato. Il mito non sembra qui poter essere considerato semplice metafora di una
teoria della conoscenza tutta esprimibile in modo logico e razionalmente argomentato. Basti pensare all’accadimento dello scioglimento del prigioniero
dalle catene, non spiegabile né deducibile, o all’evento della vista del sole e
cioè della contemplazione dell’idea del bene. Infatti nella parte del Dialogo in
cui si tenta di parlare di essa, Platone ancora è costretto a ricorrere
all’immagine del sole, ed è mediante quest’immagine che tenta di significare
positivamente ciò che è fonte dell’essere e della coscienza e, pur essendo origine di ogni essenza, è di per sé eccedente l’essenza stessa (epékeina tês ousías).90 Si tenga presente che il discorso intorno all’idea del bene è al centro sia
del problema della verità, della cosiddetta «teoria delle idee», sia del problema
politico, che riguarda il bene della polis in analogia al bene dell’uomo: e tuttavia tale idea non appare come oggetto della nostra descrizione razionale, ma la
si indica solamente mediante ciò che le somiglia, un’immagine, qual è il sole.
Tale necessità dell’esprimersi per immagini è legata al tentativo di dire in
positivo l’idea e Socrate si schernisce nei confronti della «divina iperbole»
(daimonías hyperbolês), con cui Glaucone definisce ironicamente tale racconto, addossando la responsabilità di ciò a Glaucone stesso perché lo «costringe
a dire».91 Qualora cioè non si mostri solo la necessaria implicazione dell’idea,
90
Resp., VI, 508 c-509 c.
Resp., VI, 509 c 3-4; nell’etimo stesso dell’hyper-bolé è espresso questo «gettarsi oltre, al di là» di ogni possibilità per la mente umana: da ciò l’attributo daimonía che
l’accompagna, indice dell’aspetto sovrumano.
91
47
ma la si voglia definire, si voglia dire in positivo la sua essenza, non è possibile che esprimersi in modo rappresentativo, cioè mediante una immagine che
la riveli e indichi nel contempo anche la sua eccedenza nei confronti del logos, la sua incommensurabile alterità. Già infatti era giunta nel Dialogo
l’ammonizione che dell’idea del bene non abbiamo una conoscenza adeguata
(hikanôs):92 essa non è dunque riducibile a contenuto della conoscenza, e ciò
proprio a causa del suo essere origine di ogni conoscenza oltre che di ogni essere.
Analoga situazione si ha anche a proposito della domanda iniziale
sull’arché, sul typos, cioè sull’idea della giustizia, che motiva lo svolgimento
di tutto il Dialogo. Se infatti la definizione di essa come l’adempimento di
ognuno del compito che gli è proprio (ta hautoû práttein) sembra soddisfacente, in modo da suggerire l’impressione di aver finalmente trovato ciò che è
giusto per l’uomo, per lo Stato, e ciò che è la giustizia in sé,93 tuttavia bisogna
ricordare che questa, che può sembrare forse una delle poche definizioni che
si hanno delle idee nei Dialoghi, in realtà altro non è che una immagine, un
eídolon della giustizia,94 per quanto più di ogni altra sembri approssimarsi
all’idea e costituire una fonte di orientamento utile per il comportamento
dell’uomo e della polis. Non è dunque definizione adeguata ed esaustiva
dell’idea, ma immagine che allude a un superiore ordine e che porta in sé
connaturata insufficienza e rischio.
Tale definizione della giustizia è, in realtà, solo a suo modo definizione, in
quanto ciò che in essa non è definito è il proprium di ognuno: perciò non è possibile dedurre contenuti concreti e conseguenze pratiche, stabilite in modo univoco. Tuttavia in essa si esprime il riferimento ad un ordine, in cui la totalità di
ognuno viene messa in questione e rapportata ad un intero in cui è inserita, di
modo che all’interno di ogni proprium, che determinatamente si dia, scatta una
relazione all’intero, nella quale la stessa idea di giustizia mostra il suo operare.
È dunque tutt’altro che senza valore tale figura di giustizia, né è equivalente ad
ogni altra definizione possibile, per esempio a quella, mostrata contraddittoria,
di Trasimaco, poiché essa lascia trasparire il modo di operare dell’idea e
dell’ordine che questa implica; ciononostante non è definizione adeguata razionalmente, come conoscenza esaustiva e senza residui, del suo «oggetto».
Si può ricordare che più volte ritorna l’affermazione secondo la quale, per
giungere in modo adeguato alla mèta, al coglimento cioè di cosa siano la giustizia e le altre virtù proprie dell’anima e della polis, non ci si dovrebbe ac92
93
94
Resp., VI, 505 a 5.
Resp., IV, 444 a 5.
Resp., IV, 443 c 4.
48
contentare del metodo seguito, ma compiere una via più lunga e più ardua.95
Difficile dire quale sia questa via, pur indicata come necessaria per il filosofo,
per colui cioè che deve divenire guardiano dello Stato: non è essa in ogni caso
percorsa nella Repubblica per giungere all’immagine di ciò che è giusto, e
forse può apparire una via divina, così come propria del dio è la lunga esposizione che potrebbe definire l’idea dell’anima indicata dal Fedro.
Se la lunga via fosse poi ravvisabile in quel procedimento dialettico consistente nel prendere avvio dalle ipotesi per innalzarsi fino al principio anipotetico del tutto, per ripiegare poi all’ingiù, traendone le conseguenze che ne derivano, muovendosi sempre attraverso le idee, senza usare immagini né
alcunché di sensibile,96 ancora una volta si addenserebbero i problemi e le difficoltà. Eccede il compito che qui ci proponiamo tentare di intendere in che
cosa consista questo procedimento e tentare di proporre una interpretazione
che consideri tale attingimento del principio da una parte come proprio del rigore dialettico, che considerando l’ipoteticità delle ipotesi rivela l’alterità e la
necessaria implicazione di ciò che è anipotetico, e dall’altra come legato non
ad una sistematica scientifica, che ordini le conoscenze in un quadro di dipendenze e di deduzioni, ma piuttosto a quella pratica della filosofia esemplarmente descritta nella Lettera VII e consistente nello sfregare tra di loro gli elementi finché nell’exaíphnes si manifesti l’idea.
Ciò che sembra di poter escludere è tuttavia una interpretazione in cui si
pensi ad una trattazione sistematica e definitoria delle idee e ad una deduzione
delle conseguenze traibili dall’idea del bene. In tal caso appunto si darebbe
luogo a un sapere delle idee che non può che essere sapere assoluto, in quanto
sapere delle cose che sono. Anche la costruzione della polis avrebbe con ciò il
carattere di una fondazione rigorosa e incontrovertibile. Si può comprendere
come non è una via di questo tipo quella percorsa nella Repubblica come negli
altri Dialoghi platonici.
Il filosofo non appare tanto in possesso di una tale sicura scienza, ma piuttosto il suo atteggiamento, quando cerca di disegnare lo schema della costituzione, può essere considerato vicino a quello del pittore, con la differenza che
non è alle cose sensibili, ma all’idea che egli guarda. Tuttavia il suo riferirsi
all’idea non comporta il sicuro procedere della scienza, ma un plasmare la sua
forma tra tentativi e dubbi, dipingendo, cancellando e ridipingendo, fino ad
ottenere ciò che è quanto più simile al carattere divino.97 Ancora il problema è
quello della somiglianza: è quello di far trasparire il parádeigma, che tuttavia
95
96
97
Cfr. Resp., 434 d 3, 504 b 2, 504 c 9-d 1.
Resp., VI, 510 b 6-9 e 511 b 3-c 2.
Resp., VI, 501 b 9-c 2.
49
non è visibile e non può essere copiato in un disegno perfetto, in cui esso sia
perfettamente presente. Allora il rapporto con il modello non garantisce
l’immagine, la quale è sempre arrischiata, in quanto radicalmente sempre su
di un altro piano nei confronti del principio: la fedeltà ad esso è legata alla negazione di ogni pretesa di possederlo, di farne un oggetto del logos.
Si può dire che non abbiamo qui scienza politica fondata sul modello, ma,
proprio l’aver posto il problema della giustizia in sé e quello del principio anipotetico, fa sì che ciò che si dipinge nella Repubblica sia una grande rappresentazione, che, se da una parte indica l’idea del bene e l’ordine divino che
ne deriva, dall’altra è consapevole dell’eccedenza di essa nei confronti del disegno umano, e dunque del carattere arrischiato e non fondato di questo disegno stesso. Il logos mostra così il carattere immaginifico e simbolico che lo
connota e la politeia, che si va esponendo nel Dialogo, si presenta come la costruzione di un mito (mythologoûmen lógo).98 Certo non si tratta di quel racconto mitico che dà come vera la descrizione degli dei mossi da passioni e in
lite tra loro, cioè dell’immagine che si risolve nell’illusione e nella falsità, ma
di quell’immagine che vuol far trasparire l’idea non sostituendosi ad essa, ma
mantenendola nella sua alterità.
A sua volta rappresentativo appare l’agire del filosofo-governante, raffigurato nella polis, perché da una parte non può non rapportarsi al mondo ideale
– ché è proprio la logica consapevolezza della necessità dell’idea per poter
parlare di qualcosa di giusto e di buono, ciò che caratterizza il suo essere filosofo –, e dall’altra non può che rappresentare in immagine la realtà ideale, con
il rischio e la relatività della sua opera di «disegnatore». L’azione di comando
propria della sfera politica, in quanto non è prerogativa della persona determinata del filosofo, ma piuttosto dipende dal fatto che questi si riferisce all’idea,
sembra allora essere essenzialmente connotata dalla rappresentatività, poiché
è significando l’idea che egli opera e non basandosi sulla sua arbitraria volontà.
7. Pratica della filosofia e problema dell’origine
L’itinerario attraverso Platone ci ha permesso di mettere a fuoco lo stretto
nesso esistente tra rappresentazione e idea. Ciò è riscontrabile in una duplice
direzione. Da una parte è proprio della natura della rappresentazione rimandare
ad altro da sé, a ciò che costituisce un modello, ma che come tale non è visibile
ed è privo di figura. Dall’altra, se si pone il vero nell’idea, allora, proprio a causa dell’impossibilità che essa si dia come oggetto della conoscenza, a causa
98
Resp., VI, 501 e 4.
50
dunque del suo sottrarsi alla presa del pensiero, si può dire che di essa non c’è
che rappresentazione: se si «vuole dire», se si è «costretti a dire» in positivo
qualcosa su ciò che veramente è, non si può esprimersi che attraverso immagini.
Il rigore proprio della confutazione socratica nei confronti di ogni tentativo di
dare definizioni e risposte esaustive alle domande poste e la consapevolezza della necessità di tener ferma la contraddizione, propria dei Dialoghi «dialettici» del più maturo Platone, vanno di pari passo con la consapevolezza della natura rappresentativa dell’immagine e della imprescindibilità di essa per
esprimersi su ciò che è «divino».
Allora l’idea non è in realtà ciò su cui verte la domanda, non è l’oggetto
che bisogna conoscere, e proprio perciò non appare una possibile risposta a
tale domanda, cioè una definizione adeguata di essa. Si può invece dire che
essa è ciò che permette l’interrogare stesso, ciò che non è in sé questionabile,
ma che rende possibile ogni questione. Se nell’idea viene posta la verità, come
in sé esistente e non prodotta dal nostro conoscere, ciò non ha tuttavia il senso
di una oggettivazione della verità stessa, perché essa si manifesta proprio nel
darsi dell’idea come necessaria e nello stesso tempo come ciò che si sottrae
alla sua oggettivazione. Da ciò deriva l’impossibilità che si dia una dottrina
delle idee, una scienza di esse che le riduca a contenuto nel processo logico. Il
non darsi di una dottrina delle idee fa tutt’uno con il mantenimento della rappresentazione, che, lungi dall’essere soppiantata dalla scienza e dal logos,
permane strettamente congiunta all’ambito della verità. Un sapere scientifico
perfettamente adeguato ai propri oggetti eliminerebbe la rappresentazione, ma
ciò proprio a patto di rinunciare al problema della verità.99
L’idea non è allora propriamente ciò che è rappresentato, ma ciò che rende
possibile la rappresentazione e che in essa mostra la sua alterità. È proprio
questo scarto che «fa essere» la sempre diversa e arrischiata rappresentazione,
e che dà ad essa il carattere che le è proprio di insufficienza e di rimando. Nel
sottrarsi dell’idea compare allora l’origine stessa della rappresentazione, come
ciò che rende possibile la rappresentazione ed opera in essa. Proprio per questo il problema dell’arché si ripropone continuamente nei Dialoghi di Platone,
e non solo all’inizio del dialogo, ma anche alla fine, dove il ritornare all’arché
ha il senso non solo del ritorno alla domanda che all’inizio si era posta e a cui
non si è data risposta, ma anche dell’indicazione di ciò che permette lo stesso
domandare e che fonda la struttura, che nel dialogo si è imposta, della ricerca.
99
Si ricordi quanto dice Benjamin nella Premessa gnoseologica: «se la matematica documenta distintamente che la totale eliminazione del problema della rappresentazione, e in
tal modo si presenta ogni didattica rigorosamente conforme al proprio oggetto, è il segno della conoscenza autentica ugualmente vincolante si presenta la sua rinuncia all’ambito della
verità che è nell’intenzione dei linguaggi» (Il dramma barocco, cit., p. 7).
51
Si può allora dire che, se l’idea non è oggetto di conoscenza, di essa tuttavia si fa esperienza mediante il movimento che implica insieme procedere logico ed immagini; tale movimento è reso possibile dall’idea proprio in quanto
essa non coincide con nessun punto di esso, ma esso tutto appare una esperienza partecipativa dell’idea.
Non meraviglia se per questa riflessione sul nesso di rappresentazione-idea
e per questa lettura di Platone si ricordano due indicazioni provenienti da fonti
diverse, ma entrambe utilizzabili per sottolineare l’elemento simbolico che si
è manifestato nel discorso platonico. Innanzitutto quella di Benjamin, il quale,
ponendo insieme a Platone il problema della verità in quelle idee che non sono oggetto né della conoscenza né dell’intuizione, sottolinea la straordinaria
potenza del nome, il quale, nella sua intatta nobiltà e in una originaria interrogazione, permette il darsi delle idee – un darsi che è tuttavia mai presenza e
possesso, se è vero che l’idea può essere definita «un che di linguistico, più
precisamente qualcosa che, nell’essenza della parola, coincide col momento in
cui questa è simbolo».100 La parola manifesta così un suo carattere simbolico,
che non è sua stabile e oggettivata natura, ma si ha nell’accadimento: è la rappresentazione a ripristinare il carattere simbolico della parola e a rivelarsi come unico modo per far trasparire l’idea, la quale è al di là di ogni visibilità,
intuitività e intenzionalità.
Ma è utile ricordare anche quel ritorno ai greci (specialmente a Platone e Aristotele) di Eric Voegelin, che spesso è considerato arbitrario e poco ortodosso,
secondo i canoni della storiografia filosofica. Egli mette in discussione la radicale opposizione di mito e filosofia, in quanto entrambi hanno alla loro origine
l’atteggiamento dello thaumázein ed entrambi si manifestano non tanto come
forme di conoscenza o intuizione stabili e oggettivate, quanto come forme di
espressione simbolica dell’esperienza della meraviglia, e come forme di «partecipazione al fondamento».101 L’immagine acquista in questo contesto il suo
carattere rappresentativo in quanto non è riproduzione più o meno esatta della
realtà, ma esperienza di partecipazione. L’aspetto simbolico della rappresentazione mostra anche qui il suo carattere di accadimento, di evento, contro una
concezione della oggettività della figura e della forma della immagine.102 La
stessa filosofia appare come processo di partecipazione al fondamento, come
pratica, che coinvolge totalmente il soggetto in una dimensione in cui il vero è
inteso come non risolto nel soggetto stesso, ma appare trascenderlo. La dimen100
Cfr. W. Benjamin, Il dramma barocco, cit., p. 17.
Cfr. E. Voegelin, Anamnesis. Zur Theorie der Geschichte und Politik, B. Piper & Co.
Verlag, München, 1966, tr. it. Anamnesis. Teoria della storia e della politica, di C. Amirante, Giuffrè, Milano, 1972, p. 212.
102
Cfr. E. Voegelin, Anamnesis, cit., p. 219.
101
52
sione oggettiva della verità è legata alla dimensione soggettiva e pratica della
partecipazione, e in questo processo l’elemento simbolico della rappresentazione ha un ruolo determinante. Quando si perde tale dimensione simbolica e di
pratica filosofica i simboli della filosofia diventano immagini in senso ambiguo
e nasce la metafisica, non nel senso autentico dell’esperienza noetica dei Greci,
ma in quello della disciplina, della «manipolazione proposizionale dei simboli
noetici», della riduzione cioè, potremmo dire, dell’esperienza che si ha dell’idea
in un insieme dottrinale di concetti e definizioni strutturanti un sapere che pretende per sé il possesso della verità.103 È significativo che Voegelin, il quale coglie la dimensione simbolica e filosofica della rappresentazione, ne faccia il nucleo portante della sua «nuova scienza politica» cioè della comprensione
filosofica del problema politico dell’ordine.
Se a questo punto ritorniamo a pensare il modo in cui si dà il rapporto rappresentazione-idea nella teoria politica moderna, possiamo rintracciarvi una
dimensione fondativa che appare resa possibile da quell’«esperienza del fondamento» da Voegelin indicata, ma che si mostra nello stesso tempo come
tradimento di questa. Se si può riconoscere nel procedimento hobbesiano un
elemento insopprimibile di trascendenza, legato alla stessa struttura della rappresentanza e all’atto di fiducia e fede che determina nel patto la scelta della
persona del rappresentante, tuttavia è con un gesto di fondazione scientifica
che la vicenda del contrattualismo inaugura una nuova scienza politica. Il tentativo cioè è quello di dar luogo alla determinazione scientifica e incontraddittoria della forma politica, in cui la differenza tra chi esercita il potere e chi vi
è sottomesso sia razionalmente fondata. Perciò l’atteggiamento scientifico diviene quello della determinazione della genesi. L’essenza dello Stato come
sfera razionale di rapporti può venir compresa in quanto si mostri il modo in
cui esso è generato, e tale modo è appunto l’espressione della volontà razionale di tutti mediante il patto sociale. Si ha così il coglimento della genesi logica
(quando non è anche storica) della forma politica, utile a legittimare
l’espropriazione di volontà e la sottomissione che sono proprie della rappresentanza moderna, quale sopra è stata descritta. Il problema non è qui tanto
quello dell’origine, ma della genesi: dell’atto che, una volta per tutte, fa nascere la rappresentanza. Tale atto non è ciò che di volta in volta rende possibile e sostanzia l’agire rappresentativo, ma ciò che lo fonda ab initio e dà luogo
a una dimensione da se stesso radicalmente diversa: non più espressione di
volontà da parte di tutti come uguali, ma rapporto di comando e obbedienza.
Porre quest’atto all’inizio ha la funzione di rendere incontrovertibile il rapporto di comando e obbedienza e di dare assolutezza alla dimensione della rap103
Cfr. E. Voegelin, Anamnesis, cit., p. 220.
53
presentanza. L’idea che si rappresenta, popolo o nazione, dà garanzia e assolutezza a colui che in suo nome è autorizzato a parlare. La ricostruzione della
genesi in questo processo fa tutt’uno con la fondazione da parte della teoria e
con la pretesa di sapere che la caratterizza: siamo di fronte ad un tentativo di
fondazione immanente della politica.
Se si riapre tuttavia questa struttura della rappresentanza, cogliendone la
sua più intima natura, e se ne scopre il rapporto con l’idea come ciò che in essa si fa trasparente nella forma dell’assenza, si attinge in tal modo il problema
dell’origine, di ciò che rende possibile ogni agire rappresentativo e in esso si
mostra, ma che non appare mai determinabile e riducibile ad un oggetto della
conoscenza tale da permettere quella fondazione propria della teoria. Ad esso
si può invece sempre risalire mediante una pratica partecipativa, ma che mostra i caratteri della filosofia e che appare strutturalmente non idonea a fondare la forma politica. La riapertura filosofica del problema della rappresentazione riesce a cogliere il nodo dell’origine nello stesso tempo in cui mostra
l’impossibilità di una fondazione teorica della forma.104
Se è significativo che, nel momento in cui la forma-Stato sembra in crisi, si
abbia un concentrarsi della riflessione sulla rappresentazione, è altrettanto significativo che, proprio in quanto si vede nella rappresentazione il nucleo centrale del problema politico e ci si interroga fino in fondo sulla sua natura,
l’esperienza di comprensione, a cui tale interrogazione dà luogo, e la riapertura di un ambito di riflessione filosofica vadano di pari passo con la consapevolezza dell’impotenza della teoria nel tentativo di produrre nuove forme garantite e fondate, in cui, oltre lo Stato moderno si sostanzi la vita politica.
104
I termini di filosofia, scienza e teoria hanno qui il significato che traspare dal contesto del nostro discorso e non da quello voegeliniano. Che il movimento della presenza
dell’assente sia centrale per la rappresentanza moderna risulta evidente anche nel lavoro recente di B. Accarino, Rappresentanza, Il Mulino, Bologna, 1999, il cui primo capitolo porta
significativamente come titolo “Presenza e assenza”.
54
2. Genesi e logica
della rappresentanza politica moderna 1
1. Diritti dell’uomo e costituzione: la Rivoluzione francese
Se ci si interroga sulla genesi di quel concetto di rappresentanza politica
che informa di sé le moderne costituzioni, il momento storico che
immediatamente si presenta alla nostra attenzione è quello costituito dalla
rivoluzione francese. È nota la rilevanza che nella Rivoluzione e nella fase in
cui nasce la costituzione viene ad assumere la teoria. Ciò è ben evidenziato
da Sieyes, che nell’89 già indicava come stessero diventando insieme
patrimonio comune e realtà una serie di idee che al loro apparire erano state
denotate come “metafisica”: che fosse cioè da dare una costituzione alla
Francia, che il potere legislativo appartenesse alla nazione e non al re, che i
deputati degli stati fossero veri rappresentanti, che si distinguesse un potere
costituente da uno costituito, che i cittadini fossero uguali e depositari di
uguali diritti. Ciò accade, dice Sieyes, a tutte le verità razionali che si
affermano nell’ambito pratico: prima sono avversate come astratte e rifiutate,
e poi finiscono per alimentare l’insieme delle idee comuni e diventano
semplicemente “il buon senso”.2
Una sintesi dei principi affermati dalla teoria come universali si ritrova
nella famosa Dichiarazione dei diritti dell’uomo.3 Essa è un indicatore di
1
In questo capitolo vengono utilizzati, spesso senza alcuna modifica, alcuni materiali contenuti nei volumi Il potere. Per una storia della filosofia politica moderna, cit. e La logica del
potere cit., e in saggi su Kant, Fichte e Hegel a cui si farà riferimento; la ragione sta nel fine del
presente volume, che tende a dare un quadro complessivo del concetto di rappresentanza.
2
Y.E. Sieyes, Préliminaires de la Constitution. Reconnaisance et exposition raisonnée
des Droits de l’homme et du citoyen, 3a éd., chez Baudouin, Paris, 1789, tr. it. in Opere e
testimonianze politiche, a cura di G. Troisi Spagnolo, Giuffré, Milano 1993 (d’ora in poi
OTP), vol. I, p. 377 ss. Sul pensiero costituzionale di Sieyes cfr. P. Pasquino, Sieyes et
l’invention de la constitution en France, Odel Jacob, Paris, 1998.
3
Cfr. Les Déclarations des droits de l’homme, a cura di Lucien Jaume, Flammarion, Paris, 1989.
55
quanto si sia diffusa l’idea che gli uomini siano uguali ed abbiano uguali diritti e di come, sulla base di tali diritti, si debba organizzare la loro convivenza e
la società civile. In un momento chiave per la storia delle costituzioni moderne, alla base della formazione di una società determinata, che, in quanto tale,
comporta processi di inclusione ed esclusione, e dunque precisi confini, si
trova una dimensione di pensiero che pretende l’universalità, che pretende di
valere in relazione alla natura umana e al di là di ogni società particolare. La
tensione teorica tra l’indicazione di diritti universali, propri dell’uomo in
quanto tale, e dunque di tutti gli uomini, e la determinazione di una costituzione particolare, che necessariamente comporta esclusione, segnerà la storia
successiva delle costituzioni e rimarrà un nodo problematico e irrisolto.4
In ogni caso pensare la società a partire dai diritti dei singoli uomini diventa una costante nel processo storico. Contrariamente a quanto spesso si immagina, il ruolo della posizione dei diritti dell’uomo alla base della costituzione
non è solo quello di porre limiti e obiettivi da salvaguardare di fronte al potere. Una semplice limitazione del potere da parte dei diritti sarebbe pensabile
se il potere avesse un fondamento diverso da quello costituito dalla ragione
che pone o riconosce i diritti. Ma ben altra è la situazione in cui ci si trova nel
momento in cui, per la prima volta, si intende dare una costituzione alla Francia, una costituzione giusta e legittima. Non viene in tal modo accettato un potere esistente, come dato di fatto, ma si tratta di costituire il potere che appartiene a tutta la nazione e che è giusto e razionale in quanto basato sui diritti e
sulla volontà degli individui. La stessa ragione che pone i diritti pone anche il
potere e le regole del suo esercizio: il potere promana dunque dalla stessa istanza dei diritti. Ciò è affermato esplicitamente nella Dichiarazione, quando
si indica la necessaria esistenza di una forza pubblica, affinché essi divengano
realtà effettiva.5 È lo stesso pensiero dei diritti degli uomini dunque a comportare la dimensione del potere, della forza comune, di quella sovranità, nel senso moderno del termine, che sta alla base della concezione dello Stato.
Tra i diritti sono innanzitutto quelli di uguaglianza e libertà ad essere massimamente importanti e a rivestire un ruolo fondante. La centralità del concetto di libertà conferisce anche un significato nuovo allo stesso termine di “rivoluzione”, che non è più collegabile a ciò che la parola prima indicava sulla
base del suo stesso etimo – cioè moto circolare, che ritorna su se stesso –, ma
è comprensibile in relazione all'instaurazione di un ordine nuovo, e dunque in
relazione ad una filosofia della storia, con la sua idea di evoluzione e di e4
Cfr. Su ciò H. Hofmann, Il contenuto politico delle dichiarazioni dei diritti dell’uomo,
“Filosofia politica”, V (1991), n. 2, pp. 373-397.
5
Si veda l’articolo 12 della “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino” dell’89.
56
mancipazione.6 La parola non indica più una semplice descrizione di avvenimenti, ma piuttosto un compito da realizzare ed un insieme di idee e principi
nei confronti dei quali decidere la propria collocazione culturale e politica. La
libertà indica la via della rivoluzione, che è il processo di liberazione dalle
pastoie del potere esistente e dalla cristallizzazione dei diversi diritti e
privilegi.
E la libertà costituisce la base della Dichiarazione dei diritti. Non si tratta
più delle diverse libertà che erano continuamente invocate nelle lotte politiche
del XVIII secolo contro la minaccia dell’assolutismo, cioè le franchigie, le
immunità e i privilegi propri di comuni, ordini, università e corpi. È da tenere
presente che, sino alla Rivoluzione, sia la realtà politica, sia il modo diffuso di
pensare la politica, non sono caratterizzati dai concetti unitari e omogenei della scienza del diritto naturale, ma sono segnati da una realtà complessa, che
riguarda diritti e poteri. È nel periodo della Rivoluzione che si diffonde
quell’idea di libertà che aveva fatto la sua comparsa già nella filosofia politica
del Seicento e che comporta la sua attribuzione a tutti gli individui ugualmente, al di là della millenaria dottrina che pensava come liberi alcuni uomini,
grazie alla non libertà di tutti coloro che, con il loro lavoro, liberavano i primi
dai bisogni e dalle occupazioni a questi connesse, rendendoli così disponibili
alla vita politica. Un concetto di libertà inteso come indipendenza, o dipendenza di tutti dalla propria volontà, libera appunto di esprimersi in ogni direzione, con il solo limite di non nuocere agli altri. Questo limite è quello che la
legge determina, legge in cui consiste il comando del corpo politico che si deve costituire. Ma se la legge, con l’obbligazione politica che da essa deriva, si
basa sulla libertà ed è ad essa funzionale, la sua produzione deve essere segnata dalla autonomia della volontà: per essere libero cioè il popolo deve obbedire solo alla legge che esso stesso si è dato. Questa, d’ora in avanti, diventa una
verità indiscussa, e il problema riguarda solo il modo in cui il popolo può dare
a se stesso la legge: determinare questo modo è appunto il compito della costituzione dello Stato.
Tale principio della libertà si coniuga con quello dell’uguaglianza degli
uomini, con il quale costituisce la base della nuova organizzazione della società. Ben si comprende allora come cambino tutti i concetti che denotano la
sfera politica. La convocazione degli Stati generali del 1789 sta a ricordare che
lo Stato è organizzato per stati, la partecipazione politica dei quali è legata
6
Cfr. Criteri storici del moderno concetto di rivoluzione, in R. Koselleck, Vergangene
Zukunft, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1979 , tr. it. Futuro passato, Marietti, Genova, 1986, sp.
p. 63. Su ciò si veda anche la voce Revolution nei Geschichtliche Grundbegriffe cit. Vol. V,
pp. 653-788, e K. Griewank, Der neuzeitliche Revolutionsbegriff. Entstehungsgrund und Entwiklung, a cura di I. Horn-Steiger, Europäische Verlaganstalt, 19792 (tr. it. a cura di C. Cesa,
La Nuova Italia, Firenze, 1979).
57
alle loro specificità e differenze: accanto ai nobili e al clero vi è il terzo stato,
organizzato nei comuni, nei borghi e nelle città, a seconda dei corpi e delle
associazioni che lo costituiscono. Ma ora emerge un modo totalmente nuovo
di intendere la politica, e in Che cos’è il terzo stato? di Sieyes, celebre proclama delle nuove idee, la stessa realtà politica che sta alla base della proclamazione degli Stati generali mostra di essere destituita di razionalità e legittimità. Uguaglianza e libertà, le idee che si stanno affermando, non possono che
determinare un popolo omogeneo, una nazione, in cui non ci sono più privilegi, né differenze, se non quelle sociali, legate alla divisione del lavoro, che
sono funzionali all’utilità comune. Non ci sono più allora ceti, stati diversi,
ma la rivendicazione del terzo stato diviene l’affermazione di un unico Stato
in cui tutti sono uguali. Il terzo stato, che coincide con la nazione intera, si fa
Stato, ma in questo modo perde totalmente di senso politico l’antica parola di
stato, perdono di significato ordini, ceti e tutto ciò che caratterizzava le diversità nella convivenza politica degli uomini.
La società politica francese risulta allora costituita in modo ingiusto e non
ci si può basare sui diritti e i privilegi che caratterizzavano l’ancien régime,
come pure sull’attribuzione al monarca del potere di fare le leggi. Lo Stato
deve essere fondato su una base razionale e su princìpi giusti, deve essere costituito e per questo compito emerge un soggetto costituente, l’unico che può
legittimamente dare la costituzione. È la società produttiva composta di uguali, dunque l’intera nazione, che ha tale compito costituente, quello in cui emerge il popolo come vero sovrano, dotato del potere assoluto: “essa preesiste
a tutto, è l’origine di tutto”. Solo il popolo può dettare leggi a se stesso, può
costituire lo Stato. Il potere, di cui la nazione è dotata, non è limitato né limitabile da chicchessia. Non c’è costituzione, non c’è forma civile che vincoli
tale realtà della nazione: essa è all’origine di ogni forma “e basta che la sua
volontà si manifesti perché ogni diritto positivo venga meno di fronte ad essa,
che è fonte ed arbitro supremo di ogni diritto positivo”.7 Lo Stato, razionalmente fondato secondo i principi razionali e legittimato dalla volontà di tutti,
diviene la fonte unica del diritto al suo interno.
Se il compito nuovo è dunque, per la Francia, quello di darsi una costituzione, con questo compito emerge anche il soggetto che unico può assolverlo:
la nazione come totalità di individui uguali, come realtà che, presupponendo
solo il diritto di natura, elimina tutte le differenze esistenti e cristallizzate nel
tempo. La situazione non è più solo quella teorica propria dello scenario delle
dottrine del contratto sociale: si tratta nella realtà storica di dare costituzione
ad una società politica; e con il problema della costituzione si presenta anche
7
E.Y. Sieyes, Che cos’è il terzo stato, in OTP, pp. 255-258.
58
il problema del potere costituente. Sieyes distingue il potere costituente da
quello costituito: c’è organizzazione politica in quanto c’è un potere, che dovrà essere articolato o diviso, ma tale potere costituito non può essere costituente. Il depositario di quest’ultimo può essere solo la nazione, il popolo intero. Viene in tal modo ripresa l’idea del corpo politico sovrano di Rousseau,
anche se in un contesto di pensiero in cui, a differenza del filosofo ginevrino,
si parla di “volontà generale rappresentativa”. La rappresentanza politica appare dunque in Sieyes necessaria, non solo al livello del potere costituito, ma
anche al livello più alto del potere costituente, dal momento che il popolo per
esprimersi ha pur sempre bisogno di un nucleo di persone, dell’Assemblea costituente appunto.
2. Dalla rappresentanza per ordini alla rappresentanza per testa:
un altro modo di intendere la politica
Lo scarto storico fondamentale e la modificazione radicale del modo stesso
di intendere la politica sono evidenti nel dibattito sulla rappresentanza politica
e sulla funzione del corpo rappresentativo. La convocazione degli Stati generali avviene in un contesto in cui il monarca ha sue prerogative, la sua funzione di governo, il potere di fare le leggi, mentre la società è divisa in ordini, in
stati, che esprimono esigenze e bisogni. L’unità dello Stato è incarnata dal re,
che resta una superiore istanza di fronte ai rappresentanti degli stati. Attraverso la rappresentanza non sono gli individui che esprimono la loro volontà, ma
appunto gli stati, gli ordini. Il terzo stato viene a trovarsi in una situazione di
inferiorità nei confronti degli altri due stati e della loro coalizione. La prima
istanza avanzata dal terzo stato, di avere aumentata la sua rappresentanza, affinché essa non sia numericamente inferiore a quella degli altri due stati uniti,
risulta subito insufficiente e inadeguata in rapporto alla considerazione che il
terzo stato fa riferimento alla quasi totalità della nazione (venticinque milioni
di cittadini di fronte ai duecentomila membri di nobiltà e clero, dice Sieyes), e
che la rappresentanza dei primi due stati si basa sui privilegi. La richiesta si
attesta allora sul principio della rappresentanza per testa: questo principio non
rende tanto egemone il terzo stato, ma nega alla sua radice la possibilità di
pensare alla società sulla base di stati e ordini.
Alla base di tale trasformazione appare trionfare un modo nuovo di intendere la società. Essa non consiste tanto in una serie di corpi e di parti diverse,
ma piuttosto in una dimensione collettiva che ha alla sua base gli individui.
L’individuo e la sua volontà vengono a costituire la dimensione fondante della
società. Non si tratta più di rappresentare parti della società o bisogni partico59
lari, di fronte all’istanza costituita dalla figura regale, ma piuttosto di esprimere la volontà sovrana della nazione, cioè la volontà del corpo collettivo, che
risulta formato da tutti gli individui. La rappresentanza allora non esprime la
pluralità delle volontà particolari degli ordini della società, ma la volontà unica della nazione: si tratta dunque della rappresentazione dell’unità politica..
Rappresentare significa qui qualcosa di radicalmente nuovo: mentre nella società cetuale si trattava di riportare ad un livello più alto istanze, bisogni e volontà che avevano già una loro determinazione, una loro forma. La realtà del
gruppo o della corporazione era oggettivamente esistente prima di essere rappresentata. Ora si tratta invece di dare forma a qualcosa che non è già esistente in modo determinato e non è già presente nel soggetto che sta alla base della rappresentazione che è l’individuo, o l’insieme di tutti gli individui e non il
soggetto collettivo. La rappresentanza viene in tal modo a costituire la modalità stessa (che pare presentarsi come l’unica) di espressione della volontà del
soggetto collettivo e nello stesso tempo contiene anche in sé la fonte di legittimazione del comando, che sta in quella espressione della volontà da parte di
tutti che avviene nell’atto dell’elezione dei rappresentanti.
In tale quadro l’elezione viene a rivestire un significato nuovo: in quanto
espressione della volontà dei cittadini, costituisce l’atto unico che può legittimare il corpo rappresentativo: “senza elezione non vi è rappresentazione”.8
Per tale motivo non appare più legittimata la rappresentanza del re, sulla base
della sua dimensione ereditaria.9 Sotto tale concezione sta il ruolo fondamentale svolto dalla volontà degli individui, i quali sono intesi non nella diversità
delle condizioni reali in cui operano, ma nella loro totale indipendenza e autonomia. Solo la loro volontà può stare alla base e legittimare la volontà generale espressa dal corpo rappresentativo.
Per intendere lo specifico della concezione della rappresentanza che qui si
viene ad inaugurare, bisogna riflettere sul significato esatto che ha tale espressione di volontà mediante il voto. È chiaro che non si tratta di espressione di
una volontà determinata da parte del cittadino. Mai sarebbe possibile passare
8
Sul dibattito intorno alla rappresentanza in occasione della Costituzione del 1791, si
veda A. Biral, Rivoluzione e costituzione: la costituzione del 1791, in “Filosofia politica”, I
(1987), n. 1, pp. 57-75. Sui processi e sul dibattito politico dell’ultimo decennio del ’700
francese si veda P. Colombo, Governo e costituzione. La trasformazione del regime politico
nelle teorie dell’età rivoluzionaria francese, Giuffré, Milano 1993. Cfr. anche sul rapporto
tra costituzione e rappresentanza il mio Constitution et représentation: le problème de l’unité
politique, in 1789 et l’invention de la constitution, sous la direction de M.Tropeur et L. Jaume, Bruylant, Paris, 1994, pp. 263-274.
9
Cfr. a questo proposito il discorso di Sieyes (Archives nationales 284 AP 4 doss. 12 ):
su ciò P. Pasquino, Sieyes, Constant e il “governo dei moderni”, “Filosofia politica”, I
(1987), n. 1, pp. 77-98.
60
dall’espressione di milioni di volontà determinate all’espressione dell’unica
volontà che si fa legge. Ciò che avveniva nella rappresentanza politica tipica
di una società cetuale o di una società feudale, può essere inteso, anche se in
modo riduttivo,10 come una trasmissione di volontà. Le differenze tra gli ordini, i corpi, le corporazioni, le associazioni, sono determinate e hanno a che fare con la realtà oggettiva di queste parti della società. Tali differenti volontà
determinate si esprimono mediante la funzione rappresentativa, nella quale
spesso è presente la figura del mandato imperativo, cioè di una volontà determinata ed espressa a cui i rappresentanti sono vincolati.11 A partire dalla costituzione del 1791, quando cioè attraverso il parlamento si rappresenta la volontà unitaria di tutta la nazione, non ci può più essere mandato vincolante, in
quanto la volontà della nazione che deve essere espressa dal rappresentante
non è vincolata dalla volontà particolare di coloro che eleggono il corpo rappresentativo. Perciò si parla di mandato libero: un mandato che non consiste
tanto nell’espressione di una volontà determinata che deve essere rispettata e
riportata in una sede superiore, quanto piuttosto in un incarico affidato a
qualcuno di esprimere la volontà unitaria della nazione.
Contrariamente a quanto caratterizza opinioni diffuse sulla rappresentanza,
ciò che si inaugura con le costituzioni moderne non è un movimento di formazione dal basso della volontà generale, ma qualcosa di radicalmente diverso. Non c’è nell’atto dell’elezione alcuna espressione di contenuti determinati
di volontà da parte degli elettori, ma piuttosto l’indicazione di colui o coloro
che esprimeranno per loro la volontà di tutta la nazione. Attraverso l’elezione
i cittadini non conferiscono un mandato determinato, ma piuttosto si riconoscono vincolati alle future deliberazioni dell’assemblea rappresentativa.12 In
altri termini l’elezione consiste in realtà in un atto di autorizzazione che legittima gli eletti a rappresentare, cioè a dare forma alla volontà unitaria della nazione. In quanto autorizzazione, e dunque atto fondativo dell’autorità,
l’elezione costituisce la fondazione dal basso del potere, il quale tuttavia dà
forma alla volontà sempre dall’alto e dunque in modo non dipendente dalle
volontà particolari dei singoli cittadini.13
10
La riduttività dell’affermazione consiste nel fatto che non si dà, nelle concezioni proprie di tali tipi di società, una assolutizzazione della volontà che permetta di ridurre la rappresentanza ad una mera trasmissione di volontà.
11
Cfr. su ciò H. Triepel, Delegation und Mandat im öffentlichen Recht, cit., e H. Müller,
Das imperative und freie Mandat, cit.; cfr. anche G. Miglio, Le trasformazioni del concetto
di rappresentanza (1984), ora in Le regolarità della politica cit.
12
Cfr. Pasquino, Sieyes, Constant e il “governo dei moderni”, cit., p. 97.
13
Naturalmente ben più complessa è la dialettica della rappresentanza, come si è visto
nel I capitolo; la volontà indipendente dei rappresentanti può tramutarsi in una dipendenza
dagli umori e dalle tendenze della pubblica opinione, intesa questa nel senso delle opinioni
61
3. Il concetto di popolo e la dimensione rappresentativa
All’interno del dibattito che accompagna la costituzione francese del 1791
la linea che afferma la centralità per la costituzione del principio rappresentativo identifica la volontà del popolo con quella manifestata dal corpo rappresentativo. Quest’ultimo fonda la sua legittimità sulla elezione e dunque sulla
scelta libera che i cittadini fanno di coloro a cui è affidato il compito di esprimere la volontà del popolo. In tal modo si pensa realizzata nella costituzione
la regola della libertà che starà alla base del pensiero democratico: solo al popolo, al soggetto collettivo da tutti costituito, spetta la facoltà di dettare la legge, perché solo il popolo non può far torto a se stesso. Libertà civile consiste
dunque nel non essere più sottoposti ad una istanza esterna, eteronoma, ma
piuttosto alla legge che da se stessi ci si è dati. Tale affermazione riguarda i
singoli cittadini e il popolo come soggetto collettivo. Il popolo è dunque nello
stesso tempo il soggetto attivo che fa la legge e l’insieme di coloro che sono
sottoposti alla legge.
Tuttavia, quando si dice che “il popolo è sottomesso alle leggi che si è dato” e si intende tale affermazione come la realizzazione della libertà, cioè
dell’indipendenza della volontà del soggetto collettivo, si innesca un ragionamento la cui logica non è priva di difficoltà e forse di contraddizioni. Infatti è
evidente che il popolo che è sovrano e dà la legge e il popolo che obbedisce
non costituiscono un soggetto unico immediatamente identico a se stesso. Il
popolo che dà la legge è quella entità collettiva unitaria che si manifesta solo
attraverso l’atto concreto del corpo rappresentativo: è quest’ultimo di fatto a
determinare i contenuti della legge. Il popolo che ubbidisce è invece l’insieme
dei cittadini che sono sudditi nei confronti della legge; e non sono certo costoro a fare la legge. Se, come si è visto, la legittimazione dell’identificazione
della volontà del corpo legislativo con quella ideale del popolo è costituita
dall’elezione e dunque dall’intervento di tutti, mediante il voto, alla determinazione dei rappresentanti, anche nell’atto dell’elezione è rintracciabile la dimensione del popolo come insieme singulatim dei cittadini. Questi stanno
dunque a monte e a valle della determinazione della volontà del popolo come
unica volontà del soggetto collettivo, ma non intervengono direttamente nella
sua determinazione. Si assiste in tal modo tra il soggetto individuale e quello
collettivo, tra individuo e popolo ad un rapporto che è insieme di identità e di
alterità.
diffuse e dominanti, e dunque in un agire in relazione a ciò che agli elettori o a parte degli
elettori piace, al fine di permanere, mediante l’elezione, nella funzione rappresentativa. Qui
si vuole solo evidenziale la struttura formale che si viene ad instaurare con le moderne costituzioni.
62
La libertà politica, che anche in Sieyes si manifesta nella figura del cittadino in senso pieno, cioè nel “cittadino attivo”, comporta che questi non sia
suddito di una istanza che abbia altro fondamento che lui stesso. Tuttavia ciò
non significa che il cittadino sia sottoposto alla legge che lui stesso si dà, ma
piuttosto alla legge alla cui formazione egli in qualche modo concorre eleggendo i rappresentanti, cioè qualcuno che la fa in sua vece.
È sulla base di questa logica che, nella sua concezione totalmente determinata dal principio rappresentativo, Sieyes, identifica in quello che chiama il
potere committente la modalità attraverso la quale il popolo, come insieme di
tutti i cittadini, può contribuire a fare la legge: il popolo deve limitarsi ad esercitare direttamente il solo potere committente, cioè deve limitarsi a scegliere ed a delegare le persone che eserciteranno i suoi reali diritti, a cominciare
dal diritto (eccezionale) di costituire l’istituzione pubblica. Contro allora ciò
che è espresso dal termine democrazia qualora sia preso nel senso letterale,
l’esercizio cioè diretto del potere da parte del popolo, e dunque la determinazione della legge da parte dell’insieme di tutti i cittadini, il principio rappresentativo comporta la presenza indiretta del popolo, la sua presenza mediata
attraverso l’affidamento del compito di fare la legge al corpo rappresentativo.
Sieyes applica il principio rappresentativo fino in fondo: come si è visto, non
solo nell’ambito della costituzione ai poteri costituiti, ma anche al potere costituente. Anche in questo caso l’influenza del popolo consiste nella scelta di
quei rappresentanti straordinari che danno una forma concreta e determinata al
potere costituente.14
In quanto direttamente collegato al principio rappresentativo il termine popolo manifesta allora un duplice aspetto, che deve essere ben tenuto presente
per non dar luogo ad equivoci in relazione alla struttura logica del concetto di
rappresentanza e per comprendere le difficoltà che, a partire da qui, si proiettano nel futuro della storia delle costituzioni moderne. Da una parte popolo è
soggetto collettivo, rappresentativamente espresso, e dall’altra è l’insieme dei
cittadini, che sono nello stesso tempo i sudditi nei confronti della legge comune e coloro che autorizzano i rappresentanti, e in questo modo (cioè non mediante espressione di volontà determinata, dei contenuti della legge, ma di un
atto di autorizzazione, di fiducia) contribuiscono a fare la legge a cui saranno
sottoposti. Allora il soggetto collettivo ha un carattere unitario, in quanto unica è quell’espressione di volontà che è la legge. La rappresentanza è dunque la
modalità di espressione di tale unità della nazione, del popolo, al di là di ogni
accordo tra gruppi diversi e tra volontà particolari. La libertà del mandato è
14
Cfr. Pasquino, Sieyes, Constant e il “governo dei moderni”, cit., p. 92.
63
direttamente collegata alla funzione di espressione dell’unità che è propria di
questo nuovo concetto di rappresentanza.
L’altro aspetto del termine popolo è costituito dagli individui, dai cittadini
intesi singolarmente. Solo essi possono essere alla base della rappresentanza: i
cittadini nella loro singolarità e uguaglianza. Non certo raggruppamenti e corpi sociali: questi avrebbero una loro volontà determinata e differente tra loro:
il loro riconoscimento politico in una situazione caratterizzata da una società
per ordini, era direttamente collegato ad un modo radicalmente diverso di intendere la rappresentanza, come trasmissione di volontà che devono essere
armonizzate e accordate tra loro mediante l’azione unitaria del governo.
L’esistenza di corpi e gruppi impedisce quell’unità del popolo e quella libertà
dei cittadini che sta alla base della moderna costituzione quale si afferma con
la Rivoluzione francese.
L’accettazione di associazioni, aggregazioni e gruppi dotati di carattere
permetterebbe a volontà private di costituire forze pericolose per l’uguaglianza dei cittadini, facendo passare per volontà generale quella che è solo
volontà di un gruppo, per interesse generale l’interesse particolare di alcuni.
Affinché ci sia giusta costituzione, che realizzi uguaglianza e libertà, è necessario impedire la rappresentanza di interessi di gruppi e di associazioni;
bisogna cioè vietare il costituirsi di forze che possano avere il sopravvento esercitando dominio sui cittadini. Solo la forza immane e senza resistenza di
tutta la nazione può mantenere i cittadini liberi e uguali: allora, entrando nella
società politica, l’individuo non sacrifica una parte della libertà che ha per natura, ma al contrario, solo in essa – grazie alla sottomissione che essa comporta – può godere di quella libertà che risulta assai precaria quando, in assenza
del potere politico, è garantita solo dalla forza limitata dei singoli individui.
Infatti “nessun diritto è interamente garantito se non è protetto da una forza
irresistibile”.15
Tale natura della rappresentanza è ben espressa da Sieyes, quando afferma
che solo l’interesse comune e quello individuale, personale, possono essere
rappresentati.16 Non solo infatti si può dire che l’interesse personale, a causa
del quale ciascuno si isola, curandosi di se stesso, non è pericoloso per
l’interesse comune – come l’abate francese dice, esprimendo l’aspetto di isolamento e l’individualismo propri della società moderna –, ma, con maggiore
radicalità, è da riconoscere che interesse comune e interesse individuale sono
due lati della stessa costruzione, in quanto l’interesse comune altro non è che
la difesa dello spazio privato, che consente ad ognuno di perseguire il proprio
15
16
Cfr. Sieyes, Preliminari, OTP, p.385, 387.
Cfr. Sieyes, Che cos’è il terzo stato, OTP, 277-278.
64
interesse e ciò che intende come proprio bene. Non è invece rappresentabile
l’interesse di corpo, che unifica le forze di più individui rendendoli pericolosi
per la comunità. La rappresentanza di associazioni e corpi infatti evoca un
modo radicalmente diverso di intendere la società e la politica, nel quale il
singolo cittadino si esprime politicamente non in quanto individuo, ma
all’interno della cerchia di cui fa parte. In tale quadro la rappresentanza si riferisce sempre ad una realtà determinata e particolare, che è da riportare ad un
livello superiore – appunto, da rappresentare di fronte ad una istanza di governo. Ma è tale quadro di una realtà cetuale che viene soppresso dalla logica
della rivoluzione e dai concetti di uguaglianza e libertà degli individui. Solo in
quanto sono emancipati dalle differenze sociali i singoli sono riconosciuti come uguali e liberi e possono costituire la base della legittimazione di coloro
che, in quanto rappresentanti esercitano il potere comune. Il nesso fondamentale tra volontà degli individui e volontà generale toglie di mezzo il possibile
ruolo politico delle aggregazioni particolari di volontà. Queste si oppongono a
quell’uguaglianza e quella libertà che costituiscono il proclama rivoluzionario: tali concetti richiedono l’eliminazione del significato politico delle differenze di gruppi e aggregazioni: invece le infinite e indefinite differenze degli
individui non sono pericolose e si annullano producendo l’immagine del
cittadino che vota come un cittadino uguale agli altri, che non esprime
interessi particolari e pericolosi nella funzione in cui I cittadini in modo
uguale fondano l’autorità politica. La legge Le Chapellier del 1791 è significativa nella direzione della eliminazione di ogni mediazione tra individui
e volontà della nazione, e del conseguente divieto di organizzazione e rappresentanza dei corpi particolari, di contro all’antico ordine delle corporazioni.
Pur nella sua affermazione, la logica del principio rappresentativo trova nel
dibattito attorno alla costituzione del ’91 una forte opposizione. A causa di
quanto si è infatti sopra evidenziato, appare evidente il pericolo che in essa si
cela. In quanto sottratto dalla determinazione diretta di volontà da parte dei
cittadini e dal loro controllo, in base alla fiducia espressa dal voto, il corpo
rappresentativo corre sempre il pericolo di fare passare come volontà generale
la propria volontà particolare, di tradire il popolo e la volontà generale. Una
volta emerso il concetto di popolo come grandezza costituente, come vero
soggetto sovrano, esso non può più essere messo da parte. I foglianti nel dibattito sulla costituzione appaiono come coloro che hanno tradito la rivoluzione: la volontà generale non può essere una volta per tutte affidata al corpo
rappresentativo: questo deve essere sempre controllato dal popolo e ispirarsi
alla sua volontà, che solo il movimento concreto delle società affiliate al club
dei Giacobini rende presente. Solo tali libere espressioni della volontà popolare possono impedire che la volontà dei cittadini si alieni nel corpo rappresentativo. Solo le società patriottiche possono esercitare una sorveglianza conti65
nua sui poteri costituiti ed esprimere come opinione pubblica quella volontà
generale che i rappresentanti devono appunto rappresentare, senza fare passare per tale la loro volontà particolare.17
Di fronte dunque alla rappresentanza come unica via di espressione della
volontà del popolo sta l’idea rousseauiana che la rappresentanza politica crei
un popolo di schiavi e comporti una inaccettabile alienazione della sovranità
del popolo. La volontà generale è quella che è in atto nel tutto e nell’anima di
ciascuno e che viene alla luce immediatamente grazie alla virtù che fonde assieme le qualità dei singoli. Sopprimendo la distanza tra uomo e cittadino e
attraverso la progressiva politicizzazione dell’opinione pubblica, il cittadino
virtuoso diviene colui che rappresenta la virtù collettiva, rendendo allo stesso
tempo continuamente attuali i principi della rivoluzione. La comunità virtuosa
esprime così la soluzione trascendentale grazie alla quale vengono annullate –
anche violentemente – le differenze politiche e sociali tra i singoli, venendo
esse percepite come inaccettabili disuguaglianze e quindi come volontari delitti perpetrati contro la sostanza omogenea del popolo.
La dialettica tra l’espressione della volontà del popolo attraverso
l’assemblea rappresentativa, costituzionalmente determinata, e la sua manifestazione immediata, in quanto soggetto superiore ad ogni costituzione, si riproporrà anche in seguito nella vita politica e nella storia delle costituzioni,
ogni qualvolta si cercherà la via per fare emergere, in forma quanto più possibile diretta, la volontà sovrana del popolo. Ma anche un’altra dialettica comincerà a partire dalla Rivoluzione, quella cioè dello scarto sempre denunciabile tra la volontà pubblica prodotta dai rappresentanti e la volontà del popolo,
che ha per altro un valore ideale, in quanto non identificabile in una precisa
realtà empiricamente esistente. Ciò porterà non solo al movimento critico
dell’opinione pubblica nei confronti del potere costituito,18 ma anche al tentativo di dominare e formare l’opinione pubblica e alla lotta moderna dei partiti
per occupare lo spazio della determinazione della volontà generale.
4. La nascita della scienza politica moderna
Abbandonando per ora la riflessione sulla nascita delle moderne costituzioni, è da chiedersi quando e dove nasca questo concetto nuovo di rappresentanza che emerge nel dibattito francese tra l’89 e il ’91. Può sembrare strano
che questo concetto di rappresentanza come uso rappresentativo del potere po17
Cfr. Biral, Rivoluzione e costituzione, pp. 63, 72.
Cfr. J. Habermas, Strukturwandel der Oeffentlichkeit, Leuchterhand, Neuwied 1962
(Storia e critica dell’opinione pubblica, trad. it. A. Illuminati, Laterza, Bari 19742).
18
66
litico o della sovranità popolare, come espressione dell’unità politica al di là
di vincoli di parti e di gruppi, questo concetto, che appare intrecciato con il
modo moderno di intendere la democrazia, nella forma appunto di democrazia
rappresentativa, trovi in realtà la sua genesi nel pensiero di un autore che è
considerato spesso un pensatore assolutista, cioè Hobbes.19 È questa genesi
che bisogna cercare di intendere per mettere in luce nello stesso tempo quali
siano i presupposti all’interno dei quali si impone il concetto di rappresentanza, quale sia la sua effettiva logica al di là delle opinioni diffuse su di esso, e
anche quali siano le difficoltà e le aporie che in tale concetto emergono.
Già Sieyes indicava, nel celebre discorso sopra ricordato, che erano diventate e stavano diventando opinioni diffuse e condivise ciò che prima era considerata astratta metafisica. È nella filosofia politica di Hobbes, o meglio nella
sua costruzione teorica, che pretende lo statuto di scienza rigorosa, la nuova
scienza politica, che si inaugura un modo di pensare la società che ha alla sua
base gli individui, caratterizzati dai concetti di uguaglianza e libertà. È con
lui che si opera una rottura profonda e radicale nei confronti di una tradizione di pensiero e di una realtà in cui era appaesato un modo radicalmente
diverso di intendere la rappresentanza, un modo che, come si è ricordato, si
palesa ancora nella convocazione degli Stati generali. L’attraversamento del
pensiero hobbesiano ci permette di intendere come la rappresentanza politica
moderna, nella sua radice concettuale, non consista tanto in un modo particolare di esercitare il potere, quanto piuttosto sia un elemento indispensabile per
concepire la società e quel potere politico giusto e razionale che la rende possibile. Si tratta di intendere allora come il concetto di potere, che è spesso
considerato come un concetto dotato di una sua universalità e capacità di descrivere una dimensione insita nella natura umana e connotante sempre i rapporti tra gli uomini, sia in realtà qualcosa che nasce all’interno della concettualità politica moderna e non permette la comprensione del pensiero e della
realtà precedenti l’epoca moderna. È da comprendere come alla costruzione
teorica in cui nasce il concetto di potere politico, in quanto potere legittimo,
nella forma della sovranità moderna, sia essenziale il nuovo concetto di
rappresentanza che si affermerà con le costituzioni moderne.20
19
Tale legame tra la rappresentanza che si afferma con la rivoluzione francese e il pensiero hobbesiano è per altro stato indicato da tempo: si veda il volume significativo di L.
Jaume, Hobbes et l’état représentatif moderne, PUF, Paris, 1986.
20
Su Hobbes come “padre” della sovranità moderna e sulla nascita dei concetti politici
moderni nell’alveo delle dottrine del contratto sociale cfr. G. Duso (a cura), Il contratto sociale nella filosofia politica moderna, cit.; per una storia del concetto di sovranità, si veda il
volume collettaneo Il potere. Per la storia della filosofia politica moderna, Carocci, Roma
1999.
67
Ciò che spesso si intende in termini di potere, quando si guarda alla concezione dell’imperium e della società precedente ad Hobbes, in realtà implica un
modo di pensare l’uomo e la comunità politica che il concetto moderno di sovranità tende a negare radicalmente. Il concetto di potere nasce, sulla base
dell’assolutizzazione della volontà individuale e del nuovo concetto di libertà,
proprio per eliminare quell’antico modo di intendere l’uomo e i rapporti tra gli
uomini che implicava di necessità la dimensione del governo, secondo la quale è razionale che nei raggruppamenti umani ci siano alcuni che governano gli
altri, che ci sia cioè governo dell’uomo sull’uomo. È proprio questa dimensione di governo che Hobbes esplicitamente intende negare: e lo fa mediante
una costruzione che ha alla sua base il concetto di uguaglianza degli individui,
il concetto di libertà come indipendenza della volontà e il conseguente concetto di sovranità, che è concepibile soltanto mediante modalità rappresentative.
È nel nesso, inaugurato da Hobbes di rappresentanza-sovranità che il concetto nuovo di rappresentanza rivela un significato radicalmente diverso da
quello che lo stesso termine esprimeva all’interno di una società cetuale e di
un modo di intendere la politica che è comprensibile solo grazie al principio
del governo, che, come dice Otto Brunner, conferisce un senso determinato,
durante tutta una tradizione millenaria, alle discipline pratiche – l’etica individuale, l’economica e la politica –, che sono tutte discipline etiche.21 Per intendere tale novità è utile cercare di indicare, sia pur brevemente la funzione che
la rappresentanza aveva in una concezione della politica quale quella di Althusius, che ancora opera all’interno di quella tradizione e in una società di
tipo cetuale.
21
Cfr. O. Brunner, Das «ganzes Haus» und die alteuropeische “Ökonomik”, in Neue
Wege der Verfassungs- und Sozialgeschichte, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen, 1968, tr.
it. a cura di Schiera, Per una nuova storia costituzionale e sociale, Vita e pensiero, Milano,
1970 (II ed. 2002). Sulla trasformazione della Herrschaft cfr. il saggio di Brunner, Bemerkungen zu den Begriffen “Herrschaft” und “Legitimität”, del 1962, poi in Neue Wege, cit.,
pp. 64-79; tr. it. a cura di M. Piccinini e G. Rametta, “Filosofia politica”, 1987, n. 1, pp. 101120. Propongo di intendere il mutamento che si ha nella parola tedesca Herrschaft, usata da
Brunner, conferendo ad essa il significato di governo, per il lungo periodo della tradizione
della filosofia pratica, e quello di potere, nel senso che si espliciterà nella definizione weberiana della Herrschaft o del potere politico, per il contesto che inizia con la moderna scienza
politica. Non si ha in tal caso il mutamento all’interno di un concetto, ma ci si trova di fronte
a due modi radicalmente diversi di intendere la politica (cfr. Fine del governo e nascita del
potere, in La logica del potere, cit. pp. 55-85).
68
5. Naturalità della società e naturalità del governo in Althusius
La prima dimensione che caratterizza la Politica di Althusius è quella della
politicità intrinseca della natura dell’uomo e della naturalità della società.22
Ciò comporta che l’esercizio della riflessione filosofica sulla politica non avvenga in uno spazio vuoto in cui sia da costruire un modello razionale, ma
piuttosto all’interno di una realtà complessa che è caratterizzata da una serie
di elementi che non dipendono dalla volontà degli uomini: è l’insieme di questi elementi che permettono di orientarsi e di pensare alla dimensione del governo. Tra questi elementi si possono ricordare la verità divina, quale emerge
nei testi sacri, il buon diritto antico, gli exempla sacri e profani, i doveri imposti dal diritto simbiotico, lo stesso problema della vita buona e giusta. Ugualmente, nel contesto della vita politica, elementi vincolanti provengono dalla
“costituzione” del regno, dalla presenza dei suoi diversi membri, dei gruppi o
consociazioni che lo costituiscono. Tutto ciò rappresenta una realtà che condiziona la volontà degli uomini e che non può essere annullata da nessuna decisione maggioritaria del corpo politico. Solo all’interno di questo contesto
prende il suo significato l’imperium, che è appunto determinato dall’antica parola gubernare.
L’affermazione della naturale socialità tra gli uomini comporta una prima
e fondamentale dimensione della politica, quella della comunione e della comunicazione dei beni (communio, communicatio), che viene indicata mediante
il termine greco che connota lo specifico della politica aristotelica: la koinonia. È da ricordare che la dottrina althusiana è caratterizzata dal fatto che il
suo oggetto non è la civitas o la respublica, o il regno, ma la consociatio, in
quanto tale, di cui la respublica è la forma più alta, comprensiva e autosufficiente. Tale dimensione sociale – qualcuno sarebbe tentato di dire “orizzontale” – non comporta l’affermazione dell’uguaglianza degli uomini: al contrario
implica la differenza tra gli uomini, così come tra le parti della società. La
concordia, che caratterizza la convivenza tra le parti del corpo sociale, impli22
Due seminari internazionali di studio si sono svolti a Herborn nel 1984 e nel 1988. Risultato del primo è il volume Politische Theorie des Johannes Althusius, a cura di K.W.
Dahm, W. Krawietz, D. Wyduckel, Duncker & Humblot, Berlin, 1988 (una mia nota su
questo volume è apparsa in “Filosofia politica”, IV (1990), n.1, pp. 163-175) con contributi
tra gli altri di H. Hofmann, W. Krawietz, P.L. Weinacht, H.U. Scupin, D. Wyduckel). Il
secondo è stato dedicato alla tematica federalistica: Konsoziation und Konsens. Grundlage
des moder- nen Föderalismus in der politischen Theorie, Hrsg. G. Duso, W. Krawietz, D.
Wyduckel, Duncker & Humblot, Berlin 1996. Cfr. sul tema del federalismo, Th. O.
Hüglin, Sozietaler Föderalismus. Die politische Theorie des Johannes Althusius, De
Gruyter, Berlin-New York 1991. Per una breve presentazione del pensiero di Althusius
rimando a Il governo e l’ordine delle consociazioni: la Politica di Althusius, in Il potere,
cit., pp.77-94.
69
ca sempre l’idea di una pluralità di soggetti diversi. È proprio tale diversità
uno degli elementi che consentono e insieme rendono necessaria un’azione di
governo e di guida, nei confronti di parti che possono collaborare, ma che
possono anche avere la tendenza a scindersi. Se tutti gli uomini fossero uguali
e tutti volessero governare si avrebbe non l’accordo, ma la rottura della società.23 In quanto i membri costituenti i raggruppamenti umani, le consociationes, come dice Althusius, sono diversi (anche nella più semplice delle consociazioni, la famiglia), è necessario che ci sia una funzione di guida e di
governo, senza di cui le parti potrebbero anche muoversi in modo autonomo e
contrastante.24
Dunque l’affermazione della naturalità della società va, in Althusius, di pari passo con l’affermazione della naturalità del governo (imperare, regere, subjici, regi et gubernari, sunt actiones naturales), senza di cui non si ha un
corpo politico, ma un “monstrum”. Per comprendere l’affermazione secondo
cui è naturale che tra gli uomini ci sia chi governa e chi è governato, bisogna
intendere quale sia la natura dell’imperium e la sua diversità nei confronti di
ciò che si intende per potere.25 L’affermazione althusiana della naturalità
dell’imperium non significa infatti che sia naturale quella dimensione del potere che fa la sua comparsa nelle moderne teorie politiche come rapporto artificiale e legittimato dalla volontà di tutti gli individui. Non può essere naturale
una tale dimensione di rapporto formale tra le volontà; ciò che è naturale è la
funzione di guida e di governo necessaria a una realtà associativa composta di
elementi differenti.26
23
J. Althusius, Politica methodice digesta atque exemplis sacris et profanis illustrata,
Herborn 1614, rist. an., Scientia Verlag, Aalen, 19812, I, 37. La prima edizione, assai diversa, è del 1603, sempre presso l’editore Corvinus di Herborn; mi riferirò, in questa sede, alla
terza edizione, che costituisce la versione definitiva (saranno indicati i capitoli, e i numeri,
che riguardano la divisione della materia).
24
Politica, I, 35.
25
Anche qui il problema non è risolubile mediante la riduzione della storia concettuale a
storia dei termini. In Pufendorf, non molti decenni dopo l’opera althusiana, la parola “imperium”, veicola quella forma di potere che è propria della moderna sovranità quale nasce con
il pensiero moderno e che si afferma con la nuova scienza del diritto naturale (rimando per
un chiarimento al mio Sulla genesi del moderno concetto di società: la “consociatio” in Althusius e la “socialitas” in Pufendorf, “Filosofia politica”, X (1996), n. 1, pp. 5-31).
26
La differenza tra governo e potere non è tenuta presente da Bobbio, quando paragona
tra loro i due “modelli” aristotelico e giusnaturalistico: il paragone è infatti all’interno del
piano comune costituito dalla natura dello Stato e del potere, in relazione al quale si darebbero modi diversi di intenderne la natura, l’origine e la legittimità (Cfr. N. Bobbio, M. Bovero,
Società civile e stato nella filosofia politica moderna, Il Saggiatore, Milano, 1979, sp. p. 44).
Il potere politico è qui inteso come proprio della dimensione dell’uomo, e dunque come ciò
che sempre si dà nella realtà storica: ma nel concetto di potere viene in modo determinato
pensato quel rapporto formale tra comando e ubbidienza, rapporto tra volontà, che è tipico
70
La natura dell’imperium si chiarisce mediante i verbi, spesso usati nel I capitolo della Politica, di regere e gubernare. Si tratta cioè di condurre la società pensando al problema del bene e del giusto, si tratta di tendere al buon governo, che è tale in base a parametri non dipendenti dalla volontà di chi
governa. È bensì vero che colui che governa esprime anche comando, a cui i
sudditi sono sottomessi, ma non si tratta di un rapporto formale di comando e
obbedienza, di un’espressione di volontà che richieda obbedienza solo per la
funzione e l’autorizzazione che ha colui che governa.
Per chiarire questa differenza di governo e potere, è utile richiamare
un’immagine suggestiva usata, oltre che da Althusius, anche da Platone, da
Aristotele, da Cicerone e da una lunga tradizione: quella del nocchiero,
dell’azione cioè consistente nel gubernare navem rei publicae. Ciò che in
questa metafora è rilevante è non solo il fatto che il pilota guidi la nave per il
bene della nave e accidentalmente anche per il suo vantaggio, in quanto imbarcato – come dice Aristotele – ma ancor più il fatto che l’attività della conduzione della barca è pensabile solo all’interno di un contesto in cui si è inseriti e della sua conoscenza. Bisogna conoscere il mare, i venti, le correnti,
avere punti di riferimenti nelle stelle. Da una parte c’è questa oggettività di
riferimento, e dall’altra la conoscenza e la esperienza, la capacità, la virtù e il
senso del kairos, del nocchiero: non tutti possono essere piloti, anche se tutti
svolgono un loro ruolo nella barca. Il principio del governo non è pensabile se
non in rapporto ad una realtà che non dipende dalla volontà ne di chi governa
né di chi è governato, alla differenza che connota i membri della società, e ai
punti di orientamento che permettono la navigazione.
Fuori di metafora, governo può esservi solo all’interno di un ordine delle
cose, di un mondo in cui vi sono punti di orientamento. Il governo implica
dunque il problema del bene e del vivere bene, l’ordine dell’anima, il contesto
della costituzione e dei nomoi. All’interno di tutto ciò bisogna orientarsi e rischiare di navigare: la navigazione non è di per sè garantita da norme; la conoscenza aiuta così come l’esperienza, ma importante è la capacità e la virtù
del pilota. La concezione dell’agire che è qui sottesa è tale per cui l’azione
non è mai garantita da conoscenze scientifiche o da norme che si tratta di apdella scienza politica moderna. In tal modo non solo ci si impedisce di cogliere lo specifico
del pensiero di Aristotele e della tradizione pre-moderna, ma viene ipostatizzata come universale una concettualità che è solo moderna, e che forse manifesta in sé aporie e contraddizioni. Il pensiero di Aristotele viene in tal modo già giudicato (si pensi all’indicazione che in
Aristotele il rapporto di potere sarebbe “naturale” e la legittimazione consisterebbe nella forza delle cose) in base ad elementi di valore che sono intrinseci al concetto moderno di potere,
a cui è connaturato l’elemento della legittimazione, che non può consistere che nella volontà
dei soggetti singoli.
71
plicare ai casi particolari: non è perciò riducibile ad una razionalità formale
(tipica non solo della politica, ma anche della morale in epoca moderna): è solo nel concreto dell’agire che l’atto noetico e la virtù indicano la direzione da
percorrere. La funzione di guida e di governo che si pone in questo contesto
non equivale né ad una espressione di volontà e di comando, né ad una subordinazione dei governati alla volontà dei governanti. È infatti da ricordare che
è agire politico non solo quello di governare, ma anche quello di essere governati. Ciò che è importante è in questo contesto la virtù e la capacità di chi
governa: siamo all’interno di un pensiero che dà rilevanza per una buona azione politica alla virtù, e in particolare alla phronesis, secondo l’indicazione
aristotelica. Come non è necessario giustificare la necessità del governo per il
corpo politico (sarebbe come dover giustificare l’esserci della testa per il corpo umano), così è innato per i più potenti e prudenti governare coloro che sono più deboli e incapaci.27
Per intendere cosa sia imperium in Althusius mi sembra necessario dunque
comprendere che non è pensabile la dimensione fondamentale e caratterizzante la Politica althusiana della koinonia senza quella della guida. Se la consociatio, a tutti i livelli, è composta da membri differenti in rapporto tra loro, la
dimensione della communio e communicatio è efficace solo in quanto si dà un
coordinamento, una guida, un unum a cui la molteplicità dei membri si
rapporta. Questo governo, non esprime, come nella sovranità moderna, la
volontà unica del popolo, ma al contrario esprime l’azione propria di colui che
governa, e ha come altra istanza quella plurale delle parti della consociazione.
La funzione unitaria del governo è concepibile solo in rapporto alla pluralità
che costituisce la società. Il concetto di governo risulta, in Althusius, legato
alla dimensione plurale, federale, che è propria del suo pensiero. Se il popolo
ha un carattere unitario all’altezza della repubblica o del regno, esso tuttavia
rimane caratterizzato da quelle associazioni e quei raggruppamenti di vario
tipo che hanno dato luogo al regno. Con il patto costitutivo non si annulla né
la loro politicità, né la loro diversità: essi rimangono i membri del regno. Il
popolo allora, come corpo complessivo, è possibile solo in quanto è costituito
di parti diverse, altrimenti non sarebbe un corpo. È significativo che quando ci
si riferisce alla majestas del popolo, quest’ultimo termine venga chiarito da
espressioni che mostrano la pluralità che lo costituisce: populus, seu membra
regni consociata,28 oppure potestas regni, seu consociatorum corporum.29
27
28
29
Politica, I, 38.
Politica, IX, 16.
Politica, XVI, 19.
72
6. La dimensione plurale del popolo
e la concezione cetuale della rappresentanza
Con la Politica di Althusius ci si trova di fronte a una realtà complessa, in
cui il corpo politico, in ogni livello della sua manifestazione – città, provincia,
regno – è costituito da varie parti ed associazioni. Ad ogni livello si assiste
cioè all’opera di accordo e di unificazione di realtà diverse tra loro, che,
nell’unificazione, mantengono la loro identità e la possibilità di esprimere,
mediante gli organi rappresentativi, la loro volontà. Questa non viene assorbita dalla volontà unitaria del corpo di cui le associazioni sono membra, né viene per altro ridotta a volontà privata, che richieda un piano diverso e insieme si
contrapponga ad esso, quello cioè politico, da cui verrebbe difesa e garantita.
Per comprendere questo quadro nella sua specificità – all’interno del quale
solo la rappresentanza prende un significato preciso – si devono tenere presenti due aspetti, che risultano di difficile intendimento per il nostro modo
moderno di pensare: 1) il concetto di individuo non svolge un ruolo determinante in relazione al funzionamento complessivo della politica; 2) la volontà
non è l’elemento fondante il rapporto politico, né per quanto riguarda
l’espressione della legge come comando, né per quanto riguarda la subordinazione e l’obbedienza. Per il primo aspetto è da ricordare innanzitutto che, ai
vari livelli della costruzione, Althusius ricorda che i membri del corpo politico
non sono i singoli, ma, a loro volta, associazioni, sia pubbliche che private.30
Ciò significa che l’essere membri del corpo politico da parte dei singoli non
consiste in un loro essere posti, in quanto singoli, a fondamento e nello stesso
tempo di fronte alla volontà unitaria del corpo intero, ma piuttosto nel loro essere parte di una cerchia che si esprime, in quanto tale, all’interno del corpo
complessivo, in cui è presente con una propria dignità, una propria volontà e
con specifici bisogni. Non si determina in questo caso quel dualismo tra i singoli cittadini e l’unità della società civile (o politica) che è generato dal fatto
che la costituzione della società è immaginata sulla base di un numero infinito
di individui uguali. Qui invece la partecipazione dei singoli uomini alla vita
politica avviene attraverso la mediazione della cerchia di cui essi fanno
parte, cerchia che ha una sua determinatezza e sue specifiche differenze in
rapporto alle altre e a cui è riconosciuta una natura politica.
In questa concezione pluralistica anche il popolo non ha il carattere
dell’unità, ma piuttosto quello della composizione e dell’accordo delle diverse
parti che lo costituiscono. La majestas, che Althusius gli attribuisce, aprendo
da una parte la strada a una serie di trattazioni che in questo lo seguiranno,
30
Si veda ad esempio quanto detto a proposito della città, in Politica, V, 10.
73
come quelle di von Hoen (Hoenonius) e di Alsted, ma attirandosi anche le critiche di molti teorici a lui contemporanei e successivi.31 non ha il significato
della sovranità popolare a cui si pensa nella filosofia politica moderna, ad esempio nel pensiero di Rousseau. Questo significato è infatti possibile solo
all’interno del modo moderno di pensare la sovranità, nella dimensione del
potere, che non può appartenere che al corpo politico o popolo inteso come
totalità di tutti gli individui e dunque come unico soggetto politico. In Althusius invece il popolo è un composto di parti diverse. Nel regno si esprime allora bensì un’azione unitaria di governo da parte del sommo magistrato, ma
questa non rappresenta il popolo nel senso che dia forma al suo volere ed agire, ma piuttosto è un’azione – di cui chi governa è responsabile – necessaria
proprio per la pluralità di istanze che caratterizzano il popolo, con le quali appunto il governo sempre continuamente si confronta. Ciò è possibile in quanto
il popolo non è inteso come la totalità di tutti gli individui, ma piuttosto come
una realtà costituita di parti determinate, che hanno loro funzioni, diritti, forza
e volontà. Se nella scienza politica moderna la volontà del popolo è espressa
da colui che lo rappresenta come soggetto unitario, e dopo Rousseau, il popolo è inteso come il soggetto che, unico, ha diritto all’azione politica, alla fondazione della costituzione, ed è perciò una grandezza costituente, nel pensiero
di Althusius esso è invece una realtà costituita, e costituita da parti diverse.
Se si ricorda che in Althusius troviamo una funzione costituente del popolo, in quanto è esso che istituisce imperi e regni, e che insedia i governanti, ciò
non smentisce il fatto che esso sia una realtà costituita, ma al contrario lo conferma. Infatti solo in quanto è realtà costituita, ha una forma e si può esprimere attraverso le proprie assemblee, il popolo esiste prima e di fronte al principe, può stipulare con lui un contratto di mandato, e può anche controllare il
suo operato, fino a giungere alla sua deposizione. Il popolo cioè può costituire
e delegare potestas, in quanto è costituito, ed è realtà che può esprimersi
prima del patto, mediante il patto e dopo il patto.
La concezione althusiana della consociazione implica allora un modo specifico di intendere la rappresentanza. Nella comunità politica o societas civilis
si esprime un momento unitario, attraverso chi è incaricato all’attività di presidenza o di governo – nella forma più alta il sommo magistrato –, e insieme
l’istanza del popolo o delle molteplici associazioni che lo costituiscono, che si
esprime attraverso i suoi rappresentanti – gli Efori nella consociatio universa31
Classica la critica di Hermann Conring, ad es. in Dissertatio de Autoribus politicis, in
Opera, ed J.W. Goebel, Braunschweig, 1730, vol. I, p.31: sulla maiestas e sugli iura maiestatis rimando al mio Una prima esposizione del pensiero politico di Althusius: la dottrina
del patto e la costituzione del regno, “Quaderni fiorentini per la storia del pensiero politico
moderno”, 25 (1996), sp. p. 87 ss.
74
lis. Abbiamo cioè un’istanza di guida e un’istanza collegiale di espressione
della volontà della comunità. Ciò vale non solo per il regno, ma per ogni livello della vita sociale, e cioè della vita politica. Ad ogni livello si ripresenta una
dualità di forme rappresentative, e tale dualità, come ha ben mostrato Hasso
Hofmann, caratterizza la società cetuale su cui riflette Althusius.32 Come di
fronte al sommo magistrato stanno gli Efori, così di fronte al rettore della corporazione sta il collegio, di fronte al capo della città o console sta il senato, di
fronte a colui che presiede (praeses) la provincia stanno gli ordini provinciali
o ceti territoriali.
Mentre l’autorità del sommo magistrato è regolata da un contratto di mandato su cui si fonda e si basa la sua rappresentatività, nella rappresentanza collegiale si ha una incorporazione del popolo nelle sue parti, non tanto una delega o un mandato. Perciò non ha molta importanza il modo della elezione o
della scelta dei membri del collegio, di qualsiasi tipo esso sia; a volte Althusius ricorda che la scelta può venire anche dall’alto, magari dopo una previa
elezione di un numero di membri maggiore del necessario, ad esempio da parte del principe o conte della provincia,33 o anche, per quanto riguarda gli Efori, da parte del sommo magistrato.34 Ciò mostra ancora una volta il carattere
della scienza o arte politica di cui si tratta nella Politica di Althusius, che non è
creazione di un modello che si fondi sulla sua razionalità e coerenza e che abbia perciò carattere prescrittivo, richiedendo di essere attuato nella pratica, ma
piuttosto è una riflessione sulla realtà associativa esistente nelle sue molteplici
forme.35 La poca importanza attribuita al modo di elezione è rivelativa anche
della natura della rappresentanza propria della forma collegiale: colui che rappresenta un ordine o un raggruppamento, è legato alla oggettiva realtà di que32
Cfr. H. Hofmann, Repräsentation in der Staatslehre der frühen Neuzeit, in Politische
Theorie des Johannes Althusius, cit., sp. pp. 522 e sgg. Diversa è invece l’opinione di Hüglin, Sozietaler Föderalismus cit., sp. pp. 194-195 che propone una struttura unitaria e omogenea di rappresentanza che determina il potere dal basso. L’inserimento di Althusius in un
contesto che è legato al principio del governo e non è dominato dal concetto di potere, mi
sembra impedisca questa soluzione: per una discussione delle tesi interpretative dell'interessante volume di Hüglin si veda il mio Althusius e l’idea federalista, in “Quaderni fiorentini
per la storia del pensiero giuridico”, 21 (1992), pp. 611-622).
33
Cfr. Politica, V, 60.
34
Cfr. Politica, XVIII, 59.
35
Ciò non significa che si tratti di un semplice atteggiamento descrittivo, poiché non si
tratta di riprodurre la realtà empirica, ma di pensarla secondo il suo concetto, e di vedere
come in essa si imponga una direzione verso il bene e il buon governo. Piuttosto, anche qui
come per la Politica aristotelica è da ricordare che categorie epistemologiche come quelle
spesso oggi usate di “descrittivo” o “prescrittivo” – che implicano un contesto teorico che si
presenta ben più tardi ed ha presupposti di ben altro tipo – non hanno nessuna presa ed efficacia ermeneutica.
75
sto, e condivide con gli altri membri una serie di bisogni, interessi, diritti, modi di vedere, la consapevolezza della propria dignità. Poco rilevante è allora la
sua volontà, perché non è una volontà libera, tale cioè che può essere esercitata a suo arbitrio: si tratta insomma di un sentirsi parte dell’identico corpo, di
una rappresentazione di tipo identitario.36 Perciò, se è vero che a ogni livello
dell’ordine sociale ci sono istanze di unificazione e di governo, è tuttavia nella
rappresentanza collegiale che si esprime la collettività, e perciò quest’ultima è
l’istanza superiore, non solo in via di principio, ma di fatto, poiché si tratta di
una presenza determinata e organizzata che si esprime concretamente. Dal
momento che al livello più alto della consociatio universalis si parla del popolo intero, è questo e non il sommo magistrato che detiene i diritti di maestà:
sono cioè gli Efori ad avere l’auctoritas e la potestas maggiore. Ciò è pensabile, come si è detto, dal momento che il popolo è realtà costituita di tutte le sue
parti, che si manifestano mediante i loro rappresentanti. Nella collegialità la
collettività si esprime nell’insieme delle parti che la costituiscono.37
In questa complessa società cetuale allora non si parla tanto di un’unica
volontà sovrana, che ha solo sudditi di fronte a sé, ma piuttosto di uno stare
insieme di potestates e realtà che ricercano l’accordo e l’armonia. Nelle loro
associazioni i singoli hanno la loro diversa realtà ed esercitano una differente
influenza sulla vita comune: sono cioè dotati di una politicità, la quale non
compete loro in quanto singoli individui, ma si manifesta nella partecipazione
che essi hanno alla vita collettiva mediante il loro status. In questo contesto il
termine di consenso ha il suo autentico significato, e ciò proprio in quanto non
siamo in una situazione in cui la volontà di tutto il corpo, espressa come legge, richiede soltanto obbedienza, ma piuttosto in quella di un lavoro continuo
di accordo e concordia, che tiene insieme il regno come pure le altre forme
associative. Il problema che qui si presenta non è quello dell’unità politica, ma
piuttosto quello del lavorio continuo al fine della concordia, compatibilità e
solidarietà tra le diverse parti della collettività. Ugualmente è denso di signifi36
Cfr. Hofmann, Repräsentation in der Staatslehre cit., p. 525. Sul difficile problema
della rappresentazione di identità si veda dello stesso autore, Repräsentation. Studien zur Wortund Begriffsgeschichte cit., sp. pp.191-285.
37
Se non si vuole dare giudizi storici basati su idee di valore, ma si intende rimanere
nell’ambito della comprensione delle strutture del pensiero, sulla base di quanto si è sostenuto, non appare fondata l’immagine prodotta da Behnen che, appoggiandosi al lavoro di
Antholz, raffigura Althusius come un “dittatore di Emden” (cfr. M. Behnen, Herrscherbild
und Herrschaftstechnik in der “Politica” des Johannes Althusius, “Zeitschrift für Historische
Forschung”, XI (1984), pp. 417-472). Tale lettura è segno di una direzione interpretativa
condizionata dalla concettualità moderna, così come quella di coloro di coloro che ravvisano
nel pensiero politico di Althusius il concetto di sovranità popolare nel senso di Rousseau o il
modello di una “vera democrazia” come organizzazione del potere dal basso.
76
cato il termine di partecipazione, perché mediante la partecipazione delle varie cerchie si ha la vita dell’intero. Si potrebbe dire che consenso e partecipazione hanno un significato costituzionale, se ci si distacca anche qui dal senso
moderno che connota il termine di costituzione, indicante un ordinamento di
leggi fondamentali, e lo si intende nel senso etimologico della struttura del
corpo, costituito appunto da tutte le sue parti con le loro diverse funzioni.
Consenso e partecipazione avvengono attraverso la rappresentanza delle parti
sociali e di questa rappresentanza mostrano la rilevanza.
7. Il moderno concetto di potere e la nuova dimensione del popolo
A distanza di pochi anni dalla stesura della Politica di Althusius lo scenario teorico cambia radicalmente, mediante la nascita di quella che si è soliti
chiamare la scienza politica moderna, espressione che emblematicamente lega
insieme il termine di moderno e quello scienza: infatti è un nuovo significato
di scienza che investe l’ambito della pratica e dunque della politica, in contrapposizione con l’antica praktiké epistéme. Ora l’intento di base è quello di
farla finita con il governo dell’uomo sull’uomo, che risulta ingiusto in relazione al duplice assunto: che tutti gli uomini sono uguali, e che non è più riconoscibile alcun ordine naturale, cosmico, teologico o giuridico che serva ad
orientarsi. L’azzeramento della tradizione di filosofia pratica va di pari passo
con l’azzeramento della realtà politica che ci circonda, nella quale non è ravvisabile alcun criterio di giustizia. Nella realtà storica come nella tradizione
filosofica ci si imbatte in una molteplicità di modi, tra loro contrapposti, di
impostare e risolvere il problema della giustizia e il risultato di ciò è una situazione di perenne conflitto in cui sicurezza e pace sono perduti. Il problema
della giustizia deve essere risolto da una razionalità formale che ha a suo modello la geometria, e che, con la sua oggettività, elimini ogni disputa e ogni
conflitto. La questione non è più quella di riconoscere un bene e un nomos
comune, né di guidare su questa base la comunità, ma piuttosto quella di lasciare che ognuno persegua il suo bene e la sua fede per suo conto, privatamente, evitando che ciò sia causa di conflitto. Qui non c’è più spazio per il
governo, nel senso antico del termine, ma ciò che è necessario è un potere costituito dalla forza di tutti, che renda irrilevanti le eventuali differenze di forza
tra gli individui ed eviti perciò la supremazia degli uni sugli altri ed ogni pretesa di governo. Le diversità di opinione e di fede in relazione al bene e al
giusto vengono così neutralizzate e si crea uno spazio privato per gli individui
che possono perseguire i loro scopi e ricercare il loro bene a patto di non ledere lo spazio e la libertà altrui. Si potrebbe dire che il potere tende a garantire
77
lo spazio nel quale ognuno si governi da sé; ma anche per quanto riguarda
l’autodirezione del singolo, una volta scomparso un quadro di orientamento e
di riferimento,38 non si può più con rigore parlare di governo. L’estensione del
concetto di governo a tutti gli uomini comporta la perdita del nucleo che lo
determina e permette di identificarlo: in essa infatti si perde sia la meta
comune, sia la pluralità e la differenza, che abbiamo viste indispensabili per
l’esserci del governo. La sua apparente estensione coincide in realtà con la sua
fine: l’autogoverno degli uomini diviene la direzione di se stessi a partire dalla
propria volontà: è allora il nuovo concetto di libertà che soppianta il pensiero
del governo.
Il termine popolo viene qui ad assumere un significato del tutto nuovo: non
indica più una realtà costituita e composta di parti, o una parte della polis,
come era in Grecia, ma la totalità e l’unità di tutti gli individui uguali. Se il
punto di partenza viene ad essere uno stato di natura che prevede solo individui (questa è la mossa teorica strategica che caratterizza il contrattualismo
giusnaturalistico moderno e che condiziona la successiva teoria dello Stato)
non si dà nessun popolo prima del contratto, cioè dell’artificiale costruzione
della società. Con il contratto nasce il popolo a cui spetta il potere, nel senso
politico del termine: questo comporta i caratteri dell’unicità e dell’assolutezza
proprio per il fatto che si basa sui diritti degli individui – innanzitutto uguaglianza e libertà – ed ha la funzione di realizzare questi diritti nella realtà storica. Ci troviamo così di fronte al concetto moderno di sovranità, dell’unico
potere del corpo politico, concetto che condiziona ormai il modo di intendere
il rapporto sociale e il significato che viene ad assumere l’imperium, o il rapporto di subordinazione tra gli uomini.39
Così inteso il concetto di potere, nel suo significato politico, è nuovo e non
esistente nella tradizione precedente. Muta infatti radicalmente il significato
del comando e della subordinazione, e si rende impensabile il concetto di governo proprio della tradizione politica. In essa infatti la subordinazione non
38
Si badi bene che per tale quadro non intendo un sistema di verità, ma piuttosto un problema che a tutti si impone, come avviene nei Dialoghi di Platone. Niente è più lontano dal
modo in cui Aristotele e Platone pongono il problema dell’agire e del vivere bene, di un sistema di norme e di verità (quale si può invece ravvisare in molte interpretazioni del pensiero
classico, che sono guidate da uno schema normativistico tipicamente moderno). Cfr. su ciò il
saggio di S. Biral, Platone: governo e potere, in “Filosofia politica”, 1992, n. 3, pp. 399-428
(ora anche in Storia e critica della filosofia politica moderna, Franco Angeli, Milano 1999) e
anche Platone e la conoscenza di sé, Laterza, Bari, 1997.
39
Per il senso diverso che viene ad avere l’imperium a seconda che sia inserito nel contesto delle politiche che si rifanno ancora alla tradizione aristotelica oppure a quello della
scienza moderna del diritto naturale, cfr. la parte prima del volume Duso (a cura), Il potere
cit. (anche per quanto riguarda la bibliografia essenziale sul tema).
78
era costituita da un rapporto formale tra volontà ed esisteva la possibilità per i
governati di appellarsi a quel contesto che serviva da guida anche a colui
che governava. È significativo che in Althusius, proprio il contratto di
mandato che istituisce la potestas del sommo magistrato, e dunque che
impone al popolo obbedienza, è anche il fondamento del controllo e della
possibile destituzione della somma autorità, cioè del diritto di resistenza. Ora
invece, di fronte all’istanza del potere del corpo comune non è più possibile
resistenza, che sarebbe solo sopruso di singoli che rivendicano una loro differenza ed una loro forza contro il corpo comune, forza di cui possono abusare
contro i loro simili. È solo il potere comune, cioè quello politico, che rende
realizzabile l’uguaglianza degli individui, e unica legge è l’espressione della
sua volontà.40
La subordinazione al potere comune è ora totale è richiede perciò di essere
legittimata,41 in quanto ci troviamo di fronte ad una differenza tra chi esercita
il potere e chi si trova nella situazione di suddito che, ad un primo sguardo,
appare in contraddizione con il punto teorico di partenza costituito dalla uguaglianza degli individui. La legittimazione consiste nella costruzione razionale, scientifica, in cui risulta non solo che tale potere è l’unica costruzione
che permette la conservazione della fonte di tutti i beni per l’individuo, cioè la
vita, ma anche che la volontà propria di quel potere è non la volontà di una
persona che domina sugli individui divenuti tutti sudditi, ma è la volontà di
tutti in quanto membri del corpo politico, la loro vera volontà politica contro
la loro volontà privata. In questo unico ambito si trovano le due posizioni teoriche considerate più radicali, quella di Hobbes e quella di Rousseau.
Quest’ultimo si oppone fortemente ad Hobbes, ma, come si vedrà, tale opposizione avviene all’interno di un sostanziale terreno comune, quello della sovranità moderna, che separa ormai i due pensatori dal pensiero politico della
tradizione, anche nella forma che esso assume con Althusius.42
40
Cfr. per il mutamento del significato del dominio e dunque per la caratterizzazione
della Herrschaft in senso moderno, si ricordi il già citato saggio di Otto Brunner, Osservazioni sui concetti di “dominio” e di “legittimità”.
41
La questione della legittimazione è una questione moderna e si presenta con
l’emergere, nel pensiero hobbesiano, della persona statale rappresentativa: cfr. Hofmann,
Legitimation und Rechtsgeltung, Duncker & Humblot, Berlin 1977, cit., p.13, Repräsentation
cit., p 382; cfr. anche R. Polin, Analyse philosophique de l’idée de legitimité, in L’idée de
legitimité, “Annales de philosophie politique”, Paris, 1967.
42
Naturalmente questa linea risulta critica nei confronti della celebre interpretazione di
O. von Gierke, Johannes Althusius und die Entwicklung der naturrechtlichen Staatstheorien,
Breslau 1980: tr. it., G. Althusius e lo sviluppo storico delle teorie politiche giusnaturalistiche, Torino 1943, che considera Althusius all’origine del moderno giusnaturalismo. Per una
discussione della tesi del Gierke rimando a Patto sociale e forma politica, Il contratto sociale nella filosofia politica moderna cit. p. 14, e alla bibliografia citata in questo paragrafo. Il
79
8. L’unità politica e l’invenzione della rappresentanza
Con Hobbes l’artificio strategico consistente nello stato di natura, caratterizzato dalla nozione degli individui e del loro diritto a tutto, permette di non
riconoscere alcuna dimensione collettiva come naturale e originaria. E
ciononostante bisogna trovare con un artificio umano una dimensione sociale,
per impedire che le forze contrastanti degli individui comportino la reciproca
negazione e morte. L’unica soluzione è – come emerge dalla celebre costruzione che si ha con il contratto sociale – un accordo che sia garantito da una
forza immane, costituita da tutti. È questa forza comune alla quale tutti volontariamente e razionalmente si assoggettano, proprio perché non ci sia sopraffazione dell’uno sull’altro.43 Dunque anche per Hobbes, e non solo per Rousseau, la subordinazione è dovuta al corpo politico nella sua totalità. E proprio
in ciò consiste la legittimazione della sudditanza. Essa infatti non è più sottomissione nei confronti di un singolo uomo, in ragione delle sue qualità o della
sua forza, ma del corpo che tutti hanno voluto costruire.
Ciò che caratterizza la posizione di Hobbes, ma poi la stessa dimensione –
moderna – del potere politico, è l’idea che la volontà di questa persona civile
non può essere quella di nessun individuo particolare (tutti gli individui sono
infatti uguali); questa persona non può avere allora volontà o azione se non
emerge una nuova teoria dell’agire, quella secondo la quale una persona (e il
termine ha qui un preciso significato legato al suo etimo) non agisce di per se
stessa, ma per l’intero corpo politico. Dunque il corpo politico acquista una
voce e la possibilità di agire solo mediante qualcuno che ne prenda le parti,
che la rappresenti appunto. Qui non vi è più spazio per l’immagine di un corpo in cui le singole parti hanno funzioni diverse nell’insieme, per il modo cioè
in cui era spesso raffigurata la respublica, ma risulta piuttosto emblematica la
figura che caratterizza il frontespizio del Leviatano, quella del sovrano, che è
costituito da tanti piccoli uomini, tutti uguali, che si ravvisano in tutte le parti
del suo corpo. Non solo non ci sono parti diverse, ma colui che esercita il potere del corpo politico non è più la testa, la guida, nei confronti delle altre parti, ma è solo la maschera, l’attore che agisce per tutto il corpo politico. Ciò
che bisogna comprendere e che può destare meraviglia è il fatto che è proprio
sulla natura rappresentativa che si basa nello stesso tempo la legittimità
confronto con la tesi di Gierke è costante nella gran parte dei saggi contenuti in
Politische Theorie des Johannes Althusius cit.
43
Ricordo il saggio già citato di A. Biral, dal titolo significativo per il presente ragionamento, Hobbes: la società senza governo, in Il contratto sociale nella filosofia politica moderna, cit., pp. 51-108. Cfr. anche il volume collettaneo Th. Hobbes, Leviathan, hrsg. von
Wolfang Kersting, Akademie Verlag, Berlin, 1996.
80
dell’agire del sovrano, ma anche la sua assolutezza e l’impossibilità (in Hobbes), o in ogni caso la difficoltà estrema (nei pensatori successivi che si ispirano al diritto naturale) di pensare a un suo controllo.
La ragione della difficoltà del controllo dell’esercizio rappresentativo del
potere, che arrovellerà i pensatori a Hobbes successivi, consiste nel fatto che
la rappresentanza moderna nasce come condizione indispensabile per poter
pensare il corpo politico, cioè il soggetto collettivo. Se è così, si comprende
come possa apparire impossibile pensare il soggetto collettivo come realmente
esistente nella sua funzione di controllo di fronte e contro colui che lo rappresenta. La difficoltà per coloro che, contro Hobbes, vorranno riuscire a pensare
al controllo del potere, deriva dalla loro accettazione del principio
rappresentativo per poter intendere il potere politico. Cerchiamo di seguire il
modo in cui i due concetti di rappresentanza e di sovranità si mostrano indissolubilmente legati tra loro.
Per intendere la necessità del concetto di rappresentanza ai fini della concezione del soggetto collettivo e del suo potere, un primo ragionamento può
essere fatto in relazione al risultato della costruzione pattizia, che, è utile ricordarlo, non pone il popolo e il sovrano l’uno di fronte all’altro, ma piuttosto
prevede come contraenti gli individui, e come risultato – contemporaneamente – il popolo, e il sovrano. Il patto non consiste in un accordo temporaneo tra
soggetti diversi, che mantengono la loro capacità di volere e di decidere: tale
accordo sarebbe ben labile e non risolverebbe il problema della reciproca conflittualità tra gli uomini, conseguente alla diversità delle opinioni su cosa sia
giusto per il vivere in comune. Ciò che è stato prodotto è una persona, la persona civile, che d’ora in poi dovrà – come unica persona – esprimere l’unico
giudizio su ciò che è bene per la vita comune: dovrà cioè volere e agire come
soggetto politico. Se si tiene presente che nel patto è la molteplicità indefinita
dei singoli che è confluita per superare la diversità delle opinioni, ci si può
chiedere quale debba essere la volontà della persona civile (che non può essere che una dal momento che una è la persona) che è stata costituita. Evidentemente essa non può identificarsi con quelle – che nella costruzione teorica
sono ipotizzate come diverse – dei singoli individui, né risultare dalla loro
somma; nel contratto gli individui hanno trovato infatti un punto di coincidenza sulla necessità che vi sia un unico giudice in relazione all’uso della forza
comune, perché solo l’esistenza di un unico giudice può risolvere la conflittualità che nasce dalla diversità delle opinioni degli individui su ciò che è utile
fare o non fare per la vita in comune. Né ci può essere, a causa del presupposto dell’uguaglianza tra gli uomini, nessuno che abbia tali qualità da permettergli di essere a capo del corpo politico che è stato fondato. Allora, perché ci
sia reale espressione della volontà e dell’agire della persona civile, non esiste
81
che una possibilità: che qualcuno rappresenti, prenda le parti della persona
civile, cioè esprima una volontà ed un agire che non sono considerati suoi, ma
di tutto il corpo politico. Costui è il sovrano nei confronti del quale tutti con il
patto si rendono sudditi.44 Essere sudditi del sovrano è allora l’unico modo per
essere sottomessi al corpo comune e dunque al popolo.
L’obbedienza al sovrano è esclusivamente legata alla sua natura di rappresentante, al fatto cioè che attraverso di lui si esprime la volontà del soggetto
collettivo, del popolo: è allora a quest’ultimo che in fondo si obbedisce. Questa è la caratteristica essenziale del potere moderno: che esso appartiene a tutto il corpo politico, e che è la volontà del soggetto collettivo che nel potere
politico si esprime, anche se il suo esercizio è affidato ad una persona o ad
una assemblea. Tale carattere è evidenziato dal modo stesso in cui è pensato il
processo costitutivo dell’autorità, che appare necessario in un orizzonte determinato dal postulato dell’uguaglianza tra gli uomini. L’autorità è tale non
per caratteristiche o virtù personali, innate o acquisite, ma sulla base di un
processo di autorizzazione, mediante il quale tutti si fanno autori delle azioni
di colui che è autorizzato ad agire in vece loro. La persona autorizzata, il rappresentante appunto, non compirà, in quanto tale, azioni di cui egli stesso sia
autore, ma sarà solo maschera (persona nel senso etimologico del termine),
attore delle azioni di cui tutti coloro che costituiscono il corpo comune sono
autori. Questo è il nucleo logico della moderna rappresentanza: in ciò sta la
base della legittimità della forma politica moderna e nello stesso tempo anche
l’origine delle aporie che in essa si manifestano.
Nel capitolo XVI del Leviatano si esprime per la prima volta questo nuovo
concetto di rappresentanza, che non consiste tanto in una semplice modificazione all’interno di una storia del concetto di rappresentanza politica (quasi
questa avesse un nucleo identico nelle variazioni delle diverse epoche storiche), ma piuttosto esprime la nascita di qualcosa di totalmente nuovo, un nuovo modo di intendere l’uomo, la vita comune degli uomini, la politica. Ci si
trova così di fronte al nucleo centrale del modo moderno di intendere
l’obbligazione politica e il concetto di autorità. Nel momento in cui si pensi ad
una persona artificiale, che non ha cioè una sua realtà empirica, naturale,
quello rappresentativo appare l’unico modo per poterne pensare la realtà e la
con- creta espressione di volontà ed agire. Ma ciò permette di capire, nello
stesso tempo perché nell’agire rappresentativo consista la legittimazione
dell’esercizio del potere e il significato moderno dell’autorità. Sulla base
dell’uguaglianza degli uomini non è infatti più pensabile un’autorità che abbia
un fondamento proprio o superiore nei confronti di coloro che sono sottoposti
44
Cfr. il cap. XVII del Leviatano.
82
ad essa: né il volere divino, né le doti e le virtù personali possono più costituire un tale fondamento.
In un quadro in cui, con l’immagine dello stato di natura, si è realizzata
una tabula rasa nella quale costruire il disegno scientifico della società razionalmente fondata e del potere giusto e legittimo, l’unico fondamento
dell’autorità non può che essere la volontà di tutti gli individui, cioè di coloro
che sono sottoposti all’autorità. Ciò può avvenire scoprendo l’unico vero fondamento dell’autorità: cioè il processo di autorizzazione. Il nuovo concetto di
rappresentanza nasce dunque in un orizzonte in cui è scomparsa quella complessa realtà, divina, etica, giuridica, “costituzionale” (nel senso delle parti
che “costituiscono” il regno o la repubblica), che condizionava la volontà e
forniva punti di orientamento e di riferimento per le decisioni. Ora la volontà è
libera, sciolta da ogni condizionamento e legame, ed è determinata formalmente, in relazione cioè alla legittimazione che caratterizza il soggetto che
la esprime: è tale legittimazione che rende la volontà giusta, e non una
possibile adeguatezza dei suoi contenuti all’idea di giustizia. Il gioco che si
innesca è quello che si svolge tra la volontà unitaria del corpo politico e
quella degli individui che, da una parte sta alla base della autorizzazione di
colui che ha il compito di determinare quella volontà comune e dall’altra ha
bisogno del vincolo delle leggi e della forza che le rende effettuali, per avere
garantito uno spazio di libertà privata.45
Certo il processo di autorizzazione ha nel Leviatano un carattere logico e
non fa riferimento ad un qualche tipo di procedura. Ma se si pensa al significato che ha l’elezione come fondamento della rappresentanza nel contesto della
Rivoluzione francese e del pensiero di Sieyes, quello secondo cui non è trasmissione di volontà determinate, ma come sopra si è visto, consiste piuttosto
in una forma di autorizzazione, non è difficile ravvisare nel testo hobbesiano
il nucleo logico della rappresentanza quale si afferma con le moderne costituzioni. Il fondamento del potere non può consistere che nella volontà degli individui, non può che provenire dal basso, ma nello stesso tempo, la determinazione della volontà non può provenire che dall’alto, non può non essere
ravvisata che nell’azione dell’attore, del rappresentante.46 Tale concezione
della rappresentanza come esercizio del potere, proprio nel momento in cui
45
Sulla centralità nella scienza politica moderna del concetto di libertà in luogo dell’antica questione della giustizia cfr. H. Hofmann, Einführung in die Rechts- und Staatsphilosophie, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 2000, ora in traduzione italiana per
i tipi della Laterza, e dello stesso autore Bilder des Friedens oder die vergessene Gerechtigkeit, Siemens-Stiftung, München, 1997; si vedano anche i saggi contenuti nella parte monografica “giustizia e forma politica” di “Filosofia politica”, XV (2001), n.1.
46
Più complessa sarà la logica della rappresentanza politica, come si è visto nel capitolo
introduttivo del presente lavoro, ma quello qui descritto appare come il primo elemento determinante quella che si può chiamare la forma politica moderna.
83
sembra nascere, da un punto di vista politico, la moderna soggettività, comporta un modo di intendere l’agire degli individui che non può non destare
meraviglia. Tutti infatti sono politicamente soggetti proprio in quanto
sono autori di azioni, ma grazie al processo di autorizzazione, essi non compiranno mai tali azioni, mentre coloro che tali azioni compiranno, i rappresentanti, non portano di esse la responsabilità, in quanto autori ne sono tutti coloro che li hanno autorizzati a compierle.47 Ci troviamo cioè di fronte ad una
scissione nel modo di concepire la soggettività politica e l’azione degli uomini.
Tuttavia, con queste considerazioni, non si è ancora attinto il nocciolo del
problema: bisogna capire quale è il presupposto perché si determini una tale
situazione concettuale. A tale scopo ci aiuta la considerazione del fatto che il
capitolo del Leviatano dedicato alla rappresentanza, il XVI, precede quello
del contratto fondante il commonwealth. Infatti la questione in Hobbes non è
semplicemente quella di dare voce e volontà alla persona civile che è stata costituita, ma, ancor prima, di riuscire a pensare un corpo collettivo che abbia il
carattere dell’unità, in un contesto nel quale il punto di partenza è costituito
dalla infinita molteplicità degli individui. È infatti nel capitolo dedicato alla
rappresentanza che emerge l’argomentazione centrale della moderna forma
politica, che condizionerà – con una forza e con conseguenze sulle quali non
si è riflettuto abbastanza – il pensiero politico successivo: c’è un unico modo
per pensare come una una molteplicità di individui, che uno ne sia il rappresentante, e dunque che qualcuno, o alcune persone esprimenti un’unica volontà, agiscano rappresentativamente per quei molti che si fanno uno. “Una moltitudine diviene una sola persona, quando gli uomini [che la costituiscono]
vengono rappresentati da un solo uomo o da una sola persona, e ciò avviene
con il consenso di ogni singolo appartenente alla moltitudine. Infatti è l’unità
di colui che rappresenta non quella di chi è rappresentato, che rende una la
persona; ed è colui che rappresenta che dà corpo alla persona, e ad una persona
soltanto. Né l’unità di una moltitudine si può intendere in altro modo”.48
L’unità non può dunque consistere nel rappresentato, cioè nella moltitudine, poiché questa è realmente composta da molti singoli, che, se si esprimono
in quanto tali, saranno sempre molti. Solo l’espressione di una volontà unica,
mediante il rappresentante, permette di avere il popolo come soggetto politico
47
Ancora Weber ricorda il carattere di irresponsabilità del rappresentante a causa del
carattere specifico della moderna rappresentanza, che non lo lega agli interessi e alle volontà
di coloro che lo hanno delegato, non lo fa Diener, ma Herr (cfr. M. Weber, Wirtschaft und
Gesellschaft, hrsg. J. Winckelmann, Mohr, Tübingen, 19765, I Bd., p. 172: tr. it. M. Weber,
Economia e società, a cura di P. Rossi, Edizioni di Comunità, Milano, 19742, ora 1981, vol.
I, p. 291. Cfr. su ciò il III cap. del presente lavoro, sp.pp. 141 ss.
48
Cfr. Hobbes, Leviatano, XVI.
84
unitario. Se il popolo, in quanto uno, fosse già tale e reale prima della rappresentazione e a prescindere da essa, non sarebbe necessario, e nemmeno possibile rappresentarlo. Si badi bene: non è che non sia pensabile l’accordo tra
soggetti diversi, che danno luogo a un consenso di volontà, come poteva avvenire in una concezione pluralistica del popolo come quella di Althusius.
Che l’unità debba necessariamente provenire dal rappresentante è dovuto al
fatto che non si parte da volontà differenti che siano determinate, come quelle
dei corpi e degli ordini, ma dalla infinita molteplicità delle volontà individuali, che non hanno nessuna determinazione e che possono assumere qualsiasi
contenuto: allora l’unità è prodotta dalla rappresentazione. Se si determina
una scissione, e quella che, a questo livello della riflessione, sembra una mancanza di comunicazione, tra la volontà privata dei molti rappresentati e la volontà politica espressa dai rappresentanti, che non è dalla prima condizionata –
se si determina dunque una alterità della volontà politica e della rappresentazione dell’unità nei confronti dei singoli –, ciò è dovuto al presupposto della
costruzione teorica, cioè al fatto che punto di partenza è costituito dagli individui: dunque dal ruolo nuovo che il concetto di individuo ha per la natura
della società civile.
9. Il popolo attraverso il rappresentante
Ben si comprende come nel quadro qui delineato non si determini, come
spesso si pensa, una trasmissione di potere, in quanto i singoli, coloro che si
dichiarano autori, non hanno nessun potere politico da trasmettere – ciò che
avveniva invece nei contratti di signoria della tradizione precedente –; piuttosto il potere politico è creato mediante il contratto sociale e il processo di costituzione dell’autorità. Solo in questo modo, cioè mediante l’agire rappresentativo, si ha una dimensione collettiva e politica, si ha potere del popolo, si
forma la volontà della persona civile, che non può recepire in sé nessuna volontà particolare. È questo il contesto logico che rende impossibile pensare
alla trasmissione di volontà particolari mediante la rappresentanza, che porta
cioè alla negazione del mandato imperativo in favore della libertà dei rappresentanti nei confronti di qualsiasi vincolo particolare nel loro compito di dar
voce alla persona civile. Nella moderna teoria non c’è una realtà o una volontà
precedente che sia semplicemente da rispecchiare: la volontà del corpo politico è quella che prende forma mediante l’agire rappresentativo. Qui sta il fondamento dell’assolutezza della sovranità e della difficoltà di rintracciare la via
per un controllo dei rappresentanti. Con il giusnaturalismo si assiste dunque
sostanzialmente alla caduta dell’antico diritto di resistenza, perché quello del
85
sovrano, o in seguito dei rappresentanti della sovranità del popolo, è l’unico
modo di espressione del volere del soggetto collettivo.
Se prima della volontaria costruzione del patto non c’è comunità, e le forme sociali esistenti non sono legittime, perché comportano subordinazione tra
gli uomini, di conseguenza il popolo esiste solo dopo il contratto ed ha come
suo unico modo di esprimersi quello rappresentativo. Perciò non c’è istanza
collettiva di fronte a colui che esercita il potere, come avveniva invece in Althusius: la volontà del popolo emerge solo attraverso la voce del rappresentante: le altre volontà sono solo di singoli, di privati, di sudditi. Così si può ad esempio dire che, qualora il sovrano sia un monarca, “(per quanto sia un
paradosso) il re è il popolo”.49 Non solo allora non è possibile che sia il popolo a rivoltarsi contro il sovrano rappresentante, ma piuttosto sono i sudditi ad
avere, nella figura del sovrano-rappresentante di fronte a loro il popolo, cioè
l’istanza collettiva. Conseguentemente allora Hobbes si oppone alla concezione che intende i re – considerati sovrani – come singulis majores, ma universis minores, cioè superiori ai singoli presi separatamente, ma soggetti nei confronti dei sudditi presi nella loro totalità.50 E lo può fare in base al modo di
concepire la totalità: infatti se l’espressione “tutti insieme” non ha lo stesso
senso di “ciascuno”, ma vuole indicare il corpo collettivo come una persona,
dire “tutti insieme”, significa indicare il potere sovrano, unica istanza unitaria.
Con il concetto di sovranità – in Hobbes immediatamente legato a quello
di rappresentanza – o di unico potere del corpo politico, scompare l’idea di
un agire che rapporti i cittadini tra di loro, quale era l’agire di governo, assieme ai caratteri di responsabilità e guida propri di tale agire. Si determina un
rapporto di comando-obbedienza, che ha carattere formale: e tale aspetto appare fondamentale, perché la pace non può essere frutto di un qualche accordo
temporaneo, esposto al rischio della sua dissoluzione, ma deve dar luogo ad
una struttura stabile, che elimini la fonte di conflitto consistente nel fatto che
ognuno esercita la sua forza secondo il proprio arbitrio. Perciò è necessaria
una forma, che sia garanzia stabile dell’ordine, e tale forma (in quanto tale,
oggetto di scienza) è appunto la sottomissione di tutti alla forza comune, esercitata da colui che è a ciò autorizzato. In tal modo la sottomissione dei sudditi
al sovrano non è la sottomissione ad una istanza esterna, ma al prodotto della
49
Th. Hobbes, De cive. Elementi filosofici sul cittadino, tr. it. a cura di T. Magri, Roma
19822, p.188. Naturalmente ciò ha senso in quanto non il riferimento non è più alla monarchia come forma di governo, ma come modo di esercizio del potere, nell’ambito della teoria
moderna della sovranità.
50
Th. Hobbes, Leviatano cit., cap. XVIII, pp. 152-153. Di Althusius invece è la concezione che il sommo magistrato è superiore ai singoli sudditi, ma inferiore al popolo nella sua
totalità, al quale spetta lo ius maiestatis (Cfr. ad es. Politica, IX, 18).
86
propria volontà: ha dunque una sua logica la risposta hobbesiana all’antica
questione della giustizia: “giusto è ubbidire alle leggi”. Un comportamento da
questo diverso sarebbe infatti in questo contesto “contraddittorio”, in quanto
comporterebbe una situazione in cui non si vuole ciò che si è voluto, cioè il
giudizio e il comando di quell’unico giudice sul bene della società che si è voluto per garantire pace e ordine.51 La legge ha un carattere formale: è coman- do
del sovrano, e l’obbedienza non è legata ai singoli contenuti giusti o meno,
perché è la forma di legge a rendere la legge giusta, o determinante cos’è giusto.52 Ma tale situazione è nello stesso tempo liberazione dalla sottomissione
sempre possibile nei confronti di un altro uomo. Il potere dunque e la sua espressione, cioè il comando a cui tutti sono sottoposti, non è qualche cosa che
si opponga alla libertà, ma è piuttosto l’unico mezzo per renderla attuale o addirittura per renderla pensabile.53
La centralità del principio rappresentativo caratterizza la quasi totalità delle dottrine giusnaturalistiche del contratto sociale e la logica qui delineata è la
causa delle difficoltà che i pensatori hanno nel porre il problema del controllo
del potere, problema che diviene tuttavia sempre più incombente. Ciò risulta
anche nel pensiero di Pufendorf, che è segnato dal moderno problema della
sovranità,54 come potere cioè che è unico in quanto si basa sulla infinita molteplicità degli individui. Con il contratto si ha non solo la costituzione del po-
51
Cfr. Leviatano, cap. XIV, p. 107.
Fino a Weber arriva l’onda lunga di questa formalità del potere: si veda in Economia e
società la definizione della Herrschaft come rapporto di comando-obbedienza, e la definizione dell’obbedienza che comporta l’accettazione del comando come norma del proprio
comportamento non a causa del giudizio sul contenuto del comando, ma piuttosto della relazione formale e dell’autorizzazione della funzione di colui che esprime per tutti la volontà
comune (Wirtschaft und Gesellschaft cit., I, 123, tr. it., p. 209).
53
Infatti se il nuovo concetto di libertà comporta la mancanza di ostacoli e l’indipendenza della volontà, tale situazione di mancanza di opposizione e di indipendenza è pensabile per l’individuo solo se è pensabile per tutti gli individui, e ciò non è possibile se non
mediante quei vincoli, le leggi, che impediscono il reciproco recarsi danno e dunque il reciproco ostacolarsi. Solo il potere rende dunque pensabile una situazione di libertà per gli individui. Cfr. su ciò G. Duso, La libertà moderna e l’idea di giustizia, “Filosofia politica”, XV
(2001), n. 1, sp. p. 10.
54
Il concetto di sovranità è il nucleo centrale della scienza politica moderna, che nasce
con Hobbes; non solo dunque non c’è rapporto tra quella maiestas che è pure al centro dei
sistemi politici del primo Seicento in Germania e la sovranità delle dottrine contrattualistiche, ma con Hobbes il pensiero che dà luogo al concetto di sovranità nasce come negazione
radicale del pensiero in cui avevano spazio i concetti di maiestas e di iura maiestatis: perciò
non si può dire che in Althusius la sovranità è del popolo, mentre in Hobbes è incarnata dal
sovrano-rappresentante, perché significato radicalmente diverso ha il termine di sovranità.
Per un chiarimento di ciò cfr. il mio contributo, La maiestas populi chez Althusius et la souveraineté moderne, in Penser la souveraineté à l’epoque moderne et contemporaine, sous la
direction de G-M. Cazzaniga et Y-C. Zarka, edizioni ETS Pisa e Vrin, Paris 2001, pp.85-106.
52
87
tere politico, ma anche il suo titolo giuridico, che consiste nel consensus di
tutti: è questa caratteristica che distingue l’imperium dalla semplice violenza.
Ma bisogna fare attenzione a quanto il concetto di “consenso” sia mutato: non
si tratta cioè di qualcosa che deve sempre essere ricercato e sempre essere espresso per consentire la vita in comunione delle parti, ma di qualcosa che si
manifesta una volta per tutte, in quanto dà luogo a una struttura di natura nuova, in cui non è più concesso consentire o dissentire, perché di fronte alla legge ci può essere solo obbedienza. Unità della forza coattiva e suo titolo giuridico (cioè legittimazione – e di legitime si parla nel testo del De iure) sono i
due elementi che permettono di intendere il summum imperium nel senso della
sovranità moderna.55
Il cuore della costruzione teorica sta ancora una volta nell’intrinseco nesso
di sovranità e rappresentanza. Come nel Leviatano la domanda fondamentale
è come possa la persona civile, che è una, di fronte alla moltitudine empirica
degli individui, esprimere un solo volere e un solo agire. Anche per Pufendorf, come per Hobbes questa unica volontà non può consistere nelle volontà
dei singoli, né nella loro somma, perché le volontà sono ipotizzate come diverse. La volontà del popolo come unico soggetto è altra nei confronti di
quella dei singoli: la civitas è infatti “concepita come un’unica persona dotata
di ragione e volontà e capace di compiere azioni peculiari, diverse e separate
(actiones separatas) da quelle dei singoli”.56 Per risolvere il problema non vi è
che una possibilità: la volontà e le azioni della civitas devono essere espresse
da una persona – o da alcune che decidono come un’unica persona – che lo fa
come rappresentante di tutto il corpo politico. L’alterità della volontà comune
giunge ad espressione attraverso la persona rappresentativa. Perciò, per la costituzione della civitas nella sua compiutezza, non è sufficiente un primo patto
associativo, ma ne occorre un altro, a partire dal quale è la persona rappresentativa che agisce per la totalità del corpo politico, mentre tutte le altre persone
sono divenute persone private.
55
Cfr. il significativo paragrafo in De iure, VII, 3,1. Sul rapporto di Pufendorf con il
pensiero hobbesiano si veda O. Mancini, Diritto naturale e potere civile in Samuel Pufendorf, in Il contratto sociale cit, pp. 109-148, e F. Palladini, Samuel Pufendorf discepolo di
Hobbes, Il Mulino, Bologna, 1990.
56
S. Pufendorf, De iure naturae et gentium libri octo, Londini Scanorum 1672, VII, 2,
13. Tale tema della separazione è espresso con estrema chiarezza. Si veda ad esempio
l’affermazione che singoli e concilio nella “Republica populari” costituiscono in realtà personae diversae; e se non bastasse: “Quod enim singuli cives volunt, id non statim vult populus. Et quod singuli cives agunt, non statim habetur pro actione populi, & vice versa” (De
iure, VII, 2, 8).
88
In relazione alla socialitas, che è per Pufendorf caratteristica originaria degli uomini,57 sorge allora una situazione complessa e paradossale. Da una parte cioè solo la civitas con il suo imperium crea uno stato di sicurezza e di regole certe in cui la socialità si può finalmente realizzare; dall’altra proprio
l’espressione di volontà e azioni pubbliche crea uno iato tra rappresentante e
rappresentati. L’agire politico non compete più a tutti gli individui, e ciò proprio a causa del patto, in cui ognuno ha ceduto il diritto alla propria opinione e
alla propria volontà in relazione a ciò che è bene per l’intera società. Intendendo la triplicità di atti che porta alla civitas in senso compiuto come un processo unitario, è come se ognuno esprimesse la volontà di accettare la volontà
del rappresentante come la propria volontà in quanto membro del corpo comune. I rapporti che gli individui avranno d’ora in poi tra di loro si situeranno
nella società, ma avranno un significato privato.
Se si è consapevoli che il contesto del pensiero giuridico-politico di Pufendorf è quello della moderna sovranità, si può superare la meraviglia di chi si
accorge che, nonostante la costruzione contrattuale della persona moralis
composita, Pufendorf scambia la volontà della civitas, in quanto volontà di
una persona sopra-individuale, con la volontà dell’organo sovrano: così il popolo è identificato con il concilium populi nella democrazia e con il re nella
monarchia.58 Ciò non desta meraviglia, perché si tratta di un procedimento logico assai coerente, anche se al suo interno emerge una aporia fondamentale.
Infatti si deve dire non tanto che, “nonostante” la concezione della personalità
della civitas come personalità sopraindividuale fondata contrattualmente sul
concetto di individuo, si ha lo iato della rappresentanza, che comporta
l’identificazione della volontà della persona moralis composita con quella
dell’organo rappresentativo, ma che ciò avviene proprio a causa di quella
concezione dell’unità della persona della civitas, fondata sulla molteplicità
degli individui.
L’identificazione della volontà del popolo con quella del rappresentante è
da Pufendorf chiaramente evidenziata come essenziale alla logica della costruzione teorica. Egli infatti in una pagina assai illuminante del De iure 59 accetta e spiega il paradosso hobbesiano, secondo cui nella monarchia “il re è il
57
Cfr. F. Palladini, “Appetitus societatis” in Grozio e “socialitas” in Pufendorf, “Filosofia politica”, X (1996), n. 1, pp. 61-70 e F. Todescan, Le radici teologiche del giusnaturalismo laico. III Il problema della secolarizzazione nel pensiero giuridico di Samuel Pufendorf, Giuffré, Milano, 2001, sp. cap. II.
58
Tale meraviglia è espressa in da H. Welzel, Die Naturrechtslehere Samuel Pufendorfs,
Walter de Gruyter, Berlin, 1958, tr. it., La dottrina giusnaturalistica di Samuel Pufendorf, a
.
cura di V. Fiorillo, Giappichelli, Torino,
1993, p. 93.
59
Cfr. De iure, VII, 2, 14.
89
popolo”. Per intendere la coerenza di tale espressione bisogna intendere
l’unità che caratterizza il concetto di popolo, e perciò riuscire a comprendere
la distinzione tra il popolo nel senso dell’intera civitas, e la moltitudine dei
sudditi (“nam populus vel notat totam civitatem, vel multitudinem subditorum”). È la mancanza di questa distinzione che comporta i fraintendimenti in
relazione al modo in cui viene pensato l’agire del popolo, ed è sempre tale
mancanza che impedisce di comprendere in cosa consista la logica della rappresentanza moderna. Questo modo di intendere il popolo permette anche a
Pufendorf di criticare quelle posizioni che intendono il popolo come il soggetto che “in omni civitate regnat”. Infatti se si intende il popolo nel primo senso, come coincidente con la civitas, l’affermazione è inutile e tautologica; se
lo si intende nel secondo senso, cioè come l’insieme dei sudditi distinti e contrapposti al re, è falsa. Tenendo invece presente tale distinzione, si può per Pufendorf spiegare il paradosso hobbesiano, in quanto si comprende come la
manifestazione del popolo non passi attraverso la volontà dei molti individui
empirici, che sono sudditi e non “il popolo”, e dunque come nella monarchia
sia il popolo a esprimere l’imperium e la volontà, naturalmente “per voluntatem unius hominis”. Da ciò deriva anche l’impossibilità che il popolo, si ribelli al re, visto che è attraverso il re che esso si esprime: ribellarsi possono solo i
sudditi – ma in questo caso contro la collettività giuridicamente formata, espressa dal rappresentante.
Pufendorf esprime la necessità di intendere attraverso il rappresentante il
soggetto collettivo in modo molto chiaro. Infatti la civitas è “persona moralis
composita... cuius voluntas pro voluntate omnium habetur”.60 E come è pensabile la volontà di questa persona composita? Così risponde Pufendorf: “Sed
hoc demum modo multae voluntates unitae intelliguntur, si unusquisque voluntatem suam voluntati unius hominis aut unius concilii subjciat, ut pro voluntate omnium et singulorum habendum sit, quicquid de rebus ad securitatem
communem necessariis ille voluerit”.61 La logica della rappresentanza politica
moderna non potrebbe essere esposta più chiaramente: ognuno esprime un
unico atto di volontà, che non è politico, ma fonda lo spazio politico, nel quale
egli non agirà – politicamente – più: con questo atto ognuno intende la volontà di un singolo uomo o di una assemblea di uomini come volontà di tutto il
corpo politico, e dunque anche come la sua volontà in quanto membro del
corpo politico. Dopo di che non ci sarà più bisogno di nessun consenso.
Non c’è allora da esprimere nessuna meraviglia in relazione a quello
che sembra a molti interpreti il paradosso che si presenta già con Hobbes: che
60
61
De iure, VII, 2,13.
De iure, VII, 2,5.
90
il popolo c’è a partire dal contratto, ma appena costituito sparisce, per essere
presente solo attraverso colui che lo rappresenta.62 Ciò dipende dal concetto di
rappresentanza, qualora sia inteso nella sua funzione logica: di rendere realmente presente un soggetto collettivo che è pensato a partire non da gruppi e
parti determinate, ma dalla molteplicità indefinita degli individui.
Se la moltiplicazione degli atti contrattuali nella dottrina di Pufendorf si
può leggere nella direzione del tentativo di superare tale iato e di rendere pensabile il problema del controllo, che nel Leviatano di Hobbes è escluso radicalmente, appare tuttavia una contraddizione difficile da superare, ma che è
necessario superare per andare oltre l’assolutezza hobbesiana del potere. Questa consiste nel fatto che gli individui costituiscono il fondamento del potere,
ma quest’ultimo, pur essendo costruito sulla base della loro volontà, una volta
formato, non dipende più dalla loro volontà, che in quanto privata si muove
ormai su di un altro livello, che non incontra più quello pubblico del potere.
Le azioni pubbliche sono le azioni politiche di ognuno, ma solo attraverso
l’azione reale della persona rappresentativa. Questa contraddizione non appare qui risolta, e sembra in ogni caso di difficile o impossibile risoluzione, qualora si rimanga all’interno di questo modo giusnaturalistico di pensare la politica.
La difficoltà è tutta espressa nell’immagine del frontespizio del Leviatano,
a cui sopra si è fatto cenno. Non si manifesta più quella pluralità dell’agire
politico presente nel principio del governo, che comporta la presenza e l’agire
politico dei governanti di fronte a chi governa. Di fronte al sovrano non c’è
più nessuno: i sudditi sono all’interno del sovrano: ne costituiscono il corpo.
La loro volontà politica, mediante il processo di autorizzazione e dunque il
principio rappresentativo, è quella espressa dal sovrano. L’agire politico dei
singoli cittadini sembra allora essere negato alla radice. Innanzitutto il consenso, così importante per una concezione centrata sulla politica come koinonia, perde il suo senso autentico. Infatti non è ciò per cui ai vari livelli politici
si lavora, non consiste nel confluire continuo delle diverse volontà in un agire
62
Cfr. ad es. W. Kersting, la voce Vertrag, Gesellschaftsvertrag, Herrschaftsvertrag, nei
Geschichtliche Grundbegriffe cit, vol. VI, pp. 901-946, per il quale la successiva divisione
del patto hobbesiano in un patto di unione uno di sottomissione va nella direzione della costituzione del popolo come soggetto capace di azione e di contratto (tentativo del resto problematico per la stessa presenza in Pufendorf del principio rappresentativo): “stirbt das Volk bei
Hobbes in derselben logischen sekunden, in der es sich bildet, so verlangt im zweiphasigen
Kontraktualismus des deutschen Naturrechts die staatliche Ordnungsleistung nicht, daß sich
das Volk als Rechtssubjekt selbst vernichtet” (p.925); dello stesso si veda anche il saggio La
dottrina del duplice contratto nel diritto naturale tedesco, in “Filosofia politica”, VIII
(1994), pp. 409-437, e Die politische Philosophie des Gesellschaftsvertrags, Darmstadt
1994.
91
di concerto, ma si esprime piuttosto in un unico atto, che dà luogo ad una
forma in cui al comando – naturalmente di chi è autorizzato, del rappresentante – deve corrispondere l’obbedienza dei cittadini, e ciò non in relazione ai
contenuti del comando, ma per la forma che esso ha come espressione della
legge da parte di chi è autorizzato a farla. Poco senso ha, all’interno di questo
ambito politico, parlare di consenso da parte dei sudditi, che, in quanto sottomessi, non possono né consentire né dissentire, ma piuttosto devono obbedire.
Anche di quella partecipazione politica, che caratterizza il contesto plurale di
Althusius, è qui difficile parlare. Infatti le parti non hanno senso politico e
manca quella pluralità di istanze che permette di avere di fronte qualcuno con
cui si può collaborare. Mediante la costruzione giusnaturalistica c’è insieme
iato radicale tra potere politico e individui, ma anche, grazie alla stessa logica
rappresentativa, identificazione. La volontà del rappresentante, e dunque del
corpo politico, come abbiamo visto, è intesa da tutti, mediante il patto, come
la volontà di tutti e di ciascuno. In quanto la volontà espressa è allora di tutti,
è difficile pensare che i singoli cittadini partecipino ad una volontà politica e
ad un esercizio del potere che già appartiene a loro, e d’altro canto essi si vengono a trovare in un livello di persone private, che, in quanto tali, non possono esprimere azioni politiche.
10. Il popolo contro il rappresentante
Il tentativo più radicale di sfuggire alla logica della rappresentanza politica
è costituito dal pensiero di Rousseau, secondo cui non solo è possibile intendere la volontà del popolo al di fuori della forma rappresentativa, ma è necessario, perché quest’ultima, a causa della particolarità della persona del rappresentante, non può che tradire il vero sovrano, che può essere solo il soggetto
collettivo. La logica del ragionamento porta alla radicale affermazione che la
rappresentanza comporta l’annullamento del popolo come soggetto collettivo:
“à l’instant qu’un peuple se donne des Réprésentants, il n’est plus libre; il
n’est plus”.63 È tuttavia da tenere presente che anche il ragionamento del Contratto sociale si muove all’interno della problematica della sovranità, e dunque del problema moderno dell’unità politica. Per questo anche in esso viene
affermata la necessità della totale alienazione dei singoli in favore del corpo
politico; questa alienazione è necessaria proprio per garantire i diritti dei singoli e la loro uguaglianza, per impedire che qualcuno usi parte del diritto e del
63
J.J. Rousseau, Contrat social, in Oeuvres Complètes, Paris 1964, vol. III, L. III, cap.
XV, p. 431.
92
potere che non ha alienato ai fini di esercitare supremazia sugli altri e che pretenda di essere giudice nel caso di conflitto con gli altri membri del corpo comune.64
Non è nell’attenuazione dell’alienazione dei diritti che Rousseau si differenzia da Hobbes, ma piuttosto nell’indicazione che la libertà dei singoli è garantita dal fatto che la totale alienazione dei diritti non viene fatta in favore di
una persona, come avviene invece non solo nello scenario hobbesiano, ma
anche in quello delle dottrine del contratto sociale che prevedono più atti o più
contratti, ma che, a causa del principio rappresentativo, sono costretti ad intendere effettivamente compiuto il corpo politico quando la persona rappresentativa può conferire ad esso volontà e azione. In Rousseau invece i singoli
alienano i loro diritti, ma nel loro insieme sono anche i destinatari dell’alienazione: danno tutto, ma, tutti insieme, ricevono anche tutto. Essi in tal modo
non sono solo sudditi, ma anche il sovrano; sono cittadini nel senso attivo del
termine: non si limitano ad indicare, attraverso il voto, la persona che esprime
la volontà sovrana, ma – tutti insieme – essi sono il sovrano. Anche in Hobbes, a causa dell’uguaglianza degli uomini, l’alienazione avviene in favore del
corpo politico, ma, come si è visto, in forza del principio rappresentativo ciò
implica, immediatamente, la figura del sovrano-rappresentante, di colui cioè
che impersona il corpo politico, che gli conferisce vita concreta. È proprio
questo principio rappresentativo il vero obiettivo polemico di Rousseau e
l’oggetto della sua critica. La sovranità non può che appartenere al corpo
politico nella sua collettività e non può passare attraverso la mediazione politica di nessuna persona, di nessun rappresentante.65 L’accettare l’affidamento
dell’esercizio della sovranità ad un rappresentante costituisce un atto di folle e
cieca fiducia: anche infatti ammesso che la volontà di qualcuno possa coincidere con quella generale su qualche punto, come è pensabile che tale accordo
sia duraturo e costante? Come ci si può affidare all’espressione della volontà
generale ad opera di una persona particolare, di un rappresentante?66
La sovranità è dunque inalienabile e non è pensabile attraverso la forma
rappresentativa. La volontà generale è quella del corpo sovrano e non può essere delegata a nessuno. Se si può pensare ad un corpo politico costituito, allo
Stato, questo è solo l’aspetto passivo del corpo politico, il risultato di
un’azione, e tale risultato implica il soggetto dell’azione, cioè il corpo politico
64
Cfr. Contrat social, L. I, cap. VI, p. 361.
Naturalmente ben altra cosa è la rappresentanza che Rousseau accetta in seno al potere
esecutivo: qui necessariamente sono persone particolari ad avere il compito di eseguire la
legge: è nell’espressione della legge, della volontà sovrana che non è pensabile la rappresentanza.
66
Contrat social, L.II, cap. I, “la sovranità è inalienabile”.
65
93
nel suo significato attivo, e questo è il sovrano, che non può essere limitato da
alcunché e che è superiore ad ogni costituzione: è l’unico soggetto che può
darsi una costituzione. Da questo punto di vista il corpo sovrano è ormai il
soggetto perfetto della politica, e la sua volontà è sempre buona per definizione, in quanto è la volontà della totalità del corpo politico. Sono ormai scomparsi tutti i punti di riferimento necessari alla gubernatio rei publicae: la volontà è ormai assoluta e la legge non è altro che il suo prodotto: le leggi sono
atti della volontà generale. Ma la conduzione dello Stato abbisogna di tutta
una serie di atti particolari, abbisogna di uno spazio istituzionale, dell’uso della forza che si è costituita. Perciò è necessario il governo, il quale non ha una
sua volontà sovrana, ma è la forza che deve portare a compimento la volontà
emersa nella legge: è potere esecutivo.67
Dal momento che il popolo, nel suo aspetto attivo, è il corpo sovrano, cui
spetta l’espressione della volontà generale e della legge, è comprensibile che
ad esso non possa spettare il governo, che è dedito a scelte e decisioni particolari: la logica del discorso sembra più forte e cogente di quanto emerga dalle
stesse parole di Rousseau, che afferma che “non è bene che chi fa le leggi le
applichi, né che il corpo del popolo distolga la sua attenzione dai problemi
generali per indirizzarla a scopi particolari”.68 Proprio in quanto il popolo è la
totalità di tutti i consociati ed è connotato dall’universalità, esso non può mai
istituzionalizzarsi ed essere racchiuso nello spazio del governo, pena la perdita della sua natura. Esso non è realtà costituita, ma sempre potere costituente,
almeno nel senso della sua attività, non certo in quello passivo in cui esso è
l’insieme dei sudditi. Perciò, una volta che il popolo sia così inteso, si può non
solo dire che la democrazia come forma di governo è una questione poco importante, ma, forse con maggior rigore, che è addirittura improponibile.69
Per intendere tuttavia la forza della logica rappresentativa ci si può interrogare su cosa accada nel momento in cui Rousseau tenta di mostrare il sovrano
all’opera nel momento più alto, quello appunto in cui dà luogo allo Stato, in
cui esprime le leggi costitutive della società. È in questo contesto che si afferma il principio che è poi divenuto un ritornello da tutti ripetuto: “il popolo
67
Contrat social, L. III, cap. I.
Contrat social, L. III, cap. IV, p. 404.
69
Perciò si può spiegare il fatto che colui che è ritenuto il padre della democrazia, nel
suo aspetto più radicale di democrazia diretta, sia critico della democrazia intesa come forma
di governo (cfr. Contrat social, L. III, cap. IV “Della democrazia”). Il problema della democrazia non è più quello antico delle forme di governo: con la nascita del potere, della moderna sovranità, non c’è più governo nel senso antico del termine: dire che il governo è potere
esecutivo, significa indicare che ci troviamo all’interno di un modo radicalmente diverso di
pensare la politica, un modo che è incentrato sul concetto di potere (cfr. su ciò “Considerazioni su democrazia e federalismo”, in La logica del potere cit., pp. 161 ss.
68
94
sottomesso alle leggi deve esserne l’autore”: ritornello che sta alla base delle
costituzioni democratiche. Ma è singolare che proprio nel contesto del pensiero di colui che nel modo più radicale nega che qualcuno possa agire in vece
del corpo politico nella sua totalità, questo principio dell’identità tra il soggetto che obbedisce e quello che dà la legge, mostri la sua aporia radicale. Come
sopra si è ricordato, quando si dice che il popolo è tenuto ad ubbidire in quanto è esso stesso ad esprimere il comando – e in ciò consiste la legittimazione
democratica del potere e la libertà politica – in questa stessa affermazione il
popolo si scinde in entità diverse: il popolo che esprime la legge implica una
unità di volontà che non coincide con quelle particolari dei singoli individui,
dei sudditi, che sono sottoposti alla legge.
Infatti Rousseau si chiede: “come una moltitudine cieca, spesso ignara di
ciò che vuole, perché di rado sa cosa le giova, potrà attuare da sé un’impresa
tanto grande e difficile come un sistema di legislazione? Il popolo da sé sempre vuole il bene, ma non sempre lo vede da sé”.70 Qui il termine “popolo” indica l’insieme dei cittadini che sono sottoposti alla legge. Ma dove è allora il
sovrano che costituisce lo Stato? Nel punto più alto dell’esercizio della sovranità Rousseau inventa – o riprende da altri contesti – una figura, quella del
grande legislatore, di colui cioè che deve compiere l’opera quasi divina di dare le leggi alla città e di costituire la comunità.71 Ancora il problema è quello
di passare dalla individualità isolata di ognuno ad una comunità in cui i singoli hanno una natura sociale: e per questo sembra necessaria l’opera sovrumana
di una persona, di qualcuno che non solo esprima la volontà del sovrano collettivo, ma che dia forma al popolo, che lo istituisca.72
Se si è ben compreso che la logica del principio rappresentativo implica
l’imprescindibilità della mediazione personale del rappresentante 73 per dare
voce unitaria ad un soggetto collettivo composto da innumerevoli individui,
ciò che avviene attraverso la figura del legislatore di Rousseau appare qualcosa di assai vicino alla funzione personale rappresentativa, anche se non si tratta di una rappresentanza intesa nel senso dei poteri costituiti. Anche qui sem70
Cfr. Contrat social, L. II, cap. VI, p. 380.
Cfr. Contrat social, L. II, cap. VII. Per questo e per l’interpretazione di Rousseau rimando a S. Biral, Rousseau, la società senza sovrano, in Il contratto sociale cit., p. 191-236.
72
“Celui qui ose entreprendre d’instituer un peuple doit se sentir en état de changer,
pour ainsi dire, la nature humaine; de transformer chaque individue, qui par lui même est un
tout parfait et solitaire, en partie d’un plus grand tout dont cet individu reçoive en quelque
sorte sa vie et son être; d’alterer la constitution de l’homme pour la refoncer; de substituer
une existence partielle et morale à l’existence physique et indépendante que nous avons tous
reçue de la nature” (Contrat social L. II, cap. VII, p. 381, corsivi miei).
73
Si ricordi che l’etimo di persona esprime la funzione rappresentativa, come ricorda
Hobbes nel XVI capitolo del Leviatano.
71
95
bra cioè necessaria la mediazione personale per dare forma all’unica volontà
di un corpo collettivo, formato cioè da molti individui. Alla radice di ciò sta
un’aporia: come è possibile che compia l’azione determinata di dare una
costituzione, una forma allo Stato un soggetto che non è esso stesso costituito,
che non ha forma? Se il concetto di sovranità del popolo ricade nella storia
delle costituzioni attraverso l’idea del popolo come grandezza costituente,
proprio in relazione a questa difficoltà si mostra necessaria una mediazione
personale per l’espressione di questa sovranità popolare. Come sopra si è visto, la soluzione di Sieyes consiste nel pensare l’operare rappresentativo anche nell’ambito del potere costituente: una forma di rappresentanza speciale
ed eccezionale.
Se ci si chiede il fondamento logico del riemergere di una dimensione rappresentativa al cuore della sovranità rousseauianamente intesa, bisogna ritornare al punto di partenza del pensiero giusnaturalistico. Il fondamento si può
ravvisare proprio nella domanda hobbesiana che inaugura la storia della rappresentanza moderna: come intendere come una una moltitudine di individui.
È il passaggio dal numero indefinito degli individui indifferenziati a richiedere una unità che prenda forma attraverso il principio rappresentativo. In altri
termini l’unitarietà e l’assolutezza della sovranità moderna, così come la sua
alterità in relazione ai cittadini è dovuta proprio al fatto che gli individui, in
quanto tali, costituiscono il punto di partenza della costruzione teorica. È proprio la difficoltà di mediare la molteplicità dei singoli con l’unità del soggetto
collettivo che comporta in Rousseau l’aporia, che si evidenzia con la figura
del legislatore, nella quale ancora l’unità della legge appare come altra nei
confronti della realtà particolare degli individui.74
11. Rappresentare l’idea
Il concetto di rappresentanza politica, nella sua logica e nelle sue difficoltà,
prende una luce particolare dalla riflessione filosofica che si ha nel passaggio
dal XVIII al XIX secolo, a ridosso cioè delle vicende della Rivoluzione francese. La nuova scienza del diritto naturale introdotta attraverso l’insegnamento
di Pufendorf si diffonde dando luogo alla fine del ’700 ad una copiosa pubblicazione di trattati. La logica della costruzione hobbesiana e con essa quella
della rappresentanza politica si diffonde nonostante Hobbes venga spesso a
74
Che la scissione caratterizzi anche la soluzione offerta da Rousseau lo si può riscontrare anche quando, nel Contratto sociale, si parla della scissione tra la volontà particolare
del singolo nei confronti della volontà generale che egli ha in quanto cittadino (L. I, cap.
VII, p. 363).
96
costituire un esplicito obiettivo polemico.75 Ciò coinvolge anche i più rilevanti
filosofi tedeschi, che si riferiscono al pensiero giusnaturalistico, recependone
gli elementi fondamentali e il movimento della costruzione teorica, che sulla
base dei diritti degli individui fonda il diritto di coazione che si manifesta nel
corpo statale. Tuttavia con la riflessione di Kant e di Fichte si assiste anche ad
una radicale complicazione e modificazione del concetto di rappresentanza
quale emerge con Hobbes; e non è un caso che tale riflessione avvenga a ridosso di quel passaggio epocale che è costituito dalla Rivoluzione francese,
poiché, per intendere i problemi e la dialettica che si innescano con la costituzione, il concetto di rappresentanza hobbesiano appare indispensabile ma non
ancora sufficiente. Con Hegel si ha poi esplicitamente il tentativo di superare
l’astrazione e le difficoltà del concetto di rappresentanza, ponendolo su nuove
basi sia da un punto di vista logico che costituzionale.
È innanzitutto a Kant che conviene rivolgere l’attenzione, in quanto il suo
pensiero evidenzia quel superamento dell’identità tra volontà del popolo e espressione empirica della volontà del rappresentante che sembra propria della
posizione hobbesiana. Senza questo passaggio esplicitato da Kant non si può
intendere il concetto di rappresentanza che si manifesta nelle moderne costituzioni. Tuttavia il pensiero di Kant non è riducibile ai principi delle costituzioni, ma opera piuttosto nei loro confronti nel senso di una problematizzazione
filosofica.76
Per intendere tuttavia la forza e il destino della logica emersa con Hobbes
nel nesso tra rappresentanza e sovranità, è da ricordare che questo non è negato da Kant, ma è anzi ripreso in modo che può sembrare sorprendente a coloro
che ravvisano in lui un avversario dell’assolutismo hobbesiano particolarmente rispettoso dei diritti dei singoli e di un senso positivo e partecipativo della
75
Emblematica a questo proposito l’opera di Anselm Feuerbach, Anti-Hobbes, ovvero i
limiti del potere supremo e il diritto coattivo dei cittadini contro il sovrano, tr.it. A. Cattaneo, Giuffré, Milano, 1972. Non è difficile riconoscere quanto della logica costruttiva hobbesiana vi sia in quest’opera, nonostante l’opposizione ad Hobbes indicata nel titolo. Basti ricordare una serie di elementi che determinano il processo razionale fin dall’inizio.
Innanzitutto il carattere teorico della costruzione: non l’esperienza né la storia possono essere di aiuto per il compito a cui l’autore si accinge, ma la scienza. Nel concreto del processo
deduttivo scatta inoltre anche qui la logica del rapporto libertà-potere: una libertà intesa come l’indipendenza di ognuno che deve essere compatibile con quella di tutti gli altri, libertà
per garantire la quale è necessario un patto che non rapporti tra loro soggetti diversi, che rimangono tali, ma che crei qualcosa di nuovo, un soggetto collettivo, un corpo comune a cui
tutti appartengono e a cui dunque devono essere sottomessi. A completare la costruzione sta
la natura di rappresentante propria del sovrano, che, in quanto tale, richiede una ubbidienza
irresistibile.
76
Sulla filosofia del diritto kantiana si veda W. Kersting, Wohlgeordnete Freiheit. Immanuel Kants Rechts- und Staatsphilosophie, Suhrkamp, Frankfurt/M., 1993.
97
cittadinanza. Kant infatti è ben conscio di ciò che implica il principio rappresentativo come necessaria modalità di espressione della sovranità del soggetto
collettivo. È l’antico diritto di resistenza che non appare più invocabile in una
costituzione nella quale il potere non è un’istanza estranea, ma si basa sui diritti propri di tutti gli uomini: è il prodotto di una costruzione teorica che parte
dai diritti. L’argomentazione usata a questo scopo è assai simile a quella hobbesiana, ed è significativo che si trovi proprio in quel paragrafo dello scritto
Sul detto comune: ciò può essere giusto in teoria, ma non vale per la prassi,
che è diretto esplicitamente “contro Hobbes”. Qui infatti è affermata
l’irresistibilità del potere statale, che va ribadita anche quando il capo dello
stato violi il contratto originario e il diritto.77 Non è ammissibile resistenza,
perché questa minerebbe alle radici ogni costituzione civile. L’unità del corpo politico richiede che uno solo sia il giudice in relazione a ciò che è necessario fare per la vita comune, e dunque, in relazione ad una costituzione
civile già esistente “il popolo non ha più alcun valido diritto di giudicare
come essa debba venire attuata”: infatti qualora si ammettesse un tale diritto,
bisognerebbe ammettere un soggetto superiore al popolo e al sovrano per
dirimere l’opposizione che tra questi due si viene a creare. Ma in tal modo ci
si troverebbe nella situazione contraddittoria di ammettere un sovrano sopra
il sovrano.78
Per andare alla radice dell’argomentazione si è aiutati da una famosa nota
della Metafisica dei costumi, in cui si esprime la consapevolezza della
necessità che il soggetto collettivo ha, per essere reale: quella cioè di
manifestarsi mediante un rappresentante o un corpo rappresentativo.
L’elemento rappresentativo è essenziale al modo moderno di intendere la
società politica mediante la forma giuridica. Se il popolo è inteso non come
una massa informe, ma come “una associazione stabilita sotto una volontà
legislatrice generale” (forma politica appunto) la sua volontà si esprime
mediante colui che è autorizzato a farlo: di fronte a costui (il summus
imperans), il rappresentante cioè, non c’è il popolo, ma l’insieme dei sudditi.79
Il popolo cioè, nella sua dimensione collettiva, come soggetto politico, non
può essere pensato di fronte a colui o coloro che lo rappresentano. Anche in
Kant dunque il popolo, come soggetto collettivo, si esprime solo mediante il
77
I. Kant, Über den Gemeinspruch: das mag in der Theorie richtig sein, taugt aber nicht
für die Praxis, in Werke, hrsg. von der königlichen Preussischen Akademie der Wissenschaften, Berlin u. Leipzig, 1923, Bd.VIII, p. 299 (I. Kant, Sul detto comune: questo può essere
giusto in teoria, ma non vale per la prassi, in Scritti di storia, politica e diritto, cit., p. 146).
78
Idem, p. 300.
È illuminante la celebre “nota generale sugli effetti giuridici derivanti dalla natura della società civile” citata nel cap. I, n. 14 del presente lavoro; cfr. su ciò il mio, Logica e aporie della rappresentanza tra Kant e Fichte cit., sp. pp. 34-40.
79
98
rappresentante; allora, accanto alle affermazioni che identificano il popolo con
il sovrano, o che attribuiscono al popolo – più esattamente, al vereinigter Wille
des Volkes 80 – il più alto potere, quello legislativo, troviamo passi che parlano
del “sovrano del popolo (il legislatore)” (der Beherrscher des Volkes – der
Gesetzgeber),81 o del “supremo legislatore dello stato” (das gesetzgebende
Oberhaupt des Staates).82 L’apparente contraddittorietà di tali affermazioni si
risolve se si è consapevoli della logica del principio rappresentativo. Tali
affermazioni si trovano in un contesto in cui si nega la possibilità della
resistenza del popolo, a cui pur spetta idealmente l’imperium, nei confronti di
colui che di fatto esercita il potere collettivo.
Tuttavia se ci si fermasse a ciò, e cioè al necessario passaggio del soggetto
collettivo attraverso la mediazione personale rappresentativa, saremmo ancora
fermi alla posizione hobbesiana e non si intenderebbe ancora il modo kantiano
di porre il problema della rappresentanza. Nello stesso paragrafo “contro
Hobbes” emerge il piano nel quale Kant si distanzia dal suo avversario: quello
della rivendicazione della libertà di penna, cioè della pubblica opinione. La
consapevolezza del piano ideale in cui si colloca la volontà generale e la stessa figura del contratto sociale, comportano l’indicazione del senso di responsabilità che caratterizza il rappresentante, che deve essere illuminato da quella
ragione che viene alla luce nella sfera pubblica, la sfera che lega il filosofo al
suo pubblico.83 Ciò potrebbe sembrare poca cosa in relazione alla possibilità
dei controllo effettivo dell’esercizio del potere da parte del popolo (cosa per
altro difficilmente pensabile in seno alla costituzione, come si vedrà a proposito dello stesso Fichte), ma in realtà comporta un mutamento notevole di prospettiva: non si tratta cioè solo di produrre empiricamente un’unica volontà,
cioè la legge, i cui contenuti non sono giudicabili, ma si tratta di riferirsi alla
ragione, di rappresentare una dimensione razionale, a cui governanti e sudditi
devono guardare e che non è frutto dell’arbitrio, né degli uni né degli altri.
Nella costruzione hobbesiana il rapporto di rappresentanza è totalmente risolto nella forma a cui dà luogo il processo di autorizzazione: il fatto che la
volontà del soggetto collettivo non possa essere espressa che da colui che lo
80
Rechtslehre, Ak. Aus., VI, § 46, 313 (tr., it. 142).
Rechtslehre, Ak. Aus., VI, § 49, 317 (tr., it. 147).
82
Rechtslehre, Ak. Aus., VI, 320 (tr. it., 150).
83
Cfr. sul ruolo della critica e dell’opinione pubblica i noti saggi di R. Koselleck, Critica illuministica e crisi della società borghese cit., e J. Habermas, Storia e critica
dell’opinione pubblica cit., pp. 127 ss. È sul significato della razionalità e della filosofia e
sulla funzione dell’idea e del dovere che lo spirito repubblicano manifesta in Kant una radicale novità in rapporto a Hobbes e al diritto naturale: ciò non sembra tuttavia comportare un
modo radicalmente altro di intendere la costituzione della societas civilis o dello Stato.
81
99
impersona, che lo rappresenta, ha per conseguenza che la volontà espressa dal
rappresentante è immediatamente la volontà del popolo. Non c’è nessuna eccedenza della volontà dell’essere collettivo nei confronti della sua espressione
empirica attraverso il rappresentante sovrano. Così non è in Kant. Il fatto che
il vereinigter Wille des Volkes, in quanto grandezza ideale, debba passare
at- traverso la mediazione rappresentativa, non significa che si identifichi
con l’espressione empirica della volontà comune da parte del rappresentante
(chiunque esso sia, a seconda della forma dello Stato: il monarca, i pochi o
tutto il popolo). Non abbiamo qui un meccanismo procedurale legittimante,
sia pure ideale, quello proprio della figura del contratto sociale, che, partendo
dalla volontà dei singoli, autorizza l’espressione della volontà comune da parte del rappresentante. “Autorizzare” significherebbe che ognuno non può che
ritenere come propria la volontà del rappresentante in ragione della autorizzazione, senza cioè poter giudicare di volta in volta i contenuti della rappresentazione, cioè i contenuti del comando di chi legittimamente lo esprime. In
Kant, al contrario, è necessario che il rappresentante guardi alla ragione e alle
sue leggi, che non dipendono da un semplice gioco degli arbitri.
Bisogna allora ricordare la distinzione che Kant opera tra, arbitrio e volontà. Senza intervenire qui sul problema delle possibili oscillazioni di Kant in
relazione alla concezione della libertà come scelta e a quella dell’autonomia
della volontà, intesa come la sua dipendenza dalle leggi razionali,84 mi pare
sia da sottolineare non solo la differenza della volontà dall’arbitrio, ma anche
il rapporto reciproco delle due nozioni. Nell’arbitrio troviamo il concetto negativo di libertà: cioè l’indipendenza nei confronti di ogni impulso sensibile.
Tale indipendenza può comportare nell’ambito fenomenico dell’esperienza il
suo uso in direzioni contrapposte. Ma ciò non costituisce un fondamento razionale della costruzione giuridica: non è questa indipendenza a costituire la
libertà dei singoli che sta a fondamento della volontà comune. Per questo
Kant nega che la libertà dell’arbitrio, concettualmente, consista nella
possibilità indifferenziata di scelta. Nei confronti della libertà questa
possibilità di scelta ne mostra solo il lato negativo, quello cioè
dell’indipendenza dall’istinto e dalla serie delle cause naturali.
Il concetto positivo di libertà consiste nella facoltà della ragion pura di essere per se stessa pratica.85 La volontà è da Kant riferita alla legislazione della
ragion pratica. È essa che riempie lo spazio vuoto dell’arbitrio e cioè la capacità di autodeterminarsi da parte dell’uomo. La libertà indica dunque
84
Cfr. su ciò S. Landucci, Sull’etica di Kant, Guerini, Milano, 1994.
Cfr. Rechtslehre, Ak. Aus., VI, pp. 213-214 (tr. it., p. 14), e Kritik der praktischen
Vernunft, Ak. Aus. V, 33, (tr. it. F. Capra, riv. E. Garin, Laterza, Bari, 1966, p. 42).
85
100
l’autonomia della volontà, la capacità cioè della volontà di determinarsi in
modo indipendente dalla causalità naturale, a partire dalle leggi della ragione.
L’azione umana dipende dall’autonomia della volontà, la quale si manifesta
come attività, come spontaneità in rapporto alle azioni: in ciò consiste la libertà, altrimenti la volontà sarebbe solo un mezzo mosso da un’altra causa, sarebbe dipendente e non essa stessa causa indipendente dunque libera.
La differenza da Hobbes risulta chiaramente se si pensa che la libertà consiste per quest’ultimo nel fatto che la volontà non abbia ostacoli, e ciò non esclude che essa sia l’ultimo anello di una serie di cause meccaniche – da questo punto di vista la libertà risulta totalmente compatibile con la necessità.86
Ma ancor più rilevante è il fatto che in Kant l’indipendenza che caratterizza la
volontà non la collochi in uno spazio vuoto, in cui ogni elemento materiale è
possibile, ma piuttosto la faccia dipendere dalle leggi della ragione, senza cui
non c’è libertà.
È allora necessario ricordare il ruolo che svolge in Kant l’idea per la dimensione pratica dell’agire. Non solo l’idea è necessaria per intendere l’esperienza
morale, pur non essendo un momento dell’esperienza,87 ma è anche produttiva
nella realtà: è cioè fonte dell’agire e del miglioramento delle azioni umane. In
questo contesto infatti è indicata come idea necessaria “una costituzione che
miri alla maggior libertà umana secondo leggi, che facciano che la libertà di
ciascuno possa coesistere con quella degli altri”. Una costituzione che sia secondo il diritto e che promuova la libertà è dunque un’idea della ragione, che
deve ispirare sia il primo disegno di una costituzione politica, sia le leggi ordinarie emanate da chi esercita il potere. Non si tratta tanto di un modello da
attuare, poiché tale costituzione, come pure la libertà, non sono riducibili alla
fis- sità del modello. Si tratta piuttosto della produttività dell’idea
nell’esperienza, della sua capacità di operare e di muovere all’azione.
Il carattere ideale della libertà e della costituzione repubblicana 88 mostra
un superamento della logica semplice della rappresentanza. Non è sufficiente
86
Cfr. Leviatano, XXI, 176.
K.r.V., Ak. Aus., III, 247 (tr. it., 306-307 ); qui viene fatto l’esempio dell’idea di virtù,
che, anche se non è raggiungibile in modo adeguato dall’agire umano, è tuttavia necessaria
per ogni giudizio sul valore o sul non valore morale. È all’idea di libertà che si riferisce Kant
in apertura della trattazione delle idee nella Critica della ragion pura, e in modo significativo alla repubblica di Platone, nella quale non è certo possibile intendere l’affermazione del
moderno concetto di libertà degli individui. Questo rimando mostra come la libertà non sia
riducibile alla semplice espressione dell’arbitrio, sia pure di un arbitrio che non nuoce agli
altri. K.r.V., Ak.Aus., III, 247 (tr. it., 306-307); qui viene fatto l’esempio dell’idea di virtù,
che, anche se non è raggiungibile in modo adeguato dall’agire umano, è tuttavia necessaria
per ogni giudizio sul valore o sul non valore morale.
88
Cfr. per uno sviluppo di ciò, il mio La libertà moderna cit., che qui in parte riprendo.
87
101
che il rappresentante sia eletto per essere autorizzato ad esprimere la volontà
del corpo comune: la sua capacità rappresentativa deve costantemente riferirsi
al piano ideale della ragione che è comune per governanti e governati, e non
dipende dal loro arbitrio. Se non si intende il ruolo di tale piano ideale, si è
tentati di risolvere l’idea della costituzione che tende a promuovere la libertà
in una costruzione formale, segnata da regole procedurali, come è avvenuto
nel cammino delle moderne costituzioni.89 In tal caso però la libertà viene ridotta all’arbitrio dei singoli, il quale dovrebbe esplicarsi a livello politicocostituzionale mediante l’elezione, e dovrebbe comportare quella compossibilità che è garantita dall’ordine prodotto dalle leggi, dal comando irresistibile
che è proprio della sovranità. Ma le regole procedurali e la costruzione formale non permettono di interrogarsi sull’eccedenza dell’idea di cui parla Kant.
La compossibilità degli arbitri dei singoli non è garanzia della autonomia della loro volontà, cioè del loro vivere secondo le leggi della ragione, essendo
essi causa della loro azioni.90 A tale libertà di tutti tende l’idea di costituzione,
ma tale libertà non è riducibile all’espressione libera dell’arbitrio di tutti, né a
quell’espressione efficace dell’arbitrio dei singoli che consiste nel voto.
Due sono gli aspetti da evidenziare. Il primo – che si manifesta anche nella
dialettica democratico-rappresentativa delle costituzioni moderne – consiste
nella necessità che ha il corpo rappresentativo, anche e proprio in quanto liberato da mandati vincolanti, di riferirsi alla sfera della pubblica opinione e alle
istanze emergenti nella società. Il secondo – che è intrinseco al nucleo filosofico del pensiero kantiano – esclude tuttavia che tale sfera della pubblica opinione sia riducibile alle opinioni prevalenti che empiricamente emergono: è
piuttosto all’esercizio della ragione e alla riflessione sul significato ideale della libertà che l’agire rappresentativo si deve riferire.
La concezione kantiana dell’idea di costituzione non permette uno slittamento nella direzione della legittimità consistente in procedure costituzionali
empiricamente presenti. L’idea di repubblica non è risolvibile in un meccanismo costituzionale – quello che si intende comunemente come democratico,
in cui tutti partecipano al voto eleggendo i rappresentanti che esercitano il potere comune – che possa, in quanto tale, legittimare l’esercizio del potere. Se
si potesse dare una tale traducibilità dell’idea, verrebbe assolutizzato
l’elemento dell’arbitrio del singolo e della sua espressione: la libertà sarebbe
di per sé attuata dalla semplice esistenza di procedure in cui tutti votano, al di
89
Molte sono le interpretazioni che riducono il pensiero kantiano al senso comune civico
che si esprime nelle costituzioni democratiche contemporanee.
90
Sulla irriducibilità della volontà all’espressione dell’arbitrio dei singoli in relazione
all’idea di contratto originario, cfr. G. Rametta, Potere e libertà nella filosofia politica di
Kant, in G. Duso, Il potere cit., pp. 259-260.
102
là del contenuto della volontà espressa e al di là della capacità dell’arbitrio di
veicolare una volontà veramente autonoma;91 ma altro è il concetto di libertà
kantiano.92
È lo stesso principio rappresentativo che, nella traduzione al giorno d’oggi
diffusa, del pensiero kantiano nelle procedure democratiche, rischia di andare
travisato. Infatti esso assumerebbe il senso dell’autorizzazione espressa dal
voto dei singoli: tale autorizzazione sarebbe una legittimazione a priori della
volontà espressa dai rappresentanti. La nota frase dello scritto Sulla pace perpetua che vede compatibile, se non addirittura logicamente collegate, la riduzione del numero di coloro che esercitano il potere (i rappresentanti) con
l’elevato grado della rappresentatività,93 non sembra far dipendere la rappresentatività dall’espressione dei voti da parte di tutti, ma coglie l’alterità –
propria della rappresentanza moderna – della volontà comune che viene rappresentata nei confronti delle volontà dei singoli. Ma ciò che per il nostro ragionamento appare più rilevante è il rapporto che il principio rappresentativo
ha con l’idea. La rappresentatività di chi esercita il potere non si risolve nella
strana forma moderna del mandato libero, che, per essere veramente legittimante, deve essere tendenzialmente espresso dalla totalità degli individui; essa piuttosto consiste nel fatto che lo Herrscher non è padrone del pensare e
agire pubblico, e neppure è semplice tramite della volontà empirica dei singoli, ma deve riferirsi all’idea di libertà, deve appunto rappresentarla e lavorare
91
Con ciò non si vuole sostenere l’immagine di un Kant conservatore, o negare l’atteggiamento concettualmente positivo nei confronti di quel grande evento che è la rivoluzione,
soprattutto per ciò che concerne il giudizio pubblico. Il problema non consiste tanto in una
possibile opposizione di Kant all’estendersi di procedure costituzionali di tipo “democratico”, ma piuttosto nel sottolineare la non riducibilità del nucleo filosofico contenuto nell’idea
di libertà e nell’idea di costituzione repubblicana a tali procedure e alla neutralizzazione della questione della giustizia che l’assolutizzazione della volontà dell’individuo, nel senso del
libero arbitrio, comporta. In altri termini, mi sembra che non si possa ridurre, come spesso
oggi si fa, la filosofia pratica di Kant al senso comune civile contemporaneo.
92
Landucci collega la libertà in senso positivo ad un antico concetto di libertà, cioè allo
status di una persona in termini di valore (La critica della ragion pratica di Kant, La nuova
Italia, Firenze 1993, p. 78). Si può in questa direzione dire che non coincide in ogni caso con
l’espressione incondizionata del proprio arbitrio, come può essere pensabile in un orizzon- te
che, neutralizzando ogni ordine delle cose e la stessa questione della verità, assolutizza la
volontà empirica.
93
“Si può quindi affermare: quanto più piccolo è il numero di coloro che impersonano il
potere dello Stato (das Personale des Staatsgewalt, il numero cioè di coloro che esercitano il
potere), e quanto più grande è di contro la loro rappresentatività (Repräsentation), tanto più
la costituzione dello Stato si accorda con la possibilità del repubblicanesimo, e può sperare,
attraverso graduali riforme, di elevarsi, infine, fino ad esso” (Z.e.F, Ak. Aus. VIII, 353, traduzione mia).
103
all’innalzamento di tutti ad una dimensione di libertà, fare le leggi che favoriscano la libertà di tutti.94
12. Il controllo dei rappresentanti e la rivoluzione
Anche nella riflessione matura di Fichte, quella degli anni dell’800, si assiste ad una complicazione filosofica del modo giusnaturalistico di intendere il
nesso sovranità-rappresentanza, che egli ha ripreso nello scritto sul Diritto naturale.95 Tuttavia, dal momento che non è la radicalizzazione filosofica propria dei pensatori tedeschi a sedimentarsi nei principi delle moderne costituzioni, ma lo sono piuttosto gli elementi semplici della costruzione teorica che
dà luogo alla forma politica moderna, appare particolarmente istruttivo soffermarsi sulle pagine fichtiane del Naturrecht, che hanno la straordinaria capacità di accogliere e nello stesso tempo di forzare la costruzione moderna sino all’evidenziazione delle sue aporie costitutive.96
Si può valutare fino in fondo il movimento di pensiero fichtiano se si è
consapevoli del fatto che esso si muove all’interno della comprensione della
natura del principio rappresentativo moderno. Altrimenti si prendono per valide e ragionevoli soluzioni che lo stesso Fichte scarterà con il maturarsi del suo
pensiero: sia quella degli Efori quale strumento costituzionale, sia quella della
rivoluzione come reale possibilità di impedimento dell’ingiustizia da parte del
potere costituito. La mancanza della consapevolezza qui indicata comporta
anche l’impossibilità di comprendere il motivo della complessità del ragionamento con cui Fichte tende ad impostare il problema del controllo
dell’esercizio del potere affidato al corpo rappresentativo, che egli chiama e94
È questo piano di rappresentatività, consistente nel riferimento alla ragione e alle sue
leggi, e non l’espressione del voto, che mi sembra collegare, in Kant, coloro che esercitano il
potere, con i delegati che difendono i diritti del popolo, con i cittadini che esercitano il voto e
anche con coloro che sono semplicemente Staatsgenosse, senza avere diritto di voto si ricordi per altro che tale termine non è di poco significato, se è vero che è proprio di una concezione repubblicana il fatto che colui che esercita il potere si intenda come Staatsgenosse). È
il piano della ragione e della sua pubblicità, a costituire l’ambito di riferimento per
l’espressione empirica della volontà pubblica e per quella delle volontà individuali. Non si
ha cioè quella riduzione all’espressione di volontà (dei singoli e del sovrano) che caratterizza
la formalità della costruzione razionale di Hobbes. L’agire rappresentativo si riferisce alla
ragione, all’eccedenza dell’idea della libertà, che si manifesta in quella sfera pubblica, assente in Hobbes, delimitata dalla filosofia e dal suo pubblico.
95
Cfr. G. Duso, La philosophie politique de Fichte: de la forme juridique à la pensée de
la pratique, in “Fichte-Studien”, Bd. 16 (1999), pp. 191-211.
96
Per una trattazione più ampia del pensiero fichtiano contenuto nel Naturrecht, cfr. G.
Duso, Libertà e Stato in Fichte: la teoria del contratto sociale, in Il contratto sociale nella
filosofia politica moderna cit., pp. 273-310, saggio che qui in parte si riprende.
104
secutivo e che contiene in sé, in modo unitario, i poteri dello Stato, che non
possono andare divisi.97
Da una parte egli riconosce, in linea con la nuova scienza del diritto naturale, la compossibilità di libertà e potere coercitivo, in quanto solo la presenza
di un potere comune superiore alle forze degli individui (la Übermacht propria del corpo politico), può permettere di pensare alla realizzazione del diritto
e alla salvaguardia della libertà dei singoli. Dall’altra egli concorda con Kant
sulla necessità che questo potere non possa essere esercitato immediatamente
dalla comunità, ma debba essere affidato ad un singolo o ad un corpo.98 Ciò
significa porre alla base del potere statale il principio rappresentativo, contro
il concetto di democrazia diretta in senso stretto. Dal momento che nella comunità sta l’ultimo giudice nei confronti dell’amministrazione del potere, se
la comunità esercitasse direttamente il potere, sarebbe giudice sulla propria
causa.99 Il potere statale sarebbe perciò assoluto e arbitrario e mancherebbe di
quella responsabilità che è connaturato all’elemento rappresentativo, senza il
quale non si ha che dispotismo.
Come si può notare, anche Fichte condivide quella dialettica della rappresentazione che Kant ha illuminato, secondo la quale il potere esecutivo, o il
corpo rappresentativo è responsabile nei confronti del popolo. Ma il problema
che Fichte si pone, a differenza di Kant, è quello del reale esercizio del controllo del potere da parte del popolo. Il problema non è di semplice soluzione,
dal momento che l’esclusione dell’uso diretto del potere da parte della comunità è legato non ad una opzione arbitraria, ma alla difficoltà logica consistente nel pensare l’esercizio del potere da parte di un soggetto collettivo composto da una molteplicità indefinita di individui, e ancor prima nel riuscire a
pensare questo stesso soggetto come un soggetto realmente esistente. È denso
di significato il fatto che nel Naturrecht Fichte affermi che tutto il suo procedimento consiste in una “strenge Deduktion der absoluten Notwendigkeit einer Repräsentation aus reiner Vernunft”.100 Perciò, se è vero che solo il popolo nel suo insieme può esercitare il controllo del corpo rappresentativo, è
97
La legislazione, in quanto riguarda il diritto che deve essere portato ad esecuzione, è
una parte della stessa esecuzione (Cfr. J.G. Fichte, Grundlage des Naturrechts nach den
Prinzipien der Wissenschaftslehre (1796-97), Gesamtsausgabe der Bayerischen Akademie
der Wissenschaften (GA), hrsg R. Lauth u. H. Jakob, Mitwirkung R. Scottkhy, Frommann,
Stuttgart-Bad Cannstatt 1966, I, 3, 428 (tr. it. a cura di L. Fonnesu, Laterza, Roma-Bari
1994) e ancora: potestas judicialis et potestas executiva in sensu strictiori, appartengono
entrambe alla potestas executiva in sensu latiori (I, 3, 435, tr. it. 138).
98
Cfr. la recensione di Fichte allo scritto kantiano Sulla pace perpetua (Sammtliche
Werke, hrsg. I. Fichte, De Gruyter, Bonn 1934-35, Bd. VIII, p. 432.
99
Cfr. Naturrecht, GA, I, 3, 438-39 (tr. it. p. 142).
100
Cfr. Naturrecht, GA, I, 3, p. 439. (tr. it. p. 143).
105
altrettanto vero che la difficoltà consiste nel rintracciare la possibilità di manifestazione concreta del popolo come soggetto collettivo al di fuori e al di là
dell’agire del corpo rappresentativo.
La domanda che Fichte si pone: “dove è… la comunità, e cos’è (wo ist…
die Gemeine, und was ist sie)”101 non è retorica, ma nasce dalla consepovolezza che, non appena realizzato il contratto politico, la nascita della dimensione
collettiva è contemporanea al suo esprimersi rappresentativo e alla dimensione di persone private, che caratterizza tutti i membri dello Stato, i quali diventano, nei confronti del tribunale del potere pubblico, un aggregato di sudditi
(Aggregat der Untertanen). Come si può intendere, anche per Fichte la costruzione della dimensione giuridica della comunità politica (forma politica
moderna) comporta l’esistenza di un corpo che è autorizzato ad esprimere la
volontà comune. Ma allora, per pensare alla reale presenza di quella comunità
originaria bisogna riuscire a attingere nuovamente la sua volontà al di là di
quella espressa dal corpo rappresentativo con cui quella volontà si è identificata nel momento stesso di costituzione dello Stato.
Dal momento che solo la comunità potrebbe riconvocarsi e dichiarasi costituita al di là dell’espressione della costituzione statale a cui ha dato luogo,
ci si trova di fronte alla contraddizione che si può esprimere in questo modo:
la volontà della comunità si può separare dalla espressione di essa che avviene
secondo la modalità rappresentativa solo se è costituita, ma in realtà essa si è
dissolta nella costituzione dello stato; essa deve dunque dichiararsi costituita,
ma, dal momento che essa sola può porre in atto questa proclamazione, essa
“dovrebbe essere comunità prima di esserlo, il che è palesemente contraddittorio”.102
Non è possibile in questa sede seguire la complessa articolazione del ragionamento fichtiano. Si può innanzitutto ricordare che il tentativo è in prima
istanza quello di prevedere nello stesso l’atto originario della costituzione un
organo, l’Eforato, che abbia il compito di riporre in essere quella comunità
originaria, di riconvocarla. Per fare ciò esso non possiede una facoltà positiva
di espressione della volontà comune e dunque di esercitare il potere, ma piuttosto la funzione di sospendere in toto l’attività dell’esecutivo e dunque la sua
funzione rappresentativa: solo negando che essa coincida con la volontà del
popolo, la esprima, la rappresenti appunto, è possibile ridare esistenza al popolo riconvocandolo. Gli Efori non costituiscono allora una figura superiore
che possa giudicare l’esecutivo in quanto esprime la vera volontà del popolo:
ciò darebbe luogo alla contraddizione del sovrano superiore al sovrano. Essi
101
102
Cfr. Naturrecht, GA, I, 3, p. 446-447 (tr. it. p. 151).
Naturrecht, GA, I, 3, 447. (tr. it. p. 151).
106
hanno solo la possibilità di sospendere il potere dell’esecutivo e la sua funzione rappresentativa, per permettere la convocazione del popolo.
Due considerazioni si possono fare in relazione a questo tentativo di una
seconda forma di rappresentanza. Innanzitutto che sempre di una modalità di
agire rappresentativo si tratta: la possibilità di sospensione dell’esercizio del
potere e dunque la dichiarazione che l’azione dei rappresentanti non coincide
con quella del popolo avviene attraverso l’operare di persone particolari, a ciò
incaricate. Solo mediante esse c’è la possibilità che sia convocato il popolo e
questi si esprima avvallando l’operato degli efori e dando luogo ad un altro
esecutivo. La comunità è cioè messa in forma attraverso la chiamata da parte
degli Efori, e ciò non la mette in grado di agire direttamente, ma le consente
di esprimere un nuovo corpo rappresentativo.
L’evocazione poi di antiche istituzioni, quali quella dei tribuni della plebe,
a cui Fichte direttamente si richiama, o quella degli Efori della Politica di Althusius, non deve provocare fraintendimenti. In quest’ultimo la rappresentanza degli Efori è manifestazione della pluralità di istanze che caratterizzano il
mondo cetuale, ed è il mezzo che permette al popolo, in quanto realtà costituita attraverso le sue istituzioni, di esistere realmente di fronte all’azione di governo del sommo magistrato. La riflessione fichtiana sulla rappresentanza si
colloca invece all’interno della concettualità moderna dell’unità politica, che
non consente una pluralità di soggetti politici e decidenti, né una effettiva pluralità di poteri. La funzione dell’Eforato non è quella di esprimere in positivo
un potere con cui la prima rappresentanza debba fare i conti, ma piuttosto di
permettere il controllo sul potere e l’emergere della volontà del popolo mediante un nuovo corpo rappresentativo: tale funzione è sempre in direzione
dell’espressione della volontà unica del corpo politico.
Uno dei motivi per cui Fichte in seguito abbandonerà il ricorso alla figura
dell’Eforato è quello costituito dalla difficoltà logica di pensare al controllo
dei controllori, o alla costrizione del corpo che è autorizzato a costringere, ad
esercitare cioè la coazione statale.103 Ma una tale difficoltà si presenta anche
nell’itinerario dello scritto sul Diritto naturale, in quanto la riflessione sul
103
Tale difficoltà è espressa nitidamente nella cosiddetta Rechtslehre del 1812, dove
viene indicata la consapevolezza che la volontà sovrana esercita su tutti la costrizione senza
poter essa stessa essere costretta (J.G. Fichte, Rechtslehre, ed. Schottky, Felix Meiner, Hamburg 1980, p. 152). Se si ammettesse di poter costringere il sovrano si sfocerebbe in una contraddizione senza fine, in quanto si riproporrebbe all’infinito (ins unendliche) il problema di
costringere colui che ha il compito di costringere (p. 150). Sulla impossibilità di risolvere il
problema in cui questo Fichte si trova immerso, di avere cioè un rapporto garantito tra il diritto e la forza che lo realizza, o, in altri termini di garantire il controllo del custode della
legge mediante la figura di un custode del custode, si veda C. Schmitt, Der Wert des Staates
und die bedeutung des Einzelnen, Mohr, Tübingen 1914, p. 83.
107
controllo all’interno dei meccanismi costituzionali si interrompe in seguito alla constatazione che se il tradimento della volontà del popolo si può manifestare nel corpo esecutivo, a causa della particolarità che connota pur sempre le
persone che esercitano rappresentativamente il potere, un simile tradimento
può coinvolgere anche gli Efori: esso cioè è sempre possibile in una dimensione rappresentativa, grazie all’alterità e ulteriorità della volontà generale nei
confronti delle persone che devono esprimerla. Di fronte ad una tale possibilità non resta che un’unica via, quella della rivoluzione, a cui Fichte vuole mantenere aperta la via.104
Una tale apertura alla rivoluzione crea però difficoltà ad un sapere che intenda fondare razionalmente, su base formale e giuridica, lo Stato e il potere
necessario alla vita in comune degli uomini. Una tale apertura costringe infatti
a pensare alla scissione sempre possibile di giustizia formale e giustizia materiale, una giustizia che non si identifica con l’obbedienza da parte di tutti a chi
è da tutti autorizzato ad esprimere il comando e cioè la legge. Se di fronte al
potere ingiusto si invoca la giustizia da un punto di vista materiale, e dunque
l’eccedenza di un vero diritto nei confronti del meccanismo formale che a partire dalla libertà degli individui e dalla loro volontà, porta all’esercizio rappresentativo del potere comune, ben si comprende come si presenti il problema di
chi sia il giudice e dunque un’aporia all’interno della riduzione della giustizia
al rapporto tra diritto e forza che lo attua, a cui lo stesso Fichte sembra lavorare nell’ambito della dottrina del diritto naturale.
Ma, in relazione all’imporsi della logica rappresentativa, è qui da ricordare, il modo in cui Fichte intende lo scoppio della rivoluzione. Dopo aver avanzato una prima possibilità, che tutto il popolo cioè insorga di fronte
all’ingiustizia “come un sol uomo”, riconosce la difficoltà di una tale eventualità; se si pensa alla diversità delle opinioni umane e ai problemi fino a qui esaminati relativi all’azione di un soggetto collettivo, si può intendere come,
forse, impensabile una tale eventualità, cioè che tutti agiscano come una sola
persona. Quella che è credibile è invece l’altra via: che qualcuno chiami gli
altri a sollevarsi e che in seguito a questa chiamata si costituisca un’azione unitaria del popolo. Non importa qui ricordare che il potere legalmente costituito ha il diritto e il dovere di punire i rivoltosi e che, se i rivoluzionari non sono
104
In seguito la figura dell’eforato sarà direttamente legata al fenomeno rivoluzionario,
ma Fichte avrà dubbi ben maggiori sulla rivoluzione di quelli nutriti nel periodo jenese: la
rivoluzione gli apparirà non come una semplice rottura nei confronti della forma politica esistente, ma, nello stesso tempo la creazione di una nuova forma, che non elimina il carattere
assoluto del potere statale, ma lo rafforza, sulla base della pretesa di aver instaurato una forma finalmente giusta e della necessità di preservare tale forma da una nuova rivoluzione (Rechtslehre, p. 154).
108
seguiti dal giudizio e dall’azione popolare, ricongiungendo ciò che è materialmente giusto con la forma giuridica, anche se hanno ragione, sono puniti
sulla base del diritto formale e restano dei martiri. Ciò che maggiormente rileva è invece sottolineare la necessaria funzione di chi chiama il popolo alla rivoluzione. Per essere precisi si deve dire che coloro che sono chiamati alla rivoluzione sono i cittadini che sono sudditi, in quanto sono in presenza
dell’esercizio legittimo del potere statale. Diventano popolo in seguito e mediante la chiamata, unificando la loro azione e dando luogo alla presenza reale
della comunità di contro alla sua espressione rappresentativa.
Ben si comprende che tutto ciò riprende la tematica della tensione esistente
tra l’espressione diretta del popolo e la sua manifestazione attraverso l’azione
rappresentativa, di cui si è parlato a proposito della Rivoluzione francese. Ma
è significativo ricordare che i rivoluzionari sono chiamati da Fichte Efori naturali, quasi ad indicare la loro funzione rappresentativa. Infatti è la loro
chiamata e la loro azione che consente alla moltitudine indeterminata degli
individui di dare un’unica risposta, di manifestarsi come un solo soggetto. È
la loro chiamata che permette l’esprimersi del popolo, che mette in forma unitaria la molteplicità dispersa dei singoli individui. Anche nel momento in cui
si tenta di fare emergere la vera volontà del popolo al di là della sua rappresentazione mediante gli organi previsti dalla costituzione, proprio in quanto il
punto di partenza di questa entità collettiva è costituito dagli individui isolatamente considerati, appare necessaria una messa in forma unitaria della molteplicità, una messa in forma che appare tipica del modo moderno di intendere
la rappresentatività del corpo politico, sia pure, in questo caso della rivoluzione, contro la rappresentanza costituzionale che esercita il potere. È tuttavia da
chiedersi se anche in questa manifestazione diretta della volontà del popolo,
proprio per l’alterità che si determina tra questa volontà unitaria e la molteplice volontà privata dei singoli cittadini, non si crei uno iato difficilmente colmabile tra politico e privato tra volontà generale e volontà particolare, tra unità politica e molteplicità delle volontà private.
13. La rappresentanza politica tra unità e complessità
Il breve itinerario attraverso la riflessione filosofica tedesca sul concetto di
rappresentanza politica nel periodo immediatamente a ridosso della Rivoluzione francese ci ha permesso di intendere da una parte la forza di quella logica che nasce con il pensiero moderno della sovranità e dall’altra anche le aporie che in essa si manifestano. L’aspetto filosofico della riflessione di Kant e
di Fichte consente di problematizzare un significato della legittimità dell’uso
109
del potere che si riduca alla formalità delle procedure di autorizzazione che si
esprimono nel voto. Una tale legittimità infatti è legata ad un processo di neutralizzazione del problema della verità e della giustizia: quanto più questo
problema riemerge, tanto più la ragione appare porre dei compiti che travalicano la formalità della costruzione della moderna scienza politica e rendono
debole ed aporetica la soluzione della vita in comune degli uomini da essa
proposta.
Tuttavia nell’epoca della nascita delle costituzioni moderne sono proprio i
principi del giusnaturalismo e gli aspetti formali della costruzione ad avere
una loro ricaduta. Ciò è particolarmente evidente per il concetto di rappresentanza politica, intesa come modo di espressione della volontà del popolo, che
si basa sull’autorizzazione espressa mediante le elezioni, come pure per la
concezione, a quel concetto opposta, dell’espressione diretta della volontà popolare. Anche questa ha una ricaduta nelle moderne costituzioni, sia
nell’indicazione del popolo come grandezza costituente, sia nel problema riguardante le vie per una più diretta consultazione della volontà popolare, che
superi la mediazione rappresentativa.105
Nel momento di nascita dell’epoca delle costituzioni sembrano avere un
peso notevole i due elementi, che sono insieme tra loro consequenziali e pur
tuttavia in tensione: quello del ruolo dell’individuo, dei suoi diritti, della sua
volontà da una parte, e quella dell’unità dello Stato e dell’espressione unitaria
del comando, della legge dall’altra. Questi due elementi sono destinati ad operare all’interno delle costituzioni e a mutare nel corso del XIX e XX secolo,
perdendo sempre più la loro caratterizzazione iniziale, ma mantenendo ancora
una loro presenza e una loro funzione legittimante all’interno delle costituzio105
Pur nella sua opposizione al principio che sostiene il corpo rappresentativo, il processo referendario non appare privo di elementi tipici della logica rappresentativa. Infatti, quando si dice che attraverso di essi si esprime il popolo, non si indica certo l’immediato esserci
del popolo come soggetto collettivo. Coloro che votano sono i singoli cittadini, e a volte
nemmeno molti; se esprimessero le loro singole volontà, non ci sarebbe nessuna espressione
di volontà unitaria: perché questa ci sia è necessario che qualcuno (che non è il popolo) ponga una domanda che permette di mettere in forma le risposte in modo tale da ottenere una
volontà unica, che è quella maggioritaria: questa è la volontà del soggetto collettivo. Dunque
anche qui il popolo è risultato di un processo, impensabile senza la formulazione della
domanda: si ricordi l’affermazione schmittiana “Volk kann antworten, aber nicht fragen”
(sulla rilevanza del pensiero di Schmitt in relazione al concetto moderno di rappresentanza
politica, si vedano i cap. IV e V del presente lavoro. Sugli aspetti di rappresentatività
propri del plebiscito e del referendum cfr. H. Dreier, Il principio di democrazia della
costituzione tedesca, in Democra- zia, diritti, costituzione, a cura di G. Gozzi, Il Mulino,
Bologna 1997, p. 28 (che rimanda a H. Hofmann-H. Dreier, Repräsentation,
Mehrheitsprinzip und Minderheitenschutz, in H.P.
Schneider-W. Zeh (hrsg),
Parlamentsrecht und Parlamentspraxis, de Gruyter, Berlin-New York, 1989, § 5, nr. 17,
pp. 172-173).
110
ni. Appare allora utile, nel momento in cui esaminiamo nella sua genesi e nei
suoi problemi il concetto di rappresentanza, alle soglie dell’epoca delle costituzioni degli ultimi due secoli, indicare il modo in cui Hegel critica da una
parte la costruzione giusnaturalisitica della forma politica, e dall’altra il modello di rappresentanza che si manifesta nella costituzione francese, operando
un loro superamento che è anche una loro comprensione.
Nel concetto di rappresentanza politica, in quanto nato nell’alveo della costruzione teorica del diritto naturale, e dunque nel tentativo di rapportare tra
loro gli individui con il potere politico, si manifesta, come si è visto, una frattura difficilmente colmabile tra la volontà degli individui, che stanno alla base
della costruzione e la determinazione della legge, che è affidata al corpo rappresentativo. Tale difficoltà emerge fin dall’inizio nella riflessione hegeliana
sulle dottrine del diritto naturale. Il problema logico che il dualismo giusnaturalista non riuscirebbe a risolvere è quello del rapporto molti-uno. Da una parte la molteplicità degli individui, che sta alla base della costruzione, richiede il
principio dell’unità per risolvere il conflitto e l’anarchia, ma dall’altra l’unità,
che caratterizza lo stato giuridico, si manifesta inevitabilmente, nei confronti
dei molti individui che diventano sudditi, nella forma dell’alterità, di
un’alterità che sembra negare quel valore dell’individuo da cui si è partiti, in
quanto è vissuta dai singoli come un rapporto di dominio (Verhältniss der
Herrschaft) e di coazione (Zwang).106 Hegel esprime chiaramente la consapevolezza che il rapporto di dominio che assoggetta i singoli non è un’istanza
che nasce come contrapposta ai diritti dei singoli, ma è esattamente la conseguenza della posizione degli individui e dei loro diritti come fondamento e fine della costruzione “scientifica” della società. Ciò avviene non solo nel modo
empirico di porre il problema della scienza – e qui si può ravvisare l’alterità
empirica costituita dal sovrano di Hobbes – ma anche nelle posizioni formali
di Kant e di Fichte, nelle quali da una parte il principio trascendentale richiederebbe una unificazione della molteplicità, ma dall’altra l’uso intellettualistico e dualistico dei termini della costruzione non permette di uscire da un rapporto di dominio e coazione. Hegel vede affermata tale contraddizione nel
concetto di rappresentanza accettato da Fichte, e considera tale contraddizione
moltiplicata dall’introduzione dell’Eforato, che comporterebbe non l’eliminazione
della costrizione, ma piuttosto l’introduzione della logica, aperta alla cattiva infinità, della costrizione di colui che deve costringere.
106
Cfr G.W.F. Hegel, Über die wissenschaftliche Behandlungsarten des Naturrechts, in
Gesammelte Werke, Hamburg, Felix Meiner, vol. IV, 1968, p. 426 (tr. it. in G. W. F. Hegel,
Scritti di filosofia del diritto, a cura di A. Negri, Laterza, Bari, 1962, p. 21).
111
In rapporto a questa contraddizione costituita dai due lati della costruzione
che si implicano vicendevolmente, quello della volontà e dei diritti degli individui e quello della sovranità e della coazione, Hegel non intende tanto contrapporre una concezione organica, come spesso recitano le interpretazioni, e
tanto meno la vittoria egemonica di uno dei termini, ad esempio quello dello
Stato su quello degli individui e dei loro diritti, quanto piuttosto mostrare la
necessità intrinseca del superamento di una loro considerazione come concetti
autonomi e in se stessi significanti. Tale superamento, nella forma della struttura logica della Aufhebung, nel periodo di Jena avviene, per un suo aspetto
rilevante, attraverso la figura dell’Anerkennung,107 attraverso la quale Hegel,
proprio prendendo le mosse dalla posizione del singolo come assoluto fondamento della costruzione, secondo le tesi giusnaturalistiche, giunge a mostrare
la necessità del rapporto e del riconoscimento dell’altro. Solo un’astrazione –
un’operazione dell’intelletto – dai rapporti concreti che caratterizzano la sua
esistenza, può allora permettere di isolare l’individuo singolo: ma la contraddizione che connota il suo porsi come tutto, mostra il piano della sua verità e
della sua realtà, costituito dalla concretezza dei rapporti, cioè dal popolo. Il
coglimento della verità e realtà del singolo richiede il superamento della sua
assolutezza, e della sua pretesa di essere il primo, di essere fondamento. Il
concetto di popolo risulta a questo stadio della maturazione del pensiero hegeliano ancora poco articolato; in ogni caso non rappresenta l’unità dello stato
che ingloba i singoli e li annienta, ma è piuttosto il raggiungimento di quella
concretezza dei rapporti all’interno dei quali soltanto il singolo ha realtà.
Nella Vorlesung 1805-6 viene affermato il principio della soggettività, che
è fondamentale per intendere il significato specifico che nell’epoca moderna
viene ad assumere l’eticità, intesa come piano concreto dell’agire degli uomini, di contro all’eticità greca. Proprio per questo Hegel è costretto a ripensare
la costruzione contrattualistica, in cui la soggettività del singolo è affermata
come un primum. Ancora una volta il movimento di attraversamento conduce
al superamento del dualismo dei termini della costruzione contrattualistica,
per culminare nella concreta articolazione della Verfassung.108 È in essa che
comincia ad emergere la via del superamento del dualismo tra l’individuo e
107
Cfr. il frammento sulla filosofia dello spirito del 1803-4 (GW, 6, 307-314): un’analisi
articolata di quanto è qui accennato si trova nel mio saggio La critica hegeliana del
giusnaturalismo nel periodo di Jena, in Duso, Il con- tratto sociale cit., pp. 311-362.
108
Anche se la parola usata è qui Konstitution, non è alla costituzione formale, alla carta
costituzionale, ma al modo concreto in cui la società e lo Stato sono costituiti che Hegel si
riferisce, e dunque a ciò che esprime il termine Verfassung nella contrapposizione che si avrà
successivamente in Germania tra i due termini. La Verfassung ha poi una funzione centrale
nella Rechtslehre, nel mostrare il superamento del dualismo tra società civile e Stato.
112
l’unità politica, che si esprime mediante il diritto e la forza di coazione. Al di
là della contrapposizione tra individui e istituzione statale, comincia ad emergere una articolazione di Stände, che richiede un uso duttile del potere centrale del governo: legislazione, amministrazione e tassazione appaiono perciò
doversi adeguare alla concreta differenziazione delle cerchie sociali di contro
alla rigidità propria di una concezione che si basa sull’uguaglianza.
Il quadro che risulta in questo periodo jenese individua già nella costituzione quell’intero articolato in cui la molteplicità dei singoli, e l’unità dello
Stato non appaiono estremi isolabili: essi non sono reali in quanto tali, ma soltanto nell’insieme dei rapporti in cui le cerchie appaiono come la necessaria
articolazione dell’intero. Senza l’internità a queste articolazioni gli individui
non hanno realtà, ma nemmeno lo Stato, che non è un’unità semplice esistente
in sé, ma si sostanzia dell’estrinsecarsi della soggettività dei singoli e del loro
operare, che avviene attraverso i sistemi moderni dell’economia e del diritto, e
attraverso il concreto differenziarsi delle cerchie sociali. Ciò comporta il superamento del concetto di rappresentanza, quale si manifesta nel diritto naturale,
ma anche nel modello francese di costituzione: di esso sono infatti costitutivi
due lati, quello degli individui, che in maniera indifferenziata esprimono il voto, e quello del corpo rappresentativo che determina la legge ed esercita il potere unitario della nazione.
Una prima significativa critica alla rappresentanza di tipo francese emerge
già nello scritto giovanile sulla Costituzione della Germania, dove, diversamente da quanto riterrà successivamente, Hegel ravvisa una continuità tra la
rappresentanza feudale e quella moderna. Ciò è dovuto, oltre che alla rilevanza conferita agli Stände, in buona parte anche al fatto che Hegel pensa ancora
la Germania nell’ambito dell’idea di impero e dei corpi territoriali. Già questa
prima riflessione sulla rappresentanza politica è tuttavia significativa, in quanto lega il concetto non tanto alla formazione dell’unità politica, quanto piuttosto all’elemento, che si contrappone dialetticamente al primo, della libertà dei
cittadini, all’interno dei loro corpi territoriali. Non si tratta dunque di rappresentare l’unità politica ma piuttosto la pluralità dei corpi e la loro libertà di autorganizzazione. Tanto più forte e concentrato è il potere unitario dello Stato,
tanto più spazio può essere lasciato all’autonomia dei Landstände e alla libertà dei cittadini. Tale autonomia, che si manifesta attraverso la rappresentanza
cetuale, lungi dal dissolvere l’unità dello Stato, comporta un coinvolgimento
delle parti e dei corpi, una loro “partecipazione agli affari generali”.109
109
Cfr. G.W.F. Hegel, Die Verfassung Deutschlands, in Politische Schriften, Frankfurt
am Main, 1966, p. 43 (tr. it. in G. W. F. Hegel, Scritti politici, a cura di C. Cesa, Einaudi,
Torino 1972, p. 34). Sulla posizione hegeliana relativa alla rappresentanza politica cfr. il mio
113
Nel famoso scritto sui Landstände del Württemberg del 1817, Hegel muterà
la sua prospettiva e, abbandonato il punto di riferimento costituito dall’impero,
porrà più risolutamente la sua riflessione nell’ambito dello Stato moderno.
Non riproporrà perciò la continuità tra rappresentanza feudale e rappresentanza moderna e si opporrà alle pretese della dieta che tale collocazione della
rappresentanza all’interno dell’unità dello stato moderno non aveva compreso.
Tuttavia ciò non comporta l’accettazione del modello francese di rappresentanza, anzi, questo rimane uno degli obiettivi polemici di Hegel, accanto
all’altro, costituito dal buon diritto antico e dal modo feudale di intendere la
rappresentanza, che si può basare sulla duplicità delle istanze dei corpi e del
principe in quanto presuppone un elemento mediatore costituito dall’imperatore. Anche in questo scritto la rappresentanza non ha il compito di dar forma allo Stato, come avveniva nella logica dei sistemi di diritto naturale, ma
piuttosto quello di completarlo con la libertà e la partecipazione dei cittadini.
Ma ciò non può prodursi mediante una modalità secondo la quale i cittadini
sono rappresentati in quanto tali, in modo indistinto, sulla base di quella che
Hegel chiama una demokratische Unformlichkeit, all’interno della quale le uniche distinzioni in relazione al voto sono di tipo quantitativo, riguardante il
censo e l’età.
Già nella Fenomenologia Hegel aveva mostrato la necessità dell’astrazione
distruttiva del concetto di assoluta libertà, emerso in modo esplosivo con la
Rivoluzione francese, nei confronti del particolarismo e delle differenziazioni
che avevano perduto ogni funzione e erano divenute inadeguate in relazione
alla realtà e ai bisogni del tempo.110 Ma nello stesso contesto aveva mostrato
la necessità che, dopo questa opera distruttiva, si ripresentassero nuove articolazioni dell’intero sociale e statale, i poteri dello stato e gli Stände der Arbeiten. Sono queste cerchie diverse che caratterizzano l’ordine civile, e dunque
attraverso di esse si deve esprimere il cittadino, al di là delle astrazioni francesi. Se la realtà del cittadino consiste nella sua internità ad una cerchia,
nell’avere un tipo di lavoro e di ufficio, al quale sono legate la sua formazione, la sua cultura e la sua maniera di rapportarsi allo Stato, allora è a questa
realtà concreta e differenziata che deve essere rapportata la rappresentanza:111
essa deve cioè rappresentare i singoli cittadini non in modo astratto e indiffeLa rappresentanza politica e la sua struttura speculativa nel pensiero hegeliano, “Quaderni
fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno”, 18 (1989), pp. 43-75.
110
Cfr. G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, hrsg. J. Hoffmeister, Felix Meiner,
Hamburg 19526, p. 415-416 ( G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, tr. it. di E. De
Negri, 1963, II vol., pp. 126-127).
111
Cfr. G.W.F. Hegel, Verhandlungen in der Versammlung der Landstände des Königsreich Württemebr im Jahre 1815 und 1816, in Politische Schriften, p. 160 (tr. it. cit., p.55).
114
rente, ma in relazione alle cerchie che caratterizzano la loro realtà sociale. È
questo modo di intendere la rappresentanza che Hegel sviluppa nella sua Rechtslehre all’interno della concezione dell’eticità.
Di contro alla diffidenza che a lungo e da parti diverse si è manifestata per
il significato che l’eticità riveste nel sistema hegeliano, e in particolare
nell’ambito dello spirito oggettivo, bisogna affermare che è proprio essa a
permettere di comprendere sia il modo in cui il filosofo intende la realtà dello
Stato moderno, sia il significato del suo superamento delle dottrine del diritto
naturale. Mediante l’eticità Hegel comprende (cioè tiene dentro il movimento
di pensiero, mantiene trasformando) il punto di vista che si afferma nel diritto
moderno, così come l’esigenza del porsi della coscienza del singolo e della
sua soggettività attraverso la sfera della moralità. Questi due ambiti non sono
rifiutati, ma compresi nella loro verità e realtà solo nel concreto dell’eticità.
Ed è solo sul piano dell’eticità, e non più su quello del diritto – nel senso stretto del termine – che si può e si deve ora pensare lo Stato; ma tale realtà comporta il superamento della possibilità di porlo come elemento unilaterale, contrapposto alla soggettività degli individui, così come si mostra in sé non
comprensibile e reale il concetto di individuo, inteso nella sua autonomia. Una
considerazione dunque dell’eticità nella sua struttura logica rende prive di significato sia le interpretazioni del pensiero hegeliano che lo risolvono in una
concezione statalista, sia quelle che tengono fermi in esso i diritti degli individui al modo del diritto naturale moderno e del successivo liberalismo.112
In consonanza con la comprensione dell’epoca moderna come epoca della
soggettività, la libertà è posta al centro della filosofia dello spirito e l’eticità è
il piano della libertà realizzata: ciò che caratterizza l’eticità moderna è il dispiegamento della libertà, anche dal punto di vista del soggetto singolo. Se
l’eticità culmina nello Stato, non come istituzione, ma come cerchia delle
cerchie, ciò significa che la forma politica moderna non è comprensibile se
non attraverso il dispiegamento della libertà, anche per l’aspetto che concerne
la determinazione della coscienza e l’agire dei singoli individui. Perciò è rilevante non solo il punto di vista dello in sé, ma anche quello del per sé, della
riflessione, della coscienza: è in questa dimensione che si manifesta la libertà
formale, che implica la partecipazione consapevole del singolo alla vita
dell’intero. La concezione del politico come mera potenza, senza la soggettività che si esprime nell’aspetto del per sé, non dà ragione dello Stato moderno
nella sua specificità, ma può tutt’al più riferirsi al politico come in altre epoche si poteva dispiegare. Il regno della libertà realizzata – per quanto riguarda
112
Sull’eticità hegeliana e sul ruolo dell’agire degli individui si veda M. Alessio, Azione
ed eticità in Hegel. Saggio sulla Filosofia del diritto, Guerini e Associati, Milano, 1996.
115
la tappa dello spirito in cui consiste lo spirito oggettivo, che non è certo
l’ultima e la più comprensiva del sistema hegeliano – significa allora non che
tutti empiricamente ci troviamo in una situazione di perfetta libertà,113 ma che
lo Stato moderno si caratterizza nei confronti di altre manifestazioni politiche
come quelle della polis, o degli antichi imperi, o del feudalesimo, grazie alla
manifestazione della soggettività e della libertà dei singoli: manifestazione
concreta, come si è detto, attraverso le cerchie che caratterizzano la società.
Questo è il punto in cui si concentrano il problema e i compiti dello Stato, la
sfida che si pone all’altezza dell’epoca storica.
Non è possibile qui soffermarsi sul modo hegeliano di intendere la libertà.114 È sufficiente ricordare che essa non può essere limitata all’idea
dell’autonomia e dell’indipendenza della volontà del singolo. Certo il punto di
vista del soggetto che agisce e che afferma il valore della sua coscienza è riconosciuto, ma acquista un significato assai diverso da quello che ha nelle costruzioni del diritto naturale e nelle coeve concezioni della moralità. Il punto
di vista della moralità, come il punto di vista del soggetto che agisce, permane
sin nei punti più alti della sfera etica (anche in quello costituito dal monarca,
che è pur sempre un individuo che agisce), ma non ha in sé la sua verità e la
sua realtà. Questa emerge solo nella rete di rapporti che si svelano nella sfera
etica. Il punto di vista del soggetto singolo, come punto di vista della certezza
della coscienza, della libertà della decisione, è indispensabile, ma non rende
conto della realtà in cui l’azione si attua e dunque della realtà dell’azione stessa: è allora unilaterale, deve essere compreso, e nella comprensione mostra
una verità che esso stesso non esprime.
La libertà implica allora non l’isolamento della sfera dell’individuo nella
sua autonomia, ma piuttosto la limitazione (Beschränkung), che non ha il significato della negazione di una libertà più bella e assoluta, ma piuttosto quella della determinazione secondo la quale solo si può avere liberazione e dunque una libertà che non è astratta, ma si attua sul piano della realtà effettuale.
È questo il modo in cui Hegel intende superare la contraddizione che, a suo
avviso, mina la concezione giusnaturalistica, consistente nel fatto che l’ideale
113
Nella Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse (1830), Felix
Meiner, Hamburg 1959, (Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, tr. it. di B.
Croce, con Intr. di C. Cesa, Laterza, Bari 1989 ) al § 6 Anm, Hegel indica quanto facile sia
per l’intelletto comprendere le cose che non vanno nella situazione in cui ci si trova: egli non
nega la plausibilità e l’utilità di questa critica, ma afferma che altro è il compito della filosofia, cioè la comprensione del reale nel senso della struttura razionale dello Stato (tr. it., pp. 911).
114
Per qualche indicazione a questo proposito cfr. G. Duso, La libertà politica nella Rechtsphilosophie hegeliana, in G. Duso, G. Rametta (a cura), La libertà nella filosofia classica tedesca, Angeli, Milano 2000, pp. 171-185.
116
della libertà come perfetta autonomia e indipendenza della volontà, è destinato ad essere sempre negato dalla società reale, la quale comporta una serie
complessa di rapporti che condizionano l’agire del singolo.
L’individuo, con il suo agire, resta centrale in Hegel, ma non si risolve nella sua assolutezza, e dunque nel suo poter essere fondamento della società e
dello Stato. Solo all’interno dei concreti rapporti, della famiglia, del lavoro,
dello Stato, egli ha la sua realtà e all’interno di queste condizioni si esprime
politicamente. Ma se non è momento autonomo l’individuo, se non grazie ad
un processo di astrazione dell’intelletto, non lo è nemmeno lo Stato, come
istituzione. Esso non è una realtà di fronte all’agire soggettivo dei singoli, ma
si sostanzia di questo agire, sia al livello della società che a quello politico. È
il concetto di Verfassung, costituzione nel senso etimologico del termine che
mostra questa complessità di rapporti, e dunque anche l’irrealtà della dimensione dualistica in cui la scienza del diritto naturale pensa il corpo politico e il
suo potere di fronte alla molteplicità dei cittadini divenuti sudditi, soggetti
passivi sottoposti alla espressione della volontà generale che si fa legge.
Nel concreto della Verfassung il potere statale risulta intrinsecamente legato all’articolazione sociale e all’espressione della soggettività dei singoli (che
si ha a livello sociale, ma insieme anche a quello politico). Una tale realtà
comporta il superamento di quella nozione di rappresentanza, nata con Hobbes, che appare produttiva della sovranità, secondo la quale tutti si fanno autori delle azioni che il rappresentante farà, esprimendo, attraverso la sua persona, la volontà e l’azione pubblica di tutto il popolo. In questo quadro la
sottomissione che si determina per i cittadini difficilmente si può congiungere
con un’espressione di soggettività politica: nello stesso tempo difficilmente il
termine di partecipazione può avere un senso concettuale pieno, perché la volontà e le azioni che esprimono la sovranità, che appartiene al popolo, anche
se passano per il tramite della persona del rappresentante, sono già volontà e
azioni di tutti, in quanto tutti si sono dichiarati (per la stessa essenza della
forma politica) autori di ciò che il rappresentante farà. Non appare in tale quadro necessario o possibile per il cittadino partecipare ad un potere che, attraverso la mediazione rappresentativa, è già suo, anche se egli non ha il modo
per determinarlo.
In Hegel l’unità dello Stato si esprime attraverso il monarca e il suo atto di
decisione, ma questi non è rappresentante, non esprime la volontà generale, la
quale si forma piuttosto all’interno delle concrete viscere della Verfassung:
non consiste in una volontà unica che si contrapponga alle volontà individuali,
come la volontà pubblica a quelle private, ma piuttosto costituisce quell’intreccio di volontà, interessi, cultura e modi di vedere che costituiscono
l’essere stesso della società civile, formata da cerchie e non riducile al sistema
117
astratto dei bisogni e del lavoro, che pure rivestono un ruolo importante nel
sistema dello spirito oggettivo. È la rappresentanza il modo di espressione
dell’essere delle cerchie, soprattutto del “lato mobile della società civile”,
quello legato al lavoro, al mercato. La rappresentanza non è allora la modalità
di espressione dell’unità della volontà politica, o del popolo come grandezza
unitaria e contrapposta ai singoli, ma il modo in cui si esprimono le parti della
società, in cui si collabora all’affermazione e alla mediazione del particolare,
che tale è in un quadro di complessità di parti e di posizioni.
La rappresentanza non è dunque l’unico modo per dar forma al soggetto
collettivo, come accadeva nelle dottrine del diritto naturale, ma è piuttosto la
via per dare espressione politica alle parti della società e per permettere la
manifestazione di quella conquista moderna consistente nella libertà formale,
cioè nella coscienza del singolo di partecipare alla cosa pubblica e dunque a
quella volontà comune a cui è anche sottomesso. Solo in questo modo si può
esprimere la libertà soggettiva, e non in quello proprio delle dottrine giusnaturalistiche, nelle quali il singolo, come si è visto, è considerato fondamento assoluto e tuttavia si trova in una situazione di sottomissione nei confronti di
una volontà che gli appare come estranea. In una tale prospettiva “lo Stato
concreto è l’intero articolato nelle sue cerchie particolari; il membro dello Stato politico è un membro di una tale cerchia o ‘stato’ (Stand): soltanto in questa
sua determinazione oggettiva esso può venire in considerazione nello Stato
politico”.115 La politicità del singolo non consiste allora in quell’espressione
di volontà che costituisce, attraverso il voto, il corpo che eserciterà il potere,116 ma piuttosto avviene in relazione al concreto suo stare all’interno dei
rapporti, nell’esprimersi cioè attraverso le cerchie della società. La rappresentanza è dunque insieme il modo di espressione delle parti e degli interessi presenti nella società e la via per la partecipazione – mediata e differente – dei
singoli cittadini agli affari dello Stato.
Nello Stato della Rechtslehre hegeliana non è direttamente ravvisabile nessuno degli Stati empiricamente presenti del suo tempo; egualmente si deve dire che il suo modo di intendere la costituzione e la rappresentanza politica non
ha ricaduta nelle costituzioni moderne, nelle costituzioni delle democrazie di
massa, che sono costruite sul modello che vede l’espressione indifferenziata
115
G.W.F. Hegel, Grundlinien der Philosophie des Rechts, ed. Hoffmeister 19554, § 308
Anm. (Lineamenti di filosofia del diritto, a cura di G. Marini, Laterza, Bari, 1999, IX ed. con
le aggiunde di E. Gans, p. 246).
116
La critica di Hegel al voto è legata proprio al problema della partecipazione politica e
della espressione della libertà formale. Anche per quello che riguarda l’espressione dei rappresentanti delle cerchie, l’elemento del voto passa in secondo piano nei confronti del legame che rappresentanti e rappresentati hanno all’interno di una stessa realtà determinata.
118
del voto del singolo alla base dell’autorizzazione del corpo rappresentativo
unitariamente inteso. E pur tuttavia, nonostante questa sua non coincidenza
con la realtà empirica, o magari anche grazie ad essa, forse Hegel coglie la realtà dello Stato, cioè il problema che si pone all’altezza dello Stato moderno.
In questo la sfida consiste nello stare assieme dell’elemento del comando,
della legge, della decisione unitaria, e dell’espressione della soggettività e
della par- tecipazione dei cittadini: è il problema dell’articolazione, della
pluralità, delle differenze, della partecipazione, problema che è difficilmente
affrontabile sul- la base della rappresentanza intesa come l’autorizzazione dei
singoli mediante il voto all’azione del corpo rappresentativo come espressione
della volontà del popolo. È emblematico del coglimento hegeliano del
problema che si pone con lo Stato moderno il fatto che un giurista che
riflette con competenza e a- cutezza su problemi costituzionali, nel momento
in cui analizza le contraddi- zioni della rappresentanza nella moderna
democrazia, si chieda se, per inten- dere un dimensione pluralistica non si
debba ritornare a pensare alla rappresentanza in chiave hegeliana.117 Ciò non
significa certo che in Hegel si possa trovare un modello per risolvere i
problemi complessi dei processi con- temporanei, dove è la stessa
concettualità che sta alla base degli stati sovrani a mostrare la sua crisi, ma
che, nel momento inaugurale della storia post- rivoluzionaria delle
costituzioni, la riflessione hegeliana porta luce su una problematica che è
costitutiva di quella forma politica moderna che è lo Stato.
117
Cfr. W. Böckenförde, Democrazia e rappresentanza, in “Quaderni costituzionali”,
1985, n. 2, pp. 227-63 (ediz. ted. 1982).
119
3. Tipi del potere e forma politica moderna
in Max Weber
1. «Herrschaft» nel significato moderno di «potere politico»
Problema centrale per interpretare il senso e la fecondità del lavoro
intellettuale di Weber è costituito senz’altro, a livello metodologico, dal ruolo
e dal valore conoscitivo propri del tipo ideale, dal suo rapporto con la storia,
o, ancor meglio, dalla questione legata alla sua stessa storicità.1 Se è assodato
il fatto che il tipo ideale non ha un valore universale e non è identificabile con
una realtà oggettiva o con una reale situazione storica – è cioè “utopia” nel
senso etimologico del termine, non avendo luogo nella realtà – 2 più difficile
sembra invece comprendere quale sia il suo rapporto specifico con la
storicità. Infatti non è forse sufficiente a questo scopo ricordare che i tipi ideali hanno una funzione ermeneutica nei confronti della realtà storica, la quale
può essere illuminata e prendere senso mediante l’uso di questo strumentario
concettuale, nonostante – o piuttosto proprio per mezzo di – l’unilateralità del
punto di vista o dei punti di vista che lo connotano, e nemmeno appare risolu-
1
Tale questione è posta con lucidità da O. Hintze, Max Webers Soziologie, ora in Gesammelte Abhandlungen zur Soziologie, Politik und Theorie der Geschichte, II, Soziologie
und Geschichte, Wandenhoeck & Ruprecht, Göttingen, 1964, pp. 135-147, e da O. Brunner,
Bemerkungen zu den Begriffen «Herrschaft» und «Legitimität» cit. (tr it. in “Filosofia politica” 1987, n. 1 cit.). Si veda, in particolare sul rapporto tra Hintze e Weber, il saggio di P.
Schiera, Max Weber e Otto Hintze. Storia e sociologia o dottrina della ragion di Stato?, in
G. Duso (a cura), Weber: razionalità e politica, Arsenale, Venezia, 1980, pp. 77-89 e dello
stesso, Otto Hintze, Guida, Bari, 1974.
2
Cfr. M. Weber, Gesammelte Aufsätze zur Wissenschaftslehre, a cura di J. Winckelmann, Mohr, Tübingen, 1922 (IV ed. 1973), p. 191, tr. it. Il metodo delle scienze storicosociali, a cura di P. Rossi, Einaudi, Torino, 19742, p. 108.
120
tivo considerare il fatto che essi stessi derivano da un lavoro di astrazione, che
trova nel materiale storico un suo indubbio punto di partenza.
Ciò che è necessario porre a tema è proprio il momento dell’astrazione
concettuale, a proposito della quale si ha l’impressione di trovarsi di fronte a
costellazioni ideali di concetti che hanno una loro coerente e conclusa logica
interna, connotabile mediante i due elementi essenziali della univocità e della
incontraddittorietà.3 Sono proprio infatti tale univocità e incontraddittorietà
che sembrano connotare la sociologia come scienza e che hanno permesso una
prosecuzione del pensiero di Weber in una chiave disciplinarmente sociologica. L’incontraddittorietà risulta legata allo stesso ideale di scienza che Weber
mostra di avere.4 Si tratta però di vedere se tali indicazioni proprie della riflessione metodologica di Weber colgano fino in fondo la struttura logica del suo
concreto lavoro scientifico, oppure se lo stesso valore ermeneutico dei suoi
tipi ideali non rompa tale quadro razionalistico in direzione di una più complessa struttura concettuale. Assistere alla rottura della incontraddittorietà e
della chiusura univoca dei concetti non equivarrebbe alla perdita della loro validità ermeneutica, ma piuttosto al rafforzamento della loro validità e al coglimento insieme della loro intrinseca storicità. Noi non ci troveremmo più di
fronte a uno strumentario concettuale che ha una sua logica autonoma ed è
utilizzabile per la comprensione di realtà diverse, ma gli stessi concetti si troverebbero ad essere storicamente determinati e dunque ermeneuticamente efficaci solo in precisi contesti.
È già stata indicata una possibile distinzione tra una parte della riflessione
tipologica weberiana più legata al lavoro storico, in cui il tipo ideale svolge il
ruolo di strumento ermeneutico, e una parte in cui invece più forte sarebbe la
cristallizzazione dei tipi, come concetti espressivi al di là dei contesti in cui
sono applicabili.5 Resta il fatto che in Economia e società le determinazioni
concettuali e ideal-tipiche sembrano a volte proporsi in una dimensione puramente logica, come strumentario da utilizzarsi nello studio della realtà empirica, senza la consapevolezza costante della loro storicità intrinseca. Proprio per
questo sembra a volte che siano indagate realtà storicamente lontane e proprie
di contesti radicalmente diversi con un apparato concettuale che è invece lega3
Cfr. M. Weber, Wirtschaft und Gesellschaft, hrsg. J. Winckelmann, Mohr, Tübingen,
19765, I Bd., p. 9-10 (WuG), tr. it. M. Weber, Economia e società, a cura di P. Rossi, Edizioni di Comunità, Milano, 19742, ora 1981, vol. I, p. 1 (ES).
4
Per il rapporto tra procedimento scientifico e assenza di contraddizione cfr. M. Weber,
Gesammelte Aufsätze zur Wissenschaftslehre, p. 15 (tr. it. Il metodo, cit., pp. 60-61).
5
W. Mommsen, The Age of Bureaucracy. Perspectives on the Political Sociology of
Max Weber, Basil Blackwell, Oxford, 1974, cfr. P. Schiera, Max Weber e Otto Hintze, cit., p.
81.
121
to in modo intrinseco alla realtà e alla teoria dell’epoca in cui nasce.6 È lo
stesso testo weberiano che ci suggerisce l’intimo legame tra le categorie usate
e l’epoca moderna e, in modo ancora più preciso, quel momento di trapasso
epocale costituito, a livello sia storico che teorico, dai primi decenni del Novecento.
Mio intento è qui di esaminare con più attenzione, all’interno di questo
contesto di questioni, la descrizione weberiana dei tipi del potere. Questi mostrano infatti di non essere concepibili nella loro autonomia, nemmeno nella
loro descrizione puramente logica, ma di avere una forte spinta interna al loro
intreccio reciproco, e ciò non solo nella situazione storicamente determinata,
dove sono spesso mescolati, secondo l’esplicita e ripetuta affermazione weberiana, ma nella stessa descrizione pura dei tipi, in quanto appunto tipi del potere. La ragione di ciò sta probabilmente nel fatto che il contesto di partenza
dell’elaborazione concettuale di Weber è la sua epoca e, in modo più determinato, il problema dello Stato nella situazione di crisi in cui si trova e, si potrebbe dire, di esito finale di un lungo cammino di formazione e di sviluppo.
L’attenzione alla crisi e alla storia dello Stato moderno e delle categorie che
relativamente a tale storia sono emerse gioca forse un ruolo più rilevante di
quanto solitamente non si pensi e di quanto lo stesso Weber non sarebbe disposto a riconoscere ai fini della delineazione degli stessi tipi del potere; essi
appaiono intrecciati in questa crisi, non solo, ma anche – e cercherò più avanti
di argomentarlo – nella stessa teoria che è iscritta nella genesi di questa storia.
Se nell’ultimo Weber si assiste a una riflessione particolarmente intensa
sull’intreccio dei tipi del potere, in particolare di quello legale-razionale e di
quello carismatico, nella figura della democrazia plebiscitaria, ciò non è dovuto semplicemente all’incontro con una determinata situazione empirica e
nemmeno al cedimento nei confronti del fascino proprio della coniugazione di
due tipi ideali,7 ma appare inscritto nella stessa formulazione logica dei tipi
del potere, e non perché dall’astrazione logica nasca la comprensione della
storia, ma piuttosto perché essi emergono come tipi ideali proprio contestualmente a quella realtà, che costituisce una fase epocale della forma-Stato, che è
appunto forma moderna.8
6
Hintze sottolinea l’interesse primario di Weber per il suo presente, che diventa così il
punto di partenza per l’analisi del passato (O. Hintze, Max Webers Soziologie, cit., p. 144).
7
Cfr. N. Bobbio, La teoria dello Stato e del potere, e L. Cavalli, Il carisma come potenza rivoluzionaria: ambedue i saggi sono contenuti in Max Weber e l’analisi del mondo moderno, a cura di P. Rossi, Einaudi, Torino, 1981, sp. pp. 229 e 177 ss.
8
È in un processo culturale chiuso e unitario che i tre tipi del potere forniscono in realtà
un significato che ha carattere epocale per l’intera struttura dei rapporti di potere politico;
cfr. su ciò O. Hintze, Max Webers Soziologie, cit., p. 145, dove si sostiene che tale situazione
può essere colta in modo più proficuo da una descrizione individuante dello sviluppo, qual è
122
In modo ancor più impegnativo – ma ciò richiede un’ampia ricerca, non
solo sul pensiero weberiano, ma soprattutto sull’origine della teoria dello Stato moderno – si potrebbe forse dire che è lo stesso concetto di potere (Herrschaft), come rapporto di comando-obbedienza, nel senso di potere legittimo,
che si basa sulla credenza di validità da parte di coloro che sono sottoposti, a
mostrarsi non concetto astratto applicabile ad ogni contesto storico, ma piuttosto concetto determinato che ha il suo ambito di utilizzabilità all’interno di
quell’epoca moderna in cui viene concepita l’idea del monopolio della forza e,
proprio perciò, viene posto a tema nella teoria il problema della legittimità. In
quanto legittimo, il potere politico tende ad eliminare da sé il carattere della
violenza dell’uomo sull’uomo in quanto si mostra voluto e riconosciuto, e
l’autorità mostra alla sua base un processo di autorizzazione che coinvolge coloro stessi che al potere sono sottoposti. In altri termini è solo con la nascita
della riflessione moderna sul corpo politico, quando si assiste cioè alla nascita
del nuovo concetto di sovranità e al presentarsi di una concezione in cui il potere è caratterizzato dal monopolio della forza e dalla qualità, prima impensabile, dell’irresistibilità, che nasce il problema della legittimità, come fondazione dell’unico potere sulla stessa ragione e volontà di coloro che sono ad
esso sottoposti e che si intendono come soggetti, non solo nel senso che sono
sottomessi, ma contemporaneamente anche in quello secondo cui sono autori,
vivono cioè, pur nella sottomissione, il potere come loro stesso potere.9
L’ipotesi che si può avanzare è allora quella secondo cui, pur essendo esteso
alle più diverse situazioni storiche e sociali, il concetto di potere legittimo sia
condizionato, nella sua stessa formulazione, da un campo più ristretto, qual è
quella della Verfassungsgeschichte, piuttosto che dalle astrazioni di una scienza sociologica.
Sulla tensione di Weber alla comprensione storica in un senso che si spinga oltre
l’individuazione di processi particolari e sia in grado di ordinare il materiale mediante punti
di vista comprensivi, cfr. F.M. Tenbruck, Max Weber e Eduard Meyer, «Comunità», 187
(1985), pp. 150-197, sp. p. 153.
9
Si veda la preziosa indicazione di O. Brunner, Bemerkungen zu den Begriffen, cit., p.
74 ss. (tr. it., p. 108 ss.) e la lapidaria ripresa nel saggio sul feudalesimo: «si può qui osservare che queste distinzioni possono essere rintracciate solo dopo l’inizio del processo verso il
“mondo moderno”: è infatti a questo punto che il fenomeno della “signoria” ha incontrato un
mutamento fondamentale» (cfr. Feudalismus, in Neue Wege, cit. e nella tr. it., Per una nuova
storia costituzionale e sociale cit., in particolare p. 111). Per quanto riguarda una riflessione
critica sui tipi ideali a partire da un approccio storico-concettuale, si veda La logica del potere cit. pp. 31-32. Certo è da tener presente la differenza della nozione weberiana di Herrschaft da quella propria della filosofia politica del ’600 e ’700, ma su ciò si veda più avanti.
Per la nascita di questo concetto di potere politico come potere irresistibile, e per il ruolo del
concetto di sovranità da Hobbes alla filosofia classica tedesca e dunque per la logica che caratterizza la forma politica propria del giusnaturalismo, che qui è solo accennata, rimando al
già citato Patto sociale e forma politica, Introduzione a G. Duso (a cura), Il contratto sociale
nella filosofia politica moderna, cit.
123
quello costituito dallo Stato moderno, da quel politischer Verband, che nel testo weberiano rappresenta solo un caso particolare, e che pure è così cospicuamente presente nelle pagine di Economia e società dedicate alla descrizione dei tipi del potere. Questi ultimi non sarebbero allora, come Weber ritiene,
strumenti logici in grado di identificare le diverse manifestazioni del potere
che si sono date nella storia – in un quadro in cui ciò che è denominato con il
termine di potere è inteso come fenomeno universale, intrinseco alla natura
umana e dunque rintracciabile in ogni tempo – ma sarebbero piuttosto diversi
aspetti del concetto – tutto moderno – di potere.
Per portare un contributo in questa direzione intendo qui, in primo luogo,
esaminare il modo in cui i tipi del potere, soprattutto quello legale-razionale e
quello carismatico, che sembrano più opposti tra di loro, tendono alla loro reciproca implicazione, e in secondo luogo, seguendo anche l’interessante sollecitazione di un saggio di Norberto Bobbio, vedere un rapporto possibile – nonostante la radicale diversità dell’approccio a questa tematica – tra Weber e la
moderna filosofia politica, rapporto che mi sembra mettere il primo piano il
concetto di rappresentazione, come quello che mostra inscritto l’intreccio weberiano di carisma e potere legale-razionale nel cuore stesso di quella elaborazione teorica sul potere dello Stato che si ha a partitre dal filone del
giusnaturalismo moderno.
2. Distinzione ed opposizione tra potere razionale e potere carismatico
Indubbiamente ad un primo approccio al testo weberiano – ed è Economia
e società che qui si tiene particolarmente presente – risulta evidente non solo
la netta distinzione, ma la vera e propria opposizione che demarca i due tipi di
potere a cui mi riferisco.10 È utile richiamare in sintesi alcuni tratti caratteristici che li connotano.
10
Certo, anche il potere tradizionale riveste importanza per il nostro problema: basti
pensare da una parte al ruolo che giocano il costume e l’abitudine nel consolidarsi del rapporto di comando-obbedienza. e dall’altra al fatto che esso stesso appare concetto tipico
dell’epoca moderna, in quanto «i secoli più antichi non conoscevano la “tradizione” o la
“storia” come fondamento autonomo di legittimità: in quei tempi si viveva in un ordinamento
che appariva come “antico”, perché era, per convinzione diffusa, buono, giusto, e perciò aveva avuto vigore nella storia, allo stesso modo come vigeva nel presente» (O. Brunner, Per
una nuova storia costituzionale cit., p. 111). Tuttavia è in particolare al potere legale e al potere carismatico che è dedicata la presente analisi, che vuole solo introdurre alla questione
dell’intreccio logico dei tipi ideali del potere come segno della storicità che li connota e che
connota lo stesso concetto di potere legittimo.
124
Il potere legale con apparato amministrativo burocratico è esplicitamente
dallo stesso Weber rapportato al mondo moderno: esso è infatti l’esempio più
tipico – e si potrebbe dire che più di un esempio è la stessa forma caratteristica che viene a connotare lo Stato moderno e una grossa parte della produzione
teorica su di esso – di un potere segnato dalla razionalità.11 Qui ogni diritto è
un cosmo di regole astratte, che sono di per sé ritenute valide nella loro formalità e disciplinano, mediante la giurisdizione, l’indefinita serie dei casi individuali. Tali regole possono essere statuite razionalmente, sia mediante pattuizione che imposizione, e derivano da ciò la loro pretesa di validità. In tal
modo il rapporto di comando-obbedienza non riguarda in primis la persona
del detentore del potere legale (der typische legale Herr), perché anche questi
è sottomesso all’ordinamento impersonale; e, si badi bene, ciò riguarda non
solo il funzionario, ma anche quel detentore del potere legale che basa la sua
funzione sull’elezione (ad esempio il capo di Stato elettivo). In tal modo sembra essere radicalmente esorcizzato il comando dell’uomo sull’uomo: non è
infatti all’uomo ma alla legge che si obbedisce.12
In questa forma viene così a prevalere l’elemento oggettivo o impersonale,
non tanto per quanto riguarda il fondamento della legittimità, che consiste in
ogni caso nella credenza soggettiva – nella fede – di coloro che sono disposti
ad obbedire,13 ma per quanto riguarda l’oggetto di questa credenza, che non
risiede in qualità soggettive della persona umana, ma nella qualità oggettiva e
impersonale delle regole a cui sono sottoposti gli stessi detentori del potere.
Tale oggettività si incarna in ciò in cui si esprime il potere nella vita quotidiana, cioè in quel fondamentale strumento dell’esercizio del potere che è
l’apparato amministrativo, visto nella forma tipica che esso assume all’interno della moderna razionalità occidentale, cioè la burocrazia.
È soltanto dell’analisi della burocrazia che Weber si occupa al fine di determinare il potere legale, mentre lascia significativamente da parte la specie tipica
del capo, cioè la figura del detentore del potere. È troppo nota l’analisi che mette in luce gli elementi significativi della burocrazia moderna per soffermarvicisi
11
Cfr. WuG, I, 124 ss. (ES, I, 212 ss.).
Sui problemi relativi all’insufficienza del criterio razional-formale per caratterizzare il
potere legale, cfr. N. Bobbio, La teoria dello stato, cit., sp. pp. 238-242. Sul concetto di legge materiale e legge formale, cfr. J. Winckelmann, Legitimität und Legalität in Max Webers
Herrschaftssoziologie, Mohr, Tübingen, 1952, pp. 74 ss. È da ricordare, e lo si riprenderà più
avanti, che la critica della naturalità del comando dell’uomo sull’uomo è connaturata alle
teorie giusnaturalistiche moderne, e lo stesso Weber ne mostra consapevolezza.
13
«Bisogna tener fermo soprattutto che il fondamento di ogni potere, e quindi di ogni disposizione ad obbedire, è una fede (Glaube)» (WuG, I, 153 ES, I, 260) . Su questo elemento
della «credenza» e contro un dualismo di fede e razionalità si muove il lavoro di B. Giacomini, Razionalizzazione e credenza nel pensiero di Max Weber, Pegaso, Rovigo 1985.
12
125
in questa sede; basti sinteticamente ricordare come a connotarla siano le caratteristiche della oggettività, della produttività, del senso dell’ufficio, del sapere
specifico dei suoi addetti, e dunque della specializzazione, della spinta di dedizione propria del Beruf del funzionario. Per queste sue caratteristiche la moderna burocrazia, con la razionalità che la contraddistingue, apparirà come potere
inevitabile, che si impone con una sua forza oggettiva, così come si impone la
macchina nella sfera della produzione dei beni.14
Nella definizione stessa invece del potere carismatico emergono immediatamente le due caratteristiche che lo oppongono al potere legale: «per carisma
si deve intendere una qualità considerata straordinaria […] che viene attribuita
ad una persona».15 Innanzitutto dunque l’elemento della straordinarietà, di
ciò che non è comune né quotidiano, che è eccezionale; e inoltre quello della
soggettività personale: in questo caso la credenza che sta alla base della legittimità riguarda la personalità (Persönlichkeit) e i rapporti che si instaurano tra
i sottoposti e il capo (Führer) e tra questi e il suo seguito sono rapporti di tipo
personale, basati sulla fiducia nella persona.
Qui non è la norma a regnare o la regola astratta, ma il diritto viene a prendere il senso vivente del comando del capo: non è mai codificabile, ma è continua innovazione ispirata al principio che afferma: «sta scritto… ma io vi dico… ». Egualmente, al carisma è estranea la sfera economica, intesa come
economia ordinaria per la copertura dei fabbisogni e il mantenimento di un
apparato stabile; e ciò perché la forma di potere carismatico rifiuta ogni immissione nella vita quotidiana, in quanto è per natura straordinaria (aussertäglich). Per lo stesso motivo è refrattaria ad un apparato amministrativo stabile
e regolare, che è essenziale al modo in cui si esprime quotidianamente il potere. Non è che manchi necessariamente un apparato amministrativo, ma coloro
che costituiscono quest’ultimo, siano essi discepoli, o seguito, o uomini di fiducia, sono sempre legati al capo da un rapporto personale soggettivo e non
da quel rapporto oggettivo che si manifesta nell’ufficio. L’elemento fondamentale è il Beruf, non nel senso di «professione», ma in quello enfatico del
termine, indicante «vocazione», «missione», «compito interiore»;16 e proprio
a tale disposizione interiore fa appello la vera educazione carismatica, anche
qui sprofondata nella interiorità personale di contro allo stile dell’insegnamento
specialistico postulato dalla moderna burocrazia.17
La conclusione conseguente di tale schematica presentazione si ritrova nella esplicita affermazione di Weber: «il potere carismatico, in quanto straordi14
Cfr. WuG, I, 129 (ES, I, 219) e WuG, II, 561 (ES, IV, 75).
WuG, I, 140 (ES, I, 238).
16
WuG, I, 142 (ES, I, 241).
17
Cfr. WuG, II, 677 (ES IV, 254).
15
126
nario, si contrappone nettamente tanto a quello razionale, soprattutto di tipo
burocratico, quanto a quello tradizionale, in particolare a quello patriarcale e
patrimoniale o di ceto».18 Mentre il potere carismatico è eccezionale, estremamente labile, legato ai momenti iniziali della formazione del potere, o ai
momenti di rivoluzione e di crisi, il potere razionale sembra caratterizzato dalla stabilità, dalla produttività di tipo meccanico e sembra essere dominante nel
tempo ordinario. Non solo la loro logica appare contrapposta, ma anche non
compatibile, ragione per cui, se non è vero che i tipi del potere si presentano
uno dietro l’altro in una linea di sviluppo, in cui quello carismatico occupi solo la fase iniziale, tuttavia si può affermare che «il destino del carisma è quello di retrocedere con il progressivo sviluppo delle formazioni istituzionali
permanenti».19
La situazione teorica potrebbe a questo punto sembrare tranquilla: i tipi ideali sembrano manifestare una loro logica univoca ed esprimersi come coerenti costellazioni concettuali, utili come punto di riferimento per l’analisi
empirica, nella quale essi appaiono mescolati, proprio in quanto, come puri
tipi logici, non hanno nessun luogo nella realtà storico-empirica. Tuttavia mi
sembra che il quadro sia ben più complesso e che la tendenza all’implicazione
reciproca dei tipi ideali si presenti all’interno della loro logica, al di là della
stessa consapevolezza weberiana che nella realtà quasi mai si danno tipi puri
del potere, in quanto la fede che sta al suo fondamento non è «quasi mai» univoca.
3. Il carisma e la durata del potere
È assai significativo che, nei luoghi in cui si dedica alla descrizione del potere carismatico, Weber senta il bisogno di trattare il tema della trasformazione del carisma, sia nella direzione della pratica quotidiana, e dunque del potere
ordinario, sia in quella della riduzione dell’elemento dell’autorità personale, il
quale si esprime nel potere carismatico nella sua massima intensità. Infatti se
la relazione di potere instaurata dal carisma acquista carattere durevole
(Dauerbeziehung) dando luogo ad una comunità (Gemeinde), allora il potere
carismatico, puro allo status nascendi, deve mutare il suo carattere, trasformandosi in senso tradizionale o razional-legale.20
È da ricordare che tale trasformazione del carisma non riguarda la mescolanza in cui esso si trova nella concreta ricerca storica, ma è piuttosto ancora
18
19
20
WuG, I, 141 ( ES, I, 240) .
Cfr. WuG, II, 670 ( ES, IV, 242) e anche II, 681 (IV, 266).
Cfr. WuG, I, 142-143 (ES, I, 243 ).
127
interna all’analisi dei tipi puri del potere ed appare determinata dal problema
posto dalla durata del potere. È questa caratteristica della durata ad implicare
la stabilità propria della forma – sono infatti elementi formali che emergono in
questo processo di trasformazione – e il toglimento di quell’aspetto di labilità
che continuamente viene attribuito al potere carismatico, il quale appare appropriato ai casi eccezionali o rivoluzionari e, in definitiva, ai momenti e ai
processi di origine di ogni organizzazione del potere.21
Quella della durata non è peraltro una caratteristica accessoria nei confronti del potere. Essa è già intrinseca al concetto di gruppo politico (politischer
Verband), il quale è gruppo di potere (Herrschaftsverband) solo in quanto la
sua sussistenza e la validità dei suoi ordinamenti vengono garantite continuamente (kontinuerlich) mediante l’uso e la minaccia della forza fisica;22 e ciò
appare con evidenza in quello che si potrebbe considerare il politischer Verband per eccellenza – in quanto, come si è detto, gioca un ruolo rilevante per
la elaborazione stessa dei tipi del potere – che è lo Stato, il cui carattere fondamentale è il monopolio della forza, che lo rende istituzione razionale (rationaler Anstalt) e impresa continuativa (kontinuerliche Betrieb).23 Tale
continuità si esprime anche in altri gruppi di potere, come quelli di tipo
ierocratico, e in quell’analogo dell’istituzione statale che è fra essi l’impresa
istituzionale della Chiesa.
Ma, prendendo il problema ancora più alla radice, si può dire che la durata
riguardi lo stesso concetto di potere, come appare nella descrizione dei
concetti fondamentali. Questo infatti, a differenza della mera potenza (Macht),
intesa come possibilità di influire sui rapporti sociali imponendo la propria
volontà, instaura, in quanto Herrschaft, un rapporto di comando-obbedienza
che per sua natura non è aperto al capovolgimento, ma implica il carattere della stabilità.24 Lo stesso concetto di legittimità tende a consolidare la struttura
21
In modo ricorrente infatti Weber parla del carisma per spiegare la nascita di un raggruppamento politico, anche per quanto riguarda quei raggruppamenti particolarmente rilevanti che sono i partiti moderni, i quali, pur essendo caratterizzati dalla razionalità moderna
che si manifesta nel processo di burocratizzazione, hanno origine, quasi senza eccezione,
come seguiti carismatici di un capo (cfr. WuG, II, 668; ES, IV, 239) .
22
WuG, I, 29 ( ES, I, 53).
23
WuG, I, 30 ( ES, I, 54-55).
24
WuG, I, 28 ( ES, I, 52 ). A livello di traduzione è quasi sempre difficile trovare in una
parola la soluzione del problema della resa del senso, che solo un contesto linguistico concettuale può in realtà dare. Per quanto riguarda la traduzione del termine Herrschaft ho preferito
mantenere la versione di «potere», propria della edizione italiana di Economia e società, anziché ad esempio «signoria» o «dominio» o «sovranità», perché mi sembra meglio adattarsi
ai diversi casi della tipologia di Weber e, nell'uso della lingua italiana - specialmente
nell'accezione «potere politico» - più vicino al problema della legittimazione, indicando insieme l'essenzialità della forza fisica e anche la sya giustificazione, e con ciò il suo occulta-
128
del potere, esprimendo all’interno dei diversi tipi l’elemento fondamentale del
riconoscimento da parte di coloro che sono sottoposti e che si trovano nella
dimensione dell’obbedienza. Il rapporto di comando-obbedienza tende dunque
a configurarsi come un rapporto stabile, creando un meccanismo in cui il
comportamento e le reazioni sono prevedibili.
È significativo che il concetto di Herrschaft, nelle pagine dedicate ai «concetti sociologici fondamentali», sia immediatamente accostato a quello di Disziplin, individuante «la possibilità di trovare, in virtù di una disposizione acquisita, un’obbedienza pronta, automatica e schematica ad un certo comando
da parte di una pluralità di uomini». La disciplina accentua il carattere di continuità proprio del potere, che sembra consolidarsi specialmente nella forma
tipica della razionalità moderna; infatti, anche se la disciplina non è certo riducibile a razionalità formale, è da ricordare che è proprio la burocrazia a costituire il prodotto più razionale della disciplina.25
Il potere carismatico allora, in quanto appunto tipo del potere, non può non
fare i conti con questo elemento della durata, che coinvolge la struttura del potere. Perciò il problema della «trasformazione» riguarda la stessa logica del
tipo ideale, e il processo di trasformazione del carisma, che tende a mettere in
evidenza alcuni elementi formali sia nell’esercizio che nel fondamento del potere, può essere considerato un processo tipico.26 Se è vero che l’analisi weberiana coglie il punto di distinzione tra i poteri in un elemento soggettivo qual è
quello della credenza nella legittimità del potere, questa credenza soggettiva
tuttavia è ciò che sociologicamente determina le diverse strutture delle forme
di potere e i princìpi della loro reale organizzazione.27 Perciò la descrizione
mento. «Potere» appare allora, in questa accezione, parola moderna, ed esprime, mi sembra,
il significato che il termine Herrschaft - indicante i rapporti di dominio - viene ad assumere
alle soglie del moderno, quando, all’interno di una serie di processi storici – come dice il
Brunner –, muta radicalmente il significato che prima gli era proprio, caratterizzato dai rapporti di «signoria».
25
Cfr. WuG, II, 682 ( ES, IV 260) . Così come il termine Herrschaft si trova con un significato nuovo all’inizio della teoria dello Stato moderno (tale da comportare assolutezza e non
resistenza), altrettanto la disciplina appare svolgere una funzione nuova e complementare a
quella di sovranità in questo scenario moderno: cfr. su ciò P. Schiera, Dalla concentrazione
del potere alla partecipazione. Possibili risposte sul tema di crisi delle risorse, in Soggetti e
potere, a cura di V. Dini, Bibliopolis, Napoli, 1983. Sull’impossibilità di recuperare un significato unitario e in continuità con quello moderno nel periodo dell’antichità e del medioevo,
cfr. la voce Herrschaft in Geschichtliche Grundbegriffe, Historisches Lexikon zur politischsozialen Sprache in Deutschland, hrsg. O. Brunner, W. Conze, R. Koselleck, Klett-Cotta,
Bd. 3, Stuttgart, 1982, pp. 1-102.
26
Di typisierte Entwicklung parla Leibholz a proposito del passaggio da una fondazione
trascendente ad una immanente del detentore del potere, in rapporto ad esempio alla monarchia (Cfr. G. Leibholz, Das Wesen der Repräsentation, cit., p. 145, tr. it., p. 217).
27
Cfr. ad es. WuG, II, 549 ( ES, IV, 55-56) .
129
dei diversi tipi del potere è insieme descrizione dei diversi fondamenti della
credenza sulla validità del potere ed esame della organizzazione reale che le
diverse forme di potere vengono a prendere.28 Risulta allora necessario esaminare il modo in cui il potere carismatico si incontra con la caratteristica, fondamentale per il potere, della durata, per quanto riguarda sia il fondamento
della legittimità, sia la forma di organizzazione reale dell’esercizio del potere.
Nella trasformazione del potere carismatico in pratica quotidiana (Veralltäglichung des Charisma) emergono due elementi. Innanzitutto appare naturale la stabilizzazione dell’apparato amministrativo, che è il modo in cui
maggiormente agisce il potere nelle situazioni ordinarie: «con la pratica quotidiana il gruppo carismatico di potere sfocia quindi completamente nelle forme di potere ordinario di tipo patrimoniale, e soprattutto del potere di ceto e
del potere burocratico».29 Inoltre tale trasformazione comporta un adattamento
alle regole di quell’altra potenza che agisce in modo continuativo nella vita
ordinaria che è l’economia.30 In altri termini si può dire che l’eccezionalità,
che caratterizzava all’origine il potere carismatico, si incardina nelle regole,
cioè in elementi caratteristici della razionalità formale: con l’elemento della
forma esso acquisisce la dimensione della durata.
Anche la trasformazione del carisma in senso extra-autoritario è legata a
questo tipo di dinamica e mostra l’emergere di elementi formali, che hanno a
che fare con aspetti tipici della razionalità moderna. Infatti la trasformazione
in senso extra-autoritario è guidata dalla necessità della riduzione
dell’elemento personale del comando, riduzione che rende il rapporto di potere più stabile e duraturo. Se già nel potere carismatico più genuino è necessario il riconoscimento (Bewärung) da parte dei dominati, perché senza riconoscimento non c’è legittimità e nemmeno potere, in quanto non c’è
disposizione all’obbedienza, tuttavia in esso il riconoscimento non appare
come fondamento, ma come una risposta dovuta alle qualità straordinarie del
capo.31 La crescente razionalizzazione comporta invece che il riconoscimento
divenga fondamento e non conseguenza della legittimità (legittimità democratica), ragion per cui l’espressione di volontà dei sudditi si mostra razionalmente alla base della stessa autorità del detentore del potere.32
28
Tale rapporto tra credenza nella validità, come caratterizzante i diversi tipi di potere, e
la loro organizzazione reale non mi pare del tutto scevro di problemi e aporie: basti pensare
al ruolo che riveste nell’efficacia pratica della macchina burocratica il segreto d’ufficio, che
non pare invece elemento essenziale – tutt’altro – per la credenza nella validità del potere
legale.
29
WuG, I, 146 ( ES, I, 249)
30
.-..
Cfr. WuG, I, 148 (ES, I, 251)
31
Cfr. WuG, I, 140 (ES, I, 238)
32
Cfr. WuG, I, 156 ( ES, I, 264)
130
È qui opportuno notare che tale elemento della razionalità, che richiede
formalmente il riconoscimento come fondamento dell’autorità, e cioè la volontà degli individui alla base della stessa legittimità del comando, è tratto caratteristico che emerge nel tentativo di fondazione della forma politica proprio
del giusnaturalismo moderno. Una volta infatti negata la naturalità del comando dell’uomo sull’uomo e la giustificazione trascendente dell’autorità,
quale si può ad esempio indicare nella grazia divina, il potere politico deve
essere creato basandosi sulla volontà e sulla scelta razionale di tutti gli individui: esemplare a questo proposito è il gesto teorico di fondazione del corpo
politico proprio di Hobbes. Si può allora dire che tale istanza della primarietà
del riconoscimento parta da lontano e connoti di sé lo sviluppo di un importante filone della teoria moderna dello Stato.
Tuttavia ciò che Weber ha presente in questo tratto dell’analisi è piuttosto
quell’incrocio di legalità e carisma che occupa la sua problematica teorica degli ultimi anni e si presenta nella forma della democrazia plebiscitaria. Qui il
detentore del potere non perde la sua qualità di Herr, ma la mantiene: è Führer, che basa formalmente il suo potere sulla libera elezione, e perciò su un
elemento tipico della legalità. In questo incontro con la legalità il potere carismatico si apre organizzativamente a quegli elementi fondamentali per lo Stato moderno quali sono l’economia razionale e il diritto formale.
La democrazia plebiscitaria è il modo in cui i due opposti tipi del potere
carismatico e del potere legale si mostrano fortemente intrecciati tra di loro:
essa infatti come «tipo di democrazia subordinata a un capo – è, nel suo senso
genuino, una specie di potere carismatico, che si cela sotto la forma (Form) di
una legittimità derivante dalla volontà dei sudditi e sussistente solo in virtù di
questa».33 Se in tal modo si mostrano attivi gli elementi tipici della razionalità
moderna, ciò non avviene certo nella direzione dell’indebolimento del rapporto di comando-obbedienza, il quale appare anzi estremamente rafforzato, nel
momento in cui l’obbedienza non si esprime nei confronti di un’altra persona
particolare, ma della propria volontà che sta alla base del comando del capo.
L’elemento della legalità formale non toglie, ma rafforza al massimo grado il
rapporto di obbligazione politica, e nello stesso tempo mantiene l’aspetto personale del Führer, in cui si esprime l’elemento carismatico.
Cercherò più oltre di indicare come questo problema della coniugazione
dei due tipi del potere, che è focalizzato nella figura epocale della democrazia
plebiscitaria, si mostri in realtà iscritto nella stessa genesi della moderna teoria
dello Stato; a questo punto è invece da ribadire ulteriormente il fatto che anche la trasformazione in senso extra-autoritario è dovuta all’imporsi del pro33
WuG, I, 156 ( ES, I, 265) .
131
blema della durata del potere, che sembra implicare necessariamente elementi
tipici della razionalità formale.
Riflettendo su questo cammino, Weber non può allora affermare semplicemente che con il nascere della razionalizzazione si riduce lo spazio del carisma e della decisione soggettiva, ma deve anche aggiungere che, pur essendo
vero che, trasformandosi in favore dell’imporsi di formazioni permanenti, il
carisma cede di fronte a queste, esso «resta tuttavia, anche se in senso profondamente mutato, un importantissimo elemento della struttura sociale».34 Nella
democrazia plebiscitaria si mostra come lo sviluppo verso gli elementi della
razionalità, con la forza e la durata che essi comportano, non annulli
l’elemento carismatico. Se è vero che la disciplina e il suo prodotto più razionale qual è la burocrazia, procedono incessantemente con il procedere della
razionalizzazione, è anche vero che tale produttiva macchina è oggettivo
strumento disponibile per chi si affidi al suo servizio, e che «anche un eroe
carismatico può prendere al suo servizio la “disciplina”, e anzi deve farlo se
vuole estendere quantitativamente il suo potere».35
A questo punto sembra utile percorrere un’altra via, quella cioè in cui il
potere legale-razionale si mostra, per la sua stessa logica, aperto all’elemento
opposto.
4. L’elemento eccedente nel potere di tipo razionale-legale
Al concetto di potere sembra connaturato l’aspetto della durata, che trova
la sua garanzia nell’elemento formale, ma non sembra tuttavia meno essenziale l’elemento personale proprio del detentore del potere. Se è infatti vero che
il potere si esprime e funziona ordinariamente come amministrazione, è altrettanto vero che «ogni amministrazione, in quanto per la sua direzione devono
pur sempre essere posti nelle mani di qualcuno dei poteri di comando, richiede in qualche modo il potere», e ciò anche nel caso in cui il potere di comando
si presenti in modo per niente evidente (unscheinbar) e il detentore di esso
(Herr), appaia non come «signore» (Herr), ma come semplice «servitore»
(Diener) dei suoi sudditi, come avviene ad esempio nel caso dell’amministrazione democratica diretta.36 La coessenzialità dei due elementi appare nella stessa definizione del potere, che richiede normalmente (anche se «non
sempre», aggiunge Weber a questo proposito) un apparato amministrativo
34
35
36
WuG, II, 679
WuG, II, 681
WuG, II, 545
( ES, IV, 257) .
( ES, IV, 260) .
( ES, IV, 50, cors. mio).
132
vo (Verwaltungstab) e uno o più detentori del potere, cioè uno o più Herren.37
Perché si dia il fenomeno della Herrschaft ci deve dunque essere uno Herr. È
proprio guardando alla configurazione del rapporto tra il detentore e
l’apparato amministrativo e tra questi due e i dominati che si distinguono i diversi tipi della legittimità, e con ciò le diverse strutture dei poteri.
Ora, in quanto quello razionale-legale è un tipo del potere, ci si può chiedere quali caratteristiche abbia in esso la figura dello Herr, indispensabile
perché ci sia Herrschaft.38 Weber, come sopra è stato ricordato, nella trattazione del potere legale lascia da parte l’esame del tipo del capo e si concentra
sull’analisi dell’apparato amministrativo tipico di questa specie di potere, cioè
della burocrazia. Ciò è comprensibile se si pensa che la legittimità si fonda
sulla credenza di coloro che sono sottoposti e che esprimono ubbidienza, e
che, in questo caso specifico, all’interno della credenza sulla validità del potere sono preminenti e caratteristici gli aspetti oggettivi e formali, mentre sembra irrilevante o secondaria la scelta e la figura del detentore, il quale appare,
in questo caso, sottomesso esso pure alle regole. Ciononostante il problema
non è tolto, anzi può addirittura sembrare aggravato se si tiene conto della
consapevolezza weberiana che anche nelle forme di potere razionale-legale il
tipo del capo appartiene ad altra specie, ed è spesso collegabile, come gli esempi mostrano, all’elemento carismatico.39 Se da una parte dal fenomeno del
potere non è sottraibile l’elemento dello Herr, dall’altra questo, anche nelle
forme in cui è maggiormente nascosto e il detentore appare semplice servitore
dei suoi sudditi, mantiene il carattere che gli è proprio, cioè quello del comando dell’uomo sull’uomo.40
Di tale problema Weber mostra di avere consapevolezza quando,
nell’esame della «origine e trasformazione dell’autorità carismatica», afferma
che l’analisi dei caratteri del potere patrimoniale, di quello feudale e di quello
burocratico, ha riguardato «soltanto il modo di funzionamento di tali poteri»;
«ma con ciò non è stata risolta la questione delle caratteristiche in base a cui
viene scelto il detentore del potere (Gewalthaber) burocratico o patriarcale».41
La questione non è risolvibile eliminando del tutto l’elemento personale e ri37
Cfr. WuG, I, 122 (ES, I, 207).
Infatti: «il fenomeno del potere è connesso soltanto alla presenza attuale di una persona che dia con successo ordini ad altri (an das aktuelle Vorhandensein eines erfolgreich an. I, 52) .
dern Befehlenden) » (WuG, I, 29, ES,
39
Cfr. WuG, I, 126 ( ES, I, 214). 40
Cfr. WuG, I, 124 ( E S, I, 210)
41
WuG, II, 662 (ES, IV, 231, cors. mio); cfr. anche quelle pagine in cui Weber afferma
che quasi mai si dà un fondamento puro del potere, in quanto la fede nella sua validità
mostra spesso elementi combinati, cosicché «nel potere legale essa non è quasi mai
puramente legale» (WuG, I, 154; ES, I, 260).
38
133
tenendo che in un meccanismo burocratico il capo altro non sia che un funzionario investito della sua carica in base a norme generali. Tale opinione non
è compatibile con lo stesso concetto puro del potere burocratico: infatti «il tipo puro di burocrazia, costituito da una gerarchia di funzionari impiegati, esige una qualche istanza che non fondi la sua posizione sull’«impiego», in un
senso uguale a quella delle altre».42
Da ciò sembra di poter concludere da una parte che il problema dello Herr
non è eliminabile dai rapporti di potere che si descrivono nel tipo legale con
apparato amministrativo-burocratico, e dall’altra che il rapporto che egli ha
con la sua posizione di potere non è riducibile al rapporto «razionale»
dell’ufficio, ma si basa su una istanza altra e radicalmente diversa. Si può
pensare dunque che anche lo stesso rapporto tra il capo e l’apparato e il capo e
i sudditi non sia totalmente sussumibile dalla fede nelle regole che informa il
potere razionale-legale, e ciò proprio all’interno di questo stesso tipo di potere.
Analoga questione mi sembra trasparire anche dagli scritti più propriamente
politici, dove, se da una parte si riconosce che sempre più il potere consiste nel
maneggio dell’amministrazione, così che, nella politica come nell’economia,
sempre meno il vero sovrano (Souverän) riesce nella sua opera di direzione e
controllo,43 dall’altra si critica la burocrazia quando essa si accolla il compito
di scelta e decisione, che è ineliminabile ma non di sua pertinenza, poiché
spetta al capo politico. La situazione teorica diviene più complessa se si pensa
al fatto che nell’analisi weberiana della sfera politica si viene a modificare radicalmente il quadro ricevuto in eredità dalla teoria classica dello Stato, e
l’esame del funzionamento reale del potere mostra come non sia il detentore
legale del potere a costituire l’effettivo elemento decisionale (basti pensare
alle reali funzioni che il parlamento viene a svolgere, al di là del compito istituzionale di esprimere la volontà della nazione che gli era attribuito da una
concezione liberale classica affermatasi dalla rivoluzione francese in poi e ancora presente nelle costituzioni formali), ma come piuttosto quest’ultimo si sia
dislocato e siano emersi altri tipi di capi politici (si pensi ai capi dei moderni
partiti di massa).44 Anche in questo caso, in cui l’analisi sociologica si apre a
una realtà che presenta uno scarto radicale nei confronti della costituzione
formale del potere, il rapporto tra i dominati e il capo politico non è risolvibile
42
Ibid.
M. Weber, Politik als Beruf, in Gesammelte politischen Schriften, hrsg. J. Winckelmann, Mohr, Tübingen, 19713, p. 520, tr. it. in Il lavoro intellettuale come professione, Einaudi, Torino, 1976 p. 67.
44
Questo problema che comporta una radicale complicazione epocale tipica del passaggio ’800-’900 della teoria classica dello Stato, è qui solo indicato in quanto va oltre il compito di questa indagine.
43
134
mediante la semplice fede nella oggettività delle regole, e il carattere personale riemerge come non toglibile. Di nuovo, anche partendo dal cuore del tipo
legale del potere, ci si trova di fronte a quell’incrocio di elemento razionale ed
elemento carismatico che si ripresenta in modo epocale nella forma della Führerdemokratie, ma che appare iscritto nella stessa logica che ispira la distinzione e l’analisi dei tipi del potere.
Se nella Politica come professione, per quanto riguarda il destino dell’epoca presente, si contrappone al piatto dominio dei politici di professione
senza vocazione (Berufpolitiker ohne Beruf), come unica altra possibilità, una
Führerdemokratie, che si avvale della forza organizzativa della macchina burocratica, ciò serve a portare alla luce quell’aspetto personale della scelta e
della decisione, che si basa sull’elemento formale dell’espressione di volontà
dei dominati, ma che non perde il carattere carismatico per quanto secolarizzato
esso sia.45 La Führerdemokratie appare allora non come un punto solamente
contingente di incrocio dei tipi puri, ma un punto emblematico e significativo
per intendere quella tendenza all’incrocio che è insita nella loro stessa logica e
che non permette una loro semplice opposizione in sfere di per sé autonome e
autosufficienti.
È significativo che l’elemento razional-formale e quello carismatico, per
felice combinazione, siano racchiusi nella lingua tedesca entrambi in un unico
termine, che risulta assai pregnante nel testo weberiano: l’aspetto della professione, in cui si manifesta la disciplina nella forma razionale tipica della burocrazia moderna, e quello della vocazione o della chiamata, che ha il suo spazio proprio nell’ambito della fede in cui si incardina il carisma, sono entrambi
espressi da quel Beruf, che diviene così simbolo della loro opposizione, ma
anche della loro reciproca implicazione.
45
Il concetto di carisma, ripreso da Rudolph Sohm, tende, mediante un uso secolarizzato, a perdere il senso originario del dono, della grazia ricevuta da Dio, e tende semplicemente
a indicare l’elemento non razionale ed eccezionale (cfr. O. Brunner, Bemerkungen zu den
Begriffen, cit., pp. 72-73, tr. it., pp. 112-113). Ciò avviene nello stesso momento in cui il
concetto viene da Weber impiegato per descrivere una situazione di potere, cioè relativa al
rapporto comando obbedienza. È tale contesto a mostrare ancora come il problema che spinge Weber alla concettualizzazione sia il presente storico e la forma politica moderna, in relazione alla quale l’elemento del carisma tende ad esprimere l’aspetto non riducibile alla razionalità formale, alla forma «formata», in quanto legato alla questione della produzione
della forma, della scelta, della innovazione. Sul rapporto storico di Weber con un nuovo aggregato di fatti o «una nuova materia», che fa sì che il carisma gli appaia come potenza storica universale, cfr. F.M. Tenbruck, Max Weber e Eduard Meyer, cit., pp. 185 ss.
135
5. «Herrschaft» e «Repräsentation»
Ci si può a questo punto porre un problema che comporta un ulteriore affondo nel testo weberiano e contemporaneamente opera su di esso una forte
sollecitazione, immettendolo all’interno di un più vasto contesto teorico; ci si
può cioè chiedere quali siano le caratteristiche di quello Herr che risulta più
appropriato a una situazione di potere legale. Tale domanda comporta, a mio
avviso, la necessità di tener presente non solo il contesto dello Stato moderno,
ma anche del cammino proprio della teoria politica moderna, almeno di quello
di una sua porzione considerevole e caratteristica. Raccolgo qui il suggerimento di Norberto Bobbio, che ha efficacemente tentato un accostamento, a
proposito della teoria dello Stato e del potere, tra il pensiero weberiano e la
filosofia politica moderna.46
Naturalmente questa operazione, come emerge anche dal testo di Bobbio,
è delicata e non può non muovere dalla constatazione del piano diverso in cui
si collocano Weber e i filosofi moderni nel momento in cui riflettono sul potere. Mentre l’atteggiamento dei classici è quello di una operazione di fondazione razionale, in cui viene creato il moderno concetto di sovranità, con il carattere giuridico di potere supremo e assoluto che lo contraddistingue, l’analisi di
Weber intende muoversi sul piano della comprensione dei modi dell’agire sociale, elaborando quei tipi, a cui è possibile ricondurre il rapporto di comandoobbedienza, quale si dà nei comportamenti umani. Da una parte dunque un
atto di fondazione, che vuole, mediante una deduzione razionale, determinare
la società giusta, in opposizione alla confusa e ingiusta situazione storica,
dall’altra un atteggiamento di comprensione del reale comportamento degli
uomini, mediante schemi e modelli tipici di interpretazione.47
Tuttavia già il concetto di legittimazione è significativo per questo rapporto, perché indica da una parte il rifiuto della immediatezza e originarietà del
rapporto di comando-obbedienza, e dall’altra una situazione in cui il potere si
da come monopolio della forza, il che comporta la rinuncia da parte di coloro
che obbediscono all’uso della forza fisica: proprio a causa della legittimazione
il potere politico (Herrschaft) è tale e non potere nel senso della mera forza e
capacità di condizionare la condotta altrui (Macht). Ambedue queste
caratteristiche sono proprie di quella teoria moderna del corpo politico o
societas civilis, che a partire da Hobbes tenta di fondare razionalmente la sfera
politica.
46
Cfr. N. Bobbio, La teoria dello Stato, cit.
Cfr. l’annotazione di Winckelmann secondo cui i tipi ideali non possono certo essere
considerati concetti giuridici, da cui scaturiscano dei contenuti nella realtà, ma piuttosto nascono dalla concreta analisi dei rapporti sociali (J. Winckelmann, Gesellschaft und Staat in
der verstehenden Soziologie Max Webers, Duncker & Humblot, Berlin, 1957, p. 35).
47
136
Nonostante il diverso atteggiamento di pensiero di che si può riscontrare
tra Weber e i classici del giusnaturalismo, il riferimento alla teoria moderna a
partire dal contesto weberiano appare giustificato, soprattutto quando si faccia
riferimento al potere legittimo di tipo legale, caratteristico della razionalità
occidentale moderna. Infatti se è vero che le forme di legittimazione riguardano in Weber la credenza soggettiva dei sottoposti nella validità del potere, e
dunque l’analisi dei comportamenti sociali, è anche vero che tale comportamento, che, nel caso specifico del potere legale consiste nella fiducia nelle regole e nella loro oggettività, è reso possibile proprio in quanto si è dato quel
lungo processo storico che è il processo di razionalizzazione; è questo infatti
che ha portato alla caduta della credenza in elementi magici, al disincanto, alla
fiducia nel dominio del mondo mediante la scienza e la tecnica e al valore delle regole razionali e oggettive. In questa via della razionalizzazione svolgono
il loro ruolo non solo una serie di processi materiali, ma anche lo sviluppo
della scienza e della tecnica e, potremmo dire, in relazione al problema del
potere e dello Stato, anche la cultura politica e giuridica, in particolare quel
razionalismo del seicento e settecento in cui si inserisce la vicenda del giusnaturalismo moderno.48
48
Non si vuole qui suggerire un legame diretto tra Weber e il giusnaturalismo, una sua acquisizione consapevole della portata della filosofia politica moderna sul problema dello Stato:
Bobbio ricorda la scarsa influenza che le dottrine filosofiche avrebbero per Weber sui processi
reali (N. Bobbio, La teoria dello Stato, cit., p. 238) e lo stesso Mommsen si riferisce alla ripetuta convinzione di Weber che gli assiomi del diritto naturale siano da considerarsi princìpi arcaici e abbiano perso ogni forza fondante il diritto – e, potremmo dire, lo Stato – (W.J. Mommsen,
Max Weber und die deutsche Politik, Mohr, Tübingen, 19742, sp. pp. 418 ss., ora in tr. it. a cura
di D. Conte, Il Mulino, Bologna, 1993) . Si tratta piuttosto di indicare, in base ad una interpretazione dell’elaborazione da parte del giusnaturalismo della forma Stato, quanto, da un punto di
vista oggettivo, l’analisi weberiana implichi quella elaborazione e si collochi in rapporto con
quell’apparato concettuale moderno, nei confronti del quale opera per altro una svolta epocale
che si evidenzia nella comprensione della trasformazione radicale che viene a prendere la forma
Stato e del ruolo dei gruppi e dei partiti: tale svolta, che si presenta nella realtà e nella teoria,
giustifica la stessa convinzione di Weber che l’apparato teorico del diritto naturale sia legato a
princìpi antichi e non più effettivi. L’indicazione di Winckelmann, secondo cui la legittimazione del diritto naturale sarebbe un caso della categoria della legittimità razionale (= legalità) (J.
Winckelmann, Legitimität und Legalität, cit., p. 35), sembra dover essere corretta dalla consapevolezza, manifestata anche in parte dallo stesso autore, della diversità tra i concetti del giusnaturalismo e quelli della sociologia weberiana. Il problema sembra piuttosto consistere nel
fatto che non è possibile pensare i tipi weberiani del potere se non in rapporto con quel tema del
monopolio della forza e della sua legittimazione che costituisce il nodo centrale della riflessione giusnaturalistica che accompagna la storia dello Stato moderno. Sul tema del giusnaturalismo in Weber si veda anche Max Weber, Werk und Person, Dokumente ausgewählt und kommentiert von E. Baumgarten, Mohr, Tübingen, 1964, cap. V, pp. 425 ss., e W. Schluchter, Die
Entwicklung des okzidentalen Rationalismus, Mohr, Tübingen, 1979, sp. p. 125 (tr. it., Il Mulino, Bologna, 1987).
137
Appare perciò giustificato mettere in rapporto l’analisi weberiana con il filone giusnaturalistico moderno che elabora la forma Stato; e ciò innanzitutto a
proposito degli stessi concetti di legittimazione e di Herrschaft. Infatti, come
già sopra si è ricordato, è nel momento in cui il concetto di signoria si trasforma radicalmente, prendendo i caratteri del moderno concetto di sovranità
– implicante la creazione di un corpo unitario in cui si somma e unifica la potenza di tutti gli individui – che nasce, nella perdita del riferimento ad ogni
tipo di ordine precedente, il problema della legittimità di questo accumulo di
forza. Se il corpo politico è prodotto artificiale, in un mondo di meri individui,
esso non può trovare fondamento che nella volontà e nella razionalità dei singoli. Sia il problema del monopolio della forza e della irresistibilità del potere,
sia quello della legittimità, che tende a porre la volontà del singolo alla base
del potere, all’interno del contesto della formazione dello Stato moderno si
trovano anticipati dalla teoria, mentre nella più complessa situazione storica si
ha una permanenza di elementi che si oppongono all’omogeneità e all’unità,
e ciò anche all’interno delle forme assolutistiche. 49
Ma qui, al centro della costruzione contrattualistica della forma politica
propria del giusnaturalismo, troviamo un concetto chiave (particolarmente utile all’impostazione del nostro problema), che pur non essendo nuovo, viene a
prendere un significato diverso e altro dal passato, in relazione al contesto logico in cui è inserito: quello di rappresentazione, infatti, se alla base del potere politico, come momento essenziale della legittimazione, stanno gli individui con l’espressione della loro volontà – che nello scenario contrattualistico
si dà una volta per tutte, nel momento della genesi del corpo politico – colui
che detiene il potere non può essere inteso altrimenti che come rappresentante,
come cioè colui che non agisce in virtù di una prerogativa originaria, ma esprime, in quanto autorizzato da tutti gli individui, quell’unica volontà del
corpo politico in cui tutti fin dall’inizio si riconoscono. Il concetto di rappresentazione viene a costituire il filo rosso che percorre, come si è visto, la quasi
totalità delle teorie contrattualistiche classiche e dà la sua impronta al modo in
cui è inteso il potere e alla logica che è propria del rapporto tra chi lo detiene e
coloro che sono sottomessi.
Potere, con il monopolio della forza che lo costituisce, legittimità nel senso sopra indicato, e rappresentazione costituiscono dunque, in questo contesto
49
Sul permanere di istanze pluralistiche e locali nel processo di formazione dello Stato
unitario si veda G. Oestreich, Strukturproblem des europäischen Absolutismus, “Vierteljharschrift für Sozial- und Wirtschaftsgeschichte”, 1969, pp. 329-347 e di D. Gehrard, Regionalismus und Ständisches Wesen als ein Grundthema europäischer Geschichte, «Historisches
Zeitschrift», 1952, pp. 308-337, entrambi tradotti in Lo stato moderno, a cura di E. Rotelli e
P. Schiera, Il Mulino, Bologna, 1971, vol. I, rispettivamente pp. 173-191 e 193-219.
138
di teoria politica, un plesso di concetti strettamente legati nel loro significato e
nella funzione che svolgono. È significativo che anche in Weber il nesso tra
questi concetti costituisca l’ambito in cui si svolge l’analisi del potere, segno
questo dell’oggettivo legame, nonostante il diverso atteggiamento di fondo,
tra il pensiero weberiano e la moderna filosofia politica.
Tutto il problema della legittimazione può, nello stesso pensiero weberiano, essere inteso come problema dell’agire rappresentativo.50 Infatti
l’accettazione del comando, e dunque la credenza nella validità del potere,
equivale ad intendere il volere del detentore del potere come il volere di tutto
il gruppo politico, e ciò sia nel caso di un fondamento della legittimazione di
tipo carismatico, sia di uno di tipo tradizionale o legale. Il detentore del potere
è legittimo, e può quindi esercitare il comando, in quanto è inteso dai sudditi
come colui che agisce per loro, compie le loro azioni ed è dunque rappresentante. Si pensi al modo in cui è definita nel rapporto di potere l’obbedienza:
«l’obbedienza indica che l’agire di colui che obbedisce si svolge essenzialmente come se egli, per suo stesso volere, avesse assunto il contenuto del comando come massima del proprio atteggiamento – e ciò semplicemente a
causa del rapporto formale di obbedienza, senza riguardo alla propria opinione sul valore o sul non valore del comando in quanto tale».51 Intendere il contenuto del comando come massima del proprio agire in base alla propria volontà equivale infatti ad instaurare un rapporto in cui colui che è sottomesso
per propria volontà intende il volere di colui che detiene il potere come il
proprio volere, le sue azioni come le proprie azioni: cioè l’agire del detentore
come un agire rappresentativo.
Naturalmente tale estensione del concetto di rappresentazione è comprensibile qualora si fuoriesca dalle opinioni che attribuiscono l’agire rappresentativo alle forme della democrazia moderna e poi intendono queste ultime alla
luce dell’idea della superiorità del rappresentato sul rappresentante secondo i
modi – che non sembrano essere caratteristici delle moderne formulazioni del
concetto di rappresentanza politica – del mandato imperativo. Tali opinioni
sono messe in crisi già dalla constatazione che ben diverso appare il principio
rappresentativo, quale si viene a formulare nelle posizioni di Hobbes e di
Sieyes, e quale si manifesta nella maggior parte delle costituzioni dalla rivoluzione francese in poi.
Weber, in un luogo di Economia e società esplicitamente dedicato alla Repräsentation, mostra di avere consapevolezza di questa ampiezza del concetto
50
51
Cfr. G. Leibholz, Das Wesen der Repräsentation, cit., p. 142 (tr. it., p. 215).
WuG I, 123 (ES, I, 209).
139
e della logica che lo pervade.52 Non è questo il luogo per una analisi completa
del concetto quale si riscontra nel pensiero weberiano, ed è altresì da tener
presente che l’uso dello stesso termine di Repräsentation appare oscillante,
come mostra il rimando che si ha, nella parte del capitolo sui tipi del potere
dedicato alla Repräsentation, a ciò che era stato trattato a proposito dei concetti sociologici fondamentali sotto la denominazione di Vertretung.53 Tuttavia allo scopo della presente riflessione è utile ricordare che la Repräsentation, nel luogo testuale indicato, mostra di coprire le più diverse forme del
potere. Innanzitutto è significativo che Weber parli di approprierte Repräsentation, come di quella che esprime le caratteristiche dell’agire del capo o di un
membro del gruppo, sia in una situazione patriarcale che carismatica, proprio
perché questo è un indizio di quanto lontana sia la concezione weberiana da
quelle opinioni sulle cosiddette istituzioni rappresentative a cui si è accennato.
Ma è significativo anche che Weber si riferisca non tanto a quello che viene
spesso indicato come il nucleo o il carattere originario del potere carismatico,
quanto piuttosto a quelle situazioni in cui emerge una caratteristica formale e
stabile, quali ad esempio il carisma ereditario o il carisma d’ufficio;
l’elemento carismatico si trova qui già congiunto con l’aspetto formale che
sembra caratterizzare il concetto di rappresentazione in quanto determinante il
rapporto di potere.54
Inoltre è da sottolineare il fatto che a questa approprierte Repräsentation
sia accostata la ständische Repräsentation (per diritto proprio): infatti ciò che
emerge sotto questa indicazione non è tanto l’aspetto di vincolo o mandato,
52
Mi riferisco al punto 11 del cap. III su «I tipi del potere» del I vol., sp. al § 21, a cui
risulta appropriata la titolazione ripresa anche dalla traduzione italiana «essenza e forme della rappresentanza» (WuG, I, 171-174- ES, 290-294), in quanto qui si analizzano le diverse
forme della Repräsentation e il carattere specifico di questa, consistente in un rapporto di
comando, che va dall’alto verso il basso; è invece probabilmente frutto di una svista l’uso
nella traduzione italiana della stessa titolazione, in difformità dal testo tedesco, per il § 19
(ES, I, 286), in cui si esamina invece la forma dell’amministrazione tramite rappresentanti,
nella direzione della minimizzazione del potere, tale per cui l’amministrazione è semplice
servizio (Dienst) dei membri del gruppo (Verbandgenosse), come avviene nel caso della democrazia diretta; è significativo che tale forma sia richiamata nel § 21 a proposito della gebundene Repräsentation, con la consapevolezza della differenza di questa forma dalle altre,
nelle quali si manifesta il carattere proprio della Repräsentation.
53
Cfr. WuC, I, 171 ( ES, I, 290), e il § 11 de «I concetti sociologici fondamentali», WuG,
I, 25 (ES, I, 44-46).
54
Si ricordi l’indicazione schmittiana secondo cui Repräsentieren è Formieren (C.
Schmitt, Römischer Katholizismus, cit, pp. 40 ss.; tr. it., pp. 59 ss.), che trova riscontro, per
quanto riguarda la teoria politica moderna nel nesso che traspare tra principio rappresentativo e forma e stabilità del corpo politico. Non è un caso che in Rousseau il rifiuto della rappresentanza sia congiunto con un senso informale che è proprio della volontà generale: la
volontà sovrana è sempre indeterminata ed eccede ogni forma che produce.
140
che può in parte sembrare proprio della rappresentanza cetuale, quanto piuttosto il carattere specifico della rappresentazione. Questo infatti viene in luce
(cioè la ständische Repräsentation prende il carattere di Repräsentation)
quando «l’effetto del consenso ad una decisione di ceto relativa alla persona
del titolare del privilegio si esercita sugli strati non privilegiati».55 In questo
caso non solo emerge il necessario riferimento – essenziale al concetto di rappresentazione – a chi non agisce per proprio conto e perciò appare come rappresentato, ma anche l’aspetto secondo cui l’agire rappresentativo indica un
rapporto in cui volontà e agire si specificano dall’alto verso il basso e in cui il
rappresentante non è semplice esecutore di comandi, o in ogni caso di una volontà già determinata.
Tale carattere sembra andare perso nel terzo tipo di rappresentanza, la gebundene Repräsentation, caratterizzata dal mandato imperativo. Sebbene sia
da tener presente che, a causa della oscillazione linguistica sopra indicata, anche in questo caso si usa ancora il termine di Vertretung come sinonimo di
quello di Repräsentation e dunque non ci troviamo di fronte ad una distinzione di termini quale si avrà, alla fine degli anni Venti, ad opera soprattutto di
Carl Schmitt e Gerhard Leibholz,56 tuttavia è da riscontrare come emerga una
marcata distinzione concettuale tra le altre forme della rappresentanza e questa, in cui i rappresentanti sono in realtà funzionari (Beamten), di coloro che
rappresentano.57 Qui infatti, dove la volontà dei rappresentati è determinata e
determinante, il potere di rappresentanza (ancora Vertretungsgewalt) appare
limitato e ridotto, al punto che sembra andar perso l’elemento specifico di essa,
secondo cui il rappresentante non è Diener (con la conseguente Minimisierung
der Herrschaft e la contemporanea diminuzione o scomparsa dell’elemento
personale), ma è Herr nei confronti dei rappresentati. La rappresentanza vincolata e il mandato imperativo sono infatti da Weber attribuiti da una parte alla situazione di rappresentanza tipica dell’ancien régime (i rappresentanti dei
comuni in Francia, vincolati ai loro cahiers de doléances) e dall’altra a quella
forma, eccezionale nello Stato moderno, di repubbliche rette da consigli, nelle
quali questo tipo di rappresentanza vuole essere un «surrogato della democrazia diretta, che è impossibile nei gruppi di massa».
55
WuG, I, 172 ( ES, I, 290) ; tale modo continuistico di lettura della rappresentanza cetuale e di quella moderna non è per altro consona alla linea del presente lavoro.
56
Per quanto riguarda la netta distinzione operata da Leibholz e da Schmitt tra la Repräsentation, che si riferisce all’unità politica, e la Vertretung, che, o è pertinente allo spazio
privato degli interessi, o in campo pubblico ha un significato ben diverso da quello di rappresentanza politica, cfr. il cap. IV del presente lavoro.
57
È questa la situazione di minimizzazione del potere analizzata nel § 19.
141
Ciò che appare caratterizzare l’epoca moderna e la razionalità occidentale
è qui la quarta forma di rappresentanza, cioè la freie Repräsentation, in cui il
rappresentante non è vincolato alla tutela degli interessi di coloro che lo hanno
delegato, ma è obbligato solo dalle sue convinzioni oggettive. È essenziale
l’indicazione weberiana dei casi in cui ciò non è il risultato di una semplice
lacuna, dovuta a quell’estendersi del gruppo a gruppo di massa che rende difficile per il detentore ricevere istruzioni ed essere controllato a causa del
grande numero degli elettori: non c’è qui dunque da ipotizzare il ritorno ad
una situazione in cui più ristretta sia la forbice numerica tra rappresentante e
rappresentati, cosicché il primo possa meglio «rappresentare» i secondi. Si
tratta invece, in questi casi emblematici, di «un contenuto coerente dell’elezione
di un rappresentante», il quale, nella concezione della rappresentanza libera, è
non Diener ma Herr eletto dai suoi elettori. Questo è il significato delle moderne rappresentanze parlamentari, che condividono le caratteristiche del potere legale.58
Per il nostro problema, riguardante i caratteri più appropriati dello Herr in
una situazione di potere legale-razionale di tipo moderno e il rapporto che ciò
ha con le teorie dello Stato, specialmente con il filone giusnaturalistico, possiamo trovare luce dalla congiunzione di due considerazioni weberiane. La
prima è quella riguardante la funzione del giusnaturalismo, nella veste che esso assume all’interno dell’illuminismo razionalistico dei secoli XVII e XVIII.
In esso infatti emergono alcuni elementi tipici del potere legale, in quanto solo
esso riuscì a creare norme di carattere formale e a mostrare alla base del potere legittimo la statuizione che dipende dalla stipulazione razionale. È questo il
contesto che si riferisce allo scenario del patto sociale nella sua forma sia reale, di un effettivo contratto tra individui, che ideale, secondo cui è legittimo
solo quel diritto il cui contenuto non contrasta con il concetto di ordinamento
secondo ragione, stabilito mediante libera stipulazione.59 È questo pure lo
scenario teorico in cui si stabilisce la centralità della libertà dell’individuo e si
mette radicalmente in crisi ogni tipo di schiavitù dell’uomo sull’uomo. Non si
possono qui non riconoscere alcuni degli elementi fondamentali che sono propri del potere legale tipico della razionalità occidentale moderna.
58
Cfr. WuG, I, 172 (ES, I, 291). Come già è stato detto resta fuori di questa indagine il
problema posto dai moderni partiti politici, che non mi sembra inserirsi nel quadro teorico
che si sviluppa dalla nascita dello Stato moderno alla elaborazione dello Stato di diritto
(quadro che tuttavia, almeno formalmente permane), in modo pacifico e in una linea di continuità, ma che appare piuttosto operare nella forma di disgregazione di quel quadro e nella
crisi delle forme di legittimità che esso implica.
59
Cfr. WuG, II, 497-498 (ES, III, 177-178).
142
La seconda considerazione weberiana riguarda la centralità per lo Stato
moderno post-rivoluzionario della rappresentanza libera e i suoi caratteri specifici. Innanzitutto la centralità: se infatti è tipica della razionalità occidentale
moderna la legittimazione del potere di tipo legale, altrettanto propria
dell’occidente è la rappresentanza libera e la sua riunione in corpi parlamentari. La rappresentanza politica moderna poi, per quanto riguarda i suoi caratteri
specifici, è determinata dal fatto che in essa il deputato rappresenta tutto il popolo e in assenza di ogni mandato imperativo. Ciò si afferma con la rivoluzione francese e la scomparsa del mandato imperativo avviene progressivamente,
secondo Weber, con l’affermarsi dello Stato moderno, nell’azione del monarca assoluto, già prima che il corpo parlamentare avesse la funzione di rappresentanza di tutta la nazione.
Se nella sua affermazione che l’idea della rappresentanza dell’unità politica era già sviluppata prima della rivoluzione francese 60 è forse da ravvisare
un riferimento alla Francia pre-rivoluzionaria e ai dibattiti parlamentari, piuttosto che alla letteratura giusnaturalistica, resta tuttavia il fatto che un oggettivo legame tra quel concetto di rappresentanza e la filosofia giusnaturalistica
sembra essere racchiuso nella stessa duplice consapevolezza weberiana: che
tale modo di intendere l’esercizio del potere è appropriato alla forma caratteristica del potere legale, e che alcuni elementi tipici di questa stessa forma già
erano emersi nel contrattualismo proprio del moderno giusnaturalismo. Nella
linea interpretativa che esamina il pensiero giusnaturalistico in rapporto alla
sua produzione della forma politica, che qui ho solo richiamata, si potrebbe
aggiungere che quel concetto di rappresentanza libera, che precede la stessa
rivoluzione francese, ha in realtà il suo fondamento teorico proprio nel modo
in cui il giusnaturalismo intende il potere e la sua legittimità.
Ma ciò che è maggiormente rilevante, al di là di queste considerazioni, che
tendono a una sollecitazione del testo weberiano legata ad una interpretazione
della filosofia politica del giusnaturalismo, è la stessa convinzione di Weber,
più volte ribadita, che, se colui che detiene il potere nella forma tipica del potere legale può essere considerato rappresentante, ciò non può essere certo
inteso nell’accezione secondo cui egli è servitore, ma appunto in quella in cui
egli è Herr di coloro che lo eleggono. In questo essere «signore» del rappresentante riemerge, al centro di una forma di potere legale, tipica della razionalità moderna, la caratteristica della personalità. Infatti se il rappresentante non
è servo, e dunque non è vincolato ad istruzioni precise e ad una volontà determinata a lui precedente, allora la sua designazione o elezione non può essere risolta oggettivamente, mediante la fiducia nelle regole, ma appare legata
60
Cfr. WuG, I, 173 ( ES, I, 293) .
143
alla fiducia nella persona che rappresenterà, secondo la sua responsabilità e le
sue convinzioni, l’unità di tutto il popolo. Tale fiducia è personale e mostra
ancora un elemento che, sia pure in forma secolarizzata, non può non essere
inteso, nella particolare accezione weberiana, che come carismatica. Anche
tale elemento della fiducia nella persona è già iscritto nello scenario del giusnaturalismo moderno, perché già in Hobbes la perfetta giustificazione razionale del potere e dunque della necessità del sovrano, è aperta nel suo punto
centrale, quello della scelta del sovrano, che è appunto persona e implica
dunque fede nella persona. È proprio l’implicazione di tale fede cieca e non
garantita, che si manifesta nella costruzione – per altro logicamente coerente –
della rappresentanza politica, che determina l’aspra critica di Rousseau al
principio rappresentativo.61
Se è vero che l’elemento dello Herr e del comando è indispensabile perché
ci sia Herrschaft e che la forma più adeguata al potere razionale-legale è quella del rappresentante libero, che, come Weber ricorda, è altrettanto irresponsabile del monarca assoluto,62 allora anche all’interno di questo tipo del potere
emerge quell’elemento carismatico, con la fede nella persona che esso comporta, che non può dunque essere radicalmente disgiunto, nemmeno da un
punto di vista puramente logico, dalla forma della razionalità moderna. Perciò
nella questione della democrazia plebiscitaria non sembra di dover ravvisare
una semplice questione empirica, ma piuttosto un punto focale che coinvolge
la stessa articolazione e distinzione dei tipi del potere, e che mostra un rapporto con l’apparato teorico proprio della moderna teoria dello Stato.
61
Cfr. A. Biral, Rappresentazione e governo nel ’700 francese (Un capitolo di teologia
politica), «Il Centauro», 1981, n. 2, pp. 23-38 (ora in A. Biral, Storia e critica della filosofia
politica moderna, cit., pp.207-228. Si tenga peraltro presente che la critica radicale alla rappresentanza istituzionalizzata in quanto comporterebbe fede cieca, non impedisce in Rousseau il presentarsi necessario di quella figura del Legislatore, che deve interpretare la volontà
generale, e che, non basandosi né sulla forza, né sulla dimensione istituzionale, non può affidare la sua influenza che alla fede nella sua «opera divina», come si è visto nel cap. II del
presente lavoro.
62
«Wie der Monarch unverantwortlich ist» (WuG, II, 666; ES, IV,237) .
144
4. Rappresentazione e unità politica
nel dibattito degli anni Venti:
Schmitt e Leibholz
Il passaggio tra Otto e Novecento viene a costituire una soglia epocale da
un punto di vista epistemologico complessivo e anche dal punto di vista della
dottrina dello Stato. In area europea si assiste a una crisi istituzionale che
comporta una forte interrogazione sullo specifico dello Stato, sulla sua essenza e sul suo statuto. Non sembra ora avere più capacità di tenuta, sia al livello
della interpretazione della realtà che a quello della proposta teorica e legittimante, il modello dello Stato liberale e dello Stato di diritto, che aveva segnato il dibattito del XIX secolo.1 L’idea dello Stato come unità politica si scontra
con un quadro complesso di spinte, di aggregazioni di interessi e di coaguli di
forza, che incidono sulla espressione della volontà statale: si pensi ad esempio
ai moderni partiti di massa e alle forze sindacali.
Per intendere queste trasformazioni si possono ricordare alcuni luoghi teorici, tra i quali è particolarmente rilevante quello costituito da Weber, il quale,
se da una parte, con evidente rapporto con tutta la tradizione moderna, riflette
sui tipi di legittimazione del potere, dall’altra analizza una sfera politica divenuta complessa, in cui gruppi di pressione, organizzazioni dei partiti di massa
e rappresentanze di interessi modificano strutturalmente proprio il quadro del
potere moderno come monopolio della forza e le forme della sua legittimazione. Ma ci si può riferire anche al primo Kelsen e alla sua critica della personalità dello Stato;2 oppure al concetto di crisi dello Stato quale appare in Santi
1
Su ciò, per quanto riguarda la cultura italiana, si veda il volume collettaneo a cura di A.
Mazzacane, I giuristi e la crisi dello Stato liberale in Italia tra Otto e Novecento, Liguori,
Napoli 1986.
2
Si veda il contributo di M. Fioravanti, Kelsen, Schmitt e la tradizione giuridica
dell’Ottocento, in G. Gozzi e P. Schiera (a cura), Crisi istituzionale e teoria dello Stato, cit.,
pp. 51-104.
145
Romano e al complesso della sua riflessione teorica.3 E si tenga pure presente
la denuncia esplicita di Hermann Heller della crisi dello Stato.4
In questo quadro non mi sembra che si assista ad una semplice e indolore
trasformazione degli assetti istituzionali e teorici: il problema è più profondo e
radicale e coinvolge lo stesso statuto della moderna forma politica e dei modi
della sua razionalità e giustificazione. Infatti dietro alla scienza dello Stato del
XIX secolo sta un lungo processo teorico che parte dalla filosofia del Seicento, la quale, nel suo costituirsi come scienza politica, pone le basi per la formulazione di una teoria del corpo politico, facendo emergere concetti che si
mostreranno irrinunciabili per ogni successiva considerazione sullo Stato,
quali quello di persona civile, di sovranità, di rappresentanza. Allora non è solo il modello dello Stato liberale ad andare in crisi, ma gli stessi elementi essenziali della forma Stato, quei presupposti cioè che permettono la formulazione del modello liberale. Inoltre il termine «crisi» non sta qui semplicemente ad
indicare un momento di caduta di una forma in sé valida, quanto piuttosto il
luogo in cui emergono aporie che sono costitutive e connaturate a quella forma fin dall’inizio.
Un quadro storico determinato, ma anche altamente emblematico per una
riflessione su questi problemi, è quello della esperienza weimariana. È significativo che in una situazione complessa, in cui si assiste alla difficoltà di intendere e procrastinare il senso dell’unità politica, emerga al centro dell’attenzione
e del dibattito costituzionale il concetto di rappresentanza, che svolge un ruolo
fondamentale per dare un senso preciso alla costellazione di concetti che si
delineano nel momento di nascita della moderna scienza politica. Per comprendere il respiro europeo di questa situazione epocale è utile ricordare che
anche nella cultura italiana della fine del secolo XIX si assiste ad una concentrazione di attenzione sul tema della rappresentanza politica, a cui si cerca di
dare uno statuto scientifico mediante la distinzione nei confronti delle istituzioni del diritto privato e della figura del mandato.5 Quanto più la realtà appare complessa tanto più invece la riflessione riguarda l’unità politica anche nel
3
Cfr. M.S. Giorgini, Profili storici della scienza del diritto amministrativo (1940),
«Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», II, 1973, pp. 179 ss.; M.
Fioravanti, Per l’interpretazione dell’opera giuridica di Santi Romano, «Quaderni fiorentini
per la storia del pensiero giuridico moderno», X, 1981, pp. 169 ss.; M. Fioravanti, Stato di
diritto e Stato amministrativo nell’opera giuridica di Santi Romano, contenuto in I giuristi e
la crisi, cit., pp. 309 ss.
4
Cfr. H. Heller, Die Krisis der Staatslehre, «Archiv für Sozialwissenschaft und
Sozialpolitik», LV, 1926, pp. 289-316 (tr. it. in La sovranità, cit., pp. 29 ss.).
5
Cfr. G. Gozzi, Rappresentanza politica e rappresentanza degli interessi nella riflessione
giuridica e politica fra Otto e Novecento, in I giuristi e la crisi dello Stato, cit., pp. 231 ss.
146
dibattito tedesco degli anni Venti, proprio perché è nel nesso rappresentanzaunità politica che è visto giocarsi il senso specifico della forma Stato.6
Al fine di mettere in luce la natura scientifica della rappresentanza politica
e la problematica che essa comporta è opportuno compiere un’analisi del modo determinato in cui questa categoria è pensata da due autori che l’hanno posta al centro della loro attenzione e del loro pensiero politico, cioè Carl
Schmitt, soprattutto nella Dottrina della costituzione, e Gerhard Leibholz, nel
testo dedicato a L’essenza della rappresentazione.7 Nonostante gli esiti diversi
nei confronti del presente storico, le prospettive di questi due autori si mostrano assai vicine e interagenti: Schmitt è a conoscenza del progettato lavoro di
Leibholz, che, pur pubblicato nel 1929, e addirittura già terminato all’inizio
del 1928,8 rivela una costante attenzione per il testo schmittiano, che è pubblicato nello stesso 1928.
In questa analisi emergono alcuni risultati di rilievo, sia da un punto di vista teorico, sia da quello storico concettuale. Innanzitutto si afferma la distinzione tra rappresentanza politica (Repräsentation) e la rappresentanza in senso
privatistico (Vertretung) o quale si dà in contesto diverso da quello dell’epoca
moderna, dominato dal problema del potere e dell’unità politica. Tale distinzione permette di chiarire il senso specifico della categoria di rappresentanza
nel Moderno, mettendo in luce gli aspetti di modificazione radicale del senso
(Strukturwandel del concetto) che si determina con il modificarsi del contesto
storico e concettuale. In secondo luogo si evidenzia la coestensività del concetto di rappresentanza alla moderna forma politica, dal momento che essa fagocita e mostra come suo elemento quell’identità che costituisce, per entrambi
gli autori, l’altro principio della forma politica e la base del moderno concetto
di democrazia. Infine si impone il fatto che, se è vero che la riflessione sulla
rappresentazione nasce all’interno di un ambito giuridico e costituzionale, tuttavia l’analisi della sua struttura non è possibile se non mediante un pensiero
6
Si ricordino, oltre ai testi di Schmitt e di Leibholz qui esaminati, E. Gerber, Der
Staatstheoretische Begriff der Repräsentation in Deutschland, cit.; F. Glum, Der deutsche
und französische Reichwirtschaftsrat, cit., ma anche H. Heller, Die Souveränitat, cit. (tr. it.
cit.) e R. Smend, Verfassung und Verfassungsrecht, cit. (tr. it. cit.). Sulla tematica e sulle
diverse posizioni successivamente H.J. Wolff, Organschaft und juristische Person; II:
Theorie der Vertretung, cit., pp. 16-91, ora anche in Rausch (hrsg), Zur Theorie und
Geschichte der Repräsentation, cit., pp. 116-208 (ove sono contenuti diversi saggi importanti
sul tema della rappresentanza). Per una visione d’insieme sul dibattito di questo periodo si
tenga presente, a prescindere dal taglio critico, V. Hartmann, Repräsentation in der
politischen Theorie und Staatslehre in Deutschland, Berlin, 1979.
7
Cfr. C. Schmitt, Verfassungslehre, cit. (tr. it. Dottrina della costituzione, cit. ) e G. Leibholz, Das Wesen der Repräsentation , cit. (tr. it. cit. ).
8
Cfr. C. Schmitt, Verfassungslehre, cit., p. 208 ( tr. it., p. 275) e G. Leibholz, Das Wesen
der Repräsentation, cit., la Prefazione alla prima edizione, p. 2 (tr. it., pp. 43-44) .
147
che Schmitt intende come radicale, aperto alla teologia e alla metafisica, e lo
stesso Leibholz considera proprio di un approccio filosofico, in modo specifico fenomenologico.
1. Rappresentazione e forma politica
Quando, nella Verfassungslehre, Schmitt affronta il problema di quell’elemento politico senza di cui non si può dare Stato, egli avanza la proposta
di intendere ogni concreta forma politica come derivante da due princìpi contrapposti, quello di identità e quello di rappresentazione. Il primo è espresso
dall’idea del popolo sempre realmente presente nella sua immediata identità
come unità politica e si basa sul fatto che non vi può essere Stato senza popolo – essendo esso proprio lo status dell’unità politica di un popolo –, e questo,
in quanto entità esistente, deve sempre essere effettivamente presente. In contrapposizione al primo si ha il secondo principio che si basa sulla convinzione
che «l’unità politica in quanto tale non può essere mai presente nella reale identità e perciò deve sempre essere rappresentata personalmente (persönlich)
da uomini».9
In questa distinzione si nota subito come l’elemento rappresentativo non
sia riportabile a quello democratico né trovi in esso il suo fondamento, come
afferma invece una lunga tradizione di pensiero, ma piuttosto si contrapponga
a quell’idea del popolo esprimente la sua volontà che sembra stare alla base
del concetto stesso di democrazia. Tuttavia un’analisi attenta delle formulazioni schmittiane riguardanti la natura e la struttura della rappresentanza politica, la dottrina della democrazia e il problema del potere costituente mostra
non solo che i due princìpi si implicano reciprocamente, ma anche che sono
elementi indispensabili di una stessa struttura formale. Ciò può apparire giustificato dal fatto stesso che, come politische Gestaltungsprinzipien, servono
alla comprensione della forma politica, la quale appare impensabile senza
ognuno di essi. Ma, rimandando ad un momento successivo l’analisi
dell’intreccio di questi due princìpi, bisogna qui innanzitutto intendere la
struttura della rappresentazione e il ruolo che essa ha nel costituirsi della forma politica.
Già in Cattolicesimo romano e forma politica Schmitt aveva non solo
identificato nella rappresentazione l’elemento portante e essenziale della
forma politica, ma aveva anche messo in luce il carattere formante proprio
della rappresentazione, la quale si mostra perciò non solo effetto
dell’esistenza della forma politica (per cui se questa esiste c’è bisogno di
9
Cfr. C. Schmitt, Verfassungslehre, cit., p. 205 ( tr. it. p. 271) .
148
un’istanza che rappresenti l’unità politica in modo stabile e istituzionale), ma
anche attività che la produce. Intendere la rappresentanza politica
semplicemente come elemento strutturale della forma moderna dello Stato è
solo un aspetto, proprio di una riflessione formale e istituzionale; ma ancora
più importante appare la com- prensione del fatto che è l’attività
rappresentatrice stessa a dare una forma de- terminata a quella volontà
generale o volontà unitaria del corpo politico che nello Stato si deve
esprimere. In relazione sia alla luce che viene alla storia del pensiero
politico moderno dall’analisi concettuale di Schmitt, sia alla pre- senza dello
stesso sviluppo delle moderne categorie nella sua riflessione, non si può qui
non tener presente lo stretto nesso esistente tra principio rappresen- tativo e
forma, che si ha in Germania alla fine del Settecento con Kant e anche con
Fichte, e che guida la critica di questi pensatori alla democrazia nel senso più
stretto del termine, per il fatto che la volontà del popolo, priva di ogni elemento rappresentativo, appare indeterminata e indeterminabile, priva di limiti e di forma.10
Se nel rappresentare consiste l’attività che conferisce forma (formieren), si
può allora comprendere che non vi può essere Stato senza rappresentanza: «Es
gibt keinen Staat ohne Repräsentation, weil es keinen Staat ohne Staatsform
gibt und zur Form wesentlich Darstellung der politischen Einheit gehört».11
L’unità politica non può essere posta ed esposta se non conferendole forma
mediante la rappresentazione, che si mostra così elemento essenziale dello
Stato.
Il nesso rappresentazione-unità politica è indagato da Schmitt secondo la
direzione di una concettualità radicale, che, pur muovendosi all’interno del
pensiero giuridico, ne forza continuamente i confini, e ciò proprio al fine di
intendere quanto nello stesso ambito giuridico si viene a produrre. Anche qui
egli non si ferma ad una definizione della rappresentanza politica nella sua determinazione istituzionale, ma tende alla comprensione del fenomeno concreto dell’attività rappresentativa, che intende indicare mediante il termine di Existenzielle. Tale attività consiste nel «rendere visibile e temporalmente
presente un essere invisibile mediante un essere che è pubblicamente presente
(Repräsentieren heisst, ein unsichtbares Sein durch ein öffentlich anwesendes
Sein sichtbar machen und vergegenwärtigen).12 Nella rappresentazione si manifesta dunque una dialettica tra visibile e invisibile; in modo più determinato:
10
Cfr. G. Duso, Logica e aporie della rappresentanza tra Kant e Fichte, «Filosofia politica», I, 1987, pp. 31-56.
11
C. Schmitt, Verfassungslehre, cit., p. 207 ( tr. it., p. 273) .
12
Ibidem, p. 209 (tr. it., p. 277); mi discosto qui, come pure talvolta in seguito, dalla traduzione italiana.
149
«la dialettica del concetto consiste nel fatto che l’invisibile (das Unsichtbares)
è presupposto come assente (abwesend) ed è nello stesso tempo (gleichzeitig)
reso presente (anwesend)».13
Nei confronti di tale dialettica di visibile e invisibile, che già era emersa
negli scritti giovanili dedicati alla Chiesa e allo Stato,14 è stata formulata, nel
dibattito coevo alla Dottrina della costituzione, l’indicazione critica della sua
appartenenza ad un ordine di argomentazione di tipo teologico, in cui è tipico
del divino essere pensato insieme come presente e come assente: si potrebbe
dire presente in quanto assente.15 È altresì significativo, per comprendere come la logica del discorso schmittiano non sia pacificamente da interpretare
mediante la chiave semplice delle contrapposizioni dualistiche, che nella definizione sopra riportata sia usato un termine compromesso in tutto un plurisecolare dibattito sul principio di contraddizione: l’essere invisibile è infatti assente e presente nello stesso tempo (gleichzeitig): il che significa che nel
momento in cui diviene presente e visibile non perde la sua natura di invisibile, e dunque l’eccedenza e la trascendenza che lo costituisce. Schmitt infatti
insiste sulla non omogeneità che vi è tra l’essere di cui si deve dare rappresentazione e l’essere che lo rende presente: essi non sono sullo stesso piano, perché il secondo si dà sul piano empirico, mentre il primo, pur essendo reso presente mediante l’essere pubblico del rappresentante, eccede per sua natura
l’esistenza e ogni manifestazione empirica. Viene così ripresa una questione
già formulata in Cattolicesimo romano: non può essere rappresentato ciò che
è presente nella sua realtà empirica, ma solo ciò che ha un’altra natura, come
l’idea o il divino.16
Anche Leibholz nella sua analisi tutta dedicata a questo concetto chiave
della forma politica, in Das Wesen der Repräsentation, riprende questa differenza esistente tra l’esserci empirico delle cose e ciò che è rappresentabile, in
quanto appartiene, come già dice Schmitt, a una più alta specie dell’essere
(höhere Art Sein), che è presupposta dalla rappresentazione e la rende possibile.17 Anche qui il riferimento va ad una Wertsphäre, che è determinata dal
rapporto con l’idea.
13
Ibidem.
Cfr. il capitolo sulla teologia politica in Schmitt contenuto in questo stesso volume.
15
Cfr. F. Glum, Begriff und Wesen der Repräsentation, cit., pp. 106-107 (cfr. p. 32 del
presente lavoro).
16
Cfr. C. Schmitt, Römischer Katholizismus, cit., pp. 23 ss. (tr. it. pp. 45 ss. ).
17
Cfr. G. Leibholz, Das Wesen der Repräsentation, cit., p. 32 (tr. it., p. 74) , e C.
Schmitt, Verfassungslehre, cit., p. 210 (tr. it., p. 277).
14
150
In quanto l’essenza della rappresentazione consiste nel rendere presente,
in senso esistenziale e temporale, ciò che non è realmente presente,18 la rappresentazione è altra cosa da una semplice astrazione di ciò che è unitario o
universale nella molteplicità dei singoli dati: non solo ciò che deve essere rappresentato non è deducibile dalle individualità empiriche, ma è anche ad esse
precedente e presupposto. Egualmente bisogna distinguere la rappresentazione
dalla semplice raffigurazione di qualcosa o dalla creazione di immagini (Darstellung), in quanto la rappresentazione si riferisce a ciò che è altro, che appare
solo attraverso di essa, ma nello stesso tempo la eccede: rappresentare qualcosa
significa riferirsi a ciò che si vuole rappresentare e che deve essere sempre nuovamente (noch einmal dice continuamente Leibholz) reso presente.19
Attraverso questo linguaggio metafisico nel dibattito costituzionale del periodo weimariano, in cui si assiste alla crisi dello Stato, ciò che si vuole caratterizzare è la natura della rappresentanza politica, così come essa si viene a
determinare nella moderna scienza dello Stato. La rappresentanza politica
prende infatti il suo senso specifico nel momento in cui, secondo la natura del
rappresentare che si è sopra descritta, è collegata all’unità del popolo o della
nazione: questa è rappresentabile in quanto non è un dato empiricamente presente; se lo fosse non sarebbe possibile rappresentazione. Schmitt ricorda a
questo proposito l’affermazione kantiana secondo la quale, quando il popolo è
riunito, non rappresenta il sovrano, ma è esso stesso il sovrano, e non può
dunque essere rappresentato.20 È questo il motivo per il quale il principio di
identità si oppone a quello di rappresentazione.
Per questa sua relazione con l’unità il concetto di rappresentanza politica, di
stampo pubblicistico, deve andare radicalmente distinto da quello di rappresentanza quale si dà nell’ambito del diritto privato, secondo cui una persona sta «al
posto di» un’altra, di cui difende la causa o gli interessi. Tale distinzione di Repräsentation, rappresentanza politica, e Vertretung o Stellvertretung, come rappresentanza di tipo privatistico, già presente ad esempio in Bluntschli, è ribadita nelle riflessioni che si hanno alla fine degli anni Venti, non solo da parte
di Schmitt e di Leibholz, ma anche di Smend e di Heller.21 Non è sufficiente
18
«Rein sprachlich gesehen bedeutet Repräsentieren, dass etwas nicht real Präsentes
wieder präsent, d.h. existentiell wird, etwas was nicht gegenwärtig ist, wieder anwesend gemacht wird. Durch die Repräsentation wird somit etwas als abwesend und zugleich doch gegenwärtig gedacht» (G. Leibholz, Das Wesen der Repräsentation, cit., p. 26, tr. it., p.70).
19
Ivi, p. 27.
20
Cfr. C. Schmitt, Verfassungslehre, cit., p. 206 (tr. it. p. 272) .
21
Cfr. C. Schmitt, Verfassungslehre, cit., p. 209 ss. (tr. it., p. 276 ss.) . G. Leibholz, Das
Wesen der Repräsentation, cit., p. 32 (tr. it., p. 74), R. Smend, Verfassung, cit., pp. 8 ss. (tr.
it., pp. 67 ss. ), H. Heller, Die Souveränität, cit., pp. 75 ss. (tr. it. pp. 140 ss .). Quando nel testo parlo di rappresentanza, nel senso della rappresentanza politica, mi riferisco dunque a ciò
151
che un X stia al posto di un Y o di alcune migliaia di questi Y perché ci sia
rappresentanza;22 questa si dà quando non ci si riferisce ad una realtà e ad una
volontà già esistente e determinata, ma si rappresenta ciò che non è empiricamente presente: così agisce ad esempio il parlamento nei confronti della volontà del popolo, che non è determinata prima e al di fuori dell’attività rappresentativa.
La distinzione tra Repräsentation e Vertretung non impedisce che
quest’ultima si possa dare anche nell’ambito pubblico23 in tutti i casi in cui ci
si riferisce ad una volontà determinata e si esegue semplicemente un compito
affidato: non c’è in questi casi rappresentanza politica, che si realizza solo
quando si conferisce forma all’idea dell’unità politica. Da una parte dunque la
rappresentazione si riferisce a qualcosa che la precede e la eccede, e perciò
non è semplice Darstellung, nel senso di una creazione autosufficiente di figure,24 e dall’altra ciò a cui si riferisce non ha una forma determinata, ma viene
alla presenza mediante quella dimensione produttiva e formante (Formieren)
che è propria dell’attività rappresentativa.
Attraverso queste riflessioni sul rapporto costitutivo di rappresentazione e
unità politica sia Schmitt che Leibholz incontrano il processo teorico che ha
accompagnato la genesi della moderna forma dello Stato. Infatti il padre del
concetto di rappresentanza è ravvisato in Hobbes, il quale si sforza di intendere la genesi del corpo politico come persona civile, e dunque come unità, che,
dal momento in cui si costituisce, non può più rifarsi, per la determinazione
della sua volontà, né alla moltitudine degli individui, che caratterizzano lo
scenario dello stato di natura, né alla molteplicità delle volontà all’interno dello Stato, essendo queste solo volontà private di sudditi, che non possono perciò interpretare e dare voce alla persona che con il patto è nata.25
che viene indicato nei testi tedeschi come Repräsentation. Anche nella filosofia classica tedesca il termine Repräsentation è usato per indicare il fenomeno della rappresentanza politica (cfr. G. Duso, Logica e aporie della rappresentanza, cit., e inoltre l’insostituibile testo di
H. Hofmann, Repräsentation, cit., pp. 413-414).
22
Cfr. C. Schmitt, Verfassungslehre, cit., p. 210 (tr. it., p. 277) .
23
Cfr. G. Leibholz, Das Wesen der Repräsentation, cit., p. 33 (tr. it., p. 75) .
24
Anche Leibholz, a proposito del principio dell’integrazione proposto da Smend, afferma che non è un processo integrativo a creare per la prima volta la totalità del popolo, ma
questa è prodotta noch einmal dalla rappresentazione (Ibidem, p. 47, tr. it., p. 95). Non mi
addentro qui in una discussione sulle tradizioni relative all’uso e all’etimo del termine Darstellung, limitandomi a ricordare il senso di creazione autosufficiente di figure, senza rimando all’idea, che ha in Leibholz in quanto ciò permette di evidenziare per contrasto, la struttura della rappresentazione.
25
«Questo significato integrante della rappresentazione e il suo stretto legame con il
problema della formazione della volontà statale – per quanto posso ravvisare nella letteratura
in proposito – è emerso con evidenza per la prima volta con Hobbes» (H. Leibholz, Das We-
152
Ciò comporta non solo che, nel suo emergere, il concetto di unità politica,
come monopolio della forza, implichi necessariamente l’azione rappresentativa, ma anche che l’elemento personale dello Stato sia incarnato dalla persona
del rappresentante (in Hobbes direttamente dal sovrano-rappresentante).26
Dunque la persona civile non è tale se non attraverso la persona di chi la rappresenta, cioè di quell’attore politico (persona in senso etimologico) che le dà
un volto e una voce.
Da questa impostazione del problema della rappresentanza politica e dai riferimenti a Hobbes risulta la possibilità di rileggere, con una lucidità che emargina una serie di interpretazioni consolidate nella letteratura critica, alcune
linee portanti della storia della rappresentanza politica come categoria centrale
di una teoria dello Stato. La rappresentanza non è cioè l’elemento specifico di
una concezione borghese e liberale dello Stato, tesa a delimitare e a controllare il potere, ma piuttosto costituisce il senso e il modo di agire di questo potere, e con ciò l’elemento centrale della forma politica moderna, in quanto di
questa forma è l’elemento formante.
La consapevolezza della contestualità del concetto di rappresentanza alle
categorie politiche moderne si evidenzia anche in Leibholz, nel momento in
cui distingue tale concetto da quello di solidarietà, che si basa sull’unità di un
gruppo esprimentesi attraverso la totalità dei suoi componenti.27 Qui l’azione
di ognuno è intesa come azione di tutti, ed esempio ne sarebbe il fenomeno
della faida. È invece solo nel momento in cui nasce il concetto di individuo
come entità autonoma e autogiustificantesi, separata e opposta all’entità collettiva del gruppo, che si pongono le basi per la rappresentanza. Non si può
perciò parlare di rappresentazione a proposito di quella solidarietà che caratterizza i primi raggruppamenti umani. Si può qui ricordare come l’uso di termini appartenenti alla famiglia lessicale della «repraesentatio» nel medioevo rivesta un carattere diverso proprio in quanto si riferisce ad una realtà collettiva
che implica la natura e la realtà di chi ne fa parte e che agisce mediante
l’azione di tutti i suoi membri in una organizzazione di diverse funzioni gerarchiche. Il concetto di individuo invece, punto di partenza della costruzione
contrattualistica moderna implicante quell’uguaglianza che impedisce il governo dell’uomo sull’uomo, richiede, una volta generato il corpo politico,
l’agire rappresentativo di una o più persone, che sia da intendersi come un agire di cui tutti si sono dichiarati autori.
sen der Repräsentation, cit., p. 58, tr. it., p. 101; cfr. anche H. Heller, Die Souveränität, cit.,
p. 74 (tr. it., p. 139) , e su ciò l’Introduzione di P. Pasquino alla traduzione italiana del testo.
26
Cfr. C. Schmitt, Verfassungslehre, cit., p. 214 ( tr. it., p. 283) .
27
Cfr. G. Leibholz, Das Wesen der Repräsentation, cit., pp. 30 ss (tr. it., pp. 72 ss .).
153
Si può intendere come la comprensione del fenomeno rappresentativo proprio della teoria politica moderna spinga Schmitt a criticare un grande storico
del diritto quale è Otto von Gierke, il quale, nella sua interpretazione continuistica dello sviluppo delle categorie politiche, non distinguerebbe con chiarezza una serie di concetti quali «Repräsentation», «vicem gerere», «mandatum»,
«commissio», «Ermächtigung», «Vertretung». La mancanza di chiare distinzioni tra questi concetti porta Gierke a considerare la rappresentanza, letta nella chiave di una situazione cetuale, in cui è vincolata dal mandato imperativo
– come è ad esempio in Althusius –, del tutto eclissata nell’epoca dell’assolutismo, al punto che non ne è riconosciuta la centralità in un pensatore
quale Hobbes.28 La moderna rappresentanza non può non essere caratterizzata
dall’indipendenza propria del rappresentante. Se infatti questo dipende da un
mandato e da determinate volontà e istruzioni, non può che rispecchiare le volontà da cui dipende, ma queste non sono la volontà unitaria del popolo, bensì
solo le particolari volontà di individui o corpi organizzati.29 Ciò che viene
meno dunque nella dipendenza del rappresentante è la funzione rappresentativa della volontà generale del corpo politico; egli non sarebbe allora rappresentante, ma funzionario, agente, commissario. È da tener presente che tale natura della rappresentanza è propria non solo del sovrano di Hobbes, ma anche
del rappresentante della sovranità del popolo che si ha in Kant e, come ricorda
Schmitt, del rappresentante del popolo quale emerge nella costituzione francese del 1791, e da allora in poi nella storia delle costituzioni contemporanee. Il
28
È tuttavia da rilevare che la stessa posizione schmittiana presenta una sua coerenza nel
momento in cui l’espressione dell’assolutismo e del principio rappresentativo è ravvisata in
Hobbes, nel cui pensiero è per il sovrano strutturale la dimensione rappresentativa, così come
lo scenario del contratto e il processo, sia pure ideale e logico, di autorizzazione, che sta alla
base del concetto di autorità e della dialettica autore-attore. Tale coerenza sembra invece
scomparire, rendendo più incerta e forse contraddittoria la costruzione teorica, nel momento
in cui l’espressione più pura del principio rappresentativo è ravvisata nella «monarchia assoluta» (ad es. C. Schmitt, Verfassungslehre, cit., p. 206, tr. it., p. 271 e passim, e soprattutto
Romanticismo politico, cit., p. 95), e ciò non solo per la difficoltà che si può avere nell’identificare concettualmente una tale espressione e per la complessità della realtà storica
dell’assolutismo, che appare difficilmente riducibile ad un’unità come mostra la struttura
politica dell’antico regime, che prevede ancora una realtà dei corpi e una loro rappresentanza
di fronte al re, ma anche perché nella monarchia si possono ritrovare forme di legittimazione
che si basano su elementi quali la grazia divina o la forza tradizionale della dinastia, piuttosto che su quelli propri della costruzione «razionale» dello Stato e della sovranità in senso
moderno che appaiono connaturati al concetto di rappresentazione. Si tenga a questo proposito presente l’illuminante saggio di O. Brunner sulle trasformazioni della monarchia dal
medioevo all’età moderna, Dall’investitura per grazia di Dio al principio monarchico, in
Per una nuova storia costituzionale, cit., pp. 164-199.
29
Sul senso specifico del mandato, e sul suo rapporto con una volontà espressa e
deteminata si ricordino i lavori di H. Triepel e di C. Muller citati nella n. 6 del cap. I.
154
rappresentante cioè non rappresenta i suoi elettori, o alcuni gruppi particolari,
o il circondario in cui è eletto, ma la nazione intera, la cui volontà non è data
fuori della sua rappresentazione. Da questo punto di vista il rappresentante dei
parlamenti moderni è non servitore dei cittadini che lo eleggono, ma piuttosto
loro signore (Herr), senza mandati né istruzioni, come già aveva ricordato Max
Weber.30
Se anche nel moderno Stato rappresentativo emerge questo elemento
dell’indipendenza del rappresentante nella sua funzione di rappresentare
l’intero corpo politico, ciò è dovuto allo stretto legame che si è posto fin dalla
nascita della moderna teoria politica tra il concetto di rappresentazione e quello di sovranità. Come si è visto infatti, già in Hobbes sovrano è colui che rappresenta il corpo politico nella sua unità, e fornisce dunque volto e azione a
quella forza comune che tutti hanno creato e a cui tutti sono sottoposti. In una
diversa situazione concettuale e con diverso riferimento storico, è pensabile
un corpo politico mediante lo svolgimento delle funzioni delle sue parti gerarchicamente organizzate, per cui le istanze superiori non negano quelle inferiori, e il potere più alto non è potere sovrano e assoluto. Qui invece si tratta di
esprimere quell’unica forza che è da tutti prodotta e che non può avere resistenza, un potere sovrano, che si incarna appunto nell’agire rappresentativo,
per cui si può parlare del sovrano-rappresentante.31
In realtà Leibholz separa i due concetti di sovranità e rappresentazione sulla scia di Heller, ricordando come questi giustamente distingua una rappresentazione sovrana, in cui il sovrano dispone di un potere universale ed autonomo
di decisione, e la rappresentanza magistratica (magistratische Repräsentation), nella quale sovrano non è il rappresentante ma il rappresentato, cioè il
popolo.32 Tale distinzione mi pare possibile ravvisare nelle posizioni che si
hanno nel periodo della rivoluzione francese, ad esempio in Germania in quelle di Kant e di Fichte, che, pur mantenendo il principio rappresentativo come
essenziale al darsi della forma Stato, fanno tuttavia propria la rivendicazione
di Rousseau, secondo cui la sovranità spetta alla totalità del popolo. In questo
caso il rappresentante non è più il sovrano direttamente, ma si riferisce alla
sovranità del popolo; tuttavia non può che essere l’unico interprete legittimo
di quella volontà sovrana, e dunque colui che le dà forma e la esprime. Ancora
30
Cfr. il cap. III, pp. 141 ss.
Cfr. il ricorrere dell’espressione «la persona sovrano-rappresentativa» nei saggi hobbesiani di Schmitt, che sono ora raccolti nella tr. it. a cura di C. Galli, C. Schmitt, Studi su
Thomas Hobbes, Milano, 1986. Sul rapporto sovranità-rappresentanza si veda la stessa Introduzione di Galli.
32
Cfr. G. Leibholz, Das Wesen der Repräsentation, cit., p. 76 ( tr. it., p. 131) e H. Heller,
Die Souveränität, cit., p. 75 ss. ( tr. it. pp. 140 ss .).
31
155
la rappresentanza, nel senso formante del termine, e non come esecuzione di
volontà espresse e presupposte, con la necessaria indipendenza che la connota,
appare come necessaria in relazione al concetto di sovranità, che è attribuito
alla totalità del corpo politico. Se c’è tra queste due posizioni una differenza
che esclude l’immediata identificazione dei due concetti, tuttavia essa si pone
all’interno di una più intensa unità, che separa questi due modi di intendere la
rappresentanza, come espressione di un potere unitario e sovrano, da precedenti posizioni, nelle quali la rappresentanza è legata al concetto di mandato
imperativo e il popolo non è l’istanza unitaria che si deve esprimere al di là
delle volontà particolari degli individui, ma è realtà costituita di diverse associazioni e momenti organizzativi che si esprimono nella loro pluralità. Resta
chiaro in Leibholz come in Heller che il principio rappresentativo in chiave
moderna è collegato al concetto di sovranità: ambedue prendono il loro senso
specifico nel legame che li unisce, e nel contesto storico e concettuale da cui
nascono.33
Nell’analisi, fino a qui seguita, di Schmitt e di Leibholz del concetto di rappresentazione, come concetto tipico della forma politica moderna, sono emersi
alcuni elementi caratterizzanti, che è utile ora riassumere. Innanzitutto si è mostrato centrale il rapporto tra la rappresentazione e l’unità politica, la quale è intesa non come dato empirico, ma come idea. In tale rapporto si manifesta la natura stessa della rappresentazione, che implica la non presenza di ciò che deve
essere rappresentato. Non ci si trova così tanto di fronte ad una sfera del dover
essere, quanto piuttosto ad un fatto esistenziale e ad una dimensione di concretezza, in cui si danno insieme sia l’idea sia la realtà empirica.34
L’eccedenza dell’idea nei confronti di quanto si dà empiricamente nella
presenza, e dello stesso atto del rappresentare, fa emergere un aspetto simbolico: è infatti proprio del simbolo rendere presente ciò che è altro e che trascende la natura stessa del segno presente, come pure mettere in azione un
movimento partecipativo nei confronti di ciò che è simbolizzato. L’aspetto
simbolico è richiamato da Schmitt e anche da Smend. Di esso si può parlare
anche per Leibholz; è ben vero che egli distingue la rappresentazione dal simbolo, ma non tanto per negare la natura simbolica – del rimando ad altro –
dell’agire rappresentativo, quanto piuttosto per sottolineare, a proposito di
33
Cfr. per quanto riguarda Heller la Introduzione, cit., di P. Pasquino alla traduzione italiana citata.
34
Per quanto riguarda la dimensione della Wirklichkeit in Schmitt cfr. il capitolo successivo; è significativa anche l’affermazione di Leibholz, secondo cui è nella rappresentazione
che è prodotta quell’unità in cui si danno sia la sfera ideale che quella empirica: il termine
usato è quello, segnato dalla tradizione hegeliana, di aufheben (G. Leibholz, Das Wesen der
Repräsentation, cit., p. 37, tr. it., p. 78) .
156
quest’ultimo, il carattere attivo e personale, che mancherebbe invece al simbolo, il quale, in quanto «segno», rinvia a un contenuto di valore fuori di sé, ma
non lo rende – come fa invece la rappresentazione – «ancora di nuovo concretamente presente (noch einmal konkret gegenwärtig)».35
Se alla rappresentazione è connaturato il riferimento all’idea, e proprio
perciò essa non è semplice creazione arbitraria di immagini, tuttavia tale idea
non ha una sua figura ma prende forma e viene alla presenza solo attraverso la
rappresentazione, senza con ciò perdere la sua natura.36 Il che significa che ciò
che è rappresentato – si pensi al popolo come unità politica, alla nazione – eccede sempre ogni rappresentazione, ma non emerge alla presenza e non esprime volontà determinata se non attraverso di essa.37
Natura del rappresentare è dunque di essere una attività formativa: esso
appare come l’elemento formante della forma politica. Tale determinazione
non è conciliabile con un concetto di rappresentanza che sia vincolata da
mandati imperativi o volontà espresse: è necessariamente prerogativa della
rappresentanza politica l’indipendenza, che comporta il fatto che essa provenga sempre «dall’alto», in quanto l’unità politica rappresentata non può provenire dai singoli che si sentono rappresentati.
Ancora, tale formazione dall’alto richiede la dimensione personale: non
sono le cose inanimate a poter «rappresentare», ma solo le persone, come lo
stesso etimo indica, e le persone dotate di autorità, proprio perché attraverso
loro prende forma ciò che deve essere rappresentato. Ma dignità e valore personale devono essere propri, sia pure in forma diversa, anche di coloro a cui la
rappresentazione è rivolta e che in essa si riconoscono. Tuttavia la dimensione
personale comporta anche differenza tra chi rappresenta e chi è rappresentato:
tale caratteristica, che, come vedremo, sarà negata dal principio di identità, è
ben presente in Leibholz, che insiste sulla Duplizität intrinseca alla rappresentazione.38
Nell’etimo della rappresentazione – come pure della persona – è infine radicata un’altra caratteristica, quella della pubblicità, non solo nel senso che
essa pertiene alla sfera del diritto pubblico e non a quella del diritto privato o
35
Ivi, p. 36 ( tr. it., p. 77) .
I valori ideali, infatti, che permettono e richiedono la rappresentazione, non possono
essi stessi fungere da rappresentanti: il rappresentante è tale in quanto è nella dimensione
della reale presenza ed è concretamente percepibile (ivi p. 35, tr. it., p. 76).
37
Anche Leibholz insiste sulla idealità della unità politica rappresentata (ad es. G. Leibholz, Das Wesen der Repräsentation, cit., p. 47, tr. it., p. 95) .
38
Cfr. G. Leibholz, Das Wesen der Repräsentation, cit., p. 28, e anche pp. 110-111 (tr.
it., p. 71 e 168) , dove critica il modo in cui Jellinek si rapporta alla rappresentazione
intendendo la volontà dei rappresentanti immediatamente come quella dei rappresentati, in
un’unità che perderebbe appunto la caratteristica della duplicità personale.
36
157
dell’economia, ma anche in quello della sua stessa dimensione strutturale:
rappresentare infatti non si dà se non si presenta qualcosa a qualcuno, se manca il pubblico, indispensabile alla scena in cui l’attore si esibisce. E Schmitt
ricorda come la nozione di pubblicità porti con sé quella di popolo: «non c’è
nessuna rappresentazione senza pubblicità, nessuna pubblicità senza popolo»;39 e viceversa «il popolo appare solo nella pubblicità, anzi esso produce
pubblicità».40 Allora la rappresentazione non solo implica, attraverso la pubblicità il popolo, ma lo implica come elemento attivo e produttivo nei
confronti di questa sua essenziale dimensione della pubblicità.
2. Rappresentazione e realizzazione dell’identità
Una volta chiarita la struttura del fenomeno rappresentativo, si tratta di ritornare alla contrapposizione, da cui siamo partiti, tra i princìpi di identità e di
rappresentazione. Tale contrapposizione, spesso sottolineata dagli studiosi,41 è
in effetti espressa sia da Schmitt che da Leibholz ed ha il preciso scopo polemico di contrapporsi ad un modo diffuso di intendere la rappresentanza politica
come fenomeno dell’organizzazione del potere fondata sul principio democratico contro una forma assolutistica di potere. Nella loro genesi invece il principio della rappresentanza e quello democratico sono visti come logicamente
opposti tra loro, secondo quanto appare chiaro nei due pensatori che esprimono in modo più puro i due princìpi, cioè Hobbes e Rousseau, che costituiscono
fondamentali punti di riferimento sia per Schmitt che per Leibholz.42 Se in
ambedue i casi il problema di fondo è la costruzione dell’unità politica di un
popolo, diversi sono i modi di produzione di questa unità, che si può costituire
o mediante la differenza della persona del rappresentante, oppure mediante la
presenza immediata del popolo che esprime la sua volontà.43
La contrapposizione viene subito ad attenuarsi nell’affermazione schmittiana che identità e rappresentanza nella concreta realtà dello Stato non si escludono, ma «sono solo due punti contrapposti di orientamento nella concreta strutturazione dell’unità politica» ed ambedue risultano a questa
39
Cfr. C. Schmitt, Verfassungslehre, cit., p. 208 (tr. it., p. 274) .
Ivi, p. 243 ( tr. it., p. 319).
41
Cfr. W. Mantl, Repräsentation und Identität. Demokratie im Konflikt. Ein Beitrag zur
modernen Staatsformenlehre, Springer, Wien-New York, 1975, soprattutto cap. IV, pp. 121 ss.
42
Si tengano presenti i rimandi sopra riportati da parte dei due autori a Hobbes e quelli a
Rousseau a proposito dell’identità (ad es. C. Schmitt, Verfassungslehre, cit., p. 205, tr. it., p.
271, e G. Leibholz, Das Wesen der Repräsentation, cit., p. 30, tr. it., pp. 86-87, n. 19 e 20).
43
Più volte emerge in Schmitt l’affermazione dell’opposizione tra i due princìpi: cfr. ad
es. oltre alle già citate pp. ad essi specificamente dedicate, anche p. 262 (tr. it., p. 345)
40
158
strutturazione necessari.44 Ma il problema appare più complesso, e già da
quanto è emerso dall’analisi della struttura della rappresentazione si può escludere che i due princìpi si pongano nello stesso senso e allo stesso livello
come poli di orientamento. Infatti a ben vedere, ciò che risulta nel testo
schmittiano è l’impossibilità logica della pura identità e dunque del concetto
di democrazia nella sua versione pura; di contro si ha la descrizione di una
forma che è quella in cui rappresentazione e identità si danno congiuntamente:
ma ciò accade perché la rappresentazione è principio formale (e dunque «non
c’è Stato senza rappresentazione, perché non c’è Stato senza forma»), e richiede l’elemento dell’identità nel suo processo proprio per essere quello che
è, cioè rappresentazione.
La differenza di ruolo tra i due princìpi appare subito, non appena si ricordi che quello della rappresentanza implica l’elemento del popolo che vive
come unità. Ciò può restare in ombra se il principio viene espresso mediante
la semplice indicazione della necessità dell’agire della persona rappresentativa, e viene visto manifestarsi nella realtà della monarchia assoluta mediante
l’affermazione: «l’état c’est moi»; ma viene subito in luce non appena si chiarisce la natura dell’agire rappresentativo. Di questa natura non può non essere
propria la pubblicità, come si è visto, e dunque l’espressione della volontà
dell’insieme degli individui che si riconoscono come popolo nell’unità politica.45 Da questo punto di vista si può dire che la rappresentanza è tale in
quanto implica l’identità del popolo e si determina come processo che muove
da una tensione costitutiva tra l’idea dell’unità politica e quella situazione
unitaria che viene realizzata, mediante il riconoscimento dell’insieme dei
componenti il popolo, nella totalità del popolo rappresentata: qui si ha la
realizzazione in concreto dell’identità del popolo.
Invece il principio di identità, nella sua espressione pura, sembra escludere
per la sua stessa natura quello di rappresentanza: se il popolo è presente, esso
è il sovrano e non può essere rappresentato, e, come si può vedere in Rousseau, l’attualità della volontà generale impedisce qualsiasi sua rappresentazione;
infatti si può rappresentare solo ciò che non è realmente presente. Nel momento però in cui ci si pone il problema non tanto dell’esistenza del popolo,
quanto della sua presenza come immediata identità, sorge un’aporia di fondo.
Non solo infatti «una totale, assoluta identità del popolo di volta in volta presente con se stesso in quanto unità politica non esiste in nessun luogo e in nessun istante»,46 ma appare addirittura impensabile per lo stesso principio, che
44
Cfr. C. Schmitt, Verfassungslehre, cit., p. 206 (tr. it., p. 272) .
Ancora è da ricordare che tale dinamica concettuale è coerente se il nesso sovranitàrappresentanza è ravvisato in Hobbes piuttosto che nella monarchia assoluta.
46
C. Schmitt, Verfassungslehre, cit., p. 207 ( tr. it., p. 273).
45
159
sta alla base del pensiero di Rousseau, che il popolo, nella sua totalità, come
entità politica, non equivale alla semplice somma dei singoli individui che lo
compongono. Innanzitutto dunque la totalità dei cittadini che compongono
l’assemblea sovrana non coincide in realtà con tutti – proprio tutti – gli individui che compongono un popolo, ma inoltre – e ciò è maggiormente rilevante
– il singolo cittadino non è presente nell’assemblea in quanto singolo nella
sua esistenza naturale, ma in quanto «citoyen», e dunque partecipe della sovranità e del potere comune. C’è dunque uno scarto, secondo il quale colui
che è presente nell’assemblea sovrana è legato non alla datità dell’esistente,
ma all’idea dell’unità del popolo, della volontà generale che deve essere espressa. Sembra così introdursi un inevitabile elemento rappresentativo.
Se si cerca di seguire le indicazioni schmittiane sulle situazioni in cui «il
principio di identità è veramente realizzato al massimo grado»,47 la necessaria
mediazione costituita da elementi rappresentativi emerge con chiarezza. Infatti è ben vero che nel plebiscito e nell’acclamazione il popolo appare presente
ed esprime la sua volontà, ma è anche vero che tale presenza non è di una identità immediata. L’espressione di volontà è possibile in quanto è formulata
– non dal ma per il popolo – una domanda che permette quella espressione,
perché costitutivamente, come Schmitt dice, il popolo può rispondere ma non
domandare: «Volk kann antworten, aber nicht fragen».48 Ciò significa che
l’unità del popolo risulta da un processo in cui gli individui del popolo si riconoscono nella messa in forma unitaria che si ha attraverso la domanda,
facendo così emergere una volontà che non è più di essi come singoli, ma del
popolo intero. È proprio la messa in forma delle volontà da parte della domanda, che consente una unione delle volontà, a costituire l’elemento portante
di tutto un processo in cui l’identità viene ad avere il senso dell’identificazione,
impensabile senza la rappresentazione dell’unità.49 Dell’intreccio che si ha a
questo proposito dei due concetti è segno la constatazione che una tale presenza del popolo acclamante si produce anche nella monarchia – e dunque in
una forma che si oppone al principio di identità, su cui si basa la democrazia –
«almeno finché la monarchia è una essenza statale vivente», cioè, potremmo
47
48
Ibidem.
Cfr. C. Schmitt, Volksentscheid und Volksbegehren, de Gruyter, Berlin-Leipzig, 1927,
p. 37.
49
Schmitt appare su questo punto oscillante, e se da una parte mette in rilievo i1 fatto
che nella mediazione della domanda si trova spesso l’effettiva decisione (Verfassungslehre,
cit., p. 279, tr. it., p. 367) , tuttavia sembra ipotizzare (nella stessa pagina) momenti in cui esplode la volontà del popolo in modo incontraddittorio e univoco.
160
dire, finché essa non è la semplice sopravvivenza di una forma meramente
«legittima», ma ha il senso politico ed esistenziale della rappresentazione.50
Si può pensare che tale difficoltà provenga dal fatto che il concetto di popolo qui impiegato risenta ancora di una accezione secondaria e negativa, secondo la quale esso si distingue dal sistema ufficialmente organizzato delle
autorità e delle magistrature.51 Da questo punto di vista la non immediatezza
del darsi dell’identità potrebbe sembrare meno problematica in relazione
all’assunzione iniziale della contrapposizione dei due princìpi: si potrebbe
trattare ancora, senza contraddizione, di quella produzione della dimensione
della pubblicità da parte del popolo che è dimensione fondamentale della rappresentazione. Tuttavia un problema analogo si presenta a proposito del cardine della democrazia, cioè del popolo inteso come soggetto del potere costituente,52 quel potere unico e indivisibile che è il fondamento comprensivo di
tutti gli altri poteri.
Osservare il modo in cui si determina il potere costituente è importante
perché a questo proposito si distinguono le forme di Stato in relazione ai due
princìpi fondamentali; infatti là dove è il popolo e non il monarca ad essere
soggetto del potere costituente «la forma politica dello Stato si determina nella raffigurazione (Darstellung) dell’identità: la nazione è presente; essa non
può essere rappresentata e non ha bisogno di esserlo».53 Con il potere costituente ci troviamo al cuore del problema della produzione della forma politica: infatti «potere costituente è una volontà politica, il cui potere (Macht) e
autorità (Autorität) è in grado di prendere la concreta decisione fondamentale
(die konkrete Gesamtentscheidung) sulla specie e la forma della propria esistenza politica, ossia di stabilire complessivamente l’esistenza dell’unità politica».54 Siamo dunque di fronte all’atto primario della decisione fondamentale
e della produzione della forma politica ed è proprio in relazione al modo in
cui si produce l’unità politica che si distinguono i due princìpi della identità e
della rappresentazione.
Il popolo come potere costituente è principio tipico della moderna democrazia – il riferimento schmittiano nel capitolo dedicato al potere costituente
va a questo proposito nella direzione di Sieyes55 – e non è ritrovabile in posi50
Ivi, p. 244 ( tr. it., p. 320) .
Ivi, p. 242 (tr. it., p. 318) : Schmitt parla di «negativ bestimmte Grösse».
52
Ivi, p. 223 ( tr. it., p. 293) , 238 (tr. it., p. 313) e 91 (tr. it., p. 130) .
53
Ivi, p. 207 ( tr. it., p. 271) .
54
Ivi, p. 75 ( tr. it., pp. 109-110) .
55
Sul potere costituente in Sieyes e Schmitt, nella direzione della priorità del principio
rappresentativo, si veda anche il saggio di P. Pasquino Sieyes et l’invention de la constitution
en France, cit.
51
161
zioni più antiche, quali ad esempio quella di Althusius, in cui il popolo è potestas constituta.56 Come fondamentale prerogativa il popolo ha, come potere
co- stituente, quella di non essere costituito, non solo nel senso che non può
esse- re regolamentato né avere limiti, ma anche in quello secondo cui «non
è una istanza stabile e organizzata».57 Esso è dunque una entità «nicht
formierte», priva di determinazione e di forma: in ciò sta sia la sua forza –
che consiste nel suo essere superiore ad ogni regola e struttura stabilite,
nell’essere fonda- mento di ogni regolamentazione –, ma anche la sua
debolezza – che risiede nel fatto che deve decidere sulla sua forma politica
senza essere esso stesso qualcosa di formato.58 Schmitt riflette su questa
difficoltà dicendo che proprio per questo le espressioni della volontà
popolare possono essere misconosciu- te, fraintese o falsate. Ma la logica
del suo discorso porta ad una aporia più profonda: che, mancando
dell’elemento formale della personalità, il popolo non riesce in quanto tale,
nella sua identità, ad essere principio formante e produttore di forma.
Se si esaminano infatti i modi in cui la concreta decisione politica del popolo come soggetto si esprime, si può notare – paradossalmente in rapporto
all’enunciazione della opposizione dei due principi – che non vi può essere,
nemmeno a questo livello, espressione immediata della volontà del popolo
presente. Tutte le vie seguite dalla democrazia per esprimere la volontà costituente del popolo passano attraverso un momento di mediazione che permette
a tale volontà di prendere forma, sia nel caso in cui sia prevista a questo scopo
una assemblea nazionale, oppure una Convenzione, sia nel caso in cui si dia la
procedura del plebiscito, che non solo, come si è visto, richiede la formulazione della domanda, ma a volte può essere addirittura il modo in cui si esprime la volontà, da parte della maggioranza dei votanti, di demandare ad altri la decisione e di ratificare semplicemente delle decisioni già avvenute e
delle situazioni di fatto.59
In tutti questi casi si introducono elementi di rappresentazione e la dimensione produttrice di forma che spetta alla persona, dimensione che si presenta
o nel corpo dell’assemblea nazionale o nella Convenzione, o nell’istanza che
56
Cfr. C. Schmitt, Verfassungslehre, cit., p. 77 (tr. it., p. 112) , ove si ha ancora la critica
a Gierke che collega la posizione del deista romantico Rousseau al calvinista credente Althusius perdendo di vista il fatto che non in quest’ultimo, ma successivamente, si ha la secolarizzazione del concetto teologico di Dio come potestas constituens.
57
Ivi, p. 83 ( tr. it., p. 118) .
58
Ivi, p. 83 ( tr. it., p. 119).
59
Ivi, pp. 84 ss. ( tr. it., pp. 119 ss .); cfr. pp. 279-280 ( tr. it., p. 368) , dove, lasciando da
parte i problemi relativi ad una psicologia di massa, Schmitt indica come senso principale
della dipendenza nei confronti della formulazione della domanda il fatto che la maggioranza
degli elettori cerca di esprimere il minimo di decisione, di sottrarsi ad essa.
162
pone la domanda, mentre il popolo, nell’insieme dei suoi membri, interviene
solo mediatamente, o nell’atto dell’elezione o in quello della ratifica e della
approvazione. L’elemento rappresentativo, che si è qui introdotto, fa sì che
non di identità immediata si possa parlare, ma piuttosto ancora di quella pubblicità richiesta dal fenomeno della rappresentazione, che qui si manifesta in
modo formale ed espresso.
Si può a questo punto ritornare al problema di fondo che il principio
dell’identità comporta: il popolo in quanto tale, nella sua immediatezza, è privo di forma, e non riesce a produrre forma se non attraverso la mediazione di
un elemento formale qual è quello personale-rappresentativo. Inoltre, se alla
base dell’identità del popolo sta il dato politico della omogeneità,60 è da ricordare che questa non è un dato empiricamente esistente, ma è opera di una finzione (fingiert wird).61 La finzione non vuole tanto qui introdurre un elemento
critico, basato sulla contrapposizione di finzione e realtà, quanto richiamare la
struttura stessa della rappresentazione, nella quale ciò che deve essere prodotto implica una realtà che non ha la dimensione empirica, bensì quella ideale.
Del resto l’elemento della finzione appare connaturato alla stessa dimensione
giuridica che si dà nell’intreccio della storia dei concetti di persona e di rappresentazione.62
Il concetto di identità, come presenza immediata del popolo, che, nella sua
unità politica, esprime volontà e azione, è allora soltanto gedankliche abstrakte Konstruktion, nella quale scompare l’aspetto politico al punto che, paradossalmente, il tentativo di costruzione della democrazia diretta, che non colga lo scarto che si ha tra citoyen, quale interprete della volontà dell’intero
corpo politico, e singolo individuo empiricamente presente, rischia di perdere
ciò che si vuole produrre, cioè l’unità politica, che, è da ricordare, «non esiste
per natura ma si basa sulla decisione umana».63
D’altro canto emerge un senso concreto del concetto di democrazia, in cui
è presente l’elemento politico e in cui l’identità non si dà nella forma
dell’immediatezza, ma in quella del processo di identificazione. Infatti la serie
delle identità che si danno tra Regierenden e Regierten, Herrscher e Beherr60
Ciò anche nel modello rousseauiano, nel quale è l’omogeneità e non il contratto alla
base dell’unità dello Stato (cfr. C. Schmitt, Die geistesgeschichtliche Lage des heutigen Parlamentarismus, Duncker & Humblot, München-Leipzig, 19262, p. 20).
61
C. Schmitt, Verfassungslehre, cit., p. 215 (tr. it., p. 284) .
62
Si ricordi il legame in epoca medievale tra il concetto di persona e la nascita della finzione giuridica e la stessa espressione «persona ficta sive repraesentata» (cfr. H. Hofmann,
Repräsentation, cit., pp. 132-144 e anche F. Todescan, Diritto e realtà. Storia e teoria della
fictio iuris, Cedam, Padova, 1979), come pure l’intreccio dei concetti di persona, rappresentanza e finzione nel cap. XVI del Leviatano di Hobbes.
63
Cfr. C. Schmitt, Verfassungslehre, cit., p. 207 (tr. it., p. 284).
163
schten, Subjekt e Objekt dell’autorità statale, popolo e parlamento, sono in realtà «Anerkennung der Identität»:64 tale modo di apparire concretamente
dell’identità comporta la negazione della possibilità del suo darsi immediatamente, come è ipotizzato dal primo principio.
Leibholz, sempre attento ai percorsi d i r i f l e s s i o n e schmittiani, si rende
conto di questa dialettica, secondo la quale nell’identità si immetterebbero
elementi fittizi e dunque rappresentativi, con il risultato di interpretare
l’identità in modo capo- volto come rappresentazione.65 Anche se egli
mostra di essere consapevole che nel prodursi concreto della comunità
politica intervengono elementi rap- presentativi,66 tuttavia ritiene necessario
tenere ben distinti i due concetti di identità e rappresentazione, l’uno
dominato dal pensiero dell’unità, e l’altro da quello della duplicità personale,
perché la loro confusione comporterebbe un velo di misticismo oscurante la
funzione che i princìpi costitutivi hanno nel modo di strutturarsi
dell’unificazione della volontà nella forma dello Stato.67 A tale scopo egli
cerca di descrivere l’elemento di mediazione e di scarto co- me proprio dello
stesso concetto di identità: se infatti per il concreto darsi dell’identità si
deve parlare di un processo di «Identifizierung»,68 ciò non comporterebbe
la necessità dell’introduzione di elementi rappresentativi, quanto piuttosto il
riconoscimento che l’identità, come la rappresentazione, è un concetto non
delle scienze naturali, ma di quelle dello spirito. È per la sua natura geistig
che si deve perciò parlare, anche a proposito dell’identità, di un processo, e
precisamente di un processo di transustanziazione, secondo cui viene
dichiarato identico ciò che non lo è nella realtà empirica. Si pensi
all’insieme degli individui e alla volontà generale del popolo o allo scarto, a
cui si è accennato, tra il singolo fisicamente presente nell’assemblea sovrana e
il suo essere citoyen, in base a cui può esprimere appunto la volontà generale.
Se c’è identificazione nell’uguaglianza democratica, ad esempio tra il popolo
come insieme dei votanti e il popolo come unità ideale, ciò non ha, secondo
Leibholz, il senso della produzione dell’unità mediante la differenza della persona che agisce rappresentativamente, ma quello invece di un processo che ha
il suo senso nell’identità e il suo punto di partenza nella sovranità popolare.69
Attribuendo alla identità in quanto tale mediazione e processo, Leibholz
può cercare di opporsi alla logica schmittiana, che tende all’unicità di struttura
della forma politica, criticando Schmitt quando egli sembra far confluire un
64
65
66
67
68
69
Cfr. C. Schmitt, Die geistesgeschichtliche Lage, cit., p. 35.
Cfr. G. Leibholz, Das Wesen der Repräsentation, cit., p. 30, n. 1 (tr. it.,, p. 86, n. 18).
Cfr. ad es. ivi, p. 196 (tr. it., p. 283) .
Ivi, p. 29 ( tr. it., p. 71).
Ivi, pp. 28-29 (tr. it., p. 86, n. 13) .
Ivi, soprattutto n. 1, p. 29 e n. 1, p. 30 ( tr. it., p. 86, n. 15 e 18) .
164
concetto nell’altro, e riallacciandosi invece alle sue dichiarazioni della opposizione irriducibile dei due principi.70 Tuttavia la dominanza della dialettica
che si manifesta nel pensiero schmittiano rischia di coinvolgere anche il pensiero di Leibholz, se si tiene presente l’irriducibilità del popolo nella sua unità
a realtà empirica, il senso non immediatamente istituzionale, ma piuttosto esistenziale della rappresentanza, e infine il fatto che è un elemento di differenza
personale quello che si introduce nelle forme di identificazione che sono proprie dell’uguaglianza democratica, dal momento che sono persone (nella loro
dimensione esistenzialmente rappresentativa) coloro che producono una forma che permette appunto il processo di identificazione.
È lo stesso problema dell’unità politica dunque ad implicare la necessità
della rappresentazione e ciò perché l’unità politica non è un fatto ma il
prodotto di una decisione. Se la rappresentazione ha, in Schmitt in modo
particolare, la stessa estensione della forma politica, anche nella sua
versione democratica, potrebbe tuttavia sembrare che il piano in cui si
mantiene l’opposizione tra rappresentanza e identità sia quello della
Regierung. Più volte infatti Schmitt afferma che un massimo di
rappresentanza equivale ad un massimo di governo, mentre un massimo di
identità corrisponde in realtà a un minimo di governo. Questo appare a
qualche interprete, che si accorge della coestensione del principio di
rappresentazione al problema dell’unità politica e dunque, per questo aspetto,
anche alla democrazia, come un secondo e più specifico concetto di rappresentazione, coincidente con quello di potere, secondo il quale si può dire che
la lotta per la rappresentazione è lotta per la politische Macht.71
Ma a questo proposito l’unità di struttura che lega i due princìpi è più forte
di quanto ad un primo momento non appaia e la distinzione si dissolve. Infatti,
se il presupposto della democrazia è «Identität von Herrschen und Beherrschen, Regierenden und Regierten, Befehlenden und Gehorschenden»,72 ciò
non esclude la differenza tra governanti e governati, ma piuttosto il fatto che
questa differenza sia qualche cosa di qualitativo, che crei la superiorità di alcuni individui in quanto tali sugli altri. Senso della democrazia è che sia i governanti che i governati si sentono all’interno di una sostanziale unità,
dell’uguaglianza come sostanziale omogeneità del popolo. Ma ciò comporta
70
Ivi, p. 119 e n. 4. Sulla ricaduta l’uno nell’altro dei due princìpi in Schmitt si veda H.
Hofmann, Legitimität gegen Legalität. Der Weg der politischen Philosophie Carl Schmitts,
Neuwied-Berlin, 1964, soprattutto p. 154 ( ora, Legittimità contro legalità, tr. it. a cura di R.
Miccù, ESI, Napoli, 1999) .
71
Cfr. C. Schmitt, Verfassungslehre, cit., p. 212 ( tr. it., p. 280) . Tale il punto di vista di
I. Hartmann, Repräsentation in der politischen Theorie, cit., pp. 204-205.
72
Cfr. C. Schmitt, Verfassungslehre, cit., p. 234 ( tr. it., p. 307) .
165
non solo che la differenza tra governati e governanti non può essere eliminata,
ma anzi che «può essere di fatto mostruosamente accresciuta e rafforzata,
nella misura in cui le persone che governano e che obbediscono rimangono
nella omogeneità sostanziale del popolo».73 Il sentirsi parte del popolo come
tutto sia da parte di chi comanda che di chi obbedisce rende più forte la Herrschaft e la Regierung: il potere dei governanti, trovando l’approvazione e la
fiducia del popolo a cui appartengono, «può essere più severo e duro, il loro
governo più risoluto di quello di un qualsivoglia monarca patriarcale o di una
prudente oligarchia». Ancora una volta il concetto di identità confluisce nel
suo opposto e nel presupposto democratico di omogeneità si trova il fondamento per quell’elemento della Regierung che era stato dichiarato caratteristico della rappresentanza.
Un’ultima distinzione sembra infine affievolirsi in seguito a questa analisi,
quella ribadita sia da Schmitt che da Leibholz, secondo cui la rappresentanza
è caratterizzata dalla trascendenza, in quanto viene sempre von oben, mentre
il concetto dell’identità è rigidamente immanente, al punto che «ogni uscita
dall’immanenza negherebbe l’identità».74 Si pensi in questa chiave alla negazione della fede riposta nell’individuo rappresentante da parte di Rousseau nel
momento in cui immagina come attuale e presente la volontà generale. Tuttavia, non solo è da ricordare che lo stesso concetto di popolo come potestas
constituens è una secolarizzazione del potere attribuito nel medioevo a Dio,75
ma anche che l’introduzione degli elementi personali e rappresentativi, con
l’aspetto di Regierung che comportano, richiede un atteggiamento di fiducia
(Vertrauen, dice Schmitt) e di fede nell’unità prodotta, che non sono certo
consoni né alla identità intesa nella sua attualità né all’immanenza che dovrebbe esserle propria.76
L’identità dunque appare, in quanto immediata e autosufficiente, come non
politica, ma anche non pensabile; in quanto è invece pensabile politicamente è
elemento indispensabile della forma politica e di quel processo che la produce
che è la rappresentazione. Unica è allora la struttura che emerge in Schmitt e,
sia pure con maggior riluttanza, in Leibholz: quella della rappresentazione,
che è modo di produzione dell’identità, e nello stesso tempo anche implica il
processo di identificazione, e dunque il riconoscimento del popolo come insieme dei cittadini, senza di cui il potere rappresentativo rischierebbe di trasformarsi in semplice governo esercitato da parte di una o più persone in base
alle loro qualità e alla forza. La struttura che emerge è quella dell’unità politi73
74
75
76
Ivi, p. 236 ( tr. it, p. 309) .
Ivi, p. 237 ( tr. it, p. 311) .
Ivi, p. 77 ( tr. it, p 112) .
Ivi, p. 236 ( tr. it., p. 309).
166
ca quale è stata pensata da una lunga tradizione moderna: è questo concetto
che fagocita in sé le distinzioni e impedisce di pensare come separati i due
princìpi. Si pensi, in questa ottica, a quanto ci sia nello scenario del patto di
Hobbes – nella nascita della rappresentanza politica da un processo di autorizzazione e da una espressione in cui, dalla volontà di tutti, nasce la possibilità
di esprimere la volontà del popolo, che così si è costituito – di anticipazione di
quella identificazione, che comporta scarto, esprimentesi nella democrazia.
3. Legittimazione del potere e rappresentanza
La struttura così delineata, in cui la rappresentazione implica l’elemento
dell’identità, rivela un aspetto tipico della moderna scienza politica: la legittimazione del potere intesa come la sua fondazione razionale. Non si tratta qui
della legittimazione dello status quo o di quella che deriva dal «buon ordine
antico», né infine della legittimità che pertiene a un assetto normativo presupposto come valido. Il concetto di legittimità che appare tipico della Herrschaft
in senso moderno intende spazzare via quelle motivazioni del diritto al governo,77 così come tende ad emarginare e rendere irrilevante una investitura derivante dalla volontà divina. Sembra invece richiedere una giustificazione razionale legata a un nuovo concetto di potere, che comporta, da una parte,
come condizione necessaria per eliminare il conflitto, il monopolio della forza, e dall’altra, in quanto si basa sull’idea dell’uguaglianza degli uomini,
l’eliminazione della differenza e del comando dell’uomo sull’uomo. In altri
termini a questo potere è necessaria una natura tale che non lo renda una istanza altra e opposta rispetto alla totalità degli individui che costituiscono il
corpo politico.78
Trattando della legittimità di una costituzione Schmitt la riporta al riconoscimento della Macht e della Autorität del soggetto del potere costituente, il
quale dà forma a quell’esistenza politica che non ha bisogno in quanto tale di
nessuna giustificazione. Ciò significa che non è necessario, ma nemmeno possibile, giustificare l’esistenza politica mediante una norma etica o giuridica.79
Da questo punto di vista non si può parlare di «legittimità dello Stato» né di
«legittimità del potere politico» – e le due cose coincidono, in quanto non c’è
77
Ivi, p. 49 ( tr. it., p. 75) .
Si tenga presente la modificazione del concetto di Herrschaft, che si viene ad avere
nel moderno, quale è descritta da O. Brunner, Bemerkungen zu den Begriffen «Herrschaft»
und «Legitimität», tr. it. cit., sp. pp. 108 e 115.
79
Cfr. C. Schmitt, Verfassungslehre, cit., p. 87 (tr. it., p. 125).
78
167
Stato senza potere statale e viceversa 80 – poiché le leggi e le norme hanno realtà all’interno dello Stato e della sua costituzione, e presuppongono perciò
quell’esistenza che si dà nella sfera del politico. Qui il termine di «legittimità»
prende il suo significato dall’esistenza della legge e della norma, rischiando di
avere il senso limitato della legalità. Ma ciò non significa che non ci sia legittimità nel darsi stesso dell’esistenza politica, qualora il termine sia inteso in
senso diverso e primario nei confronti della legge: si può infatti ben distinguere l’esercizio della mera forza da una legitime Herrschaft. È questa la strada
che porta a incrociare il problema della legittimità con quello della rappresentanza, e ciò è dovuto al fatto che al fondo sta il tema dell’unità politica.81
Se si guarda alle forme di legittimità relative ai due possibili soggetti del
potere costituente, quella monarchico-dinastica, che si basa sull’autorità del
monarca, e quella democratica, fondantesi sull’idea che lo Stato è l’unità politica di un popolo, si può notare come ben diverso sia il significato del termine
«legittimità» nei due casi e come sia il secondo, che intende lo Stato come
«status dell’unità politica di un popolo», a coincidere con il concetto schmittiano di Stato e ad attagliarsi alla moderna scienza dello Stato.82 È ben vero
che l’idea del popolo come potere costituente ci riporta a teorie determinate,
che fanno la loro comparsa in tempi più recenti,83 ma è anche vero che è
l’unità politica del popolo il concetto che giustifica razionalmente il potere
anche nel pensiero di Hobbes, perché è solo mediante il corpo politico unitario che si supera il non razionalmente giustificabile dominio dell’uomo
sull’uomo e si realizza l’uguaglianza degli individui. Il potere è allora legittimo in quanto non è una forza esercitata da singoli in quanto tali, ma è la forza
di tutto il corpo politico, e chi la usa lo fa rappresentativamente, e proprio a
ciò è autorizzato. Da questo punto di vista si può dire che ogni vero governo è
tale in quanto rappresenta l’unità politica di un popolo.84
80
Ivi, pp. 82-83 ( tr. it., pp. 127-128) .
Su ciò cfr. H. Hofmann, Legitimität gegen Legalität cit. p. 21 (tr. it., p. 55). Si tenga
presente che quando Schmitt distingue e separa i concetti di legittimità e di rappresentazione
a proposito della monarchia del XIX secolo, ciò è possibile in quanto la legittimità prende, in
questo caso, il suo senso da un riferimento a qualcosa di meramente normativo, mentre la
rappresentanza è elemento politico ed esistenziale: perciò si può dire che quando una monarchia è «nient’altro che legittima, è perciò politicamente e storicamente morta» (C. Schmitt,
Verfassungslehre, cit., p. 212, tr. it., pp. 279-280) .
82
Si ricordi la definizione che apre la Verfassungslehre, secondo cui il termine di costituzione deve essere limitato alla «costituzione dello Stato, cioè all’unità politica di un popolo» (p. 3, tr. it., p. 15) .
83
Schmitt, a proposito del potere costituente si riferisce, come si è visto, a Sieyes.
84
C. Schmitt, Verfassungslehre, cit., p. 212 ( tr. it., p. 281).
81
168
Il senso della legittimità democratica sembra avere una estensione assai lata, se lo si intende legato al presupposto dell’unità politica del popolo, e ciò
risulta palese se si pensa che il problema non riguarda qui tanto le forme concrete e le procedure in cui il potere costituente del popolo si esercita, ma il
presupposto che ne sta alla base, e se si tiene presente che è sempre possibile
anche un’approvazione tacita del popolo; non solo, ma che anche «nella mera
partecipazione alla vita pubblica determinata da una costituzione» si può vedere manifestarsi la volontà costituente del popolo. «In questo modo il carattere della legittimità democratica può quindi essere attribuito alle più disparate
costituzioni, in quanto la si fonda sul potere costituente del popolo, sempre
esistente (vorhanden), sia pur tacitamente espresso».85 Lasciando da parte i
problemi sopra trattati relativi all’implicazione di elementi rappresentativi, ciò
che appare dominante per la legittimazione è qui l’unità politica e la sua realizzazione mediante il «popolo». In base all’analisi sopra condotta sembra allora di poter dire che, se il fondamento della legittimità è l’unità politica, e
questa, essendo qualcosa di esistenzialmente politico e non naturale, implica
necessariamente la rappresentazione per il suo prodursi, è quest’ultima a racchiudere in sé il senso della legittimità.
Ciò è espresso con chiarezza da Leibholz, che mostra come la rappresentazione nella sua essenza e nel suo significato esistenziale coincida con la legittimazione.86 Se è proprio del fenomeno della Herrschaft la tensione verso la
sua legittimazione, al punto che, potremmo dire, non c’è potere in senso moderno – che non intende cioè basarsi sulla mera forza – se non è legittimato,
tale legittimazione riposa proprio sul carattere rappresentativo di colui che detiene ed esercita il potere. Tale nesso è ben messo in evidenza, come ricorda
Leibholz, da Max Weber, nella cui teoria del potere si può notar come i diversi tipi del potere, e dunque le diverse forme di legittimazione, coincidano con
diverse forme di rappresentazione.87 Infatti, sia che la fede dei rappresentanti
riguardi il capo carismatico, sia che si riferisca alla forza della tradizione, o
alle regole di un potere legale, in tutti i casi la fiducia nella legittimità del potere coincide con la credenza nel fatto che colui o coloro che esercitano il potere «rappresentano» coloro che sono sottoposti. Solo per questo è possibile
che si determini nel rapporto di Herrschaft il fenomeno dell’obbedienza, secondo il quale «l’agire di colui che obbedisce si svolge essenzialmente come
se egli, per suo stesso volere, avesse assunto il contenuto del comando per
massima del proprio atteggiamento – e ciò semplicemente a causa del rappor85
Ivi, p. 91 ( tr. it., p. 129) .
Si veda G. Leibholz, Das Wesen der Repräsentation, cit., cap. VI, Die Legitimierung
der Repräsentation, pp. 140 ss. ( tr. it., pp. 213 ss .).
87
Ivi, pp. 142-143 (tr. it., p. 215); su ciò cfr. il cap. III del presente lavoro.
86
169
to formale di obbedienza, senza riguardo alla propria opinione sul valore o sul
non valore del comando in quanto tale».88 Intendere la volontà di chi comanda
come la propria volontà, e non essere quindi costretti dalla forza ad obbedire,
altro non è che considerare costui rappresentante, cioè, hobbesianamente, attore delle azioni di cui tutti si dichiarano autori.
Proprio perciò i problemi di legittimazione sono problemi di rappresentazione, come si può riconoscere in tutte quelle situazioni in cui sia il monarca
che la rappresentanza popolare pretendono di rappresentare lo Stato. A questo
proposito è significativa la disputa che si ha in Germania nel XIX secolo, in
cui gli uomini di Stato della restaurazione monarchica tendono a negare alla
rappresentanza popolare il carattere di «Repräsentation des Volks» per riconoscerle piuttosto quello della rappresentanza degli interessi (ständische Interessenvertretung).89
Per comprendere sia il pensiero di Schmitt che quello di Leibholz bisogna
tener presente che la rappresentazione è un fatto esistenziale, e proprio questa
caratteristica permette la distinzione, a questo proposito, tra legittimità e legalità. Anche per Leibholz la norma costituzionale che designa una o più persone come rappresentanti del popolo non vale se non in quanto c’è una credenza
in questa norma da parte dei rappresentati, tale da permettere il prodursi della rappresentazione.90 Se c’è questa fede, allora legittimità e legalità normativa coincidono, altrimenti viene a mancare la legittimità, che si separa dalla
norma e vi si oppone, così come viene a mancare il fatto rappresentativo in
quanto tale e ci trova di fronte ad una rappresentanza solo legale, ad una finzione, ad una imaginary representation.91 Quando ciò avviene e si passa da
una vera e reale rappresentazione ad una finzione, cade la legittimazione e si
creano le condizioni per la rivoluzione.
Ciò permette di precisare ulteriormente la natura della rappresentazione
qual è stata sopra esaminata, in quanto l’idea dell’unità politica e il fatto che
questa non si riferisca ad un dato empirico non comportano il suo essere qualcosa di semplicemente immaginario – quando avviene ciò non c’è più rappresentazione in senso esistenziale –; e se è vero che essa è legata all’elemento
giuridico della fictio, è anche vero che essa, come fatto esistenziale, trascende
l’ambito giuridico formale proprio del diritto e si dà su un piano esistenziale,
dove si può produrre scarto tra realtà e diritto.92
88
Cfr. M. Weber, Economia e società, cit., I, p. 209.
Cfr. C. Schmitt, Verfassungslehre, cit., p. 211 (tr. it., pp. 278-279).
90
Cfr. G. Leibholz, Das Wesen der Repräsentation, cit., p 148 ( tr. it., p. 219) .
91
Ivi, p. 157 ( tr. it., p. 223) . È quanto avviene nella crisi delle colonie americane, che
non si sentono più rappresentate.
92
«Kontinuierlichen Spannung zwischen Recht und Wirklichkeit» (ibidem).
89
170
Ma ciò che è più rilevante è il modo in cui interviene l’elemento del popolo e della sua esistenza nella rappresentazione, ed è proprio l’aspetto della
legittimità ad evidenziarlo. Infatti un ente rappresentativo, come una Camera nel Parlamento, per rappresentare il popolo deve, come dice già Rotteck,
raffigurarlo «nella sua natura e verità»:93 la rappresentanza c’è in quanto il
popolo, come insieme dei cittadini, si riconosce in essa e nell’unità che essa
produce. Tale espressione del riconoscimento sempre più viene in primo
piano e sempre più richiede una manifestazione attiva del popolo che, per
sentirsi rappresentato, deve partecipare, in qualche modo, in prima persona
alla formazione dell’ente rappresentativo.94 È proprio la rappresentazione,
che pur viene dall’alto, a richiedere questa partecipazione attiva del popolo
che, mediante essa, compie allora un movimento di identificazione, realizza
la propria identità.
Tuttavia, come già si è visto, Leibholz è riluttante a battere questa via,
proprio perché tende a mantenere separati i due princìpi e vede come forma di
espressione democratica del popolo quella problematica forma costituzionale
moderna che viene indicata come lo «Stato dei partiti». Questo è inteso come
espressione del principio di identità e, curiosamente da un certo punto di vista,
come un fenomeno della democrazia diretta,95 o, secondo quanto dirà più tardi, come un fenomeno razionalizzato della democrazia plebiscitaria.96 Nel testo del ’29 egli si limita ad indicare l’opposizione tra la democrazia rappresentativa di stampo liberale, che si basa sul concetto dell’indipendenza del
rappresentante, e il tipo diretto di democrazia, che si manifesta nella forma
plebiscitaria e in quella dello Stato dei partiti, ponendosi il problema se il
principio di identità in una situazione di decomposizione dei partiti 97 sia veramente così radicato nella coscienza popolare da permettere la realizzazione
dell’unità tra volontà maggioritaria dei partiti e volontà generale del popolo.
Successivamente la sua direzione sarà invece quella di un consolidamento del
modello dello Stato dei partiti, tendente a risolvere la contraddizione che si
pone tra elemento rappresentativo ed elemento democratico (che sta alla base
dei partiti) nelle contemporanee situazioni costituzionali, come si può ad esempio ravvisare negli articoli 38 e 21 della legge fondamentale di Bonn, il
primo dei quali richiama il principio della rappresentanza del popolo da parte
del deputato libero da ogni vincolo, mentre il secondo riconosce i partiti come
soggetti organizzati tesi alla formazione della volontà politica del popolo.
93
94
95
96
97
Ivi p. 153 ( tr. it., p. 221).
Ivi, p. 156.
Ivi, p. 118.
Cfr. Der Gestaltwandel der Demokratie im 20. Jahrhundert, ivi, p. 218.
Ivi, pp. 121-122.
171
Eccede l’ambito di questa analisi affrontare il tema della Partei e i problemi che essa introduce nella moderna concezione della forma politica, così
come quello della coerenza e dei mutamenti dell’itinerario di Leibholz, o
quello relativo alla sua convinzione, espressa decisamente nel secondo dopoguerra, che il partito sia il solo organo che può organizzare nel mondo contemporaneo il popolo, risolvendo il dualismo di società e Stato e trasformando
la figura del deputato, che verrebbe ad essere vincolato dalle istruzioni e dai
mandati che provengono dal partito.98 A questo proposito si può solo ricordare
come possa essere considerato incoerente con l’apparato teorico moderno, che
mediante la figura della rappresentazione viene in luce, il fatto che il partito,
in quanto raggruppamento particolare, pure se dotato di un’ottica generale che
riguarda l’intero Stato, sia inteso come semplice espressione di volontà diretta
del popolo, o prolungamento della volontà dei singoli.99 Ma ciò che sembra
utile qui richiamare è l’accenno leibholziano alla negazione da parte di Rousseau della aggregazione particolare, considerata costitutivamente «fazione», e
dunque tale da comportare la distruzione dello Stato. Si apre così uno spiraglio per scorgere l’interrogativo che nasce, a partire dall’esistenza del partito,
sull’elemento centrale della forma politica moderna, quello dell’unità (opposto a Partei) – motivo questo, come Leibholz spesso ricorda, della opposizione nel XIX secolo da parte dello stato liberale al riconoscimento dei partiti –
che si manifesta sia dal lato della rappresentazione che da quello dell’identità,
e su cui concordano sia Hobbes che Rousseau, autori che stanno sullo sfondo
della riflessione di Leibholz come di Schmitt.
Ciò che appare debole è anche la contrapposizione posta tra partito e forma
della rappresentanza, dovuta al fatto che l’elemento di mediazione messo in
atto dal partito è considerato come interno alla forma dell’identità. Anche qui
ci si trova, sia pure in modo diverso, di fronte alla questione della possibilità
di espressione del principio di identità, senza la mediazione della rappresentazione. Tale questione sembra insinuarsi nella stessa consapevolezza di Leibholz, nel momento in cui egli ravvisa il pericolo – che si configura come una
constatazione più che come una ipotesi – che i partiti divengano corpi estranei
al popolo con finalità proprie e tendenze di potere oligarchico-autoritarie (oli-
98
Cfr. Der Gestaltwandel, cit., p. 240 ss.
Cfr. ad es. G. Leibholz, Verfassungsrecht und Verfassungswirklichkeit, sempre raccolto nella III ed. di Das Wesen der Repräsentation che è qui citata, pp. 252-253 (tr. it., p. 255
ss), dove Leibholz, dopo aver ricordato il problema proprio della fine del XVIII secolo riguardante la possibilità di vincolare o controllare il rappresentante, aggiunge che nulla cambia se al posto degli elettori è il partito a limitare e indirizzare l’azione del deputato.
99
172
garchischautoritären Herrschaftsformen).100 Di fronte a questo pericolo, o realtà, Leibholz si richiama a un processo di democratizzazione (Demokratisierung), che significativamente permetta che la volontà si formi dal basso verso
l’alto («von unten nach oben»). Come si può vedere, gli elementi che in questo modo sono introdotti nella dimensione del partito: oligarchia, rapporto di
Herrschaft, formazione della volontà dall’alto, alterità personale nei confronti
del popolo, sono tutti elementi tipici del fenomeno della rappresentazione, che
anche qui coinvolge l’elemento democratico espresso dal partito.
Ma è, conclusivamente, alla contraddizione posta tra democrazia rappresentativa e Stato dei partiti che è utile ritornare, in quanto tale contraddizione
sembra difficilmente risolvibile e tuttavia si ripresenta, non solo a Weimar,
ma anche in molte costituzioni contemporanee.101 Da una parte può sembrare
che il nesso rappresentanza-unità politica non dia conto della fattualità politica
quale si mostra nella realtà storica e nelle analisi dei pensatori del primo Novecento, che rivelano una complessità irriducibile all’unità della personalità
dello Stato. Dall’altra si assiste però alla riluttanza nei confronti della rinuncia
al tema dell’unità politica e alla figura della rappresentanza ad essa collegata.
Rinunciare a ciò appare infatti un abbandono della legittimazione propria di
quella forma artificiale e prodotta dalla moderna teoria, e alla pretesa di garanzia, di sicurezza e di giustificazione razionale che si esprime nello stato di
diritto. Perciò le costituzioni contemporanee ripetono il ritornello, che ha le
sue radici in Hobbes ancora prima che nella Rivoluzione francese, secondo
cui il deputato rappresenta il popolo intero. Ma se questo cade, su quali basi
può ancora essere possibile la legittimazione del monopolio della forza e il
rapporto di obbligazione politica?
100
Cfr. G. Leibholz, Der Gestaltwandel, cit., p. 247 (tr. it., p. 340), e G. Leibholz,
Verfassungsrecht, cit., p. 261 (tr. it., pp. 365-366).
101
Ivi, cit., p. 236 ( tr. it., p. 329) .
173
5. La rappresentazione come radice
della teologia politica in Carl Schmitt
Il tema della teologia politica è cruciale nelle interpretazioni del pensiero
schmittiano e il modo in cui è impostato si riflette sulla comprensione complessiva del pensiero del giurista tedesco, sia che mediante questa locuzione si
indichi la secolarizzazione come passaggio dai concetti teologici a quelli politici, sia che si intenda una fondazione teologica della politica, sia
un’assolutizzazione di quest’ultima in chiave totalitaria, sia infine che, sulla
traccia del concetto di analogia, ci si riferisca ad un’identità di struttura tra
ambito teologico e ambito politico, o ad una semplice somiglianza, o ad una
relazione in base alla quale la forma teologica, svuotata, viene a prendere nel
politico un significato funzionale.1 Dai modi diversi di intendere la «teologia
politica» dipende il significato che vengono ad assumere alcuni concetti chiave del pensiero di Schmitt, quali quelli di decisione, di forma, di idea, di secolarizzazione, di politico come rapporto amico-nemico.
1
Sul problema della teologia politica si veda C. Galli, Presentazione a Cattolicesimo
romano e forma politica, cit., pp. 1-27 e La teologia politica in Carl Schmitt, in G. Duso (a
cura), La politica oltre lo Stato, cit., pp. 127-137, ma ora sp. i capp. VI e IX di Genealogia
della politica; R. Esposito, Teologia politica, modernità e decisione in Schmitt e Guardini,
«Il Centauro», 1986, n. 16, pp. 103-139; per le diverse declinazioni del tema e le principali
chiavi interpretative tra la bibliografia si ricordi: H. Ball, Carl Schmitts Politische Theologie,
«Hochland», 1924, n. 2, pp. 263-286, ora anche in J. Taubes (hrsg.), Der Fürst dieser Welt,
Carl Schmitt und die Folge, Fink-Schöningh, München-Padeborn-Wien-Zürich, 1983, pp.
100-115 (in questo testo si vedano altri contributi sul problema della teologia politica con
riferimento a Schmitt); H. Hofmann, Legitimität gegen Legalität, cit.(spec. ora la Premessa
alla nuova edizione, che si trova nella tr. it. cit.); K.M. Kodalle Politik als Macht und Mithos. Carl Schmitts «Politische Theologie», Kolhammer, Stuttgart-Berlin-Köln-Mainz, 1973;
H. Blumenberg, Saekularisierung und Selbstbehauptung, Suhrkamp, Frankfurt a. Main, 19832,
pp. 103-118; J.M. Beneyto, Politische Theologie als politische Theorie, Dunken & Humblot,
Berlin, 1983; I. Staff, Zum Begriff Der Politischen Theologie bei Carl Schmitt, in Aa.Vv.,
Cristianesimo, secolarizzazione e diritto moderno, Milano-Baden Baden, 1981; E. Castrucci,
Il problema della teologia politica ora in La forma e la decisione, Giuffrè, Milano, 1985, pp.
103-127.
174
Per cogliere il nodo teologico-politico del pensiero schmittiano, almeno
secondo quanto appare nel periodo che va fino alla fine degli anni Venti, mi
sembra sia necessario andare al di là di quanto Schmitt dice nello scritto esplicitamente dedicato alla teologia politica, nel tentativo di illuminare il contesto
teorico e il cammino del pensiero che rende possibile la teologia politica e che
ci introduce alla profondità del suo senso. Uno spiraglio felice per porre il
tema da questa ottica è costituito da quanto si trova al centro dell’analisi
della forma politica in quell’opera fondamentale che è la Verfassungslehre.
Qui la rappresentazione, che appare come il principio che sta alla base della
struttura stessa della forma politica, si manifesta come movimento in cui si
rende presente ciò che è, per sua natura, assente. È cioè una realtà invisibile
che rende possibile quella visibilità che è propria del rappresentare:
altrimenti, rimanendo sul piano della semplice datità delle cose e intendendo
l’unità politica, che è oggetto e fine della rappresentazione, come realtà
empirica, ciò che si viene a negare è proprio l’attività rappresentativa.2 Non è
un caso che, in rapporto a tale struttura logica del rendere presente ciò che è e
resta assente, sia risuonata la voce stupita della critica, che ha ravvisato in
questa espressione e in questa logica del discorso un topos della teologia, in
quanto è proprio della tradizione teologica indicare Dio come presente in
quanto assente, per la sua incommensurabilità alla sfera della realtà finita e
presente.3 Ci si può allora porre il problema se mediante il tema della
rappresentazione non ci si trovi contemporaneamente di fronte a ciò che
costituisce il cuore della forma politica – e a questo proposito il testo
schmittiano è particolarmente esplicito –, ma anche a una struttura radicale di
implicazione della trascendenza, e quindi, da questo punto di vista, ad un
elemento di tipo teologico. Se in ciò risiedesse il teologico della forma
politica, la locuzione di «teologia politica» sarebbe particolarmente pregnante
e impegnativa, in quanto indicherebbe non tanto un passaggio o una
somiglianza tra teologia e politica, quanto piuttosto l’elemento di
trascendenza implicato dalla politica per il suo stesso porsi.
L’analisi che seguirà tenderà a mostrare come si possa tentare di individuare
nella rappresentazione il vero nucleo della teologia politica di Schmitt. La mancata comprensione di ciò, basata su un troppo immediato uso della figura
dell’analogia, rischia di portare a un concetto di decisione troppo semplicistico
e causa di fraintendimento del contesto del pensiero schmittiano. Se ciò è vero
prende una maggior rilevanza l’analisi degli scritti del secondo decennio del secolo, che appaiono significativi nella direzione della comprensione della forma
politica che si estrinseca nelle opere degli anni Venti. Non si vuole qui tanto
2
3
Cfr. su ciò l’analisi contenuta nelle pagine precedenti di questo stesso volume.
F. Glum, Begriff und Wesen der Repräsentation, cit., pp. 106-107.
175
prendere direttamente posizione nei confronti della questione della continuità o
delle rotture interne al pensiero di Schmitt, quanto piuttosto indicare, anche nei
mutamenti che in esso si possono riscontrare, lo sforzo di elaborazione di una
struttura teoretica e il cammino della sua ricerca in questa direzione.
Nell’ambito di questa impostazione l’elemento teologico non riguarda tanto ciò che il termine «teologia» sembra indicare letteralmente, cioè la «scienza
del divino» – dove il genitivo ha un carattere oggettivo –, sia essa fondata su
basi naturali o rivelate, quanto piuttosto una struttura teoretica in cui emerge il
problema della trascendenza in forma insieme rigorosa e aporetica (come appare appunto nella formulazione della presenza di ciò che è assente). Da questo punto di vista può addirittura sembrare che una pretesa scienza del divino,
nella sua dimensione oggettivante, perda proprio la trascendenza e dunque la
radice stessa del teologico. La questione è quella di una struttura teoretica che
appare implicata dallo stesso porsi dell’ambito politico e che contemporaneamente permette la formulazione del problema del divino quale radice del pensiero teologico.
In questa accezione il termine di teologia politica non assume il significato
della fondazione della politica mediante il dogma, né quello della ricaduta politica di una concezione religiosa, ma piuttosto quello di un movimento di
trascendimento che compare all’interno della stessa analisi della forma
politica e che impedisce la sua semplice riduzione laica al linguaggio delle
cose e dei dati e a un mondo di soggetti autosufficienti.
1. L’analogia e il problema di una concettualità radicale
È nota e spesso ripresa nella letteratura critica l’affermazione con cui si apre il terzo capitolo della Teologia politica: «tutti i concetti più pregnanti della
moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati».4 Secolarizzazione, nella esplicitazione che Schmitt ne dà, vuole indicare non solo il
passaggio storico dai concetti della teologia a quelli della dottrina dello Stato,
ma nello stesso tempo anche lo stretto legame che si pone tra le strutture sistematiche dei due ambiti. Tale legame è descritto da Schmitt mediante la
forma dell’analogia. Così lo stato di eccezione – elemento indispensabile per
la definizione della sovranità – viene ad assumere un significato analogo al
miracolo e l’onnipotenza del legislatore è considerata analoga all’onnipotenza
di Dio. Al ritrovamento di queste analogie Schmitt si è spesso dedicato anche
nel periodo precedente, come egli stesso ricorda. Tuttavia è necessario com4
C. Schmitt, Politische Theologie, tr. it., cit., p. 61.
176
prendere quale significato abbia questo termine di analogia e quali rischi
comporti un suo uso troppo immediato.
Se infatti il termine viene assunto, come spesso si fa, in una accezione debole, e serve ad indicare una semplice somiglianza, si rischia di perdere la
pregnanza della stessa proposta della teologia politica come chiave di
interpretazione della teoria politica moderna e del suo concetto cardine di
sovranità. Ma ugualmente si presentano difficoltà nel momento in cui il
termine venga assunto con una valenza forte, come identità di struttura tra i
due termini dichiarati analoghi. Certo Schmitt offre molti esempi in questa
direzione e sembra proseguire su questa strada in modo costante.5 Tuttavia, se
questa identità è assunta in modo pacifico si rischia forse di fraintendere non
solo l’apparato categoriale su cui si costruisce la teoria politica moderna, ma
anche lo stesso nucleo teorico del pensiero schmittiano.
Infatti nel semplice accostamento di sovrano e Dio, il moderno concetto di
sovranità mostrerebbe di essere caratterizzato non solo dalla indeducibilità
della decisione e dalla impossibile sua fondazione nella oggettività delle norme, ma anche dalla onnipotenza e creatività, e dunque, tout court dall’assolutezza. In tal modo, per quanto riguarda l’interpretazione delle categorie moderne, si perde la consapevolezza del movimento della rappresentazione, che lo stesso Schmitt vede incardinato nel concetto di sovranità,6 fin dalla
concezione hobbesiana, secondo cui il sovrano appunto è rappresentante. Per
quanto poi riguarda il cammino del pensiero schmittiano si rischia di perdere
la comprensione del movimento di trascendenza che si pone già negli scritti
degli anni Dieci-Venti, dove lo Stato non appare assoluto, ma implica il diritto
come sua origine (Der Wert des Staates), e dove la Chiesa, se si mostra come
vera Trägerin della forma politica e del principio rappresentativo, lo fa non in
quanto essa stessa trascendente, ma piuttosto in quanto implica e rappresenta
il divino.
Probabilmente una luce maggiore e una deformazione minore può prodursi
se si intende il concetto di analogia in senso filosoficamente specifico e si ricorda la dottrina scolastica della analogia entis, che non comporta identità tra
i due termini analoghi, ma nello stesso tempo pone anche un necessario rap5
Si pensi, oltre alle analogie indicate in Teologia politica, a quella ravvisata tra
l’assoluta monarchia e il Dio della teologia, con la bontà e la razionalità che caratterizza la
sua volontà, in Der Wert des Staates und die Bedeutung des Einzelnen, Tübingen, Mohr,
1914, p. 96, e allo stesso scritto su Hobbes del 1938, in cui si afferma che il nuovo dio che
nasce con il patto – non creato, ma piuttosto evocato dal patto – è trascendente nei confronti
dei singoli autori del patto, anche se si tratta di trascendenza giuridica e non metafisica
(Scritti su Hobbes, cit., p. 85).
6
Si confronti la Dottrina della costituzione, sp. § 16 e la stessa concezione del sovranorappresentante che si ha nel contesto della interpretazione schmittiana di Hobbes.
177
porto tra di essi.7 Allora l’analogia strutturale, in una prima approssimazione,
potrebbe significare il fatto che la sovranità, come centro concettuale della
sfera giuridico-politica, non coincide né somiglia al trascendente posto dalla
teologia, ma piuttosto, mediante un movimento di trascendimento, implica il
problema del trascendente. Allora non tanto sarebbe da dire «il sovrano come
Dio», ma piuttosto il sovrano è tale, e la sua azione è decisiva e non subordinata, in quanto implica ciò che è ulteriore ed eccedente l’esistenzialità del suo
darsi: in quanto rappresentante si riferisce a ciò che è oltre e che è assente –
come appare nella Dottrina della costituzione –, ad una istanza radicale, che
appare, nell’ambito teologico, nella forma del divino.
Il senso più specifico nel quale si può tentare di intendere il concetto di analogia ci conduce all’indicazione schmittiana più importante per capire il
piano epistemologico in cui si colloca il suo discorso sulla teologia politica.
Questo piano, con apparente concessione a Weber, è nominato come «sociologia dei concetti giuridici», in cui i concetti devono emergere nella loro concreta essenza, al di là di approcci di tipo materialistico o spiritualistico, che,
sulla base di un originario dualismo, tendano a mostrare la primarietà
dell’elemento oggettivo e reale, o di quello ideale del pensiero. Il tipo di rigore a cui Schmitt mira nell’esame dei concetti giuridici va a cogliere la loro
«struttura ultima, radicalmente sistematica», e cioè le radici del loro assetto
logico.8 Perciò un atteggiamento scientifico di questo tipo, nei confronti del
concetto centrale di sovranità lo porta a «mostrare che la situazione politicostorica della monarchia ha sempre corrisposto alla generale coscienza degli
uomini dell’Europa occidentale nelle diverse epoche e che la conformazione
giuridica della realtà politico-storica ha sempre trovato un concetto la cui
struttura coincideva con la struttura dei concetti metafisici».9 Una dimensione
conoscitiva rigorosa nei confronti dei concetti giuridico-politici della
modernità comporta dunque lo sfondamento dei confini del piano giuridico in
direzione di una «concettualità radicale», cioè di «una consequenzialità
portata avanti fino alla metafisica e alla teologia», con la consapevolezza che
«la metafisica è l’espressione più intensiva e chiara di un’epoca».10
Il problema è allora non tanto quello di verificare una semplice somiglianza tra concetti politici e teologici, o la semplice derivazione dei primi dai secondi, quanto piuttosto di vedere come la struttura dei concetti giuridico7
Una indicazione sul rapporto di Schmitt con Tommaso d’Aquino si ha in P. Pasquino,
Considerazioni intorno al «criterio del politico» in Carl Schmitt, «Il Mulino», XXXV
(1986), n. 4, p. 682.
8
Teologia politica, cit., p. 68.
9
Ivi, p. 69.
10
Ibid.
178
politici richieda delle condizioni teoretiche complessive che permettono la loro costruzione e il loro senso. In tal modo si rompe l’autonomia e
l’autosufficienza disciplinare della scienza giuridica, ma non mediante
l’appello a più alte verità filosofiche, frutto di una astrazione del pensiero,
bensì mediante il ritrovamento di quelle strutture metafisiche che sono
all’origine della stessa costruzione del concetto giuridico. Tale itinerario sembra necessitato dalla teoria politica quale si è determinata nel moderno in forma secolarizzata. Infatti se Dio è stato sostituito, le entità che si trovano al suo
posto, «umanità», «nazione», «individuo», «sviluppo storico», e anche la «vita» in quanto tale, sono ancora metafisica, che appare allora qualcosa di inevitabile.11 Se dunque nella teoria moderna scompare Dio, resta pur sempre
un’istanza suprema e radicale, anche se questa si determina mediante fattori
mondani e terreni, i quali tuttavia, in quanto idee, non si identificano con la
datità delle cose. Per intendere dunque la logica della sfera politica è necessario cogliere il modo in cui viene introdotta e giustificata questa struttura di
implicazione di una istanza radicale nella riflessione schmittiana, senza tagliare a priori questa ricerca in base all’ipotesi, diffusa nella letteratura critica, di
una funzionalità metodologica dell’istanza radicale a una posizione totalizzante e teologica (nel senso qui di ideologica) quale sarebbe attribuita a Schmitt.
In questo atteggiamento nei confronti della scienza giuridica si può ravvisare il senso della ineliminabile filosoficità del pensiero di Schmitt, che non
contrasta, ma fa anzi tutt’uno, con le sue convinte e iterate dichiarazioni di ritenersi unicamente un giurista. Concettualità radicale – e in questo senso filosofica – e analisi rigorosa del campo giuridico della moderna forma dello Stato sono strettamente legate, costituendo un unico atteggiamento: non si tratta
infatti di ricorrere a ideologie o costruzioni filosofiche per fondare l’ambito
giuridico, quanto piuttosto di non lasciare il costituirsi del campo di indagine
giuridica come un semplice presupposto, interrogandolo fino in fondo e mostrando le strutture logiche che permettono il porsi dei suoi concetti fondamentali. Schmitt, in quest’ottica, è costretto a risalire alla metafisica per essere
pienamente giurista, cioè per assumere fino in fondo i concetti giuridici, senza
lasciarli come presupposti per un loro uso applicativo. È a questo livello che
si pone il problema della teologia politica.
11
Cfr. la Premessa del 1924 a Politische Romantik, in C. Schmitt, Romanticismo politico, cit., p. 21; la teologia politica dei concetti moderni mi pare stia tutta in questo duplice
movimento che è loro costitutivo secondo cui da una parte essi stessi sono possibili grazie
all’implicazione di una istanza radicale e trascendente, e dall’altra intendono quest’ultima
nella forma dell’immanenza.
179
2. L’emergere di una struttura teoretica
Fin dagli scritti degli anni Dieci, la riflessione sullo spazio politico e
sull’essenza dello Stato, che tiene particolarmente presente un orizzonte kelseniano,12 parte dalla consapevolezza della impossibilità di comprendere la
forma politica mediante una chiave positivistica di immanenza basata sulla
datità delle cose e dei soggetti. Ma ciò che è maggiormente rilevante è il tentativo di cogliere una dimensione di concretezza – che è tutt’altro che mera
attualità – consistente nel rendere visibile ed efficace un elemento ideale. Sono lo Stato e la Chiesa le due forme che rivelano tale struttura risultando così
legate, in un modo diverso da quanto potrebbe fare la concezione di una derivazione dogmatica dell’idea di Stato, da verità teologiche o rivelate.
È una preoccupazione teoretica e non confessionale che opera nei primi
scritti, e tra questi in Der Wert des Staates, in cui non si tratta tanto di conciliare una concezione di kantismo giuridico con un orizzonte cattolico, né di
rendere compatibile il potere dello Stato con quello della Chiesa,13 quanto
piuttosto di comprendere nella sua essenza lo Stato come portatore di una realtà che lo precede e lo autorizza e nello stesso tempo come spazio della forza
(Macht) quale si dà in una dimensione di realtà. Se è vero che Schmitt sembra
postulare un dualismo metafisico consistente nei due regni, quello del puro
diritto e della sua razionalità e quello empirico in cui ha luogo la forza, tuttavia tale dualismo in tanto è radicalizzato in quanto è anche superato: il riferimento al movimento dell’Aufhebung hegeliana non è qui gratuito (anche se
non si vuole qui certo proporre una omogeneità, nel modo di intendere la razionalità e la totalità, tra Hegel e Schmitt), non solo per il rimando diretto ad
Hegel da parte dello stesso Schmitt, ma anche perché è innanzitutto mediante
lo hegeliano senso della Wirklichkeit che si può intendere il darsi di un piano
concreto in cui compare insieme sia l’elemento ideale sia la dimensione fattuale, al di là di un isolamento frutto di astrazione.14
12
Attenzione al rapporto di Schmitt con Kelsen si ha in R. Racinaro, Esistenza e decisione in Carl Schmitt, «Il Centauro», 1986, n. 16, pp. 140-173 e in M. Fioravanti, Kelsen,
Schmitt e la tradizione giuridica, cit.
13
Cfr. M. Nicoletti, Alle radici della «teologia politica» di Carl Schmitt: gli scritti giovanili (1910-1917), «Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento», X (1984), p.
290. Questo saggio ha il merito di avere valorizzato i testi giovanili per il chiarimento del
problema della teologia politica in una direzione che è in parte vicina a quella qui seguita.
14
Cfr. il riferimento a Hegel a proposito del diritto come unità di regola impersonale e
individuo (Der Wert des Staates, p. 86, cfr. anche p. 80). Si ricordi anche come sia vicina
alla posizione hegeliana della Differenz l’indicazione che si ha nelle pagine di Cattolicesimo
romano (tr. it., pp. 38 ss.) di vivere in un’epoca segnata da un «dualismo radicale». Sul rapporto con Hegel a proposito del tema concretezza-razionalità, cfr. H. Hofmann, Legitimität
gegen Legalität, cit., pp. 54 ss. Sul rapporto tra i due autori si veda ora il bel volume di J-F.
180
I dualismi ricorrenti nella riflessione giuridica, che si manifestano nella separazione tra diritto ed etica tipica dei secoli moderni, derivano dalla scissione
di libertà interna ed esterna e dalla impossibilità di cogliere in un unico concetto visibile e invisibile, temporale ed eterno.15 Ma è proprio una struttura
che permetta di intendere insieme il darsi dell’invisibile e il piano della visibilità che Schmitt tenta di cogliere attraverso la stessa domanda sull’essenza
dello Stato che guida l’opera. Se da una parte contro la Machttheorie Schmitt
mostra l’impossibilità che il diritto sia fagocitato dal mondo della fattualità e
della forza, dall’altra il diritto, in quanto determinantesi nella sua purezza razionale, non può dar luogo esso stesso alla realizzazione di sé e diventare diritto efficace, in quanto non è proprio della norma esprimersi come volontà o
coazione.16 È dunque necessario un soggetto del diritto (Rechtsubjekt) che lo
porti a compimento e costituisca il modo del suo presentarsi nel mondo della
fattualità. Al concetto di Stato è bensì necessariamente inerente l’elemento
della forza, ragione per cui non può considerarsi Stato una istanza che rinunci
alla influenza e efficacia nel mondo sensibile e alla coazione,17 ma tuttavia la
giustificazione dello Stato non è data dal possesso della forza: la sua autorità
deriva dal diritto.
Nella critica ad una Machttheorie che non ha la possibilità di distinguere
nella sua essenza il potere dello Stato nei confronti degli assassini da quello
che hanno gli assassini nei confronti delle loro vittime,18 e che non coglie
dunque, potremmo dire, nemmeno il problema della sicurezza e della stabilità
che è connaturato alla moderna forma politica, emerge una concezione dello
Stato la cui forza è legittimata dal compito di realizzare il diritto (Recht zu
verwirklichen): se lo Stato si pone in una dimensione di realtà (Wirklichkeit),
in cui prende senso la presenza della forza, ciò avviene perché implica un diritto da realizzare (verwirklichen), e dunque si riferisce ad una istanza che lo
trascende. Qui si può comprendere l’atteggiamento schmittiano nei confronti
del dualismo. Non si tratta tanto di affermare un dualismo metafisico che giustifichi un’opera di mediazione qual è quella dello Stato, quanto piuttosto di
trovare un piano di realtà in cui si danno e prendono il loro senso sia il diritto,
che è altrimenti abstrakte Gedanke, sia quella fattualità della forza che è altrimenti priva di senso e di razionalità. Già in Gesetz und Urteil, come si escludeva la derivazione della regola dall’accadere empirico, così si negava
Kervégan, Hegel, Carl Schmitt. Le politique entre spéculation et positivité, P.U.F., Paris,
1992 e C. Galli, Genealogia della politica, cit.
15
Cfr. Der Wert des Staates, cit., p. 11.
16
Ivi, p. 37.
17
Ivi, p. 69.
18
Ivi, p 16.
181
anche la possibilità della deduzione della prassi da un piano astratto di concetti.19 La prassi giuridica in quel contesto, e qui lo Stato, costituiscono modi di
determinazione di struttura di realtà e concretezza.
Il riferimento alla definizione agostiniana del diritto come origo, informatio, beatitudo,20 indica come il diritto non sia tanto inteso come un mondo di
norme pure e determinate, quanto piuttosto come una istanza di giustizia e di
ordine che è originaria nei confronti della realtà dello Stato (coinvolge cioè il
problema della sua origine) ed è necessaria perché questo si possa costituire
come forma (il diritto è infatti informatio). Che non si abbia una concezione
formalistica del diritto è confermato dal fatto che con Rechtstaat non si intende indicare una forma particolare di Stato, che si basi su un diritto caratterizzato dalla razionalità formale, ma lo Stato in quanto tale: poiché suo compito
è la realizzazione del diritto, non c’è altro Stato che lo Stato di diritto. Ma
questo servizio reso al diritto non si esplica in una semplice esecuzione di ciò
che è già determinato e che deve essere meccanicamente applicato; è a questo
proposito significativo che la funzione dello Stato sia avvicinata a quella svolta da Dio nei confronti dell’etica, di quel Dio che è kantianamente necessario
alla realizzazione dell’etica nel mondo empirico.21 Il rapporto di Stato e diritto
non è allora quello di mezzo-scopo, ma piuttosto quello di un agire in cui si dà
concretamente quell’istanza originaria del diritto che non può coincidere con
l’ordine determinato dallo Stato: quest’ultimo si costituisce, distinguendosi da
un agire totalmente arbitrario, solo a causa dell’alterità e ulteriorità di
quell’istanza originaria.
Tenendo presente ciò si può forse cercare di intendere, al di là di un dibattito puramente legato alla dimensione storico-culturale relativa al cattolicesimo di Schmitt, il paradosso contenuto nell’indicazione di un Naturrecht ohne
Naturalismus.22 Se cioè il diritto statale positivo richiede un diritto che trascenda il piano storico empirico, svolgendo in tal modo il ruolo di un diritto
naturale, ciò non comporterebbe tuttavia un «naturalismo», che si può inten19
C. Schmitt, Gesetz und Urteil, Berlin, 1912, II ed., München, 1969, p. 3.
Der Wert des Staates, p. 53.
21
Ivi, p. 55: ciò non comporta per altro una identità strutturale tra Stato e Dio; piuttosto
analogia di struttura si porrà tra Stato e Chiesa, in quanto in ambedue i casi si ha implicazione di trascendenza.
22
Ivi, p. 76. Cfr. l’opinione di Hofmann e di Hugo Ball che l’elemento cattolico riguardi
la metodica e che la forma teologica sia più una conseguenza del sistema che un suo presupposto utile a una fondazione dogmatica (H. Hofmann, Legitimität gegen Legalität, cit., p. 58
e H. Ball, Carl Schmitts Politische Theologie, cit., p. 267). Su questo problema del diritto
naturale senza naturalismo cfr. M. Nicoletti, Alle radici della teologia politica, cit., pp. 285286, la cui indicazione che il naturalismo escluso da Schmitt si riferisca all’ordine dell’essere
mi pare tuttavia da condividere solo se questo è inteso in una forma oggettivata e cristallizzata.
20
182
dere come immanentizzazione dell’istanza giuridica e nello stesso tempo come possibilità che questa si determini in un mondo di forme compiute, in uno
«status naturalis». In altri termini mi sembra che l’aver individuato da parte
di Schmitt il piano della Wirklichkeit, in cui si colloca lo Stato, impedisca,
nonostante le numerose affermazioni sulla compiutezza del diritto come pensiero astratto, di intendere il diritto come un mondo di norme determinate e
cristallizzate che tutto esprimono nella datità del loro detto e che si fanno oggetto nei confronti di chi le contempla. Esso sembra molto più essere una istanza originaria, mai racchiudibile nei modi dell’oggettivazione. Lo Stato
appare allora essere costitutivamente tensione, sforzo continuo di rendere visibile (Sichtbarmachen) il pensiero, l’idea. In questo compito continuo, inteso
non come infelice destino di cattiva infinità, ma come struttura in cui
l’invisibile è implicato per dare ragione delle cose visibili e della stessa visibilità, sta la realtà dello Stato.
3. «Sichtbarmachung» e «Säkularisierung»
Appare in questo contesto un termine che avrà un grande peso anche nelle
opere successive e nella stessa declinazione del tema della teologia politica:
quello di secolarizzazione. Ma qui esso ha un significato strutturale più pregnante di quello che, a una prima lettura, sembra proposto nelle pagine della
Teologia politica, dove il passaggio dai concetti teologici a quelli politici può
essere visto come il passaggio da un piano trascendente ad uno mondano. Il
senso è qui non tanto epocale e storico, ma appunto strutturale, in quanto indica la necessità, propria del piano della Wirklichkeit, di rendere visibile l’idea,
che per sua natura non è empiricamente percepibile. In questo significato la
secolarizzazione non indica la perdita della trascendenza nella direzione di
una realtà divenuta totalmente mondana, ma proprio il suo contrario,23 e cioè
la necessaria implicazione della trascendenza da parte della specifica realtà
umana politica, e d’altra parte la necessità per l’idea di prendere corpo e di
passare attraverso il piano della visibilità. Se si mantiene il termine di secolarizzazione con il significato più usuale di passaggio dal trascendente al mondano, bisogna allora dire che qui si tratta di una impossibile secolarizzazione,
proprio perché la proposta consiste nella impossibilità di intendere il piano
mondano senza la consapevolezza della trascendenza, così come di porre la
trascendenza in un altro luogo, al di fuori dal piano mondano delle cose visibili. È proprio allora dell’essenza dello Stato il riferimento a un’idea che lo
23
Molto bene su ciò M. Nicoletti, Alle radici della «teologia politica», cit., p. 288.
183
trascende, e tuttavia questa solo in esso si presenta e acquista la dimensione
reale (wirklich).
Emerge in questo modo, nell’esame dell’essenza dello Stato, una struttura
teoretica, aporetica e non di meno logicamente necessaria, in cui consiste la
secolarizzazione: rendere visibile l’idea, che si dà solo in questa visibilità, ma
la cui natura rimane l’invisibilità.24 Per esprimere ciò Schmitt si rifugia nella
metafora e ricorda con Goethe: «l’idea entra sempre nell’apparire come ospite
straniero (Die Idee tritt immer als ein fremder Gast in die Erscheinung)».25 È
questa aporetica struttura, che implica l’alterità dell’idea, ma anche il suo darsi nel luogo reale costituito dallo Stato, a far comprendere come non ci sia
dualismo metafisico e come lo Stato non possa essere semplice esecutore del
diritto.
In luogo di un presunto dualismo, ciò che si impone proprio qui, al centro
di questa struttura, è la densità del tema della decisione. Infatti è a causa di
questa aporetica alterità dell’idea e della sua invisibilità che non è possibile un
semplice rispecchiamento, un movimento oggettivo di deduzione, ma diventa
indispensabile l’atto soggettivo e arrischiato della decisione: «sobald irgendwo das Bestreben einer Vervirklichung von Gedanke, einer Sichtbarmachung und Säkularisierung auftritt, erhebt sich gleich neben dem Bedurfniss nach einer konkrete Entscheidung». 26 È importante sottolineare il
fatto che proprio in relazione a questa struttura emerga la decisione; non cioè
in uno spazio totalmente vuoto e libero, ma invece in una dimensione della
realtà che implica l’idea. Se tale struttura può essere intesa come mediazione
(non nel senso di legame tra due mondi ontologicamente in sé sufficienti e
compiuti, ma in quello aporetico sopra indicato),27 è proprio in questa mediazione che consiste l’insopprimibilità della decisione: mediazione e decisione
non comportano due ottiche diverse e opposte, e se ciò è vero, allora probabilmente nemmeno la prima riflessione di Schmitt riguardante la mediazione è
del tutto opposta a quella successiva di stile decisionista, anche se diversi nei
24
La struttura è aporetica perché solo con il presentarsi dell’aporia può essere colta nella
sua necessità e nel suo rigore, cioè al di là di un dualismo basato sulla immaginazione, che
pone la trascendenza in un altro mondo, al sicuro dalla contingenza del mondo della visibilità (cfr. su ciò le pagine dedicate all’idea di Platone nel capitolo introduttivo di questo volume).
25
Der Wert des Staates, p. 75: la citazione, ripresa da Harnach (Urchristentum und
Katholizismus), così suona nella pagina di Goethe: «Eine jede idee tritt als ein fremder Gast
in die Erscheinung» (Goethes Werke, Amburger Ausgabe, Bd. 12, p. 439).
26
Der Wert des Staates, p. 81 (spaz. mio).
27
Si ricordi l’espressione «der Staat als Medium», ivi, p. 74.
184
due casi possono essere i contesti culturali di riferimento.28 Infatti se da una
parte il problema è quello di realizzare l’idea e di renderla visibile, dall’altra
questa rimane per sua natura altra e invisibile: si determina così uno scarto
incolmabile che impedisce ogni forma di rispecchiamento e deduzione, e che
pone come unica dimensione della realizzazione del compito l’atto concreto
della decisione.
È al cuore di questa problematica, in cui la forma dello Stato appare possibile grazie al darsi della decisione, che compare il riferimento alla Chiesa nella figura dell’infallibilità del Papa.29 Esso non risponde all’intenzione di una
fondazione dogmatica della prassi, né tanto meno tende ad affermare uno spazio di potestas indirecta, ma piuttosto ha il significato dell’impossibilità di
fondare la decisione sulla oggettività della norma e della inconclusività del
tentativo di colmare uno scarto che, in quanto strutturale, comporta come insopprimibile un atteggiamento di fede. Per intendere il confronto, già presente, con la teoria politica moderna, è significativa la convinzione dell’inutilità
della mossa fichtiana, per altro ricorrente nel pensiero filosofico, di preservare
il diritto dal pericolo di un uso distorto e perverso del potere mediante una più
alta istanza di controllo, e dunque di un più alto potere, anche se privo della
forza, quale quello dell’eforato. La contraddizione in cui Fichte si involve è
dovuta alla pretesa di avere un rapporto garantito tra il diritto e la forza che lo
realizza, ma come si è visto questo scarto è incolmabile: nessuna legge si realizza di per sé, e nessun aiuto si ha, qualora manchi la fiducia nel custode della legge, a contrapporgli un altro custode.30 Ancora infatti ci si trova dinanzi a
un rapporto non garantito, non risolvibile nell’oggettività della norma e richiedente l’atteggiamento della fiducia.
Le aporie che solleva nella teoria politica il problema del controllo hanno
la loro radice nell’alterità dell’idea e dunque nella indeducibilità del passaggio
tra idea e sua realizzazione: lo iato che qui si apre non è colmabile con un sistema di garanzie, né con una serie di gradi intermedi. Infatti non di dualismo
metafisico si tratta e dunque non di due poli di uno spazio che può essere
riempito: è nella concretezza della decisione e nella realizzazione del compito
28
È infatti lo stesso Schmitt nel 1969 a ricordare come sia utile tenere presenti i primi
scritti – nel caso specifico Gesetz und Urteil, ma evidentemente anche Der Wert des Staates,
secondo la lettura che qui è stata offerta –, per intendere, al di là delle deformazioni interpretative del «decisionismo» il modo in cui emerge il problema della decisione e dunque il senso che è ad essa proprio (cfr. la premessa alla II ed. cit. di Gesetz und Urteil, p. V; su ciò
ferma giustamente l’attenzione M. Nicoletti, Alle radici della «teologia politica», cit., p.
260).
29
Cfr. Der Wert des Staates, p. 81.
30
Ivi, p. 83; cfr. a questo proposito il mio Logica e aporie della rappresentanza tra Kant
e Fichte cit. e il cap. II di questo volume.
185
che compare l’idea. È la radicale alterità dell’idea, il suo essere sempre «ospite straniero», a non permettere che essa divenga figura di cui sia possibile rispecchiamento e dunque copia; in tal caso ci si troverebbe su un piano di oggettività perfettamente controllabile – avendo di fronte sia il modello sia la
sua esecuzione o copia – e non ci sarebbe rischio né necessità di un atteggiamento di fede. Invece l’eccedenza dell’idea comporta la necessità che la sua
realizzazione sia affidata a un atto di decisione, che è insieme fonte di effettualità – e perciò è da Schmitt paragonato all’agire divino –, ma anche inevitabile scelta, riduzione di possibilità, recisione dalla totalità: comporta dunque inevitabile perdita, scarto in relazione all’idea, e si mostra pensabile nell’unico
spazio della finitezza.
Quanto questa struttura sia focalizzata successivamente nel concetto di
rappresentazione si vedrà mediante il riferimento al Römischer Katholizismus. Uno spiraglio offerto ad uno sguardo che va in questa direzione è tuttavia presente nell’indicazione che il Pontefice è infallibile non tanto per le sue
doti personali, ma in quanto è rappresentante (qui Statthalter) di Cristo in terra.31 Così è anche per il sovrano assoluto, in quanto egli, a causa del suo ufficio, non può volere altro che il diritto.32 Ben si comprende qui, e sarà da tenerlo presente anche in seguito, che l’assolutezza della decisione non coincide
con la sua arbitrarietà, ma al contrario dipende dal fatto che la sfera dello Stato implica il diritto, così come quella della Chiesa implica il Cristo. Il parallelo riferimento alla Chiesa e allo Stato si spiega ancora con una unità di struttura consistente nel compito di rendere visibile l’invisibile in cui si radica l’atto
non garantito né controllabile della decisione.
Un ulteriore spiraglio per intendere il rapporto tra la struttura speculativa
emergente in Der Wert des Staates e la tematica della rappresentazione è dato
dal rilievo attribuito all’elemento della finzione giuridica allo scopo di determinare il piano della realtà in cui l’individuo è significativo per lo Stato: esso
infatti non proviene dalla sua cosalità empirica, ma appunto dalla finzione
giuridica, che fa della persona giuridica fittizia (fiktive juristische Person) il
modello di ogni personalità del diritto.33 Tale indicazione era già apparsa in un
31
Der Wert des Staates, p. 95.
Non mi sembra che questo termine di Statthalter (in Cattolicesimo romano si avrà anche Stellvertreter) sia da intendere nel contesto della distinzione tra la rappresentazione (Repräsentation) e il semplice «stare al posto di» indicato dalla famiglia di termini quali Vertretung e Stellvertretung; l’essere Statthalter o Stellvertreter del pontefice ha tutte le
caratteristiche, comprese quelle personali, del rappresentare, così come il Cristo ha la caratteristica di trascendenza propria di ciò che è degno di rappresentazione.
33
Der Wert des Staates, pp. 102-105.
32
186
breve scritto nel 1913 dal titolo Juristische Fiktionen,34 che si opponeva al
giudizio di irrealtà nei confronti della finzione giuridica basato sulla riduzione
del concetto di realtà a quello di realtà empirica. È proprio invece per il fatto
che l’oggetto della finzione non è nella realtà empirica che essa è produttiva
nella scienza e nella prassi, e dunque è reale. Per intendere la rilevanza del riferimento alla finzione per una teoria della rappresentazione, basti pensare da
un lato a quanto il tema giuridico della persona ficta sia parte di una storia del
concetto di rappresentazione,35 e dall’altro a quanto questo stesso tema sia interno alla costruzione giusnaturalistica della «persona civile».36
Per la comprensione del modo in cui si viene a presentare il tema della teologia politica è particolarmente rilevante riflettere sul fatto che Schmitt, al
cuore dell’analisi riguardante l’essenza dello Stato, ricorra alla forma della
Chiesa come esempio pregnante nella sua tipica purezza (Beispiel in typischer
Reinheit).37 Infatti, come si è visto, rendere visibile l’idea è un compito strutturale, mai esauribile, che implica la trascendenza; ed è proprio della Chiesa il
riferimento esplicito al trascendente, che non è, per la sua stessa natura, visibile.
A questa struttura del rapporto visibile-invisibile (o meglio dell’implicazione
dell’invisibile per il darsi stesso del piano della visibilità), che, ricordiamo,
compare al centro della Verfassungslehre a proposito della rappresentazione
come principio della forma Stato, è dedicato nel periodo giovanile lo scritto che
ha per oggetto la natura della Chiesa e la sua visibilità.38
La dimensione in cui si colloca la Chiesa è quella umana e concreta della
visibilità: questa è una necessità derivante non solo dal fatto che la Chiesa è
composta da uomini, ma anche dallo stesso evento centrale su cui essa si fonda, cioè la venuta di Cristo. Come Cristo ha avuto un corpo anche la Chiesa
deve avere un corpo.39 Il fatto che Dio si è fatto uomo comporta l’esistenza di
una Chiesa visibile, che accetta il piano dell’organizzazione, dell’istituzione,
della ufficialità. Ma da quell’evento deriva anche che la visibilità della Chiesa
consiste nel comunicare una verità che è trascendente: in questo modo si può
34
C. Schmitt, Juristische Fiktionen, «Deutsche Juristen-Zeitung», XVIII (1913), pp.
804-806.
35
Cfr. H. Hofmann, Repräsentation. cit., sp. pp. 132-144.
36
Cfr. su ciò la mia introduzione a Il contratto sociale nella filosofia politica moderna,
cit. e il cap. II del presente volume.
37
Der Wert des Staates, p. 81.
38
C. Schmitt, Die Sichtbarkeit der Kirche. Eine scholastische Erwägung, «Summa»,
1917-18, n. 2, pp. 71-80, tr. it. C. Sandrelli, rev. C. Galli, «Il Centauro», 1985, n. 15, pp.
177-184 e in Cattolicesimo romano, cit., pp. 71-85 (da qui le successive cit.).
39
Die Sichtbarkeit, cit. p. 75 (tr. it., p. 78).
187
dire che la sua stessa visibilità diviene invisibile, in quanto la sua vera realtà è
in Dio: essa è in questo mondo senza essere di questo mondo.40
Anche qui, nonostante la partecipazione alla vita di Cristo, lo scarto che vi
è tra visibile e invisibile è incolmabile, e perciò il compito del «rendere visibile» è continuo e strutturale, e non può trovare garanzie oggettive. Se è vero
che l’essenza della Chiesa, come quella dello Stato, è di essere mediazione, il
non costituirsi in figura dell’invisibile comporta la necessità, perché la mediazione sia tale e reale, dell’atto arrischiato della decisione. Da ciò la possibilità,
a causa della «tremenda contrapposizione di diritto e potere» derivante dal
peccato, che la Chiesa tradisca il compito e la vera visibilità si separi dunque
da quella che risulta empiricamente: così la chiesa visibile si separa da quella
concreta (qui Konkrete, quasi ad indicare che non siamo sul piano della Wirklichkeit) e si ha una aperta contraddizione.41
Se in questa sempre possibile frattura tra Chiesa visibile e Chiesa empiricamente presente si apre lo spazio in cui si inserisce la critica protestante, tuttavia ciò non può comportare né la negazione della dimensione della visibilità
né quella della sua critica a partire da una pretesa di immediato e diretto rapporto (di un vedere, si potrebbe dire) con l’invisibile. Infatti ancora più contraddittoria è la negazione della visibilità che collochi l’invisibile in un altro
mondo (che richiederebbe una sua visibilità), e con ciò contraddittorio appare
un rifiuto ufficiale della ufficialità.42
Non è oggetto di questa analisi il rapporto corretto o scorretto da parte di
Schmitt con il cattolicesimo e il protestantesimo, ma piuttosto il modo in cui
la struttura teoretica della visibilità dell’invisibile si viene precisando. Essa
consiste nell’impossibile autonomia e autosufficienza del mondo della visibilità e di ciò che in esso appare nel caso specifico della Chiesa, perché questa si
fonda su ciò che è invisibile. E tuttavia tale invisibile non si colloca in un «altro mondo» e non è attingibile in un modo sicuro che eviti la contingenza della visibilità. Ancora non si tratta di dualismo metafisico, ma di un movimento
di trascendenza, che implica l’invisibile per lo stesso darsi della visibilità,
movimento che si pone tuttavia solo all’interno del piano stesso della visibilità.
Si può a questo punto comprendere quanto tale struttura concreta di mediazione, che è legata felicemente in modo classico (si pensi a Platone) alla
metafora del vedere, vada nella direzione di quella rappresentazione che si determinerà sul piano della visibilità e presenzialità, ma che apparirà possibile
40
Ibid.
Ivi, p. 77 ( tr. it., p. 81).
42
Ivi, p. 81 (tr. it., p. 85 ). Per la contestualizzazione «cattolica» del pensiero di Schmitt
si ricordi P. Tommissen, Carl Schmitt e il «renouveau» cattolico nella Germania degli anni
Venti, «Storia e politica», 1975, n. 4, pp. 481-500.
41
188
solo in quanto riferita a ciò che per sua natura non è presente né visibile. Se in
questa analisi della struttura dello Stato e della Chiesa, che introduce al tema
della rappresentazione, si può ravvisare un nodo di teologia politica, questa
viene qui a prendere il senso della implicazione, in una mediazione che si attua mediante un atto di decisione, di una istanza trascendente: Dio nella Chiesa e il diritto nello Stato. È ben vero che si ha una esplicita dichiarazione
sull’analogia tra il ruolo dello Stato e quello del Dio kantiano garante del rapporto tra mondo etico e mondo empirico, ma è anche vero che si nega allo
Stato l’appellativo divino di creatore (è piuttosto il diritto ad essere, ma in
modo ben diverso da Dio, Schöpfer dello Stato).43 Allora più che il parallelo
tra Stato e Dio aiuta la comprensione del pensiero di Schmitt l’indicazione che
lo Stato implica un’istanza trascendente qual è il diritto, così come la Chiesa
implica il divino.
4. Rappresentazione e forma politica in «Cattolicesimo romano»
Se gli elementi fin qui considerati – visibilità, invisibilità, idea, mediazione, decisione, infallibilità – hanno un significato anche per la riflessione successiva di Schmitt, allora viene a prendere una posizione centrale il nodo teorico costituito da Cattolicesimo romano, in cui tutti quegli elementi prendono
un loro assetto logico in relazione alla struttura della rappresentazione.44 Ancora una volta l’oggetto della nostra analisi non è quello, legittimo nel contesto di un’altra ricerca, del rapporto di Schmitt con la Chiesa, del modo di intenderne la centralità e il futuro; a questo proposito la posizione di Schmitt
può essere transitoria e fare registrare negli anni successivi mutamenti notevoli e scarti importanti. Ciò che si tratta piuttosto qui di intendere è la rilevanza
della riflessione sulla rappresentazione contenuta in Cattolicesimo romano
nell’itinerario del pensiero schmittiano, in modo particolare in rapporto alla
trattazione della forma politica quale si manifesta nella Verfassungslehre e al
problema della teologia politica.
43
Cfr. Der Wert des Staates, p. 46.
È lo stesso Schmitt a riconoscere nella weltgeschichtliche sichtbare Repräsentation il
nodo teoretico di Cattolicesimo romano e nello stesso tempo l’origine di esso nella struttura
teoretica della visibilità dell’invisibile quale era emersa in Visibilità della Chiesa (cfr. C.
Schmitt, Politische Theologie II, Duncker & Humblot, Berlin, 1970, p. 27, e su ciò C. Galli,
Mediazione e decisione: il rappresentare secondo Carl Schmitt, «Il Centauro», 1985, n. 15,
pp. 168 ss.). Sulla ripresa di questo contesto di problemi nella stessa Politische Theologie II
e dunque sulla rappresentazione come cuore della teologia politica anche nell’opera matura,
cfr. A. Scalone, La “Politische theologie II” di Carl Schmitt, «Filosofia politica», 1988, n. 2,
pp. 435-453.
44
189
Al di là delle contingenze che ne possono avere motivato la stesura, il testo
sul Cattolicesimo romano ha, dal punto di vista teoretico, una collocazione
strategica, in quanto da una parte è preceduto dalle analisi già considerate sulla struttura dello Stato e della Chiesa ed è immediatamente successivo alla definizione della sovranità contenuta nella Teologia politica, che, com’è noto,
pone direttamente con forza il problema della decisione, e dall’altra precede di
qualche anno il testo sulla costituzione e il saggio di definizione del politico,
che sono del 1928.45 Si può allora avanzare l’ipotesi che proprio prendendo
sul serio questo testo e riflettendo sul rapporto che è in esso posto tra rappresentazione e forma politica, si possa intendere in modo più profondo e forse
più appropriato sia il senso della teologia politica che quello del concetto di
decisione e del politico inteso come nesso amico-nemico, che costituiscono
spesso le chiavi di lettura del pensiero schmittiano. Se mediante l’attenzione
alla struttura teoretica del ragionamento schmittiano e la rivalutazione della
riflessione sulla rappresentazione che si ha in Cattolicesimo romano venisse una
qualche luce sullo spessore teoretico dei concetti suindicati di forma, decisione
e politico, si avrebbe un contributo, anche di tipo filologico-ermeneutico oltre
che teoretico, alla comprensione del pensiero schmittiano. In questa direzione si
può tentare di dare alcune indicazioni.
Innanzitutto ci si può chiedere se il problema della decisione venga coinvolto dalla tematica della rappresentazione, sulla linea di quanto si è sopra visto a proposito della mediazione e dell’alterità dell’idea. Bisogna ricordare
che con Cattolicesimo romano ci troviamo immediatamente a ridosso della
famosa definizione secondo cui «sovrano è chi decide sullo stato di eccezione».46 Tale definizione porta alla considerazione che la decisione è fondata su
un nulla dal punto di vista normativo, qualora la norma sia intesa nel senso
oggettivo e formale del termine; tuttavia conduce a un evidente fraintendimento
del pensiero schmittiano l’interpretazione che intenda questa mancanza di
fondamento nel senso dell’arbitrarietà e della giustificazione dell’atto politico
vincente nella effettualità empirica. È allora significativo ricordare che anche
in Cattolicesimo romano, e cioè non in uno scritto del 1914, ma del 1923, appunto successivo immediatamente a quella definizione della sovranità, il concetto di decisione viene coniugato con quello della mediazione. Infatti se da
una parte la Chiesa è una delle più imponenti manifestazioni di complexio oppositorum, riuscendo ad abbracciare in sé le posizioni più opposte, dall’altra
in questa mediazione non viene a scomparire l’elemento della volontà e della
45
È da ricordare che Cattolicesimo romano è del ’23, ma la II edizione, che lo stesso
Schmitt sembra prediligere, è del ’25 (cfr. su ciò l’Introduzione citata (p. 4) di C. Galli alla
traduzione italiana).
46
Teologia politica, cit., p. 33.
190
scelta, e questa complexio si coniuga con un potente Wille zur Dezision,47 con
quella decisione più intransigente che si esprime nella infallibilità del pontefice. Ciò non è contraddittorio, perché la mediazione non ha il senso della pacifica coesistenza delle diverse parti in sé confliggenti, ma è la loro unificazione
all’interno di una forma, che è determinante e decisiva: infatti la complexio
non è una sintesi materiale, ma si basa su una «specifica superiorità formale
nei confronti della materia della vita umana».48
La decisione comporta bensì scelta, distacco e recisione nei confronti delle
possibilità infinite, discriminazione tra chi è da essa coinvolto e chi si viene a
trovare al di là della linea tracciata, ma tutto ciò, lungi dall’escludere un contesto reale, richiede la capacità di organizzare una realtà complessa e di unificare cose diverse: tanto più opposti sono gli elementi unificati tanto più forte e
decisiva è l’unità e tanto più radicale la linea di contrapposizione. Qui si sta
parlando della Chiesa, ma in quanto Trägerin della forma politica:49 è infatti
la stessa forma politica che comporta questa mediazione, e anche lo Stato, in
quanto unità politica, non potrà non mostrarsi a sua volta complexio oppositorum, poiché la molteplicità – e possiamo ben dire l’opposizione – degli interessi e dei partiti, attraverso l’organo del parlamento, è pensata in modo unitario.50 Si viene a determinare così un campo in cui la decisione si pone ed è
efficace, quello che più tardi sarà denominato come costituzione, nel senso più
comprensivo del termine Verfassung.51 La sospensione evocata dalla decisione e la sua lama non comportano un mondo vuoto ma piuttosto una
complessa realtà, nella quale la decisione mostra la sua efficacia, e cioè si mostra come decisione reale e non semplice e velleitaria volontà di decisione.
Ma questa dimensione della decisione, che la lega alla costituzione, è strettamente congiunta con un’altra, nella quale la decisione mostra di implicare
l’idea. Già nelle opere precedenti si è visto come sia proprio il riferimento ad
una istanza che trascende la realtà immediata e non si determina in figura visibile a rendere inevitabile la decisione nel compito di «secolarizzazione» che
appare connaturato allo Stato e alla Chiesa. Anche qui l’elemento decisivo
contenuto nella concezione dell’infallibilità, che renderebbe vana la ricerca di
47
Römischer Katholizismus, cit., p. 12 (tr. it., p. 36).
Ibid.
49
Ivi, p. 34 (tr. it., p. 54).
50
Ivi, p. 36 (tr. it., p. 55): tale modo unitario dipende dal fatto che l’unità è pensata «in
via rappresentativa e non economica». Qui mediazione non ha il senso della realizzazione di
una istanza trascendente, quale era considerata quella del diritto, ma quello della unificazione degli opposti da parte della forma; tuttavia questa stessa è possibile mediante una razionalità di tipo giuridico che dà luogo a istituzione e organizzazione reale.
51
Cfr. su ciò l’importante indicazione di P. Schiera, Dalla costituzione alla politica: la
decisione in Carl Schmitt, in G. Duso (a cura di), La politica oltre lo Stato, cit., pp. 15-24.
48
191
garanzia, è legato non alla divinizzazione del pontefice, ma al suo riferirsi a
una realtà trascendente. È grazie a questo riferimento che la decisione appare
necessaria ed è da esso che prende anche la sua forza.
Se questo quadro porta a comprendere lo spessore della dimensione della
decisione, ciò è reso possibile ed evidente nel momento in cui viene in luce
l’elemento considerato da Schmitt come fonte della superiorità della Chiesa,
senso della sua dimensione formale, carattere della sua razionalità, cioè il
principio di rappresentazione (Prinzip der Repräsentation).52 È la rappresentazione che permette di mettere a fuoco la struttura teoretica che è stata fino a
qui esaminata e che appare il perno centrale della forma politica. La forza politica della Chiesa consiste nel fatto che la sua stessa essenza è rappresentativa, e, dal momento che la rappresentazione è principio della forma politica, la
Chiesa appare come l’unica depositaria del pensiero politico in una società
sempre più dominata da un pensiero economico e sempre più incapace di rappresentazione: «nel rappresentare sta la sua superiorità su di un’epoca di pensiero economico».53 Il problema non riguarda tanto la funzione politica della
Chiesa cattolica e la sua influenza, ma piuttosto il fatto che in essa si trova un
esempio di forma politica.
Ciò che Schmitt rifiuta, in un momento in cui si afferma il concetto di decisione, è la riduzione del politico al fattuale, alla mera forza o alla pura tecnica. Meccanizzazione e oggettivazione dei rapporti, che pure si trovano connaturati alla moderna teoria politica e all’apparato statuale che si hanno dal XVII
secolo in poi, non giungono a cancellare l’elemento rappresentativo e il rapporto che esso ha con l’idea. «Nessun sistema politico può durare, anche soltanto per una generazione, con la sola tecnica della conservazione del potere:
al politico inerisce l’idea, dato che non c’è politica senza autorità, né c’è autorità senza un ethos della convinzione».54
In tale riferimento all’idea verso l’alto, così come nel radicamento in basso
nella convinzione di coloro che si riconoscono nello spazio politico, consiste
l’essenza della rappresentazione. Questa si esprime con la massima forza nella
Chiesa proprio perché, essendo rappresentata non solo l’idea della giustizia,
ma la persona di Cristo,55 più grande è la sua presa, la sua autorità e il pathos
di convincimento che crea. Inoltre la trascendenza che la rappresentazione
implica appare nel modo più evidente, perché appunto del divino si tratta nella
rappresentazione della Chiesa.
52
53
54
55
Römischer Katholizismus, cit., p. 12 (tr. it., p. 37).
Ivi, p. 34 (tr. it., p. 54).
Ivi, p. 25 (tr. it., p. 45).
Ivi, p. 41 (tr. it., p 59).
192
Che il movimento di trascendenza sia connaturato al politico viene in luce
per Schmitt se si guarda alla forma moderna di rappresentanza più illanguidita
e mondanizzata, quale può essere considerata quella parlamentare. Anche essa
infatti, in tanto è politica in quanto non è determinata da ciò che è empiricamente presente, ma si riferisce alla totalità del popolo, che ha un significato
ideale: «il popolo come “intero” è solo un’idea».56 Se il popolo fosse inteso
come realtà empirica non sarebbe possibile un organo che lo rappresenti, e
non si sarebbe determinato il monstrum prodotto dalla dottrina dello Stato tedesca, secondo cui sono contemporaneamente sovrani sia il popolo, sia il suo
organo, che è il parlamento.57
Non solo nella Chiesa dunque, ma in ogni realtà politica si manifesta questa necessità di andare oltre la datità della materia e di implicare, anche se nella forma più secolarizzata, un elemento ideale e trascendente. Perciò la rappresentazione – e ancora una volta la Chiesa appare esempio evidente – viene
sempre dall’alto (von oben)58 e non si può ridurre ad un semplice «stare per
altro» (Stellvertretung),59 ad un semplice rispecchiamento della realtà presente. Insomma la «Realpresenz der Dinge», non dà luogo a rappresentazione,
perché in questo caso le cose sono semplicemente presenti e non si possono
rappresentare: solo l’idea può essere rappresentata. Nell’ambito dunque
dell’economico e del sociale quale si presenta nella moderna società civile
non c’è spazio per una realtà politica, perché non c’è spazio per la rappresentazione: solo quando interviene un elemento rappresentativo, si è nel politico.
La politicità della rappresentazione, pur legata ad un elemento esistenziale e
decisionale, ha carattere formale, e tale formalità si esprime nella Chiesa, che
non è qualcosa di solamente interiore, ma è realtà esterna, organizzazione, istituzione. Si ricordi come già in Visibilità della Chiesa la visibilità si faccia ufficialità implicando qualcosa di più del carisma personale, e cioè l’ufficio, la cui
dignità va al di là della persona concreta che lo riveste.60 Tale dimensione istituzionale è di tipo giuridico, e comporta perciò come centrale il concetto di forma,
non intesa come un presupposto o un già dato, ma come ciò di cui bisogna intendere il prodursi. È interrogandosi su questo momento genetico che si scopre
56
Ivi, p. 36 (tr. it., p. 56).
Ivi, p. 36 (tr. it., p. 55).
58
Ivi, p. 37 (tr. it., p. 56).
59
Ivi, p. 29 (tr. it. p., 50).
60
Ivi, p. 20 (tr. it., p. 42): il Papa è inteso non come profeta ma Stellvertreter Christi.
Anche se in Cattolicesimo romano si affaccia chiaramente la distinzione tra Repräsentation e
Vertretung, non sempre l’uso dei termini è rigoroso in rapporto a questa distinzione: qui infatti il senso è quello del rappresentante, così come nel caso della Volksvertretung o Vertretung… des ganzen Volkes (cfr. p. 36, tr. it., p. 56), che in quanto rappresentanza politica è
appunto Repräsentation (cfr. nota 32).
57
193
il concreto operare che è proprio della rappresentazione e il senso specifico della sua razionalità: essa infatti consiste in un Formieren, in un’opera di formazione, in cui l’oggettività e la razionalità passano attraverso l’elemento personale, poiché non è pensabile rappresentazione fuori dall’agire della persona e dalla
dignità personale.61 L’elemento personale, assunto nella pienezza del suo significato comporta il necessario corollario della pubblicità, e perciò, contro ogni
fondazione dello spazio privato, è pubblica la dimensione della Chiesa e di tipo
pubblicistico la sua razionalità giuridica.62
Ci si può a questo punto ben rendere conto che in tal modo ci si trova di fronte
a un pensiero della rappresentazione che la connota di tutti quegli elementi che
saranno richiamati nella Dottrina della costituzione come necessari per intendere
il principio della forma politica: superamento del piano empirico, implicazione
dell’idea, trascendenza, dimensione pubblica, produttività del formieren, indeducibilità della rappresentanza «dal basso», carattere «personale».
Se la rappresentazione è la chiave di comprensione della forma politica
non solo in Cattolicesimo romano, ma anche nella Dottrina della costituzione,
ciò significa che la comprensione della moderna politica e delle categorie che
determinano l’assetto razionale è pensabile solo in quanto si coglie il movimento di trascendenza ad esse intrinseco, il rapporto con ciò che eccede la datità delle cose, cioè con l’idea. In quanto l’idea non è riducibile ad oggetto del
logos, non è suo possesso, né sua semplice creazione, ma resta «ospite straniero», allora la struttura della rappresentazione, questa radice della teologia politica, resta aperta, non nel senso della posizione di altro al di là di essa, ché
l’idea è affermabile solo nel suo operare nello spazio della visibilità, ma nella
dimostrata impossibilità propria del rappresentare, che l’idea sia catturabile,
abbia una forma e si dia perciò nella semplice dimensione della presenza. Da
questo punto di vista teologia politica non ha il significato di fondazione della
politica grazie a un principio trascendente, ma, al contrario, appare come radicale e strutturale richiesta di fondamento e si deve affidare al taglio della decisione e al rischio costitutivo a cui questa è esposta.63
L’analogia, propria di tutto il periodo analizzato, tra Chiesa e Stato può per
altro comportare alcuni problemi in relazione a questo punto di vista, in quanto
nell’ambito della rivelazione sembra darsi non solo la presenza nella forma della mancanza dell’idea e del principio, ma anche la dimensione della partecipazione e la pretesa di verità. Come si è visto, la Chiesa deve avere un corpo come
il Cristo ha avuto un corpo: e ciò sembra pur essere fondazione istituzionale,
61
Per il carattere personale richiesto dalla rappresentazione, cfr. ivi, p. 29 (tr. it., p. 50).
Ivi, p. 40 (tr. it., p. 58).
63
Sull’apertura della decisione, a causa della implicazione della trascendenza, si veda R.
Racinaro, Esistenza e decisione, cit., p. 163.
62
194
anche se si può ancora ricordare che tale verità è appesa all’esile filo della fede,
così come l’infallibilità del Papa è legata all’atto non garantito della decisione.
Nel periodo giovanile anche lo Stato sembra condividere questa pienezza e
svolgere un compito universale, poiché riposa su una struttura del logos costitutiva dell’umano, quale è quella della visibilità dell’invisibile o del rapporto ideamondo. In quanto questo rapporto sembra necessario, essendo l’implicazione
dell’idea propria del piano della realtà, che non è quello della mera fattualità,
egualmente sembra necessaria non solo una istanza che si ponga sul piano della
forza per realizzare il diritto, ma lo stesso Stato concepito nella forma sua propria di Stato moderno. Questo può sembrare perciò rivestito di una universalità
a-temporale che non fa totalmente i conti con la sua realtà determinata e con le
condizioni teoriche della sua produzione come forma razionale.
Si ha tuttavia la comprensione dello scarto costituito dal moderno nel momento in cui l’istanza radicale propria della politica è vista bensì permanere,
ma mediante una sostituzione della trascendenza del divino con fattori terreni
ed immanenti.64 Tale consapevolezza si accentuerà nella riflessione più matura ove lo Stato prende i suoi caratteri epocali e il suo senso più determinato,
ed appare non come identico al politico, ma come una sua manifestazione che
si mostra nello stesso tempo anche come sua neutralizzazione.65 La teologia
politica dei concetti moderni appare allora consistere insieme in un duplice
movimento, di trascendenza, ma anche di negazione di questa, mediante un
tentativo di immanenza. La costruzione della forma politica appare allora sospesa su un vuoto,66 sull’azzeramento di un ordine dell’essere e di ogni realtà
presupposta: solo una grande, immane disperazione ha potuto dare luogo a
questa forma.67
64
Cfr. nota 11.
Sull’ulteriorità del politico nei confronti dello Stato e d’altra parte sulla riluttanza di
Schmitt ad intendere lo Stato come forma contingente e transeunte, cfr. la Presentazione di
C. Miglio a Le categorie del politico, cit., p. 9 (in questa direzione appare illuminante anche
dello stesso C. Miglio, Oltre lo Stato, in C. Duso (a cura), La politica oltre lo Stato, cit., pp.
41-47). Su questo tema si veda il lucido saggio di L. Ornaghi, Lo Stato e il politico nell’età
moderna, «Quaderni Fiorentini», 1986, n. 15, pp. 721-741.
66
Da questo punto di vista seguo l’insistenza di C. Galli sul vuoto a cui è sospesa la moderna rappresentazione (a differenza di quella propria della Chiesa), e sulla «creazione»
dell’ordine da parte dello Stato (Presentazione a Cattolicesimo romano, cit., p. 18 e anche
Mediazione e decisione, cit., nonché Genealogia della politica, cit., sp. il cap. VI), anche se
naturalmente ciò non comporta l’identificazione della comprensione schmittiana (e del suo
statuto teoretico) con il nichilismo implicato dalla rappresentanza moderna. E’ proprio la
struttura teoretica che compare nel pensiero schmittiano a superare filosoficamente – nel senso della Aufhebung hegeliana – quel nichilismo.
67
Cfr. Ex Captivitate salus: Erfahrungen der Zeit 1945-47, Greven Verlag, Koeln, 1950,
tr. it. C. Mainoldi (rev. F. Volpi), con un saggio di F. Mercadante, Adelphi, Milano, 1987, p. 68.
65
195
6. Filosofia e crisi della scienza politica:
Eric Voegelin
La riflessione teorica ed epistemologica contemporanea sembra spesso avere
le sue radici, le sue motivazioni di fondo e le sue istanze problematiche in quel
nodo epocale che si è venuto a presentare nel primo Novecento, e in particolare
nella riflessione avvenuta, soprattutto nella cultura tedesca, negli anni Venti e
nei primi anni Trenta. Affermare ciò appare plausibile anche per quanto riguarda quell’ampio fenomeno culturale che si è presentato a partire dagli anni Sessanta, ancora una volta soprattutto in Germania, e che è determinato da un forte
interesse per la sfera della pratica e per una riflessione filosofica su di essa. Tale
fenomeno, che viene spesso indicato come Rehabilitierung der praktischen Philosophie,1 è assai complesso e difficilmente riconducibile ad unità. Esso nasce
inoltre in un contesto teorico e in uno scenario storico che si vengono determinando nel secondo dopoguerra ed è caratterizzato dallo sviluppo delle scienze
sociologiche da una parte e dalla constatazione di una crisi dei valori etici e politici dall’altra. Tuttavia, se suoi tratti essenziali sono il coglimento della crisi
della scienza politica, la critica ad una analisi «scientistica» compiuta in chiave
oggettivistica e neutrale del fenomeno politico – e con ciò l’opposizione ad un
quadro epistemologico che appare inaugurato dal pensiero weberiano – e il ritorno ad uno stile di pensiero filosofico sui problemi etici e politici, in stretta
consonanza con il pensiero classico dei Greci, ancora una volta le linee fondamentali di tali problematiche appaiono determinarsi immediatamente a seguito
del pensiero weberiano, ed in alcuni casi con una efficacia e radicalità che sembra spesso poi andare perduta.
A ridosso infatti dell’atto con cui Weber si presenta da una parte come un
momento di compimento della razionalità moderna e dall’altra come fondatore di una nuova era di produttività scientifica, legata alla specializzazione e
alla rinuncia nei confronti della pretesa della scienza di orientare l’agire umano mediante un quadro di valutazioni e valori universalmente fondati, si assi1
Emblematici i due volumi Rehabilitierung der praktischen Philosophie a cura di M.
Riedel, 2 Bd., Rombach, Freiburg, 1972-1974.
196
ste alla rimessa a tema da più parti dello spazio della filosofia e alla riproposizione con ciò di un pensiero radicale sull’ambito dell’agire umano. Questo
non solo nei settori più propriamente filosofici, attraverso posizioni diverse,
quali quella di Max Scheler o quella di Heidegger, ma anche in quelli giuridico-politici: emblematica è la riproposizione di un «pensare radicale» da parte di
Carl Schmitt e il suo tentativo di cogliere l’origine stessa del problema del politico, al di là della moderna forma dello Stato; ma significativo è anche lo stesso
dibattito sull’essenza della rappresentazione a cui lo stesso Schmitt dà un grosso
contributo e che coinvolge, alla fine degli anni Venti, diversi pensatori.
In riferimento al movimento di interesse per la filosofia pratica, sembrano
in questo contesto importanti alcuni pensatori che spesso sono considerati
«precursori» di una rivalutazione della filosofia pratica, quali Leo Strauss, Eric Voegelin e, per alcuni versi, la stessa Hannah Arendt.2 A questi, ma in
modo particolare a colui che mi sembra il più emblematico tra di essi, cioè ad
Eric Voegelin, è opportuno ritornare per rimettere a tema il significato, la
forma, il senso epocale e il rigore concettuale di quello che si è fenomenologicamente presentato come il ritorno della filosofia all’interno della riflessione
sulla sfera pratica e in particolare sul problema politico. Si potrà forse riscontrare che quanto emerge di incompiuto o insoddisfacente o ancora inadeguato
nei confronti di più produttivi e fondativi intenti propri di alcune posizioni a
cui si deve la ripresa a noi più vicina della filosofia pratica, si mostra forse
consono e fedele alla riflessione filosofica e dunque al nesso essenziale che tra
filosofia e pratica si viene ad instaurare.
In questa direzione vuole andare la traccia di riflessione qui presentata, che
è ben lontana dall’intento della ricostruzione – sia pur schematica – dei diversi
filoni e delle principali posizioni che intendono riferirsi alla filosofia pratica,3
ed è legata alla consapevolezza della diversità dell’interpretazione di Voegelin
qui proposta, rispetto ad altre che tendono ad identificare nel suo pensiero una
2
Sulla necessità di far luce su questo importante tratto della cultura filosofica contemporanea ha insistito N. Matteucci, nella introduzione a E. Voegelin, Ordine e storia. La filosofia politica di Platone, Il Mulino, Bologna, 1986. Naturalmente la produzione di questi autori
copre decenni a noi ben più vicini, ma per lo sviluppo del loro pensiero mi sembra fondamentale il rapporto con la problematica degli anni Venti e Trenta, quale può risultare in modo particolare dalla recensione di E. Voegelin della Verfassungslehre di Schmitt, e dalla riflessione straussiana sul concetto di politico; cfr. su ciò G. Duso (a cura), Filosofia politica e
pratica del pensiero, Eric Voegelin, Leo Strauss e Hannah Arendt, Angeli, Milano, 1988.
3
Da questo punto di vista appare assai utile l’ampia rassegna di F. Volpi, La rinascita
della filosofia pratica in Germania, in Filosofia pratica e scienza politica, a cura di C. Pacchiani, Francisci, Padova, 1980, pp. 11-98; dello stesso è anche il tentativo di restringere il
campo a ciò che più propriamente sarebbe da intendere per «filosofia pratica» in relazione al
senso che ha in Aristotele (Che cosa significa neoaristotelismo? La riabilitazione della filosofia pratica e il suo senso nella modernità, «Il Mulino», 35 (1986), n. 308, pp. 328-349).
197
impronta fondamentalmente «liberale» e a rintracciarvi un intento di tipo
«fondativo» o semplicemente restaurativo.
1. La filosofia pratica come spazio «disciplinare»
Il rilancio, a cui si assiste all’inizio degli anni Sessanta, della parola
d’ordine della «filosofia pratica», che, dopo una lunga tradizione, sembrava
essere andata in disuso non solo nelle scuole e nelle accademie, ma anche, più
in generale, nel dibattito culturale, è strettamente congiunto ad una dimensione critica nei confronti della scienza sociologica e della scienza politica, che
tendevano a coprire totalmente una riflessione sul politico caratterizzata dal
rigore e da un processo scientifico. Ma non di pura contrapposizione si tratta,
bensì anche della constatazione di un punto morto a cui tali settori scientifici
erano giunti, o ancor meglio del fatto che i problemi di fondo e gli interrogativi che motivavano la stessa ricerca sembravano ormai usciti dalla considerazione.4 Alla base del modo di intendere la scienza sociale e politica del Novecento viene a ragione identificata quella profonda riflessione epistemologica,
la quale può essere considerata emblematica anche per una svolta nel modo di
intendere la razionalità, che si ha con il pensiero di Max Weber.5 Nella linea
di sviluppo che in qualche modo si richiama al pensiero weberiano sembra infatti consolidarsi lo stile di una scienza che, in tanto può analizzare i suoi oggetti, in quanto rinuncia, da una parte all’intervento del giudizio di valore e
dall’altra a una problematizzazione dello stesso oggetto posto a tema, che
romperebbe la delimitazione di uno spazio determinato e di un metodo preciso
indispensabili al processo scientifico.
I riferimenti non possono tuttavia non toccare anche quell’importante epoca del dibattito sul tema dello Stato che si ha negli anni Venti. I nomi di Carl
Schmitt, Hermann Heller, Rudolf Smend, Gerhard Leibholz segnano infatti un
dibattito, che illumina il tema del politico e dello Stato in un momento particolarmente cruciale, da cui non possono prescindere le successive articolazioni teoriche. In tale riflessione, quanto più si cerca di intendere il carattere
specifico del politico e l’essenza della costituzione (Verfassung) e quanto più
si coglie la centralità del nesso unità politica-rappresentanza per l’essenza dello Stato, tanto più può sembrare che tutto ciò sia lontano dalla concreta realtà
4
Cfr. W. Hennis, Politik und praktische Philosophie, Lucheterhand, Neuwied-Berlin,
1963; ora nell’edizione, comprendente anche altri saggi, Klett-Cotta, Stuttgart, 1981, sp. p. 17.
5
Sulla radice weberiana dello sviluppo delle scienze sociali e politiche contemporanee
si veda già O. Brunner, Bemerkungen zu den Begriffen «Herrschaft» und «Legitimität», tr.
it., cit. p. 110.
198
che si presenta e sembrano impallidire e svanire le tradizionali forme di legittimazione del fenomeno dell’obbligazione politica.6
Se è vero che, nel giro di pensieri e di idee che si ha nel primo Novecento,
si assiste ad una svolta fondamentale, è anche vero che, ad uno sguardo più
ampio, tale svolta appare ancora legata al precipitato di un cammino teorico
che parte da lontano, dall’inizio dell’epoca moderna, e che solo ora viene ad
essere totalmente illuminato e riconosciuto. Alla radice del concetto di scienza
e di scienza dello Stato appare infatti, come già Leo Strauss aveva notato,
l’ombra di Hobbes e l’inaugurazione di un pensiero sul diritto pubblico fondato sulla ragione.7 È infatti con Hobbes che si ha l’esplicito tentativo, mediante
la rottura con la tradizione del pensiero morale e politico, di fondazione di un
sapere del politico fornito di un rigore di tipo matematico e geometrico. La
teoria, indipendentemente dalla realtà concreta e fenomenologicamente coglibile e da princìpi di ordine e di bene, che appaiono confliggenti tra di loro
proprio perché non fondati mediante un pensiero esatto, vuole ora costruire
una forma politica che deve essere accolta per la sua razionalità e deve rendere possibile l’accordo di tutti, in quanto ha alla sua base la ragione e la volontà
degli individui.
La scienza politica, che qui ha inizio, si presenta dunque come una costruzione autosufficiente, che pretende, al di là di ogni presupposto sia teorico che
empirico, di determinare una vita possibile tra gli individui, rinunciando al riferimento ad un ordine o a princìpi che eccedano, o addirittura contraddicano,
il carattere formale necessario alla coesistenza pacifica. In questo suo compito
la scienza appare neutrale nei confronti delle scelte di fondo riguardanti
l’essenza dell’uomo e il suo fine e in questa dimensione assume un duplice
compito: quello di legittimare il rapporto comando-obbedienza e quello di
proporre una forma in cui è possibile e garantita la vita civile.
Ma in questo contesto il termine «politico» perde la sua connotazione classica legata alla vita della polis e alla vita dell’uomo in essa, e la teoria politica
appare fagocitata da un unico problema: quello del potere. Questo domina con
evidenza il pensiero di Weber,8 sia in quanto si determina come politico lo
spazio della lotta per il potere, sia in quanto la forma dello Stato è caratterizzata dalla Herrschaft e dalla sua legittimazione. Ma si può dire che da Hobbes
in poi la scienza politica sia essenzialmente descrizione della costituzione di
un’unica forza a cui tutti sono sottoposti e insieme tentativo di legittimazione
di questa forza irresistibile – potere politico –, proprio perché, per l’intenzionale
6
Cfr. il cap. IV del presente lavoro.
Cfr. ancora W. Hennis, Politik und praktische Philosophie, cit., p. 7.
8
Cfr. J. Ritter, Metaphysik und Politik. Studien zu Aristoteles und Hegel, Suhrkamp.
Frankfurt a. M., 1969, tr. it. Metafisica e politica, Marietti, Casale Monferrato, 1983, p. 118.
7
199
sradicamento che costituisce il pensiero moderno, si può pensare ad una forza
a cui tutti sono sottoposti solo in quanto questa è legittima e dunque fondata
sulla ragione e sulla volontà che tutti devono necessariamente avere. I problemi dell’uomo e dei suoi fini fuoriescono da tale quadro, che appare nei
confronti di essi neutrale e neutralizzante. Lo stesso Schmitt e la posizione
«decisionistica» appare, nella contemporanea ripresa della filosofia pratica,
come ultimo atto di questo grande scenario e la decisione senza presupposti
appare come un prodotto di questa neutralizzazione nei confronti dei problemi
etici e politici e frutto del moderno relativismo.9
Nel momento in cui si vuole riaprire questo quadro, riproponendo come
problema lo spazio dell’agire dell’uomo e della comunità politica, è allora innanzitutto la riduttività della moderna teoria nei confronti della complessità
del reale e della vita associativa che si cerca di criticare, e con ciò
l’aspirazione all’esattezza e alla compiuta fondazione che stanno alla base di
quella riduttività. Conseguentemente, si vuole uscire dalle secche di un sapere
neutrale, avalutativo, che nulla dice sulla direzione da prendere e sui valori
che devono essere affermati; si vuole tentare di impostare un sapere che abbia
rigore, ma che non si riduca al sapere descrittivo e neutrale del suo oggetto
che si è ritenuto tipico della scienza moderna; ci si vuole interrogare sui problemi che stanno al fondo dell’agire dell’uomo e trovare vie di orientamento.10 Ma ciò significa mettere in questione il fatto che il problema politico
coincida con il problema del potere, e dunque mettere in questione quella
forma-Stato che appare prodotto della moderna scienza politica.
È dunque necessario riproporre un pensiero del politico diverso da quello
moderno, che non soffra di quella sua riduttività e che non sia fagocitato dal
problema del potere e della sua legittimazione. Per fare questo è privilegiata la
via che riporta ad un modo di intendere il politico, determinatosi mediante la
filosofia platonica e aristotelica, che riguarda la concreta vita della polis, spazio in cui l’uomo si realizza come tale.11 Meglio è qui parlare della posizione
aristotelica, in quanto è ad essa che si rifanno quelle interpretazioni che maggiormente intendono codificare un senso specifico di «filosofia pratica», e in9
Sul «decisionismo» (Lübbe, Schmitt) come ripresa di un atteggiamento proprio dei Sofisti, cfr. R. Bubner, Handlung. Sprache und Vernunft. Grundbegriffe praktischer Philosophie, Suhrkamp, Frankfurt a. M., 1976, tr. it., Azione, linguaggio e ragione. I concetti fondamentali della filosofia pratica, Il Mulino, Bologna. 1985, p. 105 ss. Quanto questa
interpretazione di Schmitt sia fuorviante in relazione ai temi trattati si può comprendere dai
capitoli precedenti dedicati al pensiero schmittiano.
10
Significativa, nel tentativo di giustificare insieme rigore del sapere e orientatività pratica, la proposta di O. Höffe, Praktische Philosophie. Das Modell des Aristoteles, Verlag A.
Pustet, München und Salzburg, 1971.
11
Cfr. J. Ritter, Metafisica e politica, cit., p. 118.
200
tendono proporre un sapere il cui rigore si distingue nettamente non solo dalla
esattezza della scienza moderna, ma anche, più in generale, dalla stessa filosofia teoretica. È in Aristotele e nella dimensione dei Topici che si ritrova soprattutto il modello per un tale sapere.12 Solo su questi elementi e sulle posizioni che maggiormente li esprimono è utile qui soffermarsi per saggiare il
rigore e la radicalità di questa proposta e per riscontrarvi eventuali problemi
ed aporie.
Se si tiene presente che la critica alla scienza politica è insieme critica a
quella forma-Stato che è al suo centro, forma che appare ridotta weberianamente a una gabbia d’acciaio, in cui non si esplica più la libera attività politica propriamente umana, allora è significativo riscontrare quale sia la consapevolezza
storico-concettuale con cui tale problema viene affrontato e come si configuri in
rapporto a tale forma il punto di vista alternativo che viene proposto.
È spesso ben chiara la consapevolezza dello scarto che esiste tra il pensiero
dei Greci e i concetti moderni, per cui non si può ad esempio affrontare il problema della polis usando categorie moderne, quali quelle di Stato e di società
civile.13 Costituisce tuttavia un indizio interessante il fatto che, a proposito
della riproposizione della validità del pensiero politico aristotelico, ci si ponga
il problema della legittimità del potere. A sollevare la questione è Manfred
Riedel, il quale, pur all’interno di una dimensione di ricerca particolarmente
attenta allo Strukturwandel dei concetti e al diverso mondo concettuale che si
ha nelle diverse epoche, indica come una delle aporie del pensiero aristotelico,
in rapporto alla sua immediata riproposizione nel contesto moderno, il suo insufficiente sforzo di fondazione del potere costrittivo all’interno della polis:
insomma la legittimazione del potere rimarrebbe in lui un problema non sufficientemente affrontato.14 Gli sforzi per difendere la ripresa della filosofia aristotelica da questa aporia non tengono presente il fatto che il problema della
Herrschaft, come monopolio della forza, e della legittimità, che ad essa nel
Moderno necessariamente si accompagna, è problema tipico della teoria moderna e non sembra potersi applicare alla realtà della polis né alla filosofia
pratica aristotelica.15 La riproposizione del pensiero aristotelico, ai fini di ri12
Si veda innanzitutto la proposta di W. Hennis, Politik und praktischen Philosophie,
cit., sp. «Topik und Politik», pp. 88 ss. Su ciò è da tener presente la polemica sollevata da H.
Kuhn, Aristoteles und die Methode der politischen Wissenschaft, ora in Rehabilitierung, cit.,
II, pp. 261-290.
13
Cfr. ad es. J. Ritter, Metafisica e politica, cit., pp. 102-103, n. 23.
14
Cfr. M. Riedel, Metaphysik und Metapolitik, Suhrkamp, 1975, Frankfurt a. M., p. 102
(tr. it. di F. Longato, Il Mulino, Bologna, 1990).
15
Cfr. ad es. G. Bien, Die Grundlegung der politischen Philosophie bei Aristoteles, Karl
Albert, Freiburg-München, 1973, tr. it. La filosofia politica di Aristotele, Il Mulino, Bologna,
1985, p. 358, n. 4. Sull’accezione moderna del concetto di Herrschaft rimando, oltre al fon-
201
spondere ai problemi contemporanei e di rettificare le deformazioni che si verificano all’interno della forma dello Stato, comporta una interpretazione di
Aristotele che non si mostra a volte avvertita dei momenti di cesura e modificazione radicale che investono i concetti politici. È emblematico che a questo
proposito anche nel dibattito italiano non solo si parli spesso di «Stato» a proposito della polis, con un evidente slittamento teorico dei significati, ma si
ravvisi anche in Aristotele un difensore dei «valori etici e giuridici», mediante
un punto di vista che non tiene conto, non solo del senso specifico proprio
dell’elemento giuridico nell’epoca moderna, ma ancor più dello stretto rapporto che il riferimento ai «valori» ha con quella riflessione sulla crisi e la rifondazione dei valori che caratterizza il primo Novecento.16
La critica alla moderna forma politica basata sulla rappresentanza è espressa con lucidità da Hannah Arendt, che comprende come la sfera della libertà
privata inaugurata dal moderno sia pagata con la depoliticizzazione dell’agire
umano. Il riferimento ad Aristotele viene, nel contesto del suo pensiero, a costituire una apertura nei confronti della moderna teoria politica e un tentativo
di riattingere una più originaria dimensione politica propria dell’agire umano.
Sulla sua traccia si coglie giustamente come essenza della forma moderna il
problema della formazione della volontà, e con ciò il problema della unità politica, che costitutivamente comporta negazione del pluralismo e depoliticizzazione della vita dei cittadini.17 È in Aristotele che si ravvisa l’ideale di una
vita libera dei cittadini e politicamente piena, una vita cioè che si esplica
nell’attività politica. Tuttavia tale esigenza espressa da Aristotele è interpretata ancora mediante un’ottica concettuale di tipo moderno. Infatti non solo il
pensiero di Aristotele viene visto come salvaguardia del singolo e cioè della
pienezza di vita del soggetto individuale – mentre il concetto di individuo e
dell’eguaglianza tra gli individui è il tipico punto di partenza della moderna
damentale O. Brunner, Bemerkungen, cit., al cap. III di questo volume. Per quanto riguarda
la critica all’uso del concetto di potere per tradurre e intendere l’arché, quale si dà nella Politica aristotelica e, in generale, per la distinzione tra un pensiero che implica il principio del
governo e il concetto – solo moderno – di potere, rimando a Fine del governo e nascita del
potere, in La logica del potere, cit., cap. III.
16
Per quanto riguarda le aporie dei tentativi di rifondazione dei «valori» e la stessa accezione modema connaturata al termine, ricordo il lucido saggio di C. Schmitt, Die Tyrannei
der Werte in Säkularisation und Utopie. Ebracher Studien, Ernst forsthoff zum 65 Geburstag., Kohlhammer, Stuttgart-Berlin, 1967, tr. it. Tirannia dei valori. «Rassegna di diritto
pubblico. 1970. nuova serie, n. 1. pp. 1-28, ora a cura di G. Accame, Pellicani, Roma. 1987:
cfr. su ciò il mio Tirannia dei valori e forma politica in Carl Schmitt, «Il Centauro», 1982, n.
2, pp. 157-165. La posizione di Schmitt risale al 1959: si veda per altro la critica al concetto
di valore da parte di Voegelin nella Introduzione a La nuova scienza politica, cit. (cfr. su ciò
l’Introduzione a Filosofia pratica e pratica del pensiero cit.).
17
Cfl. K. Held, Interessi e mondi vitali, Morcelliana, Brescia, 1981. p. 65.
202
costruzione della forma politica mediante l’artificio logico dello «stato di natura» –, di fronte all’elemento universale del koinòn, che avrebbe invece un
ruolo dominante in Platone,18 ma la stessa esigenza ravvisata in Aristotele della partecipazione dell’uomo libero alla cosa pubblica e alla decisione politica
viene vista affermarsi completamente proprio nell’epoca moderna, mediante i
movimenti di massa, l’emancipazione dal concetto di schiavitù e dunque
l’uguaglianza di tutti gli uomini. In Klaus Held è manifesta la consapevolezza
che tale conquista è però nel moderno segnata da una ambiguità radicale, costituita dal primato della volontà, e dunque dal problema della sovranità: e qui
il filo che lega l’«assolutista» Hobbes alla rivoluzione «democratica» (la sovranità al popolo) di Rousseau è ben più saldo di quanto solitamente non si
creda.19 Perciò il problema si ripresenta nella veste della salvaguardia di quella differenza delle opinioni tra i soggetti che viene annullata dall’affermazione
politica dell’unica volontà. Tuttavia lo spazio di movimento e di estrinsecazione della libera opinione dei soggetti – tale da essere politicamente efficace
– è considerato salvaguardato solo dall’organizzazione di un potere statale,20 e
dunque implica proprio quel monopolio legittimo della forza che caratterizza
il potere in senso moderno e di cui non si dà ragione mediante l’elemento della libera discussione.
Questa impressione è rafforzata dal fatto che, sebbene nel dibattito recente
intorno alla filosofia pratica emergano interpretazioni che distinguono nettamente l’area concettuale aristotelica da quella kantiana,21 tuttavia significativamente alcune delle posizioni che ripropongono la validità del pensiero politico aristotelico considerano quest’ultimo in contiguità con quello kantiano, in
modo tale che l’ideale della vita libera del cittadino nella polis è visto ripreso
nell’idea «repubblicana» di Kant, i cui elementi costitutivi appaiono contraddire la sovranità dello Stato.22 Ciò che in tal modo si rischia di perdere di vista
18
Cfr. su ciò J. Rittel, Metafisica e politica, cit., p. 85, la cui lettura di Aristotele è significativamente parallela a quella di Hegel, e soprattutto K. Held, Interessi e mondi vitali, cit.
p. 50.
19
Sulla conquista moderna dell’estensione a tutti dell’esigenza della partecipazione alle
decisioni politiche, cfr. K. Held, Interessi e mondi vitali, cit., p. 58.
20
Ivi, p. 178.
21
Cfr. ad es. M. Riedel, Metaphysik und Metapolitik, cit., pp. 61-62, ma è da ricordare
che proprio Riedel critica una riproposizione della filosofia pratica in senso aristotelico. Sulla contrapposizione di Aristotele e Kant si veda anche J. Ritter. Zur Grundlegung der praktischen Philosophie bei Aristoteles in Rehabilitierung, cit., II, p. 480, che vede concludersi con
Kant la tradizione della filosofia pratica aristotelica; più complesso invece il suo giudizio su
Hegel a questo proposito (cfr. ad es. Metafisica e politica, cit., pp. 186-187).
22
Cfr. su ciò K. Held, Interessi e mondi vitali, cit., p. 154 e 178; è ben vero tuttavia che
Held rileva l’ambiguità del concetto di «libertà esterna», che precluderebbe a Kant l’accesso
al fenomeno di una prassi libera e pubblica (p. 224). Per il rapporto tra Kant e Aristotele si
203
è che l’ideale repubblicano di Kant ha al suo centro il principio rappresentativo in chiave moderna, secondo cui, se la sovranità risiede nel popolo, è tuttavia nel rappresentante che si trova la possibilità di esprimere la volontà pubblica e, dal momento che la rappresentatività aumenta quanto più diminuisce
il numero delle persone che esercitano il potere, anche l’ideale repubblicano
sembra non escludere la depoliticizzazione implicita nella moderna formaStato.23
Ancor più in generale, ciò che un tale movimento di pensiero rischia di
perdere, nel momento in cui la rivalutazione delle opinioni viene immessa
come correttivo della forma-Stato, è la consapevolezza che ad essa, proprio
mediante l’atto teorico inaugurale del contratto sociale, è costitutiva, insieme
all’indicazione dei singoli come fondamento, egualmente la rappresentanza
come espressione di un’unica volontà politica in quanto volontà comune, e
dunque la espropriazione dei singoli di volontà e agire pubblico.24 Il concetto
di individuo e di libertà universale (non cioè delle diverse libertates legate ai
ceti) emerge nel moderno nello stesso atto teorico che fonda la subordinazione
e l’espropriazione politica dei soggetti.25 Non è allora facilmente pensabile
senza aporia una integrazione, più o meno esplicita, dell’ideale della polis con
la forma dello Stato moderno. Inoltre la difesa della libera opinione e della discussione tra i liberi cittadini rischia, qualora proposta all’interno della formaStato, di reintrodurre quell’obbligazione politica che difficilmente può essere
legittimata in modo diverso da quello prodotto dalla stessa teoria moderna che
viene posta sotto accusa.
Al di là del rapporto di Aristotele e Kant, l’aspetto interpretativo che appare ancor più rilevante, per quanto riguarda il senso assunto dall’elemento filosofico, è la frattura e l’opposizione che caratterizza, nella ripresa della filosofia pratica, la posizione aristotelica in rapporto a quella platonica. Anche qui
molteplici e diverse sono le posizioni, ma è significativo il fatto che, quanto
più si vuole fare della filosofia pratica un ambito disciplinare con un preciso
tenga presentc O. Höffe, Praktische Philosophie, cit. e in parte E. Vollrath, Die Rekonstruktion der politischen Urteilskraft, Klett, Stuttgart, 1977.
23
Sulle differenze a questo proposito tra Kant e Aristotele cfr. G. Bien, La filosofia politica di Aristotele, cit., cap. 31, pp. 335-337. Che il pensiero di Kant non si riduca tuttavia al
nesso moderno di sovranità-rappresentanza, ma consista anche in una sua filosofica problematizzazione, è indicato nel § 12 del II cap. del presente lavoro.
24
Cfr. Duso, Patto sociale e forma politica, in Il contratto sociale nella filosofia politica
moderna, cit., pp. 25 ss.
25
Sempre da ricordare è R. Schnur, Individualismus und Absolutismus, Duncker &
Humblot, Berlin, 1963, tr. it. Individualismo e assolutismo, Giuffrè Milano, 1979; su questa
tematica cfr. E. Castrucci, Ordine convenzionale e pensiero decisionista, Giuffrè, Milano,
1981.
204
metodo, tanto più il pensiero pratico di Aristotele è interpretato nella chiave
dell’opposizione a quello platonico, perché è proprio in questa contrapposizione che si assisterebbe alla fondazione della filosofia pratica. Non è mio
compito affrontare il tema dell’interpretazione di Aristotele, quanto piuttosto
quello di evidenziare alcune conseguenze aporetiche proprie di questa lettura
contrapposta dei due filosofi greci.
Ciò che viene messo in rilievo della filosofia aristotelica è innanzitutto la
distinzione della teoria dalla prassi e la peculiarità e la struttura specifica del
sapere concernente la prassi che, a causa del suo oggetto sottoposto al mutamento e alla scelta, non può avere il rigore proprio della teoria, la quale è diretta a ciò che è immutabile. È il metodo topico-dialettico a costituire un modello di processo razionale adeguato all’oggetto della filosofia politica, di
contro all’equivoco di un sapere esatto che appare inadeguato – e dunque non
rigoroso – nei confronti del suo oggetto. Il metodo topico costituisce così una
struttura scientifica e nello stesso tempo non irrigidisce la sfera della pratica,
in quanto in esso le conclusioni sono legate a premesse non necessarie ma solo probabili.26 Attraverso questa via si intende uscire dalla crisi della moderna
scienza politica offrendo un metodo adeguato a quella filosofia pratica che si
presenta in modo «disciplinare», avendo della disciplina sia il metodo che
l’oggetto. Tale carattere disciplinare appare evidente nel lavoro interpretativo
di Gunther Bien, teso ad illuminare lo specifico della filosofia politica aristotelica e insieme a mostrare come in essa stia il fondamento della filosofia pratico-politica in generale.27 La diversità della filosofia pratica nei confronti di
quella teoretica non riguarda solo l’oggetto, che per la conoscenza pratica è
costituito dai practà, ma il fatto che quest’ultima non è solo conoscenza «teoretica» di tali oggetti, essendo diretta essa stessa alla prassi: vuole la prassi.28
Ma appunto, se nel metodo topico e nel sapere legato al probabile sta la
forma tipica della filosofia politica, è conseguenza necessaria mostrare che un
rapporto filosofico con la pratica non si ha nella posizione socratica e nella
filosofia platonica, che viene letta secondo la nota tesi dell’«intellettualismo
etico». Le già accennate critiche alla politica platonica, in quanto in essa le
ragioni del singolo e la diversità delle opinioni sarebbero annullate, così come
un reale spazio per la sua partecipazione politica, ravvisano alla base una ragione epistemologica, cioè la mancata distinzione tra la teoria e la prassi e la
26
27
28
Cfr. W. Hennis, Politik und praktische Philosophie, cit., p. 95.
Cfr. G. Bien, La filosofia politica di Aristotele, cit., p. 124.
Ivi, p. 11.
205
pretesa di intervenire sul campo pratico-politico mediante un sapere teorico ed
epistemico.29
È significativo che la contrapposizione di Aristotele a Platone comporti
non solo la perdita di un elemento di riflessione radicale nel sapere pratico, e
dunque una interpretazione che difficilmente evita torsioni relativistiche da
una parte oppure istanze dogmatiche dall’altra, ma anche implichi una lettura
della epistéme platonica nel senso del sapere come possesso della verità. Al di
là della difficoltà che una tale lettura può riscontrare imbattendosi nella problematicità tipica dei dialoghi platonici, non solo per l’inconclusività dei dialoghi «socratici», ma anche per l’aporeticità dei dialoghi «dialettici», ciò che
importa qui sottolineare è innanzitutto il fatto che l’epistéme del filosofo, cui
spetta il governo della città, è ridotta a un sapere puramente tecnico, perdendo
la distinzione appunto tra filosofia e techne. Inoltre l’epistéme platonica viene
letta in stretto rapporto con l’ideale conoscitivo della scienza moderna, al punto che la filosofia politica di Platone è considerata come anticipazione della
scienza politica moderna quale risulta in Hobbes, e come fondamento più o
meno sotterraneo di ogni tensione totalitaria ed escludente la pluralità dei
soggetti che si manifesta nel mondo moderno.30
Ancora si vede come il riferimento alla filosofia greca sia mediato dal
mondo concettuale moderno in modo tale che si interpretano termini in essa
contenuti mediante significati che essi vengono ad avere nel contesto moderno; e ciò vale non solo per la problematica legata al dualismo-unità di individuo e Stato, singolo e istanza generale, ma anche per il concetto di sapere teoretico, che rischia di essere inteso secondo modalità tipiche della scienza
moderna, perdendo il senso e il ruolo che esso ha come sapere filosofico.
Un discorso a parte meriterebbe il modo peculiare in cui si riferisce
all’etica aristotelica Hans Georg Gadamer, ravvisandovi un «modello» dei
problemi che si pongono nel compito «ermeneutico».31 Egli infatti si preoccupa di far emergere nella phronesis l’elemento filosofico, proprio in quanto il
«vedere» implicato nella deliberazione morale non è un puro vedere, né è riducibile al sapere tecnico, ma è nous. È significativo che, nel contesto della
sua interpretazione, se viene sottolineato l’avanzamento costituito dalla dottrina etica di Aristotele, mediante la sua riflessione sulla sfera pratica e la distinzione tra filosofia pratica e teoretica, tuttavia si riconosca la connessione
tra questi due aspetti e, proprio nella non insegnabilità della virtù, si trovi una
29
Ivi, pp. 19 ss., 159 ss., 351 ss., e lo stesso K. Held, Interessi e mondi vitali, cit., pas-
sim.
30
Cfr. K. Held, Interessi e mondi vitali, cit., pp. 48 ss., 168 ss., 180, e soprattutto dello
stesso, Per la riabilitazione della doxa, cit.
31
H.G. Gadamer, Verità e metodo, cit., p. 376.
206
comunanza di problema tra Aristotele e quel Platone che può anche chiamare
phronesis la vera dialettica, in quanto a proposito del problema del bene non
si ha a disposizione un sapere e non si può far altro che interrogare se stessi.32
È tout-court l’elemento filosofico che unisce allora la filosofia pratica aristotelica con la dialettica platonica.
2. Voegelin e Schmitt: una radicalizzazione critica
Se negli anni a noi più vicini il ritorno della riflessione filosofica sul politico viene spesso contrapposto sia al sapere neutrale, che appare determinato
dalla avalutatività weberiana della scienza, sia al cosiddetto «decisionismo»,
in tal modo si corre un duplice rischio: da una parte di fermarsi agli aspetti più
esterni del pensiero di Weber e di Schmitt trascurandone il nodo problematico
di fondo, e dall’altra di intendere il ritorno del filosofico con l’occhio della
storia culturale o delle idee, come una semplice «posizione» a quelle contrapposta. Per quanto concerne Weber, guardando solamente al lato della produttività del sapere specialistico, non si coglie il problema relativo alle implicazioni di valore che la costituzione del sapere comporta e insieme non si tiene
conto del fatto che il dualismo di politeismo dei valori e oggettività della
scienza copre lo spazio di quel problema filosofico, che è in gran parte da
Weber posto tra parentesi, ma sul quale tuttavia ci si torna ad interrogare proprio in relazione alla sua costruzione teorica. Per quanto poi concerne il pensiero schmittiano si rischia di estrarre da esso un meccanismo logico semplice
e scientificamente sicuro, basato su un concetto assoluto di decisione, considerata come semplice e arbitraria produzione della volontà, su un concetto di
politico, inteso come mero rapporto di forza (amico-nemico) e infine sul concetto di teologia politica, interpretata come quella semplice secolarizzazione e
immanentizzazione di concetti teologici che costituirebbe la politica in una
sfera di assolutezza e di cristallina semplicità.
Nei capitoli precedenti si è tentato di giustificare una diversa interpretazione del pensiero schmittiano; è in ogni caso la stessa attenzione ad esso rivolta
da Voegelin, in un momento cruciale di formazione del suo pensiero, che giustifica un approccio diverso. Infatti se nella recensione della Verfassungsle32
Cfr. H.G. Gadamer, Die Idee des Gutes zwischen Plato und Aristoteles, Winten, Heidelberg, 1978, tr. it. in Studi platonici 2, Marietti, Casale Monferrato, 1984, pp. 151-230, in
part. 177 e 257. Una ricaduta del pensiero di Gadamer sul campo della filosofia pratica si
può anche vedere nell’attenzione ai limiti costitutivi di una ragione pratica e al condizionamento storico (che non ne annulla per altro la portata filosofica) da parte di R. Bubner, Azione, linguaggio, ragione, cit., sp. il cap. IV: «Possibilità della ragione pratica».
207
hre 33 noi possiamo trovare, anche se ancora in nuce, il motivo di fondo di differenziazione e di critica nei confronti di Schmitt, possiamo però anche riscontrare che proprio in questo movimento critico si formano alcuni nodi concettuali che saranno centrali per lo sviluppo del pensiero voegeliniano: si
pensi ad esempio al concetto di rappresentazione, che costituisce l’asse centrale della Nuova scienza politica e che appare impensabile senza la riflessione schmittiana. Questa si presenta allora non tanto come un obbiettivo critico
che Voegelin aggredisce dall’esterno di una sua costruzione dottrinaria, quanto piuttosto un luogo felice di radicalizzazione della sfera politica, in cui si apre, all’altezza del compimento del Moderno, il problema del politico nella
sua totalità e nella sua origine.
La pregnanza della posizione schmittiana emerge se si riflette sulla critica
fondamentale che Voegelin muove ad essa, a causa del suo permanere, nonostante l’eccezionale lavoro di chiarimento e illuminazione del mondo dei concetti politici nel loro sviluppo storico, all’interno del circolo di idee che sono
proprie del XIX secolo, e del suo restare fagocitata dalla realtà che costituisce
il suo principale oggetto, cioè la costituzione di Weimar. Schmitt si collocherebbe nello Stato come costruttore e scopritore di idee politiche, che si pongono in conflitto con altre direzioni ideali, cosicché in questo agire verrebbe a
perdere la collocazione propria dell’osservatore scientifico, trascendente nei
confronti del suo oggetto.34 La sua posizione di produttore di idee politiche e
il suo interesse per la realtà del tempo impedirebbero un procedimento oggettivamente scientifico. In realtà non è che in Schmitt manchi del tutto un procedimento scientifico o la posizione del problema della costruzione dello Stato, ma il suo lavoro rimarrebbe all’interno di una ambiguità fondamentale, in
modo tale che il punto di vista del produttore di idee politiche viene continuamente scambiato con quello dell’osservatore scientifico. La capacità
schmittiana di cogliere i problemi fondamentali di una teoria dello Stato viene
33
E. Voegelin, Die Verfassungslehre von Carl Schmitt. Versucheiner rekonstruktiven
Analyse ihrer staatstheoretischen Prinzipien, in «Zeitschrift für öffentlichen Recht», XI
(1931), n. 1, pp. 89-109 (si veda ora la tr. it. di G. Zanetti in G. Duso (a cura), Filosofia politica e pratica del pensiero cit.). Per quanto riguarda il senso epocale del rapporto di Voegelin
con Weber cfr. L. Franco, Voegelin e Weber: ambiguità e trasparenza, «Il Mulino», XXXV,
1986, n. 4. Lo spazio che nel testo è dedicato alla recensione può ovviamente sembrare eccessivo in rapporto alla ricostruzione dell’itinerario di Voegelin, ma è funzionale all’intento
di illuminare un rapporto critico che appare centrale e determinante sia per lo sviluppo del
suo pensiero che per il significato che esso riveste nei confronti della moderna scienza politica. Sul rapporto che Voegelin ha con il pensiero schmittiano nei suoi primi scritti rimando al
mio La crise de l’État comme forme juridique et la philosophie politique: Eric Voegelin et
Carl Schmitt, in Crise et pensée de la crise en droit. Weimar, sa république et ses juristes,
Textes rèunis par J.F. Kervégan, ENS Éditions, Lyon 2002, pp.217-231.
34
Cfr. E. Voegelin, Die Verfassungslehre, cit., p. 107.
208
oscurata dal fatto che la trattazione di questi avviene mediante il linguaggio
delle idee politiche e dunque un materiale legato strettamente alla realtà politica del tempo.
Ciò che appare in questa critica a Schmitt è l’esigenza di una riflessione
scientifica, le cui caratteristiche non sono ancora totalmente delineate: gli elementi positivi che emergono rischiano di portare fuori strada, soprattutto se
si intende il proposito di una corretta analisi scientifica come propria di un osservatore che trascende il suo oggetto, nel senso della possibilità di una costruzione scientifica astratta dalla realtà storica e fondata su una ragione in sé
autosufficiente. Non sarà certo questa la via battuta da Voegelin nella elaborazione di una nuova scienza politica; e dallo stesso testo in esame ciò può essere ben compreso. Non è cioè una scienza oggettiva e avalutativa a costituire
l’ideale di Voegelin. Infatti la critica a Schmitt di essere condizionato dalla
realtà della repubblica di Weimar è collegata all’altra critica, secondo cui egli
è ancora all’interno della scienza giuridica e dello Stato del XIX secolo. Se
infatti il suo processo di pensiero è ossessionato dall’idea dell’unità, l’unità
non è data nella realtà concreta, ma si dà solo nella sintesi della scienza dello
Stato.35 Perciò essere condizionati dalla realtà del tempo e trovarsi all’interno
di una teoria astratta, che impone l’unità ad una più complessa realtà, sono situazioni mostrate dalla critica voegeliniana compatibili, se non addirittura identiche.
Alla luce del modo in cui si chiarirà il problema della scienza negli anni
successivi si potrebbe riassumere la critica di Voegelin dicendo che Schmitt
rimane all’interno del cosmion di idee tipico della società del periodo di Weimar e che la stessa scienza dello Stato è ancora strettamente intrecciata al
mondo concettuale che la società produce per la sua esistenza, e non raggiunge perciò un carattere realmente «scientifico».36 Tale collocazione di Schmitt
risulterebbe però fuorviante e inadeguata alla comprensione della portata che
il suo pensiero ha per lo stesso Voegelin: infatti il lavoro eccezionale di chiarimento e illuminazione che Schmitt produce è possibile proprio grazie al
stacco che egli ha nei confronti dei concetti fondamentali ereditati dalla tradizione della teoria politica e al fatto che egli riesce a mostrare l’effettivo movimento della realtà politica al di là dei concetti che la società moderna ha
prodotto o che la scienza politica ha elaborato. In altri termini con Schmitt si
ha un lavoro di comprensione critica che porta alla radice il problema politico,
in quanto non si ferma ai concetti formali tipici della teoria moderna, in cui il
35
36
Ivi, p. 97.
Cfr. E. Voegelin, La nuova scienza politica, cit., pp. 83 ss.
209
politico coincide con il problema del potere e della forma-Stato, ma li interroga radicalmente.
Voegelin si mostra consapevole di tale portata e ravvisa nelle ricerche
schmittiane non solo la linea che pone in primo piano i concetti tipici della teoria dello Stato, quali unità, volontà, potere, rappresentante, ma anche quella
che, radicalizzando tale mondo concettuale, conduce ad elementi peculiari
quali quelli di esistenza e decisione, in cui appare con evidenza la volontà
come elemento fondamentale per la costruzione dello Stato.37 Il mondo concettuale della forma-Stato è interrogato nella direzione del problema della
produzione di questa forma e cioè della sua origine. Si assiste in tal modo non
tanto all’apertura di un’altra sfera di sapere accanto a quella giuridico-statuale
(si ricordino le affermazioni di Schmitt che ribadiscono il suo considerarsi
giurista), quanto alla sua problematizzazione, dal momento che essa non può
essere considerata autosufficiente se non mediante il rifiuto della riflessione
su di sé e sulla sua tensione costitutiva verso ambiti quali quello della metafisica e della teologia.38
Tale radicalizzazione di Schmitt opera uno scarto nei confronti della scienza dello Stato, non solo per l’implesso concettuale che mette in atto, ma anche
perché viene posta una domanda radicale alla stessa funzione legittimante e
fondante lo spazio del politico che è stata propria, nell’epoca moderna, della
lunga tradizione della scienza dello Stato. Da questo punto di vista il pensiero
schmittiano appare «differenziarsi» sia dalla scienza dello Stato che dal mondo concettuale prodotto dalla società nel periodo di Weimar. In quanto pone il
problema dell’origine, l’atteggiamento di Schmitt è genuinamente scientifico
nel senso voegeliniano, e cioè implica una radicalizzazione filosofica.
Ma a questo livello si ha il punto nodale della critica di Voegelin a Schmitt:
anche i nuovi concetti con cui si compie un processo di radicalizzazione resterebbero schiacciati dal peso dell’immagine dell’unità – quell’immagine che costituisce per la figura dello Stato un vero e proprio tipo ideale – e non riescono
a liberarsi dal condizionamento di uno spazio concettuale tipicamente giuridico.39 In altri termini Schmitt, pur aprendosi al problema dell’origine della
forma, resta condizionato dal pensiero della forma, che è al suo culmine problema dell’unità, e perciò dal pensiero dello Stato: nonostante il suo atto radicale, il suo rimanere all’interno dell’unità e della forma coincide con il rimanere ancorato alla scienza dello Stato e a quella teoria moderna nei confronti
della quale ha peraltro compiuto un atto di differenziazione: perciò si ha la
37
38
39
Cfr. E. Voegelin, Die Verfassungslehre, cit., p. 99.
Cfr. C. Schmitt, Teologia politica, cit., p. 69.
Cfr. E. Voegelin, Die Verfassungslehre, cit., p. 99.
210
centralità nel suo pensiero dell’elemento istituzionale per quanto riguarda lo
Stato così come la Chiesa. Schmitt appare, alla luce delle critiche voegeliniane, in bilico fra la capacità di comprensione e illuminazione dei concetti della
realtà politica moderna e della scienza dello Stato e la nostalgia per lo stesso
spazio teorico di questa scienza.
La direzione che Voegelin, proprio da questo punto epocale, cioè dalla soglia costituita dal pensiero schmittiano, intraprende, è quella dell’accettazione
fino in fondo di questa radicalizzazione schmittiana, che comporta la necessità
di porsi il problema dell’origine del politico e dell’ordine. In tale direzione
verrà progressivamente ad emergere quale procedimento rigoroso la «nuova
scienza», che è appunto pensare filosofico, consistente non in una elaborazione del problema politico nella sfera astratta ed esatta di una razionalità intesa
in senso astorico, ma al contrario in una riflessione sempre concretamente legata alla realtà politica, nella quale emerge il problema grazie al quale questa
si costituisce come «realtà politica»: quello del fondamento dell’ordine. Affrontare tale problema non comporterà il tentativo della costruzione di un ordine perfetto, finalmente vero, ma piuttosto il mantenimento, all’interno
dell’ordine esistente, di una tensione dovuta alla coscienza del suo non potersi
assolutizzare e dunque del suo non essere in sé fondato. La crisi dello Stato,
che emerge con Schmitt, coinvolge anche l’atto di assoluta fondazione che è
tipico della teoria moderna; ma tale critica non si risolve nella costruzione di
una nuova forma politica, proprio perché una dottrina compiuta e fondante
non appare più agli occhi di Voegelin con il carattere della teoria, ma piuttosto con quello arbitrario della doxa. La differenziazione nei confronti di
Schmitt, costitutiva per la formazione del pensiero voegeliniano, avviene, nella recensione alla Verfassungslehre, proprio a proposito del concetto di rappresentanza, che è individuato come centrale nell’opera schmittiana, e che si
troverà al cuore della stessa Nuova scienza politica.
3. La rappresentanza e il problema della verità
Segno dell’importanza che ha la riflessione sul pensiero schmittiano per
l’emergere in Voegelin di uno stile di riflessione filosofica sul politico è lo
stesso spazio centrale che è dedicato nella recensione alla Verfassungslehre al
concetto di Repräsentation, che è concetto chiave dell’opera schmittiana – pur
non occupando una porzione tale del testo da giustificare di per sé il rilievo
che gli è attribuito nella recensione – e nello stesso tempo costituirà un nodo
centrale della Nuova scienza politica. È proprio il concetto di rappresentazione che si mostra, nella riflessione schmittiana sul politico, al centro della for 211
ma in cui il politico si è consolidato nel moderno: da Hobbes alla moderna
democrazia non si dà Stato se non mediante il principio rappresentativo. Qui
si condensa sia il problema della direzione, del governo e della differenza tra
governati e governanti – e dunque della obbligazione politica –, sia, nello
stesso tempo, quello del rapporto tra rappresentante e rappresentati, della costituzione cioè, mediante la rappresentanza politica, dell’identità del popolo e
dell’espressione del suo stesso agire.40
Se è vero che quello di rappresentanza è concetto politico per eccellenza
nell’epoca moderna, è altrettanto vero che la riflessione su di esso – su cosa
sia «rappresentare» – fa emergere il nodo filosofico che è insito nel politico.
Ciò accade nella lettura di Voegelin, che coglie livelli progressivi di profondità nel processo logico di Schmitt. Elemento di fondo proprio di quella interrogazione radicale che Schmitt pone all’ambito del sapere giuridico, mediante la
sua trattazione della Verfassung tale da trascendere la descrizione puramente
giuridica di essa, è costituito, come già si è visto, dalla dimensione esistenziale. L’esistenza di una unità politica eccede ogni forma e ogni atto, anche se
non c’è forma né atto politico che siano possibili a prescindere da essa.
Tuttavia l’unità nel moderno è «costruita» dalla scienza ed impedisce il
coglimento dell’articolazione reale della società, creando nello stesso tempo
una differenza strutturale tra gli uomini, secondo la quale «solo chi governa
(regiert) partecipa alla rappresentanza». Perciò Voegelin preferisce, in rapporto alla totalità degli individui che formano l’esistenza politica, usare non tanto
il termine di «popolo», unificante ed azzerante ogni differenza, ma quello di
«persone», dalla cui pluralità lo Stato si costituisce come totalità. L’unità del
popolo rischia di perdere la pluralità concreta e l’articolazione che Voegelin
cerca di conservare affermando che «ogni azione politica e ogni persona politica rappresenta l’unità». Ma pur sottolineando tale critica voegeliniana, è pure da ricordare, anche in questo contesto, che lo stretto legame tra il concetto
di rappresentazione e quello di persona è, ancora una volta, uno degli evidenti guadagni concettuali di Schmitt che, già nel Römischer Katholizismus, indica come sia la dignità della persona ad essere necessariamente implicata dal
principio rappresentativo.41
Voegelin ripercorre anche la dimensione di obbligazione politica propria
della rappresentazione quale Schmitt la propone: ma qui gli muove
un’obiezione strettamente congiunta all’orientamento critico che sopra è stato
messo in luce. Schmitt cioè, benché abbia tematizzato l’elemento esistenziale,
nel momento in cui coglie nella rappresentazione l’obbligazione, non analizza
40
41
Cfr. il cap. IV del presente lavoro.
C. Schmitt, Römischer Katholizismus, cit., p. 29 (tr. it., p. 50).
212
il rapporto tra Herrscher e Diener nella sua esistenzialità, ma si ferma ancora
all’aspetto formale-istituzionale, cioè al rapporto tra governati e governanti: la
rappresentanza resta una rappresentanza istituzionale.42 Non è questo il luogo
per giudicare la validità dell’interpretazione di Voegelin e per chiedersi se essa non faccia torto al pensiero schmittiano quale si sviluppa prima e dopo la
Verfassungslehre, o se non sia ciò nonostante espressiva di un blocco effettivo
dell’analisi politica quale in Schmitt si presenta; ciò che appare importante è
innanzitutto notare che proprio la riflessione sul testo schmittiano porta in luce il problema della rappresentazione come problema della scienza politica.
Infatti l’indicazione schmittiana dei due princìpi di identità e rappresentazione non va tanto nella direzione di un loro necessario mescolamento, ma, dal
momento che non si dà identità di per se stessa, in un atto assoluto, ma solo
mediante la rappresentazione, con quest’ultimo concetto si attinge il modo
stesso in cui si presenta il problema politico.43 Inoltre è significativo che sia
proprio la radicalizzazione di tale concetto a comportare necessariamente una
riflessione di tipo filosofico che rimuova i blocchi dell’analisi tipici di un procedimento scientifico della teoria politica moderna, o di un sapere speciale
weberianamente inteso.
La necessità della riflessione filosofica emerge in un successivo livello che
Voegelin ritrova nel testo schmittiano, quello secondo cui la rappresentazione
comporta la struttura del «render presente ciò che è assente». Questo livello è
collegato, come gli altri, ad una stratificazione del significato del concetto di
popolo, che in tal modo si trova presupposto alla forma rappresentativa, la
quale non può allora essere letta soltanto nella direzione che va dall’alto verso
il basso, in quella del comando, che implica il carisma del rappresentante. A
questo livello Schmitt porta, mediante la sua stupenda conoscenza della materia («stupende Stoffkenntnis»), a quel problema fondamentale dell’implicazione
di rappresentanza e verità, a cui non è pensabile che Voegelin sia arrivato senza la riflessione schmittiana. Ma, ancora una volta, Schmitt è però accusato di
mancare dell’apparato concettuale per pensarlo fino in fondo.44
Pensare fino in fondo questo problema significa pensare l’elemento della
trascendenza che in esso traspare. Non è su questo punto della trascendenza
che i due pensatori si dividono, in quanto Schmitt risolverebbe nell’immanenza
la tematica rappresentativa, mentre Voegelin vi scoprirebbe il rapporto al fondamento e dunque un movimento tipico dell’emergere della trascendenza. Basti pensare al modo in cui è trattata la rappresentazione nel Römischer Katho42
43
44
Cfr. E. Voegelin, Die Verfassungslehre, cit., p. 102.
Ivi, p. 101.
Ivi, p. 102.
213
lizismus, non solo, ma alla stessa figura della presenza dell’assenza che è al
centro della Verfassungslehre. D’altra parte è proprio qui che si ha lo scarto
da parte del pensiero voegeliniano: assumendo fino in fondo il problema della
trascendenza non si può che riaprire il problema della forma mostrando
l’inconsistenza della sua pretesa fondatezza. L’esito di questa critica non è
quello del superamento dell’ordine proprio della concreta società mediante la
fondazione di un nuovo ordine fondato sulla verità, cioè di una nuova forma
politica. È la pretesa di fondazione della teoria che qui viene meno, mentre il
pensiero filosofico instaura un rapporto di tensione e di apertura nei confronti
dell’ordine esistente e dunque della forma politica che storicamente si dà.
Questa è la direzione che sarà battuta, a mio avviso, da Voegelin in Anamnesis e nella Nuova scienza politica. Per il chiarimento del rapporto filosofiapratica, che è il tema che si impone alla riflessione, è qui utile cercare di chiarire il movimento di pensiero in cui il problema dell’ordine è legato a quello
della trascendenza. Così si potrà da una parte intendere cosa sia filosofia e
«nuova scienza», al di là delle interpretazioni che vi ravvisano un tentativo o
restaurativo o fondativo di nuovo ordine, e dall’altra, proprio per questo, evidenziare, non solo il valore speculativo del pensiero di Voegelin, ma insieme
il senso emblematico ed epocale che riveste, nel momento in cui non si contrappone semplicemente al cammino della scienza politica moderna, proponendo un diverso metodo scientifico, ma pensa in modo radicale la crisi della
scienza moderna, facendo emergere le ragioni di fondo del silenzio a cui essa
è giunta sia per quanto riguarda la legittimazione dell’ordine della società presente, che la proposta di nuove e più valide forme di ordine.
È lo stesso carattere di teoria, nel senso di sapere critico e rigoroso, che la
moderna scienza politica sembra perdere non appena Voegelin distingue il
mondo concettuale che è proprio della vita di una società e che costituisce la
sua autoilluminazione, e l’insieme di simboli che sono propri del lavoro critico della scienza. Spesso tali diversi livelli di simboli sono vicini tra loro e si
mescolano, così che molti concetti della scienza politica in realtà non hanno
valore di conoscenza critica, ma sono condizionati dalla realtà sociale e dalle
sue esigenze: essi non hanno il carattere di teoria, ma semplicemente quello
della doxa.45 Quanto la scienza politica moderna sia coinvolta da questa critica lo si comprende dagli esempi indicati: basti pensare al ruolo della cosiddetta «teoria contrattualista» e della «teoria della sovranità» per la elaborazione
della moderna forma-Stato.
45
Cfr. E. Voegelin, La nuova scienza politica, cit., pp. 85-86. Per non ingenerare confusione è utile precisare che – a differenza di questo caso – quando uso il termine di «teoria»
non riferendomi direttamente al testo di Voegelin intendo indicare i caratteri della teoria moderna, cioè di quella che non è per Voegelin teoria, nel senso della filosofia, ma soltanto doxa.
214
Tale incapacità critica dei concetti della scienza moderna e contemporanea
si rivela a proposito del tema cardine della rappresentanza politica: infatti assai spesso a questo proposito i concetti che essa elabora si avvicinano a quelli
prodotti dalle diverse realtà sociali e si trovano spesso in aporetica contrapposizione tra di loro (così sono ad esempio considerate rappresentative le istituzioni democratiche e quelle dell’Unione Sovietica). Dalla aporia a cui questi
concetti prodotti dalle realtà sociali e dalla stessa «scienza politica contemporanea» danno luogo, il procedimento voegeliniano muove al fine del coglimento della essenzialità della rappresentanza per il darsi stesso di una realtà
politica in quanto tale. È il senso esistenziale che la rappresentanza viene ad assumere a permettere a Voegelin tale guadagno teorico e la comprensione della
maggior radicalità che questo concetto ha nei confronti della sua semplice accezione formale, secondo cui la rappresentanza è tutta calata nell’elemento istituzionale.
È questo il cammino che non percorre la Arendt, la quale se da una parte,
come si è detto, con acutezza coglie le aporie della rappresentanza, legate alla
pretesa di fondazione tipica della moderna teoria politica, dall’altra non riesce
a vedere come il problema della rappresentazione, qualora inteso nella sua
portata esistenziale, vada al di là della rappresentanza istituzionale e sia sotteso a quegli stessi esempi di felice azione politica, a cui essa ricorre, quali
l’esperienza consiliare o i momenti più «spontanei» e meno formali e teoricamente fondativi dei processi rivoluzionari.46 In essi si ha infatti pur sempre
una messa in forma unitaria di un molteplice, un movimento di riconoscimento in un’immagine, una tensione verso un’idea che trascende la presenza empirica, elementi tutti costitutivi della rappresentazione. Anche in questo caso
vi è un dato interpretativo particolarmente significativo, e cioè l’interpretazione di Platone, in contrapposizione alla pratica del pensiero come agire nella
polis propria di Socrate,47 in una chiave di costituzione della vera polis, in
46
Ci sono spiragli che permettono di avere consapevolezza di ciò attraverso la riflessione della stessa Arendt. Si pensi all’imbarazzo con cui ella ravvisa un elemento «elitario»
nell’esperienza consiliare e allo sforzo con cui cerca di mostrare che si tratta di una élite naturale, spontanea, scaturita da un lavoro comune e basata su una fiducia tra uguali (H. Arendt, Sulla rivoluzione, cit., sp. p. 322), appunto, si può dire, di una forma di rappresentanza
e riconoscimento di essa di tipo esistenziale e non formale-istituzionale, oppure si pensi anche alla sua comprensione del fatto che nei momenti rivoluzionari non c’è solo diversità delle opinioni, ma un loro riconoscersi in unità, farsi massa, confluendo in una azione comune.
47
Cfr. H. Arendt, Between Past and Future: Six Exercises in Political Thought, The Viking Press, New York, 1970, tr. it., Tra passato e futuro, Vallecchi, Firenze, 1970, sp. il saggio Che cos’è l’autorità, pp. 101-155. Cfr. sulla Arendt i saggi di R. Esposito, Politica e tradizione. Ad Hannah Arendt, «Il Centauro», 1985, n. 13-14, pp. 97-136 e H. Arendt tra
«volontà» e «rappresentazione»: per una critica al decisionismo, «Il Mulino », XXXV, 1986, n.
303, pp. 95-121 e, a cura dello stesso autore, La pluralità irrapresentabile, Quattro Venti, Napoli
215
modo tale che la trascendenza emerge come fondazione del rapporto
comando-ubbidienza. Così la fondazione non fa in realtà altro, che immanentizzare e secolarizzare la trascendenza e dunque la perde; e perciò il filosofo
di Platone è considerato al modo dell’esperto, rischiando di confondere filosofia e techne.
In Voegelin invece la rappresentanza da una parte appare essenzialmente
legata al politico, dall’altra mostra, mediante il suo rapporto con la verità, di
implicare il problema filosofico, quale si dà fin dalle origini. L’identificazione
della centralità del rapporto rappresentanza-verità vuole essere non il frutto di
una costruzione intellettualistica, ma piuttosto il precipitato della comprensione che una tale relazione si trova «operante nella storia delle maggiori società
politiche fin dal momento in cui superano il livello tribale».48
Se è vero che il rapporto con il problema della verità è costitutivo per il
darsi, mediante la rappresentanza, di ogni esperienza politica, è anche vero
che i diversi ordini della società che si sono dati nella storia hanno spesso tradito tale rapporto, in quanto, attraverso la pretesa di fondare in modo trascendente e assoluto il proprio ordine, hanno reso la verità immanente perdendo la
tensione nei suoi confronti.49 Ciò vale per gli imperi cosmogonici così come
per le diverse forme gnostiche caratteristiche del moderno.
È con la grande epoca della filosofia greca che il problema della verità è emerso nella coscienza in modo pregnante, imponendo un atto di differenziazione nei confronti del darsi della società politica e della verità che essa incarna.
4. Platone, Aristotele e la «pratica» della filosofia
L’interpretazione del pensiero greco da parte di Voegelin è spesso considerata come approssimativa e poco soddisfacente, in relazione soprattutto al recupero che può apparire più filologicamente attento ad Aristotele e alla strut1987; per una interpretazione tesa a sottolineare l’elemento del pensiero come sospensione e scarto nei confronti dell’agire, si veda il saggio di G. Rametta, Comunicazione, giudizio ed esperienza
del pensiero in Hannah Arendt, in G. Duso, Filosofia politica e pratica del pensiero, cit., pp. 235290.
48
E. Voegelin, La nuova scienza politica, cit., p. 115.
49
A ciò è attento S. Chignola, Ordine e ordinamento della storia, «Il Mulino», XXXV,
1986, n. 307, pp. 749-774 (dello stesso si veda ora la monografia, Pratica del limite. Saggio
sulla filosofia politica di Eric Voegelin, UNIPRESS, Padova 1998); cfr. anche F. Zanetti, E.
Voegelin: alla ricerca dell’ordine perduto, «Il Mulino», XXXIII, 1984, n. 283, sp. pp. 378
ss. (dello stesso si veda la monografia, La trascendenza e l’ordine. Saggio su Eric Voegelin,
CLEB, Bologna, 1989). Sul nesso rappresentanza-ordine importanti indicazioni dà F. Mercadante, Ordine e storia della rappresentanza, in La democrazia plebiscitaria, Giuffrè, Milano,
1974, pp. 209-248.
216
tura specifica del sapere pratico da parte di alcune posizioni che si possono
inserire nel fenomeno della Rehabilitierung. In realtà tale interpretazione non
è tanto approssimativa, quanto piuttosto probabilmente diversa nella sua direzione di fondo. Essa proietta luce sul significato che viene ad avere in Voegelin la filosofia politica, e tout-court la filosofia, e demarca la differenza che si
ha fra questa prima ripresa di filosofia politica e il più recente tentativo di rifondazione della filosofia pratica.
Con Platone e Aristotele emerge il problema della verità mediante
l’interiorizzazione, la discesa nella profondità dell’anima. Tale discesa non
tende alla costruzione di un sistema, di una dottrina, e, politicamente, di una
forma ad altra contrapposta, ma vuole indicare un cammino necessario in cui
si manifesta la struttura e la verità dell’anima. Così la teoria in senso proprio
assume il suo significato: in essa ciò che emerge è non una costruzione concettuale, ma l’ordine stesso dell’anima, che d’ora in poi svolgerà un gioco di
dialettica tensione nei confronti della verità rappresentata dalla società.
La verità, che così si apre, non costituisce un oggetto fissabile in concetti
come risultato stabile del logos, ma consiste nell’apertura dell’anima nei confronti della realtà transcendente, apertura di cui si può solo fare esperienza:
«Si tratta di una scoperta che produce il suo materiale empirico insieme con la
sua esplicazione: dell’apertura dell’anima si fa esperienza mediante lo stesso
aprirsi dell’anima».50 La verità dell’anima emerge solo nell’esperienza che di
essa si ha, e dunque nel cammino, nella pratica filosofica. Essa non si consolida mai in verità posseduta, così come il fondamento di essa non è oggetto,
perché in tal caso si perderebbe esattamente la struttura dell’apertura e la verità sarebbe prodotto dell’anima, che si potrebbe chiudere nella sua assolutezza
nel significato derivato da ab-solutus). La verità dell’anima coincide con il
problema della verità, in quanto la sua struttura è aperta nei confronti di un
fondamento e consiste nella tensione verso di esso. Platone e Aristotele si incontrano in questo cammino e la struttura del metaxy, che caratterizza l’uomo
nella riflessione platonica, ha la stessa direzione della indicazione aristotelica
secondo cui l’essenza della natura dell’uomo coincide con «l’aprirsi del suo
essere nell’interrogare e sapere che riguarda l’origine dell’essere».51 Verità
dell’uomo e verità di Dio sono così legate in un’unità inseparabile,52 e ciò non
nel senso dell’assolutizzazione della verità umana, ma piuttosto in quello della
implicazione della trascendenza come costitutiva dell’essenza dell’anima, e
50
E. Voegelin, La nuova scienza politica, p. 129.
E. Voegelin, Anamnesis. Zur Theorie der Geschichte und Politik, Piper Verlag, München, 1966, tr. it. (parziale) Anamnesis. Teorie della storia e della politica, Giuffrè, Milano,
1972, p. 231 e 111.
52
Cfr. E. Voegelin, La nuova scienza politica, cit., p. 131.
51
217
d’altro canto come impossibile elemento in suo possesso: da ciò l’apertura
dell’anima e la tensione che la caratterizza.
La struttura fondamentale dell’anima emerge per Voegelin in quel processo rigoroso del pensiero che è tipico di questa felice età della Grecia, cioè
nell’interrogarsi sull’arché, che non mira tanto ad una figurazione compiuta di
essa – tendente inesorabilmente o a identificarla nel semplice cominciamento
o a cristallizzarla in un principio –, ma che svela piuttosto la stessa essenza
del nous, come «punto di coincidenza del fondamento dell’ordine umano con
il fondamento dell’essere».53 Il processo rigoroso che è proprio del nous interiorizza, nel senso del cammino dell’anima (che ha un significato logico ben
preciso), l’esperienza demiurgica del divino che è propria del mito. Ma se con
il mito resta nella filosofia un contatto di fondo, consistente nel rapporto con
il tema del divino, dove non si trova più contatto è tra l’epistéme messa in atto
da Platone e Aristotele e la moderna scienza con la sua pretesa di rigore.
La demarcazione della scienza noeticamente intesa nei confronti della moderna scienza viene innanzitutto alla luce se si tiene presente l’assunto principale di Voegelin di connotare la vera scienza politica. Infatti se con Platone e
Aristotele compare l’ordine dell’anima, questo non sostituisce o cancella
l’ordine della società. D’ora in poi il problema politico sarà quello espresso
dalla tensione tra l’ordine reale della società e l’ordine della coscienza. Ma la
costitutività di tale tensione mostra l’impossibilità di partire dall’ordine della
coscienza per la costruzione di un ordine della società finalmente vero e perfetto.54 Infatti una tale costruzione sarebbe possibile solo mediante una immanentizzazione del fondamento emerso nella coscienza, e questa è la tendenza
della gnosi moderna piuttosto che quella di una scienza politica in senso voegeliniano, la cui essenza consiste in una interpretazione noetica di una realtà
esistente, al di là della quale non può essere formulata.55
Ben si comprende ora il senso della posizione trascendente da parte
dell’osservatore scientifico nei confronti del suo oggetto che era auspicata nella recensione alla Verfassungslehre. Tale trascendenza non va certo intesa nella direzione di uno spazio autonomo in cui si costituisce il sapere, dal momento che questo si dà solo in rapporto alla realtà concreta, quanto piuttosto nel
senso secondo cui nell’esperienza noetica si dà la differenziazione dello scien53
E. Voegelin, Anamnesis, cit., p. 109. Aristotele per nous «intende sia la capacità umana di porsi coscientemente il problema del fondamento, sia lo stesso fondamento dell’essere
che è concepito come il motore dell’interrogare che formula la direzione» (Ivi, p. 203).
54
Su questo elemento «non fondativo» di Voegelin si sofferma A. Biral, Voegelin e la
restaurazione della scienza politica, «Il Mulino», XXXV, 1986, pp. 735-748 (anche in A.
Biral, Storia e critica della filosofia politica moderna, cit., pp. 259-271).
55
Cfr. E. Voegelin, Anamnesis, cit., p. 199.
218
ziato-filosofo nei confronti dell’apparato concettuale che è prodotto dalla stessa società per il suo funzionamento. Solo in questa differenziazione – e in
questo senso trascendimento –, che coincide con la filosofia, si ha autenticamente teoria.
Il sapere della sfera pratica è strutturalmente aperto per una duplice ragione: in quanto ha a che fare con la realtà del tempo e in quanto è costituito mediante la tensione verso il fondamento; perciò non è possibile che si risolva in
un sistema dottrinale in sé formalmente compiuto. Scienza qui ha dunque un
significato diverso e opposto a quello secondo cui essa tende a configurarsi
come «corpus di proposizioni e princìpi dal punto di vista del metodo e della
materia».56 L’apertura di cui si tratta non è tipica di un cosiddetto «sapere pratico» contrapposto a quello «teoretico», ma è propria della stessa struttura del
sapere teoretico, cioè della filosofia, quale si precisa in Platone e Aristotele,
ed è legata al fatto che la tensione non può essere oggetto di affermazioni, ma
è un processo di coscienza:57 appunto emerge nella forma dell’esperienza che
l’anima ne fa. In tale esperienza si formulano concetti che non possono essere
cristallizzati ed intesi di per sé come riproduzioni esatte di realtà oggettive,
ma sono immagini, simboli, che indicano l’esperienza della coscienza. Niente
è più lontano, secondo Voegelin dalla noesis dei Greci che l’atteggiamento di
distacco con cui si opera sui simboli nei confronti della esperienza per la cui
esegesi sono stati creati, venendo a costituire la «dottrina», sia nella forma di
quella «manipolazione dei simboli noetici che chiamiamo metafisica», sia in
quella delle «eterne verità» della filosofia, che in quella della philosophia perennis del XVII secolo, che in quella infine tipica di tutti gli «ismi».58
Se la più recente ripresa della filosofia pratica intende tener fermo il rimando alla concreta realtà politica, dal momento che il rapporto con la realtà
della polis caratterizza quel pensiero dei Greci che viene recuperato come
punto di orientamento,59 si discosta tuttavia in modo radicale da Voegelin nel
tentativo che caratterizza un suo filone tipico, quello cioè di separare un «sapere pratico», provvisto di un preciso metodo, da quello teoretico coincidente
tout-court con il sapere filosofico. Emerge così una differenza tra il tentativo
di fondare un sapere orientativo della pratica, che si attua proprio mediante
una sua dislocazione nei confronti dell’atto noetico, e la coscienza
56
Ivi, p. 200.
Ivi, p. 210.
58
Ivi, p. 220.
59
Si veda ad es. l’insistenza di Ritter su questo tema e la consapevolezza che il «politico», in Platone e Aristotele, riguarda il concetto della polis (J. Ritter, Metafisica e politica,
cit., p. 63).
57
219
dell’implicazione del nous nella sfera pratica, che si può rintracciare nel pensiero di Voegelin.
Legato strettamente a tale differenza è il modo assai diverso con cui ci si riferisce alla filosofia di Platone e Aristotele. In Voegelin infatti noi assistiamo ad
una interpretazione che coglie l’unità sostanziale dell’atteggiamento di fondo
dei due filosofi, al punto che, non solo la filosofia di Platone viene intesa come
cammino dell’anima, secondo lo squarcio di luce che proviene dalla Lettera VII,
ma anche i concetti della metafisica aristotelica, con atto che può scandalizzare
le scuole dedite alla interpretazione di Aristotele, vengono intesi come simboli,
e dunque ancora come immagini dell’esperienza dell’anima, e non come contenuti sistematizzabili in un sapere oggettivo, in cui i termini di sapere e oggetto
rischiano di essere intesi in chiave moderna.60 Tale linea interpretativa, che porta Voegelin a parlare di «filosofia platonico-aristotelica»,61 è strettamente congiunta al modo in cui, come si è mostrato, la scienza politica è vista implicare
l’atto noetico.
A questo punto non si può non porre il problema costituito, all’interno
dell’interpretazione di Voegelin, dal significato che ha nella Repubblica il tentativo di costruzione della «eccellente polis». Infatti, se questa fosse intesa nel
senso della fondazione dell’ordine politico a partire dalla verità trascendente
dell’idea, riemergerebbe come appropriata l’opinione della Arendt, che ravvisa nel tentativo di Platone una chiusura nei confronti della sfera pratica, non
solo, ma verrebbe anche a cadere l’interpretazione complessiva che si ritrova
in Voegelin di ciò che è essenziale nella filosofia platonica e aristotelica.
Certo, secondo Voegelin, il tentativo di dar luogo alla «eccellente polis»
porta ad un’impasse ontologica, in quanto sembra risolvere in direzione affermativa il problema se l’ordine della psiche possa interamente penetrare
l’ordine della polis e dunque se l’ordine della psiche possa conseguentemente
essere totalmente assorbito nell’ordine della polis. Nella Nuova scienza politica Voegelin tende ad attribuire a Platone questo errore, di voler costruire una
polis che incarni perfettamente la verità dell’anima, errore poi corretto nelle
Leggi. Ma l’interpretazione globale della Repubblica non va in realtà in questa
direzione, e ciò non solo per gli spiragli – quali ad esempio la famosa immagine del muricciolo dietro a cui ripararsi dalla bufera dell’iniquità affermatasi
nella società –, che indicano come la giustizia dell’anima sia più importante
della partecipazione all’attività politica,62 ma per la stessa direzione fondamentale che Platone mostrerebbe nel Dialogo. Essa consiste nel recuperare
60
Cfr. E. Voegelin, Anamnesis, cit. pp. 214 ss.
Cfr. ad es. ivi, p. 205.
62
Cfr. E. Voegelin, Plato, Louisiana State University Press, Baston Rouge, 1966, tr. it.
Ordine e storia. La filosofia politica di Platone, cit., p. 149.
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l’ordine dell’anima attraverso la resistenza all’ordine della società: è qui che
si realizza la differenziazione costitutiva della teoria e proprio per questo Platone può essere considerato come il «fondatore della scienza politica».63
Scientificità dunque c’è proprio in quanto non c’è costruzione razionale
della città ideale: in questo caso si avrebbe solo una posizione tra le altre e lo
«Stato ideale» sarebbe, secondo il pensiero dello stesso Platone, niente altro
che costruzione doxastica, e Platone sarebbe non filosofo, ma filodosso. Ma la
Repubblica non propone una sistematica costruzione, di per sé valida in quanto razionale, della polis perfetta: l’interpretazione deve guardarsi dall’astrarre
da essa una dottrina dell’ordine, ma deve invece fissare i livelli di chiarificazione ed esplorare i simboli sviluppati.64 Se con la dikaiosyne si pone il problema stesso dell’origine dell’ordine, e dunque il problema del bene, è proprio
la trascendenza di questo ad impedire-che ci possa essere adeguata affermazione sul suo contenuto: la sua trascendenza è anche trascendenza su ogni affermazione, cosicché la prospettiva fondamentale dell’etica platonica comporta che «sul contenuto dell’Agathon non si può dire assolutamente nulla».65 Ma
allora la visione dell’Agathon non permette di fondare in modo trascendente
la polis, né fornisce alcuna regola di condotta materiale e specifica, ma piuttosto «dà forma all’anima attraverso l’esperienza del trascendente».66
Tratto fondamentale del pensiero platonico, per quanto riguarda il problema politico, consiste dunque nel porre la questione dell’origine dell’ordine
e nel far emergere la struttura dell’ordine dell’anima come necessaria implicazione del Bene, che non può peraltro – e ciò è proprio della trascendenza – costituire un polo della costruzione, perché in tal modo diverrebbe necessariamente immanentizzato al processo complessivo. L’etica e la politica vengono
pensate radicalmente proprio in quanto emerge il problema filosofico
dell’origine, ma questo si dà nella storica consapevolezza critica dell’ordine
del tempo, e non può astrattamente né togliere quell’ordine, né, a partire dal
possesso di una verità trascendente, fondarne uno garantito e rigorosamente
giustificato. La strutturalità della tensione al fondamento coincide con
l’impossibilità di fondare una polis perfetta, una forma politica «vera».
In questa direzione il pensiero classico di Platone e Aristotele non è allora
riproposto né per l’oggettività dei suoi contenuti – perché non c’è più la polis
in relazione alla quale esso si è potuto formulare –, né per la sicurezza che può
fornire l’elemento metodico da esso avanzato. Diviene piuttosto l’indicazione
di un modo di porsi di fronte al problema politico che appare originario e che
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Ivi, p. 125.
Ivi, p. 143.
Ivi, p. 173.
Ibid.
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permette di superare la crisi della scienza politica, non tanto riproponendo
nuovi o vecchi valori, quanto pensando fino in fondo la radice di quella crisi.
Se un pensare di questo tipo ha il suo rigore, esso è tuttavia possibile come
atto in rapporto a concrete situazioni d’ordine sociale. Ciò che non può più
essere riproposto a partire da questa consapevolezza appare invece la pretesa
di legittimazione e fondazione della forma che è caratteristica della moderna
scienza politica. Alla tentazione del passaggio dal pensiero rigoroso del problema a scelte che sono considerate più garantite e fondate ha ceduto anche
quel Voegelin che vede – forse, tra l’altro, con poca preveggenza – nella potenza delle democrazie inglese e americana un elemento di speranza dal momento che nelle loro istituzioni sarebbe maggiormente rappresentata la verità
dell’anima; indicazioni di questo tipo appaiono non solo deboli, ma anche
contraddittorie con quanto del suo itinerario filosofico è opportuno e necessario pensare.67
Certo tale indicazione non costituisce una semplice aporia spuria all’interno
di un processo rigoroso che la escluderebbe, ma è forse connaturata al modo di
porsi di Voegelin di fronte al politico, e proprio ciò apre la possibilità di una rivisitazione critica del suo pensiero. Ma l’intento di questa riflessione era piuttosto quello di rintracciare il problema che il gesto di Voegelin nei confronti del
pensiero politico moderno pone, di intenderne l’emblematicità e la rilevanza.
67
Cfr. E. Voegelin, La nuova scienza politica, cit. p. 271.
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